Tesi Elisa Gentile - units.it · 2019. 3. 2. · 4 INTRODUZIONE& & & L’art.1delr.d.16marzo&1942n...
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INDICE
pag.
INTRODUZIONE 4
CAPITOLO I
LA SUCCESSIONE
DELLE LEGGI PENALI NEL TEMPO
1. La successione delle leggi penali e i principi costituzionali 7
1.1 L’ambito di applicazione dell’art. 2 c.p. 12
2. Il principio di retroattività della legge più favorevole 16
2.1 Il principio di retroattività della legge più favorevole alla luce
del diritto internazionale e comunitario 22
2.2 La legge intermedia 24
2.3 Il tempo del commesso reato 26
3. Abolitio criminis 29
3.1 Abolitio criminis totale 30
3.2 Abolitio criminis parziale 32
3.3 Abolitio criminis e cause di giustificazione 34
3.4 Abolizione o modificazione del reato? 36
3.5 La depenalizzazione 47
4. Le novità introdotte dalla legge n. 85 del 2006 52
5. Le leggi eccezionali e temporanee 54
6. Il decreto legge non convertito o convertito con emendamenti 57
7. La dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma
incriminatrice 60
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CAPITOLO II
LA SUCCESSIONE
DI NORME INTEGRATRICI
1. Premessa 65
2. Integrazione reale o apparente 67
2.1 Integrazione normativa 67
2.2 Esempi di integrazione della legge penale 69
2.2.1 Gli elementi normativi della fattispecie 69
2.2.2 Le norme penali in bianco 74
2.2.3 Le definizioni legali o norme definitorie 77
3. La successione di norme integratrici 80
3.1 La successione di norme integratrici e abolitio criminis 82
3.2 La successione di norme realmente integratrici 83
3.2.1 Abolitio criminis e le norme penali in bianco 83
3.2.2 Abolitio criminis e le norme definitorie 86
3.3 La successione di norme apparentemente integratrici 88
3.3.1 Abolitio criminis e gli elementi normativi 88
4. La soluzione nella giurisprudenza 92
CAPITOLO III
LA NOZIONE DI “PICCOLO IMPRENDITORE”
1. Cenni introduttivi 103
2. L’originario art. 1 L.fall. 109
3. La nuova formulazione introdotta dal D.Lvo 9 gennaio 2006 n. 5 112
4. Il decreto correttivo del 2007 119
5. I problemi di diritto intertemporale e gli orientamenti della
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giurisprudenza 125
6. La sentenza delle Sezioni Unite Niccoli 130
7. La giurisprudenza successiva 133
CAPITOLO IV
CRITICHE ALLA SENTENZA
DELLE SEZIONI UNITE NICCOLI
1. I punti critici della sentenza Niccoli 136
2. Le interferenze tra il giudizio fallimentare ed il giudizio penale 138
2.1 La sentenza dichiarativa di fallimento 138
2.2 L’efficacia nel procedimento penale della sentenza dichiarativa di
fallimento 143
2.3 Il potere del giudice penale 148
3. La questione irrisolta: la successione “mediata” 156
3.1 Bancarotta individuale ed il soggetto attivo del reato 158
4. Gli strumenti di difesa per l’imprenditore 160
CONCLUSIONI 164
BIBLIOGRAFIA 171
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INTRODUZIONE
L’art. 1 del r.d. 16 marzo 1942 n. 267, c.d. legge fallimentare, disciplina i
presupposti soggettivi necessari per l’applicazione della disciplina del
fallimento e del concordato preventivo.
La disposizione ha subito delle rilevanti modifiche con le riforme degli
anni 2005-‐‑2007.
In particolare, mediante il D.Lvo 9 gennaio 2006 n. 5, con cui si è data
attuazione alla legge delega del 14 maggio 2005 n. 80 (a sua volta di conversione
del D.L. n. 35/2005), il legislatore ha cercato di realizzare una riforma organica
della disciplina delle procedure concorsuali contenuta nella legge fallimentare.
Tale riforma intendeva garantire una gestione rapida ed efficiente della
crisi d’impresa, incentivando l’emersione precoce della crisi stessa ed offrendo
procedure alternative per la risoluzione preventiva e stragiudiziale.
Per quanto ci interessa, il citato D.Lvo aveva provveduto a rivisitare i
requisiti soggettivi di fallibilità con una formulazione che, tuttavia, aveva
comportato una drastica riduzione delle procedure aperte, forse al di là delle
previsioni del legislatore stesso.
In realtà tutta la disciplina introdotta dalla normativa de qua, già nei
primi mesi di applicazione, fu fortemente criticata soprattutto per la sua
esposizione a profili di incompatibilità con il dettato costituzionale che ebbe
come conseguenza la necessità di un decreto correttivo (il D.Lvo 12 settembre
2007 n. 169) che intervenne nuovamente sull’art. 1 L.fall.
Viene così riscritta la disposizione in parola, abolendo ogni riferimento
alla nozione di “piccolo imprenditore”, fissando determinati parametri
dimensionali per l’esclusione del fallimento e prevedendo espressamente che
l’onere della prova della mancanza dei requisiti di fallibilità gravi sul fallendo.
5
Tale novazione legislativa ha comportato problemi di diritto
intertemporale in relazione alle fattispecie penali di bancarotta individuale
disciplinate dagli artt. 216 e 217 L.fall.
Nello specifico, ci si chiedeva se si fosse determinato un fenomeno di
successione di norme integratrici con la conseguente abolitio criminis parziale ai
sensi dell’art. 2 comma 2 c.p., in relazione ai reati di bancarotta accertati in
seguito all’entrata in vigore del D.Lvo n. 5/2006.
La questione si poneva con riguardo a quei casi in cui, dopo la riforma, il
soggetto attivo del reato avrebbe rivestito la qualità di piccolo imprenditore.
Sul punto, a seguito di un’ordinanza di rimessione per la sussistenza di
un contrasto giurisprudenziale in seno alla V Sezione, sono intervenute le
Sezioni Unite con una pronuncia a dir poco discutibile1.
Tale sentenza, lungi dall’aver risolto definitivamente la questione posta
all’attenzione del Supremo Collegio, offre lo spunto per una serie di rilievi
critici.
Due sono i punti che verranno trattati nell’elaborato: la successione delle
norme integratrici (c.d. successione mediata) come conseguenza della modifica
dei requisiti soggettivi di cui all’art. 1 L.fall. e le interferenze tra il giudizio
fallimentare ed il giudizio penale.
Quindi, partendo da una prima parte in cui verrà ampiamente trattato il
tema della successione delle leggi penali nel tempo, ci si soffermerà
specificamente sulla successione delle disposizioni integratrici, giungendo poi
al cuore della trattazione, ossia alla modifica della nozione di “piccolo
imprenditore” analizzando la sentenza delle Sezioni Unite n. 19601 del 2008.
Nel capitolo conclusivo, si criticherà l’interpretazione fornita dagli
Ermellini con la quale sembra essersi riacceso il dibattito sulla vincolatività
1 Cass. pen., sez. un., 28 febbraio 2008, Niccoli, in Guida al dir., 2008, 26, p. 88.
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dell’accertamento della qualità di imprenditore compiuta dal giudice
fallimentare agli effetti della legge penale.
Tema tutt’altro che superato nella prassi in cui un problema di riparto di
ruoli e competenze tra la giurisdizione penale e quella fallimentare rischia di
amplificare le possibili disarmonie di disciplina e, dunque, di esiti applicativi.
La soluzione adottata dalle Sezioni Unite comporta il rischio che si
verifichino soluzioni divergenti, da un lato, in ordine alla fallibilità e, dall’altro,
in ordine al possesso della qualifica di imprenditore e, perciò, della reità.
Per tale ragione la ricerca si prefigge di trovare quali siano gli strumenti
di difesa a disposizione di un soggetto chiamato a rispondere dei reati di
bancarotta propria (fraudolenta o semplice) poiché dichiarato fallito dal giudice
civile in quanto “imprenditore”.
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CAPITOLO I
LA SUCCESSIONE
DELLE LEGGI PENALI NEL TEMPO
SOMMARIO: 1. La successione delle leggi penali e i principi costituzionali – 1.1 L’ambito di applicazione dell’art. 2 c.p. – 2. Il principio di retroattività della legge più favorevole – 2.1 Il principio di retroattività della legge più favorevole alla luce del diritto internazionale e comunitario – 2.2 La legge intermedia – 2.3 Il tempo del commesso reato – 3. Abolitio criminis – 3.1 Abolitio criminis totale – 3.2 Abolitio criminis parziale – 3.3 Abolitio criminis e cause di giustificazione – 3.4 Abolizione o modificazione del reato? – 3.5 La depenalizzazione – 4. Le novità introdotte dalla legge n. 85 del 2006 – 5. Le leggi eccezionali e temporanee – 6. Il decreto legge non convertito o convertito con emendamenti – 7. La dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma incriminatrice
1. LA SUCCESSIONE DELLE LEGGI PENALI E I PRINCIPI
COSTITUZIONALI
Nel diritto penale la disciplina della successione delle leggi nel tempo
presenta dei profili peculiari rispetto agli altri rami dell’ordinamento giuridico.
Infatti, in un sistema in cui dall’applicazione dell’una o di un’altra norma in
successione temporale dipende la rilevanza penale del fatto e, perciò, la libertà
personale dell’uomo2, le regole di diritto intertemporale assumono un ruolo
centrale, tale da caratterizzare persino il modello di diritto penale accolto dallo
Stato3.
In via generale è l’art. 11 disp. prel. c.c. a disciplinare l’efficacia della
legge nel tempo sancendo il principio di irretroattività4.
Soltanto per le leggi penali tale principio (detto anche divieto di
retroattività) è sancito al più alto livello della gerarchia delle fonti nell’art. 25
2 In quanto destinatario della pena. 3 GATTA, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici”: teoria e prassi, Milano, 2008, p. 117. 4 L’art. 11 disp. prel. c.c., comma 1, testualmente prevede: «La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo».
8
comma 2 Cost., quale aspetto del principio di legalità: «Nessuno può essere
punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso»5.
Il divieto di retroattività inderogabile da parte del legislatore ordinario6,
è previsto altresì dal codice penale al primo comma dell’art. 2: «Nessuno può
essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso,
non costituisce reato».
Pertanto, l’art. 25 comma 2 Cost. vieta al legislatore di attribuire efficacia
retroattiva ad una legge che contenga una nuova disposizione, mentre l’art. 2
comma 1 c.p. vieta al giudice di applicare retroattivamente una legge di tale
contenuto7.
Il divieto in parola riguarda: da un lato, la punizione di fatti che al tempo
della loro commissione non integravano nessuna figura di reato (nuova
incriminazione); dall’altro, la punizione più severa di fatti che già in precedenza
costituivano reato (norma aggravatrice)8.
La ratio ispiratrice del principio di irretroattività si ravvisa nell’esigenza
di garantire la libertà personale del cittadino, cioè di assicurargli di non essere
punito (o punito più severamente) a causa di una norma che non esisteva nel
momento in cui ha commesso il fatto e della quale non poteva essere a
conoscenza9.
Merita notare che diversa è l’ipotesi in cui vi sia un mutamento della
giurisprudenza contra reum.
5 GAMBARDELLA, Sub Art. 2, in LATTANZI, LUPO (a cura di), Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, vol. I, Milano, 2010, p. 137. 6 In questi termini MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2011, p. 78; DOLCINI, MARINUCCI, Corso di diritto penale, Milano, 2001, p. 253. In giurisprudenza cfr. Corte Cost., 23 novembre 2006, n. 394, con nota di MARINUCCI, in Giur. cost., 2006, 6, p. 4160; di GAMBARDELLA, in Cass. pen., 2007, p. 449; di LA ROSA, in Dir. pen. e proc., 2007, p. 324. 7 DOLCINI, MARINUCCI, Manuale di diritto penale. Parte generale, IV ed., Milano, 2012, p. 95. 8 GAMBARDELLA, Sub Art. 2, cit., p. 137. 9 FIANDACA, MUSCO, Diritto penale. Parte generale, VI ed., Bologna, 2010, p. 85; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Milano, 2004, p. 46.
9
A proposito la migliore dottrina afferma che l’improvviso revirement
giurisprudenziale non contrasterebbe con il principio di irretroattività ma
potrebbe comportare il riconoscimento di un errore scusabile sul precetto ai
sensi dell’art. 5 c.p., secondo i principi sanciti dalla Corte costituzionale nella
famosa sentenza n. 364 del 198810.
Al contrario la Corte di Strasburgo ha evidenziato che poiché nell’art. 7,
n. 1, della CEDU11, viene consacrato il principio di previsione legale dei reati e
delle pene (nullum crimen, nulla poena sine lege), ci si può opporre
all’applicazione retroattiva di un’interpretazione nuova di una norma che
descriva un’infrazione. Tale ipotesi avviene, in particolare, nel caso in cui si
tratti di un’esegesi il cui risultato non fosse ragionevolmente prevedibile nel
momento in cui l’infrazione fosse stata commessa alla luce, soprattutto,
dell’orientamento giurisprudenziale vigente all’epoca in ordine alla
disposizione legale in questione12.
Se viceversa i mutamenti di giurisprudenza sono favorevoli al reo, allora
si ritiene ammissibile la riproposizione in sede esecutiva della richiesta di
applicazione dell’indulto, rigettata in precedenza alla luce di un’interpretazione
poi superata da una decisione delle Sezioni Unite13.
Ancora con riguardo ai mutamenti di giurisprudenza in bonam partem,
non si può fare a meno di ricordare una recentissima sentenza della Corte
costituzionale in cui si è affermato che «la Corte di Strasburgo non ha mai
sinora riferito, in modo specifico, il principio di retroattività della lex mitior ai
mutamenti di giurisprudenza. I giudici europei si sono occupati di questi ultimi
10 Cfr. Corte Cost., 24 marzo 1988, n. 364, con nota di PULITANÒ, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1988, p. 686. 11 Si ricorda che la Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali è stata firmata a Roma il 4 novembre 1950. 12 In tal senso CEDU, 8 febbraio 2007, C-‐‑3/06, in www.eur-‐‑lex.europa.eu; CEDU, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, in Dejure; CEDU, 10 luglio 2012, Del Rio Prada contro Spagna, in www.eur-‐‑lex.europa.eu. 13 Cass. pen., sez. un., 21 gennaio 2010, Beschi, in D&G, 2010.
10
[…] solo con riferimento al diverso principio dell’irretroattività della norma
sfavorevole: ritenendo, in particolare, contraria alla norma convenzionale
l’applicazione a fatti anteriormente commessi di un indirizzo giurisprudenziale
estensivo della sfera operativa di una fattispecie criminosa, ove la nuova
interpretazione non rappresenti un’evoluzione ragionevolmente prevedibile
della giurisprudenza anteriore.
È, peraltro, da escludere – contrariamente a quanto mostra di ritenere il
giudice a quo – che dalle conclusioni raggiunte a proposito del principio di
irretroattività della norma sfavorevole possa automaticamente ricavarsi
l’esigenza “convenzionale” di rimuovere, in nome del principio di retroattività
della lex mitior, le decisioni giudiziali definitive non sintoniche con il
sopravvenuto mutamento giurisprudenziale in bonam partem».
Pertanto, il Giudice delle leggi conclude che «la stessa Corte di
Strasburgo ha avuto modo, del resto, di rilevare, in termini generali, come, nel
caso di avvenuta composizione di un contrasto di giurisprudenza da parte di
un tribunale supremo nazionale, l’esigenza di assicurare la parità di trattamento
non possa essere utilmente invocata al fine di travolgere il principio di
intangibilità della res iudicata: infatti, «intendere il principio di eguaglianza
nell’applicazione della legge nel senso che ciò che risulta dalle decisioni
posteriori implica la revisione di tutte le decisioni definitive anteriori che
risultino contraddittorie con quelle più recenti sarebbe contrario al principio di
sicurezza giuridica» (Corte europea dei diritti dell’uomo, 28 giugno 2007, Perez
Arias contro Spagna, sempre nella misura in cui i principi interpretativi siano
applicabili al nostro ordinamento)»14.
Nel giudizio a quo il Tribunale di Torino aveva sottoposto a scrutinio di
legittimità costituzionale, in riferimento a più parametri, l’art. 673 c.p.p. nella
parte in cui non prevede la revoca della sentenza di condanna passata in
14 Così Corte cost., 12 ottobre 2012, n. 230, in D&G, 2012.
11
giudicato (e delle pronunce ad essa assimilate) anche nel caso di un mutamento
giurisprudenziale15, determinato da una decisione delle Sezioni Unite, in base al
quale il fatto già giudicato non è previsto dalla legge come reato16.
Tornando alla ratio del divieto in parola, esso è imposto anche da altri
principi che fondano il nostro sistema penale17.
In primo luogo, dal principio costituzionale di colpevolezza, in quanto la
conoscibilità della norma penale violata presuppone logicamente l’esistenza e la
vigenza della norma stessa nell’ordinamento giuridico: infatti, è proprio la
possibilità di conoscere le norme penali a garantire l’affidamento dell’individuo
circa la «sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione»18.
In secondo luogo, l’applicazione retroattiva delle norme incriminatrici è
incompatibile con la legittimazione della pena in chiave di prevenzione
generale: in particolare, affinchè la minaccia della pena possa rappresentare uno
strumento di prevenzione generale dissuadendo i possibili destinatari dal
15 Il mutamento giurisprudenziale che veniva in rilievo nella fattispecie concreta riguardava la sfera soggettiva di applicabilità della contravvenzione di omessa esibizione dei documenti di identità e di soggiorno da parte dello straniero delineata dall’art. 6 comma 3 del T.U.Imm. A seguito della riscrittura della norma incriminatrice ad opera della legge del 15 luglio 2009 n. 94, era sorto il problema della perdurante riferibilità del paradigma punitivo agli stranieri irregolarmente presenti nel territorio dello Stato: interrogativo al quale la Corte di cassazione, con una terna di decisioni della prima sezione aveva inizialmente risposto in senso affermativo. Successivamente la tesi era stata sconfessata dalle Sezioni Unite (Cass. pen., sez. un., 27 aprile 2011, n. 16543), le quali avevano ritenuto che la previsione punitiva si rivolgesse attualmente soltanto agli stranieri regolarmente soggiornanti: secondo il Supremo Collegio, in tale prospettiva la novella del 2009 avrebbe determinato una parziale abolitio criminis, rilevante agli effetti dell’art. 2 comma 2 c.p., abrogando la fattispecie contravvenzionale preesistente nella parte in cui si prestava a colpire anche gli stranieri irregolari. 16 NAPOLEONI, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, in Dir. pen. cont., 2012, 3-‐‑4, p. 164. 17 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 120. 18 Cfr. Corte cost. 23 marzo 1988, n. 364, cit.; Corte cost., 23 novembre 2006, n. 394, cit. In dottrina si veda BETTIOL, Diritto penale (Parte generale), V ed., Palermo, 1962, p. 127; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 255; DOLCINI, MARINUCCI, Manuale di diritto penale, cit., p. 95; PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, II ed., Torino, 2008, p. 146.
12
compimento di una determinata condotta, è logicamente necessario che quella
minaccia preesista alla condotta stessa19.
Inoltre, come vedremo più dettagliatamente, alla regola della
retroattività della legge più favorevole al reo si attribuisce un fondamento
costituzionale, pur se “indiretto”, nel principio di eguaglianza di cui all’art. 3
Cost., il quale in linea generale impone di equiparare il trattamento
sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che siano stati
commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio
criminis o la modifica mitigatrice20.
1.1 L’ambito di applicazione dell’art. 2 c.p.
L’art. 2 c.p. non si applica alle leggi processuali penali21 per le quali vige il
diverso principio del tempus regit actum di cui al già citato art. 11 disp. prel. c.c.
Pertanto gli atti processuali già compiuti conservano validità anche sotto
l’impero della legge successiva (irretroattività della legge processuale), mentre
gli atti da compiere sono immediatamente disciplinati dalla nuova legge
processuale anche se collegati ad atti compiuti in precedenza22.
È controversa l’applicazione al caso concreto del principio in parola, sia in
quanto la nuova legge processuale interviene su situazioni necessariamente in
19 In tal senso Corte cost., 8 novembre 2006, n. 394, cit. 20 Ancora Corte cost., 8 novembre 2006, n. 394, cit. Si veda altresì FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 76; VASSALLI, Abolitio criminis e principi costituzionali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983, p. 377. 21 Le quali si individuano con riguardo al contenuto della materia disciplinata e allo scopo, cui la regola giuridica appare orientata: così CRISTIANI, voce Legge processuale penale, in Enc. giur. Treccani, vol. XVIII, Roma, 1990, p. 2. Per un esame approfondito della questione si veda MAZZA, La norma processuale nel tempo, Milano, 1999. 22 In tal senso Cass. pen., 4 marzo 1996, Trovato, in Cass. pen., 1997, p. 136. In dottrina cfr. DOLCINI, MARINUCCI, Manuale di diritto penale, cit., p. 100.
13
itinere, sia per l’imprecisione e/o l’incompletezza delle disposizioni transitorie di
volta in volta dettate dal legislatore23.
Secondo la giurisprudenza il principio de quo non si applica
all’interpretazione giurisprudenziale delle norme processuali penali: invero in
presenza di una successione di interpretazioni difformi di tali norme, in sede di
legittimità il provvedimento assunto alla luce di un orientamento non più
condiviso non si può considerare legittimo alla stregua di tale principio24.
In caso di successione di norme in materia di competenza si applica il
principio del tempus regit actum, salvo il limite che deriva dal diverso principio
della perpetuatio iurisdictionis qualora il provvedimento sia già pervenuto alla
fase dibattimentale25.
Diversa sarà, viceversa, l’ipotesi in cui la competenza per un determinato
reato muta a seguito di una modifica della norma penale sostanziale: ai sensi
dell’art. 2 comma 4 c.p. lo spostamento della competenza – fermo il limite della
perpetuatio iurisdictionis – si verificherà in coincidenza con l’eventuale
applicazione della nuova disposizione sostanziale, in quanto più favorevole al
reo, rispetto a quella vigente al momento del fatto, e sarà precluso dal divieto di
applicazione retroattiva di una disposizione meno favorevole26.
Si evidenzia altresì che secondo la Suprema Corte non sono leggi penali
sostanziali le norme che disciplinano l’esecuzione della pena e le condizioni di
applicazione di misure alternative alla detenzione e per tale ragione non sono
soggette al principio di irretroattività bensì a quello del tempus regit actum27.
23 DOLCINI, MARINUCCI, Artt. 1-‐‑240, Codice penale commentato, Milano, 2011, p. 71. 24 Cfr. ex multis Cass. pen., sez. II, 6 maggio 2010, Merlo, in CED, 247114; Cass. pen., sez. II, 26 maggio 2008, Sorce e altri, in Cass. pen., 2009, p. 1947. 25 In tal senso Cass. pen., sez. un., 17 gennaio 2006, Timofte, in Dir. pen. e proc., 2006, p. 328; Cass. pen., sez. II, 30 gennaio 2006, n. 3613, in Giur. it., 2007, p. 440. 26 Cass. pen., sez. II, 12 gennaio 2000, Castellazzi, in CED, 215362; Cass. pen., sez. II, 12 febbraio 1997, Noschese, in CED, 207181; Cass. pen., sez. II, 5 febbraio 1997, Tralucco, in CED, 206972. 27 Cfr. Cass. pen., sez. un., 30 maggio 2006, n. 24561, in Cass. pen., 2006, p. 3963.
14
Controversa è, invece, la natura sostanziale o processuale delle norme che
prevedono le condizioni di procedibilità.
L’orientamento dominante, considerato lo stretto legame che intercorre tra
le suddette e gli istituti che incidono sulla punibilità, predilige l’applicazione
dell’art. 2 comma 4 c.p. anche nei casi di modificazione del regime di
procedibilità di un determinato reato. Quindi, la nuova disciplina sarà
immediatamente applicabile soltanto se più favorevole all’imputato restando
preclusa la retroattività dell’eventuale modifica in senso sfavorevole28.
Circa le cause di estinzione del reato, sembra che si possa adottare la
medesima soluzione indicata per le condizioni di procedibilità, trattandosi di
istituti di carattere sostanziale29.
Si sottolinea che con specifico riguardo alla prescrizione, alcuni autori
affermano che sia applicabile retroattivamente l’allungamento dei termini di
prescrizione nel caso in cui quest’ultima non sia ancora maturata e, quindi, la
pretesa punitiva dello Stato non si sia già definitivamente estinta: si
salvaguarderebbe in tal modo l’esigenza di consentire l’acquisizione di elementi
di prova in materie particolarmente complesse che costituisce la ratio del
mutamento della disciplina30.
Rientrano nel campo di applicazione dell’art. 2 c.p. anche le modifiche dei
criteri di ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive di cui all’art. 135 c.p.,
in tutti i casi in cui gli effetti della riforma si producano su di un istituto di
28 Cass. pen., sez. III, 27 maggio 2009, D., in CED, 244086; Cass. pen., sez. II, 24 settembre 2008, Calabrò e altri, in CED, 241862. In dottrina si veda FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 86; ROMANO, Commentario, cit., p. 69. Nel senso dell’applicazione del principio tempus regit actum MAZZA, La norma processuale, cit., p. 185; in giurisprudenza, cfr. Cass. pen., sez. II, 23 ottobre 2000, in Dir. pen. e proc., 2002, p. 221. 29 ROMANO, Commentario, cit., p. 68; MAZZA, La norma processuale, cit., p. 191. In giurisprudenza tra le tante si veda Cass. pen., sez. III, 6 marzo 2008, Brignoli, in CED, 239868; Cass. pen., sez. V, 21 settembre 2007, Venturi, in CED, 237457. 30 Si veda per tutti DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 263. Si richiama l’attenzione sulla recente sentenza della Corte Costituzionale (22 luglio 2011, n. 236, in Giur. cost., 2011, 4, p. 3021) in tema di limiti all’efficacia retroattiva della più favorevole disciplina della prescrizione introdotta dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251.
15
diritto sostanziale dovendosi altrimenti applicare la disciplina degli istituti di
natura processuale31.
Parte della dottrina evidenzia che in tal caso considerando che il richiamo,
espresso o implicito all’art. 135 c.p. – presente nelle disposizioni del codice
penale, del codice di procedura penale e delle leggi speciali – è sempre
finalizzato alla determinazione dell’entità della pena, il mutamento del criterio
di ragguaglio dovrebbe sempre essere ricondotto all’art. 2 c.p. e, soprattutto, al
comma 4 che sancisce l’applicabilità retroattiva della nuova disciplina soltanto
se più favorevole al reo rispetto a quella vigente nel momento in cui il fatto è
stato commesso32.
Al di fuori dell’operatività dell’art. 2 c.p. sono ritenute, viceversa, le
misure di sicurezza, le quali sarebbero applicabili retroattivamente a reati
commessi quando la misura non era ancora legislativamente prevista ovvero
era diversamente disciplinata33.
Invero, l’art. 25 comma 3 Cost. si limita soltanto a sottoporre le misure di
sicurezza a riserva di legge; inoltre, l’art. 200 comma 1 c.p., derogando alla
disciplina dettata dall’art. 2 c.p., esclude l’applicazione di una misura di
sicurezza ai fatti che al momento della loro commissione non costituivano reato
o quasi-‐‑reato34.
31 Cass. pen., sez. un., 27 settembre 1995, Siciliano, in Foro it., 1996, II, p. 65; in seguito alla modifica dell’art. 135 c.p. apportata dalla legge n. 94/2009 si veda Cass. pen., sez. I, 14 gennaio, 2010, n. 10966, in CED, 246335. 32 Nei seguenti termini ROMANO, Commentario, III, cit., p. 329 33 Cass. pen., sez. I, 1 marzo 2006, Colombari, in Cass. pen., 2007, 5, p. 2063 34 Secondo DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 260, l’art. 200 c.p. disciplinerebbe esclusivamente la successione di leggi relative alle modalità concrete di esecuzione della misura di sicurezza, restando quindi impregiudicata l’applicabilità dell’art. 2 c.p. alla successione di leggi che prevedano i presupposti, il tipo e la durata delle misure di sicurezza. Inoltre i medesimi Autori di recente hanno evidenziato che da tale interpretazione dell’art. 200 c.p. ne discendono due corollari: 1) non può essere applicata una misura di sicurezza a chi abbia commesso un fatto che, al momento della sua realizzazione, non era preveduto dalla legge come reato; 2) una misura di sicurezza prevista da una legge posteriore non può trovare applicazione nel caso in cui la legge del tempo in cui il soggetto ha agito configurasse il fatto come reato, ma non prevedesse l’applicabilità di quella misura (così DOLCINI, MARINUCCI, Manuale di diritto penale,
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2. IL PRINCIPIO DI RETROATTIVITA'ʹ DELLA LEGGE PIU'ʹ FAVOREVOLE
Il principio di retroattività della legge penale favorevole (c.d. retroattività
in bonam partem, o della lex mitior) è oggi stabilito dai commi secondo, terzo e
quarto dell’art. 2 c.p.
Come si vedrà più nel dettaglio, nel caso di abolitio criminis (comma 2) la
retroattività della legge più favorevole al reo travolge anche l’eventuale
giudicato; nel caso in cui, al contrario, la sanzione penale sia mantenuta, pur
essendo stata resa più mite, la retroattività trova un limite insuperabile nel
giudicato35.
cit., p. 97). Sulla confisca si veda Corte cost., 4 giugno 2010, n. 196, in cui si è chiarito che «la pressoché unanime giurisprudenza di legittimità ha affermato che l’ipotesi di confisca obbligatoria prevista dall’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada (nel testo novellato dall’art. 4, comma 1, lettera b, del d.l. n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 125 del 2008) si applica anche alle condotte poste in essere prima dell’entrata in vigore della novella (in tal senso, Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 4 giugno 2009, n. 32932; sentenza 3 aprile 2009, n. 38179; sentenza 27 gennaio 2009, n. 9986). È rimasta, dunque, del tutto isolata la decisione della stessa Corte secondo cui il «richiamo all’art. 240, secondo comma, cod. pen.» (contenuto nel testo dell’art. 186, comma 2, lettera c, del codice della strada) avrebbe «solo l’intento di rimarcare l’obbligatorietà della confisca e non quello di affermare che il caso disciplinato rientri tra quelli che detta disposizione contempla», ciò che renderebbe, pertanto, «non estensibile» alla misura qui in esame «la regola dettata dall’art. 200 cod. pen.», vale a dire quella dell’applicazione retroattiva della misura di sicurezza (così sezione IV penale, sentenza 29 aprile 2009, n. 32916). In queste condizioni, pertanto, è preclusa a questa Corte la possibilità di una soluzione del tipo di quella che è stata proposta, di recente, con riferimento ad analoga questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto – ancora in relazione all’art. 7 della CEDU – la cosiddetta “confisca per equivalente”, ex art. 322-‐‑ter del codice penale. È stata, infatti, proprio la constatazione di quanto «affermato dalla Corte di cassazione in numerose pronunce» ad aver permesso a questa Corte di riconoscere a tale ipotesi di confisca «una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole, così, una natura “eminentemente sanzionatoria”, che impedisce l’applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell’art. 200 cod. pen.». Su tali basi questa Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza, per erroneità del presupposto interpretativo, della questione allora sollevata (ordinanza n. 97 del 2009)». 35 Si veda PALAZZO, Correnti superficiali e correnti profonde nel mare delle attualità penalistiche (a proposito della retroattività favorevole), in Dir. pen. e proc., 2012, 10, p. 1173, in cui viene messo in forse lo stesso limite del giudicato almeno quando si tratta di modifiche di trattamento che incidono sugli aspetti più importanti della situazione personale del reo, come la libertà.
17
Tuttavia, vi sono delle ipotesi in cui il legislatore decide di regolamentare
in modo specifico il regime transitorio – derogando, quindi, ai commi citati
dell’art. 2 c.p. – per mantenere inalterata la soglia di punibilità al livello
massimo anche per le condotte realizzate prima della modifica normativa36.
Tale possibilità è pacifica in quanto, come già evidenziato, il principio di
retroattività della disposizione più favorevole non ha fatto esplicito ingresso
nella Carta costituzionale, non essendo stata accolta l’iniziale proposta avanzata
in seno all’Assemblea Costituente37.
Il non aver attribuito espressamente rango costituzionale al principio in
parola ha determinato la creazione di due indirizzi distinti in relazione
all’individuazione del parametro–fonte38.
Secondo una prima impostazione la retroattività in bonam partem
deriverebbe dal favor libertatis, individuato come cardine del principio di stretta
legalità di cui all’art. 25 comma 2 Cost.: cioè discenderebbe da una ratio di
natura sistematica, poiché sottesa alla complessiva trama dei vincoli che
presidiano le relazioni tra autorità ed individuo39.
Pertanto l’attribuzione di rango costituzionale al principio – dal quale
scaturirebbe l’obbligo di privilegiare il diritto più mite vigente al tempo del
giudizio rispetto alla disciplina più severa esistente al momento del fatto – non
può che ripercuotersi in una conclusione segnata da logica consequenzialità40.
36 DELLI PRISCOLI, FIORENTIN, La Corte costituzionale e il principio di retroattività della legge più favorevole al reo, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, 3, p. 1180. 37 Sui lavori preparatori si veda Corte Cost., 31 maggio 1990, n. 277, in Giur cost., 1990, p. 1673. 38 Cfr. MAIELLO, Il rango della retroattività della lex mitior nella recente giurisprudenza comunitaria e costituzionale italiana, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2008, 4, p. 1614. 39 PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003, p. 116. 40 Così MICHELETTI, Legge penale e successione di norme integratrici, Torino, 2006, p. 273.
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Una seconda tesi, invece, richiama la garanzia costituzionale facendo
rientrare il principio in esame all’interno dell’art. 3 Cost., ossia nel principio di
eguaglianza41.
Si sostiene, infatti, che questa disposizione, vietando ogni forma di
“irragionevole” discriminazione tra situazioni omogenee, non può che
ricomprendere anche la retroattività della legge penale più favorevole,
asseverandone la caratteristica efficacia vincolante nei confronti del legislatore
ordinario42.
Occorre quindi salvaguardare l’esigenza della parità di trattamento tra
fatti dello stesso tipo realizzati prima o dopo l’entrata in vigore della nuova
norma più favorevole: diversamente si punirebbe, oppure si punirebbe più
severamente, una persona per un fatto che chiunque altro, dopo l’entrata in
vigore della nuova legge, può commettere impunemente o con conseguenze più
miti43.
Il canone della ragionevolezza è stato utilizzato, ad esempio, dalla Corte
Costituzionale con riferimento alla valutazione di costituzionalità di una deroga
ad una lex mitior emanata in materia di prescrizione44.
Con la celebre sentenza n. 393 del 200645 il Giudice delle leggi ha
affermato che, nonostante l’applicazione retroattiva delle disposizioni più
favorevoli al reo non abbia valore costituzionale, la sua deroga sarebbe,
tuttavia, possibile soltanto se essa superasse un vaglio positivo di
ragionevolezza, in quanto volta a tutelare interessi di analoga o superiore 41 In tal senso VASSALLI, Abolitio criminis e principi costituzionali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983, p. 388. Sostengono la medesima posizione fra i tanti anche DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 268; PALAZZO, Corso di diritto penale, cit., p. 160. Riconducono la garanzia ad entrambe le ratio prospettate, rispettivamente quella della ragionevolezza ex art. 3 Cost. e quella del favor libertatis, FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 92. 42 VASSALLI, Abolitio criminis, cit., p. 713; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, loc. cit. 43 DOLCINI, MARINUCCI, Manuale di diritto penale, cit., p. 102. 44 DELLI PRISCOLI, FIORENTIN, La Corte costituzionale, cit., p. 1182. 45 In cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 comma 3 della legge n. 251/2005, limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonchè».
19
importanza rispetto a quelli soddisfatti dalla prescrizione (efficienza del
processo, salvaguardia dei diritti soggettivi destinatari della funzione
giurisdizionale), o comunque afferenti a beni dell’intera collettività correlati a
valori costituzionali46.
La Consulta ha pertanto ritenuto che la scelta di escludere l’applicazione
retroattiva della norma sulla riduzione dei termini di prescrizione del reato ai
processi pendenti in primo grado alla data della sua entrata in vigore, ove sia
intervenuta l’apertura del dibattimento, non assolvesse al predetto canone di
ragionevolezza, in quanto la norma censurata individuava il discrimine fra i
processi di primo grado soggetti ai nuovi termini di prescrizione (più brevi) e
quelli nei quali continuano ad applicarsi i termini vecchi (più lunghi) in un
adempimento processuale (ossia la dichiarazione di apertura del dibattimento),
il quale nel complesso della disciplina del processo di primo grado, non è
indefettibile, ne è incluso tra gli atti considerati rilevanti dall’art. 160 c.p. ai fini
dell’interruzione della prescrizione47.
Con tale pronuncia si chiarisce quindi, per la prima volta, che «lo
scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla
retroattività di una norma penale più favorevole al reo deve superare un vaglio
positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma
derogatoria non sia manifestamente irragionevole»48.
È evidente come la decisione segni un mutamento di rotta importante
nell’aver adottato un dispositivo di accoglimento che amplia la sfera di efficacia
retroattiva di una lex mitior.
Tuttavia, non si raggiunge il grado di chiarezza e di precisa
individuazione del parametro–fonte che caratterizza, viceversa, la sentenza n.
46 Cfr. Corte Cost., 23 novembre 2006, n. 393, in Riv. pen., 2007, 2, p. 145. 47 Corte Cost., 23 novembre 2006, n. 393, loc. cit. 48 Testualmente Corte Cost., 23 novembre 2006, n. 393, cit.
20
39449, a cui va attribuito il merito di aver consacrato, espressamente, il
fondamento costituzionale del principio individuandolo nella uguaglianza–
ragionevolezza concepita quale direttiva suprema dei pubblici poteri50.
In particolare la Consulta in quest’ultima decisione, nell’ammettere il
controllo di costituzionalità in malam partem sulle norme penali di favore, ha
dichiarato costituzionalmente illegittima, per violazione dell’art. 3 Cost., una
disposizione incriminatriche che stabiliva un trattamento penale migliorativo51.
In linea con il suo costante orientamento, la Corte ha innanzitutto escluso
che il principio di retroattività della lex mitior sia stato costituzionalizzato
dall’art. 25 comma 2 Cost., ma ha riconosciuto il principio costituzionale di
eguaglianza come suo fondamento e, allo stesso tempo, come suo limite52.
Infatti la ratio del principio di cui all’art. 3 Cost. rende irragionevole
l’applicazione di una sanzione penale ad un fatto che, successivamente, il
legislatore non reputa più reato (avendo valutato diversamente il suo disvalore
sociale) oppure sanziona con una pena più lieve (rispecchiando un nuovo
giudizio in ordine alla sua gravità)53.
Circa il limite che il principio di uguaglianza–ragionevolezza pone alla
portata della disciplina più favorevole, esso si sostanzia sotto un duplice
profilo.
Da un lato, in relazione alle deroghe ragionevoli che possono essere
apportate dal legislatore, come quelle che il nostro codice penale introduce per
le leggi eccezionali e temporanee ai sensi dell’art. 2 comma 5 c.p.54.
49 Corte Cost., 23 novembre 2006, n. 394, cit., p. 4160. 50 In tal senso MAIELLO, Il rango della retroattività della lex mitior, cit., p. 1617. 51 Corte Cost., 23 novembre 2006, n. 394, con nota di MARINUCCI, Il controllo di legittimità costituzionale delle norme penali: diminuiscono (ma non abbastanza) le «zone franche», in Giur. cost., 2006, 6, p. 4160; di GAMBARDELLA, Specialità sincronica e specialità diacronica nel controllo di costituzionalità delle norme penali di favore, in Cass. pen., 2007, 2, p. 467. 52 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 267. 53 MARINUCCI, Il controllo di legittimità costituzionale, cit., p. 4162. 54 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 283.
21
Dall’altro, la Consulta afferma che la nuova valutazione del disvalore del
fatto può giustificare – in chiave di tutela del principio di eguaglianza –
l’estensione a ritroso del trattamento più favorevole solamente nel caso in cui il
nuovo apprezzamento non contrasti con i precetti della Costituzione. Pertanto,
una volta dichiarata incostituzionale, la norma penale di favore sarà
inapplicabile ai fatti pregressi55.
In una successiva pronuncia56 si ritrova una diversa impostazione sulla
questione della costituzionalizzazione della retroattività in bonam partem.
Secondo quest’ultima posizione, a fondamento del principio di
retroattività della norma più favorevole al reo non c’è né la garanzia del favor
libertatis – la quale assicura al cittadino il trattamento penale più mite tra quello
vigente al momento del fatto e quello previsto dalle leggi successive – né il
principio di uguaglianza inteso come canone volto ad evitare ingiustificate ed
irragionevoli disparità di trattamento57, ma si ritrova la ragionevolezza delle
scelte compiute dal legislatore.
In altri termini, in presenza di più principi o interessi di rilevanza
costituzionale coinvolti nella questione, è necessario che il legislatore operi un
bilanciamento ragionevole tra di essi, dal momento che, nonostante siano
principi o interessi riconosciuti a livello costituzionale, nel caso di specie essi
non appaiono suscettibili di essere congiuntamente realizzati58.
Questo sindacato di ragionevolezza in senso stretto sembra essere
sganciato dal parametro di cui all’art. 3 Cost., poiché mira a cogliere le
«oggettive irrazionalità delle leggi»: è un’irragionevolezza intrinseca della scelta
55 Corte Cost., 23 novembre 2006, n. 394, cit. 56 Corte Cost., 18 giugno 2008, n. 215, in Giur cost., 2008, p. 2408, con nota di GAMBARDELLA, Retroattività della legge penale favorevole e bilanciamento degli interessi costituzionali. 57 GAMBARDELLA, Sub Art. 2, cit., p. 143. 58 Per tutti si veda DAMIANI, Le disposizioni transitorie. Studio sulla ragionevolezza dell’efficacia della legge nel tempo, Padova, 2008, p. 10.
22
legislativa, poiché non richiede un tertium comparationis per dichiararne
l’incostituzionalità59.
2.1 Il principio di retroattività della legge più favorevole alla luce del diritto
internazionale e comunitario
Il principio in esame trova la sua consacrazione anche a livello di diritto
internazionale e dell’Unione Europea: in particolare, nell’art. 15 par. 1 del Patto
Internazionale sui diritti civili e politici60, nell’art. 7 CEDU61 e nell’art. 49 comma
1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza62.
Si sottolinea che con la famosa sentenza Scoppola c. Italia63 la Corte
Europea, superando la propria precedente giurisprudenza, ha riconosciuto che
l’art. 7 della Convenzione ha fatto proprio il principio di retroattività della legge
penale più favorevole64.
59 PALADIN, voce Ragionevolezza (principio di), in Enc. dir., Aggiornamento, vol. I, Milano, 1997, p. 900. 60 Il Patto è stato adottato il 16 dicembre 1966 a New York, ratificato e reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881. L’art. 15 par. 1 nell’ultima parte prevede che «Se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiarne». 61 Testualmente «1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. 2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili». 62 Oggi richiamata dal Trattato di Lisbona entrato in vigore il 1° dicembre 2009 che sancisce testualmente «Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l'ʹapplicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima». 63 CEDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, n. 10249/03, in Cass. pen., 2010, 5, p. 2020, con nota di GAMBARDELLA, Il “caso Scoppola”: per la Corte Europea l'ʹart. 7 CEDU garantisce anche il principio di retroattività della legge penale più favorevole. 64 Nel caso di specie la Corte – ritenuto l’art 442 c.p.p. ascrivibile alla categoria delle disposizioni di diritto penale sostanziale concernenti la severità della pena, per le quali trovano applicazione le regole sulla retroattività contenute nell’art. 7 – ha constatato la violazione dell’art. 7, par. 1, CEDU, in quanto lo Stato sarebbe venuto meno al proprio obbligo di far beneficiare l’imputato dell’applicazione della pena a lui più favorevole ed entrata in vigore dopo la commissione del
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La Corte di Strasburgo, in primo luogo, ha ricordato il proprio
orientamento sulla disposizione in parola in cui affermava che essa non
garantisce il diritto a beneficiare dell’applicazione di una pena più mite prevista
da una legge posteriore al reato65.
