Teramani 95
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mensile di informazione in distribuzione gratuita
Gennaio 2014
IL PD A RISCHIOSCOMPARSApag. 9
DO NOTDISTURBpag. 13
LEZIONIDI PIANTOpag. 29
n. 95
ROSSI E NERICONTRO
SOMM
ARIO 3 Viva l’Italia
4 Teramo Culturale 6 La notte della Ragione 7 Nero e Rosso ai tempi di Piero Manucci 8 Al di là dei colori 9 Il Pd a rischio scomparsa 10 Cioccolato, Chicchere ed altro 12 Il banco alimentare 13 Do not disturb 14 Il libro del mese 15 Silenzio si sporca 15 Note linguistiche 16 Iacopo Pasqui 17 Coldireti informa 18 Musica 19 Musica 20 La disgrafia 21 Dura Lex sed Lex 21 Il Csi compie 70 anni 22 Calendari ed Agende in omaggio 23 Arco Consumatori informa 23 L’Oggetto del desiderio 24 In Giro 26 Cinema 28 Calcio 29 Lezioni di pianto 29 Marina Abramovic 30 Pallamano
Direttore Responsabile: Biagio TrimarelliRedattore Capo: Maurizio Di Biagio
Hanno collaborato: Mimmo Attanasii, Maurizio Carbone, Maria Gabriella Del Papa, Maurizio Di Biagio,Maria Gabriella Di Flaviano, Massimo Di Giacomantonio, Floriana Ferrari, Piergiorgio Greco, Maria Cristina Marroni, Fabrizio Medori, Silvio Paolini Merlo, Antonio Parnanzone, Leonardo Persia, Sirio Maria Pomante, Sergio Scacchia, Alfio Scandurra, Yuri Tomassini, Massimiliano Volpone.
Gli articoli firmati sono da intendersi come libera espressionedi chi scrive e non impegnano in alcun modo né la Redazionené l’Editore. Non è consentita la riproduzione, anche soloparziale, sia degli articoli che delle foto.
Progetto grafico ed impaginazione: Antonio Campanella
Periodico Edito da “Teramani”, di Marisa Di MarcoVia Paladini, 41 - 64100 - Teramo - Tel 0861.250930per l’Associazione Culturale Project S. Gabriele
Organo Ufficiale di informazionedell’Associazione Culturale Project S. GabrieleVia Paladini, 41 - 64100 - Teramo - Tel 0861.250930
Registro stampa Tribunale di Teramo n. 1/04 del 8.1.2004Stampa: Gruppo Stampa Adriatico
Per la pubblicità: Tel. 0861 250930347.4338004 - 333.8298738
Teramani è distribuito in proprio
www.teramani.infoè possibile scaricare il pdf di questo e degli altri numeri dal sito web
n. 95
Bay bay Christian, oppure Bey bey,
oppure ancora bye bye, saluta come
cavolo ti pare, tanto Google traduttore
si è già suicidato in diretta dopo l’ultima
lettera della Manola Di Pasquale.
In tutta franchezza, che t’inchizze a fa’.
Sobbalzi tutto indignato dal tuo trespolo
per un frame di politica andato in onda in
una puntata di Tempo reale a Teleponte,
sketch che ritieni di “avanspettacolo”; ti
adiri per aver vissuto quello che tu ritieni
“un momento di alta televisione”, cioè
l’incontro-inciucio in diretta tra il candidato
sindaco Manola Di Pasquale e la gattiana
Eva Guardiani, con Paolo Gatti da spettatore,
nominata sul campo dall’avvocato teramano
vice-sindaco. Critichi con forza la sorellanza
tra le due amiche per la pelle, ti irriti perché
sono “pappa e ciccia”, l’una dell’ex Pdl,
l’altra del Pd, ti affanni a precisare che non
potranno darsele di santa ragione, e quindi
non potrebbero denunciare le eventuali
inadempienze in campagna elettorale.
Christià, fa lu ‘bbone. Anche quando affermi
ieraticamente che “qui c’è bisogno di
ricostruire quello che loro hanno sfasciato”
c’è dell’altro. Calma mio caro. A parte che la
“mia pardeners”, cioè la Guardiani, bisogna
vedere se accetta, ti posso elencare una
serie di motivi perché non valga la pena
di incazzarsi così tanto. Primis ed ultimis
(che c’è da ridere!? se si reinventa di sana
pianta l’inglese, io modestamente mi
permetto di farlo con la lingua dei miei avi,
che c’ho pure una certa confidenza), dicevo
primis ed ultimis, l’esempio perché tu non
debba rischiare l’aritmia cardiaca ci viene
da vicino, da un talamo della Campania.
Se la Nunzia De Girolamo, alfaniana di
ferro, quindi di centrodestra, dorme con
suo marito Francesco Boccia, del Pd,
scambiandosi tra l’altro oltre alle effusioni
da camera le pratiche dell’altra camera
(dei deputati), dimmi tu o mio caro che c’è
di male nel patto teramano di sorellanza,
quale imbarazzo può procurarti se abbiamo
esempi così illuminanti, così disarmanti? E
poi, in tutta franchezza, come dice un nostro
caro corregionale, senti a me, fatti li cazza
tua, vedi che è meglio!!!
Ma qualcun altro direbbe “Viva l’Italia!!!” n
3L’Editoriale
Vival’Italia
dallaRedazione
Teramo culturale4diSilvioPaolini Merlo [email protected]
n.95
NiccolaPalmaSapere storico e storia come liturgia
Scorrendo le pagine della monumen-
tale Storia della Città e Diocesi di
Teramo, già Storia ecclesiastica e ci-
vile della Regione più Settentrionale
del Regno di Napoli, ossia l’opus magnum
di colui che a tutt’oggi viene considerato
il maggiore storico teramano, peraltro
sulle orme di quel Muzio Muzii che, già nel
Cinquecento, caldeggiava l’introduzione
di un ordine di frati predicatori in città, la
prima cosa a tornarmi in mente - non so,
forse per un congenito istinto al con-
trappasso - sono le pagine di Max Weber
sulla presunta “oggettività” delle scienze
storico-sociali, nelle quali si argomenta
in modo parco e, ahinoi, chirurgicamente
ineludibile, che ogni storia non è che il
prodotto storico di una certa società e dei
valori che essa promuove. E penso al ben
diverso Comune di Teramo edito a Roma
nel 1895 da Francesco Savini, che infatti
ha inizio con l’«Idea dell’opera» e una
«Storia della medesima», a indicare come
le idee di “valore”, di cui la conoscenza
storica si serve nel delineare i propri
“oggetti storici”, subiscono mutamenti
a seconda dei parametri culturali che gli
uomini pongono come guida, caso per caso, di epoca in epoca.
Annunciandone la ristampa nel 1930, l’editore Giovanni Fabbri si
diceva convinto che l’opera di Niccola Palma «sarà ricercata da tutti
gli abruzzesi, entro e fuori l’Abruzzo, desiderata in ogni casa, voluta
dai giovani, dagli adulti, dalle biblioteche delle scuole, dai Municipi; e
sarà letta da tutti gli uomini colti e del popolo».
Al di là del comprensibile zelo, quanti abbiano letto da cima a fondo
la Storia di Palma, quanti giovani l’abbiano consultata, studiata,
citata, teramani e abruzzesi inclusi, specie in epoca recente e anche
dopo l’integrale pubblicazione in rete, sarebbe interessante accertar-
lo. A giudicarne la cornice famigliare, quella del nostro somiglia alla
vicenda di numerose altre figure vocate agli studi e presto, nel caso
dei Palma per antichissima tradizione tramandatasi di primogenitura
in primogenitura, destinate agli uffici canonici. E fin qui, nulla di stra-
no. Ma a proseguire lo spoglio della sua Storia, oltre alla chiara intima
compenetrazione tra vita e culto, tra costumi e ritualismo religioso,
tra rappresentanze civili e autoritarismo pastorale, tra produzione
culturale e precettismo liturgico, un elemento mi sembra emergere
con particolare evidenza dal Quinto e ultimo tomo, dedicato, dopo
quelli sulle ere precristiane fino al 1833 e un Quarto sulle cronache
degli edifici sacri, alle biografie dei personaggi teramani illustri. La
materia viene dissezionata in tre parti: una prima su «Uomini illustri
erroneamente attribuiti alla Pretuziana Regione», una seconda sugli
«Uomini illustri, che ci appartengono soltanto in un senso, o dei quali
vi è dubbio se ci appartengono o no». E infine gli «Uomini illustri
sicuramente e affatto nostri». Sancita la necessaria distinzione, sulla
base di criteri neppure troppo vagamente etnocentrici e genetico-
dinastici, quantomai ambigui - non so se
incuta più tenerezza che impressione il
passo in cui Palma non sa dire quanta
teramanità possano vantare i De Filippis-
Delfico, frutto dell’unione di un’ultima di-
scendente Delfico con una nobile famiglia
napoletana - vediamo di capire meglio chi
siano i teramani veraci e migliori.
La terza sezione si compone di 11 pa-
ragrafi. Ebbene, i primi 6 indicano santi,
vescovi, monsignori, cappellani e via
dicendo, elencati «per santità di costumi»
- alcuni tra i quali esempio di «prodigiosa
astinenza» - e ancora «per dignità ve-
scovili ed arcivescovili», «per altri distinti
eccelsiastici uffizj», «per gradi superiori
negl’istituti regolari», leggasi monasteri,
conventi e affini. Seguono, le magistra-
ture e i giureconsulti canonici e civili e,
infine e nell’ordine, scienziati, letterati,
artisti, militari. In fondo alla casistica,
quasi un’appendice, alcune rappresen-
tanze delle «donne illustri». Una a caso:
Cinzia Forti, la cui figura «nobilmente ma
modestamente vestita, veggiamo in atto
di pregare a piè del quadro dell’ultimo
altare in cornu evangelii nella Chiesa di
S. Carlo», mostrando nella fisionomia «un
coraggio maschile, che incute soggezione e rispetto».
Eredità nemmeno troppo indirette di queste pagine si avvertono in
quelle sulla Contemplazione della morte di D’Annunzio, o in quelle
altre dell’Araldo Abruzzese dove, ancora nel 1962, leggiamo: «La cul-
tura è conoscenza della verità e la verità è una sola, quella rivelata
da Dio mediante Cristo e affidata alla Chiesa.
Ogni altra cultura è fallace, è un simulacro della verità». Siamo
sempre lì, in un caso come nell’altro: non conta il sapere, il capire, il
progredire, il valore e le capacità individuali, e, men che meno, la li-
bertà delle coscienze. Quel che conta, sempre comunque e anzitutto,
è l’appartenere. n
Se vi divertite a digitare il termine “rossi e neri” su mamma
Google, il dizionario universale della I era tecnologica, molti dei
risultati che vi appariranno riguardano Teramo. Proprio negli ul-
timi anni – non a caso gli algoritmi di Larry Page e Sergey Brin
hanno memoria corta - diciamo dal 2005 in poi, gli scontri tra le due
fazioni si sono moltiplicati e in pochi
mesi salite pericolosamente di tono,
fino al recente rendez-vous di Piazza
Dante dove si è temuto il peggio se
non fosse stato per il tempestivo in-
tervento delle Forze dell’ordine che
hanno congelato posizioni e uomini.
Come non ricordare, sempre nel
2005, la scazzottata della Notte
bianca, ormai un must nella nostra
città, che lasciò a terra un piccolo
scalpo di un ragazzo fortunatamen-
te scarmigliato lungo Via Paladini,
l’evento che ha dato la stura a tutta
una serie piccata di cinghiate, botte,
pugni, bottigliate, accoltellamenti,
ammacchi vari, fino al countdown finale per il 2014 con tanto di
terribile botta alle palle ad un povero ragazzo sotto al Liceo Delfico.
Un percorso che si è distinto tra club, discoteche e curve di stadi, ma
anche sui muri dei palazzi del centro e perfino in Piazza Dante irreg-
gimentati in fila per tre, teste rasate, jeans attillati e Dottor Martens
ai piedi. Dall’altra parte invece, ragazzotti con il grunge nato a Seattle
ma impiantato tra il Tordino e il Vezzola con proprie varianti. Proprio
come un tempo dove Ray-Ban, Lacoste e jeans ancora allora attillati
si fronteggiavano contro polacchine, pantaloni di infima qualità, tipo
Carrera o altro, camicia con colletti alla coreana e sacco di tela.
Negli anni Settanta a Teramo i rossi e neri non erano mai arrivati a
tanto, come invece hanno fatto i loro scalmanati nipotini. Eppure la
lunga scia del ’68, della rivolta nata nelle università Iu-es-ei, delle
prime manifestazioni di piazza in Italia, delle prime bombe, di stato o
non, smosse la nostra pigra cittadina a quei tempi. Chi se lo ricorda
ad esempio che a Teramo abbiamo avuto la Notte dei fuochi, che
fortunatamente non ha nulla a che fare con la più nota e drammatica
notte dei cristalli e nemmeno con i fuochi dei rifiuti campani? Fu
chiamata così a posteriori quando si ricordò quel giorno a cavallo tra
gli anni ’70 e ’80, in cui diversi incendi furono appiccati a postazioni
sensibili della destra di quel tempo. Con delle taniche di benzina al
seguito, i rossi cercarono di mettere fuoco ai portoni della sede della
Cisnal in Via Duca D’Aosta, dell’associazione paracadutisti di Porta
Romana e della sede dell’Msi a Giulianova. Fu una sorta di opera-
zione mordi e fuggi condotta prevalentemente da cosiddetti cani
sciolti molto critici verso i partiti tradizionali. Anche la redazione de Il
Tempo fu “visitata” da questa ratio incendiaria. Il fuoco voleva essere
purificatore ma annerì solo legno e campanelli.
Nel 1976, in occasione dell’arrivo a Teramo del presidente dell’As-
semblea costituente, l’antifascista Umberto Elia Terracini, si verifica-
rono qua e là della baruffe in pieno centro. Nel comizio di chiusura
di quella campagna elettorale, i toni sul piccolo palco s’innalzarono
pericolosamente e un po’ dappertutto in piazza la tensione sfociò in
qualche manata in faccia. Il questore Michele Capomacchia, che in
futuro avrà un ruolo preminente nei fatti della Uno bianca, cercò di
rabbonire gli animi: si ritrovò con una scritta ingiuriosa dipinta con
vernice nera dalle parti dello stradone.
Il 25 Aprile del 1970 l’autovettura di un consigliere comunale del-
l’Msi, Elso Simone Serpentini fu bruciata dalle parti del Tribunale di
Porta Romana. Si verificarono anche
alcuni lanci di pietre verso la stessa
sede dell’Msi: “Ora però la situazio-
ne è molto più grave – rende noto
il giallista teramano e consigliere
per due legislature a Piazza Orsini
– e il perché è molto semplice: non
c’è più l’ideologia e i ragazzi sono
impreparati sotto questo punto di
vista”. Eh sì le ideologie. Tutto ora è
scemato in una brodaglia fatta da
social network, iperboli non control-
late, demagoghi con armi da terzo
millennio e futuro fottuto. Prima l’or-
todossia ferma, rigida, assoluta non
ammetteva ardimentose variazioni
sul tema, chi ci provava non aveva tante chance di poter proseguire
la sua esperienza. In provincia di Teramo la Val Vibrata era diventata
un territorio propizio nell’ospitare uomini di destra, probabilmente
per la vicinanza di Ascoli: si partiva dal semplice aspetto logistico
fino a qualcosa di più negli anni successivi. Ad Alba Adriatica avrebbe
trovato rifugio, anche se per pochi notti, Pierluigi Concutelli, uno dei
capi di Ordine Nuovo.
Quelli erano pure i tempi in cui Lotta Continua organizzava uscite a
bordo di pullman antidiluviani: nel 1973 tutti a Bologna a manifestare
contro la destituzione da parte degli Usa di Salvador Allende. Quelli
erano i giorni del fattore K., del Komunizm, per Alberto Ronchey l’ele-
mento diabolico che impediva, data l’anomalia di una forte presenza
comunista in Italia, una compiuta alternanza delle forze di governo.
