TamTamDemocratico n°12

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NUMERO NOVEMBRE 2012 12 Concilio, cinquant'anni ma non li dimostra contributi di Giovanni Bianchi • Stefano Ceccanti • Fulvio De Giorgi • Severino Dianich • Guido Formigoni Giuseppe Grampa • Raniero La Valle • Martino Liva • Virgilio Melchiorre • Franco Monaco • Serena Noceti Luigi Pedrazzi • Albertina Soliani • Bartolomeo Sorge • Mario Tronti • Sergio Zavoli

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Il numero 12 di TamTamDemocratico/Novembre 2012

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NUMERO NOVEMBRE 201212

Concilio, cinquant'annima non li dimostra

contributi di Giovanni Bianchi • Stefano Ceccanti • Fulvio De Giorgi • Severino Dianich • Guido Formigoni

Giuseppe Grampa • Raniero La Valle • Martino Liva • Virgilio Melchiorre • Franco Monaco • Serena Noceti

Luigi Pedrazzi • Albertina Soliani • Bartolomeo Sorge • Mario Tronti • Sergio Zavoli

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Proprietario ed editore Partito DemocraticoSede Legale - Direzione e RedazioneVIa Sant’Andrea delle Fratte n. 16, 00187 RomaTel. 06/695321Direttore Responsabile Stefano Di TragliaRegistrazione Tribunale di Roma n.270del 20/09/2011I testi e i contenuti sono tutelati da una licenza CreativeCommons 2.5 CC BY-NC-ND 2.5 Attribuzione - Noncommerciale - Non opere derivate

COMUNICAZIONEprogetto grafico/sito internetdol - www.dol.it

4 Il Concilio nella storiadel novecentoGuido Formigoni

9 Memoria e attualitàdel ConcilioRaniero La Valle

14 I bolognesi Lercaroe Dossetti al ConcilioLuigi Pedrazzi

20 Per un nuovo illuminismo,una svolta nel pensierocristianoVirgilio Melchiorre

25 I conti aperti conil mondo modernoMario Tronti

28 Il cattolicesimotra passato e futuroFulvio De Giorgi

35 Riforma della Chiesae della politica.Due incompiuteGiovanni Bianchi

43 Domanda di laicitàSerena Noceti

49 Una Chiesa di laicinella società democraticaSeverino Dianich

55 Benedetto XVI e ladichiarazione sullalibertà religiosaStefano Ceccanti

60 Cattolici e politica oggi,nel solco del ConcilioBartolomeo Sorge

64 La donna nel ConcilioAlbertina Soliani

70 Martini, vescovodel ConcilioGiuseppe Grampa

76 La Chiesa di Martini.Più profezia, meno politicaGiuseppe Grampa

86 Il Senatore del PDSergio Zavoli intervistaMons. Loris Capovilla

90 Voci dall'interno del PD.Il viaggio I. ScalfarottoMartino Liva

ALTRI CONTRIBUTI

SOMMARIO

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FOCUS

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l concilio Vaticano II non fu solo un eventoecclesiale. Ebbe un ruolo storico complessivoche non si può sottovalutare, segnando forse ilmomento di massimo impatto della cattolicitànella storia del Novecento. Del resto, nella

tradizione, il concilio era sempre stato evento politico,oltre che ecclesiastico e liturgico, in un forte intreccio trasacro e profano, potere e spiritualità. Casomai, eccezioneera stata quella del Vaticano I, celebrato e poi interrottodrammaticamente nel 1870, nell’isolamento simbolico diuna Santa Sede ormai confinata territorialmente in pochipalazzi romani. Isolamento che alludeva a una condizionedel cattolicesimo romano sdegnosamente chiuso al restodel mondo e marginale nell’opinione corrente, come maiin passato. Già il modo in cui papa Giovanni presentò ilprogetto di convocare un nuovo evento conciliare, il 25gennaio 1959, iniziò a mutare sensibilmente il clima. A parte lanovità di una convocazione mirata semplicemente «adedificazione ed a letizia di tutto il popolo cristiano», l’ineditaapertura alla prospettiva del dialogo con i cristiani «separati»colpì molti osservatori esterni. La fase preparatoria si sviluppòpoi in modo piuttosto routinario, anche se la consultazione deivescovi del mondo fu ampia e importante. Ma l’eventoconcilio doveva colpire l’immaginario diffuso, soprattutto apartire dallo stesso carattere straordinario di un’assemblea dicirca 2400 vescovi, patriarchi e cardinali, con gli osservatoridelle altre confessioni cristiane.

Tale sensibilità si acuì quando si cominciò a percepire, dopopoche settimane di lavori, che tale assemblea non era stataconvocata per un breve dibattito rituale, per l’approvazione di

Il Concilio nella storiadel Novecento

Guido Formigoni Insegna Storia contemporanea presso l’Università Iulm di Milano

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alcuni testi preconfezionati e per un trionfale ritorno alleproprie sedi, con la benedizione papale. Il confronto apertoche si avviò con la nomina delle commissioni conciliari e ilrigetto dei primi documenti preparatori (in particolare quellosulle «fonti della rivelazione») rese chiara l’esistenza di unacattolicità in ricerca, un lavorio di idee e di sensibilità moltopiù ricco e ampio di quanto qualsiasi osservatore esternoavesse precedentemente sospettato.

Di qui a cogliere cosa si muovesse precisamente, nonsempre era facile per chi non dominasse la cultura e latradizione religiosa: la spaccatura tra i due mondi non eradel resto forse stato uno dei frutti malati della stagioneintransigente? Cultura religiosa e cultura non religiosa eranorimasti per lunghi decenni mondi reciprocamente chiusi,salvo pochissime eccezioni. Rappresentazioniapprossimative dello scontro tra progressisti e conservatoriandarono quindi insieme alla ricerca di capire meglio.Vennero così pian piano alla luce alcuni elementi cruciali incui la riflessione della Chiesa su sé stessa incrociava le attesedell’umanità contemporanea. Proprio l’evento concilio in sestesso, insomma, cambiò progressivamente la percezionedella cattolicità come corpo chiuso e immobile.

Prendeva piede nella coscienza cattolica un discorso sullastoria e sul cambiamento che era stato fino ad alloraesorcizzato, se non condannato come modernista. Lo chiarival’approccio di papa Giovanni con il famoso ricorso allametafora dell’«aggiornamento», nell’allocuzione di apertura, laGaudet mater ecclesia dell’11 ottobre 1962: se occorreva «assensofedele» a una «dottrina certa ed immutabile»,contemporaneamente il papa chiedeva di distinguere il«deposito della fede» nelle sue verità, dal «modo con il qualeesse sono annunziate». A partire da questa distinzione si aprivaun cantiere di ripensamento che aveva diverse possibilità diespressione. Uno degli aspetti più importanti di questo spaziodi ricerca fu proprio quello del ritorno alle fonti (ressourcement,si cominciò a dire in francese). Un movimento profondo diricerca nella «grande tradizione» ecclesiale poteva modificareuna parte rilevante della storia recente, troppo spessoipostatizzata nella concezione fissista di una «tradizione»ecclesiastica piuttosto angusta. Proprio su questa pista ilconcilio si cominciò a muovere con frutto, fino a farne unadelle spine dorsali del suo lavoro.

Questo cuore decisivo del concilio aveva a che fare con lastoria precedente, con lo stato di salute della Chiesa cattolica

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Prendeva piede nellacoscienza cattolicaun discorso sullastoria e sulcambiamento che erastato fino ad alloraesorcizzato, se noncondannato comemodernista.

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alla metà del secolo più denso e drammatico della storia. IlVaticano II non era stato convocato sotto l’urgenza di unacrisi impellente, per sanare una controversia, fermare unerrore, combattere una battaglia dottrinale. Anzi, il suoannuncio irruppe in una Chiesa che era complessivamentepiuttosto convinta dei suoi apparenti successi. Si era appenaparlato dei «giorni dell’onnipotenza», ben espressi nellaieraticità del pontificato pacelliano.

Proprio nell’epoca della società di massa, utilizzando conprofitto di molti dei mezzi creati dalla modernità, la chiesacattolica pareva avere avuto la capacità di rafforzarsi comeistituzione giuridicamente organizzata e sociologicamentecoesa, attorno all’autorità rafforzata del vertice papale. LaChiesa aveva affrontato la «laicizzazione» moderna con lacapacità di costruire un «contromondo» cattolico socialmentecapillare. Aveva anche affrontato, per così dire, la«secolarizzazione» come ultimo esito della modernità, sfidandole nuove religioni secolari dei totalitarismi con l’affermazionedi una eccedenza del sacro che – pur tra difficoltà e tragedie –era riuscita a passare prove non semplici (prove non ancoraconcluse, almeno nelle società comuniste dell’Est europeo).

Eppure, proprio questa solidità stava scricchiolando, al di làdella consapevolezza di molti. Molte voci profetiche e moltifiloni di ricerca teologici l’avevano messo da tempo in luce. Lenuove società del benessere ponevano la sfida alla fede intermini inediti. Il concilio quindi poteva interrogarsiampiamente sulla coscienza cristiana e sulla coscienza di chiesa,a fronte degli esiti ultimi di una parabola di resistenza e diadattamento al portato dalla storia moderna. Proprio in questadirezione, doveva aiutare il ricorso all’ampia tradizione dellastoria cristiana, prima del millennio delle dolorose separazionitra cristiani e prima addirittura della costituzione formale di una«cristianità» storica. Del resto, le sfide della laicizzazione e dellasecolarizzazione non riconducevano a memorie lontane, aquella chiesa delle origini, immersa in un mondo non cristianoe capace di far fronte a paganesimi di vario tipo?

Per esprimere il risultato di tale ricerca, fu decisiva la sceltaconciliare di utilizzare un linguaggio nuovo. Non più unlinguaggio corrusco di condanna e di precisazione dottrinale,ma un linguaggio che fu definito, forse impropriamente,«pastorale». Un linguaggio che tentava di presentare in modoarticolato, con ampi riferimenti biblici e con il ricorso ametafore e simboli, un volto comprensibile e credibile delcristianesimo. Con stile quindi positivo, propositivo, descrittivo,

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utilizzando spesso un argomentare che tentava di entrare indialogo con la mentalità corrente della modernità. Unlinguaggio che a volte non si curava nemmeno di rendereesplicito il distacco dal passato, per la volontà di esprimeresoprattutto in termini convincenti l’approdo cui si erapervenuti. Ma si poteva ben pagare questo prezzo, per giungerea mostrare un volto di Chiesa benigno e attento alle sortidell’umanità contemporanea. Senza complessi di inferiorità ocedimenti sull’essenziale, ma con un approccio critico,dialogico, di discernimento. Tale stile costituì in certo qualmodo un punto di non ritorno per il ruolo della Chiesa nellastoria. Le sensibilità personali degli uomini di Chiesa avrebberopotuto essere ancora diverse, ma dopo il concilio questo mododi presentarsi non poteva più essere revocato o annullato.

Ci sono state accuse al Vaticano II di essere stato troppodipendente da un certo «spirito del tempo», quellodell’ottimismo post-bellico della ricostruzione edell’emancipazione dei popoli non europei, dello sviluppo edel benessere. Se forse può essere osservazione adeguata perqualche passaggio più estrinseco e descrittivo della Gaudium etspes, mi pare che sia infondato farne un giudizio complessivo.Per molti aspetti, il concilio si sottrasse a una logica troppocontingente. Si pensi al peso della guerra fredda ancora forte(come gli echi della crisi di Cuba rappresentaronodrammaticamente nelle prime settimane di lavori): il concilionon sembra esserne condizionato profondamente, tanto cheleggerlo dopo il 1989 non ne riduce la freschezza. Certo, sipuò dire che la sua ottica fosse molto europea e settentrionale,in quanto la presenza delle giovani chiese del sud del mondoera ancora lontana da un protagonismo centrale. Ma si puòseriamente sostenere che i problemi della società aperta, dellademocrazia e della ricerca di affermazione della soggettività,che risultavano cruciali nelle esperienze delle società europee enordamericane, non fossero una sfida alla fede di dimensioniepocali? Non a caso, oggi anche nel mondo dei paesi emergentio nelle difficili esperienze delle metropoli del terzo mondo siincontrano sfide simili, accanto a problemi originali e specifici.

Conseguenza non banale di questo percorso fu anchel’implicita capacità di recuperare sensibilità e culture che nellachiesa si erano mosse in modo creativo e originale, sul crinaledel rapporto con la modernità, nella prima parte del secolo.Tornava nel solco vivo della coscienza ecclesiale l’esperienza dipersone che erano incorse in sospetti di eresia nella lungabattaglia antimodernista, si erano sentite poco sostenuti nella

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Ci sono state accuseal Vaticano II diessere stato troppodipendente da uncerto «spirito deltempo», quellodell’ottimismo post-bellico dellaricostruzione edell’emancipazionedei popoli noneuropei.

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propria coscienza di laici cristiani impegnati nella costruzionedella democrazia, avevano aperto filoni di ricerca nel campobiblico, storico, filosofico. Un ruolo non modesto, quellodell’evento conciliare, in questo allargamento di visione.

La storia della seconda metà del Novecento ha visto uncomplesso percorso di recezione e appropriazione di questenovità, ha visto fughe in avanti e ricorrenti tentazioni diarrestare il percorso di ritorno alle fonti e quindi anche dirinnovamento. Ma il segno del concilio è rimasto forte e vivo.Un mutamento definitivo dell’autocoscienza ecclesiale si ècollegato a una nuova immagine del cattolicesimo, da cui èdifficile ormai prescindere. Proprio quando la Chiesaabbandonava il linguaggio della superiorità nella e sulla società,si scopriva al centro dell’attenzione e capace di mettere le basidi una influenza nuova. Non a caso il Vaticano II è statodefinito «la grande grazia di questo secolo» nel «messaggio alpopolo di Dio» del Sinodo straordinario del 1985.

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icordare il Concilio non vuol dire farne lacelebrazione. Questo non serve a nulla.Ricordare il Concilio vuol dire ritrovarnel’attualità, la presenza, la vitalità, quello cheancora oggi esso può dire, della Chiesa, di noi,

del nostro futuro, della salvezza, della fede. Non si tratta diuna memoria archivistica, è una memoria vivente, unamemoria attualizzante, trasformatrice.

La memoria del resto ha avuto una parte rilevante nelConcilio. Tutti i venti Concili precedenti sono statirichiamati, resi presenti, e il Vaticano II ne ha come fatto laricapitolazione, l’ermeneutica, l’esegesi: dal contenutofondamentale della fede cristologica e trinitaria dei Concilidi Nicea, di Efeso, di Calcedonia, con la decisiva aggiuntache con l’incarnazione “il Figlio di Dio si è unito in certomodo ad ogni uomo”, al risanamento della controversiasulla “sola Scriptura” del Concilio di Trento, alla giustainterpretazione del Vaticano I con l’armonizzazione delprimato petrino con la collegialità episcopale.

Il Concilio però ha anche riconosciuto che la memorianon è innocua, non è neutrale, se non è purificata puòinquinare anche il presente. Ciò è tanto vero che il Conciliosi è concluso con un atto solenne congiunto della Chiesa diRoma e di quella di Costantinopoli, il cui oggetto era unamemoria da rimuovere, perché era stata causa didolorosissime vicende nella vita delle due Chiese, e ancoramotivo della loro separazione.

La memoria da rimuovere, da “cancellare”, era quella dellascomunica che nell’XI secolo si erano reciprocamentelanciate le sedi di Roma e di Costantinopoli. Ma allo stesso

Memoria e attualitàdel Concilio

Raniero La Valle è giornalista e scrittore

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modo il Concilio ha voluto medicare altre memorie, eaffrancarne la Chiesa di oggi: la memoria dell’antisemitismocattolico, la memoria del processo a Galileo, la memoria dellascomunica pontificia dell’età moderna, la memoria dellacondanna ottocentesca della libertà come di un“deliramentum”, un delirio.

Fare i conti con quelle memorie voleva dire adottaredelle scelte nuove. E poi si dice che il Concilio non hacambiato le cose! Nel segno di questa memoria attiva delConcilio, a cinquanta anni di distanza, si può discernereciò che in esso fu essenziale. E si può cominciare col direche in realtà, in uno solo, si sono celebrati due Concili: ilConcilio di Giovanni XXIII e quello di Paolo VI.

Il Concilio di papa Giovanni era tutto proiettato sulmondo. Già lo si era visto col radiomessaggio che un meseprima dell’apertura, l’11 settembre 1962, papa Roncalliaveva rivolto a tutti i fedeli.

Ciò di cui parlava era dell’amore delle famiglie riuniteattorno al focolare domestico, dell’uomo che cerca il pane

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quotidiano per sé, per la moglie, per i figliuoli; del suobisogno di istruirsi, della libertà di cui è geloso; delle“miserie della vita sociale che gridano vendetta al cospetto diDio” e dell’anelito dei popoli a percorrere ciascuno la suastrada, nel trionfo della pace e in una esistenza umana piùnobile e giusta; e della Chiesa che è bensì la Chiesa di tutti,ma è particolarmente la Chiesa dei poveri.

Lo si vide poi nel discorso di inaugurazione del Concilio,con il licenziamento dei “profeti di sventura che annuncianoeventi sempre infausti”, e con il mandato a rinnovarel’annuncio della fede in forme e modi conformi ai linguaggie alle culture di oggi, secondo quanto i nostri tempirichiedono; e poi con quel discorso della sera dell’11 ottobre,quando il Papa disse di “udire le voci” dei suoi figli, e si misecon loro in un rapporto di fraternità, “tutti insieme” inclusinella grazia di Dio, e indicando la luna ripropose il temaevangelico dei “segni dei tempi”.

Il Concilio di Paolo VI era invece più ripiegato sulla Chiesa,più ecclesiocentrico, e doveva rispondere alla domanda che lostesso Paolo VI, quando era ancora il cardinale Montini, gliaveva posto il 5 dicembre 1962, nel corso della prima sessioneconciliare: “Chiesa di Cristo, che cosa dici di te stessa?”

Su questa strada, il Concilio di Paolo VI è andato moltoavanti nella riflessione sulla Chiesa. Fondamentale è stata ladistinzione introdotta tra la Chiesa di Cristo, qual èprofessata nel Credo, e la Chiesa cattolica, governata dalsuccessore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui. LaChiesa di Cristo “sussiste nella Chiesa cattolica”, ma non siesaurisce in essa e molti elementi di santificazione e di veritàsi trovano anche al di fuori del suo organismo.

Più tardi, nell’enciclica “Redemptoris missio” Giovanni PaoloII introdurrà anche la distinzione tra Regno di Dio e Chiesa:le due cose sono congiunte, ma non si identificano. Questaacquisizione, tratta dalla autentica Tradizione, faceva caderela vecchia formula “extra Ecclesiam nulla salus”, cioè fuoridella Chiesa (intesa come Chiesa cattolica) non c’è salvezza.Superando la rivendicazione dell’esclusiva gestione dellagrazia di Dio sulla terra (ancora fieramente affermata dailefebvriani) la Chiesa del Concilio si apriva non soloall’ecumenismo, ma anche alle altre religioni, a cominciaredall’ebraismo e dall’Islam, e alle culture del mondo; etrovava il suo fondamento la libertà religiosa e la libertàtout court, cioè la libertà di credere o di non credere senzacostrizioni, pur nel dovere di seguire la verità, in quanto

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La Chiesa di Cristo“sussiste nellaChiesa cattolica”,ma non si esauriscein essa e moltielementi disantificazionee di verità si trovanoanche al di fuoridel suo organismo.

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riconosciuta nel sacrario della coscienza. Una prima conseguenza di questa più matura percezione

di fede, fu il rifiuto del Concilio di confermare la dottrina,pur seguita per secoli, secondo la quale i bambini mortisenza battesimo non vanno in Paradiso e sono esclusidall’incontro con Dio; i vescovi dissero che quella non era lafede del loro popolo, che altro era il “sensus fidelium”; e infattialcuni decenni dopo quella dottrina fu ufficialmenteabbandonata con un documento romano che, per così dire,cancellava anche la memoria del Limbo.

Dove invece il Concilio di Paolo VI non ha funzionato, èstato nella riforma della Chiesa. Il rinnovamento dellestrutture istituzionali non c’è stato: la collegialità è stataaffermata ma mai veramente attuata; lo stesso Paolo VI delresto vi ha messo un freno già nel corso delle votazioni delConcilio sulla “Lumen Gentium”, e dell’organo che avrebbedovuto interpretare la corresponsabilità di governo deivescovi col papa, il Sinodo dei vescovi, ha fatto un organoconsultivo di cui il papa, se vuole, si avvale.

Giovanni Paolo II rilancerà poi la figura totalizzante delpapa; non è più il papa onnipotente di cui tutti i principidovevano baciare i piedi, come diceva il Dictatus Papae diGregorio VII nell’XI secolo, ma è il papa onnipresente con isuoi viaggi e la sua ubiquità mediatica, che ha non i principi,ma le folle ai suoi piedi.

Purtroppo con nessuna di queste due cose si rende cristianala società. Anche i rapporti tra i diversi “generi” di cristianisono rimasti immutati; la Chiesa è ancora pensata nellatripartizione di clero, religiosi e laici; il “popolo di Dio” è moltocitato, ma mai chiamato in causa. Quanto ai sacerdoti, la figuraideale del prete, che la Congregazione del clero sempreripropone è quella del prete tridentino, maschio, celibe e sacro.

Il Concilio di Giovanni XXIII è andato invece molto piùavanti di quanto finora si è ritenuto nel suo abbraccio colmondo dell’uomo. In esso si sono scontrate non due figuredi Chiesa, ma due antropologie; ambedue sono antropologiedel peccato e della grazia, altrimenti non sarebberoantropologie cristiane, ma il loro rapporto è declinato intutt’altro modo. Secondo la prima, durata fino al Vaticano II,in principio c’era il peccato; per la seconda, in principio era lagrazia. Secondo la prima l’uomo non è integro nella suanatura, è decaduto dal suo nobile casato in cui Dio lo avevamesso creandolo, non è più fornito dei beni preternaturali dicui era stato dotato, e se muore è per colpa sua.