In secondo luogo, la pronuncia in commento ha chiarito che occorre tener
presente che la Convenzione, in quanto meccanismo di protezione dei diritti
dell’uomo, si deve interpretare ed applicare nel senso di rendere le garanzie
concrete ed effettive, e non teoriche ed illusorie, occorrendo un approccio
dinamico ed evolutivo.
Secondo la Corte è vero che la disposizione de qua non menziona
espressamente l’obbligo per gli Stati contraenti di far beneficiare al reo di un
mutamento legislativo entrato in vigore dopo la commissione del reato, ma in
ogni caso l’art. 7 – il quale vieta di infliggere una pena maggiore a quella
applicabile al momento in cui il reato era stato commesso – non esclude
neppure che possa essere applicata all’imputato una sanzione più mite prevista
da una legge emanata dopo la consumazione del fatto illecito66.
Pertanto, ove si verifichi un mutamento legislativo favorevole
all’imputato prima della fine del processo, il giudice deve applicare al caso da
decidere la pena che il legislatore in quel momento ritiene “proporzionata” e
non quella antecedente più afflittiva che ormai né l’ordinamento né la
collettività reputano più adatta al fatto realizzato67.
Inoltre, i Giudici di Strasburgo evidenziano che l’obbligo di applicare, tra
le varie leggi penali che si sono succedute nel tempo, quella più favorevole al
reo, soddisfa anche un altro elemento essenziale dell’art. 7 CEDU, cioè la
prevedibilità delle sanzioni: se è stabilita, in linea di principio, l’applicazione
reato. Infatti al ricorrente era stata inflitta la pena più severa fra tutte quelle contemplate dalle leggi succedutesi prima della condanna definitiva. 65 Si veda ad esempio CEDU, 30 settembre 2004, Zaprianov c. Bulgaria. 66 GAMBARDELLA, Il “caso Scoppola”, cit., p. 2021. 67 GAMBARDELLA, Il “caso Scoppola”, loc. cit.
24
della lex mitior tra quelle che si susseguono durante lo svolgimento del
procedimento penale, la pena diventa prevedibile a priori dal cittadino68.
Sulla base di queste premesse la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha
modificato la propria giurisprudenza ed ha affermato che l’art. 7 § 1 della
Convenzione non garantisce soltanto il principio di irretroattività delle leggi
penali peggiorative, ma anche quello di retroattività della legge penale più
favorevole69.
In conseguenza, se la legge penale in vigore al momento della
commissione del reato e le leggi penali posteriori vigenti prima della decisione
definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono
più favorevoli al reo.
2.2 La legge intermedia
Non si può fare a meno di evidenziare che nel caso Scoppola la legge
penale più favorevole da applicare era una legge intermedia, ossia una legge
sopravvenuta più mite rispetto a quella vigente all’epoca del fatto, ma non più
in vigore nel momento conclusivo del giudizio perchè sostituita da una legge
meno favorevole70.
La legge intermedia più mite, sulla base delle regole di cui alla
disposizione codicistica in esame, anche se abrogata (o sostituita) si applica
retroattivamente ai fatti realizzati prima della sua entrata in vigore71.
Si esclude però il caso in cui la legge intermedia sia costituita da una
norma dichiarata incostituzionale oppure da un decreto legge non convertito: in
68 CEDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, cit. 69 GAMBARDELLA, Il “caso Scoppola”, loc. cit. 70 Circa il fenomeno della legge intermedia si veda PECORELLA, Legge intermedia: aspetti problematici e prospettive de lege ferenda, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, DOLCINI, PALIERO (a cura di), vol. I, Milano, 2006, p. 611. Cfr. altresì PULITANÒ, Diritto penale, Torino, 2009, p. 165. 71 GAMBARDELLA, Sub Art. 2, cit., p. 144.
25
tale ipotesi, posta l’efficacia ex tunc, non si applicano, come stabilito dalla Corte
costituzionale72, le regole contenute nei commi 2 e 4 dell’art. 2 c.p.
La giurisprudenza ha affermato che si deve applicare la legge che
prevede un trattamento sanzionatorio ritenuto più favorevole al reo, anche
quando la legge posteriore, che l’ha modificata, abbia ripristinato le pene più
severe previste da un’altra legge anteriore che la stessa aveva a sua volta
modificato73.
La ratio dell’applicazione retroattiva della legge intermedia più
favorevole non sembra essere la medesima di quella posta a fondamento dalla
dottrina all’efficacia rispetto al passato della comune lex mitior74.
Infatti, non si può evocare il principio di eguaglianza per giustificare la
prevalenza della legge intermedia più mite: per lo stesso fatto, commesso prima
o dopo la vigenza della legge intermedia più favorevole meramente
modificativa (senza abolitio criminis come nell’esaminato caso Scoppola), si
potranno avere condanne nello stesso giorno davanti al medesimo giudice sulla
base di figure di reato che prevedono conseguenze giuridiche diverse75.
Inoltre, secondo autorevole dottrina il fenomeno della legge intermedia
comportando l’applicazione ai fatti pregressi di discipline non più attuali, viene
utilizzato per stabilizzare gli effetti delle leggi ad personam76.
72 Corte cost., 22 febbraio 1985, n. 51, in Cass. pen., 1985, p. 816. 73 Cfr in tema di guida in stato di ebbrezza Cass. pen., sez. IV, 21 settembre 2007, n. 38548, in CED, 23765; in senso conforme Cass. pen., sez. II, 7 luglio 2009, n. 35079, in CED, 244631. Inoltre, si è anche affermato che l’art. 2 comma 4 c.p. considera tutti i mutamenti legislativi intervenuti, stabilendo che si deve applicare la legge le cui disposizioni sono più favorevoli al reo; quindi, una volta che sia entrata in vigore una legge più favorevole, questa deve applicarsi sempre anche se, successivamente, il legislatore ritenga di modificarla in senso meno favorevole: Cass. pen., sez. IV, 18 marzo 2004, n. 23613, in Riv. pen., 2004, p. 970, con nota di PARISI, Guida in stato di ebrezza e applicabilità ai fatti pregressi della legge penale intermedia. 74 GAMBARDELLA, Il “caso Scoppola”, cit., p. 2022. 75 Si deve tener presente che i fatti di reato quando sono stati commessi erano assoggettati allo stesso trattamento sanzionatorio. 76 PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 165.
26
Ciò nonostante, la regola dell’applicazione retroattiva della legge
intermedia77 non può essere messa in discussione essendo contenuta, nella sua
soglia di rilevanza minima, nell’art. 2 comma 4 c.p.78.
Pertanto, le ragioni della prevalenza della legge favorevole intermedia
sono state giustificate sotto vari profili.
Secondo un’impostazione, se è una delle leggi intermedie a risultare più
favorevole, allora è questa da preferirsi: in particolare, se le leggi anteriori
ritornano alla severità originaria, o l’aumentano, le nuove pene non saranno
applicabili al reo poiché egli ha acquisito il diritto di essere trattato alla stregua
della legge meno severa79.
Secondo altri autori, viceversa, la prevalenza della legge intermedia
garantisce che l’eventuale lunghezza dei processi non vada a discapito
dell’imputato, al quale verrebbe inflitta una condanna più severa di quella che
avrebbe avuto se il processo fosse terminato prima80.
2.3 Il tempo del commesso reato
Giunti a questo punto, è necessario determinare in termini puntuali il
tempo del commesso reato, al fine di valutare se una legge penale sia o meno in
vigore quando si verifica un dato fatto e quale delle due leggi che si succedono
l’una all’altra si debba applicare.
Il legislatore non ha espressamente previsto questo momento, ma tale
individuazione non può basarsi su criteri adottati per l’applicazione di altri
77 Pertanto anche in presenza di un successivo inasprimento della disciplina per i processi in cui non vi è stata condanna passata in giudicato. 78 GAMBARDELLA, Il “caso Scoppola”, loc. cit. 79 MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. I, Torino, 1981, p. 400. 80 CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Del delitto, della pena, Bologna, 1993, p. 450.
27
istituti, dovendo piuttosto riflettere la ratio dell’art. 2 c.p. e, innanzitutto, quella
del principio di irretroattività della legge penale, sancito dall’art. 25 Cost.81.
La dottrina ritiene che la funzione di garanzia del principio anzidetto
imponga di reputare applicabile la legge vigente al momento della condotta,
cioè al momento in cui si è realizzata l’azione o l’omissione82.
Circa i reati istantanei, non sussiste alcun problema in ordine
all’applicazione di tale criterio: infatti il tempo del commesso reato si può
facilmente individuare nel compimento dell’azione tipica – se si tratta di un
reato a forma vincolata – oppure – per le fattispecie a forma libera –
rispettivamente, nell’ultimo atto sorretto dalla volontà colpevole (in caso di
reato doloso) e nell’azione che per prima contrasti con un dovere obiettivo di
diligenza (se reato colposo).
Al contrario, per i reati omissivi propri sussiste qualche incertezza poiché
è controverso se si debba ritenere decisivo il momento in cui scade il termine
per agire83 oppure, alla luce della configurabilità del tentativo, il momento in
cui il soggetto si è messo nella condizione di non poter adempiere84.
La questione dell’individuazione del tempus commissi delicti appare,
viceversa, particolarmente problematica con riguardo ai reati di durata, vale a
dire per i reati permanenti e per i reati abituali.
Si pensi al caso in cui nel corso del periodo consumativo del reato
permanente, il legislatore inasprisce la risposta punitiva verificandosi in tal
modo una successione di legge meramente modificativa: in altre parole, ad una
81 FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 91. 82 GAMBARDELLA, Sub Art. 2, cit., p. 146. Per completezza si evidenzia che, per determinare il tempo del commesso reato, sia assolutamente da respingere sia il criterio dell’evento, sia quello misto, il quale facendo indifferentemente riferimento alla condotta o all’evento – sulla falsariga dell’art. 6 c.p. per il locus commissi delicti – contrasta con l’esigenza di stabilire in modo certo quale sia la legge applicabile al fatto. 83 FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 106; ROMANO, Commentario, cit., p. 55. 84 GROSSO, Brevi note su di un aspetto problematico del reato omissivo proprio: il luogo della consumazione (osservazioni in margine alla fattispecie di omesso versamento di contributi sociali o assicurativi), in Riv. it. dir. pen. e proc., 1964, p. 241.
28
legge vigente nel momento dell’inizio della permanenza, succede, prima che la
condotta illecita cessi, una nuova legge meno favorevole85.
In questo modo lo stato di permanenza del reato si protrae, con la
condotta volontaria dell’agente, anche sotto il vigore della nuova legge meno
favorevole.
Una parte della dottrina considera rilevante, ai fini dell’art. 2 c.p., il
momento della cessazione della permanenza sottolineando che fino a quel
momento la norma penale potrebbe esercitare la sua funzione deterrente86.
Tuttavia il fondamento del principio di irretroattività della legge penale
sembra avvalorare piuttosto la soluzione che considera decisivo il momento
iniziale della fase consumativa del reato, vale a dire il momento in cui inizia a
protrarsi la situazione di permanenza richiesta per la punibilità87.
La giurisprudenza ritiene, invece, che nel caso di successione di una
legge penale più severa, quando la permanenza continua durante la vigenza
della nuova legge, è questa soltanto che deve trovare applicazione, in quanto
sotto il suo vigore è commesso il reato con la realizzazione di tutti gli elementi
costitutivi88.
Problema similare si rinviene nei reati abituali, i quali sono integrati non
da una singola condotta, ma dalla reiterazione nel tempo di condotte della
stessa specie.
85 GAMBARDELLA, Sub Art. 2, cit., p. 147. 86 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit. p. 289; PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., p. 140; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 167. 87 FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 106; ROMANO, Commentario, cit., p. 55. 88 Cfr. Cass. pen., sez. I, 30 gennaio 1992, Altadonna, in Cass. pen., 1993, p. 1698; Cass. pen., sez. III, 28 gennaio 1993, Guadalupi, in Cass. pen., 1993, p. 2403; Cass. pen., sez. I, 1 marzo 1993, Verdoliva, in Riv. pen., 1994, p. 214; Cass. pen., sez. I, 21 febbraio 1995, Gullo, in Giust. pen., 1996, II, p. 36; di recente Cass. pen., sez. III, 5 febbraio 2008, n. 13225, in CED, 239847.
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Per questa categoria di reati il tempus commissi delicti viene ravvisato nel
momento in cui si pone in essere l’atto che, unito al precedente, conferisce agli
episodi la particolare rilevanza giuridica89.
3. ABOLITIO CRIMINIS
L’espressione abolitio criminis indica l’ipotesi dell’abolizione del reato
disciplinata dal secondo comma dell’art. 2 c.p., secondo il quale «nessuno può
essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce
reato; e se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali»90.
Tale fenomeno nell’ordinamento italiano ha come necessario
presupposto il principio di legalità, quale principio di tipicità della fattispecie
penale, ed è speculare all’ipotesi contemplata nel primo comma91.
Pertanto, premesso che il sistema penale è costituito dall’insieme di
norme incriminatrici92, l’abolitio criminis si deve considerare un fenomeno
normativo che si sostanzia nell’eliminazione o riduzione di una fattispecie
astratta che condiziona l’applicazione della sanzione penale, cioè la fattispecie
quale elemento costitutivo della norma incriminatrice93.
L’abolizione del reato è la manifestazione di una scelta politico-‐‑criminale
del legislatore, il quale considera non più meritevole o bisognoso di repressione
penale un gruppo di fatti che prima erano inclusi nell’elenco dei reati: in questo
89 ROMANO, Commentario, cit., p. 56. 90 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 143. 91 GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione della norma incriminatrice, Napoli, 2008, p. 117. 92 In quest’ottica l’ordinamento penale viene visto come un insieme sistematico ed ordinato di norme incriminatrici. 93 GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit. p. 119. Di diverso avviso IACOVIELLO, Bancarotta fraudolenta e successione di leggi: la scelta tra sano pragmatismo e cattiva metafisica, in Cass. pen., 2003, p. 624, in cui l’Autore chiarisce che la successione delle leggi non è un fenomeno esclusivamente normativo, poiché nell’art. 2 comma 2 c.p. per fatto si intende fatto storico.
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modo, viene meno il precedente giudizio di disvalore astratto, eliminando la
qualifica di illecito penale da un certo tipo di comportamento94.
Inoltre, si ritiene che la locuzione abolitio criminis denoti l’ipotesi di
abrogazione di una norma incriminatrice in cui la norma successiva prevale su
quella anteriore cancellandola dall’ordinamento penale, quando le stesse
derivano da fonti poste al medesimo livello gerarchico95.
Le forme in cui si può manifestare tale scelta legislativa, espressa per
mezzo dell’abolizione del reato, sono molteplici: tuttavia, una fondamentale
distinzione è quella tra abolitio criminis totale e parziale96.
3.1 Abolitio criminis totale
Si definisce abolitio criminis totale (o integrale) l’ipotesi in cui viene
soppressa una figura di reato97.
Ciò che rileva ai fini dell’applicazione dell’art. 2 comma 2 c.p. è che il
fatto, già penalmente rilevante, diventa penalmente irrilevante a seguito
dell’abrogazione di una norma incriminatrice98.
È opportuno evidenziare fin da subito che non sempre la formale
abrogazione di una norma incriminatrice dà luogo al fenomeno in esame.
Invero l’abolizione del reato si concreta soltanto quando una certa classe
di fatti, in precedenza penalmente rilevante in quanto conforme ad una data
fattispecie legale, dopo la soppressione integrale di quest’ultima non risulta più
94 ROMANO, Commentario, cit., p. 56. 95 È il tipico meccanismo dell’abrogazione basato sull’idoneità dell'ʹatto legislativo susseguente a produrre l’inefficacia del precedente: così GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit. p. 121. 96 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 146. 97 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 269; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 178. 98 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 147.
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conforme a nessun’altra fattispecie: sia già prevista dall’ordinamento giuridico,
sia ad una introdotta contestualmente alla soppressione di quella previgente99.
L’abrogazione di una norma incriminatrice non esclude che il sistema
giuridico risultante dalla modificazione legislativa continui a conferire
rilevanza penale a classi di fatti già riconducibili alla norma penale abrogata.
Nello specifico ciò avviene attraverso un’altra figura di reato già vigente
al tempo della commissione del fatto e che diventa applicabile soltanto dopo
quella modifica legislativa, oppure mediante una fattispecie che viene
introdotta contestualmente alla modifica legislativa stessa100.
Queste ipotesi vengono comunemente definite abrogatio sine abolitio e si
verificano nel caso in cui ad essere abrogata è una norma incriminatrice in
rapporto di specialità con una norma o più norme diverse, preesistenti
all’abrogazione di quella, ovvero introdotte contestualmente in sua
sostituzione101.
99 PULITANÒ, Diritto penale, loc. cit.; PULITANÒ, Legalità discontinua? Paradigmi e problemi di diritto intertemporale, in Riv. it. dir. pen. e proc., 2002, p. 1271. 100 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 148. 101 Si veda a titolo esemplificativo MUSCO, I reati societari, 3° ed., Milano 2007, p. 107; in giurisprudenza cfr. Cass. pen., sez. III, 11 novembre 2003, n. 2583, in Il lav. nella giurispr., 2005, p. 954, con nota di PERINI, La successione di leggi penali in materia di somministrazione di lavoro: l'ʹorientamento della Suprema Corte. Tipico esempio del primo caso (abrogazione di una norma incriminatrice speciale rispetto ad un’altra generale, preesistente all’abrogazione) si rinviene nella formale abrogazione della norma incriminatrice dell’omicidio o lesioni personali per causa d’onore (art. 578 c.p.), ad opera della legge 5 agosto 1981 n. 442. Quest’ultima non ha comportato un’abolitio criminis, bensì soltanto una successione di leggi modificative della disciplina rilevante ai sensi dell’art. 2 comma 4 c.p. Infatti, in seguito all’abrogazione di quella norma i fatti di omicidio o lesioni personali per causa d’onore continuano ad essere penalmente rilevanti, perchè rientrano nella fattispecie generale di omicidio punito ai sensi dell’art. 575 c.p. Quindi, venuta meno la fattispecie speciale, si applica quella generale preesistente all’abrogazione che rileva come «legge posteriore» agli effetti dell’art. 2 comma 4 c.p. Al contrario, si rinviene un esempio della seconda ipotesi (ossia l’abrogazione di una norma incriminatrice e contestuale introduzione di una norma incriminatrice generale rispetto a quella abrogata) nella formale abrogazione della norma di cui all’art. 270 bis c.p. (associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico) e la sua contestuale sostituzione con un’altra norma incriminatrice, inserita nel medesimo articolo (associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ʹordine democratico) ad opera della legge 15 dicembre 2001, n. 438, che non ha comportato un’abolitio criminis. In particolare, con l’abrogazione della norma contenuta nel previgente art. 270 bis c.p., il legislatore non ha
32
3.2 Abolitio criminis parziale
La diversa ipotesi di abolitio criminis parziale si ravvisa quando si è
prodotta una mera successione modificativa tra le norme incriminatrici che si
avvicendano nel tempo, rispetto alla quale tuttavia una o più sottofattispecie
astratte non risultano più penalmente rilevanti102.
In altri termini, in quest’ipotesi si circoscrive l’area di punibilità connessa
a quella particolare incriminazione: si comprime l’area del penalmente illecito
rispetto al campo di applicazione della previgente norma103.
È doveroso precisare che il fenomeno in esame si sostanzia comunque in
un’abrogazione, cioè nell’eliminazione di una o più tipologie di comportamenti
penalmente sanzionati.
Qui l’abolizione si definisce “parziale” nella misura in cui la specifica
figura di reato, oggetto di limitata abolizione, continua ad essere presente
nell’ordinamento ed a sanzionare penalmente altre sottofattispecie astratte: in
questo modo, non si produce abolitio dell’intera incriminazione con il suo nomen
juris, ma unicamente della classe di sottofattispecie che viene esclusa dal ritaglio
compiuto dal legislatore104.
espresso il venir meno della rilevanza penale dei fatti antecedentemente commessi, conformi tanto alla precedente quanto alla successiva fattispecie legale. Anche in questo caso si è in presenza di una successione di norme modificative della disciplina del reato: in relazione ai fatti commessi prima della sostituzione della norma incriminatrice in parola, ai sensi dell’art. 2 comma 4 c.p., il giudice, salvo che sia intervenuta sentenza irrevocabile di condanna, dovrà applicare, tra quelle in successione, la norma le cui disposizioni risultino più favorevoli al reo. Viceversa, con riguardo ai fatti che acquistano rilevanza penale per effetto della modifica normativa de qua dovrà invece trovare applicazione il divieto di retroattività previsto nel primo comma dell’art. 2 c.p. In tal senso GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 148-‐‑149. 102 GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit. p. 165. 103 GAMBARDELLA, Sub Art. 2, cit., p. 153. 104 GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 165; GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 150.
33
In definitiva, l’abolitio criminis parziale è un’abrogazione limitata di una
norma incriminatrice: ossia la nuova norma speciale riduce rispetto a prima
l’area della illiceità penale105.
La situazione alla quale si fa riferimento si verifica qualora la fattispecie
risultante a seguito della modifica normativa di cui si tratta è speciale rispetto a
quella precedente106.
Il risultato suddetto può derivare da modifiche di tipo diverso, le quali
comportano, in ogni caso, la sostituzione di una fattispecie legale con un’altra,
che rispetto ad essa, è speciale.
In primo luogo, l’abolitio criminis parziale nella sua forma di
manifestazione più semplice si realizza quando il legislatore modifica la
fattispecie legale amputandone una parte107.
In secondo luogo, nel caso in cui ci sia un’abrogazione di una norma
incriminatrice e la contestuale introduzione di un’altra, speciale rispetto a
quella abrogata108.
In terzo luogo, una parziale abolizione del reato può conseguire anche da
interventi legislativi su disposizioni di parte generale109.
Conclusivamente il fenomeno in commento è regolato, per la parte
relativa all’incriminazione eliminata, dal comma 2 dell’art. 2 c.p. (cioè
105 GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 166. 106 PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 179. 107 Ad esempio ove vi sia una figura di reato realizzabile con diverse modalità alternative della condotta ritenute equivalenti viene sostituita con un’altra figura che si limiti a ridurre nel numero quelle stesse modalità alternative della condotta. 108 Cfr. Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2003, Giordano, in Riv. it.. dir pen. e proc., 2003, p. 1503. In dottrina si veda PADOVANI, Tipicità e successione di leggi penali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, p. 1354; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 178. L’esempio in questa ipotesi è offerto dalla riforma attuata con il D.Lvo 11 aprile 2002 n. 61 che ha interessato, tra gli altri reati societari, anche il falso in bilancio. 109 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 270; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 179. Si pensi all’ipotetica ridefinizione in senso restrittivo del concetto di colpa e, quindi, ad un intervento sul testo dell’art. 43 c.p. che limiti la colpa ai casi di colpa grave: qui sarebbero parzialmente abolite tutte le fattispecie di reato colposo, limitatamente ai fatti commessi con colpa grave. Per l’esempio cfr. GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 152.
34
immediato proscioglimento o, se vi è stata condanna passata in giudicato,
cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali di essa), viceversa per la parte
che continua ad essere vigente dal nuovo comma 4 della citata disposizione
codicistica (si applica la disposizione più favorevole al reo, se non sia stata già
pronunciata una sentenza irrevocabile, con l’eccezione che vedremo
dettagliatamente prevista ora dal comma 3, della trasformazione di una pena
detentiva in pecuniaria)110.
3.3 Abolitio criminis e cause di giustificazione
A questo punto è necessario verificare come l’introduzione di una nuova
causa di giustificazione o l’estensione del suo ambito di operatività possa
influenzare le vicende abolitive in campo penale111.
Partendo dall’assunto che le cause di giustificazione sono contenute in
autonome norme112, a rigore non strettamente penalistiche, la loro introduzione
o l’ampliamento del loro campo di applicazione, pur incidendo sulla
complessiva area di illiceità penale del nostro ordinamento penalistico, non si
ripercuote in nessun modo sulla disciplina dell’abolitio criminis, in quanto
110 AMBROSETTI, Abolitio criminis e modifica della fattispecie, Padova, 2004, p. 212; GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 166. 111 Si veda MARINUCCI, Cause di giustificazione, in DOLCINI, MARINUCCI (a cura di), Studi di diritto penale, Milano, 1991, p. 114. L’Autore ha chiarito che diverso è il caso in cui la riduzione dell’ambito di operatività di una incriminazione (la sua parziale abolitio criminis) renda oggi il comportamento illo tempore giustificato, penalmente illecito. L’antigiuridicità esistente al momento della commissione del reato non viene eliminata, e quindi la condotta tipica – ma all’epoca scriminata – resta legittima. 112 Infatti, sono autonome norme che si rinvengono in tutto l’ordinamento giuridico e che si pongono in contrasto con le singole norme incriminatrici, autorizzando o imponendo la realizzazione di una condotta conforme ad una figura di reato. Il conflitto tra le regole antinomiche, nel rispetto del principio dell’unitarietà e coerenza dell’ordinamento giuridico si deve risolvere con l’individuazione della norma prevalente, mediante i criteri normativi offerti dal nostro ordinamento. Così GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 156.
35
quest’ultimo è un fenomeno legato soltanto alla riduzione o all’eliminazione di
una norma incriminatrice113.
Pertanto l’innovazione legislativa, affinchè possa dar luogo alla vicenda
abrogativa, deve incidere sulla fattispecie astratta di una incriminazione non
rilevando che il suo ambito normativo possa «in concreto» ridursi a seguito di
una nuova o più ampia norma scriminante: in questa ipotesi la modificazione si
ripercuote sull’ordinamento penale in genere e non sulle singole
incriminazioni114.
Al contrario, per aversi il fenomeno abolitivo, ai sensi dell’art. 2 comma 2
c.p., l’innovazione legislativa deve riguardare una norma incriminatrice e non
una norma scriminante che si pone in conflitto con la prima115.
Le modifiche alle norme scriminanti si applicano solo ove il
procedimento penale è ancora in corso, non potendo disciplinare i fatti storici
verificatisi in precedenza alla loro entrata in vigore qualora esista una sentenza
di condanna definitiva e, quindi, esse non possono determinare la revoca della
sentenza di condanna passata in giudicato ai sensi dell’art. 673 c.p.p.
Parte della dottrina ha, infatti, evidenziato che l’applicazione retroattiva
della norma che stabilisce una nuova o più ampia causa di giustificazione non
comporterà il venir meno della sua antigiuridicità esistente al momento del
fatto ma imporrà soltanto che si decida – chiaramente agli effetti penali – come
se quella norma successiva fosse già in vigore al momento della commissione
del fatto, essendo la disciplina più favorevole al reo ex art. 2 comma 4 c.p.116.
113 GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, loc. cit. 114 In questi termini ancora IBIDEM, L'ʹabrogazione, cit., p. 157. 115 Di diverso avviso ROMANO, Commentario, cit., p. 57, a detta del quale se la nuova legge introducesse una causa di giustificazione per alcune delle condotte previste dalla norma, si applicherebbe, con riferimento a quei tipi di comportamento, l’art. 2 comma 2 c.p. In questi termini cfr. VALENTINI, Tre osservazioni sulla disciplina intertemporale (artt. 5, 6 del progetto Pisapia), in www.isisc.org. L’Autore ritiene applicabile la regola di cui all’art. 2 comma 2 c.p. all’introduzione o all’ampliamento di una causa di giustificazione. 116 MARINUCCI, Cause di giustificazione, cit., p. 115.
36
Secondo una diversa impostazione, viceversa, l’introduzione di una
nuova causa di giustificazione o l’allargamento dell’ambito di operatività della
stessa si possono ricondurre direttamente alla disciplina dell’art. 2 comma 2 e 4
c.p. e, perciò, alle regole codicistiche che impongono la retroattività della lex
mitior, travolgendo anche le sentenze definitive di condanna117.
3.4 Abolizione o modificazione del reato?
Arrivati a questo punto della trattazione, non si può fare a meno di
rilevare che non sempre è facile individuare se dall’innovazione legislativa sia
derivata l’abolizione del reato, con la conseguente applicazione dell’art. 2
comma 2 c.p., oppure si sia verificata una semplice modificazione della norma
incriminatrice, con l’applicazione del comma 4 della medesima disposizione.
Si è già avuto modo di notare, che nell’ambito delle successioni delle
leggi penali sussistono tipologie di ipotesi difficili quali:
− la riformulazione della disposizione di legge118;
117 VALENTINI, Cause di giustificazione e abolitio criminis, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, p. 1326. Si veda la posizione contraria di GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 158-‐‑159, il quale esclude che l’applicazione, ai procedimenti in corso, della nuova o più ampia causa di giustificazione possa fondarsi direttamente sul comma 4 della disposizione in esame, poiché la legge nuova è più favorevole. In realtà, il comma 4 riguarda le modifiche di incriminazioni che mantengono la loro illiceità penale, ma sono più favorevoli. Qui non sussiste nessuna modifica di una incriminazione. In particolare l’art. 2 comma 4 c.p. presuppone due norme incriminatrici in successione tra loro che presentino un trattamento giuridico diverso: nell’ipotesi in questione non si ravvisa un fenomeno abolitivo ma di continuità normativa, né si è introdotta un’ipotesi in senso lato di non punibilità di una qualsiasi tipologia di condotta. Secondo l’Autore, infatti, si tratta di un’antinomia in concreto, cioè il conflitto sorge in concreto, in relazione ad un determinato fatto storico e va risolto in relazione a quell’accadimento, non essendo un conflitto che può individuarsi in astratto. Pertanto, per risolvere tale conflitto, individuando la norma prevalente, è necessario far riferimento alle norme antinomiche che vigevano al momento della commissione del fatto. Posto, quindi, che l’antigiuridicità di una condotta deve essere accertata nel momento in cui essa è stata tenuta, allora se in quel momento il caso concreto non ricadeva simultaneamente in due norme in conflitto tra loro non c’è alcuna antinomia normativa. Perciò se all’epoca della sua commissione il fatto era illecito, il fatto era, e rimane, antigiuridico. 118 Come nel caso della riformulazione della bancarotta fraudolenta impropria di cui all’art. 223 comma 2 n. 1 L.fall.
37
− l’abrogazione espressa di una disposizione penale mentre nell’ordinamento è
presente un’altra disposizione, la quale ricomprende i casi abrogati ovvero tutti
i casi della disposizione abrogata119;
− l’abrogazione espressa di una disposizione con contestuale riformulazione di
un’altra, che ricomprende successivamente i casi inclusi (tutti o in parte) nel
testo di legge abrogato120;
− l’abrogazione espressa di una disposizione con la simultanea introduzione di
un’altra che ricomprende i casi inclusi (tutti o in parte) nel testo di legge
abrogato121.
Nel prosieguo andremo, quindi, ad analizzare le diverse teorie che sono
state elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza per distinguere tra
abrogazione e modificazione.
a) Il criterio del fatto concreto.
La prima teoria è rappresentata dalla c.d. valutazione del fatto
concreto122, secondo la quale nel valutare se l’abrogazione di una fattispecie e la
contestuale introduzione di un nuovo reato abbia effettivamente comportato
un’abolitio criminis, si deve procedere ad applicare le due normative al fatto
concreto sub iudice: quindi, se la condotta illecita rientra in entrambe le
119 Per la prima ipotesi si pensi ad esempio all’abrogazione dell’oltraggio ex art. 341 c.p. rispetto al reato di ingiuria di cui all’art. 594 c.p.; per la seconda, invece, all’omicidio per causa d’onore (art. 587 c.p.) e all’omicidio comune ex art. 575 c.p. 120 Cfr. l’interesse privato in atti d’ufficio ex art. 324 c.p. ed il nuovo abuso d’ufficio ai sensi dell’art. 323 c.p. nel 1990; oppure il peculato per distrazione ex art. 314 c.p. e l’abuso d’ufficio. 121 Ad esempio l’espressa abrogazione dell’art. 27 della l. 29 aprile 1949 n. 264, il quale puniva i fatti di illecita mediazione nella fornitura di manodopera, ex art. 85 D.Lvo n. 276 del 2003 ed il contemporaneo inserimento con lo stesso provvedimento normativo, all’art. 18 comma 1 di una fattispecie che punisce l’esercizio abusivo dell'ʹattività di intermediazione. In tal senso GAMBARDELLA, Sub Art. 2, cit., p. 159. Si ricorda che la distinzione tra abolitio criminis e la successione di leggi penali meramente modificative nel casi difficili è ancora più complicata dalla circostanza che non sempre l’abrogazione espressa di una disposizione incriminatrice comporta l’abolizione della rilevanza penale delle condotte in essa tipizzate (verificandosi un'ʹipotesi di abrogatio sine abolitione). 122 Questa tesi è stata elaborata in Germania all’inizio del Novecento ed è stata proposta da OPPENHOF, Das Strafgesetzbuch für das Deutsche Reichsgericht, 13. Aufl, Berlino, 1896, p. 24. In Italia è stata illustrata da PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., p. 148.
38
previsioni, si dovrebbe ragionevolmente concludere che si sia in presenza di
una successione di leggi penali e che il fatto resterebbe penalmente rilevante.
Si segue lo schema logico del brocardo: «prima punibile, dopo punibile;
dunque ancora punibile».
In altri termini, se un fatto concreto costituisce reato sia per la legge
precedente che per quella successiva, il fatto continua a costituire reato e si
applicherà la legge più favorevole al reo (art. 2 comma 4 c.p.),
indipendentemente dalla diversità degli elementi costitutivi o dalla diversità di
nomen juris tra i due reati, non essendo richiesta altresì una continuità tra le
ragioni dell’incriminazione123.
Parte della dottrina critica tale teoria escludendo che si possa ravvisare
una successione modificativa tra le fattispecie incriminatrici che presentano
elementi eterogenei fra di loro, anche ove l’accadimento storico sia sussumibile
sia sotto la fattispecie costituita sia sotto quella nuova124.
Esaminando le regole contenute nell’art. 2 c.p. ed indagando le sue
matrici storiche si può ragionevolmente affermare che la logica codicistica della
successione delle leggi nel tempo è fondata proprio sulla teoria del fatto
concreto125.
Si evidenzia, tuttavia, che aderire a tale tesi, accertando se l’accadimento
in concreto verificatosi sia rilevante penalmente in base sia alla norma sostituita
sia alla norma introdotta al suo posto (o comunque già presente
nell’ordinamento) a prescindere dal confronto tra le relative fattispecie tipiche,
che potrebbero quindi essere costituite anche da requisiti eterogenei, viola il
123 PAGLIARO, Principi di diritto penale, loc. cit. 124 PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1359. 125 GAMBARDELLA, L’art. 2 del codice penale, tra nuova incriminazione, abolitio criminis, depenalilizzazione e successione di leggi nel tempo, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, p. 1195.
39
principio di irretroattività sancito dagli artt. 25 comma 2 Cost e 2 comma 1 c.p.,
attribuendo rilevanza penale ad elementi che prima ne erano privi126.
b) Il criterio dei rapporti strutturali.
Secondo una diversa impostazione, l’interprete per accertare l’abolitio
criminis dovrebbe procedere mediante un confronto strutturale (ossia tra le
strutture normative) fra le fattispecie legali astratte che si succedono nel
tempo127.
Dal momento che le fattispecie legali sono descritte attraverso il
linguaggio, il confronto strutturale tra le fattispecie deve avere ad oggetto le
relative strutture lessicali.
Tale confronto può portare a due esiti contrapposti: la loro omogeneità
ovvero la loro eterogeneità128.
Nel caso in cui il confronto tra le fattispecie legali astratte in successione
temporale metta in luce figure di reato strutturalmente omogenee, si sarà in
presenza di un’abolitio criminis parziale oppure, in caso di modifica avente ad
oggetto oltre alla fattispecie legale astratta anche la sua disciplina, di una
successione di norme modificative, rilevante ai sensi dell’art. 2 comma 4 c.p.129.
126 PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1360; più di recente cfr. GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 217; DEL CORSO, voce Successione di leggi penali, in Dig. disc. pen., vol. XIV, Torino, 1999, p. 99. In giurisprudenza, le stesse Sezioni Unite nella famosa sentenza Giordano hanno affermato che alla tesi in esame «si è giustamente obiettato che è possibile che un fatto concreto rientri per aspetti diversi nella previsione di due norme incriminatici che si succedono, in una situazione cioè in cui in realtà tra le due leggi penali c’è un rapporto di contiguità temporale ma non una coincidenza contenutistica, di modo che debba concludersi che il fatto previsto dalla norma successiva prima non costituiva reato, anche se la nuova legge è diretta a regolare una situazione che in precedenza, ma per aspetti diversi, era regolata dalla norma incriminatrice abrogata. Se si optasse per la continuità quando un fatto concreto commesso sotto il vigore della legge abrogata rientra, per aspetti diversi, nella previsione della nuova legge si farebbe di questa un’applicazione retroattiva, in quanto quel fatto verrebbe punito solo per aspetti che prima erano privi di rilevanza penale»: cfr. Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2003, Giordano, in Cass. pen., 2003, p. 3310, con nota di PADOVANI, Bancarotta fraudolenta impropria e successione di leggi: il bandolo della legalità nelle mani delle Sezioni unite. 127 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 153. 128 PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1369. 129 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 157.
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Si sottolinea che due fattispecie legali astratte sono omogenee non
soltanto nell’ovvio caso in cui siano esattamente identiche, ma anche qualora
descrivano modelli di condotta assimilabili, in quanto riconducibili l’uno
all’altro. Quest’ultima ipotesi si verifica quando sussiste tra le fattispecie in
questione un rapporto di specialità, cioè quella previgente è speciale rispetto a
quella successiva, o viceversa130.
Al contrario, due fattispecie sono strutturalmente eterogenee qualora
descrivano modelli di condotta diversi, cioè condotte tipiche eterogenee,
incentrate su dei comportamenti che sono strutturalmente non assimilabili131:
ciò ricorre non soltanto qualora le figure di reato di cui si tratta non hanno
alcun elemento costitutivo in comune, ma anche quando ne condividono alcuni,
mentre altri sono difformi132.
Se all’esito del confronto strutturale risulta che una fattispecie astratta è
strutturalmente eterogenea rispetto ad un’altra, alla quale sia succeduta, siamo
dinanzi ad un fenomeno di abolitio criminis e all’introduzione di una nuova
figura di reato: i fatti precedentemente commessi non sono più punibili, in
quanto non costituiscono più reato, e le eventuali sentenze di condanna passate
in giudicate devono essere revocate a norma dell’art. 673 c.p.p.; mentre, la
nuova figura di reato, sulla scorta del principio di irretroattività, non può essere
applicata ai fatti commessi prima della sua introduzione133.
All’interno della concezione in esame si collocano anche le Sezioni Unite,
con la già citata decisione Giordano134, le quali hanno chiarito che affinchè «non
vi sia una totale abolizione del reato previsto dalla disposizione formalmente 130 PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1370. 131 PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1369; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 181. 132 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 280; DOLCINI, MARINUCCI, Manuale di diritto penale, cit., p. 116. 133 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 156. Quanto affermato vale di regola e salvo un’altra verifica: in quanto non c’è abolitio criminis qualora, venuta meno la norma incriminatrice abrogata, risulta applicabile al fatto un’altra norma incriminatrice generale, già vigente nell’ordinamento prima della modifica normativa. 134 Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2003, Giordano, cit., p. 3317.
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sostituita (oppure abrogata con la contestuale introduzione di una nuova
disposizione collegata alla prima) occorre che la fattispecie prevista dalla legge
successiva fosse punibile anche in base alla legge precedente, rientrasse cioè
nell’ambito della previsione di questa, il che accade normalmente quando tra le
due norme esiste un rapporto di specialità, tanto nel caso in cui sia speciale la
norma successiva quanto in quello in cui speciale sia la prima. Però se è la
norma successiva ad essere speciale ci si trova in presenza di un'ʹabolizione
parziale, perché l’area della punibilità riferibile alla prima viene ad essere
circoscritta, rimanendone espunti tutti quei fatti che pur rientrando nella norma
generale venuta meno sono privi degli elementi specializzanti. Si tratta di fatti
che per la legge posteriore non costituiscono reato e quindi restano assoggettati
alla regola del secondo comma dell’art. 2 c.p., anche se tra la disposizione
sostituita e quella sostitutiva può ravvisarsi una parziale continuità. Perciò per
questi fatti non opera il limite stabilito dall’ultima parte del terzo comma
dell’art. 2 c.p. e quando è stata pronunciata una condanna irrevocabile il giudice
dell’esecuzione deve provvedere a revocarla a norma dell’art. 673 c.p.p.
Risponde al senso comune, oltre che al disposto dell’art. 2 c.p., la regola
che mantiene la punibilità di un fatto se questo, astrattamente considerato,
rientra nell'ʹambito normativo di due disposizioni che si sono succedute nel
tempo. Quando avviene ciò infatti, e nei limiti in cui avviene, di regola non
opera, e non avrebbe ragione di operare, l’ffetto abolitivo retroattivo della
disposizione successiva»135.
Infatti secondo il Supremo Collegio «il criterio normale deve essere
quello che porta a ricercare un’area di coincidenza tra le fattispecie previste
dalle leggi succedutesi nel tempo, senza che sia necessario rinvenire conferme
della continuità attraverso criteri valutativi, come quelli relativi ai beni tutelati e
alle modalità di offesa, assai spesso incapaci di condurre ad approdi
135 Testualmente in Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2003, Giordano, cit., p. 3318.
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interpretativi sicuri, come dimostrano i numerosi contrasti che si sono
manifestati tanto nella giurisprudenza quanto nella dottrina quando si è trattato
di farne applicazione in numerose recenti vicende legislative in materia
penale»136.
Nel caso di abrogazione di una norma speciale, con possibile espansione
applicativa della preesistente norma generale, a detta delle Sezioni Unite è una
valutazione legislativa meramente negativa della disposizione abrogata, si
tratta infatti di un’ipotesi in cui anche ove si ritenesse applicabile il comma 4
dell’art. 2 c.p, le determinazioni sulla continuità normativa e soprattutto quelle
più specifiche sulla conservazione o sulla revoca di un’eventuale sentenza di
condanna irrevocabile dovrebbero derivare oltre che da criteri strutturali anche
da criteri valutativi137.
c) La teoria della discontinuità del tipo di illecito.
Secondo una terza teoria138 si può avere abrogazione del tipo di illecito
anche quando un singolo comportamento concreto rientri in entrambe le
norme.
In base a tale paradigma, si ammette la possibilità di un’abolizione senza
depenalizzazione: in altri termini, seppure in presenza di alcune tipologie di
incriminazioni riconducibili altresì alla nuova fattispecie penale, i fatti
commessi prima dell’innovazione legislativa – anche se sussumibili all’interno
della nuova ipotesi criminosa e, dunque, tuttora punibili – si ritengono non più
perseguibili, perchè l’incriminazione non esiste più come “tipo di illecito”139.
È necessario, quindi, indagare non soltanto utilizzando il criterio
logico−strutturale tra fattispecie, ma anche usando ulteriori valutazioni che
136 Ancora Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2003, Giordano, loc. cit. 137 Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2003, Giordano, cit., p. 3319. 138 Per un esame approfondito della tesi in esame si veda DONINI, Discontinuità del tipo di illecito e amnistia: profili costituzionali, in Cass. pen., 2003, p. 2877. 139 L’effetto abolitivo si estende anche alle sentenze passate in giudicato. Così AMBROSETTI, Abolitio criminis, cit., p. 169.
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concernono il bene giuridico tutelato e le modalità di offesa: in tal modo, si
aggiungono ai criteri formali anche criteri di tipo sostanziale o valutativi.
Si precisa che in ogni caso l’utilizzo di questi criteri di tipo valutativo non
possono mai sostituirsi all’analisi dei rapporti strutturali tra fattispecie, ma
devono integrare quest’ultima: per tale ragione, è necessario utilizzare
congiuntamente i criteri dell’applicazione in concreto, dei rapporti
logico−strutturali e della continuità del tipo di illecito fondata su parametri più
valutativi come il bene giuridico e le modalità di lesione140.