In provincia però rossi neri non sono più quelli di una volta. La notte
dei fuochi di un tempo si è trasformata in una spaventosa e allar-
mante notte della ragione. n
Accade a Teramo6n.95
La nottedella ragione
diMaurizioDi Biagio www.mauriziodibiagio.blogspot.com
I rossi e neri degli anni ’70a confronto con quelli di oggi
7Accade a Teramo
Manucci, ci rinfreschi un po’ la mente, ma com’erano questi anni ’70, per cominciare qual è stata la sua esperienza di attivista politico negli anni Settanta?“Mi avvicinai al Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile
del Msi, all’età di 17 anni, e non per motivi ideologici ma direi ambien-
tali: nella scuola che frequentavo, come d’altronde dappertutto, i vari
gruppi comunisti cercavano di imporre con violenza e prevaricazione
la loro egemonia; a resistergli c’erano solo i fascisti e naturalmente
mi sentii attratto da costoro. Il mondo che presto sentii come mio era
molto variegato, c’era di tutto, ragazzi di estrazione borghese ed altri
seppur confusamente nazional-popolari, persone che invocavano l’ordi-
ne ed altri che già allora vedevano il vero nemico non nel marxismo ma
nel liberalismo; tutti però stavamo insieme ed eravamo tra noi solidali
perché noi tutti venivamo attaccati, a volte con ferocia, dai comunisti.
Passai gli anni della mia giovinezza diffondendo e servendo un’Idea che
avevo avuto la buona sorte di conoscere, comprendere ed amare”.
Che differenze ci sono tra gli scontri di oggi e quelli dei tuoi anni tra i rossi e neri a Teramo?
“Premetto di non conoscere l’odierna realtà, perché credo che i vecchi
non debbano inquinare con la loro stanca saggezza l’entusiasmo dei
giovani, ma per quello che so, sono cambiati solo i luoghi: alla mia epoca
venivamo aggrediti nelle scuole, davanti alle fabbriche, durante i nostri
comizi, ora i giovani camerati vengono aggrediti per strada o davanti ai
pub... oggi come allora, quando aggrediti ci difendiamo”.
Come sono cambiati negli anni rituali e feticci?
“Credo che alla mia epoca i rituali fossero più cupi. Ci sentivamo reduci
di una guerra persa alla quale non avevamo avuto modo di partecipare
e il nostro orgoglio era il non firmare la resa. Oggi i giovani sono più
partecipi, più propositivi, vogliono sentirsi protagonisti del cambiamento
della realtà ed essere artefici del loro tempo, ed è giusto così.
Come ha vissuto il suo impegno politico?“Il mio impegno politico fino ai 23 anni l’ho vissuto in modo viscerale,
non è stata la cosa più importante ma l’unica cosa importante. Poi il
nostro piccolo mondo è crollato, ci siamo accorti di quanta spazzatura
e di quanti avvoltoi ci fossero all’interno del nostro castello assediato
anche se le vite di molti di noi erano già state fortemente condizionate
da quello che avevamo vissuto”.
C’è stato qualche personaggio di quel tempo che le è rimasto impresso nella sua mente? “Mimì Foschini e Nicola Pepe hanno davvero segnato quegli anni; genti-
luomo di altri tempi il Maggiore
Foschini, più semplice e popo-
lano Nicola, entrambi erano le
presenze fisse all’interno della
federazione: esempi veri, gior-
nalmente ci insegnavano con la
semplicità dell’esempio i valori
della dignità e della fierezza”.
Che idea aveva dei rossi di allora?“I Rossi all’epoca li dividevo
così: alcuni militanti erano
evidentemente in buona fede,
sinceramente credevano che il marxismo fosse l’alternativa al liberali-
smo, e ci vedevano come l’incarnazione del male, e rispettavo costoro,
pur nelle dure contrapposizioni: c’erano poi gli atteggioni, i fighetti, i
borghesi nell’animo, coloro che giocavano a fare i rivoluzionari ma erano
solo dei conformisti che seguivano la moda di allora, e li disprezzavo”.
Ha qualche rimpianto e qual è la cosa che non rifarebbe?
“L’unica cosa che non rifarei è quella di aver creduto ed obbedito per
molto tempo a Rauti, il quale ha avuto sì il merito di rendere chiara la
dottrina della Idea, ma che si è rivelato essere, nella pratica politica, un
mistificatore ed un vile, un ciarlatano insomma. Mi dispiace molto aver
dovuto troncare ogni rapporto con Nino Sospiri, che fu, per me ado-
lescente, una guida preziosa e col quale si era stabilito un rapporto di
vera e profonda amicizia ma agli inizi degli anni ‘80 lui fece delle scelte
politiche contraddittorie, comunque l’ho sempre ritenuto un gigante
rispetto a tutti i suoi adulatori e a quasi tutti i suoi detrattori”.
La sua fiamma ideologica si è stemperata?
“Dopo essere stato espulso dal Msi nell’’82, ho partecipato a vari
tentativi di creare un movimento autenticamente antagonista senza
alcun esito. Da molto tempo ho preso atto che il fallimento della mia
generazione è totale e l’unica cosa che possiamo fare è stare lontani dai
giovani perché noi rischieremmo di contaminarli. n
Negli anni ‘70 si guerreggiava tra comizi, scuole e fabbriche ora nei pub
n.95
diMaurizioDi Biagio
Nero e Rossoai tempi di Piero Manucci
www.mauriziodibiagio.blogspot.com
Lotta e rispetto. Questo era un po’ il sentire del teramano Piero Manucci durante gli anni ’70, quelli veri tra rossi e neri, dove lui aderente al Msi si sentiva ancora “reduce di una guerra persa”. Allora gli scontri erano ai piedi di un comizio, nelle scuole e nelle fabbriche e non nei pub o a Capodanno. Odiava i fighetti che si atteggiavano a marxisti e il rimpianto è quello di aver obbedito a Rauti. Ora vive in Brasile.Ecco il suo racconto di quegli anni.
8n.95
Meglio di così non si poteva iniziare
per far comprendere o ammirare il
nostro Umano disaggio Culturale.
Balli televisivi, botti, botte, bottiglie
Rotte per comprendere la violenza Radicata in
un agire istintivo bestiale.
Aldilà dei colori della Destra e della Sinistra,
ideali svaniti nella Realtà dei fatti. Aldilà dei
moventi occulti dell’Alcol e della droga, c’è
l’Ignoranza di chi ignora ciò che fa e poi lo
ritrova nelle cicatrici sulla pelle o meglio inciso
nella mente ogni istante nella coscienza. Che
strana coincidenza celebrare in piazza Martiri
con due personaggi televisivi che a mezza-
notte hanno fatto il primo augurio dell’anno a
Matera e dopo poche ore, dei giovani Uligans
di partiti contemplati a squadre di calcio, fol-
leggiano e se le suonano sotto le telecamere
di via Carducci. Strano poiché se fosse un atto
tribale da clan, i gruppi per responsabilità, si
sarebbero dati appuntamento nelle campagne
o nei boschi, come fanno gli Uligans per rego-
lare i conti. Ma c’è un inconscio protagonismo
Televisivo, che stimola rivolte e violenza:
basta vedere, e ascoltare un telegiornale per
aver vari effetti... inquinanti l’immaginario....
CHE CI VOGLIAMO FARE... più telecamere? o
maggior Ascolto e Educazione? “Se tu avessi
più cervello capiresti quanto te ne manca” cosi
l’amico Giancarlo mi invita a scrivere sull’Ac-
caduto: rimembro che anch’io avevo questa
concezione bipolare. In quegli anni in cui non
ero né carne né pesce, a fine del V ginnasio,
iniziai a giocare con i simboli e le Parole, un po’
in confusione tra un atteggiasento di sinistra
e parole di destra, affascinato dalla retorica di
Tudini, arrivai in primo liceo a dire al professore
di filosofia Curini, dichiarato di sinistra: ”con la
falce e col martello andate a lavorare”, e lui mi
rispose ”ma tu non sai cosa dici, non sai cos’è
il fascismo, comunismo e l’anarchia, studia,
conosci se vuoi parlare“. Cosi intrapresi questa
ricerca e stimai molto la nascita dell’anarchia e
il criterio EUdenistico per cui ogni individuo è li-
bero di ricercare la propria felicità, consideran-
dosi parte dell’ universo quindi ispirandosi alle
sue leggi (Godwin- 1793). Nel 2013 l’l’Eusofia
mette in pratica i diritti universali dell’Essere…
Poiché tutto è in trasformazione nell’unico e ir-
ripetibile fluire, allora “se tu avessi più cervello
capiresti quanto te ne manca“, si trasforma in
”noi abbiamo più cervello, esplorarlo è il bello”.
Per gli scienziati, noi usiamo solo il 10% del
nostro cervello: infatti entrando in ascolto del
mondo intorno a noi, possiamo capire quanto
poco ne usiamo e quanto ce ne sia ancora da
usare; Già soltanto l’ esperienza quotidiana
della Reciprocità, oramai trascurata dall’ef-
fetto “tecnologico” dei monitor, se Ri-vissuta
in maniera responsabile genera valore ed entu-
siasmo, e attraverso il dialogo con l’altro, può
aumentare la capacità di espandere la propria
conoscenza “ogni informazione modifica la
coscienza”. La stima Stimola la presenza nel
viaggio relazionale. Il fiume scorre, l’umanità
fa il suo corso nel tempo e riprende il discorso
del Transito terrestre. Da un disaggio come
quello dei rossi e dei neri riaffrontato in un
confronto costruttivo, si ri-crea un valore
aggiunto per tutti nel dialogare il conflitto po-
tenzialmente si risolve, può nascere un saggio
messaggio di ri-nascita . Noi tutti teramani, noi
tutti italiani stiamo vivendo un periodo buio di
crisi culturale civile e spirituale, non di certo
materiale e questo si riflette proprio con quello
che è accaduto il giorno di Capodanno, ciò
è un auspicio per tutti a cercare l’incontro la
reciprocità che in antichità generava sicurezza
e solidarietà, cosa che si sta inverando in città.
Siamo nel 2014 e grazie a Nio c’è l’Eusofia a
TerrAmò la città che da Adesso ama la terra,
cura le relazioni e riapre il dialogo nella agorà
sulla barca del tempo alla piazzetta del Sole
in questi spazi di condivisione lo strumento
comunicativo della Te-visione: riprendere la
trasmissione orale nell’epoca virtuale. Ogni
sguardo e contatto ci mette in diretta, supera il
contratto, elimina la fretta e siamo in un eterno
atto, dalla protesta alla proposta quella di
partecipare a dialogare in Te-visione...
il Dialogo è energia, genera un filo di
sensibilità ed empatia... allena l’ascolto
Attivo la capacità a Rispondere e sciogliere
la rigidità mentale, riconoscendo l’altro
come una prolunga di se stesso. Nella
pratica quotidiana dell‘incontro si esercita
l’Elasticità di riequilibrare pensiero parola
e azione per contribuire con U.V.A.(umano
valore aggiunto allo scambio di risorse e
capacità) ai Beni Relazionali sui Beni Comu-
ni (terra, aria, acqua, fuoco ) co-producendo
Cultura, il quinto Bene Comune illimitato e
gratuito in quanto ri-conosce lo svolgersi
del percorso dell’Umanità, cosi la crisi
diventa un opportunità che unisce i destini
eleva i cammini e fa degli incontri empatici,
la viva ricchezza di tutti. n
Il Rinascisenso
AldilàdeiColori...
L’opinione di MaRio
diMaRiodal Mare [email protected]
9“Politica teramana”
Scomparirà anche il Pd. Una volta passata l’ondata euforica
renziana che surfa adamantino sui cocci di un partito che vo-
leva wecanizzare il mondo, la realtà dei fatti consumerà tutti.
Le due anime primor-
diali del partito Democra-
tico non sono mai state
digerite completamente:
nell’inconscio di questa
figura molto complessa (un
caso psichiatrico quasi), al
limite della schizofrenia, Dc
e Pci sono rimaste tesi e
antitesi, senza quella dia-
lettica e sintesi hegeliana
che Veltroni si era ripro-
messo di voler imprimere
alla nuova figura politica.
Le condizioni dettate dal
cinefilo romano furono che
i post democristiani non fossero costretti a dichiararsi socialisti,
fu così infatti che l’inserimento del nome democratico rispose alla
bisogna. Ma il presupposto, implicito, era un altro, cioè che i post
comunisti e neo socialisti dominassero, mentre gli altri si aggregas-
sero in un’utile minoranza. Ma più che la divisione passata dei ruoli
ciò che frena il Pd è lo scontro tra quella severità tutta marxista,
rigida e poco conciliante, e il laissez-faire dei fisiocratici democri-
stiani, diatriba sociale che nelle incertezze e titubanze del rapporto
frena costantemente le ambizioni decisionali del partito. Non vi è
stata una vera mistura, un vero annichilimento delle due fazioni in
un progetto comune, ma solo una prevalenza del vecchio apparato
Pci che ogni giorno in maniera subliminale, inconsciamente, frena
il futuro.
Che venga poi uno come Renzi, con la sua poca ortodossia, consi-
derato addirittura di destra (quando il mondo sta già confondendo
da un pezzo le posizioni storiche), c’era da aspettarselo. Il Pd soffre
della sindrome di Tafazzi, il personaggio della Gialappa’s che amava
percuotersi masochisticamente i testicoli con una bottiglia di
plastica, altrimenti non si spiega, tanto per restare tra il Tordino ed
il Vezzola, perché ci abbia messo così tanto per partorire un’idea di
candidato sindaco (noi siamo ottimisti e diamo già per scontato che
per l’uscita del mensile ci sia già il nome, ma siamo pronti a tutto!
ndr). Il candidato Albi, nelle elezioni comunali 2009, non fu figlio del
Pd leader del centrosinistra, di una sua scelta a priori, ma di una
mancata affermazione dell’esprit della sua ala sinistra, o meglio del
tornaconto personale di chi incarnava quella strategia. Ora la storia
pare ripetersi e invece di porre sul piatto un candidato forte, che
combatta con le unghie un Brucchi inferocito e galvanizzato dalla
vicinanza del comandante Gatti, si stava rifacendo lo stesso errore
(o lucida strategia) di cinque anni prima, cercando di presentare
uomini Albizzati.
Con la carta Di Pasquale, che in questo caso pare la più ovvia, il Pd
potrebbe ritrovare se stesso in città, anche se per la verità l’avvo-
cato teramano fino a poco tempo anelava ad uno scranno regio-
nale, e Piazza Orsini era relegata come opzione di secondo piano:
non vorremmo che vigesse il ragionamento del pur di starci, così da
accettare anche una legislatura da visibilità, perfino all’opposizione
ma comunque sempre presente. Non penso sia nelle corde della
terribile avvocatessa. Finora le colpe del Pd teramano si possono
enumerare senza tema di smentite: congresso comunale rimandato
alle calende greche; candidatura a sindaco con una trama intricata,
da libro giallo; poco aiuto concesso a Cavallari; alleanze buttate alle
ortiche; immobilismo su tutto: meritocrazia a tratti; veti incrociati. E
non è tutto. Nel frattempo il Pd fa notizia anche sui social network.
All’accorata difesa di Manola Di Pasquale (“voi pensate che demo-
nizzando il Pd sempre e comunque Brucchi non rivinca?
Se continuate così voi
sarete i suoi migliori alleati;
Vediamo di fare squadra
per il bene di questa città”),
il candidato sindaco dei
movimenti civici Gianluca
Pomante, cui era rivolta la
frecciata, replica in questo
modo: “Cara Manola, vi
auto-flagellate e portate
avanti una politica suicida
e la colpa sarebbe mia?
Io vi avevo offerto una
soluzione più che onorevo-
le, paritetica ed auspicata
da molti. Era tanto difficile
ricompattare il centrosinistra puntando su trasparenza e merito
nella scelta degli assessori e dei collaboratori? Era tanto difficile
mettere da parte gli interessi personali di pochi dirigenti di partito
e pensare al bene della città? Se predicate male e vi comportate
peggio, non prendetevela con me ma spiegatelo ai vostri iscritti e
agli elettori. Noi cercheremo con tutte le forze di vincere e, credimi,
ce la faremo. Avete perso il treno anche stavolta.
Teramo non può più aspettare i vostri giochetti. Ci sono problemi
gravissimi in città e servono risposte ed azioni forti ed immediate.
