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Studi e ricerche Espansione e declino del comunismo in Europa occidentale 1939-1948 Donald Sassoon Scopo di questo articolo è riesaminare, in un’ottica rigorosamente comparativa, l’itinera- rio compiuto dai partiti comunisti dell’Europa occidentale dall’inizio della seconda guerra mondiale agli esordi della guerra fredda. I dati riportati mostrano che, nell’insieme, il comuni- Smo in Europa occidentale raggiunse il suo cul- mine nelle prime elezioni del dopoguerra, per avviarsi subito dopo sulla strada del declino, fatta eccezione per i comunisti italiani e france- si. La crescita del movimento non si può sem- plicemente imputare al prestigio dell’Urss, per- ché non si spiegherebbero in questo caso le dif- ferenze tra i singoli partiti. La variabile cruciale è rappresentata dall’ampiezza e importanza del- la resistenza: i partiti comunisti di Grecia, Al- bania, Jugoslavia, Italia e Francia operarono assai meglio dei loro “fratelli” dell’Europa set- tentrionale, finlandesi a parte. I comunisti si di- mostrarono superiori ai socialisti nella lotta contro il nazismo grazie soprattutto alla loro organizzazione centralizzata di tipo militare, appositamente concepita per la guerra rivolu- zionaria, e alla chiarezza del loro obiettivo, os- sia la sconfitta del fascismo, al quale andava subordinato tutto il resto. Finita la guerra, i comunisti persero la loro pe- culiarità: la disciplina interna (centralismo de- mocratico) non gli conferì più un vantaggio particolare, né la politica delle alleanze da loro perseguita valse a distinguerli gran che dagli al- tri partiti. La via insurrezionale al socialismo, che era stato il segno distintivo e la caratteristi- ca originaria dei partiti comunisti, venne ab- bandonata in tutti i paesi, per ben precise ragio- ni che l’articolo si premura di spiegare attraver- so un’analisi comparativa dei partiti italiano, francese, finlandese e ceco. The aim o f this article is to re-examine, in a strictly comparative perspective, the itinerary o f the communist parties o f Western Europe from the onset o f the Second World War to the ini- tial phase o f the Cold War. The data reprodu- ced show that taken as a whole the peak o f West European communist strength occur- red in the first postwar elections, thereafter de- cline set in except for the French and the Ita- lians. The growth of the movement cannot be simply attributed to the prestige o f the USSR, for this would not explain the differences bet- ween parties. The intensity and importance of the Resistance is the crucial variable; communi- st parties in Greece, Albania, Yugoslavia, Italy and France did far better than the communist parties in northern Europe with the exception o f Finland. The communists turned out to be superior to the socialists in the struggle against Nazism also because o f their centralized and militaristic internal organization which had been devised for the purposes o f revolutionary warfare and because o f the clarity o f their goal, namely the defeat o f fascism to which all else had to be subordinated. Once the war was over, the communists lost their peculiarity; their internal discipline (demo- cratic centralism) offered them no special ad- vantage while their strategy o f coalition with other forces was not significantly distinguisha- ble from other parties. The insurrectionary road to socialism, which had been the hallmark and the originary characteristic o f the commu- nist parties, was abandoned by all of them, for clearly definable strategic reasons which the ar- ticle elucidates through a comparative analysis o f the Italian, French, Finnish and Czech party. Italia contemporanea”, marzo 1993, n. 190

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S tu d i e ricerche

Espansione e declino del comunismo in Europa occidentale 1939-1948

Donald Sassoon

Scopo di questo articolo è riesaminare, in un’ottica rigorosamente comparativa, l’itinera­rio compiuto dai partiti comunisti dell’Europa occidentale dall’inizio della seconda guerra mondiale agli esordi della guerra fredda. I dati riportati mostrano che, nell’insieme, il comuni­Smo in Europa occidentale raggiunse il suo cul­mine nelle prime elezioni del dopoguerra, per avviarsi subito dopo sulla strada del declino, fatta eccezione per i comunisti italiani e france­si. La crescita del movimento non si può sem­plicemente imputare al prestigio dell’Urss, per­ché non si spiegherebbero in questo caso le dif­ferenze tra i singoli partiti. La variabile cruciale è rappresentata dall’ampiezza e importanza del­la resistenza: i partiti comunisti di Grecia, Al­bania, Jugoslavia, Italia e Francia operarono assai meglio dei loro “fratelli” dell’Europa set­tentrionale, finlandesi a parte. I comunisti si di­mostrarono superiori ai socialisti nella lotta contro il nazismo grazie soprattutto alla loro organizzazione centralizzata di tipo militare, appositamente concepita per la guerra rivolu­zionaria, e alla chiarezza del loro obiettivo, os­sia la sconfitta del fascismo, al quale andava subordinato tutto il resto.Finita la guerra, i comunisti persero la loro pe­culiarità: la disciplina interna (centralismo de­mocratico) non gli conferì più un vantaggio particolare, né la politica delle alleanze da loro perseguita valse a distinguerli gran che dagli al­tri partiti. La via insurrezionale al socialismo, che era stato il segno distintivo e la caratteristi­ca originaria dei partiti comunisti, venne ab­bandonata in tutti i paesi, per ben precise ragio­ni che l’articolo si premura di spiegare attraver­so un’analisi comparativa dei partiti italiano, francese, finlandese e ceco.

The aim o f this article is to re-examine, in a strictly comparative perspective, the itinerary o f the communist parties o f Western Europe from the onset o f the Second World War to the ini­tial phase o f the Cold War. The data reprodu­ced show that — taken as a whole — the peak o f West European communist strength occur­red in the first postwar elections, thereafter de­cline set in except fo r the French and the Ita­lians. The growth o f the movement cannot be simply attributed to the prestige o f the USSR, fo r this would not explain the differences bet­ween parties. The intensity and importance o f the Resistance is the crucial variable; communi­st parties in Greece, Albania, Yugoslavia, Italy and France did far better than the communist parties in northern Europe with the exception o f Finland. The communists turned out to be superior to the socialists in the struggle against Nazism also because o f their centralized and militaristic internal organization which had been devised fo r the purposes o f revolutionary warfare and because o f the clarity o f their goal, namely the defeat o f fascism to which all else had to be subordinated.Once the war was over, the communists lost their peculiarity; their internal discipline (demo­cratic centralism) offered them no special ad­vantage while their strategy o f coalition with other forces was not significantly distinguisha­ble from other parties. The insurrectionary road to socialism, which had been the hallmark and the originary characteristic o f the commu­nist parties, was abandoned by all o f them, fo r clearly definable strategic reasons which the ar­ticle elucidates through a comparative analysis o f the Italian, French, Finnish and Czech party.

Italia contemporanea”, marzo 1993, n. 190

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Comunisti e socialisti nella resistenza antifascista

La prima guerra mondiale ha prodotto, nel 1917, il primo Stato comunista e, come conse­guenza, nel 1919, un movimento comunista internazionale. Se si esclude la Repubblica popolare di Mongolia, tra le due guerre mon­diali non nacque nessun nuovo stato comuni­sta, mentre il secondo conflitto mondiale die­de al comuniSmo europeo una seconda possi­bilità per imporsi come forza politica di rilie­vo. La guerra determinò l’estensione del mo­dello sovietico a gran parte dell’Europa orien­tale, mentre, in quella occidentale, il comuni­Smo raggiunse, fra il 1945 ed il 1946, l’apice dell’influenza e del potere. Ristabilita la pace, l’Europa e con essa il socialismo risultarono divisi. In parte dell’Europa centrale ed in quella orientale venne instaurata una forma di società socialista poi duramente attaccata dalla maggioranza (di orientamento socialde­mocratico) del movimento dei lavoratori dei paesi occidentali. La situazione rimase inva­riata fino al 1989-1990; nel momento in cui, venuto meno il controllo sovietico, i singoli stati socialisti crollarono sotto il peso del dis­senso interno, divenne evidente che (almeno in un prevedibile futuro) nessuna nuova feni­ce socialista sarebbe sorta dalle ceneri di oltre quarant’anni di regime autoritario di sinistra.

Nella metà occidentale dell’Europa, se si esclude la Francia (fino agli anni ottanta) e l’Italia (fino alla decisione assunta dal Pei, nel marzo 1990, di ricostituirsi come partito non comunista), la voce dominante della sinistra è stata quella dei partiti socialisti o socialdemo­cratici, eredi della Seconda internazionale.

Perché la socialdemocrazia ha potuto mantenere questo predominio? Fondamen­talmente, la spiegazione sta nel fatto che, una volta concluso il conflitto e ristabilita la normalità, i partiti socialisti semplicemente

riacquisirono le precedenti posizioni di pote­re. Il loro prestigio non era stato seriamente intaccato nel corso della guerra sebbene, co­me vedremo, essi non si fossero ricoperti di gloria, non essendo stati all’avanguardia della lotta antifascista in nessuno dei paesi governati dai nazisti o dai loro alleati. Que­sta marcata continuità non dovrebbe sor­prendere. La seconda guerra mondiale, il conflitto internazionale più devastante nella storia dell’umanità, produsse trasformazioni minime nel sistema degli stati europei, quali l’incorporazione delle repubbliche baltiche da parte dell’Unione Sovietica, lo sposta­mento verso ovest dei confini della Polonia e la divisione della Germania. Piccoli muta­menti se paragonati alla ristrutturazione complessiva che seguì le guerre napoleoni­che o, ancor più, il primo conflitto mon­diale.