Gli Ermellini sono giunti perfino ad affermare che, nonostante la nuova
norma sia in rapporto di specialità (criterio formale) e tuteli lo stesso bene
giuridico (criterio sostanziale), qualora vi sia una volontà di politica criminale
di disciplinare in modo innovativo un certo settore penale, la conclusione dovrà
essere necessariamente quella dell’abolizione del tipo di reato141.
Conclusivamente, seguendo questa posizione, per accertare se siamo in
presenza di un fenomeno modificativo o abrogativo è necessario considerare
oltre alla relazione strutturale in cui si trovano le fattispecie incriminatrici
(quindi le modalità di offesa), anche il bene giuridico che tutelano al fine di
ricostruire l’effettiva norma incriminatrice142.
d) La tesi della continuità del tipo di illecito.
Da ultimo, si annovera la teoria c.d. della continuità del tipo di illecito,
secondo la quale ponendo a confronto le due fattispecie astratte di reato, la
nuova legge si presenta modificativa quando, pur abrogando una norma
penale, riproduce (o mantiene ad altro titolo) nel sistema un tipo di reato che
140 DONINI, Discontinuità del tipo di illecito, cit., p. 2878; DONINI, Abolitio criminis e nuovo falso in bilancio. Struttura e offensività delle false comunicazioni sociali dopo il d.lg. 11 aprile 2002, n. 61, in Cass. pen., 2002, p. 1263. 141 Cfr. Cass. pen., sez. un., 13 dicembre 2000, Sagone, in Cass. pen., 2001, p. 2054, con nota di MUSCO, L'ʹabolitio criminis nell'ʹomessa presentazione della dichiarazione annuale di cui al previgente art. 1 comma 1 l. n. 516 del 1982: la svolta delle Sezioni Unite in tema di successione di leggi penali. 142 DONINI, Discontinuità del tipo di illecito, cit. p. 2879. Per le critiche alla teoria esaminata si veda PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 182; PULITANÒ, Legalità discontinua?, cit., p. 1280.
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nel raffronto con il primo mostra, per modalità di condotta ed offesa, uno stesso
nucleo essenziale di disvalore, cioè permane, per lesione del bene giuridico e
violazione dell’obbligo, in un’area di illiceità sostanzialmente corrispondente143.
Ciò comporta che, ove dalla modifica della fattispecie consegua un
radicale abbandono del vecchio bene giuridico tutelato, con l’emergere di una
nuova oggettività giuridica, si deve concludere nel senso dell’abolito criminis144.
Pertanto, fino a quando la nuova norma insiste anche per il futuro su di
un nucleo comune, ovvero su di un disvalore prossimo a quello della norma
abrogata, non vi è alcuna ragione per cui i fatti pregressi riconducibili anche
sotto la nuova norma debbano rimanere impuniti145.
Alla luce di tali considerazioni, qualora la legge successiva generalizzi
quella precedente estendendone l’area di applicazione è evidente che si
determina una continuità dell’illecito: infatti, l’ordinamento pur con una legge
formalmente nuova, conferma il disvalore delle condotte, ampliandone la
portata negativa. La medesima situazione di continuità dell’illecito si riscontra
ove sia una fattispecie successiva a specializzare quella preesistente, in quanto
qui la specializzazione, insistendo su uno schema normativo sino allora
presente, indicherà un ambito sostanzialmente corrispondente, omogeneo a
quello della legge anteriore146.
Quindi, il fenomeno della specializzazione, delimitando ovvero
circoscrivendo la fattispecie, comporta così un’abrogazione parziale: invero la
nuova norma non copre più l’intera area di illecito della norma precedente147.
143 ROMANO, Commentario, cit., p. 62. 144 MUSCO, La riformulazione dei reati. Profili di diritto intertemporale, Milano, 2000, p. 115. 145 ROMANO, Commentario, loc. cit. Critica questa posizione GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 207. 146 ROMANO, Irretroattività della legge penale e riforme legislative: reati tributari e false comunicazioni sociali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2002, p. 1250. 147 ROMANO, Irretroattività della legge penale, cit. p. 1258. In giurisprudenza favorevole alla tesi della continuità del tipo di illecito cfr. Cass. pen., sez. un., 20 giugno 1990, Monaco, in Foro it., 1990, II, p. 637, con nota di FIANDACA, Questioni di diritto transitorio in seguito alla riforma dei reati di interesse privato e abuso innominato di ufficio.
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È doveroso precisare che il tema affrontato in questo paragrafo si è
scontrato anche con il diritto dell’Unione Europea, che come abbiamo già
evidenziato sopra, ha importanti ripercussioni sulla materia della successione
delle leggi penali148.
In particolare si fa riferimento alla riforma che ha investito il reato di cui
all’art. 14 comma 5 ter T.U.Imm., il quale è stato riscritto dalla legge n. 94 del
2009, così come anche il comma 5 quater149.
In data precedente all’emanazione della suddetta legge, tuttavia, era
entrata in vigore la direttiva 16 dicembre 2008, n. 2008/115/CE, del Parlamento e
del Consiglio europeo recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati
membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (la cd.
direttiva rimpatri).
148 Cfr. supra Cap. I, § 2.1. 149 Oggi i commi richiamati dell’art. 14 T.U.Imm. così prevedono «5-‐‑bis. Allo scopo di porre fine al soggiorno illegale dello straniero e di adottare le misure necessarie per eseguire immediatamente il provvedimento di espulsione o di respingimento, il questore ordina allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro il termine di sette giorni, qualora non sia stato possibile trattenerlo in un Centro di identificazione ed espulsione, ovvero la permanenza presso tale struttura non ne abbia consentito l’allontanamento dal territorio nazionale. L’ordine è dato con provvedimento scritto, recante l’indicazione, in caso di violazione, delle conseguenze sanzionatorie. L’ordine del questore può essere accompagnato dalla consegna all'ʹinteressato, anche su sua richiesta, della documentazione necessaria per raggiungere gli uffici della rappresentanza diplomatica del suo Paese in Italia, anche se onoraria, nonché per rientrare nello Stato di appartenenza ovvero, quando ciò non sia possibile, nello Stato di provenienza, compreso il titolo di viaggio. 5-‐‑ter. La violazione dell'ʹordine di cui al comma 5-‐‑bis è punita, salvo che sussista il giustificato motivo, con la multa da 10.000 a 20.000 euro, in caso di respingimento o espulsione disposta ai sensi dell’articolo 13, comma 4, o se lo straniero, ammesso ai programmi di rimpatrio volontario ed assistito, di cui all'ʹarticolo 14-‐‑ter, vi si sia sottratto. Si applica la multa da 6.000 a 15.000 euro se l'ʹespulsione è stata disposta in base all’articolo 13, comma 5. Valutato il singolo caso e tenuto conto dell'ʹarticolo 13, commi 4 e 5, salvo che lo straniero si trovi in stato di detenzione in carcere, si procede all'ʹadozione di un nuovo provvedimento di espulsione per violazione all'ʹordine di allontanamento adottato dal questore ai sensi del comma 5-‐‑bis del presente articolo. Qualora non sia possibile procedere all’accompagnamento alla frontiera, si applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e 5-‐‑bis, nonché, ricorrendone i presupposti, quelle di cui all’articolo 13, comma 3». Si precisa che queste disposizioni sono state prima modificate dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 e successivamente così sostituiti dal D.L. 23 giugno 2011, n. 89, come modificato dalla legge di conversione 2 agosto 2011, n. 129.
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Mediante la normativa richiamata, l’Unione Europea ha tracciato una
normativa comune in materia per tutti gli Stati aderenti, assegnando agli stessi
il termine fino al 24 dicembre 2010 per l’adeguamento degli ordinamenti
nazionali150.
Immediatamente sorsero dubbi sulla compatibilità della normativa
interna con quella comunitaria, confermati anche dalla decisione della Corte di
Giustizia del 2011151, con la quale è stato evidenziato che osta con gli artt. 15 e 16
della direttiva la normativa di uno Stato membro, come nel caso di specie l’art.
14 comma 5 ter T.U.Imm., che irroghi la pena della reclusione al cittadino di un
Paese terzo irregolarmente soggiornante soltanto perchè questi permane nel
territorio dello stato senza giustificato motivo in violazione di un ordine di
lasciarlo entro un determinato termine.
Soltanto a distanza di sei mesi dalla scadenza del termine ricordato per
l’adeguamento, il legislatore italiano ha provveduto ad uniformarsi con il D.L.
23 giugno 2011 n. 89152, convertito con modificazione in legge 2 agosto 2011 n.
129153.
L’intervento del legislatore ha sollevato il dubbio che si trattasse di una
nuova incriminazione o di una mera modifica del profilo sanzionatorio per la
difficile collocazione dell’incompatibilità comunitaria nel contesto del sistema
delle fonti.
150 DEGL’INNOCENTI, ANTONUCCIO, L’art. 14, c. 5-‐‑ter e 5-‐‑quater, TUIMM, l’incompatibilità comunitaria e la successione di leggi penali nel tempo, in Riv. pen., 2012, 11, p. 1066. 151 Cfr. CGE, sez. I, 28 aprile 2011, n. 61, in www.eur-‐‑lex.europa.eu. 152 «Disposizioni urgenti per il completamento dell’attuazione della direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari». 153 Sul tema si veda per tutti PISA, Nuove norme penali in tema di immigrazione irregolare, in Dir. pen. proc., 2011, p. 800.
47
Pertanto, la questione posta dalla novella consisteva nell’applicabilità
della nuova formulazione dei reati ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore
del decreto legge154.
Con l’intervento del D.L. n. 89/2011 si sono susseguite due distinte
vicende modificative, costituite rispettivamente dall’incompatibilità
sopravvenuta con la disciplina comunitaria e dalla successiva riforma, con la
sostituzione di pene pecuniarie alla sanzione detentiva originariamente
comminata: quindi, la questione andava rimeditata tenendo conto del
richiamato jus superveniens e alla luce dei principi in materia di successione di
leggi penali nel tempo155.
A fronte di una variegata risposta in seno alla dottrina156, la Suprema
Corte ha negato la continuità normativa facendo riferimento al distacco
temporale, alla diversità strutturale e alla differente tipologia delle condotte,
oltre che alla modifica del procedimento amministrativo che precede
l’intimazione di allontanamento, confermando quindi l’avvenuta abolitio
criminis157.
3.5 La depenalizzazione
Al concetto di abolitio criminis, inteso come abrogazione di una norma
incriminatrice, si deve ricondurre anche il fenomeno della depenalizzazione (in
154 Ciò era stato evidenziato anche dalla Corte costituzionale investita della medesima questione del rapporto tra l’art. 14 commi 5 ter e 5 quater D.Lvo 286/1998 e direttiva rimpatri risolta in via pregiudiziale dalla Corte di giustizia europea. 155 Cfr. Corte cost., ord., 21 novembre 2011, n. 311. 156 Per una disamina delle teorie si veda DEGL’INNOCENTI, ANTONUCCIO, L'ʹart. 14, c. 5-‐‑ter e 5-‐‑quater, TUIMM, cit., p. 1067. 157 In tal senso Cass. pen., sez. I, 10 ottobre 2011, n. 36446, in Cass. pen., 2012, p. 49; Cass. pen., sez. I, 10 ottobre 2011, n. 36451, in www.penalecontemporaneo.it; Cass. pen., sez. I, 10 maggio 2012, n. 17544, inedita.
48
senso stretto): cioè la degradazione legislativa dell’illecito penale in illecito
amministrativo158.
Anche qui, come per l’abolitio criminis ai sensi dell’art. 2 comma 2 c.p.,
viene eliminata dall’ordinamento giuridico una norma incriminatrice, ma il
legislatore contestualmente inserisce una figura di illecito amministrativo159.
Entrambi i fenomeni coincidono da un punto di vista logico−formale, in
quanto vi è sempre un’abrogazione di una norma incriminatrice per intervenuta
incompatibilità tra la norma previgente e quella successiva che prevale (stessa
fattispecie legale, conseguenze opposte: sanzione penale/sanzione non penale).
Tuttavia, si riduce l’area del penalmente illecito160.
Anche la giurisprudenza condivide questa impostazione, affermando che
in caso di cessazione del carattere penale della violazione a seguito di
depenalizzazione si applica l’art. 2 comma 2 c.p., con la conseguente cessazione
degli effetti penali della condanna irrevocabile eventualmente pronunciata161.
Pertanto, per gli illeciti penali depenalizzati l’autorità giudiziaria deve
dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato ai sensi dell’art.
2 comma 2 c.p., per il quale nessuno può essere punito per un fatto che, secondo
una legge posteriore, non costituisce reato162.
È opportuno notare che la disciplina della successione modificativa di
leggi penali ex art. 2 comma 4 c.p. non può essere estesa al passaggio di un
illecito da penale ad amministrativo (o civile): infatti, nessuna continuità
158 GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 143. 159 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 269. 160 CANESTRARI, CORNACCHIA, DE SIMONE, Manuale di diritto penale. Parte generale, Bologna, 2007, p. 148. 161 Cfr. Cass. pen., 18 aprile 1985, Piccolo, in Cass. pen., 1986, p. 1547. 162 Cass. pen., sez. un., 16 marzo 1994, Mazza, in Cass. pen., 1994, p. 2659. Di conseguenza, qualora il fatto per cui è intervenuta condanna irrevocabile sia stato depenalizzato, l’interessato può chiedere al giudice dell’esecuzione la revoca della relativa sentenza o del decreto penale di condanna ai sensi dell’art. 673 c.p.p.
49
normativa sussiste nella trasformazione di una fattispecie costituente reato in
un mero illecito amministrativo163.
Infatti, la disposizione da ultimo citata disciplina soltanto l’ipotesi di
successione tra norme incriminatrici, e non quella in cui sopravvenga una legge
che trasformi il fatto costituente reato in illecito amministrativo164.
Tale soluzione è condivisa, altresì, dalla celebre pronuncia delle Sezioni
Unite Mazza165, in cui si è ritenuto che il principio della retroattività della norma
più favorevole, che assicura al cittadino il trattamento penale più mite tra quello
previsto dalla legge penale vigente al momento del fatto e quello previsto dalle
leggi successive, purchè precedenti la sentenza definitiva di condanna, opera
soltanto con riferimento all’ipotesi della successione tra fattispecie
incriminatrici, e non è estensibile al caso della successione che degradi un fatto
previsto come illecito penale a illecito amministrativo.
Dunque, l’art. 2 comma 4 c.p. non si applica alle sanzioni amministrative:
sia nell’ipotesi in cui ad una legge che prevede una sanzione amministrativa ne
succeda un’altra dello stesso tipo, sia nell’ipotesi in cui ad una legge che puniva
determinate violazioni con la sanzione penale se ne avvicendi una che punisce
le stesse violazioni con la sanzione amministrativa166.
Nonostante l’illecito amministrativo che sostituisce l’illecito penale non
possa, come norma favorevole, applicarsi ai fatti avvenuti prima della sua
entrata in vigore in base alla regola di cui all’art. 2 comma 4 c.p., il nuovo
illecito amministrativo può al contrario applicarsi retroattivamente se una legge
lo prevede espressamente: è, quindi, necessaria una norma ad hoc che imponga
retroattivamente l’applicazione dell’illecito depenalizzato.
163 PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1382; GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 150. 164 Cass. pen., sez. V, 5 marzo 2004, n. 21064, in CED, 229236; Cass. pen., sez. III, 3 maggio 1996, n. 5617, in Cass. pen., 1998, p. 813, con nota di GARGIULO, Sulla successione di leggi sanzionatorie nel caso di depenalizzazione. 165 Cfr. Cass. pen., sez. un., 16 marzo, 1994, Mazza, cit. 166 Ancora Cass. pen., sez. un., 16 marzo, 1994, Mazza, cit.
50
Tale necessità deriva dal principio di irretroattività sancito dall’art. 1
della legge n. 689 del 1981167, in base al quale l’illecito amministrativo non si
applica retroattivamente, cioè ai fatti avvenuti prima dell’entrata in vigore della
disposizione che lo ha previsto168.
Da ciò ne consegue che in mancanza di una norma in tal senso, si
configura una chiara irrilevanza, anche sotto il profilo amministrativo, dei fatti
già costituenti reato commessi prima della depenalizzazione169.
Si evidenzia che, da un punto di vista pratico, è opportuno derogare al
canone dell’irretroattività della sanzione amministrativa in presenza di una
depenalizzazione per evitare che un comportamento prima punito con sanzione
penale e poi represso solo con sanzione amministrativa risulti non sanzionabile
in alcun modo: in particolare, la sanzione penale non è più applicabile non
essendo più in vigore nel procedimento penale ancora non irrevocabilmente
definito, né a sua volta risulta applicabile la sanzione amministrativa che non
era vigente quando venne posta in essere la condotta illecita170.
Tale impostazione è stata accolta, altresì, dalle già citate Sezioni Unite
Mazza in cui si è osservato che, in mancanza di specifiche norme transitorie,
l’autorità giudiziaria deve dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge
come reato ai sensi dell’art. 2 comma 2 c.p., senza dover rimettere gli atti
all’autorità amministrativa competente e ciò sia in virtù del principio di legalità
dell’illecito amministrativo consacrato nell’art. 1 della legge n. 689 del 1981, sia
per l’assenza di norme transitorie analoghe a quelle negli artt. 40 e 41 della
167 Il quale testualmente prevede: «Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati». 168 PALIERO, TRAVI, La sanzione amministrativa, Milano, 1988, p. 173. 169 GALLUCCI, Commento alla depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio (l. n. 205 del 1999), sub art. 102, in Leg. pen., 2001, p. 973; PALIERO, TRAVI, La sanzione amministrativa, cit., p. 177. 170 AGHINA, La disciplina transitoria e le norme finali, in LATTANZI, LUPO (a cura di), Depenalizzazione e nuova disciplina dell'ʹillecito amministrativo, Milano, 2001, p. 319.
51
legge citata, la cui operatività è limitata agli illeciti da essa depenalizzati e non
riguarda, quindi, gli altri casi di trasformazione di reati in illeciti
amministrativi171.
Non si può fare a meno di richiamare l’attenzione sulla recentissima
pronuncia delle Sezioni Unite del 2012172, in cui era stata rimessa una questione
circa la sussistenza o meno dell’obbligo per il giudice penale di trasmettere gli
atti all’autorità amministrativa qualora avesse accertato che il fatto di reato
contestato era stato depenalizzato successivamente alla sua commissione e non
era stata disposta nessuna specifica norma transitoria.
Anche in quest’occasione si sono ribaditi i principi poc’anzi illustrati
chiarendo in un passaggio ben motivato della decisione che «il principio di cui
all’art. 2 c.p., comma 4 (retroattività della legge più favorevole al reo), in
particolare, non è stato recepito nella L. n. 689 del 1981, art. 1 e non è estensibile
alla disciplina della “successione” dell’illecito amministrativo rispetto all’illecito
penale, essendo, invece, necessarie apposite norme, affidate alla discrezionalità
del legislatore ordinario (pur sempre nel rispetto del principio di
ragionevolezza ex art. 3 Cost.), per poter superare l’autonomo principio
d'ʹirretroattività, vigente per il primo tipo d’illecito ai sensi della L. n. 689 del
1981, art. 1, peraltro estraneo alla costituzionalizzazione ex art. 25 Cost., comma
2, che riguarda solo quello penale.
b) In assenza di disposizioni transitorie espresse, va escluso che si possa
fare riferimento alla L. n. 689 del 1981, artt. 40 e 41 intesi quali norme generali di
inquadramento valide per tutti i futuri casi di depenalizzazione.
Tenuto conto del contenuto dei lavori preparatori della legge di
depenalizzazione del 1981, va rilevato che una deroga all’irretroattività era stata
inizialmente prevista nell’art. 1, comma 3 evidentemente come correttivo di
171 Così Cass. pen., sez. un., 16 marzo, 1994, Mazza, cit. 172 Cass. pen., sez. un., 28 giugno 2012, n. 25457, in Dir. pen. e proc., 2012, 10, p. 1211, con nota di BIANCHI, La cd. “successione impropria”: una questione di garanzie.
52
fondo parallelo al principio generale dell'ʹirretroattività sancito nei primi due
commi.
È stato proprio il legislatore dell’epoca, però, per il dichiarato scopo di
non creare equivoci, ad eliminare dall’art. 1 quella disposizione che ricollegava
un “effetto retroattivo” alla “depenalizzazione” (sebbene si trattasse di una
norma contra reum e non a suo favore) ed a darle invece un'ʹautonoma
collocazione, ben lontana da quella riservata ai principi generali e divergente
rispetto al generale principio di irretroattività, nell’art. 40 sotto l'ʹanonima
rubrica “Disposizioni transitorie e finali”. Si è voluto così sottolineare il
carattere del tutto eccezionale della norma transitoria, derivante dal
collegamento con il fenomeno della “depenalizzazione”, che veniva all’epoca
considerato come destinato storicamente ad esaurirsi.
La soluzione della non retroattività, dunque, è stata ritenuta e deve
ritenersi ragionevole alla luce della riconosciuta applicabilità al sistema
amministrativo dei principi di legalità e di irretroattività, e ciò a salvaguardia di
esigenze di fondo della regolamentazione dei rapporti tra autorità dello Stato e
libertà del cittadino»173.
4. LE NOVITÀ INTRODOTTE DALLA LEGGE N. 85 DEL 2006
L’art. 14 della legge 24 febbraio 2006 n. 85174 ha inserito il nuovo comma
3175 alla disposizione codicistica in commento: il legislatore ha introdotto una
disciplina che fa eccezione alla regola generale della non applicabilità
173 Testualmente Cass. pen., sez. un., 28 giugno 2012, n. 25457, cit. 174 Intitolata «Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione». 175 Art. 2 comma 3 c.p. prevede testualmente: «Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135».
53
retroattiva della legge più favorevole al reo in caso di successione modificativa,
qualora sia presente una sentenza di condanna irrevocabile176.
È doveroso notare che la nuova disposizione è stata erroneamente
inserita all’interno dell’originaria sequenza di regole contenuta nell’art. 2 c.p.
La dottrina stessa ha evidenziato che il nuovo comma che introduce una
deroga alla regola generale della immodificabilità del giudicato nella
successione modificativa, avrebbe dovuto essere collocato dopo la regola
(quindi come nuovo comma 4) e non prima (come nuovo comma 3), come
viceversa ha fatto il legislatore del 2006177.
L’innovazione legislativa riguarda soltanto le ipotesi di sostituzione della
pena detentiva originaria con la sola pena pecuniaria: perciò sono esclusi i casi
di passaggio da una comminatoria alternativa di pena detentiva e pecuniaria,
nonchè le ipotesi di sensibile riduzione del limite massimo della pena
detentiva178.
In base alla nuova disciplina la legge più favorevole al condannato si
applica retroattivamente ove la condanna sia a pena detentiva e la legge
posteriore preveda soltanto la pena pecuniaria: per «condanna a pena
detentiva» si intende una sentenza definitiva, ossia irrevocabile, passata in
giudicato179.
Pertanto, in questo caso la pena detentiva si converte immediatamente in
pena pecuniaria ai sensi dell’art. 135 c.p.: vale a dire 250 euro di pena
pecuniaria equivalgono ad un giorno di pena detentiva.
176 GAMBERINI, INSOLERA, Legislazione penale compulsiva, buone ragioni ed altro. A proposito della riforma dei reati di opinioni, in INSOLERA (a cura di), La legislazione penale compulsiva, Padova, 2006, p. 142. 177 Per tutti si veda AMATO, Scardinata l’intangibilità del giudicato, in Guida dir., 2006, 14, p. 29; PASCARELLI, La riforma dei reati d'ʹopinione: un commento alla nuova disciplina, in Ind. pen., 2006, p. 714; PELISSERO, Osservazioni critiche sulla legge in tema di reati di opinione: occasioni mancate e incoerenze sistematiche, in Dir. pen e proc., 2006, p. 1207. 178 DOLCINI, MARINUCCI, Artt. 1-‐‑240, cit., p. 102. 179 GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 78.
54
Si è precisato che, nonostante non sia stato espressamente previsto, nella
conversione della pena detentiva in pecuniaria l’ammontare di quest’ultima
non può superare il limite massimo della pena pecuniaria stabilito dalla nuova
legge. Cosicchè, se il risultato della commutazione eccede questo limite, il
giudice deve ridurre la pena pecuniaria da applicare entro il limite massimo
della pena pecuniaria comminata180.
A proposito del procedimento, competente ad effettuare la conversione è
il giudice dell’esecuzione, che procederà su richiesta del pubblico ministero,
dell’interessato o del suo difensore, con le modalità di cui all’art. 666 c.p.p.181.
La conversione deve avvenire, secondo il dettato legislativo,
«immediatamente», con la conseguenza che ove il condannato stia scontando la
pena il giudice deve sospenderne l’esecuzione, disponendo la liberazione
dell’interessato, analogamente a quanto previsto dall’art. 670 c.p.p. per l’ipotesi
in cui accerti che la sentenza o il decreto penale di condanna non sono divenuti
esecutivi. Viceversa, negli altri casi la tempestività del provvedimento di
conversione si impone per evitare l’inizio dell’esecuzione di pene detentive
destinate ad essere convertite in pena pecuniaria182.
5. LE LEGGI ECCEZIONALI E TEMPORANEE
Il principio della retroattività della legge penale più favorevole, non vale
qualora si tratti di leggi eccezionali o temporanee, ai sensi dell’art. 2 comma 5
c.p.183.
180 DOLCINI, MARINUCCI, Artt. 1-‐‑240, cit., p. 102; PADOVANI, Diritto penale, IX ed., Milano, 2008, p. 42. 181 DOLCINI, MARINUCCI, Artt. 1-‐‑240, cit., pag. 103. 182 ID., Artt. 1-‐‑240, loc. cit. 183 ID., Manuale di diritto penale, cit., p. 117.
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Pertanto, non si applicheranno al passato gli effetti favorevoli della legge
eccezionale o temporanea che direttamente introduca un trattamento più
favorevole184 e neppure quelli provocati dall’eliminazione della stessa legge dal
sistema, che qui assume il carattere dell’ultrattività185.
La previsione all’interno della disciplina della successione delle leggi
penali di una norma ad hoc in tema di leggi eccezionali e temporanee
rappresenta una novità del codice Rocco rispetto al codice Zanardelli186.
È doveroso, quindi, fornire una definizione di queste leggi.
Le leggi eccezionali sono quelle emanate per fronteggiare situazioni
oggettive di carattere eccezionale, la cui disciplina è dunque legata a tali
situazioni di fatto187.
Viceversa, le leggi temporanee sono quelle che hanno vigore entro un
limite di tempo da esse stesse determinato188.
Tuttavia, parte della dottrina definisce queste ultime come delle leggi che
contengono la predeterminazione espressa del periodo di tempo in cui avranno
vigore189, cioè leggi la cui vigenza è sottoposta ad un termine esplicito prefissato
dal legislatore stesso190.
La ratio della disposizione in esame si rinviene nella necessità di
salvaguardare l’efficacia generalpreventiva delle leggi eccezionali e
temporanee, che altrimenti sarebbe compromessa dalla preventivabile
disapplicazione della disciplina normalmente più rigorosa in esse contenuta, in
184 Vale a dire mitigare l’aspetto sanzionatorio, sia nel senso di determinare una abolitio criminis. 185 PECORELLA, L’efficacia nel tempo della legge penale favorevole, Bologna, 2008, p. 7. 186 CAPUTO, Quale disciplina per la successione di leggi temporanee?, in Cass. pen., 2009, p. 510. 187 Cfr. Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, Roma, 1929, vol. V, pt. I, p. 24. Per tali eventi si fa riferimento a guerre, epidemie, terremoti ecc. 188 Così Lavori preparatori, cit., p. 24. 189 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 283. 190 In tal senso MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 88.
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conseguenza dello scadere del periodo di vigenza che implicitamente o
esplicitamente è loro assegnato191.
Pertanto, tali leggi si continuano ad applicare ai fatti commessi durante
la loro vigenza, anche se tale fatti non costituiscono più reato per la legge
ordinaria successiva, o sono da essa assoggettati ad una disciplina più
favorevole192.
Ove la legge temporanea o eccezionale subentri al posto di un’altra legge
dello stesso genere ed abbia sia la medesima ratio sia risponda ad una logica di
una più organica disciplina dell’identica peculiare situazione di fatto, manca il
pericolo di una preventiva svalutazione dell’efficacia intimidatoria della legge
temporanea o eccezionale e non sussiste, per tale ragione, alcun motivo per
disattendere il principio della retroattività della legge penale favorevole,
applicandosi di conseguenza i commi 2 e 4 dell’art. 2193.
Si sottolinea che alcuni Autori, al contrario, ritengono che il principio di
retroattività della legge favorevole non vale neanche qualora sia la medesima
situazione di emergenza a perdurare nel tempo e si palesi opportuno un
191 Lavori preparatori, cit., p. 23. Ampiamente sull'ʹintroduzione della disposizione de qua si veda VASSALLI, Successione di più leggi eccezionali, in Riv. it. dir. pen., 1943, p. 207. 192 DOLCINI, MARINUCCI, Artt. 1-‐‑240, cit., p. 115. 193 In giurisprudenza cfr. Cass. pen., sez. I, 27 maggio 2008, n. 26316, in Cass. pen., 2009, p. 508, con nota di CAPUTO, Quale disciplina, cit., in cui si era affrontato il problema dell’individuazione della disciplina (del codice penale di guerra ovvero di quello di pace) applicabile al fatto commesso nella vigenza della normativa anteriore alla legge n. 274 del 2006 ma giudicato successivamente ad essa. Il Supremo Collegio in quell’occasione ha risolto la questione nel senso dell’applicabilità della più favorevole normativa prevista dal codice penale militare di pace. La pronuncia, nel caso di specie, esclude l’applicabilità della disciplina derogatoria di cui all’art. 2 comma 5 c.p. che «rispondente alla necessità di salvaguardare l’efficacia general-‐‑preventiva delle leggi eccezionali e temporanee, non trova ragione alcuna di applicazione allorquando trattasi di norme parimenti temporanee od eccezionali succedutesi l’una all'ʹaltra durante il decorso del termine di vigenza ovvero durante la permanenza della situazione eccezionale, aventi la medesima ratio e dirette ad una migliore messa a punto della normativa destinata a fronteggiare la medesima situazione. In siffatti casi, invero, la norma posteriore, proprio perchè emanata durante il perdurare della situazione che aveva imposto la normativa temporanea o eccezionale e proprio perchè rispondente alle medesime esigenze temporanee ed eccezionali, non si pone in contrasto con le ragioni sottese alla emanazione della normativa eccezionale o temporanea ma, lungi dall’essere volta al ripristino della legge ordinaria, è di contro tesa ad una più organica regolamentazione della situazione temporanea od eccezionale».
57
secondo provvedimento sostitutivo di quello precedente, poiché l’applicabilità
di una legge eccezionale ai fatti commessi mentre era in vita è un dato naturale
che nessuna norma del nostro sistema smentisce194.
Diversa è l’ipotesi in cui la nuova legge, eccezionale o no, succeda ad
un’altra legge, eccezionale oppure no. Ci si chiede, quindi, se essa stessa possa
disporre la sua retroattività, in quanto più favorevole al reo: qui la risposta sarà
positiva, poichè non si oppone alcun ostacolo di carattere costituzionale195.
6. IL DECRETO LEGGE NON CONVERTITO O CONVERTITO CON
EMENDAMENTI
L’originario comma 5 dell’art. 2 c.p. (oggi comma 6) dichiarava
applicabili le diverse disposizioni dettate in materia di successione di leggi
penali nel tempo anche a quella particolare ipotesi di successione che si
realizzava nei casi di decadenza o di mancata ratifica del decreto legge così
come della sua conversione in legge con emendamenti196.
Tale disposizione era in linea con la facoltà che era stata riconosciuta al
potere esecutivo dall’art. 3 della legge 31 gennaio 1936, n. 100, di emanare
decreti legge, la cui immediata efficacia obbligatoria non poteva più essere
posta nel nulla, neppure in caso di decadenza o di mancata ratifica da parte del
Parlamento poiché era prevista solo la perdita di efficacia ex nunc197.
L’entrata in vigore della Costituzione, in particolare l’art. 77 comma 3
Cost., ha sancito la perdita di efficacia ex tunc dei decreti legge non convertiti
entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione, salvo il potere delle Camere di
194 PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., p. 137; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 97. 195 ROMANO, Commentario, cit., p. 72. 196 Lavori preparatori, cit., p. 24. 197 DOLCINI, MARINUCCI, Artt. 1-‐‑240, cit., p. 117.
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regolare con legge i rapporti giuridici che siano sorti sulla base di tali
provvedimenti poi non convertiti.
La cessazione dell’efficacia ex tunc comporta, quindi, che gli stessi
debbano reputarsi come mai esistiti, con la conseguenza che non vi è alcuna
successione di legge in senso proprio198.
Sull’originaria disposizione è intervenuta la Corte costituzionale con la
celebre sentenza del 1985 n. 51199, con la quale è stato dichiarato
costituzionalmente illegittimo l’art. 2 comma 6, in relazione all’art. 77 ultimo
comma Cost., nella parte in cui rende applicabili le disposizioni in tema di
successione di leggi di cui agli attuali commi 2 e 4 dell’art. 2 c.p., in caso di
mancata conversione di un decreto legge che comprende una norma penale
favorevole e in caso di un decreto avente analogo contenuto convertito in legge
con emendamenti che implicano in parte la mancata conversione.
Il Giudice delle leggi ha pertanto, chiarito che «la norma impugnata
(comma quinto dello stesso art. 2 c.p.), ravvisando la ricorrenza di un fenomeno
identico o analogo al primo e adottando il trattamento di questo (cioè rendendo
applicabili le disposizioni suindicate) nel caso di sopravvenienza di una norma
contenuta in un “decreto−legge non convertito”, si pone in contrasto con l’art.
77, ultimo comma, Cost. e va pertanto dichiarata illegittima.
La conclusione […] deve intendersi formulata (secondo l'ʹimpostazione
data alla questione di legittimità costituzionale) limitatamente alla sancita
applicabilità delle disposizioni di cui ai commi secondo e terzo art. 2 c.p. al caso
del “decreto-‐‑legge non convertito”, e quindi alla sancita operatività della
“norma penale favorevole”, se in esso contenuta, relativamente ai “fatti
pregressi”. A questi soltanto, d'ʹaltronde, le cennate disposizioni si riferiscono, e
in relazione a tali fatti soltanto è avvertita con particolare intensità l'ʹesigenza di
198 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 284; ROMANO, Commentario, cit., p. 73; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 98. 199 Cfr. Corte cost., 22 febbraio 1985, n. 51, in Giust. pen., 1985, I, p. 132.
59
una visuale riduttiva degli effetti del decreto-‐‑legge, in quanto connessa a quella
di impedire manovre governative “indirette”, discriminatrici o mitigatrici del
trattamento di fatti costituenti reato individuati o individuabili, destinate
altrimenti al successo malgrado l’esito negativo del controllo parlamentare.
Non viene qui − com’è ovvio − in considerazione (sempre secondo la
suddetta impostazione) alcun problema concernente l’operatività della “norma
penale favorevole”, introdotta con “decreto−legge”, relativamente ai fatti
commessi durante il vigore − anche se provvisorio − di esso»200.
Pertanto alla luce del passaggio della pronuncia riportato: per i fatti
concomitanti, le norme dei decreti legge non convertiti si applicano se più
favorevoli201; viceversa, per i fatti pregressi trova applicazione la legge in vigore
al momento del fatto202.
Inoltre, la mancata conversione di un decreto legge contenente una
norma incriminatrice comporta, applicando il principio di cui all’art. 77 comma
3 Cost., la perdita di efficacia, fin dall’inizio, della suddetta norma: di
conseguenza il fatto in essa previsto non potrà più essere considerato come
reato, quando sia stato commesso nel periodo di vigenza dello stesso decreto
legge, a nulla rilevando che quest’ultimo sia stato, alla scadenza, sostituito da
un altro decreto legge, poi convertito, contenente analoga disposizione203.
Nel caso in cui si verifichi la reiterazione di un decreto legge decaduto, la
perdita di efficacia ex tunc delle disposizioni del decreto non convertito non può
essere infatti impedita dalla circostanza che disposizioni di identico tenore
200 Così testualmente Corte cost., 22 febbraio 1985, cit. 201 In tal senso Cass. pen., 18 febbraio 1995, Mondini, in Cass. pen., 1996, p. 503, ove la Suprema Corte ha chiarito che, in materia tributaria, devono ritenersi efficaci le dichiarazioni integrative di sanatoria degli illeciti presentate durante la vigenza del d.l. 27 aprile 1992, n. 269 e 25 giugno 1992, n. 319. 202 Per una diversa impostazione si veda ROMANO, Commentario, cit., p. 73. L'ʹAutore, infatti, afferma che la norma favorevole del decreto legge poi convertito non si può applicare nemmeno ai fatti concomitanti, essendo venuto meno definitivamente ex tunc. 203 Cass. pen., sez. I, 4 ottobre 1993, n. 3869, in CED, 195566.
60
siano contenute in un nuovo decreto legge, sia esso entrato in vigore il
medesimo giorno della decadenza del precedente o successivamente204.
In relazione al caso in cui la legge di conversione abbia introdotto
disposizioni che modificano quelle dettate dal decreto legge, è necessario
distinguere tra emendamenti innovativi, soppressivi e modificativi: ai secondi e
ai terzi si attribuisce efficacia abrogativa o sostitutiva della norma originaria ex
tunc, viceversa ai primi si dovrà attribuire efficacia di validità temporale ex
nunc, ossia dal momento dell’entrata in vigore della legge di conversione,
momento che coincide con quello della pubblicazione della stessa, non essendo
concettualmente compatibile l’immediata efficacia da riconoscersi a questo
provvedimento con il periodo di una vacatio legis durante la quale la materia,
pure ritenuta di urgente regolamentazione, resterebbe invece senza disciplina205.
7. LA DICHIARAZIONE DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DI UNA
NORMA INCRIMINATRICE
Una situazione analoga a quanto visto in caso di decreto legge non
convertito si ha nel caso di dichiarazione di illegittimità di una norma da parte
della Corte costituzionale, in cui non si determina una successione di leggi
204 Ex multis circa l’ipotesi di disposizioni incriminatrici o comunque meno favorevoli al reo, contenute sia nel decreto legge decaduto che in quello reiterato, Cass. pen., sez. I, 16 dicembre 1997, n. 7058, in CED, 209351; Cass. pen., sez. I, 22 maggio 1996, Sakho, in Riv. pen., 1996, p. 1096. Nello stesso senso in relazione all’ipotesi in cui sia intervenuta una legge a regolamentare i rapporti sulla base del decreto non convertito facendone salvi gli effetti, Cass. pen., sez. I, 22 aprile 1999, Litim, in Cass. pen, 2000, p. 2642; di diversa opinione, Cass. pen., sez. I, 27 febbraio 1995, Pangrazi, in CED, 202065, in cui si afferma l’esistenza di un fenomeno di successione di leggi penali disciplinato dall’art. 2 c.p., nel caso di reiterazione di decreti legge non esaminati dal Parlamento e succedutisi nel tempo senza soluzioni di continuità. 205 Cfr. Cass. pen., sez. I, 20 settembre 1993, n. 3443, in Cass. pen., 1995, p. 2890. Di conseguenza con la legge di conversione del decreto legge possono essere apportati tre specie di emendamenti: 1) innovativi, i quali entrano in vigore dalla data di conversione della legge; 2) soppressivi, che eliminano la norma soppressa ex tunc; 3) sostitutivi, i quali entrano in vigore fin dall’origine, sostituendo con effetto retroattivo la norma soppressa.
61
penali alla quale sia applicabile l’art. 2 c.p.206, in quanto la legge dichiarata
incostituzionale perde efficacia ex tunc e va quindi considerata come mai
esistita207.
Tuttavia, l’annullamento di una norma incriminatrice che consegue alla
dichiarazione della sua illegittimità costituzionale deve tenersi distinto dal
fenomeno dell’abrogazione208.
Infatti, mentre quest’ultimo si fonda sul criterio cronologico, il primo
trova la sua ragione d’essere nel criterio gerarchico: pertanto, in caso di conflitto
tra norme provenienti da fonti disposte su gradi diversi nella gerarchia delle
fonti, la norma gerarchicamente inferiore si considererà priva di validità209.
La giurisprudenza ha specificato che i due fenomeni vanno tenuti distinti
sia concettualmente che giuridicamente: l’abrogazione di una norma o di una
disposizione ricade nella normalità dell’evoluzione di qualunque ordinamento;
la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma investe un evento
che al contrario riguarda la patologia ordinamentale.
La norma illegittima è espunta dall’ordinamento perchè inficiata di
un’invalidità originaria che ne ha condizionato l’applicazione e che giustifica la
proiezione sui rapporti giuridici pregressi, che da tale norma incostituzionale
siano stati disciplinati, della pronuncia di incostituzionalità, eliminando
definitivamente dall’ordinamento una norma geneticamente nata morta210.
In ordine agli effetti, mentre – di regola – l’abrogazione opera ex nunc,
l’annullamento che deriva da una dichiarazione di illegittimità costituzionale
206 ROMANO, Commentario, cit., p. 75. 207 Si veda per tutti FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 101. 208 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 287. 209 CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova, 1984, p. 381. 210 Sul punto cfr. Cass. pen., sez. un., 27 febbraio 2001, n. 4, in Cass. pen., 2002, p. 2664; Cass. pen., sez. IV, 16 febbraio 2007, n. 9270, in Cass. pen., 2007, p. 1957.
62
agisce ex tunc: pertanto, le norme dichiarate costituzionalmente illegittime sono
estromesse irrevocabilmente dal nostro ordinamento con effetti retroattivi211.
Tale retroattività secondo la dottrina non significa che la sentenza di
accoglimento della Corte rivaluta accadimenti del passato alla luce di una
diversa disciplina, ma che essa estingue, anche per il passato, l’efficacia della
norma dichiarata illegittima costituzionalmente212.
Appare opportuno evidenziare che circa le norme incriminatrici, il
fenomeno abrogativo (l’abolitio criminis) e quello dell’annullamento di norme
incostituzionali, quanto al loro ambito di efficacia, tendono a coincidere,
accomunati dalla retroattività degli effetti che producono: è coerente, quindi, la
scelta del legislatore del 1988 di unificare sotto l’art. 673 c.p.p., la disciplina
processuale degli effetti di entrambi i due istituti213.
Problematica è l’attribuzione di efficacia retroattiva alla dichiarazione di
illegittimità costituzionale di una norma favorevole, alla quale consegua la
reviviscenza o la riespansione della norma che prevede un trattamento più
gravoso per il reo214.
Il controllo di legittimità in malam partem sulle norme penali di favore è
ammesso dalla sentenza della Corte costituzionale del 1983 n. 148215.
In seguito con la celebre sentenza già citata n. 394 del 2006, il Giudice
delle leggi ha chiarito che devono ritenersi precluse le sentenze di accoglimento
211 CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, cit., p. 382; in giurisprudenza si veda Cass. pen., sez. IV, 16 febbraio 2007, n. 9270, cit. 212 MAZZA, La norma processuale, cit., p. 320. 213 L’art. 673 c.p.p. testualmente prevede che «Nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell'ʹesecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti. Allo stesso modo provvede quando è stata emessa sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere per estinzione del reato o per mancanza di imputabilità». Così GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit. p. 136. 214 DOLCINI, MARINUCCI, Artt. 1-‐‑240, cit., p. 121. 215 Corte cost., 3 giugno 1983, n. 148, in Cass. pen., 1983, p. 1909, con nota di LATTANZI, La non punibilità dei componenti del Consiglio superiore al vaglio della Corte costituzionale: considerazioni e divagazioni; in Foro it., con nota di PULITANÒ, La «non punibilità» di fronte alla Corte costituzionale.
63
che riguardano vicende successorie (art. 2 c.p.) tra una norma incriminatrice
generale e una norma speciale di favore: altrimenti si giungerebbe a risultati
incompatibili con il principio di riserva di legge in materia penale, incidendo
quindi sulle scelte politico-‐‑criminali attribuite dall’art. 25 comma 2 Cost. in via
esclusiva al legislatore216.