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Il Concilio diGiovanni XXIII èandato invece molto

più avanti di quantofinora si è ritenuto

nel suo abbraccio colmondo dell’uomo.

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L’uomo è il giocattolo rotto di Dio, che dopo la cadutaDio ha scacciato lontano da sé, in attesa della futuraredenzione. Quest’uomo, a meno che non sia momento permomento tirato con i fili da Dio, non può fare nulla, tantomeno può indirizzare e salvare la storia; pensare il contrariosarebbe “neo-pelagiano”. Il pessimismo antropologico, maanche morale e politico, nasceva da qui.

La seconda antropologia attribuisce invece la morte fisicae tutti i limiti della condizione umana alla creaturalità che èpropria della natura dell’uomo quale è uscito dalle mani diDio, ma come sua immagine. Il peccato non ha revocato nérompe questa immagine; anche dopo la caduta “Dio nonabbandonò” gli uomini ”ma sempre prestò loro gli aiuti persalvarsi, in vista di Cristo redentore”. La cristologia riscattal’antropologia pessimistica, perché Cristo è coeterno al Padre,generato prima di ogni creatura, in lui la misericordia di Dio èin atto già prima del peccato umano, il primo Adamo è lui.

L’ottimismo del Concilio, che è stato attribuito a unaderiva “liberale” e mondana, nasce invece da lì, dal piano diDio sull’uomo e sul cosmo che il Vaticano II torna araccontare all’uomo moderno in modo persuasivo ecredibile. La “metafora” del peccato originale, comeBenedetto XVI l’ha chiamata nelle sue omelie, svela tutto ilsuo contenuto di fede, ben al di là dell’immagine del Diovindice, nel sangue del Figlio, della propria dignità offesa.

La fiducia del Concilio nell’uomo, nei lumi dellamodernità, nelle costruzioni giuridiche umane, nelleCostituzioni, e nella libertà che, insieme alla verità, allagiustizia e all’amore, come diceva Giovanni XXIII nella“Pacem in terris”, deve guidare le azioni umane sulle vie dellapace, è fondata non sulle ideologie novecentesche, ma sullafede nella Trinità, nella quale Dio è inseparabilmentemisericordia giustizia e libertà.

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ranco Monaco nel chiedermi una testimonianzapersonale sul Concilio ha mostrato di essereinteressato a due possibili contenuti: a) che iodicessi qualcosa sul “nostro 58”, cioè ilfesteggiamento attuato con un epistolario

amichevole sul “dono” ricevuto da Roncalli, la cosa più bella einteressante che ci sia capitata nel corso della nostra piccola“vita cristiana”; b) dire qualcosa su l’esperienza “bolognese”,che chiesa e città hanno fatto del Concilio, con unapartecipazione molto ricca e di lunga durata, e tuttavia nonpoco conflittuale, segnata dall’ entusiasmo operativo di alcunifedeli “esemplari” e da fastidio e ostilità di altri, anch’essifedeli, ma di cultura e opinioni diverse; e anzi, negli ultimidecenni, purtroppo anche tra i più autorevoli esponentidell’ambiente diocesano bolognese.

Poiché la mia esperienza volontaria di “festeggiamento”roncalliano e conciliare è tuttora in corso, e anzi sta iniziandola fase più impegnativa degli incontri popolari in parrocchie,circoli e case familiari (dato che stiamo tutti entrando nelcinquantesimo anniversario ufficiale del 21° Concilio dellaChiesa cattolica), mi pare opportuno andare più avantiprima di tentare un bilancio di questa esperienza “ricettiva” edel suo contesto. Dirò qualcosa, quindi, dell’altro temasuggeritomi, cioè le ragioni che hanno contribuito a faredella nostra Bologna (chiesa e città) un punto molto ricco eintenso della vicenda conciliare, nel suo svolgimento e nellasua interpretazione.

Sono cose assai conosciute, almeno tra noi bolognesi, speciei più anziani: ma il “perché” e il “come” di queste risorse ègiusto cercare di intenderlo bene, sia nella parte positiva che harecato un contributo bolognese notevolissimo a svolgimento einterpretazione del Concilio; sia nella parte negativa, che ha

I bolognesi Lercaroe Dossetti al Concilio

Luigi Pedrazzi è politologo e giornalista

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motivato una resistenza critica verso l’ “evento conciliare” efavorito, per quanto è possibile, una intepretazione riduttivadella sua influenza storica e della prodotta riforma ecclesiale.

Alcuni nomi di “chiara fama” si impongono, nella storiacattolica bolognese, e valgono come il “capitale” entrato conforza e qualità nell’impresa di fare di Bologna la città italiana difatto più attiva e influente nel sostegno all’annucio roncallianodi un inatteso Concilio ecumenico, evento ovviamentequalificante il suo pontificato, in quanto esploso fin dall’iniziocome iniziativa esclusiva e sorprendente del “nuovo” pontefice.Un aggettivo delicato e forte come “ecumenico” lo haqualificato subito: anche se non potrà essere un “concilio diunione”, opererà intensamente “a favore” di una maggiore emigliore unità con i fratelli cristiani separati, e sarà dialogicocon tutte le altre religioni; con costanza vorrà essere unConcilio di “aggiornamento” e quindi anche correttivo neiconfronti della “modernità”, da vivere in serietà e bontà, senzapiù tanta paura e irrigidite inimicizie; al contrario, con amoreper tutti i nostri contemporanei, ai quali annunciare etestimoniare la nostra fede, ritrovando anche fonti antiche inparte perdute o trascurate.

Da ottobre del 58 a gennaio del 59, Giovanni XXIII si erafatto conoscere “al mondo”, con dolcezza travolgente, per lasua grande semplicità e cordialità, anche sul trono di Pietro;un’apertura di credito gli venne subito riconosciutadall’opinione pubblica mondiale, desiderosa di pace, mitezza,buon senso e bonomia. A Bologna, Lercaro, pur aperto a unainiziativa pastorale espansiva e popolare, ascoltò l’annuncio delConcilio con sorpresa e un iniziale semismarrimento; ma duesettimane prima dall’annuncio del Concilio, Lercaro aveva

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accolto nel presbiterio di Bologna un prete particolare, donGiuseppe Dossetti, che di fatto era uno dei pochi cristiani datempo convinto del valore pastorale e programmatico di unconcilio, atto di Magistero tanto superiore alla prassi delleencicliche. Più volte gli avevo sentito ricordare una massimapromettente di un cardinale pur molto tradizionalista comeBellarmino: “nel Papa c’è più autorità, ma nel Concilio c’è piùgrazia”. Per Dossetti è molto più importante impetrare ericevere la “grazia” di Dio che conoscere l’ “autorità” dei suoicollaboratori più alti in terra. Colpitissimo dall’annuncio delConcilio, Dossetti fu subito trascinato a preparare se stesso, ilsuo Vescovo e un nucleo di eccellenti collaboratori, da alcunianni già trovati o riuniti in Bologna, proprio per studiare conessi, a Bologna preferibilmente che altrove, problemi edifficoltà della Chiesa e, in particolare, i grandi “nodi” diesperienza e storia dei Concili.

Si accese subito un fuoco e una luce, per non disperdere lastraordinaria occasione, venutaci vicinissima per dono (santità e

sapienza) di papa Roncalli, papa “ditransizione in senso forte”, come laChiesa cattolica avrebbe prestosentito essere stata la sua nomina,con le sue inattese e grandi decisioni.

Chi conosceva le precedentiesperienze di Dossetti, poteva averequalche indicazione sull’ampiezza delsuo consentire a una proposta di unConcilio. Ma di più, il pessmismodelle analisi politiche, così fondato eforte com’era in Dossetti, e il sensocritico con cui – nonostante la suafede evangelica e trinitaria – giudicavai limiti della realtà eclesiastica (da luidenominati “criticità della Chiesa”),gli facevano supporre che sarebbestato ben difficile vedere convocatoun Concilio ai nostri giorni: non viaveva rinunciato, dopo averlo speratopossibile, un papa come Pio XII?

La “umile determinazione” diRoncalli irruppe nell’animo diDossetti, accendendovi un fuocoardente di ammirazione fiduciosa: laspinta operativa che vi produsse fu

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quale neppure Lercaro subito intese, ma i collaboratori fedelidel Centro di Documentazione subito si gettarononell’impresa storiografica, teologica e pastorale, che Dossettipoteva vedere e concorrere ad animare, specie nei primi dueperiodi più incisivi (quello giovanneo e il primo montiniano);questo loro lavoro contribuì – insieme al fior fioredell’episcopato mondiale straordinario allora esistente, aiteologi liberi e ispirati che Roncalli subito recuperò dai miglioricentri europei, e con gli esponenti più significativi delle nuovechiese – al fine di rendere possibile la “svolta storica” che fupoi operata dai Padri conciliari riuniti in San Pietro. Ma decisivefurono l’originalità spirituale e la grande mitezza di modi conle quali Roncalli guidò la Chiesa, parlando con amore eintelligenza del “suo” Concilio, ma accogliendo senzapericolose polemiche quasi quattro anni di una preparazionedottrinale largamente refrattaria alle sue indicazioni: la grandemole di Schemi preparati a Roma fu poi giudicata inadeguata eframmentaria, dall’Assemblea dei padri Conciliari, una voltache essi furono finalmente riuniti e dialoganti in San Pietro.

Non poteva non esserlo, per la carenza di pensiero critico ei limiti di esperienze storiche e di lavoro storiografico, tipicidella pur notevolissima dirigenza vaticana e burocrazia curiale .

Se il “Giornale dell’Anima” di Angelo Roncalli, più i “Diari”e le “Agende” biografiche della “carriera” che lo condusse dallaperiferia di Sotto il Monte al centro della Chiesa cattolica,fanno avvertire (e dobbiamo ringraziare di questo AlbertoMelloni) la grande forza della “molla interiore” che produssel’esplosione spirituale e mediatica del pontificato di GiovanniXXIII, solo una sintesi adeguata di cultura cristiana universale edi coscienza storica nazionale permette di vedere in appunti didevozione una soluzione radicale e finalmente adeguata deiproblemi irrisolti dell’entità ambigua di “Stato della Chiesa”,tra noi così di casa con ritardi secolari e problemi storicitroppo a lungo non considerati con vigore teologico ecoerenza giuridica rigorosa.

Un suo superamento fu intravisto nelle cime ottocenteschedi Manzoni e Rosmini e, a mio gusto, anche di Nievo; ora èmotivo di riflessione sofferta e di ricerca sincera di alternativedecorose nei conati novecenteschi, quali noi intravvediamo infigure e opere di cattolici laici postafascisti e repubblicanicome Dossetti, Lazzati, La Pira e Moro; però, ahinoi, anchequesti grandi ed esemplari amici sono quasi nascosti al nostrosguardo dalle vergogne e impotenze dei “consensi lunghi eabbondanti” concessi nel nostro Paese all’egotismo ridicolo e

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geniale di Berlusconi, per quasi 18 anni divenuto padroned’Italia, dopo il fallimento delle speranze e delle idealità con cuii partiti politici italiani non riuscirono ad assicurare serietà elegalità a un futuro democratico della Repubblica. La quale erapur stata dotata di una bella Costituzione, disponeva di nonpiccole ricchezze private e poteva sommare due grandimovimenti etici Risorgimento e Resistenza.

E’ il passato politico di Dossetti (la qualità del quale avevaorigini nella qualità della sua formazione e fede cristiane), cheaggiunse un motore aggiuntivo all’energia con cui seguì eaccompagnò il Concilio. E mobilitò molti, in Italia eestimatori in Europa e nelle presenze internazionali per varianni convenute in in Roma: debbo fare almeno i nomi diAlberigo (ma tantissimi sono gli storici che ne condivisero imeriti: fino a far parlare dai suoi “ostili” di una “scuolabolognese” nella storiografia del Vaticano II), e il nome di LaValle direttore di “Avvenire d’Italia”, superletto allora fino adavere un rilievo internazionale.

E moltissime figure, giovani e anziane, della chiesa locale cheper anni ricevettero impulsi e aiuti incomparbili con altriperiodi più “normali”...Ma due episodi hanno avuto unospessore più visibile e durato una eco assai più lunga. Lercaro,stimatissimo personalmente da Montini, fu nominato a uncerto punto con Suenens, Dopfner e Agagianian, unico italiano,tra i quattro Moderatori che ebbero un notevole ruolo sualmeno mezzo Concilio (con più vera autorevolezza nelsecondo e terzo dei quattro periodi). Ma il riconoscmento diBologna, città particolarmente attenta nel Concilio, trovò unaespressione locale di fortissima originalità, nella vicenda chemutò il clima dei rapporti tra la Città e la sua Chiesa. Fu ilComune, con la sua Giunta comunista e l’autorevolezza diunico capoluogo di Regione sempre “rosso” per mezzo secolo,e fare il passo che Spadolini sul “Resto del Carlino” fececonoscere (e temere) con lo slogan di “Repubblica conciliare”.Anche questo straordinario episodio, col Vangelo portato inPalazzo d’Accursio dal Cardinale, saldandosi con le ChieseNuove in periferia, , i “quartieri” proposti da Dossetti nel 56 egloria e vantaggio di Bologna per oltre vent’anni, non funeppure esso un evento realmente popolare e realmentevissuto con piena consapevolezza, ma contò molto a segnareun clima e un’epoca.

E a chiedere poi una lunga fase di sistemazione della carica“bolognese” troppo avanzata, rispetto ai tempi di tutta Italia eal suo declino incipiente tra Anni di piombo e Mani Pulite,

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rivelativi entrambi di una troppo esile serietà repubblicana e,rispetto al grande Concilio, una ricezione alquanto lenta eparziale. Fino allo stravolgimento che in Bologna abbiamoconosciuto rafforzato da molti decenni di un disagioecclesiastico non risolto circa il ruolo di Dossetti e Lercaro,troppo bello e intensamente religioso, per stare intero eintatto nel contesto nazionale e nei ruoli che hanno chiamatouna distinzione significativa, ma di non facile interpretazione,tra autorità della Chiesa, nati in Italia o altrove: Montini eLuciani sono stati gli ultimi pontefici italiani rispetto a dueimportanti successori, nati in paesi diversi, fin qui europei: infuturo si vedrà...

La Chiesa bolognese, per 45 anni ha vissuto con dignità,in parte coraggiosa in parte paziente, la sua abbondanza diessere una Chiesa forte nella esperienza conciliare. E’ un fattoche qui, censuratissimo Dossetti negli ambienti curiali seguitialla “partenza” di Lercaro, solo adesso e in misuraoccasionale, a bassa voce, Lercaro si nomina un po’, ma diDossetti, al presente, si tace, più ancora che criticarlo (questoavveniva una volta): ora si censura. Il centenario della suanascita (2013) potrebbe verificare qualche correzione, ma lamia convinzione è che un ritorno di attenzione, su figura epensiero di Dossetti, forse richiede una simultaneità diripresa di pensieri e comportamenti giusti sulla vita nazionalee le sue esigenze, e su la missione della Chiesa, i suoibisogni pastorali e le sue risorse teologiche.

Tutte cose da tempo largamente epericolosamente trascurate. Il triennio 2013-2015,sarà impegnativo per la vita pubblica italiana e perquella europea di cui l’italiana è necessariamenteparte, si vedrà se e quanto modesta o se perchè e conchi rilevante. Anche per la vita della Chiesa queltriennio è memoria di anni lontani, ma anche questamemoria è di una attualità cogente. Quanto amemoria di Dossetti e sua attualità, mi pare sia veroche “ricerca costituente”, “bellezza conciliare”,“pericolo del lascito berlusconiano” siano temicentrali del vissuto di Dossetti. E se fossero anchenostri? Non siamo interrogati anche noi dalle duedomande più importanti che furono tipiche sue: 1)“Uniti, va bene: ma per fare che cosa?”, 2) “Quantoresta della notte?” Bologna ricorda parecchio, e stabene. Ma per queste domande, ricordare non basta.Né nella vita civile, né in quella religiosa.

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li sconvolgimenti economici, le contraddizioni ele fughe delle imprese produttive, i giochispregiudicati della finanza che da diversi latisegnano la crisi dell’Occidente e della stessaeconomia statunitense possono essere letti,

nell’immediato, sotto diversi profili storici. Fra l’altro: come errori delle strategie politiche e, insieme,

come il prezzo dovuto alle economie emergenti dall’Asia e

Per un nuovo illuminismo, una svoltanel pensiero cristiano Virgilio Melchiorre è docente emerito presso l'Università Cattolica di Milano

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dall’America del Sud. Ma da quest’ultimo lato non emergonoinoltre una direzione e un senso più profondo della crisi? Cisi muove verso un riassetto e una più equa distribuzionedelle economie? Ma, in questa prospettiva, non ci si deve poiinterrogare sulle possibili contraddizioni di una crescitaindefinita delle ricchezze? Come prevedere un giustoequilibrio, senza del quale si aprirebbe un ben più ampioorizzonte critico, prossimo alla dissoluzione dei mondi?

Queste sono forse domande irrilevanti per chi devecorrere, a breve, verso risoluzioni e salvataggi opportuni. Manon sono irrilevanti per una prospettiva di lungo respiro che,a suo modo, dovrebbe pur suggerire rimedi e soluzioni nellapros-simità dei tempi. In questa direzione, come premessacritica per un ordine nuovo, sembra riproporsi unariflessione analoga a quella che – sullo sfondo dellatradizione ebraica – fu data ne la Dialettica dell’illuminismo adopera di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer.

Quello scritto – è importante sottolinearlo – fu compostofra il 1942 e il1944, mentre ferveva drammaticamente laguerra provocata dal nazismo. Anche allora si trattava di unacontesa attorno a una potenza economica che, in pochi anni, siera fatta imponente e ora mirava alla sottomissione dell’interocontinente europeo: lo stermino degli ebrei e degli zingariintanto dilagava, disegnando scenari quanto mai inumani, chele nuove tecnologie di morte rendevano peraltro quanto maipossibili e svelti.

Qual era il nesso che correva fra l’uso della scienza e il perverso utilizzo delle sue risorse? Come mai un’economia

rinata vigorosamente nella Germania nazista poteva prevedereil suo sviluppo per vie così tragicamente inumane?

A queste domande rispondeva appunto l’opera dei due pensatori che dalla Germania erano stati sospinti nella soffe-

renza dell’esilio. Il grande merito di quel volume stava appuntonel rintracciare l’origine del paradosso che in modo crescenteaveva via via accomunato il progresso della scienza con laperversione del potere. Perché l’illuminazione del progressoscientifico non aveva fermato, ma anzi aveva potuto generareuna strage epocale?

Non si trattava evidentemente di mettere in questione lascienza come tale e con essa i frutti migliori della tradizioneilluministica. Si trattava di cogliere, nelle sue pieghe, un nessoche aveva permesso l’uso stravolgente della storia. Ladomanda che Adorno e Horkheimer si ponevano era appuntoquesta: come mai aveva potuto determinarsi l’implosione della

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Si delineano così ledue fondamentalipatologie dellasocietà globale: daun lato, un radicaleindividualismo che sitraducenell’indifferenza, neldeficit di impegno enella diserzionedella sfera pubblica;dall’altro uncomunitarismoentropico cheripropone forme dicondivisionedistruttive,generando nuoveforme di violenza.

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razionalità nell’orrore del nazismo e dello sterminio? Come mai proprio la crescente razionalità dei moderni

aveva potuto covare nel suo interno il germe regressivo dellabarbarie? Che cosa era mancato allo sviluppo delle scienzeper difendersi da un uso inumano del potere?

La domanda di Adorno e Horkheimer portava a interrogaresulle costituzioni e sui limiti della razionalità moderna: unarazionalità che, già nell’enunciato dei suoi padri, a partire daBacone, era intesa soprattutto come strumento di potere, didominio sulla natura: via dell’avere, piuttosto che via dell’essere.

Poteva per questo lato compiersi il destino della ragione?L’intelligenza razionale della natura non doveva implicareuna partecipazione piuttosto che un’appropriazione? Nondoveva la scienza sporgersi verso i confini di una comunioneessenziale, sino ai principi ultimi dell’essere?

Al contrario siamo ora nella condizione di pensare che levie storiche dell’illuminismo hanno, sì, contribuito a liberarel’uomo dalle insidie della superstizione e della natura, ma ciònonostante si deve pur riconoscere che «la terra intera-menteilluminata splende all’insegna di trionfale sventura» .

La sventura è nata appunto dall’aver posto la scienza a ser-vizio dell’avere, senza subordinarlo alle condizioni più radicaledell’essere. E così – leggiamo nella Dialettica dell’illuminismo –il «sapere, che è potere, non conosce limiti, nénell’asservimento delle creature, né nella sua docileacquiescenza ai signori del mondo.

Esso è a disposizione, come di tutti gli scopidell’economia borghese, nella fabbrica e sul campo dibattaglia, così di tutti gli operatori senza riguardo alla loroorigine. […] La tecnica è l’essenza di questo sapere.

Esso non tende a concetti e ad immagini, alla felicità dellaconoscenza, ma al metodo, allo sfruttamento del lavoroaltrui, al capitale. […] Ciò che gli uomini voglionoapprendere dalla natura, è come utilizzarla ai fini del dominiointegrale della natura e degli uomini» .

Non si tratta evidentemente di disconoscere il granderuolo della ragione scientifica. Si tratta solo di riconoscernela portata e d’inscriverla entro gli spazi più ampidell’intuizione e della ragione. Sovviene al riguardo unalettera inviata da Pa-scal il 10 gennaio 1660 al grandematematico Fermat. Della scienza geometrica, di cui luistesso era grande interprete, Pascal scriveva che «è «il più belmestiere del mondo, ma in-fine non è che un mestiere, [...]buona per saggiare, ma non per impiegare la nostra forza».

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Come mai proprio lacrescente razionalità

dei moderni avevapotuto covare nel suo

interno il germeregressivo della

barbarie?