Se qualcosa venne distrutto dalla guerra, fu proprio la già intaccata fede nella capacità del capitalismo di generare una “buona so­cietà” se lasciato libero di agire senza interfe­renze. Di conseguenza la guerra aveva anche danneggiato i partiti filocapitalisti che, nelle prime elezioni dopo la fine del conflitto, ven­nero ovunque ridimensionati. Per ottenere risultati significativi i conservatori dovettero ricomparire sulla scena politica riorganizzan­dosi all’interno di partiti confessionali demo­cratico-cristiani, profondamente impregnati di populismo e impegnati nella realizzazione di riforme sociali, come in Italia e nella Re­pubblica federale tedesca. Il crollo della de­stra non fascista nelle prime elezioni del do­poguerra interessò persino i conservatori che avevano ottenuto ottimi risultati nel corso della guerra, come i Tory di Winston Chur­chill, che nel 1945 subirono una sconfitta particolarmente devastante ed umiliante. La ricostruzione dell’Europa nel dopoguerra ri­chiese partiti favorevoli all’intervento dello

Il saggio è stato originariamente pubblicato, con il titolo The Rise and Fall o f West European Communism 1939- 48, in “Contemporary European History”, n. 2, 1992, rivista edita dalla Cambridge University Press.

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Stato nella misura necessaria a promuovere l’uguaglianza sociale e la redistribuzione della ricchezza. AlPordine del giorno vi era ora sempre più un tipo di politica più corre­lato all’interesse generale e, di conseguenza, almeno per il periodo immediatamente suc­cessivo alla fine del conflitto, più favorevole alla sinistra. In un continente distrutto dalla guerra ed ossessionato dal ricordo della de­pressione degli anni trenta non restava spa­zio per un conservatorismo incapace di ri­proporsi su basi diverse.

Come lo scoppio della prima, l’inizio del­la seconda guerra mondiale segnò la crisi della sinistra europea, dividendo socialisti e comunisti altrettanto profondamente che negli anni venti. Nel 1939 il motivo contin­gente fu il patto di non aggressione firmato il 23 agosto da Unione Sovietica e Germa­nia. Non essendo stati previamente consul­tati o informati, i partiti comunisti vennero in tutto il mondo colti di sorpresa: i due pi­lastri portanti della loro politica, la difesa dell’Urss come primo Stato socialista e l’an­tifascismo, divenivano a quel punto tra loro incompatibili. La contraddizione venne in

un primo momento resa plausibile interpre­tando il patto, in maniera non del tutto in­giustificata, come l’inevitabile risposta so­vietica alla politica di appeasement adottata da Gran Bretagna e Francia, percepita a Mosca come una strategia volta a dirigere verso est l’aggressione nazista1. In questa prima fase non vi fu neppure un partito co­munista che mancò di indicare nella Germa­nia nazista il nemico principale2. Per esem­pio, il 4 settembre, il giorno successivo alla dichiarazione di guerra anglo-francese, il partito comunista danese dichiarò che “il barbarico fascismo tedesco [aveva] scatena­to una guerra di rapina in Europa”3. I co­munisti francesi votarono i crediti di guerra; i titoli di testa de “L’Elumanité” del 26 ago­sto 1939 chiedevano “l’unità della nazione francese contro l’aggressione hitleriana” ed esortavano ad un riavvicinamento tra Parigi e Mosca4. Il governo francese rifiutò la pro­posta e iniziò invece una persecuzione su lar­ga scala dei comunisti, vietando l’uscita de “L’Humanité”, arrestando i deputati comu­nisti, sciogliendo il Pcf e inviandone i princi­pali attivisti in campi di prigionia5.

1 I timori dei sovietici erano stati ulteriormente accresciuti dal fatto che sia Lettonia che Estonia avevano concluso il 7 giugno un patto di non aggressione con la Germania (si veda David Kirby, The Baltic States 1940-1950, in Mar­tin McCauley (a cura di), Communist Power in Europe 1944-1949, London, Macmillan, 1977, p. 23). Che la con­dotta di Stalin fosse del tutto comprensibile, se non giustificabile dal punto di vista degli interessi nazionali sovieti­ci, era stata l’opinione di molti uomini politici del tempo, come ad esempio Attlee ed Eden (si veda: Kenneth Har­ris, Attlee, London, Weidenfeld, 1982, p. 161 e p. 167, e le memorie di Anthony Eden, The Eden Memories: The Reckoning, London, Cassel, 1965, pp. 55-56). Un autore fermamente antistalinista come Fernando Claudin ha cri­ticato non il patto in sé, ma il modo nel quale esso venne utilizzato: si veda il suo volume The Communist Move­ment. From Comintern to Cominform, Harmondsworth, Penguin, 1975, p. 297 (ed. it. La crisi del movimento co­munista. Dal Comintern al Cominform, Milano, Feltrinelli, 1974; ed. orig. Paris, Ruedo Iberico, 1970). La storio­grafia non partigiana non considera il patto sorprendente sotto il profilo della realpolitik-, la migliore analisi sul­l’argomento è quella di Geoffrey Roberts in The Unholy Alliance. Stalin’s Pact with Hitler, London, I. B. Tauris, 1989, dove le motivazioni principali del patto vengono individuate nel fallimento del programma di sicurezza col­lettiva e dei negoziati tra Urss, Gran Bretagna e Francia.2 Aldo Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, vol. Ili (1928-1943), Tomo 2, Roma, Editori Riuni­ti, 1979, p. 1163.3 Gerhard Hirschfeld, Nazi Rule and Dutch Collaboration. The Netherlands under German Occupation 1940-1945, Oxford, Berg Publishers Ltd., 1988, p. 110.4 Edward Mortimer, The Rise o f French Communist Party 1920-1947, London, Faber and Faber, 1984, pp. 283- 284.5 H.R. Kedward, Behind the Polemics: French Communists and the Resistance 1939-1941, in Stephen Hawes and Ralph White (a cura di), Resistance in Europe: 1939-1945, Harmondsworth, Penguin, 1976, p. 99. Questo saggio

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Fino al 24 settembre, quando la Terza in­ternazionale definì la guerra imperialista piuttosto che antifascista, il Communist Party of Great Britain (Cpgb) si era arrocca­to in una intransigente posizione antinazi­sta, arrivando perfino a rendere pubblica la propria analisi attraverso un pamphlet scrit­to dal suo leader, Harry Pollitt, stampato in50.000 copie e venduto per un penny. Fino ad allora soltanto Palme Dutt si era opposto a questa linea politica. Occorse una settima­na di tormentate discussioni perché, il 3 ot­tobre 1939, il Comitato centrale del Cpgb annunciasse l’appoggio, approvato con ven- tun voti contro tre, alla linea indicata da Mosca6.

Tra il 17 e il 28 settembre vennero com­piutamente applicati i protocolli segreti del patto Ribbentrop-Molotov. Truppe sovieti­che occuparono l’Ucraina e la parte occi­dentale della Bielorussia, ristabilendo le frontiere russe anteriori al 1920; si trattò della prima di una serie di iniziative che avrebbero portato all’occupazione sovietica dell’Estonia, della Lettonia, della Lituania e di parte della Polonia e all’invasione della Finlandia. Unione Sovietica e Germania stabilirono un nuovo accordo, questa volta un vero patto di amicizia e non soltanto un

trattato di non aggressione. Non era quindi più possibile assumere un atteggiamento am­biguo. I comunisti francesi e britannici se­guirono la linea del Comintern sostenendo che la guerra non era antifascista ma impe­rialista, ed attribuirono a Francia e Gran Bretagna la responsabilità della sua conti­nuazione. Il danno causato da questa nuova politica al movimento comunista in Occiden­te ed alla sua credibilità fu estremamente grave. I comunisti tedeschi perseguitati, molti dei quali in campo di concentramento a Dachau, si trovarono nella condizione grottesca di condannare l’imperialismo bri­tannico e di insinuare che “il popolo tedesco [...] non avrebbe avuto nulla da guadagnare dalla sostituzione del regime nazista con un regime democratico”7. Altri assunsero un at­teggiamento meno assurdamente servile: il partito comunista italiano, pur abbandonan­do la linea dell’unità antifascista, non smise mai di indicare nel fascismo e nel nazismo i nemici principali e dichiarò, nel giugno 1940, dopo la decisione di Mussolini di en­trare in guerra, che “il popolo italiano non ha che un nemico, il fascismo”8.

Quando, il 22 giugno 1941, la Germania invase l’Unione Sovietica, lo status quo ven­ne completamente alterato. La guerra “im-

confuta efficacemente la convinzione consolidata secondo la quale non si può parlare di un’attività di resistenza svolta dai comunisti francesi prima dell’invasione dell’Unione Sovietica. Per ulteriori conferme in questo senso, si veda John F. Sweets, Choices in Vichy France, Oxford, Oxford University Press, 1986, pp. 204-206 e Lynne Tay­lor, The Parti communiste français and the French Resistance in the Second World War, in Tony Judt (a cura di), Resistance and Revolution in Mediterranean Europe 1939-1948, London and New York, Routledge, 1989, pp. SJ­TI.6 I verbali delle riunioni del Comitato centrale del Cpgb del 25 settembre e del 2 e 3 ottobre 1939, recentemente resi noti dalle autorità sovietiche, sono stati pubblicati in About Turn. The British Communist Party and the Second World War, a cura di Francis King and George Matthews (London, Lawrence and Wishart, 1990). Essi dimostrano che la lealtà nei confronti di Mosca non costituiva una reazione automatica, ma il risultato di lunghe e difficili di­scussioni. Si veda anche la ricostruzione di Noreen Branson, History o f the Communist Party o f Gret Britain 1927- 1941, London, Lawrence and Wishart, 1985, pp. 266-267. In pratica l’atteggiamento della gran massa dei comuni­sti mutò assai poco; essi non smisero mai di considerare la Germania nazista come il principale nemico. Si veda Ni­na Fishman, The British Communist Party and the Trade Unions, 1933-1945: the Dilemmas o f Revolutionary Pragmatism, London, University o f London, 1991 (tesi di dottorato), pp. 111-115.7 A. Agosti, La Terza Internazionale, cit., pp. 1172.8 Paolo Spriano, Storia del Partito comunista, vol. Ill, I fronti popolari, Stalin, la guerra, Torino, Einaudi, 1970, p. 332.