Per il bene di tutti, fatevi da parte e chiudiamo un’epoca”. Il Pd
perde i treni, il Pd non vuole vincere, il Pd fa i soliti giochetti. Non
c’è futuro per uno che commette sempre e sistematicamente gli
stessi errori. n
Dagli errori commessi non impara nulla
n.95
diMaurizioDi Biagio
Il Pd a rischio scomparsa
www.mauriziodibiagio.blogspot.com
Eventi10n.95
Le festività Natalizie appena trascorse, periodo di “gustose libagioni”’
potrebbe avere un’appendice...scritta, cronaca di una Manifesta-
zione/Evento importante e singolare denominato Chocomodica
2013, “dolcissima” kermesse tenutasi nella splendida Modica
(Ragusa) il 06/07/08 dicembre appena trascorso, il “Salone” della città
Iblea, full immersion di eventi, concerti, degustazioni, convegni, spettacoli,
presentazioni di libri e altro, ha avuto la cittadina di Castelli come pro-
tagonista. Una premessa per inquadrare l’argomento: uno dei primi atti
dell’Amministrazione Comunale del Sindaco Enzo De Rosa, oltre due anni
fa, è stato l’organizzazione del Convegno sul Cioccolato, presso il Liceo
Artistico Design
“F.A. Grue” con
la partecipa-
zione di illustri
Relatori, Dott.
ssa Lucia Arbace,
Dott. Vincenzo
De Pompeis,
Dott.ssa Mara
Fabrizio, M°
Cioccolatiere
Concezio Centi-
ni. Le conclusioni
del Convegno
stesso, furono
sorprendenti:
il rinvenimento di documenti storici in occasione di alcuni inventari, a
Palazzo D’Avalos /Vasto, CH) e, Palazzo Reale dei Savoia (Torino), effettuati
dalla Arbace, attestarono la produzione, quasi esclusiva, nel famoso
centro della Valle Siciliana, delle ‘chicchere’ per servire il cioccolato (e, il
caffè) sin dalla fine del ‘600, a tutto il ‘700. L’esito imprevisto in questi anni
ha portato il Sindaco de Rosa, ad allacciare rapporti sempre più stretti con
le Associazioni che tutelano la produzione, promozione e salvaguardia
del cioccolato - Made in Italy - The Chocolate Way, Euro Chocolate e Fine
Chocolate, delle città di Modica, Perugia, Firenze, Torino e Cuneo. Ancora
una volta l’intuizione di de Rosa si è rivelata ‘geniale’. Torniamo ll’attualità,
dopo qualche anno è stato riproposto il ChocoModica 2013, organizzato
dal dinamico Dott. Antonino Scivoletto e, della Prof.ssa Grazia Dormiente,
rispettivamente, Direttore ed Presidentessa del Consorzio Tutela del Cioc-
colato della storica città, tra le più belle espressioni del Barocco Siciliano.
Castelli, è stata invitata ufficialmente alla manifestazione e, soprattutto al
Convegno: la dotta relazione è stata presentata con grande professiona-
lità da Vincenzo De Pompeis, tanto da ‘incantare’ letteralmente gli astanti
nel bellissimo Palazzo Grimaldi, fra questi, il Presidente del Parlamento di
Malta, il Dott. Antonio Caprarica (corrispondente RAI-TV da Londra, autore
del recente libro “Il Romanzo dei Windsor”, amori, intrighi e tradimenti in
300 anni di favola reale), Ignazio Abbate, Sindaco di Modica...
La valenza di questo intervento, ha assunto maggiore autorevolezza
grazie alle relazioni di illustri Referenti, la Prof.ssa Clarissa Sirci, Direttrice
del Museo ‘Ubaldo Grazia’ di Deruta (PG), ha confermato come la città
umbra e, la stessa Faenza (RA), non hanno prodotto tazze e chicchere per
il cioccolato, prima del ‘900: l’unico centro a produrre questo particolare
‘contenitore’ nel periodo Barocco , è stato Castelli, appunto e, non solo
per il Regno di Napoli (o delle 2 Sicilie). L’intervento dello Studioso pesca-
rese (discendente della famosa Famiglia castellana dei Pompei), ha sortito
l’effetto immediato del prossimo impegno come Relatore al Sàlon du
Chocolat a Bruxelles, il 07/08/09 febbraio 2014, bel risultato! Non è finita
qui, è vero che Castelli non ha prodotto il cioccolato ma... le chicchere
(stupende quelle con relativo piattello-porta chicchera di C.A. Grue), per-
tanto la candidatura all’ammissione nell’Itinerario Europeo del Cioccolato,
presentata opportunamente
con apposita Delibera di
Giunta, è stata formalmente
ufficializzata dal Dott. Filippo
Pinelli, responsabile del Con-
sorzio medesimo. L’obbiettivo
raggiunto è incredibile: Torino,
Cuneo, Firenze, Perugia,
Modica... Castelli e Malta!
A corollario di questo risultato, la ‘cronaca’
si impone, riferendo di questi tre-giorni
vissuti...intensamente, Modica è meraviglio-
sa, il centro ‘storico’ dispiegato in una tipica
‘gravina’, case e palazzi che si affacciano su
Corso Umberto I, nelle piazze principali, gli
eleganti gazebo dei maggiori produttori di cioccolato (anche stranieri),
i negozi dei cioccolatieri locali come autentiche ‘boutique’ del “Nettare
degli Dei”, città in festa, teatro e artisti da strada, la Fanfara dei Bersaglieri
(Caltanissetta) ha allietato la folla durante i tre giorni dell’evento con
musiche ed esibizioni a... passo da corsa, di notte poi, lo spettacolo ha
assunto toni suggestivi: le splendide chiese di S. Giorgio, del Carmine e S.
Pietro, sapientemente ‘fasciate’ dalle proiezioni del Luminografo Gaspare
Di Caro, hanno ‘sublimato’ le facciate barocche, già di per sè bellissime.
Il cioccolato a Modica è stato ed è un fatto culturale, buonissimo, senza
additivi, realizzato dalle migliori cioccolaterie che importano direttamente
il cacao dalle nazioni del centro-America, tantissimi aromi, per tutti i gusti,
il cioccolato modicano è famoso in tutto il mondo, per l’occasione, le
deliziose ‘barrette’, sono state confezionate anche con le immagini delle
‘chicchere’ di Castelli, instant-print! non c’è che dire. Altra oppurtunità,
la visita alla Antica Dolceria Rizza, cioccolatieri da generazioni, dove la
produzione risponde a requisiti qualitativi e di igienicità elevatissimi. Infine
un doveroso ringraziamento alle autorità locali, per la calda, squisita e
proverbiale ospitalità siciliana, mai vista tanta premura, disponibilità,
organizzazione, attenzione e generosità, per i rappresentanti di Castelli:
esperienza culturale e umana, unica e irripetibile! n
...e altre storie!
Cioccolato, “Chicchere”
diMaurizio Carbone
Solidarietà12n.95
Contro lo spreco, contro la fame. È questo lo slogan del Banco
Alimentare, la realtà presente in tutte le regioni italiane con lo
scopo di
raccogliere
le eccedenze
alimentari per
distribuirle agli enti
convenzionati che
assistono i poveri.
Il Banco Alimen-
tare dell’Abruzzo,
gestito dall’Asso-
ciazione Banco Ali-
mentare Abruzzo
Onlus, è una delle
ventuno sedi della Rete Nazionale del Banco Alimentare, coordinata dalla
Fondazione Banco Alimentare Onlus.
In Italia questa esperienza nasce nel 1989 dall’incontro tra monsignor
Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, e il cavalier Danilo
Fossati, titolare della Star. In Abruzzo e Molise il Banco arriva nel 1997,
in occasione della prima Giornata Nazionale della Colletta Alimentare, la
raccolta di fine novembre che rappresenta una delle attività del Banco,
operativo tutto l’anno nella raccolta delle eccedenze, grazie a contributi
pubblici e privati, e iniziative di autofinanziamento. Nel magazzino di 1000
metri quadri in via Celestino V a Pescara lavorano un direttore, una segre-
taria e due operatori, insieme al supporto indispensabile di una trentina di
volontari, con una dotazione di un camion e di un furgone, oltre alle varie
attrezzature logistiche.
Ogni giorno, il Banco raccoglie eccedenze alimentari – prodotti perfet-
tamente commestibili ma destinati al macero perché non più adatti alla
commercializzazione per errori di etichettatura o promozioni terminate
ecc. – da imprese agroalimentari, grande distribuzione organizzata, Agea
(Agenzia per le erogazioni in agricoltura), e le dona ai poveri mediante una
rete di enti convenzionati (mense dei poveri, associazioni di volontariato,
Caritas, case famiglia ecc.). A novembre, come detto, il Banco dell’Abruz-
zo partecipa alla Giornata Nazionale della Colletta Alimentare, il gesto di
carità che si svolge l’ultimo sabato in centinaia di punti vendita, dove chi
va a fare la spesa viene invitato da migliaia di volontari a donare alcuni
alimenti che vanno ad aggiungersi a quelli raccolti con l’attività ordinaria.
Dal 2011, inoltre, il Banco dell’Abruzzo ha attivato a Pescara, Montesilva-
no e Termoli il progetto Siticibo, che permette la raccolta di cibo fresco
per donarlo immediatamente agli enti caritativi.
I numeri del Banco Alimentare dell’Abruzzo sono significativi: 1.521.000
i kg di prodotti raccolti nel 2012, 1.647.000 quelli distribuiti nel 2012 (la
differenza consiste nell’avanzo dell’anno precedente proveniente dalla
Colletta Alimentare di fine anno). Gli enti convenzionati sono 252 di cui
211 in Abruzzo (75 nella provincia di Chieti, 81 a Pescara, 19 a L’Aquila e
36 a Teramo), e 41 in Molise. Le persone assistite mediante questi enti
sono 44.432, di cui 38.254 in Abruzzo (12.419 nella provincia di Chieti,
15.513 Pescara, 3.789 L’Aquila, 6.533 Teramo), 6.178 in Molise. Grazie a
Siticibo, 20.038 kg sono stati raccolti e distribuiti nel 2012, mentre nel
corso della Colletta Alimentare che si è svolta lo scorso 30 novembre,
sono state raccolte 246 tonnellate di prodotti, di cui 204 in Abruzzo (a
Pescara e provincia 57 tonnellate, a Teramo 57, a Chieti 59 e a L’Aquila
3), 42 in Molise, grazie a circa 5 mila volontari in 350 punti vendita delle
due regioni. È possibile aiutare il Banco Alimentare dell’Abruzzo in vari
mondi. Si possono donare, ovviamente, le eccedenze alimentari, con
benefici economici (come il risparmio sullo smaltimento), logistici e
burocratici. Inoltre, si può dare un contributo economico (codice Iban IT26
A06050 15402 CC0560010715 Carichieti Agenzia di Pescara, c/c postale
34849851 intestato a: Ass. Banco Alimentare Abruzzo onlus, via Celestino
V n. 4, 65129 Pescara): ricordiamo che grazie alla legge nota come “+ dai
- versi” oggi le donazioni in favore di enti non profit sono completamente
deducibili fino ad
un massimo del
10 per cento del
reddito di chi dona
o per un importo
non superiore a 70
mila euro. Si può
pure devolvere il
5 per mille della
dichiarazione dei
redditi inserendo
il codice fiscale
91048560683. In-
fine, è possibile diventare volontario donando del tempo a questa grande
opera di carità. Per saperne di più, contattare il numero 085 4313975 o
visitare il sito www.bancoalimentare.it/abruzzo.
Nel 2014, però, si rischia una situazione di emergenza, come spiega Luigi
Nigliato, presidente del Banco Alimentare dell’Abruzzo: “Purtroppo il 31
dicembre 2013 è terminato il programma europeo di aiuti alimentari, ba-
sato sul recupero delle eccedenze dell’agricoltura. Questo vuol dire che, a
livello regionale, metà dei prodotti che annualmente il Banco Alimentare
dona agli oltre 38 mila poveri abruzzesi non ci saranno più. Si tratta di
una vera e propria emergenza nazionale, contro la qual la Rete Banco
Alimentare si sta muovendo già muovendo, e con risultati che iniziano
a vedersi: grazie alla nostra presenza a Bruxelles e al sostegno trasver-
sale di eurodeputati italiani, è stato stanziato un fondo europeo di 500
milioni di euro contro l’indigenza, che però dovrà sommarsi ad un fondo
nazionale. Poiché sicuramente si tratta di fondi non sufficienti - conclude
Nigliato - invitiamo tutte le aziende che hanno eccedenze a contattarci:
saremo ben lieti di poter recuperare i loro prodotti, a vantaggio di chi vive
nel bisogno”. n
Contro lo spreco, contro la fame
diPiergiorgio Greco [email protected]
Il Banco Alimentare
13Satira
diMimmoAttanasii [email protected]
Forse a chi legge, saranno già noti. Non a chi
scrive, giacché i fatti sono in divenire. Non è
dato sapere al curatore di questo stralunato
almanacco di insoliti avvenimenti natalizi se
lo spazio aereo nel cielo sopra Piazza Martiri sia
stato rimodulato nei propri corridoi e nelle proprie rotte da ridisegna-
re al più presto per assicurare un giaciglio sonoro, la riservatezza, a
sostegno delle preghiere affrancanti dal peccato e annunciate a Dio
in coro allungando il collo fra le navate della cattedrale.
Non si conosce la strategia di Trenitalia sui nuovi orari delle tratte
di collegamento ferroviario fra la costa e l’interno della provincia,
oggetto di riscrittura a causa del roboante segnale sonoro
dei convogli che si scambiano l’eco contro i muri
della chiesa di Cartecchio. Comunque, il
fatto teramano, quello che più di tutte
le storie del dopo Befana sia riuscito
ad accelerare l’attenzione dei
media, telesponde di notizie
ad personam fi nanziate con
i denari del consueto
Pigmalione Re di Cipro, è
uno solo. E di certo sarà
ricordato per molto
tempo ancora come lo
squarcio peggiore di un
borough newyorkese. Il
Bronx sotto i portici del
Banco di Napoli. Una
Gomorra alla Savia-
no. Una impensabile
brodaglia, una epopea
da Far West arricchita
con l’irrinunciabile cardone
teramano della Vigilia di
Natale. Una fi ction anomala.
Un farmacista, un avventore not-
turno e lo smartphone con la sicura
tolta di quel qualcuno sempre pronto
a fi lmare, a fare prelievi di realtà calda da
servire poi fredda, quanto la vendetta, al ritmo di
n.95
un fugace jingle.
“Vattene!”, grida minaccioso il farmacista rivolto
a un tizio che gli tiene testa. “Mi devi sparare…
mi devi sparare!”, lo sfi da ad alta voce l’uomo
disarmato e, forse, apparentemente più padrone
di se stesso, se valutato l’atteggiamento sopra le
righe del dottore. “Ti faccio un buco…”, continua
il farmacista con fare insidioso e la pistola pun-
tata sulla fronte dello sfi dante. La notte di Natale
è assai simile a quella del fi lm “Parenti serpenti”
di Monicelli.
Le macchiette di avvocati impomatati, notai im-
pettiti, si sfrangiano caratterizzate con sarcasmo
dal regista morto suicida nel vuoto di un preci-
pizio voluto come lo scrittore praghese Bohumil
Hrabal. Caricature quotidiane, in cui riconoscersi
impietosamente. Coscienti di se stessi, seppure
immersi in un duello surreale tra uno speziale
esasperato e un avventore scatenato e risoluto
nel baccano contenuto di un paesone indolente
anestetizzato dagli aperitivi cenati. Le serrande dei negozi non è as-
solutamente il caso di prenderle a calci. Basta bussare con cortesia.
Al farmacista sarebbe bastato alzare la cornetta per segnalare l’emer-
genza. Per la pistola, vera o giocattolo che fosse, sarebbe stato più
opportuno lasciarla là, dov’era giudiziosamente custodita. Per ultimo:
“Chissà se quel cameraman, la mancata Iena di Italia 1, avrebbe
portato a termine il reportage se si fosse imbattuto in uno
stupro?”. In un racconto, l’apprensione, lo stato di
tensione, l’inquietudine, l’attesa ansiosa, la
trepidazione e quant’altro nella prospetti-
va drammaturgica sono uno specifi co
segno di accostamento alla vita
quotidiana. Se nel fi nale di que-
sta storia narrata, i personaggi
si fossero avventati contro
la persona che brandiva
l’arma da fuoco nell’in-
tento di scongiurare una
tragedia piuttosto che
usare il telefonino per
chiedere aiuto, si sa-
rebbero delineati chiari
i profi li psicologici di
eroi metropolitani.