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Di qui, come sappiamo, ci ritorna il richiamo pascalianoalle ragioni del cuore, all’esprit de finesse piuttosto che all’espritgeometrique, dove le ragioni del cuore non vanno intese co-mesemplice sporgenza emotiva, di là dalla razionalitàdell’intelletto, bensì come il rinvio a uno spazio più profondodella ragione. Per le ragioni del cuore – aveva scritto appuntoPascal – «noi conosciamo i primi principi [...] ed è su questeconoscenze del cuore e dell’istinto che occorre che la ragionesi appoggi e che vi fondi tutto il suo discorso» .

Per questa via siamo portati dai limiti della nostrafinitudine alla sua relazione vitale col mondo da questaall’intero dell’essere: una relazione che, da ultimo, dà senso aogni passo dell’esistenza e che, passo per passo, offre i criteriper l’uso e per la redistribuzione della ricchezza. Ledomande, nate nel cuore del secondo conflitto mondiale, ciritornano ora considerando gli attuali conflitti dell’economia,non diversi nel profondo da quelli del secolo scorso.

E, per contro, siamo nuovamente rinviati a quellaprofondità del sapere che la Scrittura indica nellafrequentazione della Sapienza, quella che dai limiti dellanostra finitezza ci fa volgere verso «la conoscenza infallibiledelle cose, / per comprendere la struttura del mondo /e laforza degli elementi, il principio e la fine dei tempi, /l’alternarsi dei solstizi e il sus-seguirsi delle stagioni, / il ciclodegli anni e la posizione degli astri» .

In definitiva, solo lo sguardo sull’intero e sulla comunioneprofonda dell’essere ci permette di decifrare via via il sensopossibile delle prossimità, dei tempi imminenti. Laprogettazione del presente non può declinarsi che nei modidelle disponibilità e dell’avere.

Ma l’avere e le disponibilità trovano la propria autenticitàsolo nella subordinazione delle parti ad un comune destino,solo nell’attesa utopica di sensi reciproci, di beni comuni: unideale che si dà propriamente come principio ermeneutico,come cri-terio di giudizio per i passi concreti nel tempo.

Ci ritorna appunto la verace utopia di Marx per il quale ildi-segno di una società buona sta nei modi in cui la libertà diciascuno si dà validamente solo se si dà come condizione perla libertà di tutti . Vorremmo aggiungere: solo comecondizione per il benessere dell’intero. Agostino, nella suaCivitas Dei, direbbe meglio che gli abitanti di una città libera

«sono compagni di una pace eterna, dove non c’è amoredella propria e in certo senso privata volontà, ma solo amoreche gode del bene comune» .

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Ma l’averee le disponibilitàtrovano la propriaautenticità solonella subordinazionedelle parti ad uncomune destino.

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l Concilio Vaticano II è stato senza dubbiouno degli eventi che hanno segnato ilNovecento. Non ha riguardato la solaChiesa, ma l`intera comunità umana,secondo quella vocazione universalistica

implicita nella cattolicità. È importante richiamare lacontingenza storica in cui l`evento venne programmato erealizzato. Gli anni Sessanta: si accelerano i processi dimodernizzazione, sociale e civile, in tutto l`Occidente, lasecolarizzazione avanza, negli impianti culturali e neimondi vitali, c`è un salto nella coscienza collettiva intornoai problemi degli individui. La Chiesa sente su di sé ilmorso dei tempi nuovi. Un Papa semplice, nell`accezionepositiva degli uomini semplici, come Giovanni XXIII,intuisce una necessità, supera le resistenze, imponeun`iniziativa, che subito assume il valore di una svolta, senon di uno strappo.

Il Concilio in fondo è il nuovo episodio di un anticorapporto, controverso: quello tra Chiesa e modernità. Unastoria lunga, con luci e ombre, più ombre che luci. Lo stessoNovecento, il secolo della modernità in crisi, ne aveva datodrammatica rappresentazione. Il contesto però a quel puntoè inedito. Il Moderno sta arrivando in mezzo al popolo.

Lavoro, redditi, consumi, cultura e comunicazione dimassa, schizzano in avanti, spezzano i vecchi recinti,compresa la tradizionale famiglia, fin lì sicuro mezzo didisciplinamento dell`ordine costituito. Ancora oggi laChiesa fatica a prendere atto dell`esplosione nucleareavvenuta in questa istituzione. E non essere riuscita adarne una nuova declinazione, è ancora motivo didifficoltà che si riproduce e si allarga nell`intero sociale.Comunque nel Concilio la lotta fra tradizionalisti einnovatori fu frontale, con la vittoria, bisogna dire, di

I conti aperticon il mondo modernoMario Tronti Presidente del Centro per la Riforma dello Stato

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questi ultimi, come si può vedere dalla maggior parte deidocumenti consiliari. Semmai, le mediazioni al ribassovennero nel dopo-Concilio. C`è un filo robusto che legaPaolo VI e Benedetto XVI e non capisco chi interpretaPapa Ratzinger come un restauratore.

È indubbio che l`evento fu una risposta giusta, direi,indispensabile al momento. Il problema di oggi, acinquant`anni di distanza, è valutarne gli esiti e darne ungiudizio disincantato. Difficile dirne in poche battute. Lamia impressione è che ci fu un di più di subalternitàrispetto all`onda modernizzante e secolarizzante allorapotentemente in atto, e da allora poi dilagante in formesempre più antropologicamente devastanti. Se ne accorsesubito quel grande Papa, complesso, che è stato Paolo VI.Non semplicemente intuì, comprese, dall`alto di unaraffinata cultura novecentesca, le prime possibiliconseguenze. Non frenò, ma cominciò a mettere inguardia, dall`aderire passivamente a una pura esigenza diaggiornamento dell`istituzione, che corresse dietro nonalla modernità, ma a quella sua deriva che è venuta avanticome cosiddetto postmoderno.

Lo fece con la sua stessa figura sofferta di pontefice,intellettuale della crisi, tormentato più che rassicuratodalle verità di fede. Chi non coglie nel Moderno il segnotragico, che lo attraversa, sempre, chi ci vede soltanto unostrumento di sviluppo per la storia della salvezza, chi nonne riconosce le aporie, le contraddizioni drammatiche,fino a capire come nel progresso si nasconda il ritornodel sempre eguale, non vede lontano, si fa prigioniero diun presente effimero, e innesca senza volerloingovernabili percorsi di decadenza.

È accaduto in vari campi. Il campo ecclesiale non ne èrimasto immune. Trovo in questo un`affinità tra PapaMontini e Papa Ratzinger. Benedetto XVI, in modidiversi, meno attraverso la sua figura, più attraverso le sueopere, compie un`operazione analoga. Non chiude almondo, chiude a questo mondo. Cerca di trattenere l`ondadesacralizzante, organica alla struttura e alla mentalitàdell`attuale fase di postmodernità.

Questa onda viene cavalcata dall`onnipotenza dellatecnica, dal primato assoluto dell`economia che si faquasi solo finanza, viene evidenziata dalla corruzione dellapolitica, ma - ecco un grande tema culturale di oggi -viene riprodotta in maniera allargata da un vecchio

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C`è un filo robustoche lega Paolo VI e

Benedetto XVI enon capisco chi

interpreta PapaRatzinger come un

restauratore.

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apparato ideologico radicaleggiante, falsamente libertario,di stampo neo-borghese progressista, che separa libertàda responsabilità e così crea guasti forse irrimediabilisoprattutto nella formazione umana delle giovanigenerazioni. La voce di questo Papa, per chi sa intendere,detta, a volte contro la sua Chiesa, un messaggioteologico di rigore etico, di cui oggi si sente gran bisogno,accanto e ben oltre il rigore economico, consiglia uno stiledi austerità nei comportamenti, individuali e sociali,sfugge opportunamente nei linguaggi a ogni posa dagrande comunicatore.

Non comprendo perché venga visto come unrestauratore. A mio parere, proprio così richiamal`ispirazione originaria del Concilio, scansando, nell`unicomodo possibile, quella eterogenesi dei fini, che ha finito percolpire tutte le rotture dei favolosi anni Sessanta.

La grandezza del Concilio Vaticano II sta nella capacitàche mostrò allora la Chiesa, ammaestrata dalla sua lungastoria, di prendere essa l`iniziativa della Riforma, primache le tesi alternative venissero affisse da qualcuno sulportale di qualche cattedrale. Esattamente quello che altreesperienze non sono riuscite a fare. La Chiesa cattolica èmaestra di sapienza politica. Chi non va a quella scuola,rischia a più riprese un analfabetismo politico di ritorno,non saprà leggere la vicenda umana, non saprà scrivere lalunga durata dello stesso suo proprio destino...

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La Chiesa cattolicaè maestra di sapienzapolitica. Chi non vaa quella scuola,rischia a più ripreseun analfabetismopolitico di ritorno.

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Nella sua ultima intervista, il card. Martini haaffermato che la Chiesa cattolica è indietro di“200 anni”. Non si tratta, a mio avviso, diun’espressione iperbolica e generica, tanto perindicare una complessiva arretratezza di lunga

data: si tratta di un’indicazione storica precisa in cuiinquadrare l’aggiornamento o il mancato aggiornamentodella Chiesa cattolica contemporanea. Si tratta, cioè, diprendere le mosse da duecento anni fa, dunque dall’avviodella Restaurazione, dopo il periodo rivoluzionario francese-napoleonico, che si era abbattuto sulla Chiesa come unciclone distruttivo e drammatico.

Con l’età della Restaurazione, pertanto, dal Congresso diVienna in poi (appunto circa duecento anni fa), ilcattolicesimo europeo e occidentale dovette confrontarsi condue grandi processi storici: da una parte, i movimenti che sibattevano per istituzioni di libertà e per l’abbattimento delneoassolutismo reazionario restaurato, dunque l’instaurarsiprogressivo di regimi costituzionali e l’affermarsidell’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini; dall’altra, ledinamiche socio-economiche del capitalismo e dellarivoluzione industriale, con l’affermarsi sia del ‘mercato’come regolatore ideale sia del profitto come valore assoluto eindicatore reale di efficacia.

Rispetto a questi due grandi processi, le posizioni incampo cattolico andarono frastagliandosi, ma –schematizzando per cogliere i crinali principali di fondo – ilsecondo aspetto fu, almeno inizialmente, assorbito dalprimo, rispetto al quale emersero due grandi atteggiamenti,tra loro opposti.

Il cattolicesimo trapassato e futuro

Fulvio De Giorgi insegna Storia della pedagogia e dell'educazione presso l'Università di Modena e ReggioEmilia

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Da una parte vi fu la posizione neoteocratica diGregorio XVI e del Pio IX post-1848 (ma conpresupposti nel magistero pontifico precedente,fin da Pio VI) che mirava a rafforzare l’alleanzarestaurata e reazionaria tra trono e altare,

criticava teologicamente i regimi di libertà, si attestava su unatteggiamento di intransigente e totale rifiuto della civiltàmoderna: un teocentrismo medievalista control’antropocentrismo moderno. Ben esprimeva questaconcezione l’enciclica Quanta cura (1864) di Pio IX che,condannando i regimi negatori del potere della Chiesa “nonmeno verso i singoli uomini, che verso le nazioni, i popoli e isupremi lor prìncipi”, precisava colla quale idea di socialegoverno, assolutamente falsa, non temono di caldeggiarel’opinione sommamente ruinosa per la cattolica Chiesa e perla salute delle anime, dal Nostro Predecessore Gregorio XVIdi venerata memoria chiamata delirio, cioè «la libertà dicoscienza e dei culti essere un diritto proprio di ciascunuomo, che si ha da proclamare e stabilire per legge in ogniben costituita società, ed i cittadini avere diritto ad una totalelibertà che non deve essere ristretta da nessuna autorità oecclesiastica o civile, in virtù della quale possano palesementee pubblicamente manifestare e dichiarare i loro concetti qualiche sieno, o verbalmente, o per mezzo della stampa, o inaltra maniera». L’affermarsi però di regimi liberali – checostituiva progressivamente una civiltà nuova, menooppressiva e costrittiva – portava questa visioneneoteocratica a sostenere un nuovo ‘cattolicesimo politico’,cioè una mobilitazione del laicato, subordinato alla gerarchiae mirante sia alla difesa degli interessi cattolici, sia a regimiconfessionali, sia ad un rapporto integralistico fede-politica:in sostanza ad una politicizzazione del cattolicesimo, ad unperenne atteggiamento polemico, rancoroso, di condanna,nonché a una negazione dell’uguaglianza giuridica deicattolici con i fedeli di religioni diverse (ebrei, protestanti,agnostici, atei).

A fronte di questa posizione stava quella, apertacriticamente al moderno e dialogante, diAntonio Rosmini (recentemente beatificato daBenedetto XVI) che era favorevole a regimicostituzionali di libertà e non era confessionale

(il progetto di costituzione per lo Stato pontificio, steso daRosmini, non aveva una ‘religione ufficiale’). La teologia

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rosminiana superava, peraltro, ogni ipotesi di 'cattolicesimopolitico' e poneva il problema di un umanesimo autentico eplenario, fuori da logiche di potere e di dominio, poichérifiutava l’antitesi tra teocentrismo e antropocentrismo,affermando un cristocentrismo che ricomprendesseentrambi. Ciò implicava, peraltro, una visione complessivadiversa dei rapporti tra il piano spirituale-ecclesiale e il pianotemporale della comunità politica. Nel 1848, al vescovo diMontepulciano mons. Claudio Samuelli, che gli avevarichiesto un parere, Rosmini scriveva una limpida lettera, chemerita di essere ampiamente riferita:

L'incarico che un Vescovo ha ricevuto da Gesù Cristo dipredicare il Vangelo e di condurre le anime degli uominiall'eterna salute è così sublime, santo e divino, che non v'hacautela soverchia da adoperarsi, perché nessun altro affareterreno ne impedisca od intralci e disturbi l'esercizio. Questoesercizio può essere intralciato soprattutto dalle umaneopinioni in materia politica, le quali si dividono e contrarianosecondo il vario sentire e pensare delle menti, e pur troppoancora secondo le varie passioni da cui si lasciano agitare gliuomini e le cieche fazioni che ne derivano. Sopra di tuttiquesti interessi umani, di queste opinioni, passioni e partiti,che agitano e travagliano la società e l'umanità, si leva ilVangelo, e col Vangelo il Vescovo, che n'è il maestro istituito

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da Dio, e in questa regione celeste dell'Evangelio egli abitacol suo spirito la città della pace imperturbata e felice: Nostraautem conversatio in coelis est.

Parmi adunque che ogni Pastore della Chiesa cattolicaadempia il suo ufficio e corrisponda all'altezza della suamissione divina, se, astenendosi dal prender parte inqualsivoglia politica controversia e dal dichiararsi perqualsivoglia fazione, si limiti a predicare a tutti egualmente ein modo generale la giustizia, la carità, l'umiltà, lamansuetudine, la dolcezza, e tutte le altre virtù evangeliche,riprovando i vizi contrari e difendendo acremente i dirittidella Chiesa, dove venissero da qualsivoglia parte violati.Reputo che il Vescovo debba, soprattutto in questi tempi,spargere un olio balsamico di dolcezza nelle piaghedell'umanità, debba guardarsi da ogni giudizio temerario, daogni parola ingiuriosa a chicchessia, da ogni adulazionestrappata dal timore, da ogni connivenza al male che gli fossepersuasa da speranze di giovare, conservando un contegnograve, riservato, fermo, con una conversazione verso tuttisoave ed amorevole, ed insieme atta a far distinguere con unasanta dottrina, ma senza alcuna veemenza, il bene dal male.

Nella visione rosminiana, la Chiesa come tale non fapolitica, ma si impegna senza ambiguità, compromessi epaure, ad annunciare e testimoniare il Vangelo delleBeatitudini: da una parte ha fiducia nella scelta libera dellecoscienze; dall’altra non si nasconde che il peccato, semprepresente nel cuore dell’uomo, ha pure una dimensionesociale, di egoismo sociale e di ingiustizia sociale. La Chiesa,dunque, in tale prospettiva, non rifiuta e combatte la libertà,ma rifiuta e combatte la violenza sopraffattrice in tutte le sueforme: istituzionali (cioè di regimi politici tirannici eilliberali), socio-economiche, di civiltà.

Tirando le somme, si può dire che la primaposizione è stata egemone per tutta l’età ‘piana’(così chiamata perché, su 11 papi, 7 sichiamarono Pio) della Chiesa cattolica: da PioVI a Pio XII. Vi è stato naturalmente un

percorso storico complesso e articolato, che non si può inquesta sede ricostruire. Ma, insomma, ancora negli ultimianni di Pio XII il regime preferito, in molti ambientiecclesiastici e curiali, era il Franchismo (o il Salazarismo).

I pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI e, in essi, ilConcilio Vaticano II hanno chiuso l’età piana, hanno

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Nella visionerosminiana, laChiesa come tale nonfa politica, ma siimpegna senzaambiguità,compromessi e paure,ad annunciare etestimoniare ilVangelo delleBeatitudini.

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decretato l’abbandono del paradigma neoteocratico,confessionale, polemico. Il cosiddetto insegnamento sociale dellaChiesa vuole essere, oggi, una affermazione evangelica - nelgenere della teologia morale - dei valori di libertà e giustiziasociale, nonviolenza e pace, solidarietà e partecipazionedemocratica.

Ciò ha molte importanti conseguenze, non ancoracompletamente assorbite e metabolizzate dalla Chiesacattolica contemporanea. Ne indico solo alcune: il‘cattolicesimo politico’ è finito; la Chiesa non devepoliticizzarsi, farsi parte (partito) tra i partiti, non deveparteggiare per questo o per quello; ma deve annunciare ilVangelo. I cattolici laici possono e devono impegnarsi inpolitica, a livelli diversi secondo la loro personale vocazione,con possibilità di scelte (di voto o di militanza partitica)diverse; possibilità, peraltro, non illimitata, perché non sipossono accettare la violenza, il razzismo, l’ingiustizia. Lasantità contemporanea non è dunque una santità politica e,tuttavia, può concepirsi un santo di oggi che, in spregiodell'insegnamento sociale della Chiesa, sostenga regimitirannici, xenofobi, totalitari, antidemocratici?

In altri termini la santità non è politicamente connotabile,neppure in senso democratico, ma sicuramente esclude,esistenzialmente, pensieri, parole e opere antidemocratici,perché non compatibili con una coscienza evangelicamenteorientata che si confronti con il mondo contemporaneo.

Nel post-Concilio c’è stato, peraltro, il faticosonascere di un disegno pastorale che fosseorganico e funzionale al nuovo paradigmaconciliare. Nello sviluppo di tale disegno nonsono mancati i problemi, che determinano le

attuali difficoltà.Durante il pontificato di Paolo VI, che ha avviato con

incisività il rinnovamento conciliare effettivo, si sono createdue anime complementari, quasi i due polmoni dellaproposta pastorale montiniana: possiamo anche chiamarle,schematizzando, destra e sinistra, ma in senso pastorale-sociale non politico. La destra montiniana può essereemblematizzata nella figura di Karol Wojtyla: operando in uncontesto di totalitarismo comunista, pur connotandosi conun atteggiamento dialogante, sottolinea con forza l’istanzadella libertà politica. La sinistra montiniana può invece essereemblematizzata nella figura di Oscar Romero: operando in

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La santità non èpoliticamente

connotabile, neppurein senso democratico,

ma sicuramenteesclude,

esistenzialmente,pensieri, parole e

opereantidemocratici,

perché noncompatibili con una

coscienzaevangelicamenteorientata che siconfronti con il

mondocontemporaneo.

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un contesto di estrema povertà e di oppressione dei cetisubalterni, pur connotandosi con un atteggiamento di nettorifiuto della rivoluzione violenta, sottolinea con forzal’istanza dell’opzione preferenziale per i poveri e dellagiustizia sociale.

Durante il pontificato montiniano queste due ‘anime’sono state tra loro complementari e sono state sintetizzatepastoralmente dal magistero: con efficacia maggiore (sipensi, per esempio, al III Sinodo mondiale dei Vescovi) ominore (forse a partire dal dimissionamento di Lercaro edalla emarginazione delle posizioni ‘dossettiane’, chemeglio favorivano il raccordo appunto delle duesensibilità).

L’elevazione al soglio pontificio di Karol Wojtyla haportato in esponente la destra montiniana e ne ha esaltato leposizioni. Ciò – fino alla caduta del Comunismo nell’Europaorientale, cioè più o meno fino al 1989 o ai primi anni ’90 –ha rappresentato, nel complesso, una stagione felice epropulsiva, ponendo la Chiesa cattolica alla testa dellarivendicazione – sul piano mondiale della civiltà – dei dirittiumani, della libertà di coscienza, dell’antitotalitarismo, diregimi di libertà. Ma intanto si compiva l’errore di demolireprogressivamente la sinistra montiniana.

Dopo il crollo del Comunismo, peraltro, il periodosuccessivo, fino praticamente ai nostri giorni, ha visto nelmondo l’ascesa e il trionfo del Neoliberalismo, con unacrescita delle disuguaglianze, nuove condizioni di ingiustiziasociale, aumento della povertà. Lo stesso Giovanni Paolo IIha intuito, in realtà, il cambiamento fin dall’avvio e, nellaCentesimus annus (1991), ha affermato: “La soluzione marxistaè fallita, ma permangono nel mondo fenomeni diemarginazione e di sfruttamento, specialmente nel terzomondo, nonché fenomeni di alienazione umana,specialmente nei paesi più avanzati, contro i quali si leva confermezza la voce della chiesa. Tante moltitudini vivonotuttora in condizioni di grande miseria materiale e morale. Ilcrollo del sistema comunista in tanti paesi elimina certo unostacolo nell’affrontare in modo adeguato e realistico questiproblemi, ma non basta a risolverli. C’è anzi il rischio che sidiffonda un’ideologia radicale di tipo capitalistico, la qualerifiuta perfino di prenderli in considerazione, ritenendo apriori condannato all’insuccesso ogni tentativo di affrontarli,e ne affida fideisticamente la soluzione al libero sviluppodelle forze di mercato” . Ed è proprio quello che è avvenuto.