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penalista” si era trasformata in guerra anti­fascista. Il 13 luglio Gran Bretagna e Urss si allearono e questa volta non vi fu alcun bi­sogno delle direttive di Mosca: la nuova li­nea venne spontaneamente adottata da tutti i comunisti e la difesa della madrepatria so­cialista e l’opposizione al fascismo divenne­ro nuovamente aspetti della stessa lotta. Da quel momento e fino alla fine della guerra i partiti comunisti svolsero un ruolo impor­tante, spesso quello principale, nella resi­stenza al nazismo. In Gran Bretagna il parti­to comunista, l’unico completamente legale in Europa occidentale (a parte quello della neutrale Svezia), sostenne senza riserve e pa­triotticamente lo sforzo bellico9. Nella neu­trale Svezia i comunisti si sforzarono inutil­mente di spingere il paese verso una cosid­detta neutralità attiva, tale cioè da favorire le forze antinaziste. In Spagna il partito co­munista operò nell’illegalità per impedire l’entrata in guerra del paese10. La direttiva del Comintern del 22 giugno 1941 stabiliva in modo inequivocabile che l’obiettivo finale del movimento, il raggiungimento del socia­lismo, doveva essere temporaneamente ac­cantonato, mentre assoluta priorità avrebbe dovuto avere la lotta antifascista. Questa di­rettiva venne portata alle estreme conse­guenze con la decisione dell’Unione Sovieti­ca di sciogliere il Comintern, presumibil­mente allo scopo di migliorare i rapporti con gli alleati, e di lasciare svincolata da ogni obbligo ciascuna sezione dell’Internaziona­le11. Ebbe così fine la storia non precisamen­te gloriosa dell’Internazionale comunista di Lenin.

L’entrata in guerra dell’Unione Sovietica portò ad un considerevole riavvicinamento tra socialisti e comunisti. Questi ultimi fu­

rono in grado di stabilire legami con tutti gli altri partiti antifascisti sia perché svolse­ro, rispetto ai socialisti, un ruolo più im­portante nella resistenza contro il nazismo, sia perché, essendo la difesa dell’Unione Sovietica il loro obiettivo principale, sem­bravano meno interessati a far sì che la ri- costruzione postbellica avvenisse sulla base di trasformazioni di tipo socialista. Nella maggioranza dei casi questo rispetto reci­proco sarebbe durato soltanto fino alla fine delle ostilità o, al massimo, fino all’inizio della guerra fredda. Tutto considerato, re­stava una diffidenza non superabile, e di solito ben fondata, tra i comunisti e tutti gli altri partiti.

I socialisti europei reagirono alle vicende della guerra in maniera meno uniforme ri­spetto ai comunisti. Molto dipendeva dalla situazione che si trovavano a dover affron­tare nei diversi paesi. Considerando i paesi neutrali, i socialisti costituivano una presen­za insignificante in Svizzera e in Irlanda, mentre erano illegali in Spagna. Ma nella neutrale Svezia il primato costituito dai so­cialdemocratici al potere aveva tratti piutto­sto ambigui. Come l’Unione Sovietica nel 1939, e con motivazioni altrettanto giustifi­cabili, la socialdemocrazia svedese si preoc­cupò di evitare di essere costretta ad entrare in guerra. Di conseguenza cooperò senza ri­serve con la Germania in tutti i campi del­l’attività economica e del commercio. La Svezia fornì alla Germania quasi tutto il mi­nerale di ferro ed il legname da costruzione richiesto e — fino al 1943 — permise alla Wehrmacht di trasportare truppe ed equi­paggiamenti attraverso il proprio territorio verso la Norvegia e da questa verso la Ger­mania, rifiutandosi tuttavia di stipulare un

9 II giudizio comunemente accettato secondo il quale il Cpgb cercò sempre di impedire gli scioperi è radicalmente confutato da N. Fishman, The British Communist Party, cit., pp. 253-264 e 271-274.10 A. Agosti, La Terza Internazionale, cit., p. 1181.11 Per il testo si veda Jane Degras (a cura di), The Communist International 1919-1943, vol. Ili, London, Frank Cass and Co. Ltd., 1971, pp. 476-481.

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trattato con quest’ultima e di interrompere l’offerta di asilo ad ebrei ed appartenenti ai movimenti di liberazione12.

Nell’invitta Gran Bretagna il partito labu­rista era rientrato nel governo nel maggio del 1940, all’interno della coalizione nazio­nale guidata da Churchill; era quindi il solo partito socialista al potere in tutti gli stati europei coinvolti nel conflitto. Questa con­dizione eccezionale avrebbe messo il partito laburista britannico in grado di affrontare i compiti della ricostruzione postbellica avva­lendosi di un’esperienza di governo senza uguali nel resto dell’Europa in guerra. Per quanto poi riguarda il conflitto, il partito non dovette prendere nessuna importante decisione strategica, una volta unita la pro­pria sorte a quella della coalizione nazio­nale.

Completamente diversa era la situazione che dovettero affrontare i socialisti nei paesi dell’Asse, in quelli loro alleati o soggetti al dominio nazifascista — in pratica il resto dell’Europa continentale —, dove per la si­nistra l’alternativa possibile era fra la passi­vità e l’accettazione della situazione da una parte e la resistenza armata attiva dall’altra. In due dei paesi occupati, Danimarca e Francia, alcuni socialisti (in Danimarca pra­ticamente tutti) cooperarono, pur senza en­tusiasmo, con il nazismo. In Danimarca il governo, formato da una coalizione di radi­cali e socialisti, deliberò “di porre la propria neutralità sotto la protezione dei tedeschi” e di formare un governo nazionale più rappre­

sentativo insieme agli altri due maggiori par­titi13. Il governo acconsentì alle richieste di dichiarare illegale il partito comunista dane­se (giugno 1941) e di aderire al Patto anti- Comintern (novembre 1941), mentre il verti­ce dell’esecutivo venne affidato al socialde­mocratico Vilhelm Buhl nel maggio del 1942. La cooperazione tra nazisti e socialisti si interruppe praticamente dopo l’ondata di scioperi organizzati dai comunisti nel luglio del 1943. I nazisti cercarono senza successo di costringere il governo alla proclamazione dello stato di emergenza e furono così co­stretti a controllare direttamente la Dani­marca14. Al di fuori dei ranghi del partito comunista, il solo atto di aperta sfida venne dai diplomatici danesi a Londra e Washing­ton, che formarono un movimento contra­rio all’occupazione tedesca15.

I nazisti ebbero minor successo nei Paesi Bassi, dove il tentativo di allontanare i mar­xisti dal partito socialdemocratico (Sdap) fallì per l’intransigente opposizione della maggioranza della direzione e degli attivisti guidati da Koos Vorrik16. In Norvegia il ga­binetto socialista a partire dal momento del­l’invasione si oppose a Vidkun Quisling — collaborazionista per eccellenza e capo del regime fantoccio, la cui impopolarità fu tale da costringere i tedeschi a governare diretta- mente il.paese — e infine scelse l’esilio con il re. Entrambi raggiunsero a Londra il gover­no olandese e quello belga e divennero com­pletamente dipendenti dalle iniziative britan­niche17.

12 Henri Michel, The Second World War, London, André Deutsch Ltd., 1975, pp. 291-292 (trad. it. Storia della seconda guerra mondiale, Milano, Mursia, 1977). Sull’importanza strategica per la Germania dei rifornimenti sve­desi, cfr. Alan S. Milward, War, Economy and Society 1939-1945, Harmondsworth, Penguin Books, 1987, pp. 308-313 (ed. orig. 1977; trad. it. Guerra, economia e società 1939-1945, Milano, Etas Libri, 1983).13 H. Michel, The Second World War, cit., p. 73.14 Susan Seymour, Anglo-Danish Relations and Germany 1933-1945, Odense, Odense University Press, 1982, pp. 168-169.15 Jdrgen Haestrup, Europe Ablaze. An Analisys o f the History o f the European Resistance Movements 1939- 1945, Odense, Odense University Press, 1978, p. 53.16 G. Hirschfeld, Nazi Rule and Dutch Collaboration, cit., pp. 94-100.17 H. Michel, The Second World War, cit., pp. 78 e 297.

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In Austria, parte del Terzo Reich dal 1938, quello che rimaneva del movimento socialista non fu in grado di organizzare un’attività clandestina di proporzioni signi­ficative. La sola seria forza politica operante nella clandestinità era il partito comunista (Kpò) che, dopo 1’Anschluss, aveva accre­sciuto la propria importanza all’interno del­la sinistra. Il fallimento dei socialisti nell’or­ganizzazione di un movimento di resistenza probabilmente ne impedì il completo an­nientamento, preservandone così la forza per il dopoguerra18. Come la maggioranza della popolazione, i socialisti austriaci ave­vano abbracciato la rivendicazione di una Grande Germania. Essi accettarono che nel dopoguerra l’Austria tornasse ad essere uno Stato indipendente soltanto dopo la dichia­razione di Mosca del novembre 1943, con la quale i ministri degli esteri dei paesi alleati definirono l’Austria, in maniera schizofreni­ca ma corretta, vittima e al tempo stesso complice della Germania nazista, con la conseguenza che il paese sarebbe stato rico­stituito come stato indipendente.