In questo racconto, inve-
ce, si tenderà a un epilo-
go dissonante. Nel pieno
rispetto delle risonanze
ecclesiastiche, a cominciare
dal Natale a fatica archiviato,
nelle prospicienti aree deputate
al culto, si potrà sparare soltanto se
muniti di silenziatore montato e funzio-
nante in canna alla rivoltella.
Orazione in corso: “Do Not Disturb”. n
Do NotDisturbUn cameraman nella notte
All’interno della
produzione com-
plessa e copiosa
di Moravia è
sottesa un’indagine di
natura intellettuale e
morale, tesa a illuminare
il conflitto tra l’”essere”
e il “dover essere”, tra
l’aspirazione ai valori
autentici e assoluti e
l’apparenza vuota e
deprimente.
Si tratta di una lotta ser-
rata, destinata a lungo a
restare irrisolta o a sfo-
ciare nella disfatta del
soggetto stesso perché
“la vita è quella che è” e
richiede spirito di adat-
tamento e a volte scelta
del compromesso.
“Entrò Carla; aveva
indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta,
che bastò quel movimento di chiudere l’uscio per fargliela salire di
un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le calze intorno
alle gambe; ma ella non se ne accorse e si avanzò con precauzione
guardando misteriosamente davanti a sé, dinoccolata e malsicura;
una sola lampada era accesa e illuminava le ginocchia di Leo sul
divano; un’oscurità grigia avvolgeva il resto del salotto”.
L’incipit del romanzo “Gli indifferenti” di Alberto Moravia è un eser-
cizio di stile che mostra con chiarezza i tratti tipici della narrazione
moraviana, “solita a procedere con una minuziosità che sembra
costantemente sul punto di slittare nella pedanteria –se non si
riscattasse attraverso delle sottili intuizioni, dei guizzi dell’immagi-
nazione, che inopinatamente rivelano le tensioni interne della realtà
rappresentata”. Così di seguito i “gingilli (…) morti e inconsistenti
nell’ombra del salotto” sembrano “costruire sensibilmente il tema
fisico dell’indifferenza”.
La storia si svolge in quarantott’ore ed è ambientata in un’elegante
casa romana del quartiere Parioli. I personaggi, Mariagrazia Ardengo
con i suoi due figli, Carla e Michele, e il suo amante, Leo Merumeci,
appartengono all’alta borghesia. Leo, ricco viveur si invaghisce di
Carla, approfittando dei problemi economici della famiglia, che ne-
cessita del suo aiuto. Michele, venuto a conoscenza del fatto, tenta
di ostacolare la relazione e di uccidere Leo. Ma la pistola è scarica.
Infine tutto si sistema: Leo sposerà Carla con il consenso della madre
e del fratello. Mariagrazia affogherà nella solitudine e nello squallore
quotidiano.
Il romanzo ebbe da subito enorme successo sia in Italia, che all’e-
stero. “Raccordava innanzitutto, attorno al tema dell’indifferenza, le
molte coordinate della crisi decadente già tracciate dai contempora-
nei narratori europei: vale a dire l’incomunicabilità, il senso dell’inet-
titudine, la coscienza dello scacco”.
“Un disgusto opaco l’opprimeva; i suoi pensieri non erano che aridi-
tà, deserto; nessuna fede, nessuna speranza alla cui ombra riposare
e rinfrescarsi; la falsità e l’abbiezione di cui aveva pieno l’animo egli
le vedeva negli altri, sempre, impossibile strapparsi dagli occhi quello
sguardo scoraggiato, impuro che si frapponeva tra lui e la vita; un po’
di sincerità, si ripeteva riaggrappandosi alla sua vecchia idea fissa,
“un po’ di fede… e avrei ucciso Leo… ma ora sarei limpido come una
goccia d’acqua.” Si sentiva soffocare; guardò Lisa, pareva contenta:
“Come vivi?” avrebbe voluto gridarle: “Sinceramente? con fede?
Dimmi come riesci a vivere.” I suoi pensieri erano confusi, contraddit-
tori: “E ancora” pensava con un brusco, disperato ritorno alla realtà,
“Forse questo dipende soltanto dai miei nervi scossi… forse non è
che una questione di denaro o di tempo o di circostanze.” Ma quanto
più si sforzava di ridurre, di semplificare il suo problema, tanto più
questo gli appariva difficile, spaventoso. “È impossibile andare avanti
così.” Avrebbe voluto piangere; la foresta della vita lo circondava da
tutte le parti, intricata, cieca; nessun lume splendeva nella lontanan-
za: impossibile”.
Sul piano della struttura narrativa tali temi sono inseriti in un impian-
to di tipo naturalistico e si determinano attraverso un’osservazione
minuziosa della realtà ambientale, sociale e psicologica attraverso
uno stile alieno da ogni indulgenza al lirismo.
In Italia il romanzo di Moravia si presentò come fortemente innova-
tivo, rompendo bruscamente il rarefatto clima della letteratura del
tempo ed evidenziando la crisi morale della classe dirigente borghe-
se, in contrasto con l’ottimismo culturale del regime fascista.
L’indifferenza assume nella narrazione connotazioni storiche. “Il con-
flitto che è all’origine dell’indifferenza può configurarsi infatti come
la dissonanza eterna dell’uomo con la vita, ma è anche il conflitto
dell’individuo con una determinata società, come testimonia tutto
l’arco della narrativa di Moravia”. n
Il libro del mese14 [email protected]
Gli Indifferentin.95
diMaria Cristina Marroni
Alberto Moravia
N ell’indifferenza generale, e, inspie-
gabile, delle assosiciazioni pseudo-
culturali e della’mministrazione co-
munale. Molte vie, appena fuori dal
centro, ricordano realtà degradate del più
triste e sconsolante Sud: rifiuti dappertutto,
cristallizati da mesi sui marciapiedi, nelle
grate dei tombini, tra le crepe dell’asfalto.
Mozziconi, pacchetti di sigarette stinti, car-
te unte, avanzi di colazioni bestiali, barattoli
e bottiglie di birra scadente.
Il declino, la morte indolore di un piccolo e
inutile capoluogo di provincia prima ancora
di un Paese inebetito.
Migliaia di residenti capaci di scuotere il se-
dere e saltare scatenati la notte di San Sil-
vestro alle note di canzoncine bifolk in stile
‘Rosina dammela’ di Vittorio il Fenomeno e
che per il resto dell’anno calpestano giulivi
la sporcizia che in alcuni punti ha trasfor-
mato il territorio in una quasi-discarica a
cielo aperto. Una sporcizia che non vedono
più, che neanche turba, neanche provoca il
minimo brivido nelle menti dopate
da una quotidianità piccola e meschina. Le
colpe dell’amministrazione sono innegabili
per molte ragioni, ma relative.
È l’incredibile collasso degli elementari
principi di buona educazione e rispetto dei
luoghi pubblici, di adulti, adolescenti, stu-
denti, professionisiti, pensionati, imbarbariti
e consustanziali ai disgustosi scarti che
abbandonano indifferenti all’aperto.
Poi una mattina apri il giornale e leggi
l’intercettazione telefonica di un assessore
aquilano che diciotto mesi dopo il terremo-
to che ha ucciso 309 residenti e concittadini
esclama ‘che botta di culo’ riferendosi agli
affari milionari a portata di artiglio.’ O te li
fai mo’ i soldi o hai finito’. Le parole regi-
strate dagli inquirenti sono di un pubblico
amministartore, stipendiato dai cittadini,
Ermanno Lisi.
Di fronte al dilagare nelle istituzioni e nella
vita civile di questi individui che Marco
Travaglio ha definito ‘subumani, vampiri..
antropologia mostruosa’ anche l’ottimismo
della volontà diventa faticoso.
Iniziano ad essere maggioranza, non più
un’eccezione, una mostruosità irripetibile. n
n.95
15Accade in città
diYuri Tomassini [email protected]
Silenziosi sporcaChi non lo fa,merita tutto questo?
Nel menù di un ristorante può accadere
di leggere: tra i formaggi “gorgonzola”,
tra i vini “chianti” o “bordeaux”, tra i
liquori “cognac”, “grappa” o “porto” e, per
concludere “champagne”. Spesso questi
nomi sono scritti con l’iniziale minuscola,
ma non si tratta di un errore ortografico; ciò accade perché sono
diventati dei nomi comuni, mentre in origine erano nomi propri. In
sostanza, alcuni nomi propri di luogo o di persona hanno dato de-
nominazione a cibi, bevande, liquori o oggetti i cui nomi si scrivono
normalmente con l’iniziale maiuscola.
Ad esempio il chianti ha preso il nome
dalla zona della Toscana che lo produce, il
gorgonzola dalla cittadina lombarda e così
via. Questo fenomeno si verifica anche
in ambiti diversi da quello gastronomico:
basti pensare a “lavagna” (che deriva dalla
località ligure dove la materia è estratta): a
“savonarola”, un antico sedile a forbice di
antica origine toscana, (il cui nome deriva
dalla sedia di Gerolamo Savonarola in
San Marco a Firenze; a “biro” (dal nome
dell’inventore ungherese Birò); ad “avana”
un sigaro aromatico (dal nome della città
cubana); a “colonia”, il profumo (dalla città
tedesca che in origine produceva questa
essenza), e così via. n
Note linguistiche
I nomi propri... diventanocomuni
16n.95
“Di visione in visione” è il titolo
scelto dal gruppo FAI giovani
di Teramo per l’incontro con
Iacopo Pasqui, organizzato
per sabato 18 gennaio, ore 18, a L’ARCA/
Laboratorio per le arti contemporanee. Il
lavoro del giovane fotografo che ha già
esposto presso l’istituto musicale “Braga” e
che presto tornerà a mostrare il suo lavoro
presso l’Università degli Studi di Teramo,
è stato presentato da Umberto Palestini,
direttore artistico de L’ARCA, e approfondito
da due membri del gruppo FAI che lavorano
nel campo dell’arte contemporanea e della
fotografia, Martina Lolli ed Emanuela Ama-
dio. A loro ci siamo rivolti per avere qualche
informazione.
Martina, chi è Iacopo Pasqui e qual è il
tratto distintivo dei suoi scatti?
Iacopo Pasqui è una giovane promessa
della fotografia, dedito al paesaggismo e
alla documentazione sociale. Lavora come
professionista dal 2008 e, sebbene non
abbia ancora trent’anni, ha già realiz-
zato progetti importanti con altrettanto
importanti committenti alle spalle; un
esempio è la mostra inaugurata a Teramo,
una documentazione innovativa dell’ultimo
Conclave commissionatagli dall’Istituto
dell’Enciclopedia Italiana G. Treccani sul
quale vorremmo porre l’accento: questa
mostra, che si accinge a fare il giro di musei
molto importanti, è passata a Teramo
quasi in sordina e noi vorremmo partire
dalle opere ivi presentate per iniziare un
excursus del suo percorso artistico. Pasqui
indaga il paesaggio, naturale o artificiale
che sia, e ne scopre la bellezza e il fascino
attraverso uno sguardo lento e oculato. Le
sue immagini sono, non solo ariose vedute
dell’ambiente, ma anche “visioni” di oggetti
quotidiani e quasi banali che manifestano
paradossalmente due dimensioni: quella del
trascorrere inesorabile del tempo e quella
della sua stasi acronica. È per questo che
le sue fotografie preservano un alone di
ambiguità; a volte una luce diafana abbaglia
l’intero paesaggio cancellando ombre e con
esse qualsiasi riferimento temporale; altre
la stessa luce si focalizza su un particolare
e si impregna della sua essenza, senza mai
creare forti chiaroscuri.
Perché i giovani del FAI hanno voluto pro-
porre alla città e non solo questo evento?
Per sensibilizzare gli animi verso la causa
del paesaggio italiano, per dischiudere le re-
altà artistiche a noi prossime, ma soprattut-
to per portare linfa nuova alla città. Sarebbe
bello (e forse alquanto utopistico) poter
stimolare uno sguardo nuovo verso le realtà
che ci circondano quotidianamente; è ciò
che abbiamo cercato di fare con la giornata
organizzata al Castello Della Monica, un
bene di cui i cittadini hanno potuto usufrui-
re, anche se per un solo giorno.
Emanuela, il FAI nasce per riaccendere
le luci sui luoghi trascurati del nostro
Paese. Quale sinergia può nascere tra
la tutela e la valorizzazione di quella
peculiarità italiana che è il paesaggio e il
mezzo espressivo fotografico?
I progetti dei fotografi italiani di paesag-
gio sono per lo più sconosciuti al grande
pubblico e spesso sottovalutati dalla critica,
a causa della difficoltà nel catalogare
in maniera univoca tutte le esperienze
compiute a partire dalla fine degli anni ‘60
e nell’impossibilità di ridurle a una vera e
propria scuola di pensiero. Barbieri, Castel-
la, Jodice, Basilico, ma soprattutto Ghirri,
hanno profondamente innovato l’iconogra-
fia del paesaggio italiano, disfacendosi dei
topoi della tradizione pittorica per dedicarsi
all’impatto antropico sulla morfologia del
Bel Paese, frutto del boom economico degli
anni Cinquanta. L’importanza attribuita
alla banalità del quotidiano, alla periferia in
espansione, allo spazio vuoto e al dettaglio
nascosto è l’aspetto più innovativo della ri-
cerca fotografica intrapresa dai nuovi “pae-
saggisti” nella seconda metà del Novecento,
una ricerca che può e deve diventare fonte
primaria di uno studio contemporaneo del
paesaggio italiano. Spesso si parla di tutela,
conservazione e valorizzazione delle opere
d’arte, intese come singoli pezzi di un
grande puzzle che rappresenta il patrimonio
storico-artistico del paese, ma quasi mai si
pone l’accento sulla necessità di tutela-
re concretamente il paesaggio, peraltro
materia comprimaria del nostro codice dei
beni culturali. Credo che i fotografi possano
diventare gli interlocutori privilegiati accan-
to a chi si occupa quotidianamente della
gestione del nostro patrimonio culturale,
proprio per la capacità intrinseca delle foto
di arrivare ad un gran numero di persone
e di stimolare una maggiore attenzione su
un territorio in continuo cambiamento. Il
vecchio adagio “conoscere per tutelare” è
l’unica via percorribile, in altre parole solo la
consapevolezza dello spazio in cui viviamo
può garantire il rispetto e l’attenzione di
tutti i cittadini. n
Di visione in visione.Il gruppo FAI giovani Teramoincontra il fotografoIacopo Pasqui
IacopoPasqui
La fotografia
diSirio MariaPomante [email protected]
Quasi un’impresa agricola italiana su 3
è nata negli ultimi 10 anni, mentre nei
primi nove mesi del 2013 hanno aperto i
battenti 4.200 aziende condotte da under
35, con la campagna che si piazza sul podio tra i
settori preferiti dai neoimprenditori.
Sono alcuni dei numeri diffusi con il primo
Dossier sulla “Svolta generazionale dell’econo-
mia italiana” che è stato presentato dai Giovani
della Coldiretti in occasione della consegna dei premi “Oscar Green”
sotto l’alto Patronato del Presidente della Repubblica e il patrocinio
Ministero Politiche Agricole e di Expo 2015.
Nell’agricoltura italiana il 7,2 per cento dei titolari di impresa ha
17Coldiretti informa
meno di 35 anni ed è alla guida di 58663 aziende. Di queste circa il
70 per cento opera in attività multifunzionali: dall’agriturismo alle
fattorie didattiche, dalla vendita diretta dei prodotti tipici e del vino
alla trasformazione aziendale del latte in formaggio, dell’uva in vino,
delle olive in olio, ma anche pane, birra, salumi, gelati e addirittura
cosmetici.
A conferma del trend ci sono anche i dati degli iscritti al primo anno
delle scuole secondarie superiori tecniche e professionali: un nuovo
studente su quattro ha scelto per il 2013/2014
un indirizzo legato all’agricoltura e all’enoga-
stronomia. Nell’anno scolastico 2013/2014 si
sono iscritti al primo anno degli istituti tecnici
e professionali della scuola secondaria di se-
condo grado, statali e paritarie 262716 giovani
e tra questi ben il 23 per cento ha optato per
l’agricoltura, l’enogastronomia e l’ospitalità
alberghiera, che complessivamente hanno
registrato 60017 nuovi iscritti.