Inoltre in quell’occasione si è precisato, altresì, che la norma
incriminatrice speciale non rientra nella categoria delle norme penali di favore
in senso stretto: ossia norme sindacabili perchè – nonostante il controllo ricada
nell’area delle decisioni in malam partem – la loro invalidazione non confligge
con il principio di riserva di legge in materia penale (art. 25 comma 2 Cost.)217.
Infatti, «la nozione di norma penale di favore è la risultante di un
giudizio di relazione fra due o più norme compresenti nell'ʹordinamento in un
dato momento: rimanendo escluso che detta qualificazione possa esser fatta
discendere dal raffronto tra una norma vigente ed una norma anteriore,
sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell'ʹarea di rilevanza penale
o di mitigazione della risposta punitiva. In tal caso, difatti, la richiesta di
sindacato in malam partem mirerebbe non già a far riespandere la portata di una
norma tuttora presente nell'ʹordinamento, quanto piuttosto a ripristinare la
norma abrogata, espressiva di scelte di criminalizzazione non più attuali:
operazione, questa, senz’altro preclusa alla Corte, in quanto chiaramente
invasiva del monopolio del legislatore su dette scelte»218.
Quindi, la norma penale di favore deve necessariamente derivare da un
giudizio di relazione tra due o più norme presenti nell’ordinamento giuridico
nello stesso momento temporale. Il rapporto di genere a specie si deve
216 Corte cost., 23 novembre 2006, n. 394, cit. 217 Circa la riserva di legge come principio fondamentale del sistema delle fonti in materia penale, si veda TRAPANI, voce Legge penale, I, Fonti, in Enc. giur. Treccani, vol. XVIII, p. 1. 218 Testualmente cfr. Corte cost., 23 novembre 2006, n. 394, cit.
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instaurare tra due norme che coesistono nel sistema penale allo stesso tempo
(art. 15 c.p.)219.
In ordine agli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale di
una norma penale di favore, rispetto ai fatti commessi prima dell’invalidazione
della norma, va applicata la norma penale di favore (anche nel giudizio a quo):
la dichiarazione di illegittimità costituzionale non ha in questo caso efficacia
retroattiva, non impedendo ai giudici di applicare egualmente la norma
annullata ai fatti verificatisi durante la sua vigenza. Viceversa la disciplina più
sfavorevole andrà applicata ai fatti commessi dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione della Corte220.
219 D’accordo con tale impostazione della Corte costituzionale PULITANÒ, Principio d'ʹuguaglianza e norme penali di favore (Nota a Corte cost. nn. 393-‐‑394 del 2006), in Corr. Mer., 2007, p. 210. 220 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 287; GAMBARDELLA, Specialità sincronica, cit., p. 467.
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CAPITOLO II
LA SUCCESSIONE
DI NORME INTEGRATRICI
SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Integrazione reale o apparente – 2.1 Integrazione normativa – 2.2 Esempi di integrazione della legge penale – 2.2.1 Gli elementi normativi della fattispecie – 2.2.2 Le norme penali in bianco – 2.2.3. Le definizioni legali o norme definitorie – 3. La successione di norme integratrici – 3.1 La successione di norme integratrici e abolitio criminis – 3.2 La successione di norme realmente integratrici – 3.2.1 Abolitio criminis e le norme penali in bianco – 3.2.2 Abolitio criminis e le norme definitorie – 3.3 La successione di norme apparentemente integratrici – 3.3.1 Abolitio criminis e gli elementi normativi – 4. La soluzione della giurisprudenza
1. PREMESSA
Dopo aver esaminato in modo approfondito la disciplina della
successione delle leggi penali nel tempo, prima di occuparci del tema centrale
dell’elaborato, appare doveroso ai nostri fini affrontare un ulteriore argomento
piuttosto controverso nel diritto penale intertemporale.
In particolare nel prosieguo ci si occuperà della successione di
disposizioni integratrici (c.d. modifica mediata) e si cercherà di fornire una
soluzione al seguente quesito: la modifica di norme diverse dalla norma
incriminatrice, in diverso modo richiamate a sua integrazione (reale o
apparente), può dar vita al fenomeno di abolitio criminis?
Leggendo l’interrogativo appare subito evidente ad un attento lettore
come la risposta possa avere delle grosse ripercussioni nella pratica.
La modifica mediata221 è definita dalla tradizionale dottrina come quella
situazione intertemporale che si verifica quando muta il campo di applicazione
221 Sulla successione mediata di norme penali si veda in generale CAMAIONI, Successioni di leggi penali, Padova, 2003, p. 46; GROSSO, Successione di norme integratrici di legge penale e successione di leggi penali, in Riv. it. dir. pen. e proc., 1960, p. 1206; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 273; PADOVANI, Tipicità e successione, cit., p. 1354; ROMANO, Commentario, cit., p. 9.
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di una disposizione incriminatrice in seguito al cambiamento dell’informazione
giuridica secondaria alla quale il precetto penale rinvia222.
In altri termini, la norma incriminatrice non è il risultato
dell’interpretazione di una singola disposizione: infatti, l’innovazione
legislativa non incide direttamente sulla disposizione incriminatrice principale,
ma modifica un qualsiasi enunciato normativo richiamato dalla disposizione
stessa, il quale contribuisce in tal modo a determinare la vera e propria norma
incriminatrice223.
La scienza penalistica, nella prospettiva della norma incriminatrice
integrata – e nello specifico della fattispecie legale da quella descritta – si
esprime in termini di «eterointegrazione», nel senso di integrazione tramite il
ricorso a parametri estranei alla fattispecie penale in questione224.
Questi parametri possono ricondursi a due tipologie distinte: da un lato,
l’integrazione della norma penale può essere il frutto dell’attività di
interpretazione giudiziale225; dall’altro lato, può essere il risultato (legittimo o
meno) dell’apporto di norme diverse da quella incriminatrice oggetto
dell’integrazione226.
Quest’ultimo caso è definito integrazione normativa ed è un fenomeno
che riguarda assieme al piano dei rapporti internormativi quello della tecnica di
normazione: proprio in tale contesto si parla di norme integratrici.
222 Espressione inventata da DONINI, Teoria del reato. Una introduzione, Padova, 1996, p. 227. Modifica «mediata», attributo usato dalla dottrina per differenziare tale ipotesi dalle vicende intertemporali che interessano direttamente la disposizione incriminatrice e si risolvono nella sua introduzione o abrogazione, o nella modifica del trattamento ivi previsto. 223 GAMBARDELLA, L’art. 2 del codice penale, tra nuova incriminazione, abolitio criminis, depenalilizzazione e successione di leggi nel tempo, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, p. 1213. 224 BRICOLA, Scritti di diritto penale. Opere monografiche, Milano, 2000, p. 168. 225 Nel nostro ordinamento, retto dal principio della riserva di legge in materia penale, ciò non è legittimo di regola. 226 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 6-‐‑8.
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Queste ultime possono, quindi, definirsi come quelle norme chiamate a
rendere la legge penale compiuta e completa, aggiungendo ad essa ciò che le
manca227.
Fra la norma integratrice e la norma integrata si crea un collegamento
strutturale tale per cui quest’ultima, per essere completa e per esprimere il
proprio significato ha bisogno dell’apporto della prima, la quale si pone rispetto
ad essa come complementare.
Di conseguenza, qualora sussista un rapporto di integrazione normativa,
l’interprete deve ricavare il significato della norma penale oggetto di
integrazione leggendo la stessa assieme ad una o più norme integratrici228.
2. INTEGRAZIONE REALE O APPARENTE
2.1 Integrazione normativa
L’integrazione normativa pone, come già accennato, un problema di
struttura della norma penale. È necessario perciò individuare le norme penali
che devono essere completate da altre oppure, in un’altra prospettiva, le norme
integratrici che completano le norme penali bisognose di integrazione.
La presenza nell’ordinamento giuridico di norme penali integrate da
altre norme crea una questione circa la disciplina da riservare alle norme
integratici in alcuni ambiti della parte generale del diritto penale: ossia quello
della riserva di legge229, dell’errore di diritto230 e della successione di leggi231.
227 È chiaro che l’esistenza di questo tipo di norme implica l’esistenza di leggi penali incomplete che necessitano, pertanto, di essere completate (integrate) da norme diverse da quella incriminatrice. 228 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 8. 229 In un sistema come il nostro in cui vige il principio della riserva di legge in materia penale, il fatto che esistano delle norme penali incomplete, quando queste attendano di essere integrate
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Per quanto a noi interessa ci troviamo davanti al problema della
successione di norme integratrici (o di leggi extrapenali): si tratta, quindi, di
individuare l’ambito di applicabilità dell’art. 2 c.p. e di stabilire se la disciplina
della successione di leggi penali – in particolare dell’abolitio criminis – debba
oppure no essere applicata nell’ipotesi di successione nel tempo di norme, in
vario modo richiamate dalla legge penale, che siano o soltanto sembrino essere
integratrici232.
Il quesito in parola presenta uno stretto parallelismo con il tema
dell’errore di diritto: in altri termini, si tratta di chiarire se con il termine
«legge» l’art. 2 c.p. si riferisce soltanto alla legge penale, oppure anche a norme
(di fonte legislativa o meno) da questa richiamate.
È evidente come la distinzione tra norme integratrici e non integratrici è
imposta dalla legge e dal sistema: il diritto positivo obbliga l’interprete a
discernere i diversi rapporti internormativi ed a tracciare la distinzione tra le
suddette norme o, detto altrimenti, tra le norme richiamate dalla legge penale
da norme di fonte non legislativa, pone un problema di compatibilità con l’art. 25 comma 2 Cost. e, quindi, di legittimità costituzionale della norma integrata. Infatti, nel diritto penale l’integrazione normativa si presenta in primo luogo come un problema di fonti del diritto: è necessario stabilire se e in quali limiti abbiano diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento norme incriminatrici integrate da norme di fonte sublegislativa o sovranazionale, cioè se la garanzia apprestata dal principio della riserva di legge debba o meno essere estesa alle norme integratrici della legge penale. 230 Il fenomeno di cui si tratta ha un decisivo rilievo anche con riguardo al tema dell’errore di diritto, in relazione alla distinzione tra errore sulla legge penale ed errore sulla legge extrapenale. Si tratta, dunque, di stabilire se l’ignoranza o l’erronea interpretazione di una norma richiamata dalla legge penale dia luogo ad un errore sulla legge penale – che ai sensi dell’art. 5 c.p. è irrilevante ai fini dell’esclusione della colpevolezza, se dovuto a colpa – e non già invece a quell’errore su una legge diversa dalla legge penale – che, ex art. 47 comma 3 c.p., esclude il dolo qualora abbia cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato. Per fornire una soluzione a questa alternativa è essenziale stabilire se quella norma richiamata sia o meno integratrice della legge penale assumendo, per effetto del richiamo, natura di «legge penale». 231 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 9. 232 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 10.
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che sono realmente integratrici e quelle che, pur essendo richiamate dalla legge
penale, sono solo apparentemente integratrici233.
2.2 Esempi di integrazione della legge penale
Individuare le norme realmente integratrici da quelle solo
apparentemente integratrici significa accertare in quali casi una norma venga
richiamata da una norma incriminatrice per apportare un contributo alla
descrizione della figura di reato, e in quali casi viceversa lo sia per uno scopo
diverso.
Per tale ragione è necessario esaminare i possibili modi mediante i quali
una norma incriminatrice possa richiamare norme diverse, cioè determinare i
modelli di (apparente o reale) integrazione della legge penale234.
Questi ultimi sono sostanzialmente le seguenti categorie dogmatiche.
2.2.1 Gli elementi normativi della fattispecie penale
La prima categoria che verrà esaminata è quella degli elementi normativi
della fattispecie235, i quali si definiscono come quei elementi che si comprendono
soltanto sul presupposto logico di una norma giuridica o etico–sociale diversa
da quella in cui sono contenuti236.
233 Sulla distinzione tra norme integratrici e norme non integratrici cfr. PULITANÒ, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, p. 189; ROMANO, Repressione della condotta antisindacale. Profili penali, Milano, 1974, p. 121. 234 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 18. 235 Per una disamina approfondita della materia ex multis BETTIOL, La dottrina del Tatbestand nella sua ultima formulazione, in Scritti giuridici, I, Padova, 1966, p. 91; BRICOLA, Scritti di diritto penale, cit.; DONINI, Teoria del reato, cit.; ENGISCH, Die normativen Tatbestandselemente im Strafecht, in Festschrift für E. Mezger, Berlino e Monaco, 1954, p. 127; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 136; PALAZZO, L'ʹerrore sulla legge extrapenale, Milano, 1974; RISICATO, Gli elementi normativi della fattispecie penale: profili generali e problemi applicativi, Milano, 2004. 236 Tale definizione deriva da ENGISCH, Die normativen Tatbestandselemente, cit., p. 147.
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La suddetta categoria si differenzia, quindi, dagli elementi descrittivi
della fattispecie i quali sarebbero gli elementi che fanno sempre riferimento a
dati della realtà empirico–naturalistica, come tali percepibili con i sensi e non
bisognosi di particolari mediazioni o filtri interpretativi.
Nell’ambito della dogmatica penalistica italiana vi è d’accordo nel
collocare gli elementi normativi nel corpus strutturale della fattispecie delittuosa
e vengono definiti in virtù del caratteristico meccanismo dell’eterointegrazione
che li contraddistingue237.
Un’altra affermazione comune in dottrina riguarda il procedimento
conoscitivo relativo agli elementi in parola: essi, invero, implicherebbero
sempre la mediazione interpretativa del giudice.
Peraltro, tale filtro rappresenterebbe la più importante peculiarità della
categoria di cui si tratta: nello specifico, mentre per gli elementi descrittivi il
giudice dovrebbe limitarsi a compiere una mera operazione ricognitiva avente
ad oggetto un dato della realtà naturalistica; per gli elementi normativi egli
dovrebbe anche esprimere una valutazione per accertare quella particolare nota
di qualificazione di cui il fatto è investito238.
Il riconoscimento dell’autonomia strutturale e funzionale dei concetti
normativi nella dottrina italiana si deve ad un attento Autore che ha ribadito il
carattere meramente teorico dell’equivalenza tra la qualificazione normativa e
la riduzione descrittiva239.
Infatti, la qualificazione normativa rappresenta una decisiva
semplificazione della tecnica legislativa. Pertanto, nessuna traduzione degli
elementi normativi in descrittivi potrebbe considerarsi stabile ed esaustiva,
237 Così PALAZZO, L’errore sulla legge extrapenale, cit. p. 16. 238 RUGGIERO, Gli elementi normativi della fattispecie penale. Lineamenti generali, Napoli, 1965, p. 122. 239 PULITANÒ, L’errore di diritto, cit., p. 225, il quale reputa più corretto, a livello di esegesi normativa, parlare di «concetti» più che di «elementi» normativi della fattispecie.
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essendo i concetti normativi espressione e realizzazione di un’esigenza non di
mera tecnica, ma di politica legislativa240.
Ciò nonostante il medesimo Autore giunge alla conclusione che i concetti
normativi sono comunque aperti al soggettivismo: un potenziale vulnus al
carattere tassativo della fattispecie penale ed un ostacolo all’immediata
comprensione del senso del divieto, destinato quindi ad essere filtrato
dall’interprete.
Per quest’ultimo motivo il giudice, nell’interpretare l’elemento
valutativo–culturale, dovrebbe far riferimento a parametri obiettivamente
rilevabili nella realtà socio–culturale ed individuabili in base a direttive espresse
nella norma penale stessa241.
La scienza penalistica si è inoltre concentrata sul rapporto esistente tra gli
elementi normativi e le norme da questi richiamate: ossia se a concorrere alla
descrizione della fattispecie legale siano i soli elementi normativi ovvero anche
le norme cui questi si riferiscono. In altri termini, si tratta di indagare la natura
integratrice o meno delle norme, giuridiche o extragiuridiche, richiamate dagli
elementi normativi242.
Per risolvere tale quesito è necessario interrogarsi a fondo circa la
struttura e la funzione di questi elementi.
Secondo parte della dottrina le norme richiamate dagli elementi
normativi non hanno natura integratrice.
In particolare, gli elementi normativi sono concetti impiegati nella
descrizione della fattispecie legale astratta, dotati di un significato autonomo da
quello delle norme a cui si riferiscono: essi soltanto concorrono a descrivere la
figura di reato, contribuendo ad esprimere il disvalore in essa incarnato, non
240 PULITANÒ, L’errore di diritto, loc. cit. 241 PULITANÒ, L’errore di diritto, cit., p. 230. 242 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 42.
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anche le norme giuridiche o extragiuridiche che essi richiamano e che ne
costituiscono soltanto i presupposti o criteri di applicazione243.
Il legislatore seleziona i fatti penalmente rilevanti attraverso la
configurazione di modelli legali di comportamento (ossia le fattispecie legali
astratte), la cui integrazione è sanzionata dalla pena244.
Pertanto, le fattispecie normative hanno la forma di proposizioni
linguistiche e gli elementi delle fattispecie legali astratte non sono dei dati della
realtà, ma dei termini linguistici (in altri termini dei concetti)245.
Alla luce di tali considerazioni, l’idea degli elementi normativi come
concetti−qualificatori è decisiva per distinguere l’elemento normativo –
elemento facente parte della fattispecie legale astratta, che contribuisce a
descrivere – dalle norme da questo richiamate (i criteri di attribuzione della
qualifica espressa dall’elemento normativo−concetto qualificatore).
Infatti, le norme alle quali gli elementi normativi si riferiscono servono
soltanto, contingentemente, a determinare l’effetto di qualificazione (cioè
l’attribuzione della qualifica normativa) rilevante per la norma incriminatrice.
Esse, tuttavia, non si identificano con la qualifica espressa degli elementi
normativi: consentono solo di attribuirla a determinate cose, persone o
situazioni.
Quindi, il significato della qualifica, cioè dell’elemento normativo, come
concetto che esprime appunto una qualifica da operarsi in base ad un certo tipo
di norme giuridiche o extragiuridiche, è invero del tutto indipendente dal
significato e dal contenuto delle norme da esso richiamate246.
243 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 44. 244 ID., op. loc. cit. 245 PULITANÒ, L’errore di diritto, cit., p. 217; PAGLIARO, Il fatto di reato, Palermo, 1960, p. 482. 246 Così si veda GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 52.
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In tal modo, si giunge alla considerazione che gli elementi normativi
sono dotati di una loro autonomia concettuale, strutturale e funzionale rispetto
alle norme richiamate per l’attribuzione della qualifica che essi esprimono.
Come evidenziato dallo stesso Autore, le norme richiamate da un
elemento normativo della fattispecie247, sono sì necessarie «a verificare se a una
certa situazione di fatto si attagli la qualifica x, ma la previsione di x come
elemento del reato è indipendente da esse. Di qui la legittimità del considerarle
comunque estranee (anche se collegate) alla norma penale perfetta,
riconoscendosi già nella norma-‐‑madre incriminatrice la tipizzazione di tutti gli
elementi del reato, quale che sia la natura (descrittiva o normativa) dei concetti
usati»248.
Lo stesso Autore, quindi, conclude nel senso che «il significato degli
elementi normativi […] è del tutto indipendente dal contenuto delle fattispecie
integratrici, cui pure occorre riferirsi per poter applicare tali elementi a
situazioni concrete. Queste situazioni […] possono variare, senza che con
questo muti il significato e la portata della qualificazione normativa ad esse
riconnessa»249.
Di conseguenza, i criteri di applicazione dei concetti normativi (vale a
dire le norme da questi richiamate), pur essendo condizioni della loro
247 Si consideri ad esempio l’«altruità» nel delitto di furto. 248 Citato espressamente PULITANÒ, Illiceità espressa e illiceità speciale, in Riv. it. dir. pen. e proc., 1967, p. 100; negli stessi termini PULITANÒ, voce Ignoranza (dir. pen.), in Enc. del Dir., vol. XX, Milano 1970, p. 39; e in L'ʹerrore di diritto, cit., p. 233. 249 Testualmente PULITANÒ, Illiceità espressa, cit. p. 102. Alla medesima conclusione è giunto anche ROMANO, Repressione, cit. p. 140, il quale ha sottolineato come una cosa è il significato del concetto normativo di «altrui», un altro viceversa sono le norme alla stregua delle quali si determina come l'ʹaltruità viene di volta in volta a prodursi. Queste ultime, infatti, non divengono mai parte integrante della norma incriminatrice, in quanto non aggiungono nulla alla valutazione normativa già tutta contenuta nella regola di condotta immessa nell'ʹordinamento, non predicano la condotta né l’altruità, ma garantiscono solo la produzione dell'ʹeffetto giuridico penalmente rilevante, non entrano a costituire la materia del divieto, ma costituiscono le fattispecie astratte e indipendenti, sulla base delle quali si accerta se la singola cosa, del cui concreto impossessamento si discute appartiene a B o a C, comunque non ad A. Negli stessi termini si è pronunciato anche PAGLIARO, Riserva di legge, elementi normativi, e questioni pregiudiziali, in Scritti in memoria di Girolamo Bellavista, Il Tommaso Natale, 1977, p. 369.
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riferibilità a fatti concreti, non attengono al significato di concetto normativo:
essi costituiscono solamente i presupposti per l’attribuzione a date realtà di
fatto della qualifica espressa dal concetto normativo, qualifica che sola
determina la rilevanza di quei dati di fatto cui si riferisce entro la fattispecie
penale250.
Sulla scorta di quanto affermato si può ragionevolmente concludere che
la ragion d’essere degli elementi normativi è la necessità imposta dal carattere
accessorio che il diritto penale possiede rispetto agli altri rami
dell’ordinamento, quando le norme incriminatrici disciplinano una realtà già
preformata dal diritto, apportando la loro regolamentazione su di una
situazione preliminarmente qualificata da altri rami dell’ordinamento. A volte,
infatti, è una realtà normativamente filtrata che si riversa nelle figure di reato e,
proprio in questi compaiono nella fattispecie legale, cioè nella descrizione legale
dei fatti incriminati, gli elementi normativi.
La loro presenza, imposta dalla necessità poc’anzi delineata, assolve, alla
funzione di elastico adattamento della fattispecie all’eventuale mutamento della
realtà giuridica preformata, sulla quale le fattispecie legali astratte riposano e
vengono costruite251.
2.2.2 Le norme penali in bianco
Un secondo esempio di integrazione della legge penale è costituito dalle
norme penali in bianco252.
Esse vengono designate da una parte della dottrina come un modello di
norme penali il cui precetto è posto, in tutto in parte, da una norma diversa da
250 PULITANÒ, voce Calunnia e autocalunnia, in Dig pen., vol. II, Torino, 1988, p. 20; PULITANÒ, L’errore di diritto, cit., p. 262. 251 Così GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 67. 252 Cfr. PETRONE, La costruzione della fattispecie penale mediante rinvio, in AA.VV., Studi in onore di Marcello Gallo. Scritti degli allievi, Torino, 2004, p. 151.
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quella che prevede la sanzione253: le norme di riempimento del precetto in
bianco sono pacificamente ritenute vere e proprie norme integratrici della legge
penale in bianco.
Secondo una diversa posizione dottrinale le norme penali in bianco
sarebbero un sinonimo di norme penali incomplete che nascono, cioè bisognose
di essere integrate da altre norme254.
Allontanandosi dalla definizione poc’anzi delineata la nozione della
categoria in questione diventa notoriamente controversa: da un lato, secondo
una parte della dottrina si tratterebbe di norme del tutto prive di precetto e,
quindi, meramente sanzionatorie255; dall’altro lato, una diversa opinione
afferma che esse sarebbero norme che presentano un contenuto precettivo,
seppur minimo, bisognoso di specificazione256.
Inoltre è discusso se di norma penale in bianco si possa parlare:
− unicamente quando la legge penale richiama, ad integrazione (totale o
parziale) del precetto, una norma di fonte sublegislativa (o comunitaria);
− anche qualora la legge penale richiama un provvedimento individuale e
concreto del potere esecutivo (ad esempio l’art. 650 c.p., il quale è il caso più
noto di norma penale in bianco);
− unicamente quando la legge penale richiama, ad integrazione totale o
parziale) del precetto una fonte sublegislativa (o comunitaria) di emanazione
futura, operando in questo modo un rinvio mobile257.
Vi è poi chi distingue tra norma penale totalmente in bianco (ossia quella
contenuta in una legge, che contiene soltanto la sanzione, e non il precetto) e
norma penale parzialmente in bianco (quella in cui soltanto una parte del
253 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 114; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 57; PADOVANI, Diritto penale, cit., p. 25; PULITANÒ, L'ʹerrore di diritto, cit., p. 207. 254 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 71; ROMANO, Commentario, cit., p. 38. 255 Per tutti si veda CARBONI, L’inosservanza dei provvedimenti dell'ʹautorità. Lineamenti dogmatici e storico-‐‑costituzionali dell'ʹarticolo 650 del codice penale, Milano, 1970, p. 149. 256 In tal senso PETROCELLI, Norma penale e regolamento, in Riv. it. dir. pen. e proc., 1959, p. 377 257 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 73.
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precetto – uno o più elementi costitutivi del reato – è descritta da una norma
diversa da quella che prevede la sanzione)258.
Inoltre, la norma richiamata dalla norma penale in bianco deve avere
immancabilmente il carattere della generalità e dell’astrattezza, che come è
noto, è per definizione proprio della legge, ossia della fonte che contiene la
norma penale da completare259.
Alla luce di tale considerazione ogni norma che abbia i caratteri suddetti
può, in linea generale, qualunque ne sia la fonte, funzionare da norma di
riempimento di una norma penale in bianco. Pertanto, il precetto della norma
penale in bianco può essere riempito, in tutto o in parte, da:
a) una norma contenuta in una legge formale dello stato260;
b) una norma di fonte sublegislativa, contenuta in un provvedimento generale
ed astratto del potere esecutivo261;
c) una norma generale ed astratta di fonte sovranazionale come, ad esempio,
quelle del diritto comunitario262.
Le norme richiamate possono in particolare essere: preesistenti di fonte
legale; preesistenti di fonte sublegislativa o sovranazionale e, in particolare,
comunitaria; future di fonte legale; future di fonte sublegislativa o
sovranazionale e, in particolare, comunitaria263.
Si evidenziano le difficoltà riscontrate in dottrina ed in giurisprudenza
nel distinguere le norme penali in bianco dagli elementi normativi264.
258 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 77. 259 In tal senso DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 109; PULITANÒ, L’errore di diritto, cit., p. 315. 260 DOLCINI, MARINUCCI, loc. cit., p. 115. 261 PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 120. 262 GRASSO, Comunità europee e diritto penale. I rapporti tra l'ʹordinamento comunitario e i sistemi penali degli stati membri, Milano, 1988, p. 292; MAZZINI, Prevalenza del diritto comunitario sul diritto penale interno ed effetti nei confronti del reo, in Il dir. dell'ʹUn. eur., 2000, p. 371; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 117 263 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 79. 264 Per un quadro riassuntivo delle varie tesi si veda ad esempio CERQUETTI, Teoria degli atti giuridici previsti nella norma incriminatrice, Napoli, 1973, p. 49.
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Invero tra questi due modelli di eterointegrazione della legge penale, il
confine risulta tutt’altro che nitido265, anche a causa dell’elaborazione di varie
categorie dogmatiche intermedie, quali le norme penali parzialmente in bianco
o l’illiceità espressa o speciale.
Lungi dal poter desumere in termini formali, la distinzione tra i vari
modelli di eterointegrazione della legge penale non sembra dunque potersi
prescindere da un’indagine di tipo funzionale, evidenziando anche il ruolo
assolto dal materiale di complemento nell’economia precettiva della
disposizione incriminatrice266.
In realtà neppure quest’ultimo tipo di indagine può aiutare ad
individuare correttamente un discrimine tra le due categorie267.
Viceversa, secondo una diversa impostazione le norme penali in bianco
si definiscono come quelle disposizioni incriminatrici il cui giudizio di tipicità
non origina dall’enucleazione di una fattispecie, bensì da una valutazione a
contrario rispetto ad un modello comportamentale predeterminato,
indipendentemente dalla sua natura amministrativa o legale o dal suo carattere
posteriore rispetto alla vigenza della disposizione incriminatrice; mentre gli
elementi normativi si inseriscono nell’ambito della descrizione di un quadro di
vita (la fattispecie) per comprendere esattamente il quale occorre riferirsi a una
o più informazioni giuridiche esterne che vengono evocate proprio per il
tramite dell’elemento normativo268.
2.2.3 Le definizioni legali o norme definitorie
265 Vi è chi addirittura dubita della possibilità di individuare con certezza tale confine: cfr. fra tutti RISICATO, Gli elementi normativi, cit., p. 99. 266 MICHELETTI, Legge penale, cit., p. 28. 267 Per una critica alle varie teorie che distinguono le norme penali in bianco dagli elementi normativi cfr. MICHELETTI, Legge penale, cit., p. 28-‐‑29. 268 ID., Legge penale, cit., p. 34.
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In ordine alle definizioni legali (o dette altrimenti norme definitorie)269,
esse indicano quelle disposizioni con cui il legislatore, attraverso una specie di
interpretazione autentica cerca di specificare il significato di questo o di quel
termine, vincolando così l’interpretazione giurisprudenziale270.
Nel codice penale si ritrovano numerosissime definizioni legali che
riguardano sia concetti di parte generale, sia le singole figure di reato di parte
speciale.
Il ricorso alle definizioni legali è, altresì, sempre più frequente nella
legislazione complementare, soprattutto in materie molto tecniche: a volte il
legislatore inserisce, solitamente nei primi articoli di un testo legislativo, delle
disposizioni con le quali definisce il significato che, agli effetti della legge stessa,
deve essere attribuito a questo o a quel termine271; talora, nel configurare una
determinata figura di reato, demanda ad un’altra legge la definizione di questo
o di quel concetto272; talvolta, infine, nelle norme incriminatrici vengono
impiegati dei concetti propri di altri rami dell’ordinamento (ad esempio del
diritto civile, commerciale, amministrativo ecc.) ove in questi ultimi sono
oggetto di definizioni legali273.
Come si distinguono, pertanto, le definizioni legali dalle norme penali in
bianco e dagli elementi normativi della fattispecie?
269 Sull’argomento GRISPIGNI, Diritto penale italiano, vol. I, II ed., Milano, 1947, p. 263; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 271; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 179. 270 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 128; PULITANÒ, L'ʹerrore di diritto, cit., p. 236; RISICATO, Gli elementi normativi, cit., p. 92; SIRACUSANO, Principio di precisione e definizioni legislative di parte speciale, in DOLCINI, PALIERO (a cura di), Studi in onore di Giorgio Marinucci, tomo I, Milano, 2006, p. 739. 271 Si pensi ad esempio alla nozione di rifiuto di cui all’art. 183 del D.Lvo 3 aprile 2006. 272 Cfr. l’art. 644 comma 3 c.p. riformato in cui il legislatore ha previsto che «la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interesse sono sempre usurari» demandando così la precisazione di tale concetto a disposizioni che non sono contenute nel codice penale, bensì nella legge di riforma del delitto di usura (la legge 7 marzo 1996, n. 108). 273 È questo il caso della definizione di «imprenditore» (ex art. 2082 c.c.) rispetto ai reati di bancarotta puniti dagli artt. 216 ss. del r.d. 16 marzo 1942, n. 267.
79
Nonostante sia per le definizioni legali che per le norme penali in bianco
sussista un rapporto di reale integrazione, i due modelli divergono.
In particolare, le norme penali che contengono un termine definito da
un’altra norma non possono ritenersi «in bianco», anche se attendono di essere
integrate dalla norma definitoria.
In ogni caso, a prescindere dalla considerazione che non ogni norma che
attende di essere integrata da un’altra e per ciò solo una «norma penale in
bianco», si osserva che soltanto le norme penali in bianco sono in tutto o in
parte prive del precetto. Al contrario, nelle norme penali che contengono un
termine definito da un’altra norma, il precetto non è mancante solo che il suo
significato, con una sorta di interpretazione autentica, deve essere precisato in
conformità a quanto prescrive la norma che contiene la definizione legale274.
Più interessante è la differenza tra definizioni legali ed elementi
normativi, poiché, come si è già avuto modo di notare, è piuttosto rilevante tra i
due modelli la diversità funzionale e strutturale.
La distinzione tra concetti definiti e concetti normativi può non essere
sempre facile e, più precisamente, vi sono due ipotesi problematiche:
− la definizione legale viene formulata impiegando concetti normativi275;
− il concetto legalmente definito è un concetto originariamente normativo:
ossia un concetto che nasce come normativo ma che, da un certo punto in poi,
viene fatto oggetto di una definizione legale276.
274 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 86, ove l’Autore afferma poi che tale distinzione non assume rilievo nella pratica se si è d’accordo sul fatto che sia la norma penale in bianco sia la norma penale che impiega un concetto oggetto di una definizione legale sono norme effettivamente integrate da altre. 275 A titolo esemplificativo si veda la norma definitoria di pubblico ufficiale di cui all’art. 357 c.p., in cui «pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa» è un concetto normativo. Nonostante sia contenuto in una norma definitoria, la sua struttura e la sua funzione non sono diverse da quelle proprie di qualsiasi altro concetto normativo: infatti, per attribuire ad un certo soggetto la qualifica di pubblico ufficiale, il giudice deve fare riferimento alle norma di diritto pubblico, le quali all’interno dell’ordinamento attribuiscono a certi soggetti l’esercizio di pubbliche funzioni legislative, giudiziarie o amministrative. 276 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 86-‐‑90.
80
Nella prima ipotesi, il rapporto che intercorre tra la norma definitoria e la
norma penale contenente il termine definito è un vero e proprio rapporto di
integrazione, poiché la norma definitoria diventa parte di quella penale, in
modo che anche il concetto normativo impiegato nella norma definitoria
diventa parte di quella penale venendo in rilievo come qualsiasi altro concetto
normativo della fattispecie277.
Circa la seconda ipotesi sopra delineata, è necessario tenere presente che
le definizioni legali possono avere ad oggetto non soltanto concetti descrittivi,
ma anche concetti normativi278.
Se un concetto, descrittivo o normativo, è legalmente finito diventa un
concetto definito.
Ove ad essere oggetto di una definizione legale sia un concetto
originariamente normativo, si distingue a seconda che sia definito da una
norma redatta unicamente con l’impiego di elementi descrittivi (con la
conseguenza che il concetto normativo perderà la sua natura e funzione di
concetto normativo) oppure con l’impiego di uno o più elementi normativi (qui
il concetto normativo oggetto di una simile definizione legale manterrà, nella
sostanza, la propria natura e funzione di concetto normativo)279.
3. LA SUCCESSIONE DI NORME INTEGRATRICI
277 Non dà luogo all’integrazione il diverso rapporto tra la norma definitoria e le norme, giuridiche o extragiuridiche, richiamate dal concetto normativo impiegato nella formulazione della definizione legale. 278 GRASSO, Considerazioni in tema di errore su legge extrapenale, in Riv. it. dir. pen. e proc., 1976, p. 138. 279 Cfr. FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 82; PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., p. 132; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 165.
81
Nel precedente paragrafo abbiamo visto che l’esistenza di norme
integratrici della legge penale implica, per definizione, la presenza di leggi
penali incomplete e, per tale ragione, bisognose di integrazione.
Ciò nonostante, si è notato altresì che non tutte le leggi penali che in
vario modo fanno riferimento ad altre norme presentano questo carattere di
incompletezza: nello specifico, soltanto due dei modelli presi in considerazione
possono essere riferiti a leggi penali incomplete e, quindi, richiedenti una vera e
propria integrazione, ossia le norme penali in bianco e le definizioni legali.
Questi rapporti di reale o apparente integrazione normativa si svolgono
non soltanto nello spazio ma anche nel tempo: infatti, può accadere che una
modifica normativa, incidendo sulla norma «integrata» ovvero su quella
«integratrice», alteri in qualche modo quel rapporto, dando così luogo a
problemi di diritto intertemporale.
Pertanto, si utilizza l’espressione successione di norme integratrici per
indicare il fenomeno della modifica nel tempo delle norme, giuridiche o
extragiuridiche, chiamate a reale o apparente integrazione della legge penale280.
Di fronte a tale fenomeno il problema da risolvere è se la disciplina della
successione di leggi penali, di cui all’art. 2 c.p. che abbiamo analizzato
approfonditamente, debba o meno trovare applicazione quando una modifica
normativa abbia ad oggetto non la norma incriminatrice – vale a dire la norma
che commina la sanzione penale – bensì una norma diversa, in vario modo
richiamata a reale o apparente integrazione di quella.
La questione in parola riguarda, in linea di principio, l’applicabilità
dell’intera disciplina dell’art. 2 c.p. nel suo complesso281. Tuttavia, il dibattito
nella dottrina e nella giurisprudenza si è concentrato soprattutto con riguardo
280 Si veda fra tutti GROSSO, Successione di norme integratrici, cit., p. 1206; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 273; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 186. 281 Sia il principio di irretroattività in malam partem sia quello di retroattività in bonam partem.
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al secondo principio ed in particolare, nella quasi totalità dei casi, in relazione
alla disciplina dell’abolitio criminis.
3.1 La successione di norme integratrici e abolitio criminis
Come si è avuto modo di evidenziare nel capitolo precedente, la
presenza di un’abolitio criminis totale o parziale, risolvendosi entrambe le figure
in un’abrogazione (totale o parziale) di una norma incriminatrice, necessita di
far riferimento in ultima analisi alla norma e non alla disposizione.
Pertanto, tale fenomeno è sempre il risultato di una modifica normativa
che incide sulla struttura (o fisionomia) della fattispecie legale astratta
È necessario, in presenza di una disposizione, appurare non soltanto se
qualche altro enunciato normativo interferisca con essa ma, nell’ipotesi
affermativa, anche se quest’altro enunciato contribuisca ad integrare la norma
integratrice, ovvero ne costituisca un suo frammento282.
Appurato che sussiste la necessità di fondare l’abolitio criminis su di una
modifica strutturale della fattispecie legale astratta, per la soluzione del
problema sopra indicato rileva senz’altro la distinzione tra norme realmente
integratrici e norme solo apparentemente integratrici283.
Tale distinzione evidenzia come non ogni norma richiamata dalla legge
penale è in grado, modificandosi nel tempo, di incidere sulla struttura della
fattispecie legale astratta e, quindi, di determinare abolitio criminis. Ciò, come
vedremo meglio, può dirsi soltanto delle norme realmente integratrici, non già
di quelle che sono tali apparentemente284.
In conseguenza, anche in materia di successione di disposizioni
integratrici per verificare l’effetto abolitivo, bisogna stabilire se la fattispecie
282 GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit. p. 244. 283 Cfr. Cass. pen., sez. un., 27 settembre 2007, Magera, in Cass. pen., 2008, p. 898. 284 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 246.
83
astratta di quella specifica figura di reato si è ridotta, cioè se l’area
incriminatrice di essa si è circoscritta285.
Occorre accertare se l’atto o l’enunciato oggetto di modificazione
contribuisca effettivamente a delimitare l’astratta area normativa
d’incriminazione, non essendo sufficiente che esso escluda in concreto alcuni
fatti storici che si sono verificati: il fenomeno dell’abolitio criminis è
invariabilmente un concetto logico-‐‑formale, riconducibile ad un’abrogazione
(almeno parziale) di una norma generale e astratta, sicchè è esclusa una verifica
legata al caso concreto286.
3.2 La successione di norme realmente integratrici
3.2.1 Abolitio criminis e le norme penali in bianco
Il primo caso di abolitio criminis, come conseguenza della successione di
norme realmente integratrici, si verifica qualora sussista un’abrogazione o una
modifica delle norme che riempiono il precetto delle c.d. norme penali in
bianco287.
In relazione a questo tema vengono, quindi, in rilievo solamente le
ipotesi di modifica di norme, generali ed astratte – indifferentemente di fonte
legislativa, sublegislativa o non legislativa (ad esempio comunitaria) – cui la
legge penale rinvia per la descrizione di uno o più elementi del reato, ovvero
dell’intera fattispecie.
Richiamando la distinzione effettuata tra norme penali totalmente in
bianco e parzialmente in bianco288, il problema in esame può porsi nei seguenti
285 GAMBARDELLA, L'ʹart. 2 del codice penale, cit., p. 1219. 286 MICHELETTI, Legge penale e successione, cit., p. 65; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 186. 287 Sull’argomento si veda DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 277; GRISPIGNI, Diritto penale, cit., p. 357; MANZINI, Trattato, cit., p. 325; MICHELETTI, Legge penale e successione, cit., p. 441. 288 Cfr. supra, Cap. I, § 2.2.2.
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termini: circa le norme penali totalmente in bianco, una questione di abolitio
criminis si pone in presenza di una modifica che riguarda la norma (realmente)
integratrice, contenente il precetto289; in ordine alle norme penali parzialmente
in bianco, la questione si pone in senso analogo290.
Poiché, come abbiamo visto, le norme che riempiono il precetto delle
norme penali in bianco sono vere e proprie norme integratrici della legge
penale291, ogni modifica delle prime incide direttamente sulla struttura della
fattispecie legale astratta, configurando così un’ipotesi di abolitio criminis292.
Infatti, la fisionomia di una fattispecie legale in tutto o in parte in bianco
muta al variare della norma che ne contiene o ne completa la descrizione. Per
tale ragione, è possibile che all’esito di un confronto strutturale tra le fattispecie
in bianco risultanti prima e dopo la modifica della norma integratrice
l’interprete riscontri l’abolizione del reato configurato dalla norma penale in
bianco293.
Tenendo presente le varie classificazioni svolte nel presente elaborato294,
possiamo distinguere295:
289 Così quando la legge penale prevede che «è punito con la pena x chi non osserva le disposizioni della presente legge» ovvero che «è punito con la pena x chi non osserva le disposizioni dell’art. y della legge z» ovvero ancora che «è punito con la pena x chi non osserva le disposizioni del decreto ministeriale y, o del regolamento comunitario z», l’abrogazione o la modifica delle norme richiamate può porre un problema di abolitio criminis, e di applicabilità della disciplina prevista dall'ʹart. 2 comma 2 c.p. Così GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 254. 290 In questo caso quando la legge penale prevede che «è punito con la pena x chi detiene o commercia le sostanze elencate nel decreto ministeriale y», o che «è punito con la pena x chi importa la specie di animali di cui all’art. n della legge k, ovvero chi immette in commercio un alimento di cui all’art. x del regolamento comunitario z», l’abrogazione o la modifica di queste norme richiamate può determinare un’ipotesi di successione di norme realmente integratrici e, quindi, di possibile abolitio criminis. Nei seguenti termini GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 255. 291 Cfr. supra, Cap. I, § 2.2.2. 292 Conclusione condivisa in dottrina, si veda a titolo esemplificativo CADOPPI, VENEZIANI, Elementi di diritto penale. Parte generale, V ed., Padova, 2012, p. 136; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 276; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 186; ROMANO, Commentario, cit., p. 57. 293 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 257. 294 Da un lato, l’abolitio criminis totale o parziale, dall’altro la norma integrata totalmente o parzialmente in bianco. 295 Per tale distinzione si veda DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 277.
85
a) l’abolizione totale di una fattispecie penale totalmente in bianco, la quale si
configura ove la norma integratrice, che contiene il precetto viene abrogata
senza essere contestualmente sostituita da un’altra, ovvero viene sostituita con
un’eterogenea, non legata alla precedente da un rapporto di specialità;
b) l’abolizione parziale di una fattispecie penale totalmente in bianco, la quale
si realizza quando vengono ridefiniti in senso restrittivo i contorni della norma
integratrice che riempie il precetto in bianco, in modo che questa risulti speciale
rispetto a quella previdente;
c) l’abolizione totale di una fattispecie penale parzialmente in bianco, in cui la
norma integratrice, chiamata a completare, rispetto ad uno o più elementi
costitutivi, la descrizione del precetto in bianco, viene abrogata senza che
contestualmente venga sostituita da un’altra, ovvero viene sostituita con
un’eterogenea, ossia non legata alla precedente da un rapporto di specialità;
d) l’abolizione parziale di una fattispecie penale parzialmente in bianco, ove
vengono ridefiniti in senso restrittivo i contorni della norma integratrice che
contiene parte del precetto (la descrizione di uno o più elementi costitutivi), in
modo che questa risulti speciale rispetto a quella previgente.
Conclusivamente l’abolitio criminis come conseguenza della modifica
delle norme chiamate a riempire un precetto in tutto o in parte in bianco si
impone qualunque sia la fonte della norma che integra la legge penale in
bianco.