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Di fronte al trionfo del Neoliberalismo, delprofitto come valore assoluto, del conseguentepredominio di un materialismo pratico(edonismo, nichilismo, utilitarismo, empirismo,ecc.), non avendo più di fronte un avversario

ideologico (il materialismo teorico, l’ideologia totalitariacomunista, l’ateismo di stato), la Chiesa cattolica hamanifestato un’evidente debolezza pastorale. CertoBenedetto XVI ha abbozzato una risposta, con labeatificazione di Rosmini e con l’enciclica Caritas inVeritate, ma si resta ancora molto indietro: il massimo dienergia pastorale oggi possibile è ben al di sotto delminimo di impegno pastorale richiesto dalla storia. Si pagadrammaticamente la demolizione della sinistra montiniana.

Ciò significa, tra l’altro, che i cattolici che,pluralisticamente, si impegnano in politica, mancano di unparadigma forte di teologia morale e di visione pastoralecomplessiva, all’altezza della sfida storica presente (che non èpiù quella del Comunismo, ma quella del Neoliberalismo).Certi sbandamenti o smarrimenti affaristico-clientelari nonsono solo dovuti alle dinamiche interne di movimentiintegralistici autoreferenziali.

Occorrerebbero oggi, veramente, più comunione e piùliberazione: una Pastorale della Comunione e una Teologiadella Liberazione: cioè una Teologia rosminiana-mounieriana-conciliare (e montiniana) della Liberazione,come ecclesiologia e come evangelizzazione, che sola cioèpuò articolare efficacemente una ‘nuova evangelizzazione’ ingrado di reagire al gigantesco fallimento pastorale mondialedegli ultimi decenni: una drammatica distruzione analoga aquella del periodo rivoluzionario-francese e napoleonico(uno tzunami è stato definito al Sinodo).

È evidente, infatti, che la mediazione politica che,laicamente e pluralisticamente, operano i laici si inscrivesempre in un disegno pastorale di riferimento. Oggi questodisegno appare ambiguo e incerto tra essere conciliare otornare preconciliare (cioè alle dinamiche integriste avviate200 anni fa): la mediazione politica allora oscilla tra tendenzecentralisticamente unitarie e mantenimento del pluralismo, traempirismo di piccolo cabotaggio (e di compromessi affaristicicorruttivi) e visioni complessive (talvolta solo retoriche).

Come sarebbero i politici cattolici se, invece di una Chiesacontraddittoria, ci fosse una Chiesa dei poveri, una Chiesapovera, umile e mite, radicalmente evangelica?

È evidente che lamediazione politica

che, laicamente epluralisticamente,operano i laici si

inscrive sempre in undisegno pastorale di

riferimento.

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ntorno ai nodi del rapporto tra Concilio e politica ècambiato tutto così in fretta che ci ha sorpresil'impossibilità di scrivere sopra la mappa "Voi sietequi" per un tempo che duri almeno una stagione.

Dossetti pensava che nel nostro Paese la riforma della politicanon potesse andare disgiunta da una riforma della Chiesa. Ma ilconcilio, dopo avere coronato con la sua legittimazione glisforzi durati decenni per il riconoscimento di una nuovamaturità del laicato anche e soprattutto nello spazio pubblico,aggiunge di suo una svolta a gomito che attraversa la Chiesa einsieme la società civile italiana. Abbiamo del resto imparato a nostre spese che le discontinuitàaccadono e difficilmente possono essere programmate. Purtuttavia la categoria principale con la quale guardare ai lavoridei padri conciliari resta quella della tradizione: perché latradizione non è soltanto accumulo di memoria ma anche diaccadimenti di segno tra loro diversi, e racchiude in sé stessacontinuità e discontinuità, svolte a gomito comprese. Non acaso la grande tradizione ecclesiale ingloba la riforma diGregorio Magno che segnò il mondo antico con una cesurairreversibile, così come il concilio chiude la stagione dellacristianità per aprirne un'altra della quale ancora non abbiamointeso tutte le sfide. Approda in concilio l'immenso lavoro durato decenni dellenuove teologie delle realtà terrene, il tentativo anche pratico diribaltare la visione delle cose e di consentire ai laici finalmenteuna figura adulta. La stagione conciliare rappresentò la sintesi eil coronamento di questo percorso condotto in condizioniestremamente difficili, e aprì una fase nuova con ilriconoscimento del grande contributo al rapporto tra

Riforma della Chiesae della politica.

Due incompiute Giovanni Bianchi ex parlamentare e presidente ACLI

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cristianesimo e democrazia dato da Jacques Maritain, autore diUmanesimo integrale, cui papa Paolo VI consegnòsimbolicamente alla chiusura del concilio il proprio messaggioagli uomini di scienza e di pensiero. Un lungo itinerario sembrò ottenere finalmente accoglienza elegittimazione: un riconoscimento che chiudeva una stagioneper aprirne un’altra. Ma, con il senno di poi, il meriggio dellademocrazia e dei riformismi, all'incrocio sospirato tracristianesimo e illuminismo, dopo essere trionfalmenteapprodato in concilio, declina rapidamente con la rapidità di untramonto invernale. Un passaggio che vede maggiormente attente ed attrezzate lechiese che abitano in paesi lontani dall'Europa e che, dopoMedellin (1968) e Puebla (1979), vedranno messa sottoosservazione e inseguita da nuovi anatemi la teologia dellaliberazione. Gutierrez, Boff e Sobrino (cui aveva fatto dabattistrada il salesiano Giulio Girardi diffondendo unGramsci rivisitato) sconteranno le medesime pene di Congar,De Lubac e Chenu. Dietro i nuovi teologi della liberazione s'agita il fantasma diCamilo Torres, il prete che imbraccia il fucile, ma l’icona delprete guerrigliero è fuorviante: i nuovi approcci teologici chehanno il coraggio di confrontarsi sul campo con la durezza delpolitico non si distinguono dalla vulgata precedente per ilproblema dei mezzi – riforma o rivoluzione – ma perl'indicazione del passaggio che il dovere dell'ora sembrarichiedere: dall'ortodossia all’ortoprassi. E anche le culture politiche del Vecchio Continente, riassunte eaggiornate dalla teologia politica di Johann Baptist Metz, nonpotranno più evitare il nuovo terreno di confronto. Siesauriscono progressivamente le figure "classiche" dellamediazione e del servizio e l’urgenza dell’ortoprassi le strattonapiù verso nuovi tentativi e nuove pratiche che verso nuovisistemi culturali. Perché è pur sempre vero che nell'agone dellapolitica l'elaborazione teorica segue anziché precedere unadecisione pratica. E il non essersi messi su questa strada difficileha interrotto i sentieri e le strade precedenti. Il meriggio dei riformismi ha corso il rischio di vivere dellanostalgia di un primato della politica fattosi introvabile. Non acaso il problema attuale della politica non è la rivendicazione diun primato pregresso – sorta di spocchia da nobile decaduto –ma l'umiltà di praticare percorsi che questa dignità intendonoricaricare all'interno di un tessuto di sottosistemi, ivi compresoquello finanziario, che hanno dato luogo a una lotta globale

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senza quartiere per l'assetto dei poteri. Il fronte della contesanon è quello con l'antipolitica, anche perché l'antipolitica non èdestinata a restare tale per l'eternità, e il confine che la separadalla politica è poroso e attraversabile nei due sensi. L'antipolitica è sempre in attesa di chi la interpretipoliticamente (che è poi la lezione di Hegel) e se tu non necogli le domande verrà ovviamente interpretata contro di te.Può dispiacere e anche infastidire, ma il concetto di casta,elaborato da giornalisti molto attivi nel bombardare il quartieregenerale delle istituzioni, è diventato oramai una categoria dellapolitica italiana corrente. E non può essere evitato. Ilmarchingegno deve essere smontato sul campo, perché il suopermanere mantiene il muro che separa la politica da una suarecuperata credibilità. È la recezione del concilio totalmente avulsa da tutto ciò? Ildibattito e le svolte che attraversano i lavori conciliari ciriguardano ancora da vicino? Penso che col terzo millennio si sia aperta la "terza fase" nellarecezione del concilio, in una stagione caratterizzata daldisincanto e non di rado attraversata da movimenti anti-conciliari. Lontani mezzo secolo dall'entusiasmo degli inizi:non quello delle psicologie, ma quello dello Spirito che soffia.Quando il Papa Bergamasco indice il concilio la Chiesacattolica è spinta dall'ansia (l'aggiornamento giovanneo) di farepace con la modernità al tramonto. È così che il meriggio dei riformismi pare distendersi non piùsotto il sole di Satana ma sotto il sole di Dio. E, dove il ritardodelle politiche istituzionali rispetto alla dignità umana risultainsopportabilmente maggiore, come nei paesi abitati dallechiese latino-americane, la riforma si volge in strapporivoluzionario, creando il terreno opportuno alle teologie dellaliberazione. Detto alla plebea ma col lessico del Vangelo: Nonchiunque mi dice: Signore, Signore...(Mt 7,21). Una chiesa cattolicadunque finalmente e praticamente amica della politica, al puntoda pensare di uscire definitivamente dalla sindrome diCostantino. Cosciente della circostanza che è finita la cristianità,ma ne persiste la nostalgia. Il Concilio recupera infatti la costitutività dei soggetti e in ununico atto rivelativo comunica Dio e l'uomo, obbligando laChiesa stessa a riscoprirsi chiesa del concilio, e cioè erede dellostile conciliare e del suo ruolo "unico" e pastorale. Perché la"chiesa dei poveri" (e la chiesa povera) vuol dire cessare diviversi come instrumentum regni e come cristianità, servendosiinvece di quei "mezzi poveri" che erano la raccomandazione

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Penso che col terzomillennio si siaaperta la "terzafase" nella recezionedel concilio, in unastagionecaratterizzata daldisincanto e non dirado attraversata damovimenti anti-conciliari.

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più volte ripetuta da Giuseppe Lazzati. Una fisionomia dichiesa delineata in concilio dall'intervento del cardinale Lercarosulla "chiesa dei poveri" appunto – un testo steso nottetempoda Dossetti – e dal discorso pronunciato dal cardinale Frings,ormai quasi cieco, e preparatogli dal giovane teologo bavareseJoseph Ratzinger. La bussola di tutti gli approcci è rappresentata dalla lettura dei"segni dei tempi", quasi una categoria d'analisi estratta da papaRoncalli direttamente dal Vangelo di Luca (Lc 12,54-59) eillustrata nell'enciclica Pacem in terris (aprile 1963). Un'enciclicapreparata all'insaputa dei padri conciliari e gettata tra le lorocarte. Un'enciclica come spartiacque, anche se quei "segni deitempi" sono destinati a cambiare (e ahimè quanto lo sono) conil mutare della stagione storica.Il nuovo protagonismo del laicato "adulto" – sospinto dai testidelle grandi costituzioni conciliari – gonfia le vele delsindacato e del partito, mentre mette in discussione la stessastruttura tradizionale della Chiesa proponendo la centralità delpopolo di Dio – sacerdotale, regale, profetico – con unmutamento radicale della prospettiva comunitaria. L'altaregirato dalla parte dei fedeli, con il celebrante che non dà più lespalle durante la messa, illustra il cambiamento nella scenaliturgica. Così come l'abbandono del latino. È ovvio che la recuperata dignità dell'organizzazione politicanon possa andar disgiunta dal recupero di nuova dignità daparte di un laicato che al concilio era arrivato dopo una lungamarcia condotta all'interno delle sue associazioni. E a questopunto sarebbe forse utile introdurre una pausa di riflessionecirca il senso e il vissuto della nostra laicità: dal momento chetroppi esponenti della cultura laica nazionale la consideranouna propria prerogativa, quasi che i credenti debbanosemplicemente accedere a un territorio da essi presidiato,dimenticando le fatiche dei cattolici per contribuire a costruireuna laicità comune in grado di porsi come luogo terzo di unacittadinanza condivisa.Nel mezzo secolo che precede il concilio i laici che lavorano, sisposano, amministrano possono salvarsi comprimendo i viziinsiti in tutte queste attività e facendo beneficenza… Tra il 1917e il Concilio Vaticano II si svolge quella teologia e quella vitacristiana che possiamo definire delle realtà terrene e dellaautonomia dell’ordine temporale. Non è questa la sede per ritornare su quell'appassionantedibattito, basta qui rilevare che emergeva allora una veritàantica come le Scritture: l’"ordine temporale" si inseriva

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Un'enciclica comespartiacque, anche se

quei "segni deitempi" sono destinatia cambiare (e ahimèquanto lo sono) con

il mutare dellastagione storica.

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nell’ordine della creazione ed esso andava riportato a Dioattraverso la sua peculiarità e la sua autonomia. La storiadella salvezza non era un'altra storia. Sono noti a tutti autoricome Maritain, Chenu, Congar, La Pira. La valorizzazione teologica del temporale, l'intuizione che lasecolarità è luogo teologico essa stessa non poteva cheinscriversi in una lettura diversa del laicato nella chiesa e nelmondo. Spetterà al concilio coronare questi sforzi e condurre acompimento i faticosi tentativi che affermano l'essere tuttiChristi fideles, e quindi tutti, laici e chierici, partecipi delsacerdozio comune. Partecipi cioè di quella "piena dignità" chepadre Philips mette in rilievo come tonalità dominante nonsoltanto del capitolo de laicis ma di tutta la costituzione LumenGentium, e che ha in Sant’Agostino il primo estimatore: con voisono cristiano, per voi sono vescovo. Per questo mi è parso utile ricollegarmi alle analisi sullarecezione del Concilio Ecumenico Vaticano II scegliendo lacategoria della tradizione, la più solida e illuminante rispetto adaltre versioni quali continuità e discontinuità, dal momento che

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la categoria della tradizione le ricomprende. La tradizione non è infatti ripetizione, ma accumulo, non solodi conoscenze ma anche di esperienze. Due piani di letturadunque che si richiamano l'uno all'altro. Con due avvertenze, digrande valenza politica, che si impongono: la recezione delconcilio non può essere la sola recezione dei documenti, macoinvolge tutti i soggetti ecclesiali nella loro trasformazione enella trasformazione soprattutto dei rapporti reciproci; dietroogni modello ecclesiale si organizza un modello comunicativo. E qui il problema si affaccia: un concilio a rischio d'essere"tradito" per troppa cautela e poco coraggio, di cui è spia ilsilenzio rassegnato dei teologi. Non un punto d'arrivocomunque, ma un crocevia per una ripartenza. Un grumo diproblemi era approdato in concilio. Da tempo erano al lavoropensatori e testimoni che si affaticavano intorno allesollecitazioni proposte dalla modernità. La stagione più felice intermini di elaborazione fu quella preconciliare, dagli anniTrenta (con la famosa opera del p. Congar Jalons pour une teologiedu laïcat) ai Cinquanta, con le ricerche di Lazzati e le esperienzein Italia anche traumatiche di dirigenti di Ac come CarloCarretto e Mario Rossi. La stagione conciliare rappresentò la sintesi e il coronamento diquesto percorso condotto in condizioni estremamente difficili.È proprio qui che la recezione italiana del concilio ecumenicotrova gran parte delle ragioni di un nuovo innesto nellatradizione. Si riapre per così dire la stagione del riformismo,nella sua accezione pluriculturale. Il coronamento nelle formedel politico è rappresentato dalla formula di centro-sinistra (conil trattino e senza) con l'egemonia rinnovata, dopo De Gasperi,del cattolicesimo democratico. Un filo tragicamente spezzato dall'assassinio di Aldo Moro:vera tragedia all'interno dell’itinerario democratico del Paese,perpetrato dalle Brigate Rosse per la scelta evidente di colpire ivertici nella pratica politica come in quella civile di unriformismo possibile. Ma da situare anche all’interno di unaoscura strategia di poteri forti, a cavallo tra civile e istituzioni,sordidi e occulti, mai estirpati dalle caverne della storianazionale. (E’ la trama della quale si occupa Miguel Gotor nelsecondo libro sul carteggio di Aldo Moro.) Non si tratta tuttavia dell'unica pista che attraversa i lavoridei padri radunati a Roma. L'altra pista, più esplicita e menoaddomesticata dal continuismo progressivo dei testiconciliari, è quella che più decisamente fa riferimentoall'input giovanneo e che pone profeticamente (ed

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la recezione italianadel concilio ecumenicotrova gran parte delle

ragioni di un nuovoinnesto nella

tradizione. Si riapreper così dire la

stagione delriformismo, nella sua

accezionepluriculturale.

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ecumenicamente) il fuoco del problema tra fede e storia. Un tema meno acculturato ma più evidente nell'esperienzadelle chiese non europee. Non soltanto la mediazione ereditatadalla vulgata cattolico-democratica ed in certo senso ormaiclassica, ma una mediazione sempre necessaria e da ripensare eri-praticare con una inedita attenzione al rapporto tra Vangelo estoria, fede e politica. È il colpo di barra rappresentato dalla pubblicazionedell'enciclica Pacem in terris. E che l'esegesi più avvertitarintraccia nell'insistenza dei padri nel codificare l'espressione"popolo di Dio" invece che "corpo di Cristo", la dizionesostenuta da Paolo VI. Ed è a dir poco confortante constatarecome nessuno dei 70 schemi iniziali arrivi in porto alla fine,benché si fosse lavorato tre anni alla loro preparazione. Ovviamente la figura del cattolicesimo politico italiano siconfronta con queste discontinuità, non sempre avvertendonel'urgenza. Un modo di atteggiarsi condotto all'estenuazione dal"ruinismo", frutto di una pratica politicamente vincente checonsuma la figura del servizio interpretandocontrattualisticamente la mediazione e affermando de facto ilprimato dell'Istituzione sulla Parola. Una linea, quellarappresentata dal Cardinale Presidente, che prende atto, dopoun primo tentativo di accanimento terapeutico, della fineirreversibile dell'esperienza della Democrazia Cristiana,determinata dal venire meno delle condizioni interne edinternazionali che l’avevano legittimata. Il ruinismo conclude, nel senso che conduce agli esiti finali,tutto ciò. L'estenuazione è il metodo. L'ipotesi culturale, varatanel convegno ecclesiale di Palermo del 1995, l'icona. Il temaviene invece affrontato nella novità del suo spaesamento dallechiese non europee. Vi è un'eco e una versione di questa svolta a "U" anche nellaChiesa italiana. Due figure di vescovi eminenti sono ilriferimento magisteriale di quest'altra parte, più in ombra, dellascena. Si tratta di don Tonino Bello, che propone in particolare unaliberazione dalla guerra e dalla tirannia del potere clientelare, edi Carlo Maria Martini, il vescovo gesuita e biblista di Milano,assertore in ogni intervento del primato della Parola chegiudica l'Istituzione. Ma se don Tonino è il punto di riferimentodi movimenti giovanili e comunità, il magistero martiniano,universalmente apprezzato e lodato post mortem, non era statoaccompagnato da una altrettanto visibile militanza nella prassi. Nella recezione conciliare si apre così una irrisolta dicotomia. Si

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L'ipotesi culturale,varata nel convegnoecclesiale di Palermodel 1995, l'icona. Iltema viene inveceaffrontato nellanovità del suospaesamento dallechiese non europee.

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chiudono insieme la stagione della militanza e quella delriformismo. Le riforme “compatibili” le fanno i sacerdoti delcapitale. Sarebbe miope e addirittura autolesionistico sottacere aquesto punto la grande occasione rappresentata dall'Ulivo:meno di un partito e molto più di una coalizione, in grado diporsi alla confluenza delle grandi tradizioni politiche del Paese,di fare sintesi e di additare un orizzonte ulteriore. Ma dalla crisalide non ha volato a lungo la farfalla. Perché? Untema immenso. Ma anche perché un partito non nasce da altripartiti, bensì dai luoghi di una storia dove la memoria è capacedi semi di futuro. E anche perché le riforme in grado dicambiare il corso degli avvenimenti raramente si configuranocome riforme dall'alto e non discendono (soltanto) dall'azionedi un governo, anche quando si tratta del miglior governo che ilPaese ha avuto dopo Tangentopoli. La transizione infinita dunque, a ben guardare, ha non scarseradici nella recezione del concilio. Anche perché si trova a fare iconti con una drastica mutazione di quelli che, proprionell'enciclica Pacem in terris, papa Giovanni XXIII aveva definitoi "segni dei tempi". Papa Giovanni XXIII indicava l’ascesa economico-sociale delleclassi lavoratrici, l’ingresso della donna nella vita pubblica e lacircostanza che tutti i popoli si erano costituiti o si stavanocostituendo in comunità politiche indipendenti. Non è chi non veda quasi un segnare il passo o addiritturaun degrado. Perciò la relazione finale de Sinodo dei Vescovi– quello convocato per il ventennale del Vaticano IItrent'anni fa – pur riaffermando l’importanza della Gaudiumet Spes, ha dovuto dire: Percepiamo che i segni del nostro tempo sonoin parte diversi da quelli del tempo del Concilio, con problemi e angoscemaggiori... Ciò obbliga a una nuova e profonda riflessione teologica perinterpretare tali segni alla luce del Vangelo. E se gli uomini di chiesa si sentono obbligati a pensare le nuoveemergenze in teologico, parrebbe perfino logico che gli uominipolitici si sforzino di fare altrettanto mettendo a tema regolaritàe irregolarità della politica, nel tentativo urgente di recuperare,se non il primato perduto, almeno una credibilità sufficiente aridare dignità a una politica senza la quale nessuna società puòuscire dal disordine.

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La transizioneinfinita dunque, aben guardare, hanon scarse radici

nella recezione delconcilio.