In Cecoslovacchia la principale forza di resistenza fu rappresentata dal partito co­munista piuttosto che dai gruppi che faceva­no parte del governo in esilio di Eduard Be- nes, sostenuto dalla Gran Bretagna e com­prendente anche i socialisti19. La Finlandia costituiva, come al solito, un caso a parte. Invasa dall’Unione Sovietica nel 1940, il go­verno guidato dal partito socialdemocratico accolse positivamente l’invasione nazista dell’Urss. Il portavoce socialista del parla­mento finlandese dichiarò il 20 luglio 1941: “Noi non siamo soli, la nazione più efficien­te e pronta a combattere d’Europa, la nazio­

ne tedesca, sta in questo momento annien­tando con il suo esercito d’acciaio il nostro nemico tradizionale, sempre perfido e in­gannatore”20. Con queste affermazioni i so­cialdemocratici erano all’unisono con l’opi­nione pubblica: fino all’autunno del 1942 una netta maggioranza, che includeva la maggior parte dei socialdemocratici, era per una vittoria finale della Germania21.

In Italia non si può parlare di resistenza armata fino al 1943. II suo manifestarsi fu preceduto dagli scioperi del marzo 1943 in alcune delle principali città del Nord, dalla decisiva avanzata degli alleati al Sud e dalla conseguente decisione del Gran consiglio del fascismo di costringere Mussolini alle dimis­sioni. Tutto questo determinò l’infamante volo del re, della corte e del nuovo presiden­te del Consiglio, Badoglio, che fuggirono verso il Sud lasciando nel caos più completo il popolo italiano e le forze armate — un ca­so da manuale, se mai ce ne è stato uno, di una classe “dirigente” spregevole e senza spina dorsale. II partito socialista italiano unì le proprie forze a quelle più numerose dei comunisti nelle Brigate Garibaldi che co­stituivano la spina dorsale della resistenza armata in Italia, sebbene, analogamente a quanto avveniva altrove, i lanci fatti dagli alleati di armi e generi alimentari mirassero a favorire i gruppi filomonarchici, quelli formati da cattolici o perfino le formazioni del radicale partito d’azione. Anche nelle zone liberate alla fine del 1944 (cioè a sud di Firenze) l’insieme dei membri del partito so­cialista era inferiore non soltanto a quello dei democratico-cristiani (il che non sor­prende, data la tradizionale debolezza del partito al Sud, con l’eccezione della Puglia),

18 Radomir V. Luza, The Resistance in Austria 1938-1945, Minneapolis, University o f Minnesota Press, 1984, pp. 12, 21,83.19 J. Haestrup, Europe Ablaze, cit., pp. 282-285.20 John H. Hodgson, Communism in Finland. A History and Interpretation, Princeton, Princeton University Press, 1967, p. 195.21 David G. Kirby, Finland in the Twentieth Century, London, C. Hurst & Co., 1979, p. 152.

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ma anche a quello dei comunisti22. Nelle questioni politiche, così come in quelle mili­tari, i socialisti italiani non ebbero mai l’ini­ziativa, mentre i comunisti, a partire dal ri­torno di Togliatti dall’Unione Sovietica nel marzo 1944, sapevano esattamente quali scelte adottare. Il partito comunista seppe superare la situazione politica priva di sboc­chi determinata dal rifiuto dei partiti antifa­scisti di riconoscere il governo Badoglio. I comunisti accettarono di cooperare con que­st’ultimo posponendo al dopoguerra ogni problema attinente l’assetto costituzionale. Gli altri partiti accettarono la guida del Pci. Il 21 aprile i comunisti italiani entrarono, per la prima volta nella loro storia (e soltan­to per tre anni) in un governo. Il 6 giugno, nelle sue “Istruzioni per tutti i compagni e per tutte le formazioni di partito” , Togliatti dichiarò: “Ricordarsi sempre che l’insurre­zione che noi vogliamo non ha lo scopo di imporre trasformazioni sociali e politiche in senso socialista o comunista, ma ha come scopo la liberazione nazionale e la distruzio­ne del fascismo. Tutti gli altri problemi ver­ranno risolti dal popolo, domani, una volta liberata l’Italia tutta, attraverso una libera consultazione popolare e l’elezione di una Assemblea costituente”23.

Sebbene “tutti gli altri problemi” dovesse­ro essere risolti successivamente, le preoccu­pazioni di Togliatti erano in realtà dirette al dopoguerra, quando il partito comunista avrebbe dovuto consolidare la posizione di prestigio acquisita durante la resistenza. Do­veva divenire un partito “nazionale” pro­prio come aveva fatto la socialdemocrazia

tedesca con la prima guerra mondiale ed i comunisti francesi durante l’apogeo del Fronte popolare. Accanto alla bandiera ros­sa, i simboli nazionali come il tricolore, Ga­ribaldi e la tradizione risorgimentale avreb­bero dovuto intrecciarsi nei discorsi politici dei comunisti. Nel dopoguerra lo statuto del partito prevedeva che al termine di congressi e manifestazioni organizzate dal partito i partecipanti avrebbero dovuto intonare l’in­no nazionale — pur del tutto indegno, sotto il profilo musicale, della terra di Vivaldi e Verdi — insieme all’“Internazionale” e a “Bandiera rossa” .

Analogamente al Pei, anche il partito so­cialista italiano combattè durante la resi­stenza con un occhio rivolto, pur distratta- mente, al dopoguerra. Nenni cercò di sca­valcare a sinistra i comunisti quando al con­gresso del partito, il 3 settembre 1944, si espresse a favore di una repubblica socialista intesa come obiettivo immediato della lot­ta24. All’estero tale dichiarazione produsse una impressione negativa, come dimostra un memorandum interno del Foreign Office che, con precisione priva di remore, notava: “È un’affermazione molto stupida [...] ma allora il partito socialista italiano è un parti­to particolarmente stupido. Vive in un mon­do che si è costruito da solo, usando un lin­guaggio coniato negli anni venti, condanna­to ad essere divorato fino all’ultima briciola da un partito comunista molto più astu­to”25. Nenni aveva un ulteriore problema: perfino durante la guerra il suo partito subi­va le conseguenze della tradizionale lotta corpo a corpo tra le diverse fazioni, ulterior-

22 Francesca Taddei, Il socialismo italiano del dopoguerra: correnti ideologiche e scelte politiche (1943-1947), Mila­no, Angeli, 1984, p. 35.23 II documento è pubblicato in Pietro Secchia (a cura di), Il Pei e la guerra di liberazione 1943-1945, Milano, Fel­trinelli, 1973, p. 509.24 Cfr. Il partito socialista italiano nei suoi congressi, vol. V, 1942-1955, Milano, Edizioni del Gallo, 1968, p. 25. Si noti, tuttavia, che nella risoluzione finale non si parla di repubblica socialista.25 La citazione è tratta da David Ellwood, Italy 1943-1945, Leicester, Leicester University Press, 1985, p. 107, (ed. originale: L ’alleato nemico. La politica dell’occupazione anglo americana in Italia 1943-1946, Milano, Feltrinelli, 1977).

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mente esacerbata dal fatto che l’opposizione di destra aH’interno del partito riceveva fon­di dagli Stati Uniti (in particolare dalla American Federation of Labor)26.

In Italia la situazione che i socialisti si tro­varono a dover affrontare ebbe se non altro fin dall’inizio contorni precisamente defini­ti, nel senso che essi non si trovarono mai nella condizione di poter pensare ad una qualsiasi forma di compromesso con il fasci­smo. Il loro primato in senso antifascista ri­mase inattaccato. In Francia non avvenne lo stesso. Nel 1940 il paese era stato sconfitto ma non completamente occupato. Nella Francia di Vichy restò una parvenza di auto­nomia con il maresciallo Pétain. Quando nel 1940 il paese si arrese alla Germania i socia­listi francesi della Sfio erano incerti sulle scelte da compiere. Contro il parere di Léon Blum, la maggioranza dei deputati e dei se­natori socialisti (novanta su 168), guidata da Paul Faure, votò per l’attribuzione dei pieni poteri a Pétain, accettando quindi il dictât tedesco. Soltanto trentasei deputati e sena­tori socialisti votarono contro27. I collabora­zionisti della Sfio giustificarono la propria scelta, determinata in misura assolutamente prevalente dall’anticomunismo, con motiva­zioni di carattere pacifista28. Parlando in ge­nerale, essi erano i tipici esempi di notabili socialisti per i quali il partito rappresentava spesso poco più che un mezzo per acquisire e mantenere posizioni di potere. La nuova situazione aveva aperto la strada per ulterio­ri affermazioni personali ed essi erano rilut­tanti a lasciarsele sfuggire. I collaborazioni­sti detenevano la maggioranza: soltanto ot­tanta parlamentari votarono contro Pétain

in un parlamento che, essendo stato eletto nel 1936 quando trionfava il Fronte popola­re, costituiva probabilmente l’assemblea na­zionale più spostata a sinistra eletta in Fran­cia dal 1848. Si dovrebbe tuttavia aggiunge­re che questa maggioranza pétainiste rappre­sentava fedelmente l’opinione pubblica francese. Nel luglio del 1940 la grande mag­gioranza dei francesi non era disposta a resi­stere all’occupante.