Tuttavia, si evidenzia che la modifica anzidetta non comporta abolitio
criminis, in applicazione dell’art. 2 comma 5 c.p., qualora le norme integratrici
oggetto di modifica siano eccezionali o temporanee296.
Tale ipotesi si verifica quando quelle norme sono dettate per fronteggiare
situazioni oggettive di carattere straordinario, ovvero contengono la
predeterminazione espressa del periodo di tempo in cui hanno vigore: in questo 296 MANZINI, Trattato, cit., p. 332; PODO, voce Successione di leggi penali, in NsD, vol. XVIII, Torino, 1971, p. 659.
86
caso il carattere eccezionale o temporaneo delle norme integratrici è proprio
anche della legge penale integrata, cosicchè trova applicazione l’art. 2 comma 5
c.p.297
3.2.2 Abolitio criminis e le norme definitorie
Anche in caso di modifica delle norme definitorie si prospetta un
problema di abolitio criminis.
Si pensi, ad esempio, al caso tradizionale di modifica di una definizione
legale penalmente rilevante, ossia della definizione legale di maggiore di età di
cui all’art. 2 c.c.
Quando la legge n. 39 del 1975 sulla riforma del diritto di famiglia ha
portato da ventuno a diciotto anni il limite della maggiore età, le incriminazioni
che fanno riferimento al minore nella fattispecie astratta hanno subito una
riduzione del loro campo applicativo298.
Dal momento che sussistono molte norme incriminatrici che fanno
riferimento al «minore» come elemento costitutivo, in seguito a tale modifica la
dottrina si era chiesta se rimanesse punibile chi avesse commesso questo tipo di
reati nei confronti di una persona che, all’epoca del fatto, era minore di età
secondo la definizione legale allora vigente, ma non più secondo una nuova e
sopravvenuta definizione legale299.
In quest’ipotesi si è posto un problema di abolitio criminis parziale, ossia
se i fatti, commessi prima della modifica delle norme che definiscono il concetto
di «minore», rimangano penalmente rilevanti o se, viceversa, debba trovare
applicazione la disciplina dell’art. 2 comma 2 c.p.
297 PODO, voce Successione , cit., p. 678. 298 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 276. 299 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 265.
87
In altri termini, si tratta di stabilire se ad ogni modifica in senso
restrittivo di una definizione legale di un concetto della fattispecie si verifichi
oppure no un’abolizione parziale della figura di reato contenente il concetto
definito, anche se, formalmente, la norma incriminatrice non ha subito alcuna
modifica, poiché questa ha riguardato, esplicitamente, soltanto la norma
definitoria300.
Come le norme che riempiono il precetto delle norme penali in bianco,
anche le norme definitorie sono vere e proprie norme integratrici: in particolare,
tra il concetto di fattispecie definito e la più complessa proposizione contenuta
nella norma definitoria intercorre un rapporto di equivalenza. Ciò fa sì che ogni
modifica della norma definitoria equivalga ad una modifica del concetto
definito e, quindi, della fattispecie legale astratta che impiega quel concetto
nella propria descrizione: dunque, è una modifica in grado di comportare
abolitio criminis, in quanto incide direttamente (immediatamente) sulla struttura
della fattispecie legale astratta e, attraverso di essa, sulla scelta politico-‐‑
criminale e sul giudizio di disvalore di cui la stessa è espressione301.
Dopo aver confrontato la struttura tra le fattispecie legali risultanti prima
e dopo la modifica della norma definitoria, è possibile individuare le seguenti
due ipotesi di abolitio criminis:
a) l’abolizione integrale del reato come conseguenza della modifica di una
norma definitoria, la quale si verifica qualora una norma definitoria venga
sostituita con un’altra, del tutto eterogenea rispetto alla precedente, perchè non
legata ad essa da un rapporto di specialità;
300 Ancora, ID., Abolitio criminis, cit., p. 269. 301 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 276; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 186; ROMANO, Commentario, cit., p. 55. In giurisprudenza cfr. Cass. pen., sez. II, 2 dicembre 2003, n. 4296, in Cass. pen., 2005, p. 2986; Cass. pen., sez. un., 27 settembre 2007, Magera, cit., p. 898. Per quanto concerne il delitto di circonvenzione di incapaci posta in essere a danno di un minore in relazione alla modifica della definizione di tale termine si veda Cass. pen., sez. II, 8 ottobre 1975, Marino, in Giust. pen., 1975, II, p. 328; Cass. pen., sez. VI, 29 dicembre 1977, Amato, in Cass. pen., 1979, p. 1524.
88
b) l’abolizione parziale del reato come conseguenza della modifica di una
norma definitoria, in cui una norma definitoria viene sostituita con un’altra, dal
contenuto omogeneo ma dalla portata più circoscritta, perchè speciale302,
cosicchè alla fattispecie legata astratta integrata dalla norma definitoria ne
succede un’altra rispetto ad essa speciale. Con la conseguenza che il confronto
strutturale tra le fattispecie legali astratte in successione evidenzia
un’abolizione parziale del reato, limitata alla classe di fatti non più riconducibili
alla nuova fattispecie legale, risultante dalla modifica della norma definitoria303.
3.3 La successione di norme apparentemente integratrici
3.3.1 Abolitio criminis e gli elementi normativi
Abbiamo definito gli elementi normativi come dei concetti che
contribuiscono a definire la fattispecie legale esprimendo qualifiche da
attribuirsi a questo o a quell’elemento del fatto sulla base di norme giuridiche
(penali o extrapenali) o extragiuridiche304.
Qui il problema si pone qualora, restando immutata la norma
incriminatrice che contiene l’elemento normativo, cambia invece la norma
(penale, extrapenale o extragiuridica) richiamata dall’elemento normativo, la
quale opera come criterio o presupposto di attribuzione della qualifica che esso
esprime.
Infatti, la norma incriminatrice rimane virtualmente intatta. Tuttavia, la
sua portata effettiva viene ad essere mutata a seguito della diversa
configurazione giuridica, nel corso del tempo, di uno dei suoi elementi
302 In tal senso DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 276; ROMANO, Commentario, cit., p. 54; SIRACUSANO, Successione di leggi penali, I, Messina, 1988, p. 73. 303 Così GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 270-‐‑271. 304 Cfr. supra, Cap. II, § 2.2.1.
89
essenziali: si verifica un’ipotesi di riformulazione mediata della fattispecie
delittuosa idonea, come tale, a porre in crisi i criteri tradizionalmente addotti
dalla dottrina e dalla prassi applicativa per individuare i meccanismi di
successione di leggi penali305.
Si è già evidenziato come le norme giuridiche o extragiuridiche cui si
riferiscono gli elementi normativi sono solo apparentemente integratrici, non
concorrendo a descrivere la fattispecie legale astratta e, pertanto, non
delineando il giudizio di disvalore espresso dal legislatore nella configurazione
del reato306.
Se si accetta, quindi, la tesi delle norme apparentemente integratrici, la
loro modifica non è mai in grado di comportare abolitio criminis poiché:
− da un lato, non incide sulla struttura (o fisionomia) della fattispecie legale
astratta307;
− dall’altro, non fa venir meno l’offesa al bene giuridico tutelato, ormai
definitivamente recata nella forma descritta dall’immutata fattispecie legale
astratta e, quindi, non si ripercuote sulle scelte politico-‐‑criminali e sul giudizio
di disvalore espresso dal legislatore in relazione ad un invariato modello di
condotta (o di tipo di fatto)308.
Tali ragioni sono insieme di ordine formale e sostanziale, nello specifico:
a) la mancata incidenza della modifica delle norme richiamate dagli elementi
normativi sulla struttura o fisionomia della fattispecie legale astratta si spiega in
quanto la ragione che porta a qualificare le norme stesse come apparentemente
integratrici risiede nell’autonomia concettuale e funzionale degli elementi
normativi dalle norme richiamate.
305 RISICATO, Gli elementi normativi, cit., p. 227. 306 Ancora cfr. supra, Cap. II, § 2.2.1. 307 CADOPPI, VENEZIANI, Elementi di diritto penale, cit., p. 115; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 273; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 94; PALAZZO, Corso di diritto penale, cit., p. 154; ROMANO, Commentario, cit., p. 59. 308 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, loc. cit.; PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., p. 132; PULITANÒ, L’errore di diritto, cit., p. 314; ROMANO, Commentario, loc. cit.
90
In particolare, soltanto l’elemento normativo, non anche le norme da
questo richiamate, contribuisce alla descrizione della fattispecie legale astratta,
al pari di ogni altro elemento, anche descrittivo: di conseguenza, la modifica di
esso, come in caso di modifica di un elemento descrittivo, incide direttamente
sulla struttura della fattispecie legale astratta e quindi può comportare abolitio
criminis309.
Data per assodata l’autonomia concettuale e funzionale degli elementi
normativi dalle norme richiamate, si comprende perchè queste ultime non
divengono mai parte integrante della norma incriminatrice310.
Tale considerazione è di fondamentale importanza: infatti, se l’abolitio
criminis dipende necessariamente da una modifica strutturale della fattispecie
legale – la quale si accerta mediante un confronto tra le fattispecie legali astratte
in successione –, mai una modifica della struttura della fattispecie e, quindi,
un’abolitio criminis, può conseguire alla modifica delle norme richiamate dagli
elementi normativi. In particolare, la modifica di queste norme non influisce sul
significato di questi ultimi e, dunque, non si ripercuote sulla struttura della
fattispecie legale astratta che li impiega nella propria descrizione311.
b) la mancata incidenza della modifica delle norme richiamate dagli elementi
normativi sull’offesa al bene giuridico tutelato, definitivamente recata nella
forma descritta dall’immutata fattispecie legale astratta e, quindi, sulle scelte
politico-‐‑criminali e sul giudizio di disvalore espresso dal legislatore in relazione
ad un invariato tipo di fatto.
309 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 275. Si sottolinea che la distinzione tra la modifica dell’elemento normativo e la modifica delle norme richiamate è stata affermata soltanto da parte della dottrina come l’Autore citato. Al contrario vi è chi non sembra aver colto questa fondamentale suddivisione, si veda ad esempio CARACCIOLI, Manuale di diritto penale. Parte generale, II ed., Padova, 2005, p. 86, il quale utilizza l’espressione «mutamento di elementi normativi» per riferirsi al fenomeno della modifica delle norme richiamate, e non degli elementi normativi. 310 PULITANÒ, L'ʹerrore di diritto, cit., p. 262; RISICATO, Gli elementi normativi, cit., p. 341. 311 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 278.
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La fattispecie legale astratta è lo strumento di cui il legislatore si serve
per selezionare le classi di fatti che giudica penalmente rilevanti, perchè
meritevoli e bisognosi di pena: pertanto, tale giudizio in merito al disvalore di
determinate classi di fatti, in quanto offensive di uno o più beni giuridici trova,
dunque, espressione nella fisionomia della fattispecie legale312.
Una mutata valutazione legislativa in ordine al disvalore penale di un
certo tipo di fatto non può pertanto mai essere la conseguenza della modifica
delle norme richiamate dagli elementi normativi: sono norme soltanto
apparentemente integratrici, la cui modifica non incide sulla forma di offesa
descritta dalla fattispecie legale, che il legislatore intende reprimere con la pena.
L’offesa al bene giuridico, valutata in relazione al momento in cui è stata
posta in essere la condotta, risulta definitivamente e irreversibilmente recata313.
Il fatto che, in un momento successivo alla commissione del fatto, venga
meno la norma, giuridica o extragiuridica, che in precedenza ha consentito
l’attribuzione nel caso concreto della qualifica espressa dall’elemento normativo
della fattispecie, è del tutto irrilevante rispetto al giudizio di disvalore per
l’offesa ormai definitivamente recata, nella forma tuttora prevista da quella
fattispecie, rimasta immutata.
È opportuno sottolineare come oltre alla soluzione poc’anzi delineata, di
cui si condivide le argomentazioni, sussistano posizioni che ammettono
l’abolitio criminis come conseguenza della modifica di norme richiamate dagli
elementi normativi.
Pertanto, esistono tre filoni dottrinali diversi che si possono distinguere
su tale argomento:
− coloro i quali negano senza eccezioni che sia applicabile la disciplina dell’art.
2 comma 2 c.p.314;
312 ID., Abolitio criminis, cit., p. 280. 313 PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., p. 134; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 187.
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− coloro che ammettono delle eccezioni315;
− chi, infine, ritiene che la disciplina dell’art. 2 comma 2 c.p. sia, viceversa,
sempre applicabile316.
La diversità di tali tesi dipende da due profili: da un lato, dalla
distinzione o meno tra norme integratrici e non integratrici; dall’altro, dalla
eterogeneità dei criteri di accertamento dell’abolitio criminis317.
4. LA SOLUZIONE DELLA GIURISPRUDENZA
Negli anni anche la giurisprudenza ha affrontato numerose volte la
questione relativa alla successione delle disposizione integratrici.
Di seguito, quindi, si esamineranno alcuni dei casi più significativi
sull’argomento.
L’esempio più noto di successione di norme (apparentemente)
integratrici, in particolare di norme penali richiamate da elementi normativi, è
rappresentato dall’abolizione del reato oggetto di falsa incolpazione nella
calunnia318.
314 CADOPPI, VENEZIANI, Elementi di diritto penale, cit., p. 115; DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 273; GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 273; ROMANO, Commentario, cit., p. 59. 315 MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 88; MICHELETTI, Legge penale, cit., p. 355; PULITANÒ, Diritto penale, cit., p. 186. 316 CARACCIOLI, Manuale di diritto penale, cit., p. 86; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 96; RISICATO, Gli elementi normativi, cit., p. 273. 317 In ordine ai criteri di accertamento del fenomeno dell’abolitio criminis cfr. supra, Cap. I, § 3.4. 318 Si ricorda che a norma dell’art. 368 c.p. «Chiunque, con denunzia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all'ʹautorità giudiziaria o ad un'ʹaltra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato, è punito con la reclusione da due a sei anni. La pena è aumentata se s’incolpa taluno di un reato per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, o un’altra pena più grave. La reclusione è da quattro a dodici anni, se dal fatto deriva una condanna alla reclusione superiore a cinque anni; è da sei a venti anni, se dal fatto deriva una condanna all’ergastolo; e si applica la pena dell’ergastolo, se dal fatto deriva una condanna alla pena di morte».
93
L’orientamento della Corte di cassazione è sempre stato assolutamente
costante nel ritenere che la perseguibilità del delitto di calunnia già consumato
permane anche qualora, per un intervento del legislatore, il fatto oggetto di
incolpazione non costituisce più reato o diventa perseguibile a querela e questa
non sia stata proposta319.
Poiché la falsa attribuzione di un fatto costituente reato integra
l’elemento materiale della fattispecie criminosa, essa deve essere apprezzata con
riferimento al momento consumativo, non influendo viceversa sulla sussistenza
della fattispecie le modifiche legislative incidenti sulla definizione del reato
presupposto, che nulla hanno a che vedere con la disciplina di cui all’art. 2
c.p.320.
Un’ipotesi, invece, di successione di norme extrapenali richiamate da
elementi normativi si può rinvenire nelle norme del diritto militare.
La questione concerne l’abolizione del servizio militare di leva: in
particolare, la giurisprudenza ha cercato di stabilire se i provvedimenti
legislativi che hanno determinato la sospensione del servizio di leva avessero
natura di leggi integratrici produttive di un’abolitio criminis (almeno parziale),
319 Cfr. Cass. pen., sez. VI, 21 novembre 1988, n. 12673, in Cass. pen., 1990, p. 227; Cass. pen., sez. VI, 10 dicembre 1991, De Donato, in Riv. pen., 1993, p. 603; Cass. pen., sez. VI, 21 maggio 1999, Zini, in Cass. pen., 2000, p. 2253; Cass. pen., sez. VI, 8 aprile 2002, n. 14352, in Cass. pen., 2004, p. 2253. 320 Ancora Cass. pen., sez. VI, 8 aprile 2002, n. 14352, cit. Si sottolinea che, a differenza della giurisprudenza, la dottrina ha fornito soluzioni non univoche sostenendo: da un lato, la perdurante punibilità della calunnia anche se per novazione legislativa il fatto oggetto della falsa incolpazione non costituisce più reato; dall’altro, poiché il reato nel delitto di calunnia contribuisce a delineare l'ʹarea normativa, qualora il legislatore abroghi o depenalizzi un qualsiasi reato si restringe l’area normativa. In dottrina per la prima impostazione si veda per tutti GROSSO, Successione di norme integratrici, cit., p. 1209; PARDINI, Vecchi e nuovi problemi in tema di successione di norme integratrici, in Dir. pen. e proc., 2006, p. 619. Per l'ʹaltra posizione cfr. CARACCIOLI, Manuale di diritto penale, cit., p. 91; GAMBARDELLA, L'ʹabrogazione, cit., p. 249; RISICATO, Gli elementi normativi, cit., p. 253.
94
rispetto ad esempio ai reati di mancanza alla chiamata alle armi (art. 151
c.p.m.p.321) e di diserzione (art. 148 c.p.m.p.322)323.
La Corte di legittimità, ad eccezione di alcune decisioni isolate324, si è
sempre pronunciata, in relazione alle figure di reato sopra citate, nel senso che
la riforma del servizio militare obbligatorio abbia dato luogo ad una
successione di norme integratrici ritenendo, quindi, applicabile i principi di cui
all’art. 2 c.p.
Sulla questione si formarono due orientamenti:
− inizialmente, gli Ermellini ritennero applicabile l’art. 2 comma 2 c.p.: in altri
termini, la riforma del servizio militare obbligatorio avrebbe comportato
l’abolizione dei reati de quibus, facendo venir meno la rilevanza penale dei fatti
antecedentemente commessi, con la conseguente revoca delle sentenze
definitive di condanna325;
− successivamente, il Supremo Collegio adottò un diverso indirizzo secondo il
quale si ritenne sussistente una parziale abolitio criminis dei reati in parola, che
con riguardo ai fatti commessi prima della riforma del servizio militare
obbligatorio, tuttavia negando che in relazione a quei fatti sia applicabile l’art. 2
comma 2 c.p. e, al contrario, applicando il comma 4 della medesima
321 Tale disposizione prevede: «Il militare, che, chiamato alle armi per adempiere il servizio di ferma, non si presenta, senza giusto motivo, nei cinque giorni successivi a quello prefisso, è punito con la reclusione militare da sei mesi a due anni. La stessa pena si applica al militare in congedo, che, chiamato alle armi, non si presenta, senza giusto motivo, nei tre giorni successivi a quello prefisso. Se la chiamata alle armi è fatta per solo scopo di istruzione, il militare, che non si presenta, senza giusto motivo, negli otto giorni successivi a quello prefisso, è punito con la reclusione militare fino a sei mesi». 322 Il quale punisce «1. il militare, che, essendo in servizio alle armi, se ne allontana senza autorizzazione e rimane assente per cinque giorni consecutivi; 2. il militare, che, essendo in servizio alle armi e trovandosi legittimamente assente, non si presenta, senza giusto motivo, nei cinque giorni successivi a quello prefisso». 323 Sul tema cfr. BRUNELLI, MAZZI, Diritto penale militare, Milano, 2007, p. 9. 324 Cass. pen., sez. I, 19 luglio 2005, n. 26792, in Cass. pen., 2006, p. 1807; Cass. pen., sez. I, 23 maggio 2006, n. 21846, in De Jure. 325 Fra le tante cfr. Cass. pen., sez. I, 10 febbraio 2005, Caruso, in Cass. pen., 2006, p. 418; Cass. pen., sez. I, 24 gennaio 2006, Bova, in Dir. pen. e proc., 2006, p. 614; Cass. pen., sez. I, 6 aprile 2006, n. 15992, in De Jure.
95
disposizione, ossia la disciplina della successione di leggi meramente
modificative326.
Appare opportuno evidenziare come nessuno dei due indirizzi
interpretativi giurisprudenziali può condividersi: nel caso di specie non si
applica né l’art. 2 comma 2 c.p, non essendosi verificata alcuna abolitio criminis,
né l’art. 2 comma 4 c.p., poiché la disciplina dei reati di «assenza dal servizio»327
non è stata modificata.
Nello specifico, è assolutamente privo di fondamento il secondo
orientamento, il quale per salvare le sentenze definitive di condanna, ritiene
esistente una supposta abolitio criminis parziale dei reati in parola, applicando
però il quarto comma dell’art. 2 invece che il secondo.
La disciplina applicabile, in caso di abolitio criminis parziale o totale, è
quella contenuta nell’art. 2 comma 2 c.p. che impone la revoca della sentenza di
condanna passata in giudicato: tale esito non può essere evitato328.
In ordine, altresì, alle norme penali in bianco si è già evidenziato come è
sempre possibile che si prospetti una questione di successione di norme
realmente integratrici: anche qui è opportuno domandarci se si verifichi o meno
una successione di leggi penali da disciplinare ai sensi dell’art. 2 c.p. e,
soprattutto, se il fenomeno possa comportare, ex art. 2 comma 2 c.p., una
parziale o totale abolizione del reato configurato dalla norma penale in
bianco329.
326 Per tutte Cass. pen., sez. I, 11 maggio 2006, Brusaferri, in Riv. it. dir. pen. e proc., 2006, p. 1633. È chiaro come tale orientamento piuttosto contraddittorio abbia una ragione politico-‐‑giudiziaria. Anche in questo caso la dottrina non si è espressa in modo inequivocabile: per chi nega l’abolitio criminis si veda a titolo esemplificativo BRUNELLI, MAZZI, Diritto penale militare, cit., p. 239; MICHELETTI, Legge penale, cit., p. 521; per chi, invece, ammette l’abolitio criminis cfr. per tutti RISICATO, Successione di norme “integratrici” e mancanza alla chiamata di leva: si consolida il revirement della Cassazione, nota a Cass. pen., sez. I, 11 maggio 2006, Brusaferri, cit., p. 1648. 327 Così vengono chiamati i reati di mancanza alla chiamata alle armi e di diserzione. 328 GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 784. 329 In questi termini GATTA, Abolitio criminis, cit., p. 869.
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Un tipico esempio è rappresentato dai reati in materia di sostanze
stupefacenti, poichè la disciplina penale (D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309330) è uno
dei casi più emblematici in cui il legislatore ha usato norme penali parzialmente
in bianco: infatti, l’individuazione delle sostanze stupefacenti è stata affidata a
norme diverse da quelle incriminatrici e, in particolare, a norme che
predispongono delle tabelle, periodicamente aggiornate, in cui tali sostanze
vengono individuate e raggruppate in elenchi331.
Tali norme sono vere e proprie norme integratrici della legge penale,
concorrendo alla descrizione delle fattispecie legali astratte nei reati in materia
di stupefacenti332.
In giurisprudenza si è affermato che in questi casi, in cui si verifica una
successione nel tempo di norme extrapenali integratrici del precetto penale, si
deve escludere l’applicabilità del principio di cui all’art. 2 comma 4 c.p. qualora
si tratti di modifiche della disciplina integratrice della fattispecie penale che non
incidano sulla struttura essenziale del reato, ma comportino esclusivamente una
variazione del contenuto del precetto delineando la portata del comando.
Tale circostanza si verifica, in particolare, quando la nuova disciplina
non abbia inteso far venir meno il disvalore sociale della condotta, e quindi
l’illiceità penale della stessa, ma si sia limitata a modificare i presupposti per
l’applicazione della norma incriminatrice penale333.
La fattispecie concreta riguardava una vicenda relativa al trattamento da
riservare alla sostanza norefredina o fenilpropanolamina, che, successivamente
alla commissione dei fatti oggetto di giudizio, relativamente ai quali era stato
contestato il reato di cui all’art. 73 D.P.R. n. 309/1990, era stata ricompresa tra i
330 Testo Unico in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope. 331 È il Ministero della Salute a predisporre tali tabelle mediante dei provvedimenti generali ed astratti (ossia decreti ministeriali), sulla base di criteri determinati dalla legge. 332 DOLCINI, MARINUCCI, Corso, cit., p. 277; PULITANÒ, L'ʹerrore di diritto, cit., p. 319; ROMANO, Repressione, cit. p. 154. 333 Nei seguenti termini cfr. Cass. pen., sez. IV, 22 febbraio 2006, n. 17230, in Cass. pen., 2007, 6, p. 2500.
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«precursori», ossia tra le sostanze suscettibili di impiego per la produzione di
sostanze stupefacenti o psicotrope334.
Da ultimo, giova ancora richiamare tre recenti sentenze delle Sezioni
Unite della Corte di cassazione, le quali hanno fornito degli importanti
contributi alla soluzione del problema dell’abolitio criminis come conseguenza
della successione di norme integratrici.
In questo paragrafo verranno richiamate soltanto due di esse, in quanto
la sentenza Niccoli335 verrà trattata ampiamente nella seconda parte
dell'ʹelaborato ove si affronterà il tema centrale della nostra trattazione.
La prima decisione, in ordine cronologico, è stata la sentenza Magera336
in cui gli Ermellini sono stati chiamati a statuire in ordine alla punibilità dei
cittadini rumeni espulsi, autori del reato di inosservanza dell’ordine di
allontanamento dallo Stato, impartito dal questore ai sensi dell’art. 14 comma 5
ter T.U.Imm., qualora successivamente alla commissione del fatto tali soggetti
abbiano perso lo status di extracomunitari per effetto dell’adesione della
Romania all’Unione europea.
Nonostante sull’argomento non vi fosse un vero e proprio contrasto
giurisprudenziale, la prima sezione ha rimesso comunque la questione alle
Sezioni Unite poichè all’interno della giurisprudenza di legittimità erano
presenti indirizzi contrapposti sul tema della modifica mediata della fattispecie
334 La dottrina in ordine all’ipotesi di eliminazione di una sostanza dall'ʹelenco degli stupefacenti, si è espressa per l'ʹapplicabilità della disciplina dell’art. 2 comma 2 c.p., ritenendo che eliminare una sostanza da un elenco di stupefacenti contenuto in un decreto ministeriale determina una parziale abolizione dei reati in tale materia, con effetto retroattivo per chi abbia agito prima della modifica del decreto ministeriale: ciò avviene dopo aver qualificato le sostanze stupefacenti come vere e proprie norme integratrici delle norme incriminatrici in bianco previste dal T.U.l.stup., le quali contribuiscono a descrivere il precetto ed a delineare il giudizio di disvalore espresso dal legislatore nella configurazione del reato. 335 Cass. pen., sez. un., 28 febbraio 2008, Niccoli, in Cass. pen., 2008, p. 3592, di tale pronuncia si dirà ampiamente nel prossimo capitolo. 336 Cass. pen., sez. un., 27 settembre 2007, Magera, in Riv. pen., 2008, 3, p. 245.
98
a seguito di successione nel tempo di leggi richiamate dalla disposizione
incriminatrice principale337.
La pronuncia in parola, ribadendo la soluzione adottata dal precedente
uniforme indirizzo interpretativo, ha risolto in senso negativo il quesito
sottoposto alla sua attenzione: in particolare, il Supremo Collegio ha chiarito
che la qualità di appartenenti all’Unione europea, acquisita dai cittadini della
Romania e degli altri Paesi che erano di recente entrati a far parte dell'ʹUnione,
non ha inciso sul reato previsto dall’art. 14, comma 5 ter, D.Lvo n. 286 del 1998,
determinando una sua parziale abolizione con effetto retroattivo, bensì ha
solamente dato luogo ad una modifica della situazione di fatto, che ha reso
lecita la loro permanenza in Italia dal momento dell’ingresso dei rispettivi Stati
nell’Unione338.
Successivamente, la seconda decisione è arrivata nel 2009 quando le
Sezioni Unite339 sono state chiamate a decidere se, dopo l’abolizione della
procedura di amministrazione controllata a seguito della riforma della legge
fallimentare del 2006, si fosse determinata, rispetto al reato di bancarotta
fraudolenta impropria (punito ai sensi dell’art. 236 comma 2 n. 1 l. fall.), una
vera e propria abolitio criminis340 oppure una semplice successione modificativa
tra norme.
In particolare, la modifica legislativa in parola aveva sollevato il delicato
problema della corretta lettura dei principi in tema di successione temporale in
materia di norme penali, disciplinati nell’art. 2 c.p., ossia i principi
dell’irretroattività della norma penale incriminatrice o più sfavorevole e della
retroattività di quella penale di favore, indipendentemente dal suo effetto
abrogativo o meramente modificativo della disciplina previgente.
337 Sul contrasto in dottrina si veda MICHELETTI, Legge penale, cit., p. 115. 338 GAMBARDELLA, Nuovi cittadini dell’Unione europea e abolitio crimnis parziale dei reati in materia d’immigrazione, in Cass. pen., 2008, 3, p. 910. 339 Cass. pen., sez. un., 26 febbraio 2009, Rizzoli, in Riv. pen., 2009, 9, p. 951. 340 Con conseguente revoca, ex art. 673 c.p.p., delle sentenze definitive di condanna.
99
Il quesito al quale la Suprema Corte doveva rispondere consisteva,
pertanto, nello stabilire se si fosse di fronte ad un’ipotesi di continuità punitiva,
rientrando nell’art. 2 comma 4 c.p., oppure se si fosse davanti ad un’ipotesi di
abolitio criminis, disciplinata dal comma 2 della disposizione citata341.
In realtà anche questa volta si rinveniva l’esigenza di un’ulteriore
decisione nell’ambito del diritto intertemporale, sebbene non vi fosse alcun
contrasto giurisprudenziale in riferimento al caso concreto da decidere342.
Contrariamente a quanto accaduto nella sentenza Magera, qui le Sezioni
Unite hanno chiarito che l’abrogazione dell'ʹamministrazione controllata e la
soppressione di qualsiasi riferimento ad essa contenuta nel r.d. 16 marzo 1942 n.
267, ad opera dell’art. 147 del D.Lvo n. 5/2006, hanno determinato un’ipotesi di
abolitio criminis tipica, abolendo il reato di bancarotta societaria connessa a tale
procedura concorsuale, con la conseguente operatività dell’art. 2 comma 2 c.p. e
della disciplina dell’art. 673 c.p.p. ai fini della revoca della corrispondente
statuizione di condanna343.
Delineate nei termini di cui sopra, è opportuno analizzare le due
pronunce mediante uno sguardo d’insieme, poiché al di là delle diverse
soluzioni adottate, sussiste un elemento comune: l’adozione dello stesso criterio
per accertare l’abolitio criminis, ossia il criterio strutturale344.
Nello specifico, l’abolitio criminis, che comporta la perdita di rilevanza
penale del fatto, deriva sempre da una modifica della fattispecie legale astratta
341 Così GIOFFREDA, Sentenza Rizzoli: viene meno ogni legame tra norma incriminatrice e fatto di reato. Abolita la fattispecie di bancarotta fraudolenta connessa all’amministrazione controllata, in www.dirittoegiustizia.it, 2009. 342 GAMBARDELLA, L’abolizione del delitto di bancarotta impropria commesso nell’ambito di società in amministrazione controllata (art. 236, cpv, n. 1 l. fall), in Cass. pen., 2009, 11, p. 4124. 343 Così Cass. pen., sez. un., 26 febbraio 2009, Rizzoli, cit. 344 GATTA, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici” nella recente giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in Cass. pen., 2011, 1, p. 434.
100
che si erige non soltanto a strumento di selezione di fatti penalmente rilevanti,
«ma anche strumento di deselezione dei fatti stessi»345.
Il ricorso al criterio strutturale per la risoluzione dei problemi di abolitio
criminis per la successione di norme integratrici rappresenta una novità nella
giurisprudenza delle Sezioni Unite346.
Si privilegia, così, il criterio della c.d. doppia punibilità in astratto,
secondo cui non si verifica un’abolizione totale dell’illecito penale se la
fattispecie prevista dalla norma successiva è punita anche in base alla norma
precedente rientrando nel suo campo di applicazione.
Ciò si verifica, in linea generale, qualora tra le due norme in successione
temporale sussista una relazione di genere a specie: cosicchè si è in presenza di
una vicenda di parziale abrogazione dell’ipotesi criminosa347.
Benchè nelle due pronunce in esame si sia enunciato il criterio del
confronto tra modelli astratti di reato, i Giudici di legittimità in entrambe le
occasioni hanno risolto i casi concreti prescindendo da essi348.
In particolare, nella sentenza Magera si è fatto prevalere le ragioni
politico-‐‑criminali affermando che non si era determinata una parziale abolitio
criminis per i reati in materia di immigrazione commessi da cittadini rumeni o
bulgari prima del 1° gennaio 2007.
Infatti, secondo gli Ermellini l’ingresso di uno Stato nell’Unione Europea
non determina che «la punibilità per la violazione dell’ordine di lasciare lo Stato
a suo tempo legittimamente dato dal questore al cittadino di un Paese terzo 345 Testualmente Cass. pen., sez. un., 26 febbraio 2009, Rizzoli, cit. 346 Si precisa che la prima sentenza su questo tema aveva risolto la questione sulla base del criterio del fatto concreto (o c.d. doppia punibilità in concreto), escludendo la punibilità del peculato dell’operatore bancario per i fatti commessi prima che venisse meno in capo al soggetto, la qualifica di incaricato di pubblico servizio: cfr. Cass. pen., sez. un., 23 maggio 1987, Tuzet, in Riv. it. dir e proc. pen., 1987, p. 695. Inoltre, è bene precisare che il criterio strutturale si era già affermato con la sentenza Giordano (Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2003, n. 25887, in Cass. pen., 2003, p. 3310) con riguardo, però, alle modifiche c.d. immediate (vale a dire quelle che incidono direttamente sul testo della norma incriminatrice). 347 Cass. pen., sez. un., 27 settembre 2007, Magera, cit. 348 GAMBARDELLA, L'ʹabolizione del delitto di bancarotta impropria, cit., p. 4125.
101
possa diventare non punibile perchè successivamente la legge sopravvenuta ne
avrebbe potuto legittimare la sua permanenza nel territorio dello Stato.
La fattispecie del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5 ter, è rimasta
immutata e la modificazione intervenuta nella disciplina dei permessi può
incidere sulla condizione dello straniero, consentendogli di ottenere un
permesso che prima gli era precluso, ma non può far venir meno la punibilità di
un fatto già commesso.
Diversa a quanto pare dovrebbe essere la conclusione se a cambiare fosse
proprio la definizione di straniero contenuta nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 1. Se
dalla categoria venisse escluso il cittadino di uno Stato in attesa di adesione
all’Unione sarebbe la stessa fattispecie penale a risultare diversa e a vedersi
sottrarre una parte della sua sfera di applicazione, secondo lo schema tipico
dell’abolizione parziale, riconducibile all’art. 2 c.p., comma 2, (Sez. un. 26 marzo
2003, n. 25887, Giordano).
In un caso del genere dall’ambito della precedente fattispecie verrebbe
esclusa una sottoclasse, quella relativa ai cittadini dei Paesi candidati
all’ingresso nell’Unione Europea, e rispetto a questa sottoclasse si potrebbe
parlare di abolitio criminis, come avviene quando in una vicenda di successione
di leggi penali una fattispecie più ampia viene sostituita con una più limitata (si
pensi alla modificazione del reato di abuso di ufficio o di quello di false
comunicazioni sociali, dei quali la giurisprudenza ha avuto occasione di
occuparsi ampiamente), facendo venire meno la punibilità dei fatti che, pur
integrando precedentemente il reato, non rientrano nella nuova fattispecie»349.
Al contrario nella sentenza Rizzoli usando il medesimo criterio si è giunti
ad una soluzione opposta.
Qui le Sezioni Unite hanno osservato, preliminarmente, che non si
trattava di una modifica mediata ma di un caso di modifica immediata della
349 Testualmente in motivazione Cass. pen., sez. un., 27 settembre 2007, Magera, cit.
102
legge penale, poiché la riforma della legge fallimentare non era soltanto
intervenuta sulla normativa esterna relativa all’istituto dell’amministrazione
controllata, ma aveva eliminato espressamente ogni riferimento a tale istituto
presente nella disposizione incriminatrice, la quale per tale ragione risultava
amputata di un elemento strutturale.
Quindi, proprio sulla base di tale modifica strutturale della fattispecie
legale astratta le Sezioni Unite hanno riconosciuto l’abolitio criminis della
bancarotta antecedentemente commessa in società che fossero state ammesse
all'ʹamministrazione controllata350.
Il caso in esame in quest’ultima pronuncia è un tipico esempio di
modifica di un elemento normativo della fattispecie penale.
350 Così GATTA, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici”, cit., p. 440.
103
CAPITOLO III
LA NOZIONE DI
“PICCOLO IMPRENDITORE”
SOMMARIO: 1. Cenni introduttivi – 2. L’originario art. 1 L.fall. – 3. La nuova formulazione introdotta dal D.Lvo 9 gennaio 2006 n. 5 – 4. Il decreto correttivo del 2007 – 5. I problemi di diritto intertemporale e gli orientamenti della giurisprudenza – 6. La sentenza delle Sezioni Unite Niccoli – 7. La giurisprudenza successiva
1. CENNI INTRODUTTIVI
Dopo una lunga ed attenta disamina delle problematiche di diritto
intertemporale, in particolare in tema di successione di norme integratrici,
siamo giunti al cuore dell’elaborato in cui ci occuperemo del fallimento del
“piccolo imprenditore”, o meglio, del fallimento dell’“imprenditore” dopo le
modifiche apportate dalle leggi di riforma all’art. 1 L.fall.
Innanzitutto, sono doverose alcune considerazioni in ordine alle citate
riforme.
La disciplina fallimentare, contenuta nel r.d. 16 marzo 1942 n. 267351, è
sostanzialmente contemporanea al Codice Civile ed è rimasta quasi immutata
per oltre un sessantennio salvo alcuni interventi, anche incisivi, della Corte
Costituzionale.
Essa, in origine, era caratterizzata da una concezione pubblicistica delle
procedure concorsuali: il legislatore, infatti, aveva strutturato un sistema
finalizzato a non lasciare in vita quelle imprese che potessero essere causa di
351 Intitolato «Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa».
104
nuovi dissesti per la mancata realizzazione dei crediti da parte di altri soggetti,
a loro volta imprenditori commerciali, con le prime operanti352.
Pertanto, a fronte dei significativi mutamenti intervenuti nella realtà
economica ed imprenditoriale italiana, era inevitabile un intervento
legislativo353.
Inoltre, la normativa in questione andava adeguata alla disciplina
comunitaria e soprattutto ai principi indicati nella Comunicazione agli Stati
membri n. 288/02 del 1999 e alle norme del Regolamento n. 1346 del 19 maggio
2000, entrato in vigore il 31 maggio 2002354.
In sede europea si è sempre molto insistito in ordine alla necessità che gli
Stati membri si dotassero di una disciplina il più uniforme possibile, che
superasse l’ottica prevalentemente liquidatoria dell’impresa insolvente e che si
concretasse principalmente sul salvataggio e la ristrutturazione dell’impresa
stessa nonché sulla salvaguardia dei livelli occupazionali, anche mediante aiuti
di Stato, ma nel rispetto del principio della libera concorrenza all’interno del
Mercato Unico355.
La riforma organica delle procedure concorsuali aveva come obiettivo
quello di garantire una gestione rapida ed efficiente della crisi d’impresa
incentivando l’emersione precoce di essa ed offrendo procedure alternative per
la risoluzione preventiva e stragiudiziale356.
Soprattutto negli ultimi due decenni il processo di riforma della materia
fallimentare ha subito un importante acceleramento, tradottosi in primo luogo 352 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, tributari, ambientali e dell’urbanistica, in GROSSO (a cura di), Manuale di diritto penale. Leggi complementari, II, Milano, 2008, p. 6. 353 Cfr. AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, III ed., Bologna, 2012, p. 267. 354 Nella Comunicazione del 1999 la Commissione aveva ritenuto che un’impresa potesse essere considerata “in difficoltà” quando non fosse in grado, con le proprie risorse finanziarie ottenendo i fondi necessari dai proprietari e/o azionisti o dai creditori, di contenere le perdite che avrebbe potuto condurla quasi certamente, senza un intervento esterno dei poteri pubblici, al collasso economico a breve o a medio tempore. 355 ALLEVA, Primissime note critiche in tema di riforma fallimentare, in Riv. giur. lav., 2006, p. 103. 356 ASSONIME, Rapporto sull’attuazione della riforma della legge fallimentare e sulle sue più recenti modifiche, 2012, 4, p. 2.
105
nel D.L. 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano
di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale: in particolare, l’art. 2
aveva in parte modificato la disciplina della revocatoria, del concordato
preventivo ed introdotto nel nostro ordinamento gli accordi di ristrutturazione
dei debiti di cui all’art. 182 bis della L.fall.357.
Il decreto legge di cui sopra è stato convertito nella legge 14 maggio 2005,
n. 80358, nella quale era stata aggiunta una delega al Governo ad emanare, entro
180 giorni dall’entrata in vigore della legge stessa, uno o più decreti legislativi
recanti «la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali»359.
Successivamente, a completamento dell’intervento riformatore, il
legislatore ha licenziato la legge delega da cui è derivato il D.Lvo 9 gennaio
2006, n. 5360, il quale ha rimodellato in modo completo il regime del fallimento e
delle altre procedure concorsuali.
Ed infine, con il D.Lvo 12 settembre 2007, n. 169361, il Governo ha
emanato disposizioni correttive ed integrative362.
Le modifiche normative apportate nel biennio 2005–2007 hanno
rappresentato un passo significativo verso la modernizzazione della disciplina
per garantire la speditezza del procedimento, la conservazione dei mezzi
produttivi dell’impresa e liquidazioni più efficienti. I nuovi istituti, in specie le
357 VENTURI, Il fallimento nella nuova riforma delle procedure concorsuali, in www.tuttocamere.it, 2006, p. 1. 358 Intitolata «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali». 359 VENTURI, Il fallimento nella nuova riforma, cit., p. 2. 360 «Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80». 361 Rubricato «Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonchè al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5 bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80». 362 AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 268.
106
soluzioni concordate tra debitori e creditori avrebbero dovuto incentivare
l’imprenditore ad affrontare tempestivamente la crisi, riducendone i costi e
garantendo una tutela diretta al ceto creditorio363.
Tuttavia, si evidenzia che nessuno di questi testi legislativi si è occupato
del comparto penale connesso alle procedure concorsuali.
Invero, nonostante il complessivo articolato depositato dalla
Commissione Trevisanato, che diede vita al D.Lvo n. 5/2006, si fosse occupato
anche della parte relativa alle fattispecie penali, l’emendamento che le
riguardava fu stralciato e non vide mai l’approvazione364.
Vedremo meglio nel prosieguo quali ripercussioni ha l’evidente
contrasto tra il nuovo concorsuale ed i vecchi panni penali, poiché il silenzio del
legislatore sul punto non lascia indenne l’applicazione delle fattispecie
punitive365.
In ogni caso, le disposizioni penali sono raccolte nel Titolo VI della
L.fall., agli artt. 216 e ss., in cui il Capo I contiene i reati commessi dal fallito,
mentre al Capo II sono previsti quelli commessi da persone diverse dal fallito.
Nel successivo Capo III sono dettate tre norme che estendono
l’applicazione delle sanzioni penali alle altre procedure concorsuali: in
particolare, al concordato preventivo, agli accordi di ristrutturazione dei debiti,
ai piani attestati e alla liquidazione coatta amministrativa366. Infine, il Titolo in
parola termina con il Capo IV in cui sono presenti alcune disposizione a
carattere processuale.
Circa le singole fattispecie, si evidenzia la riformulazione della c.d.
bancarotta fraudolenta impropria di cui all’art. 223 comma 2 n. 2 L.fall.,
avvenuta in occasione della riforma dei reati societari. Ed inoltre, anche il
363 ASSONIME, Rapporto sull'ʹattuazione della riforma, cit., p. 9. 364 SANDRELLI, La riforma della legge fallimentare: i riflessi penali, in Cass. pen., 2006, 4, p. 1296. 365 ID., La riforma della legge fallimentare, cit., p. 1297. 366 La rubrica del Capo III è stata sostituita da ultimo dalla lettera i) del comma 1 dell’art. 33 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83.
107
delitto di ricorso abusivo al credito ha subito una rinnovazione con la legge 28
dicembre 2005, n. 262367.