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na soggettualità riconosciuta: i laiciIl Vaticano II è il primo Concilio che dedicauno specifico documento ai cristiani laici.Dopo secoli di denigrazione della condizionelaicale, definita per negazione (il laico è colui

che non è chierico, né monaco; il laico è l’incolto,l’incompetente) e ricondotta a una condizione di minorità edi sostanziale irrilevanza (come asseriva il card. Bellarmino, ilaici non hanno alcuna funzione nella chiesa), il ConcilioVaticano II riconosce la soggettualità dei laici e ne tratteggiacaratteri specifici, funzione, missione, dedicando a questotema ampi riferimenti nelle due Costituzioni Lumen gentium eGaudium et spes e l’intero decreto Apostolicam actuositatem. Illemma “laicità” non compare nel corpus dei documenticonciliari, ma la successiva elaborazione post-conciliare dellatematica e gli argomenti richiamati nel dibattito, pubblico edecclesiale, affondano le loro radici nel dettato dei documentie nelle prospettive adottate dai padri conciliari per parlaredell’identità laicale. Chiunque però accosti con sguardo critico i passaggi deidocumenti del Vaticano II dedicati a questo tema coglie lacompresenza di diversi modelli interpretativi che rimangonosemplicemente giustapposti: il Vaticano II appare su questotema indubbiamente “concilio di compromesso”, incapace diportare a visione unitaria e sistematica la riflessione; da unlato è debitore della riscoperta del laicato avvenuta nellateologia e nella prassi ecclesiale nella prima metà del ‘900 edall’altro portatore di intuizioni nuove sulla relazione chiesa-mondo che –non previste- andavano emergendo nel corsodei dibattiti conciliari. Apostolicam actuositatem e il cap. IV di Lumen gentiumripropongono le linee di “teologia del laicato” maturata nellachiesa francese degli anni’50; il secondo capitolo di Lumengentium e soprattutto la Gaudium et spes aprono nuovi scenari

Domanda di laicitàSerena Noceti è docente di teologia sistematica alla Facoltà teologica dell'Italia centrale

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di presenza laicale, nella società e nella chiesa, segnati da unapiù autonoma e consapevole soggettualità. I due gruppi ditesti affrontano il tema dell’azione dei laici nella compagineecclesiale e nella sfera pubblica, ma il retroterra, ilfondamento, l’orizzonte interpretativo di una tale presenza eazione sono differenti; sono testi segnati e alimentati daprospettive ecclesiologiche per larghi tratte diverse. Una ricognizione pur rapida delle due diverse interpretazionedel laicato lungi dal risolversi in una riflessione tutta internaalla vita ecclesiale permette di comprendere l’elaborazione didifferenti modelli di laicità da parte del mondo cattolico nelpost-concilio: il recente dibattito risente della compresenza,non risolta, di diverse declinazioni del rapporto chiesa-mondo nella mens conciliare e nella lettera dei documenti. Letrattazioni dedicate alla fisionomia dei laici, coloro chevivono nell’intersezione tra dinamiche ecclesiali e relazionichiesa-società/stato, portano le tracce più evidenti di questapoliforme, “ambigua”, incompiuta riflessione.

Due visioni dei laici, due scenari di laicitàIl decreto sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem e ilIV capitolo della Costituzione sulla chiesa, mentresottolineano il necessario riconoscimento dell’azione e dellapresenza dei laici nel mondo, nella vita pubblica e sociale,individuano lo specifico dei laici cristiani nell’«ordinare lecose del mondo secondo Dio» (LG 31) e ricordano che èproprio dei «pastori enunciare con chiarezza i principi circa ilfine della creazione e l’uso del mondo, dare aiuti materiali espirituali affinché l’ordine del temporale venga instaurato inCristo» (AA 7). Alla base di tali affermazioni staindubbiamente un impianto teoretico ancora incentratosull’idea di cristianità e articolato sulla distinzione (che non èpiù separazione contrappositiva, ma non è ancora articolatasulla base dell’interazione sostanziale tra i due) tra due ordinie fini - soprannaturale e naturale, spirituale e temporale-, trauna sfera mondo e una sfera chiesa, la prima spazio propriodei laici, il secondo appannaggio del clero a cui spetta dareindicazioni e principi anche per l’azione nel mondo. La determinazione delle norme di comportamento nelmondo viene, in questa prospettiva, fondamentalmente dallaparola di autorità del magistero che i laici devonoconcretizzare nella sfera sociale, pubblica, economica,politica. Si allarga così lo spazio di azione dei laici, se nelegittima l’autonomia di prassi nella sfera mondana e la

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Il secondo capitolo diLumen gentium e

soprattutto laGaudium et spes

aprono nuovi scenaridi presenza laicale.

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responsabilità personale, ma essi ancora troppo spessopensato come “figure di mediazione tra due sfere”giustapposte (chiesa e mondo), seconda una bipartizione deifini apostolici (spirituali e temporali). I laici, attori finalmentericonosciuti sulla scena del mondo, ma non autonomi fino infondo e solo parzialmente soggetto di determinazione deicontenuti del dire la fede nell’oggi della storia. I processicomunicativi intraecclesiali che vengono delineati in questodocumento sono, infatti, con rare eccezioni,fondamentalmente pensati dalla gerarchia verso il laicato.Ben diverso lo scenario tratteggiato nel secondo capitolo dellaLumen gentium, che inquadra il laico nel più vasto ambito delpopolo di Dio, cioè del Noi ecclesiale complessivo, e nellaGaudium et spes, la Costituzione pastorale sulla chiesa nel mondocontemporaneo. Il mondo è colto come spazio storico nelquale si compie il progetto di Dio di riconciliazione, pace,giustizia, pienezza di comunione con Dio e di unità del genereumano; la chiesa si riconosce come parte di questa umanità,portatrice di una missione unica, ma anche collaboratrice diquanti orientano la loro azione verso queste prospettive dipienezza di vita e realizzazione per l’umanità intera, pur mossida differenti motivazioni o ideali (GS 40-45).

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La determinazionedelle norme dicomportamento nelmondo viene, inquesta prospettiva,fondamentalmentedalla parola diautorità delmagistero che i laicidevono concretizzarenella sfera sociale,pubblica, economica,politica.

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La chiesa indica il suo specifico apporto al mondo nellaParola annunciata, nei sacramenti, nella vita comunitaria, maafferma anche il suo essere relativa al realizzarsi del progettodi Dio per l’umanità e al mondo; sa di essere chiamata aleggere i segni della presenza di Dio anche al di fuori dei suoiconfini e riconosce il dovere di interpretare i linguaggi deltempo e delle culture come via per poter comprendere piùprofondamente il vangelo stesso. I laici sono visti comecoloro a cui «spettano propriamente anche se nonesclusivamente gli impegni e le attività temporali» (GS 43) einsieme sono riconosciuti come soggetti che – dotati diparola autorevole nel corpo ecclesiale – contribuiscono acomprendere e annunciare il vangelo di Gesù nell’oggi dellastoria. Le dinamiche comunicative necessarie al corpoecclesiale sono in questo caso pluridirezionali: senza negarelo specifico necessario di una parola dei vescovi, i documentirichiamano la specifica e necessaria parola dei laici, custodi diquesto radicamento della chiesa nel mondo. Gaudium et spesconsegna quindi la possibilità e la necessità di pensare primadi tutto la stessa “laicità di chiesa”, nel superamento avvenutoin Cristo della separazione tra sacro e profano, dellacontrapposizione tra un ordine naturale e un ordinesoprannaturale. Laicità indica perciò questa modalità dirapportarsi al mondo, al sacro e ai sistemi di mediazione traDio e la storia; laicità è riconoscersi “mondani” e “storici”.Per i cristiani laici si apre la difficile missione di porsi nellacompagine ecclesiale come i garanti della laicità di chiesa, icustodi della sua estroversione. Il lucido richiamo alla coscienza, libera, autonoma,responsabile, e l’affermata autonomia delle realtà terrene(rispettivamente GS 16 e 36) offrono poi prospettiveinnovative per pensare la laicità dello stato e sulle dinamiche diinterazione “laica” che –credenti in Cristo, appartenenti adaltre religioni, non credenti, ma tutti cittadini– devonosviluppare nella società democratica, perché delineano lecondizioni e le forme di soggettualità del singolo e i critericon i quali rapportarsi alle leggi che regolano la convivenzasociale. «Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono aglialtri uomini per cercare la verità e per risolvere secondoverità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita deisingoli quanto in quella sociale; «le cose create e le stessesocietà hanno leggi e valori propri che l’uomo devegradatamente scoprire, usare e ordinare […]. È dalla lorostessa condizione di creature che tutte le cose rivedono la

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propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e illoro ordine; e tutto ciò l’uomo è chiamato a rispettare,riconoscenza le esigenze di metodo proprie di ogni singolascienza o arte».

A 50 anni dal Concilio Il confronto con un crescente pluralismo culturale ereligioso, a cui la società italiana è apparsa culturalmentepoco preparata e avvertita, il riemergere – sostanzialmenteinatteso – della sfera del religioso esplicito nelladeterminazione dei contenuti di coscienza collettiva, gliorientamenti e le sollecitazioni di quanti vorrebberoricondurre il cattolicesimo a una forma di civil religion, in unasocietà frammentata, disorientata, disincantata come quellaitaliana, hanno spinto nell’ultimo decennio a un confrontosulla laicità, dello stato – della società – della chiesa, venatoda una evidente polemicità. Rivisitare il dibattito sullo sfondo delle concezioni teologicheconciliari sui laici e sulle correlative comprensioni dellarelazione chiesa-mondo che esse consegnano permette forsedi delucidare il retroterra di alcune posizioni cattoliche e disviscerarne le implicazioni. Il ruolo assunto dall’episcopatoitaliano sulla scena sociale in questi ultimi due decenniappare forse in questa prospettiva chiaramente collegato auno dei possibili modelli interpretativi di presenza dei laici edi interpretazione della missione ecclesiale (quello diApostolicam actuositatem). La via percorsa non deve però fardimenticare la presenza di un altro modello, di presenza-parola dei laici e di articolazione della relazione dellachiesa-società/stato. Sta oggi ai laici cattolici recuperare conlucidità la visione di Gaudium et spes per poter scegliere divivere la laicità, connaturata all’esperienza cristiana, comecapacità di assumere fino in fondo le logiche del mondo dicui siamo parte, insieme a tutti gli altri, valorizzandol’autonomia della coscienza libera e responsabile di tutti,l’autonomia delle realtà terrene, e – di conseguenze – agendoda credenti e perché credenti “etsi Deus non daretur”. Si tratta poi di recuperare quanto affermato nel secondocapitolo di Lumen gentium, sulla soggettualità di parolaautorevole dei laici. Il dibattito pubblico ha risentito di unasituazione di crisi e di stallo nelle relazioni intra-ecclesiali: lavoce dei laici non ha avuto posto adeguato nella chiesa; lerelazioni comunicative intraecclesiali sono state in larga parteunidirezionali (dalla gerarchia al laicato); le richieste di

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Rivisitare ildibattito sullo sfondodelle concezioniteologiche conciliarisui laici e sullecorrelativecomprensioni dellarelazione chiesa-mondo che esseconsegnano permetteforse di delucidare ilretroterra di alcuneposizioni cattoliche edi sviscerarne leimplicazioni.

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partecipazione, di sinodalità, sono rimaste inascoltate conripercussioni gravi non solo per la vita di chiesa, ma per lasocietà in Italia; gli incontri ecclesiali (anche nazionali) sonospazio di parola per pochi e vedono molto raramente unaprofondità e libertà di ricerca e dibattito. Non porre lecondizioni concrete perché l’apporto laicale sia offerto,riconoscibile e recepibile nelle grandi dinamiche che fanno lachiesa, la esprimono e la mantengono in essere, significadepauperare di fatto il soggetto ecclesiale, negando a una suacomponente costitutiva lo spazio della visibilità e dellamediazione necessaria per arricchire l’insieme, soprattuttoquando si tratta di prendere posizione su grandi temi etici, suscelte economiche e politiche, sull’indirizzo da dare allaconvivenza civile. Un deficit intraecclesiale ha avuto indubbiericaduta sulla scena pubblica.

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Una Chiesa per l’oggiNella grande epoca della societas christiana, data launiversalmente presunta identificazione dellaChiesa con la società, non si sentiva alcunparticolare bisogno di una “teologia

contestuale”: testo e contesto potevano apparire come lastessa cosa. Ne hanno sentito acuto, invece, il bisogno, iPadri del concilio Vaticano II. La possibilità di risponderviveniva da un modo diverso di considerare il rapporto fra laChiesa e la storia. La nuova approfondita meditazione deitesti biblici aveva reso superabile l’idea che la Chiesacostituisse la forma ideale del mondo e, in qualche maniera,il punto d’arrivo del suo destino: questo, infatti, è il Regno diDio, oggi presente, ma solo in germe, nella Chiesa (LG 3).Essa non ne costituisce affatto il compimento in terra,perché “va lentamente crescendo, anela al regno perfetto econ tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nellagloria” (LG 5). In rapporto alla forma perfetta del mondo, ilregno di Dio, la Chiesa è uno strumento: “è, in Cristo, inqualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumentodell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genereumano” (LG1).

Con questa impostazione si supera il tradizionaleecclesiocentrismo, nel quale l’esito positivo della storiaappariva condizionato radicalmente dalla tensione verso ilconvergere di tutto il mondo nella Chiesa e il mondo restavaessenzialmente connotato in maniera negativa: una specie dichiesa mancata da recuperare, annettendolo a sé. Ne derivalo spogliamento della Chiesa di un certo suo manto diassolutezza, per cui nella fede si è consapevoli che essa

Una Chiesa di laicinella società democratica

Severino Dianich è teologo e Vicario Episcopale per la Pastorale della Cultura e dell’Università a Pisa

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“cammina insieme con l'umanità tutta e sperimenta assiemeal mondo la medesima sorte terrena” (GS 40).

Un Chiesa di persone in dialogo con lepersoneUna volta trasferito il carattere di assolutezza allafigura del Regno, tutta l’impostazionedell’ecclesiologia supera quella visione

esclusivamente oggettivistica che era propiziata anche dalconfrontarsi di una Chiesa, consapevole di sé come dotata diun valore assoluto, in possesso di tutta la verità, con una realtàreputata vuota di qualsiasi valore, il mondo. Gia nella radicepiù profonda della fede, però, cioè nell’evento stesso delcredente che accoglie la rivelazione divina, il concilio vededominante la prospettiva personalista: la rivelazione non èproclamazione di una legge, è bensì Dio che “nel suo grandeamore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene conessi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé” (DV 2).

Di conseguenza per GS 40, la dimensione personalistaconnota della fede che anima il rapporto della Chiesa con gliuomini: “Tutto quello che abbiamo detto a proposito delladignità della persona umana, della comunità degli uomini, delsignificato profondo della attività umana, costituisce ilfondamento del rapporto tra Chiesa e mondo, come pure labase del dialogo fra loro”. E’ quindi interessante osservare lamutazione del linguaggio: se l’espressione abituale prima eraquella che sottolineava i “diritti della verità”, incomparabilicon quelli, insostenibili, dell’errore, il concilio parlerà sempree solo dei “diritti delle persone”. Non se ne derival’abbandono della convinzione che l’uomo deve porsi allaricerca della verità, ma se ne declinano i valori partendo daldovuto rispetto della coscienza di ogni persona umana: “Laverità, però, va cercata in modo rispondente alla dignità dellapersona umana e alla sua natura sociale: e cioè con unaricerca condotta liberamente”. La comunicazione fra lepersone vi svolge un ruolo fondamentale, con un dialogo nelquale “gli uni rivelano agli altri la verità che hanno scoperta oche ritengono di avere scoperta” (DH 3).

Una Chiesa operante in una societàdemocraticaLa lunga battaglia condotta nel passato controla concezione e la pratica democratica dellasocietà civile aveva cominciato a placarsi solo

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con Pio XII (vedi il famoso Messaggio Radiofonico per ilNatale del 1944). A placarsi ma non a cessare, perchél’ideale del papa era rimasto sino alla fine quello di potergiungere alla restaurazione di uno stato confessionale. Ilconcilio, invece, a partire dalle considerazioni precedenti,può giungere ad affermare che per la Chiesa vivere in unregime di libertà democratica costituisca la condizione piùfavorevole alla sua missione, perché essa può vivere ecompiere la sua missione in un ambiente nel quale “gliesseri umani possono essere invitati senza alcuna difficoltàalla fede cristiana, e possono abbracciarla liberamente eprofessarla con vigore in tutte le manifestazioni della vita”(DH 10).

Non c’è nei documenti conciliari alcun ripiegamento dellaChiesa all’interno di una missione esclusivamente religiosa,in una concezione individuale e privatistica della fedecristiana, ma sì l’impostazione di un nuovo equilibrio fra lecomponenti diverse della sua missione: “La missione propriache Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è d'ordine politico,economico o sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso èd'ordine religioso. Eppure proprio da questa missionereligiosa scaturiscono compiti, luce e forze, che possonocontribuire a costruire e a consolidare la comunità degliuomini secondo la legge divina” (GS 42). Questaimpostazione è corroborata dalla convinzione che “la forzache la Chiesa riesce a immettere nella società umanacontemporanea consiste in quella fede e carità effettivamentevissute, e non in una qualche sovranità esteriore esercitatacon mezzi puramente umani”.

Una chiesa di fedeli responsabiliNonostante che i problemi istituzionalipersistano, il nuovo quadro sociale e la nuovaimpostazione teologica del modo di intenderela missione della Chiesa, con la emergenza a

tutti i livelli, del primato della persona, stanno spostandola questione, sempre di più, dal quadro del rapporto delleistituzioni della Chiesa con le istituzioni della società civile(Chiesa e stato) a quello del rapporto della Chiesa stessa,intesa come corpo dei cristiani, con il corpo dei cittadini diuna nazione.

Se questo spostamento porta in primo piano le relazioniinterpersonali, nondimeno interessa l’influenza che lepersone, come è ovvio accada in una società democratica,

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esercitano sugli stessi sviluppi dell’ordinamento sociale:basti pensare al problema della raccolta del consenso inordine agli sviluppi della legislazione. E’ l’ordinamentodemocratico dello stato laico, del resto, per primo, adaprire a chiunque, non escluse le aggregazioni religiose,tutto lo spazio necessario nel quale ciascuno possaesercitare il proprio influsso sulla società. Vedi l’art. 20della nostra Costituzione: “Il carattere ecclesiastico e il finedi religione o di culto d'una associazione od istituzionenon possono essere causa di speciali limitazionilegislative…”.

Ciò che è evidente, anche se in pratica si scontra condelicati nodi di coscienza, non sempre facili da sciogliere, èche il credente non può portare sul tavolo del dibattitodemocratico tutte e ciascuna delle sue convinzioni, che perlui sono dotate di un carattere di assolutezza, come se

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dovessero risultare tali a tutti gli altri interlocutori. Ilregime democratico, infatti, è in grado di accoglierequalunque proposta di chiunque, fuorché quella di chipretendesse per la propria un carattere di assolutaimperatività. Nel dibattito democratico la fede richiede diessere raccontata, piuttosto che proclamata. Essa è allabase dell’esperienza di vita di ogni cittadino credente eporta con sé, fra l’altro, un enorme prezioso bagaglio diesperienza vissute lungo la storia. Paolo VI parlava dellaChiesa come “esperta in umanità”. Ebbene, sono i valoridi questa esperienza umana, nella loro contingenza, anchese vissuti dai credenti con tutta l’anima, che possonoessere proposti e devono essere accolti nella liberademocratica discussione sull’ordinamento sociale. E’molto suggestiva questa pagina di Jacques Maritain,secondo il quale la questione della proponibilità sociale epolitica del messaggio cristiano “non verte sulcristianesimo come credo religioso e come via alla vitaeterna, ma sul cristianesimo come lievito della vita socialee politica dei popoli. Non è nelle altezze della teologia, manelle profondità della coscienza profana che agisce ilcristianesimo così inteso, prendendo talvolta formeeretiche e perfino di rivolta, in cui sembra rinnegarsi, comese i frammenti spezzati della chiave del paradiso, cadendonella nostra vita di miseria e unendosi in lega con i metallidella terra, riuscissero più della pura essenza del metalloceleste ad attivare la storia di questo mondo” (J.Maritain,Cristianesimo e democrazia, Comunità, Milano 1953, 17).

La responsabilità propria dei “fedeli laici”Se nella Chiesa per i valori della fede è dovutoil riconoscimento da parte dei fedelidell’autorità del magistero, per la loroattuazione nell’ambito sociale e politico vale

quanto GS 43 afferma a proposito del rapporto tra ipastori e i fedeli laici: “Spetta alla loro coscienza, giàconvenientemente formata, di inscrivere la legge divinanella vita della città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettinoluce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastorisiano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovoproblema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano averepronta una soluzione concreta, o che proprio a questo lichiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, lapropria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e

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Dai sacerdoti i laicisi aspettino luce eforza spirituale.Non pensino peròche i loro pastorisiano sempre espertia tal punto che, adogni nuovo problemache sorge, anche aquelli gravi, essipossano averepronta unasoluzione concreta.

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facendo attenzione rispettosa alla dottrina del magistero”. E’ vero, e molto doloroso, che ancora oggi ci siano nel

mondo Chiese che stanno sperimentando i drammi dellepersecuzioni, al punto da dover piangere i propri morti, sepure nell’ammirazione del loro martirio. E’ paradossale, però,che nei paesi a democrazia avanzata, la Chiesa dial’impressione di faticare nel collocarsi perfettamente a suoagio in una società pluralista, libera e democraticamentegovernata. Sembra sia incapace di sentirsi se stessa se non èperseguitata o se non é egemone.

Il disagio è dovuto indubbiamente al fatto che in molti nelmondo cattolico non si è ancora digerito l’avvento dellamodernità e la la fine della “società cristiana”. Spesso, anchese senza una sufficiente consapevolezza, ci si atteggia comese il rapporto di fede che lega i fedeli al magistero della loroChiesa dovesse trasferirsi, tale e quale, nella relazione dei“cittadini”, cattolici o protestanti e ortodossi, cristiani o dialtra religione, credenti o non credenti, con la Chiesa, i suoiprincipi e le sue leggi.