I seguaci di Blum, guidati, tra gli altri, da Daniel Mayer, crearono il “Comité d’Action Socialiste” (Cas), riorganizzarono il partito in funzione della lotta armata e, nella pri­mavera del 1943, acquisirono di nuovo il no­me Sfio. Naturalmente vi furono molti che, considerandosi socialisti, appoggiarono, a livello locale, ogni forma di resistenza possi­bile, senza riguardo per le dichiarazioni o le scelte della leadership. Molti di questi attivi­sti avevano la non ingiustificata tendenza a diffidare delle etichette di partito ed aderiro­no alla Sfio soltanto più tardi, quando la li­berazione era in vista e iniziavano a deli­nearsi i contorni del sistema politico del do­poguerra, inclusa l’aspettativa di un forte partito comunista29. Nell’elaborare il pro­prio programma e la propria strategia la Sfio seguì meticolosamente la strada mae­stra tracciata da Blum, che era stato arresta­to dalle autorità di Vichy nel settembre 1940, quindi processato e consegnato alla Gestapo nel marzo del 1943, infine inviato nel campo di concentramento di Buchen­wald dove rimase fino alla fine del conflitto. La più importante direttiva di Blum era il ri­conoscimento di Charles De Gaulle come unico leader della resistenza. In una nota del

26 Sull’ingerenza degli Stati Uniti negli affari interni del partito socialista, si veda Ronald L. Filipelli, American Labor and Postwar Italy, 1943-1953. A Study o f Cold War Politics, Stanford, Stanford University Press, 1989, pp. 51-68.27 Marc Sadoun, Les socialistes sous l ’occupation. Résistance et collaboration, Paris, Presses de la Fondation Na­tionale des Sciences Politiques, 1982, p. 35.28 M. Sadoun, Les socialistes sous l’occupation, cit., pp. 50-53.29 M. Sadoun, Les socialistes sous l ’occupation, cit., p. 194.

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novembre 1942 inviata a De Gaulle (e scritta dietro sua richiesta), che doveva essere fatta pervenire a Roosevelt e Churchill, egli elo­giava in continuazione il generale, descritto come l’incarnazione dell’unità dei francesi, aggiungendo che “senza di lui niente sarebbe stato possibile”30. In realtà i socialisti fran­cesi avevano bisogno di De Gaulle per recu­perare qualcosa della perduta legittimità31. A differenza dei comunisti, essi non aveva­no proprie organizzazioni di resistenza e, di conseguenza, il loro contributo specifico non emergeva in maniera altrettanto chiara32.

I socialisti si distinguevano dai comunisti per molti altri aspetti importanti e in parti­colare per la produzione di gran lunga mag­giore di programmi e documenti politici33. Per timore di indebolire l’unità del fronte antifascista o di ritardare la vittoria alleata sulla Germania, i comunisti erano ansiosi, così come lo erano stati nel corso dei dibat­titi che portarono alla creazione del Fronte popolare, di tenere in sospeso ogni discus­sione relativa ai mutamenti radicali da at­tuare nel dopoguerra. I socialisti non aveva­no invece preoccupazioni di questo genere. Tutti i progetti di riforma sociale della Sfio erano caratterizzati dalla convinzione che non vi potesse essere un ritorno al capitali­smo degli anni trenta. La borghesia, avendo perso la sua volontà di dominio, non pote­va più essere la classe dirigente. Diveniva inevitabile un processo di emancipazione sociale. Il “Projet de Charte économique et sociale” e il documento sulle “Réformes

économique de structure” (entrambi stesi nel 1944) affermavano che la piena occupa­zione sarebbe stato uno degli obiettivi dello Stato nel dopoguerra, quando si sarebbero attuate una redistribuzione della ricchezza e la pianificazione dell’economia. Le miniere di carbone, le industrie chimiche e quelle metallurgiche sarebbero divenute proprietà dello Stato accanto alle società di assicura­zione, alle banche e a tutti i servizi pubblici. Il paese sarebbe stato completamente mo­dernizzato: “la Francia non può rimanere un paese di artigiani e di agricoltori, come nel romantico sogno reazionario di Pé­tain”34. Le riforme sociali del 1936 sarebbe­ro state difese e sviluppate e sarebbero stati introdotti sistemi volti ad assicurare la par­tecipazione dei lavoratori35; sarebbe stata offerta alle popolazioni delle colonie fran­cesi la possibilità di instaurare nuove mi­gliori relazioni. Sebbene non si accennasse alla completa decolonizzazione, si suppone­va che alla fine essa si sarebbe realizzata dopo un lungo processo di educazione e di emancipazione.

Queste proposte erano prive di conse­guenze per quanto riguarda il conflitto, i rapporti di forza all’interno della resistenza o la misura nella quale ciascuna di queste in­dicazioni sarebbe stata attuata nel dopo­guerra. Come nota Andrew Sherman, “lo studio delle riforme da attuare nel dopo­guerra venne messo da parte dalla maggio­ranza dei resistenti in quanto irrilevante ri­spetto all’obiettivo principale costituito dal­la prosecuzione della lotta contro la Germa-

30 Si veda il testo in Léon Blum, L ’Oeuvre de Léon Blum (1940-1945), Paris, Editions Albin Michel, 1955, p. 383. Si veda inoltre Jean Touchard, La gauche en France depuis 1900, Paris, Editions du Seuil, 1977, p. 251.31 H. Michel, The Second World War, cit., p. 505.32 John F. Sweets, The Politics o f Resistance in France 1940-1944, DeKalb 111., Northern Illinois University Press, 1976, pp. 160-161.33 Per i piani di rinnovamento si veda Andrew Shennan, Rethinking France. Plan fo r Renewal 1940-1946, Oxford, Claredon Press, 1989, e Henri Michel, Les courants de pensée de la Résistance, Paris, Presses universitaires de France, 1972.34 Citato in H.Michel, Les courants de pensée de la Résistance, cit., p. 524.35 Cfr. H. Michel, Les courants de pensée de la Résistance, cit., p. 527.

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nia”36. La funzione principale di questi pro­getti, se mai ne ebbero una, era di costituire la linea di demarcazione tra fazioni e corren­ti di idee all’interno del partito stesso. Quel­lo che nel corso della guerra i socialisti fran­cesi dissero o pensarono ebbe un’assai scar­sa rilevanza. In realtà all’interno della resi­stenza francese esistevano soltanto tre forze di qualche peso. La prima era costituita da De Gaulle e dai suoi sostenitori a Londra e in ogni parte della Francia. La seconda era­no i cosiddetti Mouvements Unis de la Rési­stance (Mur), la resistenza organizzata for­mata da coloro che non aderivano a partiti e che, alla fine del 1942, avevano accettato la leadership politica gaullista37. La terza era costituita dal partito comunista.

Ideologicamente agli antipodi, De Gaulle e i comunisti avevano, per il resto, molto in comune: entrambi erano in apparenza indif­ferenti rispetto ai piani proposti per la rico­struzione postbellica e consideravano come questione principale la prosecuzione della guerra. Di conseguenza il partito comunista francese non ebbe alcuna riserva ad accetta­re l’incisivo e succinto programma che l’in­trepido Jean Moulin aveva proposto, a no­me di De Gaulle, alla prima riunione del Conseil National de la Résistence. Il primo paragrafo, in modo elegante e conciso, enunciava Faire la guerre, mentre i seguenti comprendevano generici impegni per la rico­stituzione della democrazia repubblicana e del prestigio francese. Moulin spiegò in quell’occasione che De Gaulle riteneva che, pur essendo i partiti necessari in una demo­crazia, quelli della Francia postbellica non avrebbero dovuto essere gli stessi dell’ante­

guerra; essi avrebbero dovuto rispecchiare le principali ideologie politiche (“les larges blocs idéologiques”). I comunisti concorda­rono con decisione38. Il generale e i comuni­sti erano entrambi, per ragioni compieta- mente diverse, molto sospettosi nei confronti dei loro alleati anglosassoni. Per i comunisti essi costituivano l’ala “capitalista” dell’al­leanza antifascista, compagni per il momen­to e futuri avversari. Per De Gaulle gli allea­ti, e in particolare il detestato Churchill, era­no colpevoli di sfruttare ogni possibile van­taggio derivante dalla posizione intollerabil­mente umiliante nella quale egli — la perso­nificazione vivente della Francia — era stato costretto a causa dell’esilio e della mancanza di potere politico. Questo indusse De Gaulle a provare di gran lunga più simpatia per l’Urss e per i suoi sostenitori di quanta non ne avrebbe diversamente sentito. La simpatia era reciproca: l’Urss riconobbe il Comitato francese di liberazione nazionale prima della Gran Bretagna; De Gaulle adottò, letteral­mente, lo slogan coniato dal partito comuni­sta, “la liberazione nazionale non può essere separata dall’insurrezione nazionale”39.

Naturalmente in parecchie occasioni De Gaulle e i comunisti si scontrarono: il primo voleva scegliere quali comunisti dovessero far parte del suo governo, mentre il partito comunista voleva designare direttamente i propri rappresentanti; De Gaulle fu inoltre restio nell’epurazione dei collaborazionisti dall’amministrazione dell’Algeria liberata40. Ciò nondimeno molto univa gaullisti e co­munisti, entrambi egualmente diffidenti nei confronti degli altri partiti: i comunisti per­ché gli altri non erano comunisti, De Gaulle

36 A. Shennan, Rethinking France, cit., p. 35.37 H. Michel, Les courantes de pensée de la Résistance, cit., p. 226.38 Si veda: Charles De Gaulle, Mémoires de Guerre. L ’Unité 1942-1944, Paris, Libraire Plon, 1956, p. 492.39 Maurice Adereth, The French Communist Party. A Critical History (1920-1984) from Comintern to “the colours o f France”, Manchester, Manchester University Press, 1984, p. 122.40 Stéphane Courtois, Le Pcf dans la guerre. De Gaulle, la Résistance, Staline..., Paris, Editions Ramsay, 1980, cap. 15.