Ancora, va ricordata la scomparsa, con l’avvento del D.Lvo n. 169/2007,
di alcuni tradizionali istituti, come la riabilitazione del fallito, il fallimento con
procedura sommaria e l’amministrazione controllata, che ha comportato
l’abrogazione implicita totale o parziale delle norme a cui vi facevano
riferimento: ossia gli artt. 221, 236 e 241 L.fall.368.
Con la previsione di nuovi istituti tesi a favorire il superamento della
crisi d’impresa (come ad esempio gli accordi di ristrutturazione di cui all’art.
182 bis L.fall. o il piano di risanamento ex art. 67 comma 3 lett. d) L.fall.), il
legislatore ha sentito la necessità di introdurre una disciplina che collegasse gli
strumenti di risoluzione della crisi e le fattispecie di bancarotta fraudolenta
preferenziale e di bancarotta semplice: infatti, in caso di insuccesso delle
soluzioni concordate e di conseguente fallimento dell’imprenditore, i
pagamenti e le operazioni poste in essere per realizzare le suddette procedure
concorsuali risultavano idonee ad integrare i reati ai sensi degli artt. 216 comma
3 e 217 L.fall., con successivo disincentivo all’adozione dei nuovi istituti di
diritto fallimentare369.
Per tale ragione, con il D.L. 30 luglio 2010, n. 78, è stato introdotto l’art.
217 bis L.fall., secondo il quale non sono inquadrabili nelle fattispecie di
bancarotta preferenziale e semplice i pagamenti e le operazioni realizzate nella
367 In tema di «Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari». 368 A proposito, ALESSANDRI, Profili penalistici delle innovazioni in tema di soluzioni concordate delle crisi d'ʹimpresa, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2006, I, p. 111; MANGIONE, Riflessioni penalistiche sulla riforma delle procedure concorsuali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2006, 3, p. 891; SANDRELLI, La riforma della legge fallimentare, cit., p. 1300. 369 Si veda MUCCIARELLI, L'ʹesenzione dei reati di bancarotta, in Dir. pen. proc., 2010, p. 1474; BRICCHETTI, PISTORELLI, La bancarotta e gli altri reati fallimentari. Dottrina e giurisprudenza a confronto, Milano, 2011.
108
prospettiva di un piano di risanamento, di un accordo di ristrutturazione
ovvero di un concordato preventivo370.
In seguito la legge 27 gennaio 2012, n. 3, ha configurato una speciale
procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento destinata agli
imprenditori non assoggettabili alle procedure concorsuali ed ai “debitori
civili” in genere, presidiata da specifiche ipotesi di reato del debitore e dei
membri dell’organismo di composizione della crisi, affiancato all’imprenditore
nella redazione del piano di ristrutturazione dei debiti da proporre ai
creditori371.
E ancora, il D.L. 22 giugno 2012, n. 83372, convertito con la legge 7 agosto
2012, n. 134, ha modificato in senso estensivo le procedure paraconcorsuali per
la soluzione delle crisi d’impresa introdotte dalle riforme citate del biennio
2005–2007, incidendo altresì sulla disciplina del concordato preventivo
attraverso la previsione di misure esplicitamente volte a favorire l’accesso a tale
strumento nell’ottica della garanzia della continuità aziendale.
Con quest’ultima novella è stata anche introdotta nelle disposizioni
penali della legge fallimentare, una nuova figura di reato nell’art. 236 bis, il
«falso in attestazioni e relazioni»373.
La suddetta innovazione si è resa necessaria per sopperire ad una lacuna,
in quanto mancava uno specifico presidio sanzionatorio a protezione degli
interessi del ceto creditorio contro eventuali falsità; né la correttezza delle
370 AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 269. 371 PISTORELLI, Sui profili penalistici della nuova procedura per la risoluzione della crisi da sovraindebitamento dei soggetti non fallibili (art. 19 l. 27 gennaio 2012, n. 3), in www.penalecontemporaneo.it. Si precisa che la vera novità rispetto alle forme di composizione concordata delle situazioni debitorie previste dalla legge fallimentare a seguito delle riforme del 2005–2007 è costituita proprio dalla configurazione di un presidio penale a tutela della correttezza dei comportamenti del debitore e della veridicità delle informazioni che egli è tenuto a fornire per accedere alla speciale procedura di esdebitazione. 372 «Misure urgenti per la crescita del Paese», il cosiddetto decreto sviluppo. 373 In tal senso BORSANI, Il nuovo reato di falso in attestazioni e relazioni del professionista nell'ʹambito delle soluzioni concordate delle crisi d'ʹimpresa. Una primissima lettura, in www.penalecontemporaneo.it, 2012.
109
informazioni sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria
dell’imprenditore trovava adeguata tutela nel sistema penale esistente374.
Da ultimo, è intervenuto il D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con la
legge 17 dicembre 2012, n. 221.
Con specifico riguardo al Titolo VI, il legislatore ha ampliato le ipotesi di
esenzione dai reati di bancarotta375.
2. L’ORIGINARIO ART. 1 L.FALL.
Nell’ambito di queste riforme, per quanto interessa ai fini della nostra
indagine, è stato modificato l’art. 1 L.fall., il quale disciplina il presupposto
soggettivo necessario per l’applicazione della disciplina del fallimento e del
concordato preventivo.
Infatti, come già notato, all’interno delle disposizioni penali raccolte nel
Titolo VI vi sono numerosi reati propri376: in particolare, nel Capo I l’autore
dell’illecito è l’imprenditore dichiarato fallito377.
Tuttavia, prima di addentrarci nel cuore della questione, sembra
opportuno fare alcuni cenni all’originaria disposizione la quale, in vigore fino al
15 luglio 2006, prevedeva: «1. Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento, sul
concordato preventivo e sull’amministrazione controllata gli imprenditori che
esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli
imprenditori. 374 Ancora ID., Il nuovo reato di falso, cit. 375 Cfr. art. 217 bis L.fall. come da ultimo modificato. 376 Circa la nozione di “reato proprio” si veda BETTIOL, Sul reato proprio, Milano, 1939; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, cit., p. 138; GULLO, Il reato proprio. Dai problemi «tradizionali» alle nuove dinamiche d'ʹimpresa, Milano, 2005. In giurisprudenza nel senso che la bancarotta è reato proprio (del fallito o, in caso di bancarotta societaria, dell’amministratore, sindaco, ecc.), ex multis Cass. pen., sez. V, 25 maggio 1999, n. 6470, in Dejure; Cass. pen., sez. V, 9 novembre 2006, n. 37038, in Dejure; Cass. pen., sez. V, 2 marzo 2011, n. 8403, in Dejure. 377 AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 277.
110
2. Sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti
un’attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento
ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al
minimo imponibile. Quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di
ricchezza mobile sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori
esercenti una attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito
un capitale non superiore a lire trentamila378. In nessun caso sono considerate
piccoli imprenditori le società commerciali»379.
Per la caratteristica della “commercialità” dell’imprenditore si ricollega
tale qualifica all'ʹesercizio professionale di un’attività organizzata al fine della
produzione o dello scambio di beni o servizi, di cui all’art. 2195 c.c., il quale
provvede ad elencare alcune delle attività che determinano nell'ʹimprenditore
l'ʹobbligo dell’iscrizione nel registro delle imprese: vale a dire, l’attività
industriale diretta alla produzione di beni o di servizi, l’attività intermediaria
nella circolazione dei beni, l’attività di trasporto per terra, per acqua e per aria,
l’attività bancaria o assicurativa e delle altre attività ausiliarie alle precedenti380.
Si precisa che il possesso della qualità di imprenditore va comunque
estrinsecato nell’esercizio anche in fatto dell’attività imprenditoriale, pertanto
l’assenza di un concreto svolgimento dell’attività in parola, nonostante
l’ottemperanza degli adempimenti formali, come ad esempio l’iscrizione nel
registro delle imprese, potrà comunque determinare l’esclusione dalle
fattispecie di bancarotta381.
Circa la nozione di piccolo imprenditore, si sottolinea come tale
definizione nel comma 2 della disposizione in commento fosse molto diversa da
quella contenuta nell’art. 2083 c.c., ai sensi del quale sono piccoli imprenditori
378 Valore aumentato a novecentomila lire con la legge n. 1375/1952. 379 Testualmente art. 1 L.fall. ante riforma. 380 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 91. 381 ID., I reati fallimentari, cit., p. 92.
111
«i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che
esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro
proprio e dei componenti della famiglia»382.
Le palesi differenze tra le due disposizioni erano alla base di una querelle
che aveva impegnato la dottrina negli ultimi anni, senza tuttavia riuscire a
superare una situazione di stallo che rendeva evidente la necessità di un
intervento chiarificatore del legislatore383.
In particolare, da un lato, vi era chi sosteneva che l’art. 1 L.fall.
contenesse un’autonoma delimitazione del piccolo imprenditore ai fini delle
procedure concorsuali; dall’altro, alcuni autori ritenevano che esso avesse
integrato la norma codicistica, chiarendo i presupposti richiesti dall’art. 2083 c.c.
per la sussistenza della figura giuridica384.
A proposito del requisito dell’imposta di ricchezza, essa venne abolita
dal D.P.R. n. 597/73 e la riforma tributaria non consentì di ritenere applicabile
questo criterio in materia di reddito di impresa, poiché esso apparve
382 Così espressamente l'ʹart. 2083 c.c. 383 AMATI, MAZZACUVA, Diritto penale dell'ʹeconomia (Problemi e casi), Padova, 2010, p. 261. Sul ruolo dell’art. 2083 c.c. nell’applicazione dell’art. 1 L.fall. ante riforma, si veda CAPO, La piccola impresa, in BUONOCORE (diretto da), Trattato di diritto commerciale, sez. I, tomo II.III, Milano, 2000, p. 30; CAMPOBASSO, La ricodificazione del piccolo imprenditore, in Riv. dir. civ., 1992, I, p. 343. 384 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 93. Con specifico riguardo alle imprese artigiane, la giurisprudenza era assolutamente costante nel ritenere che, in tema di fallimento ed ai fini dell’accertamento della nozione di “piccolo imprenditore” rilevante per l’applicazione dell’art. 1 L.fall., si dovesse far ricorso unicamente ai criteri stabiliti dall’art. 2083 c.c., mentre non occorresse accertare se l’impresa avesse o meno i requisiti per essere iscritta nell’albo delle imprese artigiane previsti dalla legge n. 443/1985, in quanto quest’ultima stabilisce i criteri di accertamento del carattere artigianale dell’impresa rilevanti esclusivamente ai fini dell’ammissione della stessa alla fruizione delle provvidenze previste dalle leggi regionali: così ex multis Cass. civ., sez. I., 4 aprile 2003, n. 5249, in Fall. proc. conc., 2004, p. 505, con nota di DE
MATTEIS, Natura artigianale dell'ʹimpresa ed onere della prova; Cass. civ., sez. I. 22 ottobre 2004, n. 20640, in Dir. e Giust., 2004, 42, p. 36, con nota di GENOVESE, Ora anche l'ʹartigiano può fallire; Cass. civ., sez. I. 15.6.2005, n. 12847, in Giust. civ., 2006, 9, p. 1808. In dottrina a titolo esemplificativo cfr. GUERNELLI, La legge quadro sull'ʹartigianato e le successive modifiche con particolare riferimento alle procedure concorsuali, in Dir. fall., 2000, I, p. 827; IBBA, Fallimento, piccola impresa e forma societaria, in Giur. comm., 2005, II, p. 241; VIVALDI, Piccola società artigiana e piccola società commerciale: la giurisprudenza pragmatica rimodella un diritto irragionevole, in Fall. proc. conc., 2003, p. 760.
112
incompatibile con la struttura ed il meccanismo di applicazione delle nuove
imposte sul reddito.
Viceversa, sul criterio del capitale investito è intervenuta una sentenza
della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale l’art. 1 comma 2
L.fall. nella parte in cui prevedeva che «quando è mancato l’accertamento ai fini
dell’imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori gli
imprenditori esercenti un’attività commerciale nella cui azienda risulta investito
un capitale non superiore a lire novecentomila»385.
3. LA NUOVA FORMULAZIONE INTRODOTTA DAL D.LVO 9 GENNAIO
2006 N. 5
Il primo intervento riformatore sulla disposizione in commento è stato
posto in essere, come già evidenziato, dall’art. 1 comma 6 del D.Lvo n. 5/2006, il
quale è intervenuto con la tecnica della novella legislativa sulla formulazione
originaria dell’art. 1, sostituendo il testo con il seguente: «1. Sono soggetti alle
disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che
esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici ed i piccoli
imprenditori.
2. Ai fini del primo comma, non sono piccoli imprenditori gli esercenti
un’attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche
alternativamente:
a) hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore
a euro trecentomila;
385 Nei seguenti termini Corte cost., 22 dicembre 1989, n. 570, in Giust. civ., 1990, I, p. 603.
113
b) hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media
degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore per un
ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila;
3. I limiti di cui alle lettere a) e b) del secondo comma possono essere
aggiornati ogni tre anni, con decreto del Ministro della giustizia sulla base della
media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie
di operai e impiegati intervenute nel periodo di riferimento»386.
La principale direttiva della legge delega in materia di presupposti
soggettivi del fallimento consisteva nel semplificare la disciplina mediante
l’estensione dei soggetti esonerati dalla procedura fallimentare387.
Si evidenzia che il tema dell’“estensione dell’esonero soggettivo” dalle
procedure concorsuali, com’è noto, era stato oggetto di dibattito anche nel corso
dei lavori della già citata Commissione Trevisanato: tuttavia, nella proposta del
testo del disegno di legge delega, si riteneva di applicare la procedura della
composizione, sia pure con forme semplificate, al piccolo imprenditore
individuale o collettivo, da individuare sulla base dei parametri oggettivi
facilmente accertabili (art. 4 comma 1 lett. b) del Testo alternativo), mentre l’art.
4 comma 1 lett. b) del testo approvato a maggioranza, prevedeva di applicare la
procedura, con forme e modalità, semplificate al piccolo imprenditore,
individuale e collettivo, indicando un limite di accesso collegato ad un
indebitamento minimo significativo, periodicamente aggiornato; individuare a
tal fine il piccolo imprenditore con criteri fondati, eventualmente in via
alternativa, sul totale dell’attivo patrimoniale, sul totale dei ricavi e sul numero
dei dipendenti e tenendo conto di parametri ponderati in funzione del prodotto
interno lordo di ciascuna Regione388.
386 Testualmente l’art. 1 L.fall. in vigore dal 16 luglio 2006 al 31 dicembre 2007. 387 Cfr. art. 1 comma 6 lett. a), n. 1, legge 14 maggio 2005, n. 80. Si veda LO CASCIO, I principi della legge delega della riforma fallimentare, in Il fall., 9, 2005, p. 985. 388 FAUCEGLIA, Sull’estensione dei soggetti esonerati, in Il fall., 2005, 9, p. 990.
114
Da un raffronto tra il nuovo testo normativo e la precedente versione
dell’art. 1 L.fall., emerge chiaramente che, in sostanza, i soggetti che possono
fallire sono rimasti gli stessi di prima389.
L’innovazione ha, infatti, riguardato l’introduzione di criteri di natura
quantitativa per determinare e definire le dimensioni dell’impresa
assoggettabile al fallimento, fissando dei limiti dimensionali che avrebbero
dovuto costituire il confine tra la figura del piccolo imprenditore escluso per
definizione della norma dal fallimento e, viceversa, quella dell’imprenditore
assoggettato alle procedure concorsuali390.
A tali limiti si deve aggiungere un presupposto che deriva da un’altra
disposizione, ossia l’art. 15, ultimo comma, L.fall. secondo il quale occorrerà
valutare in sede di istruttoria prefallimentare se l’ammontare dei debiti scaduti
e non pagati sia complessivamente inferiore o superiore a venticinquemila euro:
nel primo caso, infatti, il fallimento non sarà dichiarato e l’imprenditore
commerciale insolvente, che sia qualificabile come non piccolo ex art. 1 comma
2 L.fall., sarà esonerato dal fallimento se poco indebitato391.
Tale scelta legislativa corrisponde all’esigenza pratica di abbandonare il
profilo sanzionatorio della dichiarazione di fallimento, evitando tutti i costi
della procedura fallimentare e, piuttosto, accompagnare la riforma fallimentare
con un incremento della tutela del creditore nell’esecuzione forzata
individuale392.
Il comma 2 dell’art. 1 L.fall. definiva, con formula negativa, chi non era
da considerarsi piccolo imprenditore ai fini della fallibilità, equiparando coloro 389 CASCELLA, L’evoluzione delle soglie di fallibilità alla luce delle ultime riforme dell’art. 1 L.F., in www.filodiritto.com. 390 Ancora ID., L'ʹevoluzione delle soglie di fallibilità, cit. 391 Secondo la vecchia disciplina l’esiguità dell’esposizione debitoria comportava non l’esenzione dal fallimento ma la sottoposizione al procedimento sommario ex art. 155 ss. L.fall. Così MARASÀ, Prime notazioni sui presupposti soggettivi del fallimento nel nuovo art. 1, l.fall., in Riv. dir. civ., 2006, I, p. 581. 392 Obiettivo che sembra essersi realizzato con le innovazioni alla disciplina dell’esecuzione forzata mobiliare apportata dalla legge n. 263/2005.
115
che esercitano un’attività commerciale in forma individuale a coloro che
esercitano tale attività in forma collettiva.
A proposito dei criteri quantitativi, indicati come alternativi, introdotti
nella disposizione in commento, per “capitale” si intende quell’investimento di
capitale costituito dall’ammontare degli impieghi in valori fruttiferi operati
dall’imprenditore nell’arco di tempo considerato ed è determinabile sommando
all’attivo patrimoniale rilevato al termine del periodo gli impieghi, effettuati
durante il periodo stesso, che sono stati consumati o perduti o che sono
fuoriusciti dall'ʹazienda senza corrispettivo393.
A proposito di tale requisito non sono mancate critiche in ordine
all'ʹassenza di un qualsiasi riferimento temporale relativo al capitale investito,
non essendo chiaro se ci si dovesse riferire all’intera vita dell’azienda oppure ad
un non precisato lasso temporale come previsto per i ricavi394.
Circa il presupposto del “ricavo lordo”, tale concetto non sembra aver
causato alcuna difficoltà interpretativa, poiché l’art. 2425 bis c.c. appare
sufficientemente esaustivo stabilendo che «i ricavi e i proventi, i costi e gli oneri
devono essere indicati al netto dei resi, degli sconti, abbuoni e premi, nonché
delle imprese direttamente connesse con la vendita dei prodotti e la prestazioni
di servizi»395.
Si precisa che il legislatore della riforma ha dato definitivamente
rilevanza anche ai ricavi extracontabili, facendo riferimento a ricavi «in
qualunque modo risulti»396.
393 In tal senso VERNA, Gli imprenditori assoggettabili al fallimento secondo la nuova legge fallimentare: profili aziendalistici, in Dir. fall., 2006, I, p. 729. 394 SIGNORELLI, Riflessi della riforma del fallimento sul diritto societario, in Le soc., 2006, 12, p. 1458. 395 Testualmente l’art. 2425 bis c.c. 396 SIGNORELLI, Riflessi della riforma del fallimento, loc. cit. Si segnala una posizione contraria nella giurisprudenza di merito, sviluppatasi durante la breve vigenza dell’art. 1 L.fall. così come riformato, in cui si è affermato che i ricavi rilevanti a tal fine, in quanto rappresentativi del fatturato dell’impresa derivante dallo svolgimento dell’attività, non potessero che ricavarsi dalle voci di bilancio: cfr. Trib. Piacenza, 22 gennaio 2007, in Dejure.
116
Conseguentemente dalla data di entrata in vigore della riforma, un
soggetto che avesse superato uno dei due limiti dimensionali poc’anzi indicati
non era da ritenersi piccolo imprenditore e, quindi, poteva fallire.
Pertanto, anche con la riforma del 2006 quella di piccolo imprenditore
continuava ad essere una nozione negativa, desumibile a contrario, poiché l’art.
1 L.fall. non identificava chi doveva considerarsi piccolo imprenditore, ma chi
non poteva essere considerato tale397.
Si noti che, dopo la riforma in commento, non era chiaro quale fosse il
ruolo dell’art. 2083 c.c.398, potendo prospettarsi due scenari interpretativi
diversi: da un lato, che la disposizione codicistica dovesse continuare ad
applicarsi anche ai fini del fallimento399; dall’altro, che si dovesse fare
riferimento esclusivamente ai nuovi criteri dell’art. 1 comma 2 L.fall.400.
Seguendo la prima posizione, il Giudice in sede di valutazione del
presupposto soggettivo dell’impresa commerciale insolvente, avrebbe dovuto,
dopo l’entrata in vigore della riforma, tener conto sia dell’art. 2083 c.c. sia
dell’art. 1 comma 2 L.fall. e, dunque, dichiarare il fallimento se non ricorre la
piccolezza ex art. 2083 c.c. ma dichiararlo anche se, pur sussistendo la
prevalenza ai sensi dell’art. 2083 c.c., accerti che l’impresa non è piccola ex art. 1
comma 2 L.fall., poiché è stata superata una delle soglie quantitative o con
riguardo al capitale investito nell’azienda o con riguardo alla media dei ricavi
annui.
397 CASCELLA, L’evoluzione delle soglie di fallibilità, cit. 398 Il quale si ricorda definisce la nozione di “piccolo imprenditore”. 399 BONFATTI, CENSONI, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2009, p. 37. 400 MARASÀ, Prime notazioni sui presupposti soggettivi, cit., p. 583. In giurisprudenza di merito cfr. Corte Appello Torino, 22 giugno 2207, in Fall., 2007, 10, p. 1237; Trib. di Tolmezzo, 14 ottobre 2008, in Giur. mer., 2009, 6, p. 1567. Analogamente si è evidenziato che deve essere considerato piccolo imprenditore colui il quale possiede i requisiti previsti dall’art. 2083 c.c., indipendentemente dai parametri stabiliti dal comma 2 dell’art. 1 L.fall, Trib. Firenze, 31 gennaio 2007, n. 20, in Giust. civ., 2007, 6, p. 1521.
117
Con la conseguenza che la nuova disciplina non avrebbe comportato
l’estensione dei soggetti esonerati401.
Accogliendo la seconda tesi, anche in questo caso l’impatto della riforma,
in termini di ampliamento o di riduzione dei soggetti esonerati, dipende
dall’interpretazione dell’art. 2083 c.c., vale a dire da quali si ritenesse essere i
confini della piccola impresa secondo la definizione codicistica.
Se si ipotizzava la prevalenza dell’art. 2083 c.c. anche con il superamento
delle soglie di ricavi e di capitale di cui all’art. 1 L.fall., non applicandosi più
l’art. 2083 c.c. ai fini fallimentari, si sarebbe potuto avere una riduzione dei
soggetti esonerati dalla procedura.
Se, viceversa, prima non poteva mai esserci la prevalenza ex art. 2083 c.c.
in presenza del superamento delle soglie di ricavi e di capitale ora fissate
dall’art. 1 comma 2 L.fall., la riforma avrebbe potuto determinare un
ampliamento dei soggetti esonerati, semprechè si fosse ritenuto che, ai fini del
fallimento, non si debba più tener conto dell’art. 2083 c.c., ma si dovesse
ricavare la piccola impresa soltanto dal secondo comma dell’art. 1 L.fall., cioè
identificarla come quella che non supera nessuna delle due soglie né quella
relativa al capitale investito, né quella relativa ai ricavi lordi402.
A proposito delle società, prima della riforma si escludeva che potessero
essere ricondotte alla figura del piccolo imprenditore403.
In un primo momento si era aperta l’opportunità di attribuire tale
qualifica alle società artigiane; successivamente, tale possibilità fu estesa anche
alle altre società, prima sulla base della giurisprudenza della Corte
401 ID., Prime notazioni sui presupposti soggettivi, cit., p. 584. 402 Ancora MARASÀ, Prime notazioni sui presupposti soggettivi, cit., p. 585-‐‑586. 403 Così Corte cost., 14 novembre 2005, n. 421, in Il fall., 2007, p. 261, in cui era stata dichiarata la manifesta infondatezza della questione di illegittimità costituzionale, sollevata con riferimento all’art. 3 Cost., dell'ʹultima parte dell’art. 1 L.fall. in quanto, pur ritenendo che la disciplina non fosse più aderente alla realtà economica non si poteva affermare che il legislatore abbia fatto uso della sua discrezionalità in modo da violare il principio di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
118
costituzionale, poi di quella dei giudici di merito e della Corte di cassazione,
ritenendo che anche l’ultima parte dell’art. 1 L.fall. dovesse ritenersi eliminata
per effetto del venir meno dei due criteri cui doveva ritenersi collegata404.
Nella stessa prospettiva, pertanto, si poteva dire che i criteri di esenzione
potevano essere usati anche per l’impresa artigiana, sia che essa fosse esercitata
individualmente sia collettivamente, posto che le disposizioni della legge n.
443/1985405 non conservavano alcuna efficacia in sede fallimentare.
Inoltre, si precisa che l’opinione maggioritaria riteneva assoggettabili al
fallimento tutte le società lucrative non piccole che avessero oggetto
commerciale o che, di fatto, esercitassero un’attività commerciale,
indipendentemente dalla forma giuridica assunta o dal tipo prescelto406.
La dottrina ha mosso molte critiche all’art. 1 L.fall. come configurato dal
D.Lvo in questione.
In primo luogo, alcuni autori sono rimasti perplessi dall’entità delle cifre
monetarie prese dal legislatore a parametro della dimensione aziendale:
soprattutto perchè in forza di tale disposizione non sarebbero rientrate nella
categoria dei soggetti fallibili non soltanto le micro e le piccole imprese ma
anche quelle di una certa importanza patrimoniale, le medio-‐‑piccole imprese,
notoriamente la maggioranza dei soggetti imprenditoriali del nostro Paese407.
In secondo luogo, dovendo tenersi in considerazione anche il già
richiamato art. 15 L.fall., da tale combinato disposto sarebbero potute derivare
altre problematiche:
− un fortissimo incentivo per gli imprenditori ad affidarsi a sistemi elusivi e
non trasparenti per ottenere una redazione “non completa” dei bilanci, al fine di
404 Cfr. supra Cap. 3, § 2. 405 Legge con la quale era stato esteso il regime giuridico delle imprese artigiane alle s.r.l. unipersonali. 406 A titolo esemplificativo si veda IBBA, Fallimento, piccola impresa e forma societaria, cit., p. 241. 407 Nei seguenti termini ALLEVA, Primissime note critiche in tema di riforma fallimentare, cit., p. 103.
119
rientrare assolutamente entro i parametri del novellato articolo in esame e, di
conseguenza, dell’area della non fallibilità;
− a carico dei prestatori di lavoro, una drastica limitazione nell’effettiva tutela
dei propri diritti, nella specie salariali e previdenziali, essendo la maggior parte
di essi costretti a ricorrere alle più lunghe, defatiganti e costose singole azioni
ordinarie di recupero dei crediti;
− infine, si sarebbe potuto verificare un non auspicato aumento dei carichi
pendenti nelle cancellerie dei Tribunali, in forza di un’esponenziale
progressione delle azioni individuali, da quella di natura accertativa a quella di
natura più propriamente esecutiva408.
4. IL DECRETO CORRETTIVO DEL 2007
In seguito alle suesposte critiche, l’art. 1 L.fall. è stato sostituito dall’art. 1
D.Lvo n. 169/2007 nei seguenti termini «1. Sono soggetti alle disposizioni sul
fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano
un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici.
2. Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato
preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il
possesso congiunto dei seguenti requisiti:
a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data del deposito dell’istanza di
fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale
di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;
b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data
del deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata
408 Così ancora ID., Primissime note critiche, cit., p. 111-‐‑113.
120
inferiore, ricavi lordi per ammontare complessivo annuo non superiore ad euro
duecentomila;
c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro
cinquecentomila.
3. I limiti di cui alle lettere a), b) e c) del secondo comma possono essere
aggiornati ogni tre anni, con decreto del Ministro della giustizia, sulla base della
media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie
di operai e impiegati intervenute nel periodo di riferimento»409.
In primis si evidenzia che per espressa previsione dell’art. 22 del
correttivo stesso, il nuovo art. 1 L.fall. si applica sia ai procedimenti per
dichiarazione di fallimento pendenti alla data del 1° gennaio 2008, quanto alle
procedure concorsuali e di concordato aperte successivamente.
Come abbiamo visto nel precedente paragrafo varie furono le critiche
mosse al testo riformato della legge fallimentare e le esigenze di correzione
emersero sin dai primi mesi dell’entrata in vigore del D.Lvo n. 5/2006.
In particolare, si è notato come l’applicazione della disposizione
riformata per effetto della modifica della nozione di fallibilità avesse ridotto di
molto le dichiarazioni di fallimento e l’apertura delle procedure concorsuali410.
Non si può poi trascurare che, anche sotto il profilo penale, tale
esclusione impediva che venissero adeguatamente sanzionate le condotte di
409 Così testualmente l’art. 1 L.fall. in vigore dal 1° gennaio 2008. 410 FILIPPI, Il d.lgs. n. 169 del 2007 integra e corregge la disciplina del fallimento e delle procedure concorsuali. Si resta in attesa della riforma delle disposizioni penali, in Giur. merito, 2007, 12, p. 3096. Si precisa che la relazione illustrativa del decreto correttivo ha evidenziato come la riforma del 2006 avesse escluso dal fallimento almeno il 70% delle piccole imprese, oltre ad aver attenuato fino al punto di annullarlo il rischio di impresa, con la conseguenza che, così, senza rischio di impresa, l’intero sistema economico veniva ad essere danneggiato in termini di competitività. Infatti, non si può dubitare che la presenza di soggetti imprenditori che, pur non essendo più in grado di competere sul mercato, continuino a prendervi parte, non faccia altro che aggravare innanzitutto la situazione economica degli imprenditori per così dire sani, che con essi vengono in contatto, e poi quella del mercato in generale, che appunto per la presenza dei primi diventa più difficile anche per tutti gli altri (ad esempio, si pensi al maggior ricorso al credito da parte delle imprese sane ed ai conseguenti maggior oneri che subiscono, oltre al correlato aumento dei costi di mercato del credito stesso).
121
quei soggetti che avessero causato, direttamente o meno, le situazioni di
dissesto delle imprese411.
Per tale ragione, la questione più impegnativa che il legislatore delegato
alla correzione aveva dovuto affrontare era stata quella relativa alla
determinazione dei criteri per la definizione della soglia soggettiva della
fallibilità.
La riforma della riforma ha, quindi, innanzitutto eliminato qualsiasi
riferimento alla nozione di piccolo imprenditore: l’imprenditore non
assoggettabile al fallimento non è più l’imprenditore piccolo come definito dal
codice civile412.
È infatti assoggettabile alle procedure concorsuali il piccolo imprenditore
ex art. 2083 c.c., qualora superi le soglie dimensionali fissate dalla legge
fallimentare413.
Ciò che appare piuttosto evidente è come il rapporto tra l’art. 2083 c.c. e
l’art. 1 L.fall. sia risultato totalmente stravolto in seguito al decreto correttivo414.
La relazione tra le due norme è stata intesa, seppur nella prima fase di
applicazione della disciplina riformata, in modo diverso da chi sosteneva che il
D.Lvo n. 167/2007 avesse tacitamente abrogato l’art. 2221 c.c.415, escludendo così
dall’area dell’esenzione il piccolo imprenditore tout court, ove non in possesso
dei requisiti dimensionali per l’esonero e coloro che, al contrario, optavano per
la ricomprensione dell’area di non fallibilità, accanto agli imprenditori in
411 CASCELLA, L'ʹevoluzione delle soglie di fallibilità, cit. 412 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 268. 413 Nei seguenti termini Cass. civ., sez. I, 29.7.2009, n. 17553, in Giur. comm., 2011, 3, p. 487. 414 IBBA, Profili della nuova legge fallimentare, Torino, 2009, p. 7. 415 Si ricorda che tale disposizione prevede che «gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori, sono soggetti in caso di insolvenza alle procedure del fallimento e del concordato preventivo salve le disposizioni delle leggi speciali».
122
possesso dei requisiti dimensionali di cui all’art. 1 L.fall., i piccoli imprenditori
ai sensi dell’art. 2083 c.c.416.
Secondo la prima e maggioritaria posizione, il superamento delle soglie
previste dalla legge fallimentare si considera condizione necessaria e sufficiente
ai fini dell’assoggettabilità alle procedure concorsuali417.
Tale affermazione troverebbe conferma proprio nell’eliminazione, ad
opera del decreto correttivo, del riferimento al piccolo imprenditore all’interno
della legge fallimentare, circostanza da cui andrebbe desunta la volontà del
legislatore di ancorare la dichiarazione di fallimento esclusivamente ai
parametri dimensionali di cui all’art. 1 L.fall.418.
Con la conseguenza che, all’esito del travagliato iter della riforma, la
nozione di “piccolo imprenditore” contenuta nell’art. 2083 c.c. non interferisce
più in alcun modo.
Ricostruito in questo modo il rapporto tra le due norme, è ancora più
chiaro il conflitto tra la legge fallimentare e l’art. 2221 c.c.: infatti, le due
disposizioni, da questo punto di vista, disciplinerebbero, diversamente la
medesima disciplina, quindi risulta necessario stabilire quali di esse debba
prevalere419.
La scelta di limitare l’area dei soggetti fallibili entro le sole soglie
espressamente delineate dalla legge fallimentare ha condotto a risolvere il
richiamato conflitto nel senso della prevalenza della disposizione
416 CAPO, Fallimento e impresa, in BASSI, BUONOCORE (diretto da), Trattato di diritto fallimentare, vol. I, Padova, 2010, p. 74. 417 Per tutti si veda GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare. La nuova disciplina delle procedure concorsuali giudiziali, II ed., Torino, 2007, p. 26; IBBA, Profili della nuova legge fallimentare, cit., p. 8; LO CASCIO, Il fallimento e le altre procedure concorsuali (Appendice di aggiornamento), Milano, 2008, p. 6. 418 MANDRIOLI, I presupposti per la dichiarazione di fallimento, in DIDONE (a cura di), Le riforme della legge fallimentare, I, Torino, 2009, p. 56. 419 RENZULLI, Fallibilità del piccolo imprenditore e prova dei requisiti dimensionali, in Giur. comm., 2011, 3, p. 487.
123
successivamente introdotta, con la conseguente tacita abrogazione, ai sensi
dell’art. 15 disp. prel. c.c., dell’art. 2221 c.c.420.
Secondo la seconda minoritaria ricostruzione (cioè della ricomprensione
nell’area di non fallibilità anche dei piccoli imprenditori di cui all’art. 2083 c.c.),
invece, l’operazione di ampliamento dei confini dell’area di esonero non
andrebbe intesa come mera rideterminazione dei confini stessi, con l’attrazione
nel loro ambito delle imprese le cui dimensioni rilevino ai fini dell’art. 1 L.fall. e
l’esclusione, per contro, dei piccoli imprenditori in senso codicistico, ove non
riuscissero a soddisfare le condizioni individuate dalla norma421.
Da tale considerazione ne consegue la qualificazione del superamento
delle soglie indicate dall’art. 1 L.fall. in termine di condizione necessaria ai fini
dell’assoggettabilità a fallimento, ma non sufficiente422, ove non integrata
dall’assenza dei presupposti cui l’art. 2083 c.c. ricollega la qualità di piccolo
imprenditore423.
In favore di questa soluzione militerebbe, proprio, l’evidente ed irrisolto
contrasto tra la disciplina fallimentare e l’art. 2221 c.c.
Infatti, l’affermazione che la legge fallimentare, in quanto legge speciale
può derogare alla disciplina generale, ma mai abrogarla, conduce i sostenitori
di questo orientamento ad ammettere la possibilità della coesistenza delle due
norme: poichè esse disciplinerebbero fattispecie distinte, visto l’assenza nel
testo dell’art. 1 L.fall. successivo alla riforma, di ogni riferimento al piccolo
420 Così fra le tante Trib. Tolmezzo, 14 ottobre 2008, in Giur. mer., 2009, p. 1567; Trib. Napoli, 21 aprile 2010, in www.ilcaso.it. Tale abrogazione deve intendersi limitata alla previsione dell’esenzione del piccolo imprenditore in senso codicistico dalle procedure concorsuali, mentre non sussiste alcuna incompatibilità e, conseguentemente, continua a trovare applicazione la disciplina relativa alle scritture contabili ed alla pubblicità legale ivi dettata. 421 BONFATTI, CENSONI, Manuale, cit., p. 34; MARASÀ, Prime notazioni sui presupposti soggettivi, cit., p. 588. 422 Come per la prima tesi maggioritaria descritta. 423 FERRI, In tema di piccola impresa tra codice civile e legge fallimentare, in Riv. dir. comm., 2007, p. 744.
124
imprenditore, il cui fallimento, quindi, continuerebbe ad essere disciplinato in
via esclusiva dall’art. 2221 c.c.424.
Parte della dottrina, viceversa, si è limitata ad affermare semplicemente
che la soppressione di qualsiasi riferimento all’art. 2083 c.c. ha eliminato ogni
incertezza dovuta alla coesistenza di disposizioni normative diverse – quella
speciale del fallimento e quella generale del codice civile – alla luce delle quali
individuare la figura in parola ed ai conseguenti contrasti giurisprudenziali
sulla normativa applicabile, mentre al contrario nulla sembra cambiato per gli
imprenditori agricoli, i quali continuano ad essere esclusi dal fallimento425.
Una novità rilevante del decreto correttivo è stata l’introduzione di un
terzo requisito alla lett. c), fondato sull’indebitamento massimo che non deve
superare la somma di euro cinquecentomila: requisito che, con il nuovo art. 1
L.fall., deve sussistere congiuntamente a quelli di cui alle lett. a) e b)426.
Ed è proprio mediante la previsione del possesso non più alternativo ma
congiunto dei requisiti e l’inserimento tra questi dell’ulteriore parametro
424 ID., loc. cit., p. 750. 425 CASCELLA, L’evoluzione delle soglie di fallibilità, cit. Si richiama l’attenzione sulla recente sentenza della Corte costituzionale (20 aprile 2012, n. 104, in Giust. civ., 2012, 4, p. 1142), la quale ha chiarito che l’iscrizione di un’azienda nel registro delle imprese con la qualifica di impresa agricola non impedisce di accertare lo svolgimento effettivo e concreto di un’attività commerciale rientrante nei parametri di cui all’art. 1 L.fall., con la conseguenza che anche un imprenditore agricolo se in possesso dei requisiti soggettivi, ai sensi della disposizione citata, può essere soggetto al fallimento. 426 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, loc. cit. Appare opportuno evidenziare che collegato a tale inserimento, è la modifica anch’essa apportata dal decreto correttivo, all’art. 15 L.fall., con cui è stata elevata da euro venticinquemila ad euro trentamila la soglia dei debiti scaduti ed insoluti il cui accertamento risulta necessario durante l'ʹistruttoria prefallimentare per potersi procedere alla dichiarazione di fallimento. Tale soglia costituisce, in sostanza, una condizione di procedibilità impeditiva della pronuncia di una sentenza di fallimento e l’innalzamento del valore di essa appare in sintonia, nonché collegato con l’introduzione del terzo requisito essendo anche questo un potenziale indice rivelatore della situazione di default del debitore: infatti, a seguito dell’introduzione del terzo parametro si potrebbe verificare la presenza di una situazione debitoria di un soggetto che, pur superando complessivamente i cinquecentomila euro di debiti nonché i limiti relativi ad investimenti e ricavi, sarebbe potuto fallire nel caso in cui fosse emersa l’esistenza di debiti scaduti e non pagati per soli venticinquemila euro, importo che è stato ritenuto dal legislatore troppo basso e, quindi, indicativo di una temporanea difficoltà ad adempiere invece che di una situazione di vera e propria insolvenza, per cui si è ravvisata la necessità di elevarlo.
125
appena citato che il legislatore ha ottenuto l’abbassamento della soglia di
fallibilità.
Inoltre, nel testo riformato il riferimento dimensionale non è più
ancorato al capitale investito ma è collegato all’attivo patrimoniale (complessivo
annuo che non deve superare euro trecentomila), nozione che rientra nell’art.
2424 c.c. e più idonea a fotografare il grado di organizzazione
imprenditoriale427.
Il requisito del reddito dell’impresa è stato uniformato al requisito
patrimoniale per quanto concerne la proiezione storica, attraverso il rinvio
all’elemento unificante dei tre esercizi anteriori che ha sostituito quello dei tre
anni dalla data della domanda: si tratta del medesimo arco temporale usato in
tutti i casi in cui è necessario fare ricorso a proiezioni storiche in riferimento ad
accertamenti relativi allo stato patrimoniale o documentale dell’imprenditore428.
Si sottolinea che il legislatore della riforma del 2007 ha chiarito,
inequivocabilmente, che è il debitore che, se vuole evitare il proprio fallimento,
deve provare che, in relazione a ciascuno dei tre anni precedenti il deposito
dell'ʹistanza di fallimento, non ha superato neppure uno dei tre parametri
richiesti dall’art. 1 L.fall., prova rilevante ex art. 2697 comma 2 c.c.
L'ʹobiettivo di quest’ultima modifica si ravvisa nel voler evitare che la
semplice scelta del debitore di non difendersi risultasse per il medesimo
eccessivamente premiante, a fronte della speculare difficoltà che incontra il
creditore a provare positivamente la sussistenza dei requisiti in parola, ove
soltanto si pensi al caso del mancato deposito delle scritture contabili429.
427 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, loc. cit. 428 FILIPPI, Il d.lgs. n. 169 del 2007 integra e corregge, cit., p. 3097. 429 CASCELLA, L’evoluzione delle soglie di fallibilità, cit.
126
5. I PROBLEMI DI DIRITTO INTERTEMPORALE E GLI ORIENTAMENTI
DELLA GIURISPRUDENZA
Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come il D.Lvo n. 5/2006 abbia
sensibilmente ridotto l’area di fallibilità prevista dall’art. 1 L.fall.
Le innovazioni, poi, apportate dal decreto correttivo hanno tenuto conto
che questa eccessiva esenzione impediva sostanzialmente di assoggettare al
fallimento e alle conseguenti sanzioni penali anche imprenditori a capo di
imprese di rilevanti dimensioni e con elevati livelli di indebitamento.
L’itinerario seguito dal legislatore nel tentativo di definire la cerchia dei
fallibili e, quindi, dei soggetti attivi del reato proprio di bancarotta, nella realtà
ha reso più complesso il riparto di ruoli e di competenze tra la giurisdizione
penale e quella fallimentare: ciò in quanto la qualifica soggettiva di fallito è
parte integrante delle fattispecie incriminatrici e, come tale, deve essere
accertata in seno al giudizio penale.
Le modifiche apportate alla legge fallimentare, inoltre, hanno
influenzato, in virtù del principio della successione delle leggi penali nel tempo,
di cui all’art. 2 c.p., i procedimenti per bancarotta che erano in corso e, come ci
si prefigge di dimostrare, non soltanto quelli430.
In particolare, qui si pone un problema di successione di norme
integratrici (definita anche c.d. modifica mediata431), in quanto poichè i reati di
bancarotta rientrano nella categoria dei reati propri432, ne deriva che la norma
incriminatrice riferita a tali delitti deve essere considerata nel suo intero
430 In ordine ai riflessi che la nuova disciplina del fallimento comporta in relazione al sistema delle sanzioni penali contenute nel r.d. n. 267/1942 si veda BERSANI, La modifica dei requisiti oggettivi e soggettivi per la dichiarazione di fallimento e la rilevanza nei procedimenti penali per bancarotta, in Riv. del dir. dell'ʹimpr., 2006, p. 1261; SANDRELLI, La riforma della legge fallimentare, cit., p. 1296. 431 Cfr. supra Cap. 2. 432 Considerata la particolare qualità che deve rivestire l’autore dei medesimi.
127
complesso di elementi, inclusi tutti gli aspetti rilevanti in riferimento al fatto-‐‑
reato, quale la qualità del soggetto attivo433.
Da ultimo, non si può non evidenziare che la modifica ha posto anche un
ulteriore problema interpretativo circa il ruolo della sentenza dichiarativa di
fallimento nel giudizio penale, di cui però si tratterà più avanti.