Una tendenza che si sta accentuando negli
ultimi anni nelle scuole superiori che è confer-
mata anche dai livelli superiori di istruzione,
secondo un’analisi della Coldiretti sulla base
di una ricerca Datagiovani relativa agli effetti
della recessione sugli Atenei italiani nel periodo dal 2008 ad oggi. Le
iscrizioni alle Facoltà di scienze agrarie, forestali ed alimentari hanno
fatto registrare la crescita più’ alta nel periodo considerato con un
aumento del 45 per cento. n
n.95
Un’impresa agricola su 3è nata negli ultimi dieci anni
Oscar Green
diMassimilianoVolpone Direttore Coldiretti Teramo
N el 1969, poco dopo l’uscita di “Ab-
bey Road” - penultimo Lp dei Beat-
les, sebbene sia stato l’ultimo ad
essere registrato - negli Stati Uniti,
una radio di Detroit diffuse la notizia che
esistevano le prove della morte di Paul
McCartney. La cosa, per chiunque altro,
sarebbe rimasta uno scherzo di cattivo
gusto, per Paul invece, divenne una vera
e propria leggenda planetaria, visto che
ancora oggi c’è qualcuno disposto a scri-
vere libri o mandare in onda interi special
televisivi sull’argomento, in qualsiasi parte
del mondo.
Anche in Italia, ad esempio, negli ultimi
anni tre o quattro trasmissioni televisive
e almeno due libri (“Paul is dead?” di
Glauco Cartocci e “Il codice McCartney”
di Andriola e Gigante), hanno “scienti-
ficamente” affrontato l’argomento, con
grande spiegamento di prove, molto poco
scientifiche.
Già gli equivoci di partenza sono più che
sufficienti a mettere in chiaro che si tratta
di una montatura mediatica che i Beatles,
e poi McCartney, hanno utilizzato come
formidabile strumento pubblicitario. Se-
condo questa leggenda, Paul McCartney
sarebbe morto in seguito ad un incidente
automobilistico avvenuto a Londra nel
1966, dopo una lunga sessione di registra-
zione negli studi di Abbey Road, culminata
con un violento litigio fra lo stesso Paul e
gli altri tre membri del gruppo.
Il primo indizio comprensibile sarebbe
stato scovato nella foto di copertina del
disco a cui accennavo all’inizio “Abbey
Road” (il quale prende il nome dagli studi
di registrazione della EMI, siti sull’omoni-
ma via).
Nella celeberrima foto, i quattro attra-
versano la strada in fila, guidati da John
Lennon vestito di bianco (come il sacerdo-
te di un rito funebre…), seguito da Ringo
in abito nero (l’impresario delle pompe
funebri?), poi viene Paul – senza scarpe
(perché i morti si seppelliscono, non si sa
bene dove, senza scarpe) ed a chiudere
la processione c’è George Harrison con il
suo completo jeans (non poteva mancare
il becchino, in tenuta da lavoro!).
Sullo sfondo c’è un’automobile, un mag-
giolone, targato 28IF. La leggenda nasce
proprio da questa automobile. Il primo
segnale comprensibile della morte della
star viene proprio da qui: 28 (anni) IF (se),
cioè Paul avrebbe 28 anni SE fosse ancora
vivo! Già su questo primo punto si arena
la fantasia, nel 1969 Paul (quello vero…)
aveva infatti 27 anni, quindi i conti non
tornano. Fra gli altri tantissimi indizi se-
minati dai Beatles, qualcun altro è proprio
inconsistente, per esempio si è parlato
spesso della mano sulla testa di McCart-
ney sulla copertina del disco “Revolver”,
quest’immagine, che sarebbe simbolo
di morte, si trova però sulla copertina di
un disco uscito nel 1965, prima cioè del
presunto incidente mortale.
Un altro indizio inconfutabile è poi celato
in uno stemma cucito sulla giacca di
McCartney, nel libretto interno di “Magical
mistery tour”, disco del 1967. In una foto,
sul braccio del nostro eroe, compare la
scritta OPD, che sarebbe l’acronimo di
“Officially Pronounced Dead”, dichiarato
ufficialmente morto. In realtà la scritta
significa Ontario Police Department.
Qualcuno dice addirittura che la scrit-
ta reale sia OPP e che la piega della
giacca trasformi la seconda P in una D. In
periodi più recenti sono spuntate, qui in
Italia, delle analisi antropometriche che
mettono a confronto misurazioni di parti
anatomiche del volto di Paul prima del ’66
e del fantomatico “rimpiazzo”.
Appare molto discutibile mettere a con-
fronto foto scattate con macchine diverse,
da angolazioni diverse e, evidentemente,
con obiettivi differenti. Probabilmente per
un’analisi del genere avremmo bisogno
di foto scattate nello stesso posto, con lo
stesso apparecchio e ad un soggetto nella
stessa posizione.
Sempre in Italia, una trasmissione tele-
visiva di un paio di anni fa ha mostrato
un’automobile, un’Aston Martin, che
è stata presentata come la presunta
macchina sulla quale Paul sarebbe morto.
Il restauratore, italianissimo, ha spiegato
chiaramente ed inequivocabilmente che
l’incidente subito dall’auto non potrebbe
aver avuto effetti gravi, meno che mai
mortali, sull’autista o sul passeggero.
Lo stesso bassista, nel 1993, ha voluto
scherzare su tutta la faccenda, pubblican-
do un disco dal vivo, dall’eloquente titolo,
“Paul is live”, che mostra in copertina lo
stesso McCartney, sulle strisce pedonali
di Abbey Road, con il suo cane, e con alle
spalle il solito maggiolino Volkswagen, che
stavolta è targato 51IS, perché all’epoca
l’età dell’artista era di 51 anni, davvero. n
Musica18 [email protected]
n.95
diFabrizio Medori
Paulis deadAltre due o tre cosesui Beatles
19
Prima recensione targata 2014, l’edizione però è del 2013, annun-
ciata dalla cover con l’immagine ‘michelangiolesca’ della Crea-
zione di Adamo: nel dettaglio, le due mani che si sfiorano, come
sfondo, cielo azzurro, nuvole e, grafica in gotico. L’approccio (con-
fesso), è accattivante di per sé, l’autore poi, possiede tutti i requisiti per
risultare simpatico: physìque du role notevole, songwriter, compositore,
produttore, sound-engineering... Il cognome (o nome) Wilson, rimanda
inevitabilmente ai personaggi dello star-system musicale: Brian, Carl e
Dennis Wilson (Beach Boys), Wilson-Philips (Mama’s & Papa’s), Jackie
Wilson, Steven Wilson (K Scope Rec.), Wilson Pickett...ma, veniamo al
nostro: Mr.Jonathan, originario del North Carolina (Forest City, 1974),
sensibile al richiamo della West Coast, ha assunto una decisione impor-
tante, rilevando i celeberrimi ‘Studios’ di Laurel Canyon (Joni Mitchell,
Crosby, Stills, Nash & Young...), conservando gli apparati tecnologici
‘vintage’ degli stessi, chiamandoli FiveStarStudios (il Movimento 5 Stelle,
non c’entra nulla!), ha convocato i suoi abituali accompagnatori-musi-
cisti, Velasco, Gowen, Borger, King, Noel, Sansone (Wilco) e, i mitici
D. Crosby, G. Nash, J. Browne, J. Tillman (Fleet Foxes), M. Campbell
& B. Tench ( Tom Petty & The Heartbreakers), Roy Harper (coautore
di 4 songs), ha piazzato il ‘Gran Piano’ STEINWAY al centro della sala di
registrazione, disponendo tutti gli altri strumenti (tantissimi!) attorno e,
“ooops”, il capolavoro è compiuto. Jonathan Spencer Wilson, possiede
un talento naturale, dopo un’esordio discografico prescindibile, colla-
borazioni con gruppi minori, nel 2011 pubblica per la benemerita Bella
Union, “Gentle Spirit”, un disco con... i fiocchi, folk, indie-alternative,
soft rock? Ottimo riscontro commerciale e...allora? Poteva fare la
copia-carbone (ehm...), invece no, studia, compone, programma e, in
sei mesi, realizza il progetto più ambizioso della sua carriera (almeno
per ora!). Il titolo (Fanfare) può sembrare pretenzioso, vi assicuro come
risponda pienamente a questa notevole ‘parata’ o rappresentazione
musicale specifica. Mr. Wilson dispensa copiosamente le grandi qualità
di cui dispone, incredibile polistrumentista: chitarre, basso, percussioni,
tastiere, vibrafono... oddio quanti, il suono (e che suono!), viaggia su
coordinate neo-hippie e/o West Coast revival, come dire: music from
the late sixties!
Concedetevi una pausa, come recitava lo spot di un famoso amaro
“contro il logorio della vita moderna”, staccate il telefono e, per 78 mi-
nuti e 40 secondi, ascoltate gente, ascoltate! Fanfare (title track), mostra
subito lo stile del CD: i tasti dello Steinway introducono il cantato evoca-
tivo, le tastiere (bentornato Mellotron!), creano la base ideale, unghiate
di sax, quasi free jazz, la concludono. Dalla 2a traccia, Dear Friend, l’asti-
cella comincia ad alzarsi, di molto: cambi di ritmo e stacchi improvvisi,
pieni e vuoti, grande lavoro di chitarre e organo nella (lunga) coda finale.
Her Hair Is Growing Long, voce e chitarra acustica appena sfiorata, la
mente vola subito al grandissimo ‘If I Could Only Remember My Name’
(se solo potessi ricordare il mio nome, solo-album di David Crosby!).
Love To Love (4), emblematico, sostenuto e melodico al contempo, voce
e musica all’unisono. Traccia n° 5: Future Vision, grande lavoro alle har-
mony vocals (J. Tillman, lo stesso Jonathan), poi parte il ritmo, sincopato,
apporto strumentale notevolissimo, pieno, non ridondante, bellissima!
Moses Pain, siamo a 6, echi di sixties, cavalcate al sole della California,
Crosby, Nash e Jackson Browne ai cori, ottimo l’organo a ‘cucire’ il tutto.
Siamo arrivati a 7, Cecil Taylor, la magia del ‘solo’ di Crosby, si ripete
(ancora, di più), ascoltare la voce di Jonathan, soffusa, melodica, sarà
anche ‘dèja vu’ ma, che
effetto, l’incanto dura 6’
e 30’’. Con Illumination, ci
prendiamo una... pausa
(diciamo così) per andare
nel Desert trip (9), song
leggera e discreta, il
‘solito’ volo under the
sky of the California,
grande effetto! Fazon (n°
10), viene annunciata da
svisate di sax, procede
poi tra stacchi, cori e
clarinetti. Dalla California
al...New Mexico (11), il
passo è breve, suggesti-
ve atmosfere di flauti, arpeggi di chitarre acustiche, cantato di grande
intensità, fantastica jam di strumenti, quasi tutte le canzoni vanno oltre
i 5/6/7 minuti ma, giuro, volano in un attimo! Nei testi delle songs, c’è
posto per l’amore (il sogno californiano non si è mai sopito), l’amore è
forte: Lovestrong (12) appunto, inizio in sordina, il brano cresce notevol-
mente, tastiere (piano e organo) in evidenza, mentre l’amore si dissolve,
lentamente, arriviamo alla conclusione di questo fantastico ‘trip’ sonoro,
song n° 13: All The Way Down, chiude degnamente il viatico di sogni,
emozioni, visioni e illusioni, l’esperienza d’ascolto è stata/sarà irripetibi-
le. Le mani fatate di Jonathan Wilson vanno in tutte le direzioni: suono
(rigorosamente) ‘analogico’, produzione, editing, mixing impeccabili,
ancora una curiosità, dal ‘colto’ riferimento della cover, alla foto (4a di
copertina) del digipack, aprite lo stesso e...guardate che immagine,
voglio sollecitare la vs. curiosità!
Voto: 8 pieno!
PS: unico rammarico, vista la qualità della registrazione, avrei dovuto
acquistare la vinyl version in luogo del CD, pazienza! n
n.95
Write about... the records!
diMaurizio Carbone [email protected]
Fanfare Jonathan Wilson format: cd - 2012label: downtown recordsdistributors: red distribution/bella union/self distr. (italy)
La categoria dei Disturbi evolutivi
Specifici di Apprendimento viene
convenzionalmente identificata
con l’acronimo DSA. Con il termine
Disturbi evolutivi Specifici di Apprendi-
mento ci si riferisce ai solo disturbi delle
abilità scolastiche e, in particolare a:
• Disturbodellalettura(Dislessia)
• Disturbodellascrittura(Disortogra-
fia, Disgrafia)
• Disturbodelcalcolo(Discalculia)
La principale caratteristica di definizione di questa “categoria noso-
grafica” è quella della specificità, intesa come disturbo che interessa
uno specifico dominio di abilità in modo significativo ma circoscritto,
lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale.
In questo senso il principale criterio necessario per stabilire la diagnosi
di DSA è quello della “discrepanza” tra abilità nel dominio specifico
interessato (deficitaria in rapporto alle attese per l’età e/o la classe
frequentata) e l’intelligenza generale (adeguata per l’età cronologica).
La disgrafia, di cui ci occuperemo in maniera molto sintetica, è un
disturbo specifico dell’apprendimento (DSA), non dovuto a deficit intel-
lettivi o neurologici. Si tratta di una difficoltà della scrittura, in particolare
nella riproduzione di segni alfabetici e numerici.
La disgrafia emerge nei bambini quando la scrittura inizia la sua fase di
personalizzazione, indicativamente intorno alla terza elementare. Viene
individuata solitamente dagli insegnanti in quanto si manifesta con scar-
sa leggibilità della scrittura, lentezza e stentatezza, disorganizzazione
delle forme e degli spazi grafici, scarso controllo del gesto, confusione e
disarmonia, rigidità ed eccessiva accuratezza, difficoltà nell’atto scritto-
rio in presenza di crampi o dolori muscolari.
La disgrafia tende a peggiorare nel tempo se non viene individuata e
incide negativamente sul rendimento scolastico, portando il bambino
che ne è affetto a scoraggiarsi e demotivarsi.
Gli aspetti generalmente condivisi circa il Disturbo della Scrittura, riguar-
dano la sua suddivisione in due componenti: una di natura linguistica
(deficit nei processi di cifratura) e una di natura motoria (deficit nei pro-
cessi di realizzazione grafica). La disortografia, invece, consiste nella
difficoltà a tradurre correttamente i suoni che compongono le parole, in
simboli grafici.
Disgrafia a Scuola.
La mano dei bambini disgrafici scorre con fatica sul piano di scrittura
e l’impugnatura della penna è spesso scorretta, molte volte il bambino
Scuola20n.95
La disgrafia
diMaria Gabriella Del Papa [email protected]
Disturbi specifici di apprendimento (DSA): un’emergenza educativa
non rispetta i margini del foglio e lascia spazi irregolari tra i grafemi e tra
le parole. La pressione della mano sul foglio non è adeguatamente rego-
lata: a volte è troppo forte e il segno lascia un’impronta marcata anche
nelle pagine seguenti del quaderno, talvolta è troppo debole. Il tono
muscolare è spesso irrigidito o, al contrario eccessivamente rilasciato.
Il bambino disgrafico presenta difficoltà notevoli anche nella copia e
nella produzione autonoma di figure geometriche e spesso il livello di
disegno è inadeguato all’età. Nella copia delle immagini i particolari
sono quasi assenti. La copia di parole e di frasi è scorretta e copiare
dalla lavagna è ancora più difficile, in quanto il bambino deve portare
avanti più compiti contemporaneamente: distinzione della parola dallo
sfondo, spostamento dello sguardo dalla lavagna al foglio, riproduzione
dei grafemi.
Spesso i bambini disgrafici faticano a capire la propria scrittura, per que-
sto difficilmente individuano gli errori anche in un secondo momento di
verifica.
La disgrafia è, infatti, definita un’anomalia del movimento corsivo e
della condotta del tratto che si traduce in difficoltà di coordinamento,
irregolarità delle spaziature, malformazioni e discordanze di ogni tipo
associate ad un tratto di pessima qualità.
Come si fa la diagnosi?
L’accertamento diagnostico di uno specifico disturbo evolutivo dell’ap-
prendimento avviene in
due distinte fasi, rispet-
tivamente finalizzate
all’esame dei criteri
diagnostici prima di
inclusione e successi-
vamente di esclusione.