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sulla base di una profonda ripugnanza per i partiti politici, considerati litigiose associa­zioni composte da politicanti petulanti e pomposi che perseguivano il proprio raffor­zamento piuttosto che quello della Francia — una valutazione abbastanza precisa della vita politica durante la Terza repubblica. Naturalmente anche il partito comunista francese era un partito, ma, almeno per il momento, sembrava aver messo da parte la sua aberrante ed antipatriottica ideologia per dedicarsi alla salvezza della nazione.

I socialisti, al pari di De Gaulle, attenua­rono il proprio anticomunismo con il proce­dere della guerra. Così, dopo il coinvolgi­mento nel conflitto dell’Unione sovietica, nel suo libro autocritico A l’échelle humai­ne, scritto in prigione nel 1941, Blum de­scrisse il Pcf come un “partito nazionalista straniero” in ragione del suo attaccamento all’Unione Sovietica. Meno di due anni do­po, il 15 marzo 1943, in una lettera a De Gaulle egli scrisse tuttavia che una “nazione francese senza la partecipazione del partito comunista non sarebbe stata né completa né vitale” proprio come “nessuna comunità in­ternazionale sarebbe stata completa o vitale senza l’Urss”41. Questo atteggiamento non venne contraccambiato dai comunisti che, con l’avvicinarsi della liberazione, divennero più critici nei confronti dei socialisti42.

Non soltanto in Francia, ma anche in Ju­goslavia, Grecia, Cecoslovacchia, Italia e in altri paesi, i comunisti furono “i più eroici tra gli eroi”43. Ciò si verificò perfino dove l’eroi­smo era più difficile, cioè in Germania. Le at­tività dei ristretti circoli conservatori anti­

nazisti, che culminarono nella congiura dei ge­nerali che tentarono di uccidere Hitler il 20 lu­glio 1944, hanno portato a mettere in ombra l’audacia e l’eroismo dimostrati dai militanti di sinistra e, in particolare, dai comunisti44.

Comunisti e socialisti di fronte alla Ricostruzione

La guerra finì per offrire ai comunisti dei paesi dell’Europa occidentale il loro momen­to di gloria. Essi poterono combattere il fa­scismo ed il nazismo, essere veri internazio­nalisti, difendere l’Urss, dimostrarsi perfetti patrioti, e tutto questo senza contraddizione alcuna. Invece di essere insultati ed isolati in un ghetto, essi venivano elogiati da tutti: da Churchill, da Roosevelt e da De Gaulle. Nel­la prospettiva dei partiti comunisti il male e il bene finivano cosi per contrapporsi in modo manicheo: da una parte il fascismo ed il nazi­smo e dall’altra parte la democrazia e il pro­gresso sociale, con i quali si schierava chiun­que volesse e potesse combattere i primi. Al­trettanto chiara era la strategia, che doveva basarsi su scontri armati e tattiche insurre­zionali, gli strumenti politici che i comunisti avevano sempre considerato superiori a tutti gli altri. Il tipo di organizzazione richiesto da questo tipo di conflitto si avvicinava a quello proprio di un esercito e, di conseguenza, a quello di un partito organizzato secondo il modello leninista, con una struttura di co­mando verticistica e una ferrea disciplina mi­litare. I partiti comunisti rivoluzionari costi­tuiti dal Comintern tra il 1920 e il 1922,

41 Si veda L. Blum, L ’Oeuvre de Léon Blum, cit., pp. 457, 402.42 S. Courtois, Le P cf dans la guerre, cit., p. 416.43 M.R.D. Foot, Resistance. An Analysis o f European Resistance To Nazism 1940-1945, London, Eyre Methuen, 1976, p. 86. Questo riconoscimento risulta significativo in quanto l’autore non ha alcuna simpatia per la dottrina comunista.44 Si veda il saggio di Hans-Joachim Reichhardt, Resistance in the Labour Movement, in Hermann Grami et al., The German Resistance to Hitler, London, B.T. Batsford, 1970, e l’introduzione di F.L. Carsten al volume, in par­ticolare a p. X; si veda inoltre Anthony Williams, Resistance and Opposition among the Germans, in S. Hawes and R. White (a cura di), Resistance in Europe 1939-1945, cit., p. 154.

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quando si riteneva che l’Europa fosse alla vigilia di una rivoluzione, possono essere stati inadatti alla lotta politica elettorale, ma risultarono, sotto il profilo organizzativo, la migliore arma per la condotta di una guerra partigiana disciplinata e coraggiosa.

Nel dibattito politico i comunisti non pro­posero con forza la questione della trasfor­mazione che la società avrebbe dovuto subi­re nel dopoguerra. La maggior parte dei mi­litanti riteneva che sollevando troppo presto il problema si sarebbero introdotti motivi di divisione che avrebbero indebolito la coali­zione antifascista. In ogni caso, non vi pote­va essere alcun dubbio sul fatto che la pro­spettiva futura fosse rappresentata dal so­cialismo. Il fascismo ed il nazismo erano stati l’espressione più pura della violenza ca­pitalistica, al cui annientamento la terra ma­dre del socialismo, l’Urss, aveva contribuito in maniera decisiva ed indiscutibile. Tra il 1943 e il 1946 il prestigio dell’Unione Sovie­tica raggiunse il punto più alto della sua pa­rabola. La pianificazione e la collettivizza­zione, la leadership comunista e la direzione di Stalin avevano dimostrato la superiorità del sistema sovietico. Nel resto dell’Europa la depressione degli anni trenta aveva con­fermato che il capitalismo poteva offrire sol­tanto disoccupazione e miseria, mentre in Germania e Italia aveva prodotto dei mostri. Per la maggior parte dei comunisti e per molti socialisti era quindi semplicemente in­concepibile che le popolazioni dell’Europa liberata, una volta in grado di scegliere au­tonomamente il proprio destino, non si ra­dunassero dietro la bandiera rossa.

Anche se, almeno in Europa occidentale, la resistenza non diede ai comunisti, alla fi­ne della guerra, la possibilità di una insurre­zione che instaurasse il socialismo, fornì un notevole impulso al processo di legittimazio­ne dei comunisti stessi. Avendo combattuto coraggiosamente, essi non potevano più es­sere posti ai margini del sistema politico in ragione del loro antipatriottismo. I comuni­

sti, di conseguenza, avrebbero potuto pren­dere parte alla creazione del nuovo ordine postbellico che — come era convinzione ge­nerale — sarebbe stato radicalmente diverso rispetto a quello precedente il 1939. Per i co­munisti, come per tutte le altre forze politi­che coinvolte, la resistenza era importante essenzialmente sotto il profilo politico. Per molti di coloro che vi presero parte, tutta­via, la resistenza fu un processo di grande si­gnificato morale, un modo per riscattare il proprio paese ed i propri concittadini da una colpa collettiva: il marchio d’infamia deri­vante dall’aver permesso l’instaurazione di regimi repressivi e guerrafondai (in Italia e Germania) o dal non essere stati in grado di metterli in crisi. Non si può ignorare questa dimensione morale e psicologica che consen­tì ad intere popolazioni, e non soltanto ai pochi che presero parte alla resistenza, di ri­vendicare di non aver subito passivamente gli avvenimenti storici, venendo prima ridot­te in schiavitù dal nazismo e poi liberate da stranieri, ma di meritare la propria libertà avendo combattuto per ottenerla. Questo ri­cupero dell’orgoglio nazionale costituì nel dopoguerra un fattore importante per l’in­staurazione dei regimi democratici dell’Eu­ropa occidentale. Il senso del proprio valore e della propria dignità e la fiducia in se stessi che ad essi si accompagna sono indispensa­bili alla vita politica di una democrazia.

Il dibattito storiografico, sicuramente in­teressante, sull’importanza della resistenza sotto il profilo militare trascura l’aspetto centrale che si è appena delineato. Soltanto l’Albania e la Jugoslavia furono effettiva­mente liberate dalla resistenza. In altri paesi (ad esempio in Italia e in Grecia e, in misura molto minore, in Francia) la resistenza im­pedì quasi sicuramente maggiori perdite tra gli alleati, ma non fu decisiva per l’esito del conflitto. Altrove, come in Norvegia, le for­ze tedesche dominavano più saldamente il paese quando Berlino dovette soccombere di fronte all’Armata rossa, che non dopo i pri­

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mi mesi di occupazione45. In alcuni casi un atteggiamento generale di rifiuto della coo­perazione, come quello indicato in un rap­porto tedesco sulle ferrovie francesi, diede risultati così ampi da impedire alle autorità naziste di utilizzare efficacemente la rete fer­roviaria46.