Solo una seria consapevolezza e una decisa messa inpratica del quadro delle relazioni fra il magistero dei pastori ela responsabile autonoma dei laici in politica, enunciato neltesto ora citato della Gaudium et spes, con l’assunzione daparte loro della “propria responsabilità” nei confronti dellasocietà civile, sarà capace di sciogliere questo nodostoricamente così intricato.

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E’ vero, e moltodoloroso, che ancora

oggi ci siano nelmondo Chiese che

stannosperimentando i

drammi dellepersecuzioni, alpunto da dover

piangere i proprimorti, se pure

nell’ammirazione delloro martirio.

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Premessa: quando la ricezione cambia lostatus dei documentiIl recente testo del papa datato 2 agosto e resonoto l'11 ottobre, dal titolo «Fu una giornatasplendida» (leggibile per intero qui

http://flavr.fi/6i) è decisamente molto interessante.Riepiloghiamo brevemente i passaggi più interessanti e menoscontati che lo portano a far salire di status due documentiminori in quanto parziali (la "Dignitatis Humanae" sullalibertà religiosa e la "Nostra Aetate" sulle religioni noncristiane) rispetto al documento più generale (la "Gaudium etSpes") .

Il problema lasciato aperto dalla "Gaudiumet spes"Anzitutto c'è una relativizzazione della"Gaudium et Spes", testo importante ma chenon si è rivelato in grado di risolvere la

questione di fondo per cui era stato pensato. ScriveBenedetto XVI:

"Dietro l’espressione vaga 'mondo di oggi' vi è laquestione del rapporto con l’età moderna. Per chiarirlasarebbe stato necessario definire meglio ciò che eraessenziale e costitutivo dell’età moderna... Sebbene laCostituzione pastorale esprima molte cose importanti per lacomprensione del “mondo” e dia rilevanti contributi sulla

Benedetto XVIe la dichiarazione sulla libertà religiosa

Stefano CeccantiSenatore Pd

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questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita aoffrire un chiarimento sostanziale. "

Perché più felice la "Dignitatis humanae"Subito dopo, però, Benedetto XVI spiega anchein positivo dove questo tentativo è meglioriuscito, soprattutto alla luce della ricezione:

"Inaspettatamente, l’incontro con i granditemi dell’età moderna non avvenne nella grande Costituzionepastorale, bensì in due documenti minori, la cui importanza èemersa solo poco a poco con la ricezione del concilio. Sitratta anzitutto della Dichiarazione sulla libertà religiosa, richiestae preparata con grande sollecitudine soprattuttodall’episcopato americano. La dottrina della tolleranza, cosìcome era stata elaborata nei dettagli da Pio XII, non apparivapiù sufficiente dinanzi all’evolversi del pensiero filosofico edel modo di concepirsi dello Stato moderno. Si trattava dellalibertà di scegliere e di praticare la religione, come anchedella libertà di cambiarla, in quanto diritti fondamentali allalibertà dell’uomo. Dalle sue ragioni più intime, una taleconcezione non poteva essere estranea alla fede cristiana, cheera entrata nel mondo con la pretesa che lo Stato nonpotesse decidere della verità e non potesse esigere nessuntipo di culto. La fede cristiana rivendicava la libertà allaconvinzione religiosa e alla sua pratica nel culto, senza conquesto violare il diritto dello Stato nel suo proprioordinamento: i cristiani pregavano per l’imperatore, ma nonlo adoravano. Da questo punto di vista si può affermare cheil cristianesimo, con la sua nascita, ha portato nel mondo ilprincipio della libertà di religione. Tuttavia, l’interpretazionedi questo diritto alla libertà nel contesto del pensieromoderno era ancora difficile, poiché poteva sembrare che laversione moderna della libertà di religione presupponessel’inaccessibilità della verità per l’uomo e che, pertanto,spostasse la religione dal suo fondamento nella sfera delsoggettivo. È stato certamente provvidenziale che, tredicianni dopo la conclusione del concilio, Papa Giovanni PaoloII sia arrivato da un Paese in cui la libertà di religione venivacontestata dal marxismo, vale a dire a partire da unaparticolare forma di filosofia statale moderna. Il Papaproveniva quasi da una situazione che assomigliava a quelladella Chiesa antica, sicché divenne nuovamente visibilel’intimo ordinamento della fede al tema della libertà,soprattutto la libertà di religione e di culto."

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Si trattava dellalibertà di scegliere e

di praticare lareligione, come anche

della libertà dicambiarla, inquanto diritti

fondamentali allalibertà dell’uomo

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Cosa ci dice di non scontato Benedetto XVI? Che inrealtà la modernità americana (quella non ostile al fattoreligioso e quindi quella con cui è più facile riconciliarsirispetto a quella francese) non ha fatto altro che riprendere laTradizione più antica di relativizzazione dello Stato e dellapolitica smantellando le tradizioni più recenti di perdita deldualismo cristiano attraverso la figura degli Stati cristiani. LaDignitatis Humanae, in altri termini, riesce meglio della"Gaudium et spes" perché distingue più nettamenteall'interno del moderno una verità di fondo, cioè il rilanciodel dualismo cristiano, del limite della politica che nonpossiede il monopolio del bene comune rispetto all'ereditànegativa del moderno, alla perdita della distinzionereligione/politica. Ci riesce perché il liberalismo americano asfondo religioso si allea già in Concilio con l'esperienzadell'Est europeo, con un'altra forma di relativizzazione delloStato ad opera di un cristianesimo che tiene saldo ilpluralismo rispetto alla religione secolare comunista.

La ricezione di cui parla il papa è la Terza Ondatademocratica di cui parla Huntington, iniziata nei paesicattolici (a cominciare da Portogallo e Spagna) dove hacomportato la rottura degli assetti confessionalistici (a lungodifesi anche dagli episcopati locali ancor più che dalla Curia)per espandersi poi anche nel Centro e nell'Est Europarompendo lo schema di Yalta. Da qui si capisce anche ildoppio fronte polemico. Per un verso rispetto ai lefebvriani,convinti di impersonare la Tradizione difendendo la dottrinadella mera tolleranza, ma in realtà inconsapevoli subalternialla modernità di tipo francese, capovolta di segno. Unafusione tra Stato e religione nel segno cristiano, ma chenegava il dualismo originario del cristianesimo. Per altroverso rispetto ad una parte della Teologia della Liberazione,quella che proponeva un'analoga rottura del dualismo, versosinistra, con forme di messianismo politico-religioso. Inquesto secondo caso, però, il problema era più delicatoperché mentre i lefebvriani si sono sempre presentati comecritici implacabili dei documenti conciliari (della DignitatisHumanae ancor più che della Gaudium et Spes, il chedimostra la tesi del Papa), invece gli anti-dualisti di sinistra sisono sempre richiamati ai documenti conciliari e inparticolare alla Gaudium et Spes, rivendicando per sé il ruolodi interpreti più coerenti nella propria radicalità. Si pensi alcaso di Giulio Girardi che partecipò anche direttamente allastesura. Per questo Benedetto XVI ci spiega che solo

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La DignitatisHumanae, in altritermini, riesce megliodella "Gaudium etspes" perchédistingue piùnettamenteall'interno delmoderno una veritàdi fondo, cioè ilrilancio del dualismocristiano, del limitedella politica che nonpossiede il monopoliodel bene comunerispetto all'ereditànegativa delmoderno.

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passando per il liberalismo cristiano, intimamente dualista, sisciolgono i nodi aperti dalla Gaudium et Spes, contro ilefebvriani e contro i filoni illiberali di sinistra, che hannocreduto di interpretare il Concilio, ma che in realtà hannoriversato a sinistra la mentalità illiberale cattolicointransigente.

Il ruolo intermedio della "Nostra Aetate"Sale di status rispetto alla Gaudium et Spesanche la dichiarazione "Nostra Aetate", perònon tanto quanto la "Dignitatis Humanae"perché nella ricezione non si libera del tutto da

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contraddizioni. Resta quindi, per così dire, a un livellointermedio. Scrive infatti Benedetto XVI:

"Il secondo documento che si sarebbe poi rivelatoimportante per l’incontro della Chiesa con l’età moderna ènato quasi per caso ed è cresciuto in vari strati. Mi riferiscoalla dichiarazione Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa con lereligioni non cristiane. All’inizio c’era l’intenzione di preparareuna dichiarazione sulle relazioni tra la Chiesa e l’ebraismo,testo diventato intrinsecamente necessario dopo gli orroridella shoah. I Padri conciliari dei Paesi arabi non si opposeroa un tale testo, ma spiegarono che se si voleva parlaredell’ebraismo, allora si doveva spendere anche qualche parolasull’islam. Quanto avessero ragione a riguardo, in occidentelo abbiamo capito solo poco a poco. Infine crebbel’intuizione che fosse giusto parlare anche di altre due grandireligioni – l’induismo e il buddhismo – come pure del temareligione in generale. Nel processo di ricezione attiva è viavia emersa anche una debolezza di questo testo di per séstraordinario: esso parla della religione solo in modo positivoe ignora le forme malate e disturbate di religione, che dalpunto di vista storico e teologico hanno un’ampia portata;per questo sin dall’inizio la fede cristiana è stata moltocritica, sia verso l’interno sia verso l’esterno, nei confrontidella religione."

L'elemento di raccordo coi ragionamenti sulla DignitatisHumanae è evidente: le altre esperienze religiose, esoprattutto l'Islam, fanno tuttora fatica ad entrare nellalogica della piena libertà religiosa poiché appaiono ancoradifficilmente integrabili nel dualismo religione-politica, ementre nel caso del cristianesimo si poteva ricorrerecomunque a una Tradizione più profonda che l'avevacomunque affermato e a cui ritornare, negli altri casi si trattacomunque di un apprendimento successivo da realizzare.

Una Conclusione, ammesso che sia possibileNella querelle interpretativa sul Vaticano IIBenedetto XVI assume quindi come riferimentoprimo i testi, la cui importanza e significatività ècolta però dentro i contesti e, inoltre, fa pesare

in modo ragionato la copia continuità/discontinuità: chi l'hadetto che dove si ha il massimo di discontinuità rispetto alpre-testo (la libertà reigiosa conciliare versus la meratolleranza precedente) non vi sia in verità la vera continuitàcon la Tradizione più antica?

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Benedetto XVI cispiega che solopassando per illiberalismo cristiano,intimamentedualista, si sciolgonoi nodi aperti dallaGaudium et Spes

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l Concilio ha qualcosa da dire ai cattolici,impegnati nella difficile crisi politica di oggi?Dopo aver richiamato alcuni orientamenticonciliari, vedremo come attualizzarli.

Orientamenti del Concilio Il Concilio Vaticano II, spostando l'accentodall'ecclesiologia societaria (la Chiesa come«società perfetta») all'ecclesiologia di comunione(la Chiesa come «popolo di Dio in cammino

nella storia») ha posto fine al vecchio «clericalismo». LaChiesa non s'identifica più con il clero e la Gerarchia non è aldi sopra del «Popolo di Dio», ma al suo interno e al suoservizio. Di conseguenza, i fedeli laici non sono piùminorenni, né «ausiliari» del clero, ma «per la loro partecompiono nella Chiesa e nel mondo la missione propria ditutto il popolo cristiano» (Lumen gentium, n. 31). Diconseguenza, senza una piena valorizzazione della vocazionee della missione dei fedeli laici, non si dà Chiesa matura, né èpossibile la "nuova evangelizzazione".

Ora, poiché «è proprio dei laici cercare il regno di Diotrattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio»(ivi), tocca soprattutto a essi intervenire operativamente suigrandi problemi del tempo, illuminarli con la luce cheviene dal Vangelo e rinnovare la società, della quale tutta laChiesa condivide la storia, le gioie e le speranze, letristezze e le angosce (cfr Gaudium et spes, nn. 1,3). I fedelilaici – nota il Concilio – ricevono questa missione non perdelega della Gerarchia, ma direttamente da Cristo nelBattesimo e dallo Spirito Santo nella cresima (cfr

Cattolici e politica oggi,nel solco del ConcilioBartolomeo Sorgeè direttore emerito di Civiltà Cattolica

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Cattolici e politica oggi,nel solco del Concilio

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Apostolicam actuositatem, n. 3).Ciò significa che i fedeli laici godono di un'effettiva

autonomia nel compiere le scelte temporali e politiche.Tocca a essi decidere che cosa fare, senza dover chiedereogni volta ai Pastori come risolvere i problemi anche graviche nascessero (cfr Gaudium et spes, n. 43). Dal canto suo,la Gerarchia considererà i fedeli laici non più comeesecutori passivi delle proprie direttive, ma qualicollaboratori responsabili. In pratica, i fedeli laici sonochiamati non solo a testimoniare i valori cristiani nella lorovita personale e sociale, ma a mediarli insieme con tutti gliuomini di buona volontà, compiendo scelte efficaci elaiche, accettabili da tutti, anche dai non credenti, infedeltà allo spirito e alle regole della vita democratica.

Su questo orientamento di fondo si fonda il modonuovo d'intendere l'impegno politico dei cristiani:«Bisogna che i laici assumano l’instaurazione dell’ordinetemporale come compito proprio e in esso, guidati dallaluce del Vangelo e dal pensiero della Chiesa e mossi dallacarità cristiana, operino direttamente e in modo concreto»(Apostolicam actuositatem, n. 7). Lo ha ribadito, ai nostrigiorni, Benedetto XVI: «Il compito immediato di operareper un giusto ordine nella società è invece proprio deifedeli laici. Come cittadini dello Stato, essi sono chiamati apartecipare in prima persona alla vita pubblica. […]Missione dei fedeli laici è pertanto di configurarerettamente la vita sociale, rispettandone la legittimaautonomia e cooperando con gli altri cittadini secondo lerispettive competenze e sotto la propria responsabilità»(enciclica Deus caritas est, n. 29).

Ma dove sono oggi i laici? Perché non si sentono? Ilproblema è che in Italia, a 50 anni dal Concilio, non neabbiamo ancora assimilati gli orientamenti. Non è un caso,che ai nostri giorni sia ancora necessario ribadire che nontocca ai vescovi suggerire ai fedeli laici le scelte da fare ocome mediare i valori cristiani nell'attività legislativa.Certo, i vescovi possono e devono giudicare dellaconformità o meno dei programmi politici e delle leggicon il Vangelo e con la dottrina della Chiesa. Certo ècompito dei vescovi formare le coscienze. Ma spetta poi aifedeli laici, debitamente formati, compiereresponsabilmente e autonomamente le scelte da fare,attraverso le necessarie mediazioni di natura giuridica,sociale, politica ed economica.

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Ma dove sono oggi ilaici? Perché non sisentono? Il problemaè che in Italia, a 50anni dal Concilio,non ne abbiamoancora assimilati gliorientamenti.

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Applicazione alla situazione politica presenteDobbiamo riconoscere che, nell'applicare questiorientamenti conciliari all'impegno politico deifedeli laici, in Italia siamo molto in ritardo. Laquestione della presenza politica dei cattolici è

stata praticamente rimossa dopo la fine dell’unità nella DC: ladiaspora che ne è seguita non ha consentito tuttora – al di là diun generico impegno alla testimonianza personale e pubblicadella propria fede – di trovare il modo di mediare «laicamente» ivalori cristiani nella cultura e nella società secolarizzata epluralistica di oggi. Non basta – avverte il card. Martini –limitarsi a proclamare i cosiddetti «valori non negoziabili» edesigere che la legislazione li promuova, «se non ci si fa carico diuna ricerca paziente di soluzioni pratiche che tengano contoanche di chi ha concezioni diverse» (discorso di S.Ambrogio1996), se non si cercano strade politiche condivise. «Questodella mediazione antropologico-etica» – precisa – è forse unodei lavori più importanti e urgenti per i cristiani impegnati inpolitica, ed è uno dei contributi più fecondi che le comunitàcristiane possono dare alla società civile oggi»; i principi dellafede, lungi dal trasformarsi in motivo di conflitto e dicontrapposizione all'interno della convivenza civile, «devonorisultare vivibili e appetibili anche per gli altri, nel maggiorconsenso e concordia possibili» (ivi).

La crisi politica attuale, sommandosi a quella economico-finanziaria che ha investito il mondo, ha portato il Paesesull'orlo del baratro. Il Governo tecnico di Mario Monti haimpedito il disastro, restituendo all'Italia la dignitàinternazionale perduta con Berlusconi e, grazie a una politica dirigore competente ed energica, ha rimesso in sesto i contipubblici e ha realizzato alcune riforme strutturali necessarie,che nessun altro Governo politico avrebbe potuto portare atermine. Però, nonostante le rigidità imposte dall'emergenza,fino a che punto si può accettare che siano l'economia e lafinanza a dettare le scelte della politica? Di fronte alle scenedrammatiche della crisi sociale in cui è piombata la Grecia,dobbiamo chiederci fino a che punto è giusto infliggere aun'intera popolazione terribili sofferenze, disoccupazione efame, in nome dell'equilibrio dei conti economici. Fino a chepunto si possono imporre sacrifici umani durissimi perobbedire alle leggi di un mercato finanziario speculativo?

E' un grave errore, dunque, preoccuparsi degli aspettieconomici e finanziari della crisi attuale, senza interrogarsi sullecause che l'hanno originata. Queste, infatti, prima che di natura

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economica e finanziaria, sono di natura etica e culturale.Ovviamente, la situazione appare ulteriormente insostenibile,perciò gli occhi di tutti sono puntati sulle prossime elezionipolitiche. Che cosa accadrà dopo? E' una preoccupazionelegittima, ma, oggi come oggi, è impossibile azzardare profezieo fare previsioni, perché troppe sono ancora le incognite, primafra tutte la riforma della legge elettorale: finché non siconoscono le regole del gioco, che senso ha parlare dischieramenti e di future alleanze?

Se è impossibile dire quale sarà domani la presenza politicadei cattolici in Italia, non è lecito però rimanere con le mani inmano ad aspettare che maturino gli eventi. Alla luce degliorientamenti del Concilio sulla responsabilità politica dei fedelilaici, è urgente impegnarsi subito a elaborare, insieme con tuttigli uomini di buona volontà, una nuova strategia a livello pre-politico, affrontando la crisi nelle sue radici etiche e culturali.Infatti, una cosa è certa: se si riuscirà – com'è auspicabile eprevedibile – a risalire la china della depressione economica, aben poco servirebbero i sacrifici fatti e gli accordi politici futuri,se dovessero rimanere intatte le cause morali che hannooriginato la crisi. Perciò, più che moltiplicare iniziativevelleitarie, è urgente ripensare l'assetto economico-finanziario,per renderlo finalmente funzionale all'incremento dellosviluppo e alla ripresa produttiva. Possibile che su questo icattolici non abbiano nulla da proporre e da fare?

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E' un grave errore,dunque, preoccuparsidegli aspettieconomici efinanziari della crisiattuale, senzainterrogarsi sullecause che l'hannooriginata.

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uante donne entrarono in Concilio?Ventitre, presenti come uditrici, dal 25settembre 1964 al luglio 1965. Diecireligiose e tredici laiche, scelte con criteri dirappresentanza internazionale, chiamate da

Paolo VI l’8 settembre 1964. Le madri del Concilio, comele chiama Adriana Valerio nel suo bel libro edito di recenteda Carocci. I padri erano 2540, in rappresentanza dellaChiesa universale.

Le donne, che avevano l’ordine di tacere nelle assembleeconciliari, non esitarono a incontrare vescovi e cardinali eteologi come Henri De Lubac, a proporre testi, a influiresul dibattito. Superarono molte barriere, compresa laseparazione del locale adibito a bar. Lasciarono,comunque, tracce significative.

Nel secolo delle donne il Concilio Ecumenico VaticanoII, aperto l’11 ottobre 1962, non le vede protagoniste. Ma,appunto, il Concilio era stato convocato da GiovanniXXIII per aprire nuove vie alla Chiesa e per determinareun suo nuovo rapporto con il mondo, e sarà su questestrade, nel dopo Concilio, che le donne prenderanno laparola e si faranno sentire.

Quando il Concilio si celebra, la prima metà del secolo ègià trascorsa e la questione femminile si è già impostanell’occidente europeo e nord americano. I primi anni delsecolo vedono la battaglia per il suffragio universale, per

La donnanel ConcilioAlbertina Soliani è senatrice del Pd

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l’uguaglianza e per l’emancipazione femminile e anche laChiesa cattolica ne sente gli influssi. E’ l’epoca delmodernismo, della sfida democratica che attraverserà tuttoil ‘900 e vedrà l’incontro progressivo anche della Chiesacon la democrazia. Le prime Settimane Sociali dei cattoliciitaliani vedono le donne protagoniste in ruoli di primopiano come quello assegnato a Lina Schwarz nellaSettimana Sociale del 1907. Nei decenni successivi in Italiasarà la Gioventù Femminile dell’Azione Cattolica diArmida Barelli a formare le giovani e le donne all’impegnonella Chiesa e nella società. Una linfa profonda ,rappresentata dalle donne, percorre la Chiesa nella sua vitainterna di base e nella pastorale, più di quanto non appaia.

Un esempio di questo impegno è rappresentato daAdelaide Coari, maestra e animatrice sociale, amica diAngelo Roncalli a Bergamo fin dai tempi del VescovoGiacomo Maria Radini – Tedeschi, che manterrà con luiun rapporto di amicizia fino alla morte del Pontefice,facendo visita a lui anche in Vaticano. Adelaide Coari, trale fondatrici del Gruppo d’Azione per le Scuole delpopolo nei primi anni del ‘900, nel 1908 corre in aiutodelle popolazioni di Messina e Reggio Calabria, colpite dalterremoto.

Non di rado, accanto ai Pontefici, si registra la presenzadi una donna, spesso nella discrezione. Celebrate dallastoria come Matilde di Canossa, che fu accanto a GregorioVII per la riforma della Chiesa e la “libertà spirituale deglieuropei”, come scrisse Bonhoeffer parlando di Canossa, ointerlocutrici spirituali come Adelaide Coari con GiovanniXIII o come Wanda Poltawska che fu amica fino alla finedi Giovanni Paolo II.