Nella prima fase si
somministrano, insie-
me alla valutazione
del livello intellettivo,
quelle prove necessarie per l’accertamento di un disturbo delle abilità
comprese nei DSA. Nella seconda fase vengono disposte quelle indagini
cliniche necessarie per la conferma diagnostica mediante l’esclusione
della presenza di patologie o anomalie sensoriali, neurologiche, cogniti-
ve e di gravi psicopatologie.
Rieducazione.
La disgrafia può essere risolta rieducando il bambino attraverso un
intervento personalizzato.
Gli interventi sono generalmente suddivisi in due itinerari che si concen-
trano sulle competenze di base e su quelle specifiche per la scrittura.
Le abilità di base coinvolte sono la coordinazione nel movimento,
l’orientamento e l’organizzazione spazio-temporale, la coordinazione
oculo-manuale, la consapevolezza dello schema corporeo, la memoria
sequenziale, il linguaggio, il senso del ritmo (in genere immaturo), il
processo di simbolizzazione (rallentato), la capacità di discriminazione
suoni-segni.
Prevenire la Disgrafia.
E’ possibile prevenire questo disturbo durante la scuola dell’infanzia,
attraverso l’esame della grafomotricità e la proposta di esercizi e attività
ludiche preparatorie al gesto grafico, nonché durante il primo ciclo della
primaria attraverso un’adeguata modalità di insegnamento e consolida-
mento della scrittura. n
N el diritto penale vigente, per “Grazia” si intende un atto di
clemenza individuale, che viene concesso dal Presidente della
Repubblica (art. 87 comma 11 della Costituzione) e controfirmato
dal Ministro della Giustizia (art. 89 Cost.).
Presupposto della Grazia è il passaggio in giudicato della sentenza di
condanna, mentre la sua funzione, secondo i giuristi, sarebbe quello di
correggere eventuali errori od asprezze in cui fossero incorsi i magistrati,
sempre però entro limiti derivanti da circostanze sconosciute nel corso
dei dibattimenti ma verificatesi nel corso della espiazione della pena e
tali da essere ritenute favorevoli per il condannato, meritevole della cle-
menza. La Grazia può esere concessa su domanda del condannato, di un
suo congiunto o da chi ne esercita la tutela ovvero da un avvocato; non è
escluso il convivente, e sempre su proposta del Presidente del Consiglio
di disciplina (art. 681 c.p.p.).
Nulla vieta che la Grazia possa essere concessa “motu proprio” dal Pre-
sidente della Repubblica, cioè sostanzialmente, in assenza di domanda
o proposta, d’ufficio (art. 681 c.p.p. comma 4) ad iniziativa dello stesso
Presidente della Repubblica o del Ministro della Giustizia.
Essa prescinde dal consenso dell’interessato. È chiaro che è prevista una
fase istruttoria che ha i caratteri della non giurisdizionalità, con acquisizio-
ne di elementi di giudizio a sostegno della decisione.
In conseguenza di ciò, la domanda del detenuto o internato deve essere
21Dura Lex Sed Lex
diAlfioScandurra
Per... “Grazia”del Presidente
n.95
presentata al magistrato di sorveglianza, il quale svolge una breve
acquisizione di elementi utili ad illustrare la posizione dell’aspirante
graziato, trasmettendo il tutto con osservazioni o quant’altro al ministro
della Giustizia, non prima però di avere ricevuto il giudizio del Procuratore
generale presso la Corte d’Appello del distretto ove ha sede il Giudice
cosidetto dell’esecuzione.
Viceversa, se il condannato (si è già detto che il presupposto è la sen-
tenza passata in giudicato) non è detenuto o internato, la domanda deve
essere presentata al Procuratore Generale del distretto di Corte d’Appello
il quale, acquisiti tutti gli elementi di giudizio ed utili informazioni, la tra-
smette al Ministro competente per l’eventuale proposta.
Il provvedimento di clemenza può essere sottoposto a condizioni (artt.
681 comma 5 e 672 comma 5 c.p.p.), che possono essere:
1. revoca dell’atto di clemenza se entro 5 anni viene commesso un
reato doloso (10 anni per ergastolani);
2. risarcimento alla persona offesa dal reato (con sentenza civile);
3. divieto (eventuale) di soggiorno in determinato luogo;
4. eventuale versamento di una somma di denaro alla Cassa delle
Ammende.
Altre condizioni possono essere aggiunte a quelle sopra elencate.
Il provvedimento di grazia può riguardare sia la pena principale che quella
accessoria, sia la riduzione della pena principale sia la commutazione
della pena.
È da sottolineare che la Corte Costituzionale, chiamata a dirimere un con-
flitto di attribuzione tra ipoteri dello Stato, ha confermato con sentenza il
potere esclusivo del Presidente della Repubblica di concedere la grazia,
lasciando al Ministro della Giustizia solo il diritto di esprimere ragioni
negative alla concessione del provvedimento.
Resta da dire, ma certo queste brevi note non esauriscono il panorama
giuridico del provvedimento di cui si è trattato, che la grazia si differenzia
dall’indulto o dall’amnistia in quanto quest’ultimi si applicano ad una de-
terminata categoria di persone condannate o di reati, mentre la grazia è
un provvedimento individuale in quanto si riferisce ad un singolo soggetto
che si trovi in certe condizioni. n
Grande appuntamento per celebrare i 70
anni del CSI (Centro Sportivo Italiano).
Il Santo Padre, Papa Francesco, in Piazza
San Pietro a Roma accoglierà il 7 Giugno pros-
simo tutte le società sportive affiliate e non, in
un incontro che si preannuncia evento sporti-
vo dell’anno. L’opportunità è data dal Comitato
Regionale del CSI che, grazie alla collaborazione
dei Comitati Territoriali, coordinerà la visita
delle società della regione. Sarà un momento di
grande partecipazione e gioia da dividere con
il Pontefice. Le società interessate potranno
usufruire di pullman messi a disposizione dal
Comitato Regionale del CSI che partiranno da
ogni territorio della Regione. Per sopperire alle
spese organizzative, è stato stabilito un contri-
buto a persona di 25,00 euro che comprende
anche la consegna di gadget a ciascun parteci-
pante. Le prenotazioni, dei gruppi o dei singoli
atleti, potranno essere effettuate attraverso
un’area accessibile sul sito istituzionale www.
csiabruzzo.it fino al raggiungimento dei posti di-
sponibili. Il CSI invita tutti gli sportivi a prendere
parte all’evento del 7 Giugno per non mancare
all’appuntamento più importante dell’anno. n
Notizie da CSI
Il CSI compie 70 anniL’abbraccio di Papa Francesco
Un tempo le agende che regalavano le
banche o le assicurazioni conservava-
no un che di speciale. Già solo perché
le possedevi potevi ritenerti una
sorta di eletto dinanzi ai tuoi amici, colleghi,
che continuavano ad annotare qualcosa di
sbrigativo e falsamente importante in taccuini
e semplici quaderni. Erano foderate in tessuto
beige, con i fusi orari, le diverse unità di misu-
re e le famose distanze chilometriche mai usa-
te da nessuno se non per capire quanta strada
avresti dovuto percorrere, non per essere
chiamato man, come cantava a quei tempi
Bob Dylan, ma per raggiungere idealmente la
Marisa conosciuta l’estate prima al mare o al
campeggio. Nel 1979 il presidente di quella
Cassa di risparmio della Provincia di Teramo,
quando le banche erano amiche del cittadino
e non finanziavano amici dubbi che poi non ti ridavano i soldi, era
Carino Gambacorta.
E nell’ultima pagina, sulla copertina interna, resiste ancora al tempo
quel lunedì con le ore segnate di biro rossa di Religione, Storia, Fran-
cese, Filosofia e Matematica. Ma nessuna ti poteva strizzare l’occhio
come quella quinta ora di sabato, complice e liberatoria. Le mappe
stradali delle città italiane per la maggior parte strappate e ripiegate
nella tasca dei miei Jean’s West sono state a spasso per le strade
dello stivale e per l’Europa: sono rimaste intonse quelle di Cagliari,
Palermo, Bari e Napoli, la Penisola lusitana e la Grecia.
La rubrica di un ragazzo ha pochi indirizzi. In quel 1976 campeggia-
va appena oltre la copertina il “remember when you were young,
you shine like the sun”, l’incipit generazionale dei Pink Floyd. Alla
terza facciata frizzi e lazzi di una molle mattinata di scuola assolata
respirata dentro le grandi vetrate: Per uscire dalla crisi abolire le
strisce pedonali (aumentano gli investimenti) e subito dopo la top
ten, scritta a penna, con Ancora tu di Lucio Battisti, Santana di
Santana, Bufalo Bill di Francesco De Gregori, Fragile degli Yes, Desirè
di Bob Dylan, Automobili di Lucio Dalla, e così via, in vinili larghi come
pneumatici di un Suv di oggi rumorosi come un soffritto sul gas. Non
avevi il tempo di distrarti un po’, di abbandonare l’agenda della tua
banca preferita sul banco, che ti ritrovavi pagine pagine infarcite
di ghirigori fallici di diverse forme e gamme: i cosiddetti virzilli, che
spesso assumevano forme surreali, dal momento che per mimetiz-
zarli si cercavano di correggerli dandogli altre forme, come si fa ora
con i brutti tatuaggi. Smell it like it is era il motivo di allora che dalla
Florida o dalla California andava per la maggiore. Nella pagina del
3 gennaio notoriamente giorno di festa appare la formazione della
scuola, con Tarquini in porta e Francioni centravanti.
Non ci può essere una crisi la settimana prossima, la mia agenda è
già piena, scriveva Henry Kissinger. E a seguire il suo aforisma penso
che di guerre almeno qui da noi non ce ne saranno più. Perché
vi chiederete? Semplice, quei meravigliosi fogli color seppia da
riempire con i grandi numeri e nomi di santi in alto sono spariti dalla
circolazione, la crisi che doveva essere solo dei
derivati li ha spazzati via in un solo colpo. Poff.
Vi sfido a trovare una banca, un’assicurazione,
una comunità montana, un Bim, che a fine
anno regali in maniera spropositata agende e
calendari come un tempo. Nada. Nada de nada.
Solo su pressioni reiterate, minacce vaghe
o abbozzo di mobbing, potreste trovare un
dirigente, un colletto bianco, un impiegato,
che magnanimamente vi possa porgere una
busta bianca di carta in cui sono riposti agende,
agendine, calendari, penne e altre prelibatezze,
relegate in qualche scaffale dell’ufficio con un
post-it che reca la scritta solo in casi eccezio-
nali e ai parenti del cda. Nella spending review
di questi enti la voce regalie è stata definitiva-
mente cassata. Oggi le agende non te le regala
più nessuno: chi le vuole se le deve andare
a comprare in cartoleria, pagandole cifre tutt’al-
tro che simboliche: otto euro e cinquanta per
una mini tascabile con pennina a supporto.
Tanto che su internet stanno fiorendo siti che propongono calendari,
ed anche agende, a 19,90 euro, incalzati da vicini da fotografi che
appendono in modelli personalizzati con bambini e cani.
“A me è successo con i calendari: quando svolgevo la mia attività,
potevo privilegiarmi di un calendario in ogni stanza, compreso il ba-
gno. E tutti regalati” ci racconta un professionista, entusiasta come
se stesse parlando di un’altra era dell’oro. Le agende, ad ogni buon
conto, non servono tanto a ricordarti quel che devi fare piuttosto a
tenerti compagnia. Almeno nella maggioranza dei casi.
Ci infili foglie secche, bigliettini che non riprenderai mai più in mano,
formazioni di calcio, parole al vento, numeri di telefono che poi non
ricordi più di chi. Ma loro se ne sono accorti: agenzie di assicurazioni,
filiali di banche.
Tanto per cambiare hanno capito che era ora si spezzare i sogni
quotidiani degli Italiani. Ciao mia cara agenda.
Mi mancherai. n
Ex consuetudini22n.95
Calendari e agende in omaggio
diMaurizioDi Biagio www.mauriziodibiagio.blogspot.com
oggi sono diventate rarità
(trading on line)
Arco Consumatori informa
diMassimoDi Giacomantonio [email protected]
Obblighi degli istituti di creditonei contrattia distanza
A i sensi dell’art 50 del codice del consumo, per contratto a di-
stanza si intende un contratto, avente per oggetto beni o servizi,
stipulato tra un professionista e un consumatore nell’ambito di
un sistema di vendita o di prestazione di servizi a distanza, orga-
nizzato dal professionista che, per tale contratto, impiega esclusivamen-
te una o più tecniche di comunicazione a distanza fino alla conclusione
del contratto, compresa la conclusione del contratto stesso.
Ebbene, la commercializzazione, la promozione e il collocamento via
internet di servizi e prodotti finanziari da parte di istituti di credito costi-
tuiscono chiari esempi di contratti negoziati a distanza.
Il codice del consumo individua una serie di obblighi di informazione che
23n.95
Il rosario moderno è diviso in quindici grup-
pi di dieci grani; ogni decade è preceduta
da un Paternoster e seguita da un Gloria.
La sequenza delle preghiere si articola
intorno a tre diversi temi detti “Misteri “,
corrispondenti a una serie di eventi della vita
di Cristo e della Vergine.
Espressione peculiare del culto della Vergine,
il rosario raggiunse una popolarità indiscussa
nel XV secolo e rappresenta simbolicamente
il giardino di mistiche rose alla Madonna
riferito.
Il rosario è simbolo dei pellegrini e come tale
era spesso realizzato in umili materiali, talora
tuttavia diveniva un vero e proprio gioiello in
oro e pietre preziose.
Come oggetto devozionale esso era consi-
derato un efficace amuleto contro il maligno,
così in epoca rinascimentale veniva comune-
mente indossato.
Il rosario era fra gli accessori caratteristi-
ci dell’abbigliamento della gentildonna
del tardo Rinascimento. Come tale esso
è documentato nei ritratti dal XV al XVII
secolo, oltre a comparire spesso nelle opere
a soggetto sacro sia in modo generico che
come attributo specifico di San Domenico e
di Santa Caterina da Siena.
È l’arte orafa italiana che riscopre, oggi,
attraverso l’oro, l’argento e le gemme prezio-
se, questo splendido oggetto di devozione
e lo riporta alla ribalta, nelle vetrine delle
migliori gioiellerie. Un rinnovato interesse all’
insegna del rispetto per il sacro e del buon
gusto inevitabilmente italiano. n
Il Rosario
L’oggetto del desideriodi Carmine Goderecci
di Oro e Argento
Tra Moda e Devozione
gli istituti di credito, fornitori del servizio o del prodotto, sono tenuti ad
osservare all’inizio e nello svolgimento del rapporto contrattuale con il
consumatore.
Secondo l’art 67 sexies del Codice del Consumo, l’istituto professionista
deve informare il consumatore delle principali caratteristiche del servizio
finanziario; del prezzo totale che il consumatore dovrà corrispondere
al fornitore per il servizio finanziario, compresi tutti i relativi oneri, com-
missioni e spese e tutte le imposte
versate tramite il fornitore o, se non
e’ possibile indicare il prezzo esatto,
la base di calcolo del prezzo, che
consenta al consumatore di verifica-
re quest’ultimo.
Inoltre, l’istituto dovrà rendere un
avviso indicante che il servizio finan-
ziario è in rapporto con strumenti
che implicano particolari rischi dovuti
a loro specifiche caratteristiche o
alle operazioni da effettuare, o il cui
prezzo dipenda dalle fluttuazioni dei mercati finanziari su cui il fornitore
non esercita alcuna influenza, e che i risultati ottenuti in passato non
costituiscono elementi indicativi riguardo ai risultati futuri.
Ulteriori importanti e necessarie informazioni dovranno anche riguardare
l’indicazione dell’eventuale esistenza di altre imposte e costi non versati
tramite il fornitore o non fatturati da quest’ultimo; il limite del perio-
do durante il quale sono valide le informazioni fornite; le modalità di
pagamento e di esecuzione, nonché le caratteristiche essenziali delle
condizioni di sicurezza delle operazioni di pagamento da effettuarsi
nell’ambito dei contratti a distanza; qualsiasi costo specifico aggiuntivo
per il consumatore relativo all’utilizzazione della tecnica di comunicazio-
ne a distanza, se addebitato; l’indicazione dell’esistenza di collegamenti
o connessioni con altri servizi. n
In giro24diSergioScacchia paesaggioteramano.blogspot.it
n.93
La Teramo che non conosciamo
Dal prossimo numero Sergio non ci delizierà più con i suoi scritti e
con le sue straordinarie foto che da sole avrebbero potuto par-
lare dei luoghi che negli anni ha descritto con efficacia a noi ed
ai nostri lettori. È una decisione che noi rispettiamo fino in fondo
augurandogli, come lui ha fatto a noi una Buona Vita. Grazie Sergio!!!