Tornando al tema del diritto intertemporale, che qui ci interessa
maggiormente, l’interrogativo al quale era necessario fornire una risposta era
se, in relazione ai reati di bancarotta accertati in seguito all’entrata in vigore del
D.Lvo n. 5/2006, il quale ha modificato la nozione di piccolo imprenditore, si
fosse determinato un fenomeno abolitivo ex art. 2 comma 2 c.p., con riguardo a
quei casi in cui dopo la riforma il soggetto attivo del reato avrebbe rivestito la
qualità anzidetta.
Su questo profilo la giurisprudenza si è spaccata in due orientamenti434.
La prima sentenza435 in materia aveva affermato che la nuova disciplina
dettata a proposito della nozione di piccolo imprenditore non comportava
un’abolitio criminis, pertanto nei giudizi avviati prima del 16 luglio 2006436 il
referente normativo non sarebbe potuto essere che la vecchia legge fallimentare.
Il Supremo Collegio era giunto a tale soluzione richiamando l’ultrattività
della disciplina previgente ai sensi dell’art. 150 del D.Lvo in questione437;
quindi, tale disposizione sarebbe stata applicabile all’individuazione
dell’imprenditore assoggettabile a fallimento anche in sede penale e le
modifiche apportate dalla normativa de qua sarebbero, per tale ragione, 433 Cass. pen., sez. un., 23 maggio 1987, Tuzet, in Cass. pen., 1987, II, p. 1740; in Cass. pen., 1988, I, p. 39, con nota di DEL CORSO, Lo statuto penale dell'ʹattività bancaria al vaglio delle Sezioni Unite. 434 È opportuno chiarire fin da subito che il contrasto giurisprudenziale si era formato durante la vigenza del D.Lvo n. 5/2006, mentre il decreto correttivo è intervenuto nelle more della decisione delle Sezioni Unite Niccoli che andremo a commentare. 435 Cass. pen., sez. V, 17 maggio 2007, n. 19297, in Il fall., 2008, 3, p. 275. 436 Com’è noto è la data di entrata in vigore del D.Lvo n. 5/2006. 437 Ai sensi del quale «i ricorsi per dichiarazione di fallimento e le domande di concordato fallimentare depositate prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 5 del 1006, nonché le procedure di fallimento e di concordato fallimentare pendenti alla stessa data, sono definiti secondo la legge anteriore».
128
suscettibili di essere trasportate nelle dinamiche della successione delle leggi
penali.
A sostegno della propria tesi la Corte aveva richiamato i propri
precedenti438 in ordine alla definitività del dato derivante dalla decisione del
giudice fallimentare, in conformità con quella parte della giurisprudenza che
riteneva che la nuova disciplina processualpenalistica delle questioni
pregiudiziali non avesse inciso sul principio per cui la dichiarazione di
fallimento, una volta acquisito il carattere dell'ʹirrevocabilità, costituisse un dato
definitivo e vincolante.
Contraria, invece la posizione assunta dagli Ermellini nella sentenza
Rizzo439, i quali avevano ritenuto che in tema di reati fallimentari era assodato
che la sentenza dichiarativa di fallimento non fa stato nel processo penale,
pertanto, spettava al giudice penale il potere-‐‑dovere di verificare
autonomamente se l’imputato potesse oppure no essere considerato
imprenditore non soggetto al fallimento.
In particolare «poichè la sentenza dichiarativa di fallimento è elemento
costitutivo del delitto di bancarotta, non è dubbio che la mutatio legis in ordine
alla fallibilità dell’imputato si rifletta sulla sussistenza stessa del reato in
questione. E se, per tale scelta del legislatore, l’elemento costitutivo di un reato
cambia configurazione nel corso di un giudizio penale, non è dubbio che di tale
novum debba tener conto il giudice che procede, in qualsiasi stato o grado si
trovi il procedimento stesso» e continuava precisando che «certo, che quel
medesimo legislatore può, con disposizione transitoria440, diversamente
regolare le situazioni pendenti al momento della entrata in vigore della norma
438 Cfr. fra le tante Cass. pen., sez. V, 4 maggio 1993, Berzanti, in CED, 194879; Cass. pen., sez. V, 24 febbraio 1998, Bertoni, in Cass. pen., 2000, p. 1043; Cass. pen., sez. V, 15 aprile 1998, Calabro, in Guida al dir., 1998, 9, p. 98; Cass. pen., sez. V, 31 maggio 2001, Barni, in Guida al dir., 2001, 31, p. 66. 439 Cass. pen., sez. V, 21 novembre 2007, Rizzo, in Il fall., 2008, 3, p. 273. 440 È chiaro il riferimento all’art. 150 D.Lvo n. 5/2006.
129
innovativa, ma se, in campo civile, nessun ostacolo si frappone alla
introduzione di una disciplina che regoli il “passaggio dal vecchio al nuovo”,
non va dimenticato che, in materia penale, si deve tener conto del dettato del
ricordato art. 2 c.p., che, per essere stato collocato dal legislatore nel libro primo,
titolo primo, del codice […], rappresenta norma di generale applicazione in
tutto il sistema, costituendo un vincolante canone ermeneutico in tema di
successione di leggi nel tempo. Va da sé che, non trattandosi di un principio
costituzionalizzato, ad esso il legislatore ordinario può derogare, ma – questo è
il punto – la deroga deve essere espressa in maniera inequivoca tale da
rispecchiare con assoluta chiarezza la mens legis; né l'ʹinterprete può pensare di
“aggirare” l’ostacolo attraverso un percorso tutto interno alla legislazione
civile»441.
Alla luce di tali considerazioni, la Suprema Corte concluse nel senso che
la normativa intervenuta in pendenza del processo penale per bancarotta
doveva considerarsi più favorevole rispetto a quella previgente.
Infatti, dal momento che l’art. 2 c.p. riguarda anche le norme extrapenali
richiamate espressamente ad integrazione della fattispecie incriminatrice
nonché le leggi costituenti indispensabile presupposto o, comunque concorrenti
ad individuare il contenuto sostanziale del precetto, si doveva ritenere che il
novum legislativo non avesse affatto portato ad un’abrogazione di una parte
della norma penale ma semplicemente alla ridefinizione della qualifica del
soggettivo attivo442.
Il contrasto giurisprudenziale delineato si era configurato, secondo parte
della dottrina, soltanto in apparenza in ordine all’applicazione della normativa
441 Così in motivazione Cass. pen., sez. V, 21 novembre 2007, Rizzo, cit., p. 274. 442 Nello stesso senso nella giurisprudenza di merito si veda Trib. Trieste, 16 gennaio 2007, Cergol, in Cass. pen., 2007, p. 3023; Trib. Bassano del Grappa, 3 aprile 2007, n. 37, in Riv. pen., 2007, 9, p. 905, con nota di RAVAGNAN, Il piccolo imprenditore ed il fallimento alla luce della riforma della legge fallimentare: ipotesi di applicabilità dell’art. 2 c.p.; di MANGIONE, Riflessioni penalistiche sulla riforma, cit., p. 902.
130
successiva più favorevole che definisce la nuova figura di piccolo imprenditore,
mentre nella realtà entrambe le pronunce avevano richiamato precedenti
giurisprudenziali che ribadivano la sindacabilità in sede penale dei presupposti
per la sussistenza della figura giuridica in parola443.
6. LA SENTENZA DELLE SEZIONI UNITE NICCOLI
In ragione di tale discordanza di interpretazioni, la Sezione V con
ordinanza del 13 novembre 2007 ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, nei
termini seguenti: «se i fatti di bancarotta commessi dal “piccolo imprenditore”
prima dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 5 del 2006, che ha
modificato la nozione di imprenditore assoggettabile a fallimento, integrino, o
non, la relativa fattispecie di reato alla luce della disciplina transitoria dettata
dall’art. 150, medesimo D.Lgs.»444.
Nel caso affrontato dalle Sezioni Unite, si trattava quindi di decidere
sulla perdurante rilevanza penale di fatti di bancarotta semplice documentale
commessi da un imprenditore che, in considerazione dell’ammontare dei ricavi
e degli investimenti nel periodo di riferimento, possedeva all’epoca del fatto i
requisiti dimensionali previsti dalla nuova nozione di “piccolo imprenditore”,
in base alla quale non avrebbe potuto più essere dichiarato fallito445.
In realtà, la stessa Corte ha dovuto riformulare il quesito poiché nel
frattempo era intervenuto il decreto correttivo del 2007 che aveva nuovamente 443 Cfr. CÒ, Applicabilità della nuova legge più favorevole tra vecchi e nuovi contrasti sullo status di imprenditore nei reati di bancarotta, in Il fall., 2008, 3, p. 282, il quale precisa che i richiami legittimi, erano tuttavia volti a rafforzare tesi contrapposte, tanto da far sembrare che il contrasto fosse soltanto circoscritto all'ʹapplicabilità in sede penale della normativa transitoria della nuova disciplina fallimentare, mentre esso si cristallizzò proprio in relazione all'ʹapplicazione rigorosa e coerente della normativa processuale in materia di pregiudizialità, con riferimento all'ʹaccertamento dei presupposti del fallimento effettuato in sede civile. 444 Testualmente Cass. pen., sez. un., 28 febbraio 2008, Niccoli, in Guida al dir., 2008, 26, p. 88. 445 GATTA, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici”, cit., p. 433.
131
sostituito l’art. 1 L.fall. prescindendo dalla nozione di “piccolo imprenditore” e
aveva introdotto, inoltre, una nuova disciplina transitoria nell’art. 22446.
Per tale ragione, la questione effettivamente risolta nella pronuncia
concerne la possibilità che i fatti di bancarotta commessi prima dell’entrata in
vigore del D.Lvo n. 5/2006 e del successivo D.Lvo n. 169/2007 continuino ad
essere previsti come reato, anche se secondo la nuova normativa l’imprenditore
non potrebbe più essere dichiarato fallito.
Il quesito si poneva in termini ancora più complessi, poiché si intrecciava
con il tema connesso al carattere extrapenale della norma deputata a definire il
soggetto attivo del reato di bancarotta e, quindi, posta ad elemento integrativo
del precetto penale447.
Fin da subito è bene notare che il Supremo Collegio ha escluso
l’operatività dell’art. 2 c.p. con riferimento alle modifiche apportate alla
disciplina prevista dall’art. 1 L.fall., sulla scorta di due argomentazioni ciascuna
delle quali idonea autonomamente a rendere non configurabile il fenomeno
dell’abolitio criminis.
In prima battuta, la Corte ha fatto leva sull’argomento della vincolatività
dell'ʹaccertamento della qualità di imprenditore compiuta dal giudice
fallimentare agli effetti della legge penale448.
446 L’art. 22, in particolare, prevede: «1. Il presente decreto entra in vigore il 1° gennaio 2008. 2. Le disposizioni del presente decreto si applicano ai procedimenti per dichiarazione di fallimento pendenti alla data della sua entrata in vigore, nonchè alle procedure concorsuali e di concordato fallimentare aperte successivamente alla sua entrata in vigore. 3. Gli articoli 7, comma 6, 18, comma 5, e 20 si applicano anche alle procedure concorsuali pendenti. 4. L’articolo 19 si applica alle procedure di fallimento pendenti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, pendenti o chiuse alla data di entrata in vigore del presente decreto». 447 Così OLDI, Sfumata l'ʹoccasione di elaborare linee guida sulla successione delle leggi, in Guida al dir., 2008, 26, p. 94. Si ricorda che tale problematica evocava i più recenti arresti giurisprudenziali in materia di modifiche “mediate” della norma incriminatrice di cui abbiamo dato conto nel capitolo precendente: cfr. supra Cap. II, § 4. 448 Sul punto si veda AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 209.
132
Nello specifico i giudici di legittimità hanno ribaltato completamente
l’orientamento costante della giurisprudenza449 circa l’efficacia della sentenza
dichiarativa di fallimento nei procedimenti penali di bancarotta rilevando che,
nella struttura delle fattispecie di cui agli artt. 216 ss. L.fall., il presupposto
formale affinchè le condotte poste in essere possano essere prese in
considerazione ai fini della responsabilità penale non sono le condizioni di fatto
richieste per il fallimento ma l’esistenza di una sentenza dichiarativa di
fallimento.
Così, la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua natura di
provvedimento giurisdizionale e non per i fatti che con essa sono stati accertati;
inoltre essendo un atto giurisdizionale richiamato dalla fattispecie penale, la
sentenza dichiarativa di fallimento deve considerarsi insindacabile in sede
penale e vincolante per il giudice in quanto elemento della fattispecie
criminosa450.
Secondo la Corte neppure la disciplina delle questioni pregiudiziali
prevista agli artt. 2 e 3 c.p.p. valeva a spostare tali premesse di diritto
sostanziale: poiché lo status di fallito non rappresenterebbe, infatti, una
questione pregiudiziale da cui dipende la decisione sui reati di bancarotta,
perchè questo status è un effetto diretto della sentenza dichiarativa di fallimento
che non è sindacabile dal giudice penale.
Pertanto, nel caso di mutamento per ius superveniens della definizione
legale dei presupposti di fallibilità, le norme sopravvenute non incideranno
sulla struttura del reato né tali modifiche avrebbero potuto incidere
sull’applicabilità della normativa più favorevole ai procedimenti penali in corso
ai sensi dell’art. 2 c.p.
449 Per tutte si veda Cass. pen., sez. V, 9 aprile 1999, Leo, in Riv. pen., 1999, p. 546; Cass. pen., sez. V, 26 settembre 2002, n. 36032, in Cass. pen., 2004, p. 1049. 450 Così Cass. pen., sez. un., 28 febbraio 2008, Niccoli, cit.
133
Alla luce di tali considerazioni, le Sezioni Unite hanno fatto discendere la
conseguenza che il giudice penale investito del giudizio relativo ai reati di
bancarotta non può sindacare la sentenza dichiarativa non soltanto con
riguardo al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza dell’impresa, ma
anche quanto ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste dall’art.
1 L.fall.451.
Inoltre, secondo la Corte le intervenute modifiche normative sui requisiti
di fallibilità non sembrano poter assumere, rispetto ai fallimenti già dichiarati,
un’importanza tale da togliere rilievo penale a condotte che ledono
intrinsecamente il bene giuridico tutelato dalla fattispecie e rispetto alle quali la
pronuncia di fallimento appare condizionante solamente quanto allo
svolgimento del processo ma non quanto alla lesione del bene giuridico
tutelato.
In particolare, le Sezioni Unite hanno posto l’attenzione sul fatto che il
principio sancito nell’art. 2 c.p. non ha rango costituzionale e, quindi, può
sicuramente essere derogato con legge ordinaria.
Tale deroga, che parte della giurisprudenza aveva ravvisato nella
disciplina transitoria dell’art. 150 D.Lvo n. 5/2006, deve essere espressa in modo
inequivoca, così da rispecchiare con chiarezza la volontà del legislatore.
Tuttavia, secondo il Supremo Collegio la disciplina transitoria in parola
non conteneva né una deroga espressa del dettato normativo contenuto nell’art.
2 c.p. né una perpetuatio definitionis della nozione di imprenditore fallibile
traslabile nel processo penale per bancarotta pendente al momento dell’entrata
in vigore della riforma legislativa.
E concluse escludendo che la qualità di imprenditore costituisca un
elemento strutturale della fattispecie e, quindi, «come condivisibilmente 451 MANGIONE, Riflessioni penalistiche sulla riforma, cit., p. 902; SCHIAVANO, Riforma della legge fallimentare: implicazioni penalistiche, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2006, p. 945; SOCCI, Gli effetti delle riforme del fallimento e del diritto societario sui reati fallimentari e societari. Successione di leggi non penali e conseguenze sulle fattispecie penali, in Giur. mer., 2007, p. 3054.
134
affermato dalla citata sentenza delle Sez. un. Magera, sarebbe ingiustificata
l’applicazione dell’articolo 2 c.p. rispetto a norme extrapenali prive di effetto
retroattivo»452.
7. LA GIURISPRUDENZA SUCCESSIVA
L’esigua giurisprudenza formatasi in seguito alla sentenza Niccoli si è
sostanzialmente conformata all’orientamento delle Sezioni Unite453: sia per
quanto concerne l’irrilevanza dell’art. 2 c.p. in relazione alle modifiche
apportate all’art. 1 L.fall. dal D.Lvo n. 5/2006 e n. 169/2007454, sia a proposito
dell’insindacabilità della sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di
fallimento da parte del giudice penale455.
Non si può fare a meno di notare come le decisioni richiamate non
abbiano fornito una motivazione sul punto, essendosi limitate semplicemente
ad affermare di non avere validi argomenti per discostarsi dall’interpretazione
data dalle Sezioni Unite456.
452 Testualmente Cass. pen., sez. un., 28 febbraio 2008, Niccoli, cit. 453 Un’unica sentenza contraria rinvenuta soltanto nella massima ha affermato che: da un lato «a seguito delle riforme attuate con il d.lg. 9 gennaio 2006 n. 5 e 12 settembre 2007 n. 169, è applicabile il comma 4 dell’art. 2 c.p. quanto ai fatti di bancarotta, semplice o fraudolenta, commessi prima dell’entrata in vigore dei suddetti decreti, con conseguente assoluzione dell’imputato qualora il passivo non superi il limite di cui alla lett. c) del comma 2 dell’art. 1 r.d. 16 marzo 1947 n. 267, e successive modifiche»; dall’altro «poiché nell’odierno sistema processuale penale le uniche pregiudiziali di stato attengono – come conclama il disposto dell’art. 3 c.p.p. – allo stato di famiglia ed a quello di cittadinanza, la declaratoria di fallimento non vincola per alcun verso il giudice penale quanto all’attribuzione della qualità di imprenditore assoggettando alle procedure concorsuali»: Corte Appello Napoli, sez. II, 8 febbraio 2011, n. 555. 454 Corte Appello Milano, sez. II, 12 gennaio 2010, n. 52, in Guida al dir., 2010, 17, p. 96; Cass. pen., sez. V, 21 settembre 2011, n. 40324, in Dejure. 455 Cass. pen., sez. V, 8 maggio 2009, n. 40404, in Cass. pen., 2010, 10, p. 3575; Cass. pen., sez. V, 9 maggio 2012, n. 40901, in Dejure. 456 Cfr. a titolo esemplificativo Cass. pen., sez. V, 8 maggio 2009, n. 40404, cit.
135
La sola pronuncia457 interessante, che costituisce una delle prime
applicazioni del principio di diritto enunciato dalla decisione Niccoli, in realtà
ha aderito all’orientamento della sentenza menzionata dando, tuttavia, rilievo
centrale ad un argomento al quale le Sezioni Unite avevano dato un ruolo
marginale, ossia al valore della norma transitoria dell’art. 150 D.Lvo n. 5/2006.
Nello specifico la Corte d’Appello di Milano ha negato la possibilità di
applicare retroattivamente la nuova nozione di imprenditore in forza del
principio dettato dalla norma transitoria prevista dall’art. 150 D.Lvo n. 5/2006.
457 Corte Appello Milano, sez. II, 1 ottobre 2008, in Corr. Mer., 2009, p. 70.
136
CAPITOLO IV
CRITICHE ALLA SENTENZA
DELLE SEZIONI UNITE NICCOLI
SOMMARIO: 1. I punti critici della sentenza Niccoli – 2. Le interferenze tra il giudizio fallimentare ed il giudizio penale – 2.1 La sentenza dichiarativa di fallimento – 2.2 L’efficacia nel procedimento penale della sentenza dichiarativa di fallimento – 2.3 Il potere del giudice penale – 3. La questione irrisolta: la successione “mediata” – 3.1 Bancarotta individuale ed il soggetto attivo del reato – 4. Gli strumenti di difesa per il “piccolo imprenditore”
1. I PUNTI CRITICI DELLA SENTENZA NICCOLI
La soluzione proposta nella sentenza Niccoli, lungi dall’aver risolto
definitivamente la questione posta all’attenzione del Supremo Collegio, offre lo
spunto per una serie di rilievi critici.
Nello specifico si svolgeranno alcune considerazioni a proposito: da un
lato, delle interferenze tra il giudizio fallimentare ed il giudizio penale;
dall’altro, della successione “mediata” come conseguenza della modifica dei
requisiti soggettivi di cui all’art. 1 L.fall.
Non possiamo esimerci dall’osservare fin da subito come il punto della
motivazione che desta maggiori perplessità sia indubbiamente la parte in cui la
Suprema Corte ha escluso che la qualità di imprenditore costituisca un
elemento strutturale della fattispecie di bancarotta458.
Tale tesi non solo è in evidente contrasto con la più autorevole dottrina459
e con la giurisprudenza maggioritaria sia di legittimità sia di merito, ma è
458 AMBROSETTI, I riflessi penalistici, cit., p. 3609; AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 275. 459 Così ad esempio FANTINATO, Reati urbanistici (voce), in RONCO, GAITO (a cura di), Leggi penali complementari commentate, II, Torino, 2009.
137
difforme anche con quanto affermato dalle stesse Sezioni Unite a proposito
della disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice penale460.
Non è assolutamente chiara la ragione per la quale mentre per i reati
urbanistici il giudice penale non deve solo limitarsi a verificare l’esistenza
ontologica dell’atto o del provvedimento amministrativo, dovendo viceversa
verificare l’integrazione o meno della fattispecie penale, nel caso invece dei
reati fallimentari lo stesso giudice è vincolato all’accertamento compiuto dal
tribunale fallimentare461.
In linea ancora generale, non è neppure condivisibile l’approccio seguito
dagli Ermellini, ridottosi in poche righe, per affrontare la tematica delle
modifiche mediate della fattispecie.
Invero, anche se ammettessimo che il giudice penale fosse vincolato
dall’accertamento del tribunale fallimentare a proposito dello status di
imprenditore, rimane il problema che tale accertamento era stato compiuto in
base alle norme non più vigenti.
Come già notato, la decisione Niccoli ha richiamato il criterio
ermeneutico enunciato nella sentenza Magera462 – cioè quello formale
dell’abolitio criminis parziale – ma proprio accogliendo tale principio la
soluzione sarebbe stata diversa in quanto si sarebbe potuto sostenere che dalle
fattispecie di cui agli artt. 216 e 217 L.fall. è stata espunta la sottoclasse degli
imprenditori che non rientrano nei requisiti previsti dall’art. 1 L.fall. per la
dichiarazione di fallimento.
460 Cfr. Cass. pen., sez. un., 12 novembre 1993, Borgia, in Cass. pen., 1993, p. 901; Cass. pen., sez. un., 28 novembre 2001, Cremonese, in Cass. pen., 2002, p. 2017. In queste pronunce, infatti, è stato affermato che il giudice penale, qualora nella fattispecie di reato sia previsto un atto amministrativo ovvero l’autorizzazione del comportamento del privato da parte di un organo pubblico, non deve limitarsi a verificare l’esistenza ontologica dell’atto o del provvedimento amministrativo, ma deve verificare l’integrazione o meno della fattispecie penale in vista dell’interesse sostanziale che quest’ultima tutela, in cui gli elementi di natura extrapenale convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo. 461 AMBROSETTI, I riflessi penalistici, loc. cit. 462 Cfr. supra Cap. II, § 4.
138
2. LE INTERFERENZE TRA IL GIUDIZIO FALLIMENTARE ED IL GIUDIZIO
PENALE
2.1 La sentenza dichiarativa di fallimento
Ma andiamo con ordine, il primo profilo di criticità, come già
evidenziato, concerne le interferenze tra il giudizio fallimentare ed il giudizio
penale: secondo le Sezioni Unite, infatti, la sentenza dichiarativa di fallimento è
insindacabile in sede penale463.
Proprio il ruolo da attribuirsi alla dichiarazione di fallimento, con
riferimento ai reati puniti nel Titolo VI, ed in particolare ai delitti di bancarotta,
è da sempre stato oggetto di dibattito.
Infatti, ai sensi degli artt. 216 e 217 L.fall. risponde di bancarotta
fraudolenta o semplice l’imprenditore che ha commesso taluno dei fatti in esse
indicati «se è stato dichiarato fallito»464.
463 Cass. pen., sez. un., 28 febbraio 2008, Niccoli, cit. 464 Si ricorda, per dovere di completezza, che gli artt. 216 e 217 L.fall. puniscono, rispettivamente, la bancarotta fraudolenta e semplice commessa dall’imprenditore individuale. Nello specifico l’art. 216 L.fall punisce «se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che: 1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti; 2) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari. La stessa pena si applica all’imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n. 1del comma precedente ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili. È punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione. Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa». Mentre l’art. 217 L.fall sanziona «se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che, fuori dai casi preveduti nell'ʹarticolo precedente: 1) ha fatto spese personali o per la famiglia
139
Ne risulta che per la punibilità non è sufficiente la commissione dei fatti
di cui alle disposizioni in parola, come non basta soltanto il fallimento: ma è
necessario il concorso degli uni e degli altri465.
Le norme, invero, descrivono una fattispecie in cui le condotte sono poste
in essere dall’imprenditore nel corso dell’attività che precede il fallimento e la
sentenza dichiarativa di esso assume valore di requisito essenziale del reato: da
tale circostanza ne consegue che uno dei principali nodi interpretativi riguarda
proprio il ruolo del fallimento all’interno della struttura giuridica della
bancarotta.
Tale questione, è bene precisare, si pone soltanto con riguardo alla
fattispecie di bancarotta prefallimentare, poiché in quella postfallimentare si
ritiene pacificamente che la sentenza dichiarativa di fallimento sia un
presupposto del reato466.
Un presupposto che incide sul soggetto attivo del reato, che nelle
fattispecie di bancarotta postfallimentare, è appunto l’imprenditore dichiarato
fallito467.
eccessive rispetto alla sua condizione economica; 2) ha consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti; 3) ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento; 4) ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa; 5) non ha soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare. La stessa pena si applica al fallito che, durante i tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento ovvero dall’inizio dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata, non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge o li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta. Salve le altre pene accessorie di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna importa l’inabilitazione all'ʹesercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a due anni». 465 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 48. 466 CONTI, Diritto penale commerciale, vol. I, Torino, 1980, p. 128; PEDRAZZI, Reati fallimentari, in PEDRAZZI, ALESSANDRI, FOFFANI, SEMINARA, SPAGNOLO, Manuale di diritto penale dell’impresa. Parte generale e reati fallimentari, Bologna, 2003, p. 106. 467 AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 269. Si sottolinea soltanto che secondo una diversa dottrina la sentenza dichiarativa di fallimento è un elemento del “fatto”, ossia un presupposto della condotta che deve preesistere rispetto alla condotta, oggetto di rappresentazione e volizione. Pertanto, l’attribuzione di efficacia sostanziale alla declaratoria fallimentare e l’inquadramento di essa tra i presupposti della condotta ha come conseguenza l’inclusione della stessa all’interno del dolo. Chi commette, quindi, un fatto di bancarotta
140
Problematica è, viceversa, la configurazione della dichiarazione di
fallimento nella bancarotta prefallimentare.
Un’impostazione risalente, ed ormai superata, attribuiva al fallimento un
valore centrale di evento consumativo del reato nell’ambito della fattispecie in
parola, punendo in quanto tale il fallimento qualora fosse stato accompagnato
dalla commissione di taluno dei fatti di bancarotta fraudolenta o semplice468.
Sviluppando questa tesi si era attribuito ai fatti dolosi o colposi descritti
nelle fattispecie di bancarotta un evidente valore sintomatico nella disamina del
fatto concreto, cioè sul loro accertamento si doveva fondare una doppia
presunzione assoluta: sia del rapporto causale tra le condotte illecite ed il
fallimento, sia della colpevolezza dell’agente.
Diverso è l’orientamento della giurisprudenza, la quale al contrario ha
sempre affermato che la dichiarazione di fallimento non è l’evento della
bancarotta prefallimentare469 ed è svincolata dal dolo e dalla colpa: infatti, la
rappresentazione del fallimento esula dall’elemento soggettivo del reato e per
tale ragione è irrilevante che nell’agente manchi la consapevolezza di poter
fallire, anche perchè, siffatta convinzione si risolverebbe in errore su legge
extrapenale, richiamata da quella penale470.
postfallimentare deve rappresentarsi l’esistenza della declaratoria fallimentare, con il conseguente venir meno dell’elemento soggettivo del reato in caso di ignoranza della stessa. Così BRICCHETTI, PISTORELLI, La bancarotta e gli altri reati fallimentari, cit., p. 261. 468 CONTI, Diritto penale commerciale, cit., p. 105; PEDRAZZI, Reati fallimentari, cit., p. 108. 469 Cass. pen., sez. V, 22 aprile 1998, De Benedetti, in Cass. pen., 1999, p. 651, Cass. pen., sez. V, 27 settembre 2006, Corsatto, in Cass. pen., 2007, p. 3876; Cass. pen., sez. V, 1 ottobre 2009, Simonte, in CED, 245350. 470 Cfr. Cass. pen., sez. V, 20 febbraio 2001, n. 17044, in Cass. pen., 2002, p. 3872; Cass. pen., sez. V, 5 luglio 2007, n. 35066, in Cass. pen., 2010, 6, p. 2395; Cass. pen., sez. V, 14 gennaio 2010, n. 11899, in Cass. pen., 2010, 10, p. 3574; da ultimo Cass. pen., sez. V, 24 settembre 2012 – 8 gennaio 2013, n. 733, in www.penalecontemporaneo.it. È bene sottolineare che tuttavia una recente decisione ha enunciato il principio inverso secondo il quale «nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello stesso, e pertanto deve porsi in rapporto causale con la condotta dell’agente, e deve altresì essere sorretto dall’elemento del dolo»: così Cass. pen., sez. V, 24 settembre 2012 – 6 dicembre 2012, n. 47502, in www.penalecontemporaneo.it.
141
La posizione oggi dominante qualifica il fallimento come una condizione
obiettiva di punibilità del reato di bancarotta, secondo la nozione ricavabile
dall’art. 44 c.p.471.
Tuttavia, è opportuno notare che su questa tesi la dottrina si divide.
Da un lato, vi è chi ritiene che il fallimento sia un limite alla repressione
penale nel senso che i fatti indicati dalla legge, nonostante il disvalore ad essi
immanente, vengano puniti solamente qualora l’imprenditore che li ha
commessi fallisca472.
Secondo questa concezione, quindi, il fallimento costituisce un
avvenimento che condiziona extrinsecus l’applicazione della sanzione penale,
posto che l’esistenza di un nesso eziologico tra i fatti puniti ed il dissesto
economico, pur potendo di fatto sussistere, non è astrattamente richiesto dalla
norma.
Di conseguenza, l’interprete dovrà limitarsi a valutare l’esistenza di una
delle condotte di bancarotta, senza porsi il problema se essa abbia influito a
determinare prima lo stato di insolvenza e poi il fallimento: quest’ultimo può
essere del tutto indipendente dalle condotte di bancarotta, ma, in ogni caso,
esso legittima l’irrogazione della pena473.
Dall’altro lato, vi sono alcuni autori che criticando la precedente teoria474
hanno considerato il fallimento come una condizione obiettiva di punibilità ma
di tipo intrinseco: nei delitti di bancarotta con la sentenza dichiarativa di
fallimento la lesione dell’interesse passa dalla potenzialità all’attualità e, quindi, 471 A titolo esemplificativo si veda CONTI, Diritto penale commerciale, cit., p. 118; ID., Fallimento (reati in materia di) voce, in Novissimo Dig., VI, Torino, 1975, p. 1173; GROSSO, Osservazioni in tema di struttura, tempo e luogo del commesso reato della bancarotta prefallimentare, in Riv. it. dir. proc. pen., 1970, p. 565; PEDRAZZI, Reati fallimentari, loc. cit. 472 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 53. 473 Così AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 271. 474 Si riteneva che l’impostazione anzidetta fosse rischiosa a livello costituzionale alla luce del principio della personalità della responsabilità penale, in quanto in tal modo si andrebbe ad addebitare all’agente effetti dannosi da lui non provocati: con la dichiarazione di fallimento che allora non potrebbe sfuggire ad un’esigenza di rimproverabilità, stante proprio il suo contribuire alla lesione del bene giuridico tutelato.
142
condotte che non siano neppure potenzialmente offensive degli interessi
tutelati, non potrebbero assumere rilevanza penale una volta che sia
intervenuto il fallimento475.
Non si può fare a meno di sottolineare che le posizioni tradizionali
delineate, sia con riguardo alle fattispecie prefallimentari che postfallimentari,
sono state criticate recentemente da chi, viceversa, ritiene che il fallimento sia
una condizione di natura processuale476.
Le posizioni della giurisprudenza in ordine al tema in questione sono, al
contrario, meno articolate.
Secondo una costante linea interpretativa, la pronuncia di fallimento
nell’ambito dei fatti prefallimentari è un elemento costitutivo della fattispecie,
facendo in questo modo coincidere il momento ed il luogo consumativi del
reato con quelli dell’emissione dell’atto giudiziario dichiarativo477.
Dalla storica decisione delle Sezioni Unite del 1958478 la dichiarazione di
fallimento è considerata un elemento al cui concorso è collegata l’esistenza del
reato, poiché i fatti di bancarotta dell’imprenditore sono irrilevanti per il diritto
penale prima della dichiarazione di fallimento e soltanto per effetto di questa
integrano le fattispecie di reato.
Invero, gli atti di disposizione che l’imprenditore compie sui propri beni
ed i comportamenti, attivi o omissivi, che egli tiene nel condurre i propri affari
475 NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 1955, p. 42. 476 Si veda a tal proposito GIULIANO BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, Torino, 2012, p. 88. L’Autore demolisce addirittura la premessa sulla base della quale la tesi tradizionale appoggia. In particolare, il fatto che la declaratoria sia, a seconda del momento in cui interviene, condizione ovvero presupposto, sottintende un antecedente alla quale la dottrina non ha dato sufficiente attenzione: vale a dire, che i reati fallimentari si distinguerebbero sempre in reati prefallimentari (cui seguirebbe la declaratoria intesa come condizione di punibilità) ed in reati postfallimentari (preceduti da un presupposto) comporta che sussista un taglio netto tra i reati pre e postfallimentari. Ma tale differenza così netta, secondo l’Autore, non esiste. 477 Cass. pen., sez. V, 9 dicembre 1999, in Cass. pen., 2001, p. 1340; Cass. pen., sez. V, 12 ottobre 2004, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2006, p. 580; Cass. pen., sez. fer., 13 agosto 2012, n. 32779, in CED, 2012. 478 Cass. pen., sez. un., 25 gennaio 1958, in Giust. pen., 1958, II, p. 513
143
sono irrilevanti penalmente essendo libera manifestazione del diritto di gestire
l’impresa nel modo che ritiene più opportuno per la tutela dei propri interessi.
Mentre, diventano rilevanti penalmente qualora, con la contestazione giudiziale
dell’insolvenza, viene accertata la lesione arrecata al diritto dei creditori.
Secondo tale interpretazione la sentenza dichiarativa di fallimento è un
elemento indispensabile per qualificare come reati, nelle ipotesi di bancarotta
prefallimentare, fatti e comportamenti che, diversamente, rimarrebbero leciti ed
indifferenti479.
Si noti, tuttavia, che definire il fallimento come elemento costitutivo del
reato, in realtà, è contraddittorio.
Lo stesso orientamento non ritiene necessario un vero e proprio nesso di
causalità tra le condotte ed il fallimento, non essendo quest’ultimo inquadrabile
come evento del reato480. Neppure non si potrebbe pretendere un collegamento
psicologico tra le condotte e la dichiarazione di fallimento481.
Pertanto, per ovviare all’anomalia di considerare elemento costitutivo ciò
che non è legato alla condotta da un nesso di causalità e che non deve essere
coperto dal dolo dell’agente, in alcune decisioni è presente la definizione della
sentenza di fallimento quale condizione di esistenza giuridica del reato di
bancarotta482.
2.2 L’efficacia nel procedimento penale della sentenza dichiarativa di fallimento
Dopo aver cercato di individuare il ruolo della sentenza dichiarativa di
fallimento all’interno della struttura dei delitti di bancarotta, è doveroso
479 In tal senso Cass. pen., sez. V, 12 ottobre 2004, cit. 480 Così Cass. pen., sez. V, 3 giugno 1998, in Cass. pen., 2001, p. 291. Contra di recente cfr. Cass. pen., sez. V, 6 dicembre 2012, n. 47502, cit. 481 Cass. pen., sez. V, 26 giugno 1990, in Cass. pen., 1991, p. 828. 482 Cfr. Cass. pen., sez. V, 23 marzo 1999, in Cass. pen., 2000, p. 1784. Si veda anche CONTI, Fallimento (reati in materia di), cit., p. 18.
144
risolvere un’ulteriore questione, ossia la sfera di efficacia che essa assume
nell’ambito di un procedimento penale instaurato per un reato di bancarotta di
cui agli artt. 216, comma 1, e 217, comma 1, L.fall.
In ordine a questo profilo si sottolinea il duplice aspetto che la sentenza
dichiarativa di fallimento assume: da un lato, essa rappresenta un atto
giurisdizionale dal quale il giudice penale non può prescindere come
espressione dell’avverarsi di quel fatto futuro ed incerto – vale a dire «se è
dichiarato fallito» – e, sotto questo aspetto, si ritiene che la cognizione del
giudice penale relativamente ai fatti di bancarotta sarà sempre subordinata
all’esistenza della declaratoria civile di fallimento, non potendo egli risolvere
automaticamente tale questione neppure incidenter ai meri effetti della decisione
penale; dall’altro, la pronuncia emessa in sede civile ha un aspetto
contenutistico, con riguardo alla valutazione di quei presupposti – come la
qualifica di imprenditore commerciale – che il giudice penale è tenuto
necessariamente ad esaminare in relazione alle fattispecie di bancarotta483.
Durante la vigenza del codice di procedura penale del 1930, la dottrina e
la giurisprudenza unanimemente affermavano l’efficacia vincolante della
sentenza dichiarativa di fallimento definitiva484.
In particolare, si sosteneva che essendo tale pronuncia una sentenza
costitutiva, i relativi presupposti soggettivi ed oggettivi (ossia rispettivamente
la qualità di imprenditore commerciale non piccolo e lo stato di insolvenza),
non potevano essere, una volta intervenuta la decisione, rimessi in discussione
dal giudice penale485.
483 AMBROSETTI, MEZZETTI, RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 273. 484 CONTI, Diritto penale commerciale, cit., p. 444. In giurisprudenza cfr. Cass. pen, sez. V, 23 ottobre 1986, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1988, p. 947; Cass. pen, sez. V, 15 dicembre 1988, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1989, p. 972. 485 Cass. pen, sez. V, 11 ottobre 1977, Michelani, in Cass. pen., 1979, p. 263; Cass. pen, sez. V, 22 settembre 1989, Carignano, in Dejure.
145
Tale conclusione si fondava sulla premessa che l’accertamento della
qualità di imprenditore fallito corrispondesse ad una questione di stato,
pregiudiziale alla decisione sull’esistenza del reato, la cui soluzione veniva
demandata alla sentenza dichiarativa di fallimento486.
L’attuale codice di rito ha stravolto il sistema appena delineato,
circoscrivendo il regime della pregiudizialità alle sole controversie sullo stato di
famiglia e di cittadinanza, escludendone quella sulla condizione di fallito.
Nello specifico, l’art. 2 c.p.p. afferma il principio dell’autonoma
cognizione del giudice penale riguardo alle questioni che si pongono in
antecedenza logica rispetto alla decisione finale. Tale principio è temperato
soltanto dalla seconda parte del primo comma ove viene fatta salva ogni altra
ipotesi in cui sia diversamente stabilito.
La medesima disposizione, poi, precisa che la decisione del giudice
penale, che risolve in via incidentale la questione, non ha efficacia vincolante in
nessun processo.
L’art. 3 c.p.p. ha, inoltre, limitato l’ambito di rilevanza delle questioni
pregiudiziali, stabilendo che soltanto una controversia sullo stato di famiglia o
di cittadinanza, se seria e già in corso, autorizza il giudice penale a sospendere
il processo fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce la
questione.
Sulla base della nuova disciplina parte della dottrina487 ha optato per il
superamento del vincolo del giudicato fallimentare nel processo per bancarotta,
486 Le giustificazioni di tale assunto erano molteplici, vi era chi lo fondava sul vecchio art. 19 c.p.p., altri sull’art. 20 dello stesso codice, altri ancora sul rilievo che le disposizioni predette non esaurivano tutte le ipotesi di pregiudizialità, poiché ne sussistevano alcune in cui la pregiudizialità civile al giudizio penale era imposta dall'ʹanalisi delle condizioni alle quali la punibilità di determinati reati si rivelava subordinata, in rapporto all'ʹincompetenza funzionale del magistrato penale ad accertarle ed alla fondamentale esigenza di evitare contrasti tra giudicati civili e penali. 487 Per un quadro sulle diverse impostazioni si veda PEDRAZZI, Reati fallimentari, p. 115.
146
a fronte di parecchi autori che ancora oggi ritengono che permane tale vincolo,
facendo leva sulla sua natura sostanziale prima che processuale488.
Pertanto, con l’avvento del nuovo codice le questioni più interessanti
sulle quali è necessario fornire una risposta concernono: la sussistenza di un
rigoroso vincolo alla sentenza dichiarativa per il giudice penale dovendosi egli
limitare a prendere atto del fallimento dichiarato nella sede competente, oppure
se il giudice penale non sia viceversa legittimato a verificare i presupposti già
accertati dal giudice fallimentare (vale a dire la qualità soggettiva di
imprenditore commerciale non piccolo e lo stato di insolvenza); se l’esercizio
dell’azione penale debba proseguire o si debba sospendere in caso di
opposizione alla declaratoria di fallimento489.
In questa sede verrà affrontato soltanto il primo problema, in ordine al
quale la giurisprudenza di legittimità, prima della sentenza Niccoli, si era
correttamente orientata nel senso che la sentenza dichiarativa di fallimento,
anche se irrevocabile, non ha efficacia di giudicato nel processo penale, in virtù
della disciplina di cui agli artt. 2 e 3 c.p.p.: con la conseguenza che qualora
venisse contestata l’esplicazione dell’attività imprenditoriale commerciale
rilevante ai fini di un addebito di un reato fallimentare, la suddetta pronuncia
non costituiva un dato definitivo e vincolante490.
Inoltre, secondo questa impostazione il giudice penale aveva anche il
compito di stabilire se nel caso concreto l’interessato potesse considerarsi
piccolo imprenditore come tale non soggetto, ai sensi dell’art. 1 L.fall., alle
disposizioni sul fallimento491.
488 MANGANO, La pregiudiziale fallimentare nei reati di bancarotta, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, p. 708. In giurisprudenza cfr. ex multis Cass. pen, sez. V, 31 maggio 2001, Barni, in Guida al dir., 2001, 31, p. 66. 489 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 71. 490 Cfr. Cass. pen, sez. V, 31 gennaio 2000, n. 1035, in Dir. e prat. soc., 2000, 9, p. 87; Cass. pen, sez. V, 14 novembre 2002, n. 38230, in Riv. pen., 2003, p. 562. 491 Cass. pen, sez. V, 26 settembre 2002, n. 36032, in Cass. pen., 2004, p. 1049.
147
Parte della dottrina, invece, ritiene che la questione vada risolta alla luce
del ruolo che la sentenza dichiarativa di fallimento assume nelle varie
fattispecie492.
Con riguardo alle fattispecie di bancarotta postfallimentare un problema
di sindacato della sentenza dichiarativa di fallimento neppure si pone, dal
momento che il fallimento si impone quale dato di fatto, come evento in senso
naturalistico493.
Mentre, in ordine alle fattispecie prefallimentari, secondo una diversa
impostazione il giudice penale può verificare la qualificazione del soggetto
attivo prescindendo dagli attuali limiti di pregiudizialità: la qualità di
imprenditore deve sussistere al tempo delle condotte illecite, poste in essere
prima della sentenza dichiarativa, e su di esse non può perciò solo fare stato494.
Al contrario si dovrebbe escludere che il giudice penale sia legittimato a
ridiscutere l’esistenza dello stato di insolvenza, non figurando questo come
requisito della fattispecie delittuosa, essendo assorbito dalla dichiarazione di
fallimento, salvo le ipotesi di reato che necessitano di uno stato di dissesto
contestuale, da verificare in concreto.