Quando inizia il Concilio, i diritti delle donne, compresoquello al voto, sono già sanciti nelle Costituzioni del 1948,nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo dellostesso anno, nella Convenzione sui diritti politici delledonne del 1952. Ma ancora la Chiesa non sembra avereelaborato al proprio interno i valori e gli effetti dellacultura democratica. E’ in quegli anni, nel 1949, che escel’opera di Simone De Beauvoir “Il secondo sesso” cherompe lo schema culturale vigente da secoli dellasupremazia maschile.

Quanto, di questa storia, e delle domande da tempopresenti nella società e nella stessa Chiesa entrano nelConcilio? Assai poco. E tuttavia il magistero della Chiesa,

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Il Concilio era statoconvocato daGiovanni XXIIIper aprire nuove viealla Chiesa e perdeterminare un suonuovo rapporto conil mondo, e sarà suqueste strade, neldopo Concilio, che ledonne prenderannola parola e sifaranno sentire

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La donnanel Concilio

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in particolare di Giovanni XIII con l’enciclica Pacem inTerris (1963), indicherà nella emancipazione della donnauno degli straordinari segni dei tempi dell’epoca. La sceltadi Paolo VI di invitare le uditrici fa irrompere nella Chiesa,in modo irreversibile, le donne. Tra la rassegnazione delSegretario Generale del Concilio Pericle Felici e l’aperturadi alcuni vescovi come mons. Gérard Huyghe, vescovo diArras, che le vorrebbe ammettere all’assemblea, e ilPatriarca di Venezia Albino Luciani, il futuro GiovanniPaolo I, che si compiace della loro presenza.

Ma sono la forza e la grazia del Concilio Vaticano II che,nonostante il silenzio sulle donne e delle donne, saprannocambiare in profondità gli uomini e le donne della Chiesa.Quando il Concilio riporta al centro della vita della Chiesa laParola di Dio (Dei Verbum) e rinnova la liturgia aprendola allapartecipazione dei fedeli (Sacrosanctum Concilium), quandodefinisce la centralità del popolo di Dio e del sacerdozioregale dei fedeli (Lumen Gentium), quando apre la Chiesa almondo, alle sue sofferenze e alle sue speranze (Gaudium etSpes) lì la Chiesa incontra le donne come soggetto nellaChiesa e nella storia.

Ad esse indirizza uno dei messaggi finali nel giornodella chiusura del Concilio,l’8 dicembre 1965, che così siapre: “Ed ora è a voi che ci rivolgiamo, donne di ognicondizione, figlie, spose, madri e vedove; anche a voi,vergini consacrate e donne nubili: voi siete la metàdell’immensa famiglia umana!”. In poche righe vivonoinsieme l’approccio alle differenti condizioni delle donne eil senso storico della loro forza nel genere umano. Se lavocazione delle donne viene descritta nei ruoli diversi incui essa si è venuta socialmente ad esprimere, dallacustodia del focolare alla verginità consacrata, nellaconclusione del messaggio si affida alle donne, come maiprima era accaduto, il destino della storia: “Donne di tuttol’universo, cristiane e non credenti, a cui si è affidata la vitain questo momento così grave della storia, spetta a voisalvare la pace del mondo”. Destinatarie di un messaggio,più che coautrici di esso, ma finalmente chiamate pernome ad assumere responsabilità nella storia. Vi è inquesto messaggio il passaggio dalla cultura precedente allanuova che già si intuisce.

Il cambiamento infatti è già iniziato. Nei decennisuccessivi al Concilio il femminismo da un lato, le donneteologhe dall’altro, apriranno il mondo e la Chiesa

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Sono la forza e lagrazia del Concilio

Vaticano II che,nonostante il

silenzio sulle donnee delle donne,

sapranno cambiarein profondità gli

uomini e le donnedella Chiesa

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all’universo femminile. Pochi anni dopo il Concilioesplode il 1968 e con esso il movimento studentesco e ilmovimento delle donne. Non a caso, quest’ultimo,riconducibile in Italia al vasto investimento sull’istruzioneanche delle ragazze attuato dalle politiche nazionali delcentrosinistra che vedono nello stesso anno dell’aperturadel Concilio, il 1962, l’approvazione della legge della nuovascuola media obbligatoria per tutti. I processi dicambiamento sono sempre accelerati dall’istruzione.

Dopo il Concilio la relazione donne – teologia cambiaradicalmente. “Nulla sarà assolutamente più come prima”dirà Cettina Militello in una conferenza in Alsazia delmarzo 1999. Nel 1970 vengono proclamate “dottore dellaChiesa” Santa Caterina da Siena e Santa Teresa d’Avila enel 1987 Santa Teresa di Lisieux. Nel 1988 esce la letteraMulieris Dignitatem di Giovanni Paolo II, una riflessioneprofonda offerta alla Chiesa universale, che spostal’attenzione sull’essere della donna a partire dallacreazione, rispetto al precedente approccio sociologico.Non tutto è risolto sul piano teorico, culturale, teologicoma la discussione è certamente più avanzata.

Il Concilio rappresenta uno spartiacque, e ciò che hamesso in moto è ancora oggi incalcolabile. Sarebbeinteressante tentare un bilancio degli ultimi cinquant’anninella Chiesa e nel mondo sulla presenza delle donne. E sulloro potere. Lasciando a lato la questione del sacerdoziofemminile, possiamo osservare i ritardi tuttora visibili dellaChiesa rispetto alla valorizzazione delle donne al suointerno, dalla Curia alla direzione della pastorale,all’attenzione verso le comunità religiose femminili. Ciòche più colpisce è la difficoltà ad assumere con coraggio ladignità della donna, in ogni angolo del pianeta, comevalore fondativo della dignità dell’umano; la difficoltà adaffrontare il tema della libertà delle donne come chiaveinterpretativa della secolarizzazione, come risorsa perl’umanizzazione del mondo; la difficoltà a fare dellacorresponsabilità tra uomini e donne la chiave di volta perla Chiesa e per il mondo. Si potrebbe partiresemplicemente dal rapporto che Gesù ebbe con le donne.

A distanza di 50 anni una cosa oggi possiamo dire: cheallora mancò alla Chiesa la forza di chiamare le donne e didare loro la parola, oggi sono le donne che hanno in sestesse la forza di chiamare la Chiesa facendosi soggettodell’evangelizzazione. Come da decenni peraltro avviene in

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A distanza di 50anni una cosa oggipossiamo dire:che allora mancòalla Chiesa la forzadi chiamarele donne e di dareloro la parola

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America Latina e in Africa, ma anche in Europa e in Asia.Non solo. Mentre la Chiesa nel Concilio si faceva

visibilmente popolo di Dio, chiamando tutti allapartecipazione, la storia del mondo in Europa, nei Paesidell’est, dell’ovest e del sud del mondo era chiamata allasfida globale della democrazia. Che è, innanzitutto, sfida dipartecipazione. La crisi della democrazia oggi, anche inItalia, che cos’è se non una grande domanda di parteciparealla vita sociale e civile come soggetti di diritti e di doveri,di potere e di servizio, a cui non viene data adeguatarisposta?

Chi, se non le donne, può rappresentare la risorsa piùfresca e innovativa per la democrazia, essendo da secoliescluse dallo spazio pubblico? L’Italia fa testo. Mai comeora vi è così bisogno delle donne e mai come ora sirestringono gli spazi della politica.

Le donne, la Chiesa, la democrazia: ecco un tema che ilConcilio ci lascia in eredità. Il cambiamento è iniziato, perla Chiesa e per il mondo, e le donne ne sono le nuoveinterpreti.

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l 25 luglio 2012 a un mese dalla sua morteincontravo il cardinale Martini a Gallarate,nell’Infermeria dei Padri Gesuiti dove si eraritirato lasciando Gerusalemme in ragionedell’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Il

cardinale aveva accettato la mia richiesta di apparire in unvideo televisivo dedicato al cinquantesimo del Concilio.

Ecco il suo ricordo degli anni conciliari: “Io sono statopresente al Concilio non in quanto padre conciliare, nonero vescovo, ma sono stato a Roma in quegli anni, sonostati gli anni più belli della mia vita. Eravamo entusiasti:guardavamo al futuro, parlavamo con il mondo e quindi èstata una bellissima esperienza”. Qualche anno prima, aGerusalemme, così aveva evocato gli anni del Concilio:“Ricordo la sensazione di entusiasmo, di gioia e di aperturache ci pervadeva, ho passato nel Concilio gli anni miglioridella vita. Si usciva da un’atmosfera un po’ muffa chesapeva di stantio, si aprivano porte e finestre, circolava ariapura, si guardava al dialogo e la Chiesa appariva capace diaffrontare il mondo moderno. Era un momento di grandegioia e di grande entusiasmo.

Una certa forza frenante in alcuni settori della Curia èanche comprensibile perché la Curia era abituata a tenerein mano tutto e quindi vedersi sfuggire di mano le cosecertamente non è piacevole. Quelli che hanno vissuto ilConcilio hanno fatto un passo importantissimo nella lorovita e hanno avuto una fiducia nuova nella possibilità dellaChiesa di parlare a tutti. E’ stata una grande ricchezza perla nostra Chiesa”.

Ascoltiamo ancora il racconto che Martini stesso ha

Martini, vescovodel Concilio Giuseppe Grampainsegna Filosofia delle Religioni e del Cristianesimo all’Università cattolica del Sacro Cuore

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fatto di quegli anni. “Se ripenso agli anni del Concilio lidefinirei ‘tumultuosi’ poiché tali furono per me epotremmo dire ‘per noi’, intendendo con questo ‘noi’soprattutto i docenti del Pontificio Istituto Biblico diRoma…si seguiva con somma attenzione e trepidazione ildivenire del documento sulla Divina Rivelazione, perché inesso c’era per noi un po’ la questione di vita o di morte.

Infatti se il Concilio, come parecchi a quel tempodesideravano e speravano, avesse condannato il metodostorico-critico per la lettura e l’interpretazione dellaBibbia, o almeno avesse messo in guardia rispetto ad esso,o anche se avesse affermato (come alcuni volevanosecondo i testi di partenza) una nozione rigidadell’inerranza della Scrittura, allora l’insegnamento delPontificio Istituto Biblico si sarebbe sentito come messosotto accusa, con gravissime conseguenze per il futuro. Epoi si può aggiungere che se il Concilio fosse stato tiepidoo guardingo o cauto riguardo alla familiarità dei laici con laScrittura, tutto il Movimento biblico sarebbe stato assaipiù lento e timoroso…Fu un lavoro continuo, di giorno edi notte”.

Mi è sembrato giusto evocare l’intensa partecipazionedell’allora prof. padre Martini ai lavori conciliari perchéquesto ci aiuta a capire come il più significativo lascito delConcilio per Martini arcivescovo di Milano sia stato ilprimato della Parola di Dio nella vita della chiesa. Ricordoil suo ingresso in Milano, a piedi, con il Vangelo nellemani. In quella occasione don Giuseppe Dossetti gli avevainviato questo messaggio augurale: “Da Lei Milano ascoltil’Evangelo, solo l’Evangelo”.

E per ventidue anni Martini ha proposto alla Chiesa diMilano questa familiarità con la Scrittura per avere lacapacità di orientare la propria vita secondo Dio, anchenella grande città moderna e in ambiente secolarizzato.Molti preti e laici hanno trovato, in questa lettura orantedella Scrittura – la Lectio divina, proposta nella Scuoladella Parola – il modo per assicurare l’unità di vita inun’esistenza spesso frammentata e lacerata da milleesigenze, una vita nella quale era essenziale trovare unpunto fermo di riferimento.

Questa centralità della parola di Dio aiuta acomprendere il grande impegno di Martini nel dialogoecumenico e interreligioso. Anche questo è un fruttoprezioso del Concilio che Martini ha svolto in modo

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La Curia eraabituata a tenerein mano tutto equindi vedersisfuggire di mano le cose certamentenon è piacevole

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originale a partire dal disegno di Dio quale ci è presentatodalle Scritture ed ha il suo culmine in Gesù Cristo. PerMartini questa familiarità orante con le Scritture puòaiutarci ad affrontare quella che considera una delle sfidepiù grandi del nostro tempo: quella di vivere insieme comediversi nell’etnia, nella cultura e nella religione e questosenza distruggerci a vicenda, senza ignorarci, senzasemplicemente tollerarsi ma rispettandoci e stimolandociper una maggiore autenticità di vita. Grazie a questaobbedienza alla Parola, secondo Martini, noi ciriconosciamo nella nostra comune origine, nella nostracomune dignità, in quella fraternità che va al di là di tuttele divisioni. In un modo un po’ paradossale Martiniafferma che non gli importa tanto la conversione dell’altroalla mia fede ma la possibilità, grazie al dialogo, divivificare l’altro con principi che lo obblighino a guardareal fondo della sua coscienza e lui faccia lo stesso con me.

Dal Concilio Martini ha acquisito una originalecomprensione della Chiesa e del ruolo del Vescovo.

Come è noto il Concilio ha restituito alla Chiesa locale,

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Questa centralitàdella parola di Dio

aiuta a comprendereil grande impegno diMartini nel dialogo

ecumenico einterreligioso

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cioè alla diocesi, il suo ruolo centrale. Quando diciamo‘chiesa’ istintivamente pensiamo a Roma, al Papa, alVaticano: questa sarebbe la Chiesa che ha poi le sue filialiperiferiche sul territorio, le diocesi affidate ai vescovi. Einvece la chiesa avviene, cioè si realizza là dove un vescovosuccessore degli apostoli annuncia l’Evangelo e raccoglieuna comunità con l’Eucaristia. La Chiesa diocesana con ilsuo Vescovo non è un frammento della Chiesa: è la chiesanella sua pienezza, certo non nell’isolamento enell’autosufficienza ma nella comunione con tutte le chiesea cominciare da quella di Roma.

Alla luce di questo insegnamento conciliare possiamocapire il ruolo del Vescovo così come il cardinale Martinil’ha vissuto a Milano. Certamente non un ruolo ‘notarile’ ,così come per Lui la Chiesa diocesana non poteva esserpensata come il contenitore delle più varie esperienze.Non a caso Martini ogni anno ha proposto alla suaDiocesi originali Piani pastorali. Era persuaso che laChiesa diocesana dovesse essere capace di un camminoautorevole di formazione alla fede e di santità popolare.

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Significative le indicazioni che l’arcivescovo Martinidava a proposito dei rapporti tra cammino diocesano ealtre proposte educative e spirituali portate avanti daMovimenti e Gruppi diversi. Diceva: “Penso a situazioni incui appare che il riferimento che conta è di fatto duplice omolteplice: vi è il cammino diocesano e, però, vi è anchequello di altri agenti pastorali. Con l’aggiunta che tuttoquesto non è vissuto con armonia ma con un nettosbilanciamento che, al di là dei riferimenti puramenteverbali, emargina, in realtà, la diocesi e il suo concretocammino pastorale…

Il vescovo non potrà semplicemente rimettersi allanatura carismatica di una realtà per dedurne la suaimmediata utilità e accettabilità in forza della libertà delloSpirito…Il vescovo non deve semplicemente fare larassegna di tutto ciò che è possibile e dare comunquespazio a tutti. Spetta a lui coordinare e discernere traaspetti positivi e eventuali aspetti teoretici e pratici, menoidonei, così da accettare e promuovere gli aspetti buoni ecorreggere, per quanto necessario, quelli che risultasseromeno utili e pregiudizievoli al cammino della chiesaparticolare”. Proprio da questa comprensione della Chiesalocale o diocesana scaturisce il rilievo che Martini hariconosciuto ai diversi Organismi di partecipazione: iConsigli presbiterali e pastorali. Chi scrive ha avuto lagrazia di far parte del Consiglio pastorale diocesano peruna larghissima parte dell’episcopato di Martini.

Non solo l’arcivescovo partecipava sempre, senza assenze,ai lavori del consiglio che si svolgevano nel fine settimana maci ‘educava’ al discernimento, aiutandoci a riflettere sullecomplessità e ambiguità storiche, sul misto di bene e di male,di ispirazioni buone e cattive, di strutture di grazia e dipeccato che sono strettamente intricate le une nelle altre e trale quali bisogna discernere la via giusta per ottenere lacrescita della fede, speranza e carità.

Il tema del discernimento costituisce l’originaledeclinazione operata da Martini del ruolo dei laici e inparticolare di quanti sono impegnati nella costruzionedella ‘città dell’uomo’, nella politica. Il tema conciliare deilaici chiamati per vocazione propria a “trattare le realtàtemporali ordinandole secondo Dio” trova appuntonell’esercizio del discernimento il suo metodo.

La fede, secondo Martini, non può sostituire la faticadell’intelligenza: “Non si può ricorrere a soluzioni

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Bisogna evitare ilrischio del

fondamentalismo, lapretesa cioè di

operare immediaticollegamenti tra laparola rivelata e i

singoli problemieconomici

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precostituite e anche se i principi morali sonochiarissimi…non è sempre chiaro quello che in undeterminato momento bisogna fare”. Proprio il Concilioaveva esortato i laici cristiani a non ricorreresbrigativamente ai Pastori per la soluzione di problemi cheinvece sono affidati alla loro perizia e competenza.

Bisogna evitare il rischio del fondamentalismo, lapretesa cioè di operare immediati collegamenti tra laparola rivelata e i singoli problemi economici, sociali epolitici: da quelle che oggi chiamiamo ‘evidenze etiche’non si possono dedurre immediatamente soluzionioperative ai problemi concreti. In questo approccio nondeduttivo caro a Martini ritroviamo un altro preziosoinsegnamento conciliare: quello della relativa autonomiadelle realtà temporali: le diverse scienze devono goderedella propria relativa autonomia, nel rispetto dei metodipropri di indagine. Una lezione di laicità.

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artini è stato un gigante della Chiesauniversale, un pastore carismatico eilluminato, un impareggiabile maestrodella Parola, una voce eminente dellacultura e della coscienza contemporanea.

Alla guida della grande diocesi di Milano, egli tuttavia haesercitato una leadership ben oltre i confini della Chiesaitaliana ed europea. La sua parola e il suo magistero hannovarcato, sempre e largamente, il perimetro dei ruoliformalmente rivestiti. Lo attestano le relazioni da luiintrecciate con eminenti personalità di tutto il mondo e ladiffusione dei suoi testi in ogni angolo della Chiesa edecisamente oltre i confini di essa. Interlocutoreprivilegiato del dialogo ecumenico e interreligioso, comedel mondo della cultura laica e religiosa.

È stato forse l'uomo di Chiesa che ha goduto di piùlargo ascolto in ogni angolo della terra dopo il Papa. Nonè difficile intuirne il segreto: la granitica fiducia nella forzaimmanente e nella risonanza universale della Parola di Dioche padroneggiava come nessun altro, il fermoconvincimento che la coscienza umana, oltre ogniapparenza contraria, sia predisposta al suo ascolto,convinto come egli era che la Bibbia fosse il "grande librodell'umanità", lo spirito di ricerca e l'attitudine al dialogosenza barriere, una idea del cristianesimo amicodell'intelligenza e della libertà e dunque singolarmentecongeniale alla sensibilità dell’uomo di oggi.

La Chiesadi Martini.Più profezia, meno politica

Franco MonacoSenatore PD

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La sua visione della ChiesaSpecie negli ultimi suoi anni, seguiti al "pensionamento" esegnati dalla malattia, si è fatta ancor più acuta ed esplicitala sua vena profetica, non priva di accenti drammatici. Lasua decisione di pronunciare parole di verità ancheriguardo a questioni controverse e abitualmente rimossedentro la Chiesa. A cominciare dall'esigenza di riformadella Chiesa stessa, nel senso di una sua più trasparentefedeltà al Vangelo di Gesù. Una onestà intellettualepersino spietata nel segno della umile condivisione degliinterrogativi e delle inquietudini degli uomini. Unatensione che si rinviene lungo l'intero arco della sua vita edel suo ministero, ma che, dicevo, si fa più stringente difronte al giudizio finale, quando le mediazioni istituzionalie le ragioni prudenziali devono cedere il passo alla veritàquale risulta alla nostra coscienza. Qui si misura la staturadi un eminente uomo di Chiesa che, al modo di Cristo, simostra deciso a condividere senza riserve la condizionedegli uomini. Compresa l'esperienza della malattia e deltormento interiore a fronte dell'incedere della morte. Èsignificativa la circostanza che sia stato egli stesso asuggerire lo scarno titolo – semplicemente "un uomo" –da apporre a un recente libro su di lui scritto dall'amicovaticanista Aldo Maria Valli. Come a dire che essere uomotra gli uomini era la sua ambizione e il suo programma.

La sua visione della Chiesa era quella del Concilio, unaChiesa cordialmente protesa al dialogo con il mondocontemporaneo ma insieme impegnata a discernerecriticamente il grano dal loglio. Dunque portatrice dicristiana speranza, che è cosa diversa dall'ingenuo, facileottimismo. Una Chiesa povera, libera, sciolta (aggettivoinusuale ma ricorrente nei suoi testi a definire la Chiesache sognava), immune da ambizioni e volontà di potere.Una Chiesa modellata sul paradigma della originariacomunità apostolica e dunque fermento, lievito, "piccoloresto", tutta dedita alla testimonianza e all'annuncio, pernulla ossessionata dal proposito di... contarsi per contare.

Ancora una Chiesa nella quale la dimensione gerarchicae istituzionale fosse subordinata e servente la sua naturacomunionale. Un popolo di Dio ove tutti e ciascunoportano pari dignità e comune responsabilità nellamissione. E dunque nella quale operasse la collegialità e lapartecipazione e ai laici cristiani fosse assegnato il postoche loro spetta, sia nell'edificazione della comunità

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cristiana sia soprattutto nell'animazione della cittàdell'uomo. Laici sui quali i pastori scommettessero confiducia rilasciando loro l'autonomia che gli spetta, senzaingerenze o surroghe da parte delle gerarchie.