Un particolare ringraziamento dal profondo del cuore alla Redazione di
Teramani per avermi ospitato nella rivista con articoli sul territorio. Un
grazie ancora più grande ai miei lettori di questo lunghi anni. Dal 2014
ho deciso di saltare all’altra sponda: da scrittore a lettore. Concludo,
dopo oltre 30 anni in cui ho esplorato ogni tipo di comunicazione, dalla
Tv alla radio e infine ai giornali, riviste e libri, la mia attività di reporter.
C’è un tempo per tutto e il mio tempo, ormai limitato data l’età che
incombe, lo voglio dedicare allo
studio e alla meditazione di Dio.
Mi lascerò la finestra aperta del
mio Blog per i momenti in cui
la nostalgia sarà insopportabile.
Buona vita a tutti.
Sergio.
Una Teramo ipogea, under-
ground.
Una Teramo invisibile, silenziosa.
Un inusuale museo naturale sot-
to le viscere di una città vivente
a imperitura testimonianza della
sua nascita.
Un’ipotesi affascinante, coinvol-
gente.
Teramo città millenaria sospesa
quasi per magia tra cielo e terra,
che svela un aspetto che la renderebbe unica ed eccezionale: un dedalo
di grotte nascosto nell’oscurità silenziosa del sottoterra del centro
storico.
Si tratterebbe di antiche vie, ripari dai bombardamenti in tempo di
guerra, fiumi sotterranei, ghiacciaie, cripte, persino labirinti che nascon-
derebbero mitici tesori.
Sotto la nostra città si celerebbe per alcuni, un mondo “parallelo”, non
facile da visitare, ma affascinante e misterioso.
Una vita sotterranea a pochi passi dalla superficie; un mondo fatto di
dedali e anfratti celati per anni agli occhi dell’uomo moderno.
D’altronde, alzi la mano chi è al corrente che sotto Milano corre una
fitta rete di canali, coperti per fare spazio alla città “di sopra”? Messi
tutti in fila, formerebbero un tunnel lungo almeno 200 km.
Oppure che a Palermo c’è una rete di acquedotti costruiti con antichis-
sime tecniche persiane?
O ancora, che nel cuore di Napoli si trova il cimitero delle fontanelle,
creato nelle cave del rione Sanità in seguito alle epidemie che colpirono
la città a partire dal ’600?
Infine sapete forse che esiste un dedalo sotterraneo nella vicina Atri,
città d’arte teramana?
Il tutto a rendere l’antica “Petrut” un capolavoro millenario sospeso
quasi per magia tra cielo e terra.
Forse è un sogno dilatato dal mio amore per la città di Teramo che
Un viaggio attraverso paesaggi di muri scalcinati, di ombre, in una città che cambia, ingloba e distrugge luoghi e ricordi.
25n.93
vorrei più bella delle altre.
Perché non sognare un dedalo di grotte na-
scoste nelle oscurità di un tortuoso percorso
sotterraneo che corre parallelo al centro
storico? Per molto tempo si è sussurrato
dell’esistenza di una galleria che si diparte dal
Duomo per arrivare fino al fiume.
In effetti, un cunicolo fu rinvenuto, anni fa,
durante i lavori di restauro della Cattedrale.
Allora, personaggi illustri, come il prof. Sandro
Melarangelo, ebbero modo di visitare parte
della galleria che passerebbe sotto Piazza
Martiri, quando in quello slargo furono fatti
i lavori per la sistemazione della pavimenta-
zione.
Era il lontano 1984, l’anno prima della visita
in città di Karol Wojtyla che dedicò il suo
52 esimo viaggio apostolico alla nostra città.
In quell’occasione si ebbe modo di osservare
l’angusto cunicolo che, partito dal Duomo,
circa a metà piazza si diramava: un ramo pro-
seguiva verso i Portici di Fumo in direzione
Sant’Agostino mentre l’altro proseguiva
verso il Palazzo della Sanità di via Oberdan.
S’ipotizzò che fossero vie di fuga, quando an-
ticamente la città e i suoi abitanti dovevano
guardarsi da agguerriti nemici.
Alla luce della notizia della galleria rinvenuta
sotto il presbiterio, non sembrò azzardo cre-
dere all’ipotesi che un succedersi di cunicoli,
apparentemente senza fine, potessero, in
epoche lontane, unire più chiese attraverso
scale, passaggi inattesi, stanze sovrapposte
sulle cui pareti, magari, si può leggere oggi,
in mille e mille piccole nicchie, la secolare
avventura di una piccola città eterna.
Ricordo che il Melarangelo suggerì di rendere
visibile la galleria mediante una finestra rica-
vata nel sottopassaggio che esiste in piazza
(dove attualmente insistono dei negozi).
Sarebbero bastati un vetro e una discreta illu-
minazione della prima parte della grotta per
far conoscere al mondo l’esistenza di questi
passaggi sotterranei.
Echi misteriosi e affascinanti che raccontano
storie millenarie mentre, dalle umide ombre
affiorano i fantasmi della città romana e
medioevale.
Il cunicolo non sarebbe l’unico nel cuore
di Teramo. Un’altra galleria partirebbe dal
santuario della Madonna delle Grazie. Il suo
inizio si celerebbe sotto gli scavi del vecchio
parcheggio tra gli alberi dove, da piccolo, chi
vi scrive giocava a pallone la domenica in
interminabili sfide tra i quartieri Torre Bruciata
e Porta Madonna. Questo cunicolo addirittura
collegherebbe la piazza con l’antica e affa-
scinante “fonte della Noce” di cui, racconti di
streghe e fattucchiere, ha permeato di misteri
le sue acque.
L’amico Lucio De Marcellis, entrando nei
meandri della storia, mi ricordò tempo fa che
una sua parente raccontò di una grotta celata
nella cantina di casa nei pressi del vecchio
stadio Comunale, dalla quale partiva una
galleria in direzione dell’anfiteatro di Teramo.
Il passaggio fu murato per evitare incidenti .
Credo che il tuffo nelle viscere di Teramo,
tra piccoli tesori ipogei da scoprire, sarebbe
se possibile, un buon veicolo turistico. Basti
pensare all’underground di Orvieto, vero
catalizzatore di presenze in città.
Se la Sovrintendenza squarciasse la sorta di
omertà culturale cui è tenuta, forse avremmo
un insolito spaccato della vita millenaria
della capitale dei Pretuzi e degli usi di cavità
sotterranee.
Un patrimonio di testimonianze riemergereb-
bero in un intreccio tra sopra e sotto terra, tra
interno ed esterno. n
Si chiama Mille Soleils, come fosse una teofania esagerata invece
che un tornado atomico, ma il sole, unico, tramonta già prima dei
titoli dei testa. Sul mare azzurro, il canale oltre il quale altre terre,
un nuovo mondo, ammaliano come sirene. A Dakar, vedere quelle
acque risolutrici, scorte dal finestrino di un tassì in corsa, sa di carne,
sangue e pianto, di desiderio e rabbia indomiti. Mati Diop omaggia lo
zio Djibril Diop Mambéty (1945-1998), il più grande cineasta senega-
lese (o forse africano), proseguendo il formidabile viaggio-trip del suo
Touki Bouki (1973), storia dolente e ridente, da jena, di un’emigrazione
a metà. La protagonista femminile, Anta, cioè Mareme Niang, una
delle presenze femminili più conturbanti e anticipatrici della storia del
cinema, riusciva a prendere la nave che l’avrebbe portata in Francia, al
contrario del suo ragazzo Mory, Magaye Niang, che arretrava all’ultimo
istante. Trattenuto dalla visione vuota del mu e quindi preso dal blues
mambetiano, cifra stilistica ricorrente. Immagine-disincanto distillata da
un plot preparatorio di viaggi ulteriori, verso la morte simbolica, quando
non addirittura morte vera: rito esemplificato in Hyènes (1992), anomalo
sequel di quel capolavoro. Da Dürrenmatt, musica del fratello Wasis
Diop, rockstar africana, il papà di Mati.
Che dedica il suo film alla madre francese, svelando l’intimità raccolta e
métisse del lavoro, già delineatasi nei precedenti, fulminanti, corti, tutti
basati su identità fluttuanti e miste, in between persino sessualmente (il
Cinema
quasi autobiografico Snow Canon, 2011, bizzarra e semi-inespressa love
story di frammenti pop tra lolita francese e baby-sitter americana, con
inaspettato e perturbante bacio in bocca finale). La giovane autrice (31
anni) ha saputo assorbire pure la lezione irrequieta e ipnotica di Claire
Denis, altra ambasciatrice di liasons miste e forme-cinema sontuose
e spiazzanti, davanti alla cui macchina da presa ha esordito come
attrice (35 rhums, 2008, dove era la figlia di Alex Descas). Dichiara di
aver scoperto le radici africane non da parte del padre, troppo distratto
dalla Francia, piuttosto dal cinema a strati plurimi e subtestuali dello zio
genio, appena conosciuto da piccola.
Mille Soleils, quindici anni dopo la morte di Mambéty, quaranta dopo
Touki Bouki, è un ingegnoso, ruvido, poetico e sognante documentario
finto, un’estensione più articolata del precedente Atlantiques (2009),
che zoomava sull’ossessione di emigrare da parte dei senegalesi. Una
mania che lo zio considerava abbruttente, un’altra trappola schiavi-
sta. Se in tempi di
globalizzazione, quel
desiderio attana-
glia ormai ciascun
abitante del pianeta,
ognuno desideroso
di fuggire dal mondo,
il mediometraggio
(45 minuti) della Diop
perlustra e rivive, a
molteplici livelli di
lettura, un sogno
perduto (nei ’70) che
oggi si rivela dappertutto ancor più disilluso. Colpisce che il concetto
lacerante venga espresso senza alcuna rassegnazione. Ogni immagine
trasuda furia e lucidità, mai soffocate dallo stupore di chi sembra filma-
re le cose per la prima volta. È un’opera che incanta e ipnotizza, senza
comunque sedurre per sedurre.
Apre con gli zebù di Touki Bouki, mentre attraversano il paesaggio
urbano, come le pecore milanesi de L’ultimo pastore (2012) di Marco
Bonfanti. La nostalgia di un mondo perduto è ricompresa all’interno di
un contesto bigger than life. Lo attesta la musica di Dimitri Tiomkin, The
Ballad of High Noon, la passione di Djibril, il cui sogno era un impossibile
remake africano di Mezzogiorno di fuoco (1952). Presente qualcosa del
western in tutti i suoi film, a cominciare dalle cavalcate baby di Badou
Boy (1970) o della scena d’apertura di Touki Bouki, con il pastorello Mory
sullo zebù. Animale divenuto, qualche fotogramma dopo, splendente
moto-appendice-cyborg, prefigurazione dei futuri innesti uomo/macchi-
na, di Vroom Vroom Vroom (1995) di Melvin van Peebles e, soprattutto,
delle proprie, successive eroine claudicanti e metal: la cyborg vendica-
trice Ramatou di Hyènes e La petite vendeuse de soleil (1999).
Mory, o Magaye Niang (abbattuta la distinzione fiction/realtà, si pre-
suppone siano un unico personaggio), rimasto pastore, è invecchiato,
ingrigito, pur mantenendo il bel fisico asciutto di quando sognava di
scappare da Dakar per andare nella luccicante Paris Paris Paris evocata
da Josephine Baker. Subito gli è contrapposta una scena di macellazio-
ne, la stessa che, nel film del 1973, accedeva scura e violenta, opposta
alla luminosità bucolica delle prime immagini. Una specie di corri-
spettivo estetico del taglio da circoncisione o infibulazione, più vicina
a Fassbinder che non a Franju. Fa irrompere la brutalità dell’esistere,
26
I mille soli dell’avvenire
diLeonardoPersia [email protected]
n.95
Il bellissimo docu-fiction di Mati Diop
27svelando lo status permanente di vittima a
cui gli esseri umani sono condannati. Il sogno,
il cinema, la rivolta ne sono l’antidoto. Subito
dopo, alle immagini en plein air relative alla
preparazione della proiezione-evento di Touki
Bouki quarant’anni dopo, tra check-out del
microfono, schermo da sistemare e pulitura
delle sedie, segue un interno di casa Niang,
tutt’altro che da red carpet. La moglie stira
gli abiti a Mory e si preoccupa di farlo vestire
decentemente. Gli rimprovera la trasanda-
tezza («Credi di essere Johnny Halliday?»), lui
si vede che non è una star, le chiede persino
i soldi per prendere il tassì. Su una parete di
quel povero appartamento, la locandina del
film che lo ha reso famoso la si vede affissa
al rovescio, come riflessa da uno specchio.
Il sogno è capovolto. Stavolta Mory viaggia
through the looking glass, oltre lo specchio
della bruta realtà.
Infatti anche fuori si respira un’aria caotica,
precaria e violenta, un mood in genere tenuto
a bada nel cinema senegalese, pungente ep-
pur disteso. Il tassista, giovanissimo, ascolta
il rap. Mory cerca di contrattare il prezzo e
dentro l’auto avviene lo scontro generazio-
nale. «Abbassa il tuo hip-hop, mi fa male alle
orecchie» implora l’anziano. Il ragazzo gli
rinfaccia invece di non aver saputo cambiare
il mondo. «Un sistema segue l’altro e nulla
cambia… Il vostro movimento era aria fritta!».
L’uomo si fa accompagnare a casa di amici,
per potersi sbronzare con loro in uno stanzo-
ne spoglio dove fanno il nido colorati uccelli
svolazzanti. Mati Diop innesta spunti lirici in
contesti crudi, evitando il tono contemplativo.
Ogni potenziale svolazzo viene ricondotto su-
bito a terra e non c’è momento neorealistico
che non apra una porta all’oltre incantato. La
scena di Mory ubriaco, per strada, con il traf-
fico che non nasconde la desolazione di una
città che cade a pezzi, si alterna agli sguardi
di giovani e bambini rapiti dallo schermo
dove, in tutta la sua magnificenza di colore,
suono e ritmo visivo, risplende Touki Bouki.
Quando lui arriva, barcollante, dice orgoglioso
ai bimbi «Quello sono io!» e loro ovviamente
reagiscono scettici: «Svegliati! Stai sognando.
Non sei tu! ».
Conclusa la proiezione, dinanzi al pubblico,
Wasis Diop inizia a commentare l’opera del
fratello. Mory viene prelevato con la forza
da qualcuno e portato sotto lo schermo.
Gli spettatori ridono quando si parla della
bellezza (perduta) dell’attore. La luce blu del
videoproiettore lo inonda, facendo risaltare
ancor di più il volto invecchiato e stanco.
Però il blu è anche il colore della fedeltà della
costanza, delle potenze del cielo. Abbiamo
davanti l’uomo che ha rinunciato a partire, al
contrario di (quasi) tutti, confidando forse in
una lotta in loco purtroppo mancata. Adesso,
terminato l’incontro col pubblico, è il blu del
mare, in un rigurgito di nostalgia e rimpianto,
a chiamarlo di nuovo, mentre gli amici lo
trattengono dall’andare verso la spiaggia,
canzonandolo crudelmente. «Djibril voleva
che tu andassi a Hollywood, con John Wayne
e gli altri». Gli ricordano che in wolof touki
significa viaggio e invece lui è «sur place».
Anche la jena lo è, pronta a far vittime. Touki
Bouki, ovvero Il viaggio della iena, era infatti
un film statico e mosso, barocco e minimale,
ottimista e pessimista insieme. «Touki Bouki
è la mia storia. Non volevo partire e non sono
partito» si difende Mory. Tuttavia gli altri insi-
stono: «Quando Anta
parte, avresti dovuto
seguirla». Contro la
mestizia, esplodono
i fuochi d’artificio
per l’evento, gli
stessi che, in Hyènes,
rappresentavano il
carnevale incosciente
e occidentalizzato
d’Africa e che Mati
aveva ripreso nell’ex-
pédition giapponese
di Île artificielle
(2009). A proposito di
vuoto zen.