Nell’Europa occidentale del dopoguerra la resistenza fu il fattore decisivo nella defi­nizione dei rapporti fra la componente so­cialista e quella comunista della sinistra tra­dizionale. Esistono alcune relazioni fra l’af­fermazione della resistenza ed i successi poli­tici conseguiti dai comunisti immediatamen­te dopo la guerra. Nei paesi che non erano stati occupati dai tedeschi, come la Gran Bretagna e la neutrale Svezia, o che avevano avuto un movimento di resistenza insignifi­cante per dimensioni, come in Danimarca, o ampiamente controllato da Londra, come in Belgio e in Olanda, i partiti comunisti, dopo un iniziale e breve successo elettorale (si ve­da la tabella sulla Percentuale dei voti asse­gnati ai comunisti a p. 20) restarono una forza politica di importanza trascurabile co­sì come erano stati nel periodo tra le due guerre, mentre socialisti e socialdemocratici monopolizzarono praticamente la sinistra.

Lasciando da parte i territori liberati dal­l’Armata rossa, soltanto in cinque paesi, Al­bania, Jugoslavia, Grecia, Italia e Francia, la resistenza armata rappresentò un impor­tante fenomeno. In questi paesi i partiti co­munisti, il cui ruolo nel corso della lotta di liberazione era stato preponderante, accreb­bero più che altrove la propria influenza ed

il proprio prestigio. In Albania e Jugoslavia i comunisti furono in grado di impadronirsi del monopolio del potere, di instaurare un re­gime a partito unico ed un sistema economico non capitalistico, restando, a differenza di tutti gli altri paesi dell’Europa orientale, completamente indipendenti rispetto all’Urss.

La Grecia rappresenta un caso a parte. Il partito comunista (Kke) cercò di seguire la strada, imboccata dalla Jugoslavia e dall’Al­bania, della conquista armata del potere, ma ciò gli fu impedito da una coalizione costi­tuita dalle forze conservatrici e dagli alleati che intervennero direttamente. Il Kke domi­nò il Fronte di liberazione nazionale (Eam) e la sua ala militare, l’Esercito popolare di li­berazione nazionale (Elas) che, tra il 1942 e il 1943, erano divenuti grandi organizzazioni di massa. Quando la Grecia venne liberata, il Kke, un partito di importanza trascurabile prima della guerra, aveva 300.000 membri e il Fronte e la sua ala militare disponevano di due milioni di aderenti, quasi il trenta per cento della popolazione47. Con il 1944 le due organizzazioni erano in guerra contro il loro principale avversario, il movimento di resi­stenza (Edes, Unione nazionale greca de­mocratica) sostenuto da Churchill, deciso ad impedire ai comunisti di conseguire un’influenza politica commisurata al ruolo svolto nella resistenza. Nel gennaio 1945 il Kke accettò infine di firmare un armisti­zio48. Nelle elezioni che si tennero il 31 mar­zo 1946 il quaranta per cento dell’elettorato si astenne ed i partiti filomonarchici risulta­rono vittoriosi. I risultati del successivo refe-

45 Alan Milward, The Economie and Strategie Effectiveness o f the Resistance, in S. Hawes and R. White (a cura di), Resistance in Europe 1939-1945, cit., p. 200. Per alcune delle ragioni per le quali si potè verificare ta­le situazione, cfr. T. Gjelsvik, Norwegian Resistance 1940-1945, London, C. Hurst & Co, 1979, in particolare p. IX.46 II testo è riportato in M.D.R. Foot, What Good Did Resistance Do?, in S. Hawes and R. White (a cura), Resi­stance in Europe 1939-1945, cit., p. 211. Il rapporto è del tutto attendibile, come potrebbe testimoniare chiunque abbia potuto sperimentare la mancanza di collaborazione in Francia o in Gran Bretagna.47 Haris Vlavianos, The Greek Communist Party: in Search o f Revolution, in T. Judt (a cura di), Resistance and Revolution in Mediterranean Europe 1939-1949, cit., p. 169.48 H. Vlavianos, The Greek Communist Party: in Search o f Revolution, cit., p. 191.

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rendum sulla monarchia, che si tenne il 1° settembre 1946, vennero manipolati e la mo­narchia risultò vincitrice con i due terzi dei voti49. Questi avvenimenti, insieme allo svi­luppo, non ostacolato da misure repressive del terrorismo di destra convinsero il Kke dell’impraticabilità in Grecia della via parla­mentare al socialismo che tutti i partiti co­munisti occidentali avevano propugnato con l’approvazione di Mosca. I comunisti greci si riorganizzarono e lanciarono un’insurre­zione, ma a quel punto la situazione interna­zionale era completamente mutata. Era ini­ziata la guerra fredda e gli Usa avevano as­sunto il ruolo di difensori dell’Occidente e, sotto l’egida della dottrina Truman, aveva­no promesso di “appoggiare i popoli liberi che stanno resistendo contro l’asservimento ad opera di minoranze armate o di pressioni esterne”50. La Grecia era divenuto il princi­pale campo di battaglia della guerra fredda. L’esercito regolare greco, avvalendosi del­l’ingente aiuto americano, sconfisse il Kke dopo una lotta accanita che si svolse durante tutto il 1948 fino all’estate del 1949. In con­seguenza di questi avvenimenti il partito co­munista venne messo fuorilegge e la decisio­ne fu realmente applicata (il partito fu co­stretto a presentarsi alle elezioni con altri nomi e simboli), mentre i socialdemocratici non riuscirono a divenire una forza credibile fino alla metà degli anni settanta, quando anche il partito comunista venne legalizzato. La pratica eliminazione della sinistra greca dal corso principale della politica fu una del­le principali conseguenze della singolare pe­culiarità del partito comunista greco: esso fu il solo partito all’interno della sfera d’in­fluenza americana che cercò di imboccare la via dell’insurrezione.

L’Italia e la Francia sono gli altri due pae­si nei quali vi era stata una forte resistenza

armata, gli unici in Europa occidentale in cui i partiti comunisti riuscirono, mantenen­do poi la posizione per molti anni a venire, a sostituire i socialisti come forza principale della sinistra. L’affermazione deve però es­sere precisata. In Francia il Pcf raccolse maggiori consensi rispetto al partito sociali­sta proprio a partire dalle prime elezioni del dopoguerra e soltanto fino alla metà degli anni settanta. In Italia il Pei venne battuto dai socialisti soltanto nelle elezioni del 1946 per l’Assemblea costituente, riuscendo a su­perarli già alla fine dell’anno nelle elezioni amministrative. Anche in Finlandia, come in Francia, i comunisti emersero nel 1945 come il partito principale della sinistra, ma vennero sorpassati dai socialisti alle succes­sive elezioni del 1948. L’anomalia francese e italiana, costituita dalla presenza di partiti comunisti che godevano di un appoggio più ampio rispetto ai socialisti, era unita ad un’altra anomalia: Francia e Italia rimasero i soli paesi democratici dell’Europa occiden­tale nei quali non venne mai formato nes­sun governo di sinistra. In Francia la sini­stra raggiunse il potere soltanto nel 1981, quando il Pcf non era più il principale par­tito della sinistra.

Con l’eccezione dell’Italia (e della Fran­cia dove i comunisti ottennero il miglior ri­sultato, raggiungendo il 28,6 per cento, nel­la seconda prova elettorale che si svolse nel 1946), i primi risultati elettorali del do­poguerra furono anche i migliori nella sto­ria dei partiti comunisti, che non avrebbe­ro mai più ottenuto un appoggio popola­re di tali dimensioni (si veda la tabella che segue). L’Unione Sovietica costituì la ra­gione principale della popolarità raggiun­ta dal comuniSmo nell’Occidente e al tem­po stesso della sua successiva impopola­rità.

49 H. Vlavianos, The Greek Communist Party: in Search o f Revolution, cit., p. 195.50 Citato in Michael Dockrill, The Cold War 1945-1963, London, Macmillan, 1988, p. 40.

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Percentuale dei voti assegnati ai comunisti alle prime elezioni dopo la fine del conflitto in alcuni paesi dell’Europa occidentale

PaeseAnno

della prima consultazione

Votiassegnati

ai comunisti (%)

Austria 1945 5,4Belgio 1946 12,7Danimarca 1945 12,5Olanda 1946 10,6Finlandia 1945 23,5Francia 1945 26,0Italia 1946 19,0NorvegiaGermania

1945 11,9

occidentale 1949 5,7Svezia 1944 10,3

La storia di quarantacinque anni di regimi autoritari in Europa orientale non deve na­scondere la verità storica secondo la quale la relativa fortuna del comuniSmo in Occidente all’indomani della guerra era dovuta al gene­rale riconoscimento del ruolo preponderante e determinante svolto dalPUrss nella sconfit­ta della Germania nazista. Le campagne rus­so-tedesche costituirono “la guerra più terri­bile che sia mai stata intrapresa”51. Mentre Gran Bretagna, Francia e Italia subirono mi­nori perdite in confronto alla prima guerra mondiale, ed i territori continentali degli Sta­ti Uniti non vennero in alcun modo danneg­giati, l’Unione Sovietica ebbe venti milioni di vittime — più dei morti di tutte le nazioni du­rante la Grande guerra52. È un’altra strana ironia della storia che l’Europa occidentale sia stata resa libera di costruire dei sistemi democratici dall’implacabile avanzata del­l’Armata rossa di Stalin, dal bagno di sangue di Stalingrado e dal saliente di Kursk fino al bunker di Berlino nel quale ebbe termine il tragico cammino del Terzo Reich.

La guerra fredda e il declino comunista nell’Europa occidentale

Dopo gli iniziali successi comunisti del 1945- 1946, iniziò rapidamente il declino. Con il 1948 il comuniSmo cessò di avere un qualsiasi significato politico come forza indipendente in Danimarca e Norvegia, in Austria e Ger­mania occidentale, in Belgio e Olanda così come in Gran Bretagna dove, nel 1950, il par­tito comunista perse i due seggi parlamentari che aveva ottenuto nel 194553. In Svezia il partito comunista sarebbe alla fine servito da sostegno del principale partito della sinistra, quello socialdemocratico. Soltanto in paesi governati da regimi autoritari di destra, come la Spagna ed il Portogallo, i comunisti conti­nuarono ad essere la principale forza di op­posizione, un ruolo che abbandonarono con l’instaurazione della democrazia.