Una Chiesa infine decisa a custodire la distinzione traazione cattolica e azione politica e, di riflesso, tra lapropria missione evangelizzatrice e i compiti in capo alleistituzioni civili. Con reciproco vantaggio: per la libertà el'universalità della missione della Chiesa stessa e perl'autonomia e la laicità dello Stato. La cura di talidistinzioni, talvolta negletta nella Chiesa che è in Italia,specie nel passato recente, spiega perché Martini fossestato il pastore più convinto e risoluto nell'auspicare che siponesse fine allo schema di una forzosa unità politica deicattolici della quale da tempo si erano esaurite le ragionistoriche, ma che si stentava ad abbandonare da parte dellegerarchie italiane.

Il suo rapporto con la politicaCome risulta dai ritratti più informati e fedeli del cardinalMartini che sono stati proposti da chi lo ha conosciuto perdavvero, e dunque non dalle caricature abbozzate daosservatori improvvisati e superficiali, egli fu prima ditutto ed essenzialmente un uomo di Dio. Un religioso nelsenso alto e pregnante della parola. Un uomo di Chiesa nelquale il carisma – cioè la sensibilità al primato delloSpirito, che, nella sua sovrana libertà e nella suasorprendente creatività, soffia dove vuole un po’ ovunque– fa premio sull’istituzione ecclesiastica che pure haservito con fedeltà e con amore. In coerenza con quel suoingresso a Milano, quando attraversò a piedi la città con ilVangelo tra le mani. Come gli raccomandava GiuseppeDossetti: portare agli uomini il Vangelo e solo il Vangelo.Lì c’è tutto, dunque non un programma fondamentalistama proprio il suo contrario, il massimo dell’apertura atutta la pienezza dell’umano.

Su queste basi, si spiega perché Martini, religioso eprofondamente gesuita (anche se da buon pastore, custodee garante dei più diversi carismi che arricchiscono laChiesa, con discrezione, non marcava tale sua peculiarespiritualità ignaziana che pure lo informava nell’intimo),non mostrasse particolare passione per la politica.Sbagliano perciò clamorosamente quanti gli hannoaffibbiato etichette politiche: uomo di sinistra,

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progressista, antiproibizionista, cattolico democratico.Persino la definizione di pacifista non gli si confà,piuttosto quella di uomo di pace.

Altre erano le cose (e le connesse iniziative da lui postein atto) che lo facevano vibrare: lo studio e la diffusionedell’accostamento popolare alla Parola di Dio, il dialogoecumenico ed interreligioso, il fraterno confronto conagnostici e non credenti, le situazioni umane e socialisegnate da fragilità, il discernimento cristiano verso ilportato della scienza e della cultura moderna.Intendiamoci: a Martini non sfuggiva affatto il valore e lanobiltà della politica. In cento e una occasioni mise a temail suo nesso con la virtù cristiana per eccellenza, cioè lacarità.

A valle della riflessione che propose alla diocesi sul“farsi prossimo” varò le scuole di formazione politica chepoi assursero a modello e ispirarono centinaia diesperienze analoghe nelle chiese d’Italia nella seconda metàdegli anni ottanta, quando già si presagiva il collasso delsistema politico del primo tempo della Repubblica esegnatamente della Democrazia cristiana.

Martini fu sempre fermo e rigoroso nella cura per ledistinzioni tra valori ultimi e valori penultimi, tra religionee politica, tra Chiesa e partiti. Dissentiva dalla confusionedei piani largamente praticata soprattutto in Italia. Lagiudicava nociva, anacronistica, provinciale. Egli era giàoltre, quando ancora la Chiesa italiana si attardava sulloschema dell’unità politico–partitica dei cattolici di cui puremanifestamente si erano esaurite le ragioni storiche.

Per converso, non si riconobbe nell’improvvisorovesciamento dell’approccio invalso in sede Cei a metàanni novanta: un attivismo e una sovraesposizione politicadelle gerarchie di stampo neogentiloniano, diinterlocuzione diretta con il potere politico a scavalco delletradizionali e autonome mediazioni di partito.

All’opposto la sua sensibilità per la distinzione di campi eresponsabilità lo conduceva – in coerenza con un Concilioche aveva riservato al laicato una dignità e un protagonismosenza precedenti nella secolare storia della Chiesa,chiamandolo addirittura vocazionalmente all’impegnosecolare–civico–politico in senso lato – a stimolare,valorizzare e in concreto scommettere sull’autonomaresponsabilità dei laici cristiani politicamente impegnati.Senza interferenze o surroghe. In questa luce additava ai

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Intendiamoci: aMartini non

sfuggiva affatto ilvalore e la nobiltà

della politica. Incento e una occasioni

mise a tema il suonesso con la virtù

cristiana pereccellenza, cioè la

carità.

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fedeli figure esemplari quali Giuseppe Lazzati, Giorgio LaPira, Aldo Moro. Sono testimone di infinite circostanzenelle quali egli non solo apprezzò ma anzi incoraggiò illaicato, compreso quello statutariamente più organico alvescovo, a spingersi avanti, a prendersi le sueresponsabilità, persino a esplorare vie nuove.

Riservandosi poi il pastore, solo se e quando fossestrettamente necessario, di intervenire e magaricorreggere, dunque impegnando il meno possibilel’autorità della Chiesa e propiziando invece il libero eplurale dispiegamento di una vera opinione pubblicadentro la comunità su terreni ove per definizione lacongetturalità e il pluralismo rappresentano la regola. Conl’effetto di fare crescere la maturità all’interno e diaccreditare all’esterno l’immagine, più appropriata, di unaChiesa come comunità viva e pensante, la cui parolapubblica non fosse affidata sempre e solo al Papa e aivescovi.

Dunque, non si impicciava di politica, nel senso cheistituiva una “zona di rispetto” tra la Chiesa e le partipolitiche, ma, attenzione, era invece sensibile esommamente interessato a questioni specifiche di naturacivico–politica, quelle circa le quali avvertiva un nesso piùesplicito con la parola e la logica evangelica dellasollecitudine speciale per soggetti e condizioni di fragilità.Penso ai detenuti a lui così cari, ai malati, agli immigrati,alle persone senza fissa dimora. In questi casi, la suasollecitudine non fu solo pratica, ma anche, diciamo così,tesa allo scavo teorico.

Penso alle sue riflessioni sulla giustizia e sul senso dellapena, sulla concreta organizzazione sanitaria, sulle via perl’integrazione e la integrabilità, compresi i profili dellainterculturalità, di cui non gli sfuggiva la complessità. Sipensi alla sua apertura critica al dialogo con l’islam (videdicò il discorso di S. Ambrogio del 1990) con unanticipo di circa dieci anni rispetto all’esplosione delproblema.

Il registro dei suoi interventi circa la politica fuessenzialmente profetico, cioè contrassegnato da radicalitàevangelica e massima libertà di giudizio. Un registro perdefinizione scomodo rispetto a chi detiene il potere,chiunque esso sia. Dunque affrancato da ogni calcolo diconvenienza. Compresa la cura ossessiva di non esserebollato come uomo di parte.

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Mi spiego: in un discorso alla città di S. Ambrogio eglidistingue tra neutralità, imparzialità, equidistanza dellaChiesa. La cui parola trascende le logiche di parte, è parolaaltra e diversa dalle parole della politica. Ma in concretonon di necessità e sempre ha da essere equidistante. Cioètutta compresa dal calcolo troppo umano del bilancino.Che finisce per farla insipida, pavida, incline alla “culturadell’ovvio”, alla mera retorica, grigio doroteismo.L’opposto della sovrana libertà e della cristallina chiarezzadel linguaggio evangelico, con i suoi sì sì, no no.

Tale trasparenza e nettezza, proprie del registroprofetico, non indulgono alla semplificazione ma,all’opposto, rinviano alla consapevolezza della complessitàdei problemi e delle soluzioni propria della politica. Provoad esemplificare. Primo: l’ancoraggio a valori quali la vita,la libertà, la giustizia, la solidarietà, la pace si associa a unpensoso realismo cristiano, alla lucida consapevolezza chequei beni–valori ci saranno compiutamente accessibili solooltre il tempo; che il male e il peccato, il conflitto e ildolore incombono pesantemente sulla vita e sulla storia. InMartini si rinviene una spietata onestà intellettuale nellalettura della realtà e nelle sue contraddizioni.

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Non c’è traccia di ingenuo irenismo e di facileottimismo. La speranza cristiana fondata sullaRisurrezione è cosa affatto diversa, che confida sullasalvezza come destino ultimo affidato però allo “scatto”della Grazia, non a noi. Secondo esempio: l’enfasi suiprincipi non negoziabili non esonera dalla creatività e dallafatica della mediazione politica per insediarli nella cittàdell’uomo. Specie dentro società abitate dal pluralismodelle concezioni etiche e rette da ordinamenti democratici,ove, piaccia o non piaccia, si delibera sulla base dellaregola della maggioranza. C’è un testo di Martini, al temponel quale si avviava in parlamento la discussione sullafecondazione assistita, nel quale egli distingue tre livelli:quello dei principi etici, quello dei principi costituzionali equello della mediazione legislativa. Un’articolazione dilivelli con i quali deve misurarsi anche il legislatorecristiano. A dire la complessità di un compito chemeriterebbe più comprensione e sostegno, piùaccompagnamento nell’ardua ricerca e meno richiamidisciplinari.

Terzo esempio: in un’altra circostanza, nel dilagare delberlusconismo e del leghismo, pur senza fare nomi, Martini

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sostenne la tesi che, dal punto di vista cristiano, ilfondamento e il metodo dell’azione politica contano più deicontenuti. Traduzione: la rassicurazione circa specificheistanze di valore pur care alla coscienza cristiana con le qualisi immagina di accaparrarsi il consenso delle gerarchie edella base cattolica non sono ciò che conta di più.

E’ decisamente più importante una complessiva visionedella politica come attività contrassegnata da una suaimmanente e organica valenza etica. Sia nel fine, il benecomune e non la cura di interessi particolari; sia nei mezziche non sono machiavellicamente indifferenti sotto ilprofilo morale; sia nei comportamenti soggettivi deipolitici che devono corrispondere alla dignità e all’onore dichi riveste ruoli di pubblica rappresentanza della comunità.

Un rilievo che fece arricciare il naso a qualche prelatoromano, che dava facile e frettoloso credito alle lusinghe diuna destra non esattamente conforme a una visionecristiana della persona e della società. Quarto ed ultimoesempio: una idea mite del diritto. Martini aveva il cultodella libertà, agli antipodi dello Stato etico. Non ignoravauna valenza pedagogica della legge, ma non vi facevagrande affidamento.

Pensava che, al fine di assicurare la qualità etica dellaconvivenza, sono piuttosto decisive la coscienza moralepersonale e collettiva, l’ethos di una comunità. Di riflesso econseguentemente, egli era convinto che i cristianidovessero soprattutto testimoniare e praticare l’esigenteetica delle Beatitudini e che semmai dal crogiuolo ardentedi coscienze e comunità informate a quello spirito sortissepoi – è lecito sperarlo, ma nessuno può esserne sicuro –un consenso etico–sociale che, a sua volta, a valle eattraverso le mediazioni politiche e le proceduredemocratiche appropriate, potesse elevare il tenore eticodella società.

Diffidava cioè dell’impazienza con la quale i cattolicitalvolta si illudono di fare buoni o addirittura cristiani gliuomini e le comunità facendo ricorso agli strumenti delpotere e della legge, esercitando pressioni su partiti,parlamenti e governi.

Sono solo esempi che tuttavia ci conducono a treconclusioni: Martini era alieno dalla politica comecompetizione tra schieramenti, ma non dalla politica comeattività volta alla edificazione della polis, cui sapevaassegnare il giusto posto, misurando il suo valore e il suo

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E’ decisamente più importante

una complessivavisione della politica

come attivitàcontrassegnata

da una suaimmanente e organica

valenza etica.

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limite; era consapevole di quanto essa fosse impegnativa ecomplessa e dunque era immune da toni sentenziosi epretese indebite verso chi ad essa si dedicava, ma piuttostosi disponeva a illuminarne, correggerne e sostenernel’azione; riservava a sé e alla Chiesa la sola ma decisivaparola di cui essa è depositaria e competente: la parolaprofetica del Vangelo e delle esigenze etiche ad essastrettamente connesse. Né una parola di più, né una dimeno.

Uno sconfitto?Qualche osservatore, non senza buone ragioni, lo hadipinto come uno sconfitto. Lui stesso, talvolta, ha datomostra di considerarsi tale. Sia con riguardo allacondizione della Chiesa, sia con riguardo alla società e allapolitica (il suo episcopato è coinciso con una stagione nontra le più esaltanti della vita pubblica, con epicentroproprio a Milano). Che dire? Che i parametri umani noncoincidono con quelli divini, che la vita e la storia seguonopercorsi misteriosi, che per vie spesso ignote il seme da luigettato nel terreno buono col tempo germoglierà e tuttoradà i suoi frutti. Personalmente interpreto così l'omaggioresogli in morte da uno sterminato popolo di credenti enon credenti. Quella fila ininterrotta, quel compositopopolo di Dio – silente, commosso e composto, senzaombra di feticismo e fanatismo, di culto della personalità,conforme allo stile a lui congeniale – davanti alla sua salmadeposta in Duomo possono essere letti come un piccoloindizio del segreto germinare di quel seme fecondo.Adottando cioè i parametri propri della profezia delVangelo e non quelli mondani della politica a lui estranei,chi può dire con sicurezza che Martini sia stato unosconfitto? E chi può giurare che egli, dopo morto, piùancora che da vivo, non possa rappresentarequell’evangelico “segno di contraddizione” che scuote laChiesa, la società e la politica?

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Il Senatore PDSergio Zavoliintervista mons.Loris Capovilla

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dagli archivi della rai una preziosatestimonianza sui significatidel Concilio vaticano iia quattro anni dalla sua chiusura:l'intervista di sergio Zavolia monsignor loris Capovilla,trasmessa a tv7 il 24 gennaio 1969.

Guarda il videooriGiNaledell’iNtervistasul sito ditaMtàMdeMoCratiCo

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Altri Contributi

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Voci dall'interno del PD.

Il viaggiodi Ivan ScalfarottoMartino Livaè cultore della materia di Diritto pubblico dell'economia all’Università Milano Bicocca

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inque mesi di incontri,diciassette conversazionie una voce narrante, lamia». Solo il suo autorepoteva inquadrare cosìperfettamente questo(bel) libro, nelle librerie

da inizio settembre, che consente ad unignaro lettore di fare un viaggioparticolarmente intenso nel PartitoDemocratico (Ivan Scalfarotto, Ma questaè la mia gente, Mondadori, 2012).L’ultimo libro di Scalfarotto si faapprezzare per molte ragioni, di cui laprima è di certo la capacità dell’autore didare un spaccato dello stato attuale delPd, alla vigilia di una lunga campagnaelettorale che si giocherà su più fronti, daquello nazionale a quelli regionali.Si susseguono infatti diciassetteconversazioni con volti noti e meno noti,professionisti della politica ed outsider,tutti però appartenenti alla galassia del Pd,«l’unico partito in Italia a chiamarsi“partito” ed a non avere nessun cognomesulle proprie bandiere».Un altro aspetto particolarmenteinteressante del libro, sta proprio nelpeculiare profilo dell’autore. Scalfarotto, per sua stessa ammissione,resta un «alieno della politica», nonricopre cariche elettive, conosce forsemeglio il mondo delle professioni edell’economia che quello del dibattitoparlamentare, degli incontri neltransatlantico di Montecitorio o delleriunioni di partito. Tuttavia, il suo è, allo stesso tempo, unosguardo dall’interno: egli infatti è VicePresidente del Pd, membro dellaDirezione Nazionale, appassionato datempo per la cosa pubblica tanto chenell’estate del 2005 si propose di correreper le primarie dell’Unione, sfidando

Prodi, Bertinotti, Di Pietro, Mastella,Pecoraro Scanio e Simona Panzino, edarrivando sesto con 26.912 voti.Le conversazioni del libro possono essereracchiuse in tre diversi filoni. Il primo è quello dei dirigenti apicali,costruito sulle figure di Bersani e Bindi,passando per D’Alema, Letta, Veltroni edAnna Finocchiaro («una delle pochissimedonne ad avere, da tempo, incarichi direale influenza nel partito»).Il secondo è quello dei professionisti edegli uomini della società civile prestatialla politica. Si legge dunque dell’incontrocon Renato Soru, che l’autore scoprì quasiper caso durante un intervista televisivanel dicembre 2008, arrivando a dire «mi èsembrato finalmente di aver visto unleader», e di quelli con Pietro Ichino,Ignazio Marino, Stefano Boeri.Nel terzo filone, invece, si possonoracchiudere le conversazioni con i «natividel Pd», vale a dire quei politici che, ancheper l’età anagrafica, non hanno alle spallepregresse esperienze di partito edaspirano ad essere la nuova classedirigente del Pd che, per Scalfarotto, «c’ègià e non bisogna nemmeno sforzarsitanto per vederla». Dunque ecco, adesempio, le interviste con Civati («il piùtalentuoso tra tutti gli emergenti delpartito»), Debora Serrachiani, che l’autoreavrebbe voluto si candidasse alle primarieper la segreteria del Pd del 2009 perché«aveva qualche chance di farcela», StefanoFassina ed Ilda Curti.Il filo conduttore è univoco: ruotaintorno alla domanda «che significa oggi,sentirsi democratici ?». Ma le risposte,come ovvio ed anche naturale, univochenon sono.L’autore si pone davanti ai personaggi cheincontra con l’onestà intellettuale di chivuol veramente capire cosa sia il Pd oggi e

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Il viaggiodi Ivan Scalfarotto

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no», in quanto compito della politica èinterpretare la complessità. Solo in questomodo, infatti, anche sui temi su cui è piùdifficile essere d’accordo (si pensi aimatrimoni per gay e lesbiche) laconversazione può procedere nellapacatezza e nell’ascolto reciproco.Il libro poi, come ogni buon testo, è ingrado di rivelare sorprese anche per ciòche non c’è. Ad esempio sorprendel’assenza di una conversazione conMatteo Renzi, per cui pure l’autore nutresimpatie, o con Dario Franceschini, ilsecondo segretario del partito, seppure adinterim. Allo stesso tempo sono però presentiincontri inaspettati ma particolarmentesignificativi di cui il lettore condivide lameraviglia con l’autore. Emblema di ciò è laconversazione, davanti ad un piatto dispaghetti, con Michele Emiliano, Sindaco diBari. In quest’ultimo c’è uno sforzoargomentativo per dimostrare la necessitàdi un partito aperto, contendibile,addirittura scalabile e tutto rivolto, per dirlacon le sue meravigliose parole «a costruire,per quanto possibile, pezzi di vita».Parole che poi sono le stesse di Stefano

Boeri, il quale, dopo la sconfitta alleprimarie milanesi non si è tirato indietroed a saputo convogliare le sue energieverso la finale vittoria delle elezioni perPalazzo Marino a dimostrazione del fattoche «quando il Pd sa mettersi al servizio

verso quali mete si stia dirigendo. I temi sono ampi e variegati: la politica, idiritti civili e sociali, l’economia, l’ideastessa di partito e di militanza. Con un sapiente utilizzo della vocenarrante Scalfarotto non fa mistero dellesue simpatie ed in qualche modo lasciaintendere che sottoscriverebbe l’appello diCivati per «non cambiare partito, macambiare il partito». Ma anche dove leidee divergono, l’ascolto reciproco resta illeit motiv delle conversazioni. Così sui temi dell’economia e del dirittodel lavoro, l’autore strizza l’occhio aPietro Ichino, le cui proposte «sonol’incoraggiamento a guardare in mododinamico alla sostanza delle cose» edissente invece con Fassina, personaggiodi spessore ma il cui modo di osservare lecose pare «basato su contrappostiantagonismi» con la conseguenza dirinunciare a parlare al paese nella suainterezza. Quanto ai temi dei diritti civili, su cuil’autore insiste molto durante tuttol’incedere del libro, è particolarmenteappassionante la conversazione con RosyBindi cui viene dato un titolo

particolarmente azzeccato: “Non basta unmonosillabo”. Il risultato, condiviso, è l’idea che il Pdnon possa essere il partito dei monosillabiperché, ricorda Bindi, «davanti a questionicomplesse non si risponde con un si o un

Il risultato delle diciassette conversazioni è, per certi versi,

sorprendente. Ne emerge un partito che è unito su valori saldi

ed irrinunciabili, su cui si fonda la nostra stessa Costituzione, come

la solidarietà, l’uguaglianza

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nelle pagine finali è riprendere «lo slancioinnovativo» e ridare dignità alla politicaripartendo dalla propria storia. Quella più«politica» di Moro e di Berlinguer, e quellapiù «civile» di Ciampi e Prodi. La bussola è il cambiamento comeelemento di opportunità e crescita nellaconsapevolezza che il mondo muta e latecnologia ha già cambiato le nostre vite,impattando sull’economia ed anche sullapolitica.L’obiettivo pare essere la costruzione diun partito capace di infrangere il regimedi segretezza che richiede criteri fideisticidi appartenenza al gruppo dirigente perarrivare al vertice e miri ad essere fino infondo «un partito senza padroni». Fattoche talvolta rende tutto più difficile, ma,riflettendoci, immensamente piùaffascinante.

della società e dimostra di saper ascoltaree sostenere lealmente ciò che emerge dalmondo che gli sta intorno, la gente allafine lo premia in modo entusiastico».Il risultato delle diciassette conversazioniè, per certi versi, sorprendente. Neemerge un partito che è unito su valorisaldi ed irrinunciabili, su cui si fonda lanostra stessa Costituzione, come lasolidarietà, l’uguaglianza, la capacità dimettere gli interessi della comunitàdavanti a quelli dei singoli. Ma allo stesso tempo vengono messe inluce idee, ricette, storie diverse che da unlato fanno anche litigare ma alla stessotempo rendono il Pd un luogo vivo epropositivo, diametralmente opposto aitanti partiti che si incarnanoessenzialmente nella sola figura del leader. Il guanto di sfida che lancia Scalfarotto

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