Trasferito in un night tutto in stile europeo,
dove una donna sta facendo le pulizie, Mory
sembra un griot estirpato dal suo mondo,
quando giustifica la propria sorte ad altre due
donne. «Racconto la mia storia, il mio primo
amore: Anta. Cosa andavo a fare in Francia?
Lei è partita. Io son rimasto». Una delle ragaz-
ze trova triste la vicenda, l’altra, romantica.
Chiedono perché abbia mai rinunciato a
seguirla e se lei sia ancora in vita. L’immagine
del mare, ben più minaccioso che in Touki
Bouki, fa quasi straripare lo schermo. Un’eco
nostalgica proviene dalla voce di Mado Robin,
alle prese con la malinconica romanza di
Martini, Plaisir d’amour (1785), che scandiva
le tappe oscure dell’altro film, contrapposta
all’allegria della canzonetta di Josephine
Baker.
Mory trova il coraggio di chiamare Anta, den-
tro uno scuro bazar con servizio di telefonia
internazionale. La vecchia fidanzata non lo
riconosce, chiede quasi seccata come abbia
avuto il suo numero telefonico. Adesso fa
l’agente di sicurezza in un’azienda petrolife-
n.95
ra in Alaska. «Dove ci sono gli esquimesi?»
chiede lui, consapevole della distanza. E in
pochi minuti di cinema astratto, stilizzato
e onirico, si sente, fortissima, tutta la dura
realtà dell’emigrazione forzata e di quella non
realizzata o andata a male. Spunta il mede-
simo, magico, touch ossimorico di Djibril, e
anche la sua visionarietà, quando lui, da quel
buco nero, scorge la luce della mitica moto
di Touki Bouki, cavalcata da un suo doppio
giovane, la testa avvolta dal turbante rosso.
La camera avanza lentamente verso la luce, il
sogno, la fiction più vera del deserto del reale,
sintetizzato da quel gestore scontroso che fa
cadere la linea e scaccia Mory, reo di essersi
trattenuto al telefono più di quanto consen-
tisse il suo credito. Sono brevi pennellate
di grande cinema, dove la Diop mostra un
talento ruggente. Da una scena come questa,
impensabile nelle opere dello zio (dolci anche
quando dure), viene fuori, con completezza
maggiore che in tanti lungometraggi, l’inca-
rognimento del Senegal, del mondo. Basta un
istante per capire che la iena ha vinto.
Gli occhi di Mory, in primo piano, incrociano
quelli del motociclista. Qualcosa di magico sta
per accadere. Ed eccolo tra le nevi dell’Ala-
ska, a cercare Anta. La quale appare come
una dea. Nuda, distante, quasi incorporea. E
la domanda che sorge dalle labbra («Perché
non sei tornata a casa?») ha il tono mesto di
una preghiera inaudita. Terminato il sogno ad
occhi aperti, lo sguardo dell’uomo riempie di
nuovo lo schermo. Siamo tornati in Senegal,
la musica di High Noon ci accoglie di nuovo,
per congedarci. Lo spettatore avverte molta
tristezza, un oceano di frustrazione. Eppure il
gelo si è sciolto, siamo ancora inondati dalla
luce. Anche stavolta, come in Touki Bouki,
la fine riavvolge l’inizio. Per ripeterci che la
partita non è chiusa, né la Storia è terminata.
Quando un sole annega, altri 999 restano. n
Con il nuovo anno la squadra Berretti del Teramo Calcio riparte
dalla vetta della classifica in coabitazione con l’Ascoli . Una prima
parte di campionato da incorniciare, almeno per quanto riguarda
i risultati. Nel settore giovanile il conto dei punti non è tutto visto
che subentrano altri elementi nella valutazione complessiva dell’attività
svolta. Tuttavia riveste grande importanza la qualità di giuoco espressa
in campo e le finalizzazioni spesso anche di ottimo pregio. Vittorio Cala-
brese, nel recente passato tecnico del San Nicolò Calcio in serie D, guida
la giovane pattuglia biancorossa. Dai calciatori maturi a quelli alle prime
armi, è un salto che richiede una buona dose di esperienza e di adatta-
mento, perché non è la stessa cosa gestire uomini nella piena maturità
psicofisica e calcistica rispetto ad altri che devono ancora entrare nel
vivo dello sport agonistico. Allena la seconda squadra del Teramo dalla
passata stagione e parla volentieri della esperienza maturata in questo
lasso di tempo.
“Stiamo andando molto bene” esordisce Vittorio Calabrese “con i giovani
classe 96 al cospetto
di altre squadre, Ascoli
compresa, che impiegano
prevalentemente giovani
del 95,oltre ai cosiddetti
fuori quota del 94. Essere
più giovani significa con-
cedere alle altre squadre
una maggiore prestanza
fisica che in questa cate-
goria può fare anche la dif-
ferenza. Per controbilanciare l’handicap mettiamo in campo più qualità
tecniche e maggiore organizzazione che ci permettono di riequilibrare le
sorti degli incontri e anche di ottenere qualcosa in più che va sicuramen-
te ad influire nell’economia delle prestazioni complessive”.
Il tecnico biancorosso entra nel vivo della conversazione parlando degli
obiettivi che la Società persegue nel delicato e importante settore
giovanile. “Nel gruppo che sto guidando ci sono alcuni elementi di valore
e di prospettiva. Montecchia e Di Egidio si allenano regolarmente con
la prima squadra. Altri giovani interessanti cominciano ad emergere dal
gruppo, di per se già buono quanto a qualità. Nel complesso la rosa di cui
dispongo si sta facendo rispettare per doti tecniche, tattiche e organiz-
zative. Il paziente lavoro di formazione in alcuni casi è ormai in dirittura
di arrivo apprezzato anche da mister Vivarini. Il tempo poi dirà se alcuni o
tanti dei nostri giovani saranno in grado di ben figurare nella nostra prima
squadra o in quelle di categorie superiori.”
Il lavoro di un tecnico apicale necessita di altre figure collaborative, spes-
so preziose per il lavoro di rifinitura, di base e di formazione specifica di
indirizzo verso un preciso ruolo. Da stimato e fidato giocatore del San
Nicolò quando Vittorio Calabrese guidava dalla panchina la formazione
biancazzurra, Marco Villa ora collabora con il suo ex mister. “Marco Villa
è stato scelto dalla Società per curare la tecnica di base, individuale
e di reparto. Un lavoro specifico diretto al singolo” continua il tecnico
“che durante gli allenamenti non possono fare in prima persona per
ovvi motivi. Figura importante e specifica voluta dalla Società, anche su
mia indicazione, per migliorare le qualità individuali. Oltre alla Berretti,
segue anche la squadra Allievi Nazionali. Cito anche un altro prezioso col-
laboratore Carlo Orsini, preparatore dei portieri. Il lavoro non si esaurisce
nell’insegnamento di elementi tecnici. Serve anche una preparazione
psicologica nell’insegnare alle giovani leve modestia, perseveranza e
rispetto verso gli altri facendo capire loro che è la strada giusta per
arrivare a centrare obiettivi importanti“.
La Federazione e la stessa Lega Pro incentivano l’impiego di giovani con
contributi economici ed altre forme di promozione. Da ciò ne consegue
una politica di prospettiva ben delineata verso i giovani come risorsa da
valorizzare. Non a caso le norme federali concedono facoltà alle due serie
maggiori “A e B” di elargire contributi alle Società della Lega Pro (serie
C) in conto valorizzazione di giovani promettenti che le stesse reputano
valga al pena. In virtù di tale specifico indirizzo, anche il Teramo Calcio ha
giustamente ritenuto di perseguire la politica giovanile. Ne è dimostrazio-
ne al stretta collaborazione tra i due tecnici maggiori, Viavrini e Calabrese,
nel lavoro di program-
mazione e di verifica
costante sul campo.
“Con la prima squadra
c’è un rapporto costante
e vivo” conclude Vittorio
Calabrese ”settimanal-
mente la squadra Berretti
e quella Allievi Nazionali
si reca allo stadio comu-
nale di Piano d’Accio per
una partitella amichevole in famiglia. Ciò permette di verificare se ci sono
o si intravedono elementi idonei da seguire per un eventuale inserimen-
to futuro nell’organico della prima squadra. Il rapporto con Vivarini è
continuo e molto collaborativo. Da tecnico di squadra giovanile pongo
più attenzione alla prestazione, mentre da quello di prima squadra dove
sono stato (Eccellenza e serie D) il risultato aveva la priorità”.
Un settore giovanile ben avviato qualche anno or sono, non poteva non
avere un risultato così brillante. Alcuni giovani cresciuti nel vivaio, infatti,
già sono nel giro della prima squadra e probabilmente non c’è da atten-
dere tanto per vederli sul sintetico del nuovo stadio di Piano d’Accio a
difendere i colori biancorossi. n
Calcio28n.95
diAntonio Parnanzone [email protected]
I giovani
Vittorio Calabrese
29Satira
diMimmoAttanasii [email protected]
“A che scopo viviamo, se non per essere presi in giro dal nostro prossimo e divertirci a nostra volta
alle sue spalle?”. Un piccolo aiuto per indovinare l’autore della citazione: una considerazione inconsueta del modo di vivere manifestata da Mr. Bennet nei confronti della figlia Elizabeth. Il premio per chi dovesse imbroccare la giusta risposta sarà una splendida copia a pagamento del periodico gratuito “Teramani”. Una esclusiva imperdibile. Da fare girare la testa. Volteggiare, saltellare sulle note del Waltz No.10 in B minor, Op.69 No.2 di Chopin, un’opera unica che risulterà sopportabile per la sua fuggevolezza anche agli estimatori dell’indimenticabile filastrocca naïf di “Rosina dammela”. Ma com’è possibile ascoltare musica danzandoci appresso durante la lettura di un articoletto di costume scritto su carta? Apriamo le danze, con passi rapidi in un’ininterrotta giravolta. Tra un cestino dei rifiuti divelto da poco che pare ancora di vederlo al suo posto e il manico rosso del carrello di un supermercato che affiora da uno stagno prossimo a palude. L’abbaglio onirico della Fonte della noce riporta alla memoria l’apparizione sull’altalena dello Sceicco bianco di Fellini. Una polemica dalla teramanità scontata, per una struttura realizzata per la comunità e con denaro pubblico. “Il
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parco fluviale”. Tenuto male e incustodito perché, al solito, i fondi per gestirlo a disposizione dell’amministrazione pubblica non sarebbero sufficienti. Questo l’errore di chi fa il passo più lungo della gamba. Compri la Mercedes e poi non hai i soldi per mantenerla. Non era meglio una Panda? Già detto e scritto su queste pagine sette anni fa, sul numero 29 nel novembre del 2006. Dietro le tue spalle, lettore, se ne sono accorti solo oggi. Smettila di pestarmi i piedi e fatti traspor-tare. Butta la testa all’indietro e scuoti i capelli. Sotto il gigantesco mosaico di Ferdinando Savini, una banca. Se le tessere del puzzle di Corso San Giorgio perdessero la loro compattezza cadrebbero giù tra
capo e collo sugli sprovveduti come foglie secche dagli illusori colori autunnali. D’altronde, a Teramo, non si smuove foglia che l’avvocato non voglia. Anche questo, tutto già scritto sul numero 31 nel mese di gennaio del 2007 e tu, lettore, ti stupisci delle vicissitudini non proprio confortanti che un istituto bancario sta, di questi tempi magri, attraversando con tuo periglio. Nel valzer, il casqué non è previsto. In sottofondo, facciamo finta che arrivi l’eco struggente di Carlos
Gardel. Ahi, che dolor! La caviglia. Per evitare la vista insopportabile di ciò che affiora dal manto stradale di Piazza Garibaldi, imboccheremo il sottopassaggio dalla parte degli scivoli: la mia Ginger Rogers sulla sedia a rotelle per la slogatura e io, Fred Astaire, che non so più come condurre il ballo visto che gli accessi liberi ai pedoni sono soltanto quelli con gli scalini. La mia dama, sulla scena faceva tutto quello che facevo io e per di più lo faceva all’indietro e sui tacchi alti. Adesso, la debbo portare in braccio come una gigantesca bambola con il volto arrossato nascosto fra il collo e la mia spalla. Nel trambusto del pianto di una donna umiliata dall’incapacità di chi non sa che se hai quattro buchi, due diversi dagli altri, non basta tapparli uno sì uno no per per evitare un disagio, stacco qui la musica e me la vado a sentire per conto mio. Per la Villa Comunale, non resta che fare un altro giro di valzer. Quello della piazza. n
Lezionidi pianto
Marina Abramović è un’artista di spicco
nell’ambito della performance art, una
donna dotata di grande fascino e ma-
gnetismo. Nata a Bel-
grado il 30 novembre
1946, vive da tempo a
New York sua città di
adozione. Nelle sue
attività performative
ha voluto esplorare
le relazioni tra artista
e pubblico, i limiti del
corpo e le potenzialità
della mente, inoltrandosi in un terreno estre-
mo superato grazie all’intervento del pubblico,
parte integrante della performance. Premiata
con il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del
1997, nelle sue ultime installazioni interattive
ha voluto percepire il suo corpo in rapporto
al pubblico. Nella performance “The Artist is
Present”, realizzata nel 2010 al MOMA di New
York, ha sperimentato il coinvolgimento del
pubblico in un’esperienza fisica ed emotiva.
Nella sua ultima opera ideata per il PAC di
Milano “The Abramović Method” ha riassunto
la sua storia artistica , saldando l’arte alla
vita stessa. Una performance vicina alla me-
ditazione e all’ascolto del corpo, tendente al
raggiungimento del benessere psicofisico.
Il sogno di Marina è creare sulle rive
dell’Hudson, nello Stato di New York il
“Marina Abramović Institute”, un’accademia
“bottega d’arte” per artisti contemporanei
dove condividere i segreti del suo “Abramović Method”. Un metodo in cui la performance
diventi un intreccio tra le arti e un’accademia
filosofica. n
Artedi Floriana Ferrari
Il sogno di Marina Abramovic
L a pallamano teramana non attraversa certo un buon momento. E
questo stato di cose è testimoniato da quanto sta avvenendo da
qualche tempo a questa parte. La maschile, dopo aver condotto
un buon girone di andata dove ha toccato la vetta della classifica
del suo girone e guadagnato con merito e largo anticipo le finali di Coppa
Italia che si svolgeranno a fine mese a Martinafranca, dove nel primo
turno eliminatorio sarà opposta al Fasano, una delle favorite nel torneo,
si vede costretta a rivedere i propri obiettivi. La situazione economica
generale ha pesato anche sulla Teknoelettronica che è stata costretta a
ridurre l’organico della squadra, rescindendo il contratto con i giocatori
Pagano e Lodato accasatisi rispettivamente a Fasano e Palermo. Certo è
che le assenze dei due giocatori si ripercuoteranno sull’andamento della
Sport30 dallaRedazione [email protected]
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Pallamanosquadra che ora rischia anche l’accesso
ai play off.
Una particolare attenzione merita la Artrò
– Globo – Allianz Nuova Handball Femmini-
le Teramo che non passa giornata che non
ne dica e faccia una di nuovo. Nel periodo
Natale-Epifania nei pacchi dono della
Società teramana che tanto ci aveva fatto
sperare, soprattutto dopo l’acquisizione
di tre sponsor di grosso calibro, ci ha
recapitato la novità dell’allontanamento del tecnico Franco Chionchio le
cui motivazioni restano misteriose e le modalità quanto meno curiose.
Infatti si parlava di dimissioni dell’allenatore poi rientrate nel corso di un
successivo incontro con la dirigenza. Sembra invece che, stante Franco
Chionchio all’estero con la Nazionale Maschile, lo stesso abbia ricevuto
un Sms in cui gli si comunicava che le sue dimissioni (rientrate come
detto sopra) erano state accettate. Conoscendo perfettamente Franco
Chionchio, non abbiamo motivo alcuno di dubitare delle sue affermazio-
ni, mentre altre fonti ci riferiscono che all’interno della società si agisca
in maniera confusa. Questo, per esperienze maturate nel passato, ci
consentono di affermare che tali comportamenti non favoriscono certo
il buon andamento societario e della squadra anzi, non dando la neces-
saria tranquillità, la danneggiano irreparabilmente. n
Maschile e femminile
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