Interessante in argomento una decisione in cui si è espressamente
distinto tra lo “status” di fallito, non sindacabile dal giudice penale, e quello di
“imprenditore”, al contrario sindacabile: difatti, gli accertamenti risultanti dalle
sentenze civili ed amministrative, non vertenti sullo stato di famiglia o di
cittadinanza, possono essere valutati nel processo penale alla stregua di ogni
altro materiale utile sul piano probatorio, restando esclusa l’autorità di
giudicato di tali decisioni, fatti salvi gli effetti costitutivi, modificativi o estintivi
di situazioni giuridiche dalla legge ricollegati ai suddetti accertamenti495.
492 PEDRAZZI, Reati fallimentari, cit., p. 114. 493 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 72. 494 PEDRAZZI, Reati fallimentari, loc. cit. 495 In tal senso Cass. pen., sez. V, 9 aprile 1991, Milazzo, in Cass. pen., 1991, p. 643.
148
Da tale orientamento ne derivava che, con riguardo ai reati fallimentari,
poiché la dichiarazione di fallimento introduce irreversibilmente nella realtà
giuridica – una volta divenuta definitiva la relativa sentenza – il dato della
particolare qualificazione della situazione giuridica del soggetto contro cui è
intervenuta (cioè quella di “fallito”), l’esistenza di tale stato deve essere
meramente recepita dal giudice penale.
Si dovrebbe ritenere in modo diverso per quanto concerne l’essere
“imprenditore” del soggetto attivo: a proposito la sentenza dichiarativa di
fallimento non comporta la costituzione, la modificazione o l’estinzione di una
situazione giuridica, pertanto il giudicato sull’accertamento dell’esplicazione
dell’attività imprenditoriale da parte del soggetto dichiarato fallito non vincola
il giudice penale, al quale spetta piena autonomia decisionale sul punto,
qualora la questione sia posta alla sua cognizione e ne possa dipendere la
decisione sull’esistenza del reato496.
È chiaro, quindi, come sia incomprensibile la conclusione a cui giungono
le Sezioni Unite nella sentenza che qui si critica in ordine all’efficacia da
attribuirsi alla sentenza dichiarativa di fallimento all’interno del processo
penale, proprio alla luce della disciplina processuale risultante dal nuovo codice
di rito.
2.3 Il potere del giudice penale
La seconda questione497 alla quale dobbiamo ora rispondere consiste
nella necessità di sospendere l’esercizio dell’azione penale in caso di
opposizione alla declaratoria di fallimento.
A proposito si ricorda che durante la vigenza del codice di procedura
penale del 1930, dall’esigenza di un accertamento pregiudiziale definitivo si era 496 BRICCHETTI, PISTORELLI, La bancarotta e gli altri reati fallimentari, cit. p. 266. 497 Cfr. supra in questo capitolo, § 2.2.
149
desunta l’impossibilità di rinvio a giudizio nel caso di opposizione alla
declaratoria di fallimento ed il vincolo alla sospensione del procedimento
penale, previo accertamento ai sensi dell’art. 19 cpv. c.p.p., oltrechè
dell’esistenza, anche della “serietà della controversia”498.
Era proprio quest’ultimo requisito che attribuiva al magistrato penale il
potere, pur limitato, di deliberare i motivi sui quali si basava l’impugnazione in
sede civile, permettendogli di ovviare, anche se soltanto in parte, ad eventuali
opposizioni meramente dilatorie proposte dal bancarottiere al solo fine di
allontanare i rigori della persecuzione penale e di ostacolare le indagini sui reati
commessi.
Con l’attuale codice, in parziale deroga alle regole viste contenute negli
artt. 2 e 3 c.p.p., l’art. 479 c.p.p. prevede che, qualora la decisione sull’esistenza
del reato dipenda dalla risoluzione di una controversia civile o amministrativa
di particolare complessità, per la quale sia già in corso un procedimento presso
il giudice competente, il giudice penale può disporre la sospensione del
dibattimento fino alla decisione definitiva.
Pertanto, si afferma che in pendenza del giudizio di opposizione al
fallimento si imporrà la sospensione del dibattimento ai sensi della citata
disposizione processuale, poiché quest’ultima è applicabile a fortiori, in quanto
dalla soluzione della controversia civile dipende non soltanto la decisione
dell’esistenza del reato, ma anche il consolidamento di un requisito della
fattispecie499.
Secondo una diversa impostazione500 visto che l’esercizio dell’azione
penale è imposto ai sensi dell’art. 238 L.fall.501 e che nessuna norma obbliga alla
498 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 72. Questa impostazione era seguita da coloro che riconoscevano la natura pregiudiziale della sentenza dichiarativa di fallimento definitiva. Si segnala la posizione contraria di GIULIANI, Sul rapporto tra bancarotta e declaratoria fallimentare, in Studi in onore di B. Petrocelli, II, Milano, 1972, p. 851. 499 Così PEDRAZZI, Reati fallimentari, cit., p. 115. 500 GIULIANO BALESTRINO, La bancarotta, cit., p. 114.
150
sospensione del processo penale, è inevitabile concludere che se necessario il
giudice penale deve giungere sino alla sentenza di condanna, eventualmente
fino al giudicato penale.
Tale tesi è conforme al principio fondamentale del nostro processo
penale, ossia dell’obbligatorietà e, quindi, il giudice penale non può sospendere
il processo per bancarotta fuori dai casi consentiti: l’art. 238 L.fall., infatti, fa
riferimento all’esercizio immediato dell’azione penale subito dopo (solo in casi
eccezionali prima) la comunicazione della sentenza dichiarativa di fallimento,
ossia della declaratoria ancora impugnabile.
Al contrario gli artt. 216 e 217 L.fall. stabiliscono che è punito colui che ha
commesso i fatti di bancarotta502.
Chi segue tale teoria giunge ad affermare che considerato il carattere
irreparabile dell’afflizione e della lesione che scaturiscono dalla pena, ne deriva
che i presupposti di quest’ultima abbiano – almeno di regola – carattere
definitivo: conseguentemente l’inciso «se è dichiarato fallito» non deve essere
ritenuto un illogico doppione dell’art. 238 L.fall., ma un preciso riferimento al
giudicato fallimentare, che è richiesto dalla legge fallimentare quale
presupposto per l’applicabilità della pena503.
Da tale assunto ne deriva logicamente che l’opposizione ed il giudizio
che ne scaturiscono sono liberamente e discrezionalmente apprezzati dal
giudice penale.
Tuttavia, un’opposizione manifestamente fondata impedirà ogni
provvedimento sfavorevole all’imputato, sulla base di un giudizio di
501 Tale disposizione disciplina l’«esercizio dell’azione penale per reati in materia di fallimento», sancendo che «per i reati previsti negli artt. 216, 217, 223 e 224 l’azione penale è esercitata dopo la comunicazione della sentenza dichiarativa di fallimento di cui all’art. 17. È iniziata anche prima nel caso previsto dall’art. 7 e in ogni altro in cui concorrano gravi motivi e già esista o sia contemporaneamente presentata domanda per ottenere la dichiarazione suddetta». 502 Cfr. artt. 216 e 217 L.fall. 503 Ancora GIULIANO BALESTRINO, La bancarotta, cit., p. 115. Si noti che lo stesso Autore ritiene che la sentenza dichiarativa di fallimento sia una condizione di procedibilità.
151
opportunità che deve essere dato discrezionalmente dal giudice penale, caso
per caso504.
Peraltro, un’opposizione probabilmente infondata non è di ostacolo allo
svolgimento di tutto il procedimento penale e può non impedire nemmeno il
formarsi del giudicato penale505.
La dottrina ha affrontato, altresì, il problema delle incidenze del
successivo passaggio in giudicato della pronuncia civile che accoglie
l’opposizione sulla sentenza penale di condanna divenuta definitiva per non
esser stato sospeso il procedimento.
La questione si pone ove il fallimento venga revocato: in questa ipotesi
vi è chi sostiene che non resta altro al condannato se non esperire il rimedio
straordinario della revisione ex art. 630 n. 1 lett. b) c.p.p.506.
Se viene meno la declaratoria di fallimento diventano non punibili i fatti
di bancarotta prefallimentari e non costituiscono reato quelli di bancarotta
postfallimentari. Di conseguenza scattano i presupposti per una sentenza di
assoluzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p. e non sussistono i limiti alla revisione di
cui all’art. 631 c.p.p.507.
Tuttavia, è opportuno segnalare che parte della dottrina ha dubitato che
sussista la possibilità di ricorrere al rimedio straordinario anzidetto508 o lo ha
subordinato all’avvenuta sospensione del dibattimento in sede penale509.
504 È evidente che un magistrato eviterà danni irreparabili al fallito imputato di bancarotta, ogni qualvolta sappia che la revoca del fallimento è imminente e probabile. Inoltre, un’opposizione probabilmente fondata agevola il proscioglimento dell'ʹimputato. 505 GIULIANO BALESTRINO, La bancarotta, loc. cit.. 506 Ossia nel caso in cui «la sentenza o il decreto penale di condanna hanno ritenuto la sussistenza del reato a carico del condannato in conseguenza di una sentenza del giudice civile o amministrativo, successivamente revocata, che abbia deciso una delle questioni pregiudiziali previste dall’articolo 3 ovvero una delle questioni previste dall’articolo 479». Così LANZI, Il nuovo processo penale e i reati fallimentari, in Il fall., 1991, p. 224. 507 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, cit., p. 73. 508 CARACCIOLI, Fallimento, bancarotta e i reati fallimentari, in Impresa, 1990, p. 793. 509 LOZZI, Il nuovo processo penale e il fallimento, in AA. VV., Problemi e prospettive del processo di fallimento, Milano, 1989, p. 110.
152
Una diversa impostazione, viceversa, ritiene sia auspicabile
un’interpretazione restrittiva dei limiti dell’operatività dell’art. 479 n. 1 c.p.p.510.
Inoltre, abbiamo visto come secondo le Sezioni Unite Niccoli511 il giudice
penale non solo non può accertare la qualità di fallito, ma neppure quella di
imprenditore commerciale.
Tale asserzione non può essere assolutamente condivisa.
Come correttamente prospettato, solamente chi sa di essere imprenditore
può avvertire l’obbligo di amministrare i beni e di tenere i libri contabili in
modo da non danneggiare gli interessi dei creditori e – se del caso – di
autoaccusarsi: è evidente che chi non sa (o non crede) di essere imprenditore
non può sapere che il suo obbligo di non ledere gli interessi dei creditori ha
carattere penale e non solo civile512 .
Le Sezioni Unite, per sostenere la tesi secondo la quale il bancarottiere
non dovrebbe essere consapevole della qualità di imprenditore, hanno precisato
che laddove le norme incriminatrici parlano di «imprenditore fallito», in realtà
si dovrebbe leggere «il fallito»513 con evidente violazione della lettera della
legge.
In particolare, il Supremo Collegio ha affermato che «a ben leggere gli
artt. 216 e 217 L.fall., appare chiaro che in essi il termine “imprenditore” non
rileva di per sè ma solo in quanto individua il soggetto “dichiarato fallito”: esso
510 ROSSI, in ANTOLISEI, I reati fallimentari, loc. cit. Si segnala soltanto per completezza che la dottrina ha affrontato anche un'ʹulteriore questione sempre nel caso in cui vi sia stata la sospensione del procedimento ed intervenga successivamente una sentenza di proscioglimento per difetto di una definitiva declaratoria di fallimento: se sopravvenuta quest’ultima, l’azione penale può essere nuovamente esercitata oppure osta la preclusione dell’art. 649 c.p.p.? La soluzione a cui si perviene oggi, non è diversa da quella che si forniva sotto l’imperio dell’art. 90 c.p.p. abrogato poiché l’attuale art. 649 c.p.p. presenta la medesima formula. Quindi, si afferma che l’esigenza che nella situazione di cui si parla possa farsi luogo ad un ulteriore procedimento, emerge con certezza dal rilievo che non appare in alcun modo vulnerato il principio del ne bis in idem: per tale ragione si propende per la possibilità che si esperisca nuovamente l’azione penale. 511 Cfr. Cass. pen., sez. un., 15 maggio 2008, n. 19601, cit. 512 GIULIANO BALESTRINO, La bancarotta, cit., p. 65. 513 Cfr. § 6.6 in Cass. pen., sez. un., 15 maggio 2008, n. 19601, cit.
153
compone cioè un’endiadi che ha lo stesso valore connotativo del più breve
riferimento al “fallito” contenuto nell’art. 220 L.fall., del tutto analogo alla
espressione “società dichiarate fallite” usata negli artt. 223 e 224 L.fall. per il
caso dei “reati commessi da persone diverse dal fallito”; e nessun indizio
logico-‐‑giuridico può desumersi da dette fattispecie acchè possa a ragione
ritenersi che al giudice penale sia demandato il compito di accertare in capo
all’imputato la veste di “imprenditore” ovvero, per la ipotesi di bancarotta
impropria, di sindacare la veste societaria assunta dalla fallita.
D’altro canto, anche se ciò fosse, il giudice penale avrebbe, in tesi, solo il
compito di accertare una generica qualità di “imprenditore”, ma non quella di
verificare se, in base alla legge fallimentare, un “imprenditore”, quale che sia,
“possa essere dichiarato fallito”, posto che le norme penali qui considerate non
si esprimono in questi termini, ma ancorano la operatività della fattispecie a
una dichiarazione di fallimento e non ad un accertamento del giudice penale
sulla esistenza delle condizioni per le quali quell’imprenditore poteva essere
dichiarato fallito.
L’“imprenditore” evocato dalle fattispecie in questione altri non è,
dunque, che il “soggetto dichiarato fallito”, giacchè nel nostro ordinamento la
dichiarazione di fallimento è inscindibilmente legata all'ʹesercizio di una
impresa, e la norma penale, ponendo a dato strutturale della fattispecie
l’esistenza di una dichiarazione di fallimento, non può che richiamarsi a quella
condizione soggettiva (“imprenditore”) che la dichiarazione di fallimento
implica necessariamente»514.
Tali argomentazioni non sembrano però corrette.
Com’è stato fondatamente evidenziato in dottrina515 non si può
sovrapporre i due diversi legami sussistenti tra il processo fallimentare e quello
514 Testualmente Cass. pen., sez. un., 15 maggio 2008, n. 19601, cit. 515 Così CERQUA, La modifica della definizione di “piccolo imprenditore”: le sezioni unite ritengono ingiustificata l’applicazione, in Corr. giur., 2009, 6, p. 822.
154
penale: il primo collegamento di “antecedenza necessaria” obbliga il giudice
penale ad attendere la pronuncia civile e la sua irrevocabilità; la seconda
connessione, relativa al piano processuale delle questioni pregiudiziali e del
nesso probatorio, permette invece al giudice di non essere vincolato
nell’accertamento della responsabilità penale della precedente decisione civile.
Inoltre, suscita ancora qualche perplessità il passaggio argomentativo
della sentenza in parola nella parte in cui – anche se formalmente svincolandola
dalla disciplina codicistica sulle questioni pregiudiziali e tenuto conto di quanto
previsto dall’art. 238 L.fall. – avvalla espressamente l’applicabilità dell’istituto
della sospensione del procedimento penale previsto dall’art. 479 c.p.p.,
nell’ipotesi di pendenza del giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa
di fallimento ex art. 18 L.fall., ritenendo sul punto ancora valida l’affermazione
secondo la quale «sorgendo controversia sullo stato di imprenditore fallito, il
giudice penale non può conoscere di essa ma deve limitarsi, previa verifica
delle condizioni di legge, a sospendere il procedimento pendente davanti a lui,
sino al passaggio in giudicato della relativa pronunzia»516, tale asserzione infatti
contrasta con il principio di ragionevole durata del processo517.
Per di più, il dovere richiamato dalla pronuncia in commento imposto
dall’art. 220 L.fall.518 riguarda chi è già fallito, sorgendo quindi dopo il
fallimento.
Al contrario, il divieto di commettere fatti di bancarotta sorge, nei casi di
bancarotta prefallimentare, prima del fallimento: è indubbio, dunque, che chi
non sa di essere imprenditore non può avvertire tale divieto.
516 Testualmente Corte cost., 16 luglio 1970, n. 141, in www.giurcost.org. 517 TETTO, Il nuovo statuto dell'ʹimpresa fallibile ed i riflessi nei giudizi di bancarotta, in Il Fall., 2008, 10, p. 1187. 518 Si ricorda che la disposizione citata punisce il reato di denuncia di creditori inesistenti e altre inosservanze da parte del fallito, qualora egli «fuori dei casi preveduti all’art. 216, nell’elenco nominativo dei suoi creditori denuncia creditori inesistenti od omette di dichiarare l’esistenza di altri beni da comprendere nell'ʹinventario, ovvero non osserva gli obblighi imposti dagli artt. 16, nn. 3 e 49».
155
Si concorda, pertanto, con chi ritiene che l’assunto delle Sezioni Unite
contraddice un principio fondamentale del nostro ordinamento penale: ossia
che l’imperativo della legge si rivolge soltanto a chi lo può comprendere e può
ubbidire al comando del legislatore519.
Per tale ragione sembra sussistere un contrasto con la Costituzione in
quanto l’imputato di bancarotta non potrebbe difendersi sostenendo di non
essersi ritenuto imprenditore: da cui ne consegue un’evidente lesione del diritto
di difesa di cui all’art. 24 Cost. e di uguaglianza ex art. 3 Cost.520.
Il medesimo Autore sostenitore dell’impostazione appena delineata,
correttamente, lamenta la violazione del principio costituzionale di uguaglianza
anche sotto un altro profilo: ritiene, infatti, che seguendo l’interpretazione
fornita dalla decisione Niccoli si giunge ad un’illogica differenziazione tra il
bancarottiere individuale e quello societario.
Infatti, le fattispecie di bancarotta societaria di cui agli artt. 223 e 224
L.fall. puniscono gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori
di società dichiarate fallite.
Questi soggetti possono chiedere di essere assolti per mancanza della
loro qualità soggettiva con argomenti che spesso sono stati accolti dalla
giurisprudenza521.
Pertanto si configurerebbe una differenza gravissima tra i responsabili di
bancarotta poiché, mentre l’imprenditore individuale secondo l’insegnamento
derivante dalla pronuncia in esame non può chiedere che il giudice penale
accerti la sua qualità di imprenditore, tutti gli altri bancarottieri potrebbero
invece far valere l’assenza della loro qualità soggettiva e di conseguenza essere
assolti522.
519 GIULIANO BALESTRINO, La bancarotta, cit., p. 66. 520 ID., La bancarotta, loc. cit. 521 Si veda a proposito dell’amministratore di fatto Cass. pen, sez. V, 19 maggio 2010, n. 19049, in Dejure; Cass. pen., sez. V, 25 gennaio 2012, n. 17708, in Dejure. 522 GIULIANO BALESTRINO, La bancarotta, cit., p. 68.
156
E piuttosto palese, quindi, come sussista la violazione del principio di
uguaglianza sotto un duplice aspetto: in primo luogo, rispetto a tutti gli altri
reati propri; in secondo luogo, per l’illogica disparità di trattamento del
bancarottiere imprenditore individuale rispetto al bancarottiere societario.
3. LA QUESTIONE IRRISOLTA: LA SUCCESSIONE “MEDIATA”
Si è già evidenziato come le Sezioni Unite nella più volte richiamata
decisione Niccoli, abbiano liquidato in poche righe la questione di diritto
intertemporale523.
Non solo, ma la Corte ha richiamato la sentenza Magera affermando di
condividerne i principi che però nel caso concreto non ha applicato.
Ci si attendeva, infatti, che dalla decisione in commento potessero
derivare delle ulteriori linee-‐‑guida a completamento del panorama
giurisprudenziale su di una complessa e delicata problematica, come quella
della successione c.d. “mediata”524.
Inoltre, non si comprende se il Supremo Collegio abbia volutamente
evitato di addentrarsi in questo tema oppure abbia effettivamente ritenuto più
corretto dare spazio ad una diversa questione525, la quale da una lettura della
sentenza sembra essere stata considerata in una posizione di priorità logico-‐‑
giuridica rispetto al contrasto denunciato dalla V Sezione.
Gli Ermellini, a modesto parere, avrebbero dovuto affrontare il tema
della successione di norme integratrici: e quindi, o conformemente alla
523 Cfr. §§ 6.8 e 6.9 Cass. pen., sez. un., 15 maggio 2008, n. 19601, cit. 524 OLDI, Sfumata l'ʹoccasione di elaborare linee guida, cit., p. 95. 525 Ossia la vincolatività dell’accertamento della qualità di imprenditore compiuta dal giudice fallimentare agli effetti della legge penale.
157
giurisprudenza precedente risolvere la questione applicando il criterio
strutturale al caso concreto526 oppure fornire una nuova linea interpretativa.
La modifica della definizione legale di “piccolo imprenditore”, operata
dal D.Lvo n. 5/2006, e successivamente di “imprenditore” di cui all’art. 1 L.fall.,
ha comportato indubbiamente una successione di vere e proprie norme
integratrici della legge penale, con la conseguente applicabilità dell’art. 2
comma 2 c.p.
Infatti, se le Sezioni Unite avessero ritenuto che l’art. 1 L.fall. conteneva
una norma definitoria del concetto di “imprenditore fallito” soggetto attivo
della bancarotta, come giustamente ritenuto da parte della dottrina527, non
avrebbero potuto esimersi dall’affermare, proprio per coerenza con la
pronuncia Magera, che la modifica di quella definizione (ossia dei presupposti
per l’assoggettabilità dell’imprenditore al fallimento) incide sulla fattispecie
legale, ed è almeno in via di principio in grado di comportare un’abolitio criminis
parziale considerato l’ampliamento del novero degli imprenditori esonerati dal
fallimento.
Si precisa a quest’ultimo proposito che il fenomeno successorio delle
modifiche mediate richiede che il criterio ermeneutico non possa tralasciare un
momento valutativo, poiché esse non attengono alla struttura della fattispecie
ma intervengono su norme integratrici del precetto penale, le quali incidono,
potenzialmente, sul venir meno del disvalore della concreta condotta sub
iudice528: con la conseguenza che l’interprete è logicamente tenuto ad esaminare
se il novum legislativo abbia privato di disvalore penale tale condotta529.
526 Cfr. Cass. pen., sez. un., 27 settembre 2007, Magera, cit.; in tema di modifiche immediate Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2003, Giordano, cit. 527 GATTA, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici” nella recente giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in Cass. pen., 2011, 1, p. 437. 528 AMBROSETTI, I riflessi penalistici, cit., p. 3606. 529 Per tale ragione, si ritiene che in ordine al fenomeno successorio attraverso modifiche mediate, il tasso di “problematicità” sia intrinsecamente più elevato rispetto alle ipotesi di modifiche immediate. Ciò in quanto, mentre per queste ultime il giudizio dell’interprete deve
158
Ritenere che nel caso in esame non si sia verificata un’ipotesi di parziale
abrogazione delle fattispecie di cui agli artt. 216 e 217 L.fall. comporta
necessariamente una soluzione di disparità, anche sotto questo profilo.
3.1 Bancarotta individuale ed il soggetto attivo del reato
È opportuna ancora una precisazione sul punto.
Correttamente il Supremo Collegio ha evidenziato in premessa che «per
stabilire se nella vicenda in esame si verta in tema di abolitio criminis, rilevante
ex art. 2 c.p., comma 2, occorre verificare se la norma extrapenale incida su un
elemento della fattispecie astratta, non essendo di per sé rilevante una mutata
situazione di fatto che da quella norma derivi»530.
Ciò nonostante ha concluso che la qualità di imprenditore non costituisca
un elemento strutturale della fattispecie penale.
Tuttavia, sembra più corretto affermare che invece la modifica dell’art. 1
L.fall. abbia inciso su di un elemento strutturale della fattispecie astratta di
bancarotta individuale, in particolare sul soggetto attivo.
Infatti, si è già visto cha la bancarotta è un reato proprio, cioè un reato
che non può essere commesso da chiunque ma soltanto, per quanto a noi
interessa, dall’imprenditore individuale.
Nello specifico, la dottrina identifica i reati propri come quelle ipotesi
contraddistinte dall’efficacia costitutiva della posizione soggettiva, nel senso
che la condotta eventualmente posta in essere da un estraneo sarebbe lecita o
fare riferimento soltanto ad un’analisi strutturale della vecchia e nuova fattispecie, nell'ʹipotesi di modifiche mediate non si può prescindere da un approccio di tipo strettamente valutativo. Così ID., I riflessi penalistici, loc. cit. 530 Cfr. § 6.2 Cass. pen., sez. un., 15 maggio 2008, Niccoli, cit.
159
irrilevante ovvero in assenza della posizione si configurerebbe un diverso titolo
di reato531.
Più precisamente, il soggetto agente non è l’imprenditore dichiarato
fallito, ma l’imprenditore “fallibile”, pertanto la modifica dell’art. 1 L.fall. ,
sottraendo alla classe degli imprenditori fallibili una sottocategoria di piccoli
imprenditori ha comportato una modifica significativa della disposizione
definitoria integratrice del precetto di cui agli artt. 216 e 217 L.fall. e, per tale
ragione, una modifica abolitiva delle corrispondenti figure criminose.
Ancora attuale è quell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale
per legge incriminatrice si intende il complesso di tutti gli elementi rilevanti ai
fini della descrizione del fatto: tra i quali, nei reati propri, è indubbiamente
ricompresa la qualità di soggetto attivo532.
Pertanto, se la novatio legis riguarda la qualità del soggetto attivo, nel
senso che, come nel caso di specie, fa venir meno la qualifica di imprenditore
“fallibile”, necessaria per integrare le fattispecie di cui agli artt. 216 e 217 L.fall.,
non può non applicarsi a favore di tali soggetti il principio di irretroattività
della legge più favorevole affermato nell’art. 2 c.p.
Allo stesso esito si può giungere ragionando in termini di incidenza sul
disvalore penale del fatto anteriormente commesso.
Proprio il venir meno della qualifica soggettiva, quando questa è tale da
incentrare su di sé il disvalore penale del fatto, travolge lo stesso disvalore del
fatto anteriormente commesso e conduce a ritenere abolita la corrispondente
figura criminosa.
Appare piuttosto evidente, in conclusione, che la verifica della
sussistenza dei requisiti di piccolo imprenditore, non sottoponibile al
531 BETTIOL, Sul reato proprio, cit., p. 415; MAIANI, In tema di reato proprio, Milano, 1966, p. 13. Circa la questione dell’individuazione del ruolo della qualifica soggettiva all’interno del reato proprio si veda per tutti GULLO, Il reato proprio, cit., p. 85. 532 Cfr. Cass. pen., sez. un., 23 maggio 1987, Tuzet, cit.
160
fallimento, doveva compiersi con la legge del momento e non con le precedenti,
in quanto ai sensi dell’art. 2 c.p. le norme non penali si integrano in maniera
indissolubile con la fattispecie penale: difatti, la “fallibilità” è un presupposto
normativo e non di fatto del reato533.
4. GLI STRUMENTI DI DIFESA PER IL “PICCOLO IMPRENDITORE”
Arrivati quasi al termine della nostra trattazione, ci si chiede come possa
difendersi l’imprenditore che concretamente non possieda i requisiti soggettivi
di cui all’art. 1 L.fall.
Poiché al di là delle modifiche apportate alla disposizione fallimentare e
al di là ancora del tema della successione “mediata”, ciò che non si può
trascurare, e che forse rileva maggiormente, è che l’interpretazione
giurisprudenziale che si è cercato di criticare sembra avallare la sussistenza di
una pregiudiziale fallimentare nel processo penale in ordine alla qualifica di
imprenditore “fallibile” quale soggetto attivo del reato di bancarotta
individuale.
Tale conclusione, tuttavia, contrasta con i principi del codice di
procedura penale del 1988, il quale ha eliminato il principio dell’unitarietà della
funzione giurisdizionale per introdurre i diversi principi di autonomia, parità
ed originarietà degli ordini giurisdizionali534.
In ossequio al principio di separazione, quindi, la regola che presiede al
processo penale è quella della cognizione incidentale di ogni questione civile o
amministrativa rilevante ai fini della decisione da parte del giudice penale e, in
conformità a questo principio, abbiamo visto come il codice di rito preveda che
533 Alla medesima conclusione era giunto SOCCI, Gli effetti delle riforme del fallimento, cit., p. 3056. 534 Tali corollari sono stati affermati chiaramente in Cass. pen., sez. un., 29 maggio 2008, n. 40049, in Dejure. Nel caso di specie la questione riguardava l’art. 652 c.p.p.
161
anche di altre questioni, pur se pregiudiziali, il giudice penale possa prendere
cognizione incidenter tantum ai sensi dell’art. 2 c.p.p. 535.
Abbiamo anche già precisato come la regola poc’anzi richiamata patisca
delle eccezioni negli artt. 3 e 479 c.p.p.536.
È piuttosto evidente, quindi, come l’interpretazione fornita dalle Sezioni
Unite contrasti con i principi ispiratori del codice di procedura penale del 1988
con la conseguente lesione del diritto di difesa dell’imputato per bancarotta che
si vede pregiudicati i propri diritti da una decisione fallimentare in ordine alla
qualità di imprenditore “fallibile”.
Alla luce delle considerazioni svolte l’unica via praticabile per
l’imprenditore sarebbe quella di proporre opposizione avverso la sentenza
dichiarativa di fallimento e chiedere la sospensione del dibattimento ai sensi
dell’art. 479 c.p.p.
Quest’ultima disposizione infatti comporta, di riflesso, l’assoggettabilità
a revisione, a norma dell’art. 630 lett. b) c.p.p., della sentenza penale definitiva
che abbia condannato per bancarotta sulla base di una dichiarazione di
fallimento successivamente revocata.
È doveroso sottolineare che l’art. 479 c.p.p. si applica soltanto nella fase
dibattimentale: sarebbe invece, opportuno che la sua portata applicativa fosse
estesa anche all’udienza preliminare, soprattutto dopo l’entrata in vigore della
legge 16 dicembre 1999, n. 479 la quale ha fissato nell’inizio della discussione,
nel corso della predetta udienza, il momento preclusivo per l’accesso al
patteggiamento.
Infatti, è ragionevole che l’imputato si asterrà dal richiedere l’accesso non
soltanto al procedimento di applicazione della pena a norma dell’art. 444 c.p.p.,
535 CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, Milano, 2006, p. 539. 536 Cfr. in questo capitolo §§ 2.2 e 2.3.
162
ma anche al giudizio abbreviato nel caso di pendenza di una “seria”
opposizione contro la sentenza dichiarativa di fallimento537.
Inoltre, ai sensi dell’art. 479 c.p.p. il giudice penale può disporre la
sospensione del dibattimento, fino a che la questione non sia stata decisa con
sentenza passata in giudicato soltanto se la legge non pone limitazioni alla
prova della posizione soggettiva controversa.
Conclusivamente, non si può non concordare con chi ritiene auspicabile
una rivisitazione della disciplina dell’efficacia della sentenza dichiarativa di
fallimento nel processo penale538.
In particolare, sarebbe auspicabile l’introduzione della sospensione
necessaria del processo penale in attesa che venga definita, con sentenza
passata in giudicato, l’opposizione anche se ciò contrasterebbe con il principio
della ragionevole durata del processo.
Tuttavia, lasciare le cose come stanno comporta il rischio di una lesione
del diritto di difesa dell’imputato in relazione alla scelta dei riti alternativi
rispetto a quello ordinario.
La stessa giurisprudenza in un’occasione ha affermato che la sospensione
del procedimento penale ai sensi dell’art. 479 c.p.p., può essere disposta, in
applicazione estensiva di detta disposizione normativa, anche in sede di
udienza preliminare, considerata la sostanziale assimilazione della disciplina di
tale fase procedimentale a quella del dibattimento, a seguito della riforma
introdotta dalla l. 16 dicembre 1999 n. 479539.
Nessuno strumento di difesa sembra, viceversa, avere l’imputato che si
sia visto rigettare l’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento.
537 Così BRICCHETTI, PISTORELLI, La bancarotta e gli altri reati fallimentari, cit., p. 272. 538 Ancora BRICCHETTI, PISTORELLI, op. ult. cit., p. 273. 539 Cfr. Cass. pen., sez. V, 15 luglio 2009, n. 43981, in Arch. nuova proc. pen., 2010, 2, p. 196.
163
Circostanza questa che necessariamente lede il diritto di difesa, il quale
essendo un «diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento»540
richiede necessariamente un intervento del legislatore.
540 Cfr. art. 24 Cost.
164
CONCLUSIONI
Giunti al termine della nostra indagine è arrivato il momento di svolgere
alcune considerazioni conclusive.
La scelta di trattare un tema che sembra risolto alla luce
dell’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite, nella più volte citata sentenza
Niccoli, nasce dall’insoddisfazione che suscita una pronuncia in tal senso e dalle
ripercussioni pratiche che ne deriva.
Si è visto come l’art. 1 L.fall. abbia subito delle modifiche rilevanti con le
riforme del 2005-‐‑2007, le quali hanno ridefinito la cerchia dei soggetti fallibili e,
quindi, dei soggetti attivi del reato proprio di bancarotta individuale.
Nella realtà questo mutamento ha reso più complesso il riparto di ruoli e
competenze tra la giurisdizione penale e quella fallimentare: poiché la qualifica
soggettiva di fallito rappresenta un requisito strutturale delle fattispecie penali
punite dagli artt. 216 e 217 L.fall.
Inoltre, le modifiche apportate alla disposizione fallimentare hanno posto
un problema di successione di norme integratrici (c.d. modifica mediata) con
riguardo ai procedimenti di bancarotta che erano in corso prima dell’entrata in
vigore del D.Lvo n. 5/2006 e poi del decreto correttivo n. 169/2007.
In particolare, si era formato un contrasto giurisprudenziale durante la
vigenza del primo decreto legislativo: da un lato, in una pronuncia la Corte di
cassazione aveva affermato che la nuova disciplina dettata a proposito della
nozione di piccolo imprenditore non aveva comportato un’abolitio criminis con
la conseguenza che nei giudizi avviati prima del 16 luglio 2006 il referente
normativo era ancora la vecchia legge fallimentare541; dall’altro, la medesima
541 Cass. pen., sez. V, 17 maggio 2007, n. 19297, cit.
165
sezione del Collegio542, aveva assunto una posizione contraria ritenendo che la
normativa intervenuta in pendenza del processo penale per bancarotta doveva
considerarsi più favorevole rispetto a quella previgente e, quindi, applicabile.
Su tale contrasto sono intervenute le Sezioni Unite, le quali hanno escluso
l’operatività dell’art. 2 c.p. con riferimento alle modifiche apportate alla
disciplina prevista dall’art. 1 L.fall., sulla scorta di argomentazioni
assolutamente non condivisibili.
Nello specifico gli Ermellini hanno chiarito che in caso di mutamento per
ius superveniens della definizione legale dei presupposti di fallibilità, le norme
sopravvenute non hanno inciso sulla struttura del reato né tali modifiche
avrebbero potuto incidere sull’applicabilità della normativa più favorevole ai
procedimenti penali in corso ai sensi dell’art. 2 c.p.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte è giunta alla conclusione che il
giudice penale investito del giudizio relativo ai reati di bancarotta non può
sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento non soltanto riguardo al
presupposto oggettivo dello stato di insolvenza dell’impresa, ma anche quanto
ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste dall’art. 1 L.fall.
L’interpretazione fornita dalla Suprema Corte è criticabile con riguardo a
due aspetti.
In primo luogo, le Sezioni Unite hanno affermato l’insindacabilità in sede
penale della sentenza dichiarativa di fallimento con inevitabili interferenze tra il
giudizio fallimentare ed il giudizio penale.
Tale conclusione chiaramente contrasta con i principi ispiratori del
codice di procedura penale del 1988, ossia di autonomia, parità ed originarietà
degli ordini giurisdizionali: infatti, la regola che presiede il processo penale è
quella della cognizione incidentale di ogni questione civile o amministrativa
rilevante ai fini della decisione del giudice penale.
542 Cass. pen., sez. V, 21 novembre 2007, Rizzo, cit.
166
Nell’attuale codice di rito il principio dell’autonoma cognizione del
giudice penale circa le questioni che si pongono in antecedenza logica rispetto
alla decisione finale è sancito espressamente nell’art. 2 c.p.p.
Le sole questioni pregiudiziali rilevanti sono quelle relative ad una
controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza, le quali possono se serie e
già in corso autorizzare il giudice penale a sospendere il processo fino al
passaggio in giudicato della sentenza che definisce la questione543.
Il giudice penale, alla luce della disciplina processual-‐‑penalistica, ha
un’unica possibilità nel caso in cui la decisione sull’esistenza del reato dipenda
dalla risoluzione di una controversia civile o amministrativa di particolare
complessità, per la quale sia già in corso un procedimento presso il giudice
competente, sospendere il dibattimento fino alla decisione definitiva.
Non si comprende, pertanto, la ragione per la quale sembra essersi creata
una sorta di pregiudiziale fallimentare.
Inoltre, pare anche a noi come affermato in dottrina544, che attribuire
valore vincolante e pregiudiziale alla sentenza dichiarativa di fallimento, che
può anche passare in giudicato senza che il fallito possa valutare
adeguatamente le conseguenze, comporti una violazione del diritto di difesa.
Diritto che richiede necessariamente che il giudizio per bancarotta sia
svincolato dalla procedura fallimentare, permettendo al fallito di difendersi
mediante l’assistenza tecnica di un difensore in sede penale sul punto già
accertato in sede fallimentare.
Si è visto anche che sussiste, altresì, una violazione del principio di
uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., poichè seguendo l’impostazione delle Sezioni
Unite si giunge ad un’illogica differenziazione tra il soggetto attivo della
bancarotta individuale e quello della bancarotta societaria: invero, questi ultimi
possono chiedere di essere assolti per mancanza della loro qualità soggettiva. 543 Così l’art. 3 c.p.p. 544 GIULIANO BALESTRINO, La bancarotta, cit., p. 108.
167
Il differente trattamento tra i responsabili del reato di bancarotta risulta
evidente: mentre, conformemente alla sentenza Niccoli l’imprenditore
individuale non può chiedere che il giudice penale accerti la sua qualità di
imprenditore, tutti gli altri bancarottieri possono invece far valere l’assenza
della loro qualità soggettiva e di conseguenza essere assolti.
Non si può non evidenziare come tale illogica disparità strida ancor di
più considerata la maggior incidenza sul mercato e il maggiore disvalore sociale
della bancarotta societaria.
In secondo luogo, gli Ermellini hanno escluso che il nuovo contenuto
dell’art. 1 L.fall. abbia inciso su di un elemento strutturale dei reati di
bancarotta individuale, con la conseguenza che la disposizione anzidetta non
poteva dirsi norma extrapenale che interferiva sulle fattispecie penali.
Neppure questo argomento può essere condiviso, in primis, perché
contrasta con l’orientamento delle stesse Sezioni Unite sia in tema di
successione di norme integratrici545 sia a proposito della definizione di legge
incriminatrice546.
E poi perché vi sarebbe una palese violazione del principio costituzionale
di uguaglianza nei confronti di chi avrebbe rivestito la qualifica di piccolo
imprenditore ai sensi dell’art. 1 L.fall.
La modifica della definizione legale di “piccolo imprenditore” e,
successivamente, di “imprenditore” contenuta nell’art. 1 L.fall. ha comportato
una vera e propria successione di norme integratrici della legge penale, con la
conseguente applicabilità dell’art. 2 comma 2 c.p.
Il soggetto attivo delle fattispecie di cui agli artt. 216 e 217 L.fall. non è
l’imprenditore dichiarato fallito, ma l’imprenditore “fallibile”, pertanto, la
modifica dell’art. 1 L.fall. ha sottratto alla classe degli imprenditori fallibili una
sottocategoria di imprenditori. 545 Il riferimento è alla pronuncia Cass. pen., sez. un., 27 settembre 2007, Magera, cit. 546 Cass. pen., sez. un., 23 maggio 1987, Tuzet., cit.
168
Da ciò ne è derivata una variazione significativa della disposizione
definitoria integratrice del precetto delle disposizioni penali citate: quindi, una
modifica abolitiva delle corrispondenti figure criminose.
L’accertamento della sussistenza dei requisiti di imprenditore non
sottoponibile a fallimento, deve compiersi con la legge del momento e non con
le precedenti, poiché ai sensi dell’art. 2 c.p. le norme non penali si integrano in
maniera indissolubile con la fattispecie penale e, in questo caso, la “fallibilità” è
un presupposto normativo e non di fatto del reato.
L’unica ragione per la quale si può provare a giustificare un simile
atteggiamento giurisprudenziale nell’affrontare problematiche di diritto
intertemporale derivanti da discusse riforme, si rinviene nel rischio segnalato
anche in dottrina547 che i più o meno recenti provvedimenti di riforma in
materia penale si rivelino una vera e propria “amnistia occulta”.
Nello specifico, la Suprema Corte spesso sembra dar maggior peso alle
ragioni di “politica giudiziaria” dirette a limitare gli effetti di queste amnistie
occulte, piuttosto che ai canoni ermeneutici che la scienza penalistica cerca di
elaborare in una materia così controversa.
È evidente come, tuttavia, sia inaccettabile assumere posizioni in
contrasto con il diritto di difesa che, è bene ribadire, è inviolabile in ogni stato e
grado del procedimento.
Difatti, come già evidenziato, l’imputato per bancarotta si vedrà
pregiudicati i propri diritti da una decisione fallimentare in ordine alla qualità
di imprenditore “fallibile” non avendo, in concreto, degli strumenti di difesa
veramente efficaci.
L’unica strada che sembra percorribile è l’opposizione avverso la
sentenza dichiarativa di fallimento e la successiva richiesta di sospensione del
dibattimento ai sensi dell’art. 479 c.p.p. 547 DONINI, Discontinuità del tipo di illecito, cit. p. 2857; GAMBARDELLA, Nuovi cittadini dell’Unione europea, cit., p. 922.
169
Con la precisazione che quest’ultima disposizione applicandosi soltanto
nella fase dibattimentale, comporta come conseguenza che l’imputato si asterrà
dal richiedere l’accesso sia al procedimento di applicazione della pena ex art.
444 c.p.p. sia al giudizio abbreviato nel caso in cui sia pendente una “seria”
opposizione contro la sentenza dichiarativa di fallimento.
Ne deriva anche in questo caso il rischio di una lesione del diritto di
difesa dell’imputato in relazione alla scelta dei riti alternativi rispetto a quello
ordinario.
Pertanto, sotto questo profilo, sarebbe auspicabile l’introduzione della
sospensione necessaria del processo penale in attesa che venga definita, con
sentenza passata in giudicato, l’opposizione anche se ciò contrasterebbe con il
principio di ragionevole durata del processo.
In una situazione ancora meno favorevole si trova poi l’imputato che si
sia visto rigettare l’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento poiché
egli non ha a disposizione alcun strumento di difesa nel giudizio penale.
Conclusivamente, in una situazione in cui si riscontra una lesione del
diritto di difesa deve intervenire il legislatore in ordine alla disciplina
dell’efficacia della sentenza dichiarativa di fallimento nel processo penale e ciò
anche alla luce di una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione548,
depositata nelle more della stesura delle seguenti osservazioni, la quale
conferma ancora una volta la posizione qui ampiamente criticata, peraltro senza
neppure motivare sul punto.
È incomprensibile la ragione per la quale la giurisprudenza,
normalmente attenta ai diritti dell’imputato, qui al contrario non sembra
nemmeno accorgersi che l’interpretazione avallata leda un diritto garantito al
più alto livello della gerarchia delle fonti.
548 Cfr. Cass. pen., sez. V, 18 gennaio-‐‑11 marzo 2013, n. 11256, in D&G.
170
A modesto parere di chi scrive, pare proprio che questa sia stata
l’ennesima occasione persa per il legislatore (per non essere intervenuto anche
sulla disciplina dei reati fallimentari) di offrire un corpo normativo idoneo a
realizzare quella effettiva ed agognata autonomia cognitiva del giudice penale
rispetto ai poteri di accertamento riservati al giudice civile/fallimentare,
imposta dall’inesistenza nel vigente codice di procedura penale di un
correlativo e formale vincolo di pregiudizialità.
171
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