Perché la crescita iniziale non venne mai consolidata e perché i considerevoli risultati raggiunti nel dopoguerra dai comunisti in, diciamo, Belgio, Danimarca e Norvegia, non portarono ad un’avanzata decisiva? Molti fattori determinarono improvvisamente la morte di questa creatura appena nata, i più importanti dei quali furono la guerra fredda e la divisione dell’Europa. I comunisti aveva­no ipotizzato l’esistenza di una corrispon­denza tra politica internazionale e nazionale, ritenendo che sarebbe continuata Veniente internazionale tra paesi capitalisti “progres­sisti” (cioè gli Usa ed i suoi alleati) e l’Urss. Questa ampia coalizione antifascista inter­nazionale, essi pensavano, avrebbe compor­tato la nascita e lo sviluppo di altre analoghe coalizioni nazionali. Se la supposizione del­l’esistenza di una tale corrispondenza era corretta, essa funzionò tuttavia nella dire­zione opposta: la fine della coalizione inter­nazionale antifascista e l’inizio della guerra

51 Peter Calvocoressi e Guy Wint, Total War, Harmondsworth, Penguin, 1972, p. 487.52 P. Calvocoressi e G. Wint, Total War, cit., pp. 551-552.53 Kenneth O. Morgan, Labour in Power 1945-1951, Oxford, Claredon Press, 1984, p. 295.

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fredda resero impossibile per i comunisti continuare far parte delle coalizioni nazio­nali. Il 1947 fu Vannus horrendus del comu­niSmo. I partiti comunisti furono esclusi o si ritirarono dalle coalizioni di governo in Francia, Italia, Norvegia, Belgio, Lussem­burgo e Austria. I comunisti danesi erano già usciti dal governo nel 1945, quelli finlan­desi passarono all’opposizione nel 1948 mentre i comunisti olandesi avevano rifiuta­to di entrare nella coalizione nazionale a causa della prosecuzione delle guerre colo­niali da parte del loro paese. L’altro fattore principale che, una volta finita la guerra, se­gnò il destino del comuniSmo nella maggior parte dell’Europa occidentale fu l’offuscarsi della distinzione tra le richieste politiche avanzate dai comunisti e quelle dei socialde­mocratici. I comunisti potevano offrire sol­tanto una versione più militante di socialde­mocrazia e, di conseguenza, erano in grado di ottenere unicamente il sostegno dei lavo­ratori che avevano una maggiore coscienza di classe e degli intellettuali più impegnati. Se un nucleo compatto di militanti organiz­zati secondo le direttive leniniste poteva es­sere tutto quanto era richiesto per sfruttare una situazione rivoluzionaria, al contrario, nel momento in cui si trattava di perseguire una crescita in termini elettorali in una si­tuazione non rivoluzionaria, diveniva neces­sario fare appello ad un’ampia parte della popolazione senza provocarne l’allarme con eccessi di attivismo. Se il terreno della com­petizione elettorale era tale da rendere possi­bili soltanto piccoli passi in una prospettiva

di progresso sociale, allora erano i socialde­mocratici a presentarsi come la migliore scelta per un elettorato già spaventato dalla repressione attuata dai comunisti in Europa orientale. Naturalmente alcuni leader comu­nisti capirono che il partito strettamente coeso di tipo leninista doveva essere rim­piazzato. In Italia Togliatti patrocinò la creazione di un “partito nuovo” meno cen­tralizzato e più aperto. Egli sosteneva che il partito doveva “diventare un’organizzazione che sta in mezzo al popolo e soddisfa tutti i bisogni che si presentano alla massa del po­polo. Questa è la grande trasformazione che dobbiamo far compiere al nostro partito”54.

In Europa occidentale la maggior parte dei partiti comunisti era persino troppo de­bole per pensare ad una presa del potere at­tuata con la forza. Quelli che erano abba­stanza forti per prendere in considerazione tale possibilità, come i finlandesi, i francesi e gli italiani, non lo fecero55. In Occidente pochi comunisti — a parte il Pei di Togliatti — capirono che al mutamento della strate­gia doveva corrispondere una completa ri­strutturazione dell’organizzazione del parti­to. Ma perfino leader meno lungimiranti di Togliatti capirono di non avere molta scelta: non era possibile un ritorno alla strategia ri­voluzionaria patrocinata negli anni venti, una politica che si era risolta in un tetro fal­limento. Così la fine della seconda guerra mondiale segnò il definitivo abbandono da parte dei partiti comunisti dell’Europa occi­dentale della via insurrezionale, intesa come strada percorribile per raggiungere il potere

54 P. Togliatti, I compiti del partito nella situazione attuale, discorso tenuto a Firenze il 3 ottobre 1944, in Id., Opere 1944-1955, vol. V, a cura di Luciano Gruppi, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 104, ripubblicato in P. Togliatti, On Gramsci and Other Writings, a cura di Donald Sassoon, London, Lawrence and Wishart, 1979, pp. 91-92.55 Per l’assenza di intenzioni insurrezionali da parte dei comunisti francesi, si veda Irwin Wall, French Commu­nism in the Era o f Stalin. The Quest for Unity and Integration, 1945-1962, Westport Connecticut and London, Greenwood Press, 1983, p. 29 e Jean-Jacques Becker, Le parti communiste veut-il prendre le pouvoir? La straté­gie du P cf de 1930 à nos jours, Paris, Editions du Seuil, 1981, pp. 152-165; per il partito comunista italiano, cfr. D. Sassoon, The Strategy o f the Italian Communist Party. From Resistance to the Historic Compromise, London, Frances Pinter, 1981, pp. 31-33 (ed. inglese di Togliatti e la via italiana al socialismo, Torino, Einaudi, 1980).

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in una democrazia liberale. Era certamente questa l’opinione prevalente nella maggio­ranza della leadership, sebbene molti mili­tanti di base nutrissero il sogno di una rivolu­zione di tipo sovietico.

Se il completo fallimento dell’insurrezione greca può aver indotto i comunisti a ricono­scere la necessità di mutare strategia, si devo­no tuttavia cercare altrove i fattori determi­nanti per l’abbandono della strategia basata sull’insurrezione. In primo luogo vi erano ovvie considerazioni di natura geopolitica: gli americani ed i loro alleati controllavano i diversi paesi ed avevano sia la volontà che la forza per impedire la presa del potere da par­te dei comunisti. Né era possibile aspettarsi alcun aiuto da parte dell’Urss: persino i co­munisti greci del Kke non se ne attendevano alcuno pur ritenendo, erroneamente, che i partigiani jugoslavi di Tito potessero aiutar­li55. Inoltre, in tutta Europa i comunisti ave­vano ottenuto un certo appoggio popolare dietro la bandiera della lotta per la democra­zia e del ritorno al confronto politico eletto­rale. Essi tuttavia non potevano contare sul­lo stesso grado di consenso popolare qualora avessero deciso di iniziare una conquista ar­mata del potere. Infine, la remota possibilità di attuare una insurrezione avrebbe potuto essere realmente presa in considerazione sol­tanto in aree di forte presenza comunista: in Francia, in Italia e in Finlandia. Altrove i rapporti di forza tra i comunisti e gli altri partiti politici erano appunto troppo sfavo­revoli ai primi. La stessa Urss, in effetti, ave­va abbandonato il comuniSmo dell’Europa occidentale se si esclude l’Italia e la Francia. Così quando, nel settembre del 1947, a Szk- larska Poreba, in Polonia, l’Urss costituì il Cominform, una versione più snella e meno grandiosa del Comintern, esso riguardò uni­camente i partiti comunisti che importavano 56

realmente: quelli al governo più quello fran­cese e quello italiano. Nessun altro partito comunista dell’Europa occidentale venne in­vitato ad aderire all’organizzazione.

Il comunismo tra “democrazia popolare” e “vie nazionali”

Avendo abbandonato la strada dell’insurre­zione e della lotta armata, il comuniSmo eu­ropeo fece propria la strategia mirante alla conquista del potere statale attraverso la par­tecipazione a governi di coalizione. La prose­cuzione delle alleanze degli anni di guerra di­venne uno degli obiettivi principali perseguiti dai partiti comunisti. Persino nel Regno Uni­to essi promossero una campagna in favore della continuazione della coalizione naziona­le, pur non avendovi preso parte, per abban­donare poi tale linea una volta indette le ele­zioni. Questa strategia favorevole alle coali­zioni era basata sull’assunto secondo il quale vi sarebbe stata una considerevole continuità tra la politica che si era affermata durante il conflitto e quella del dopoguerra. Si pensava che sarebbe continuata la cooperazione con gli altri partiti antifascisti e che i comunisti si sarebbero gradualmente imposti come forza politica egemone. Attraverso misure legisla­tive come la nazionalizzazione, i governi del dopoguerra avrebbero indebolito le fonda- menta economiche del grande capitale, pri­vando cosi i grandi gruppi conservatori della loro base di appoggio. Tuttavia, dal momen­to che la conservazione delle coalizioni di go­verno era divenuto l’obiettivo primario, era necessario contenere, in qualche misura, le espressioni più estreme, sotto il profilo eco­nomico, della lotta di classe, come gli sciope­ri e l’occupazione delle fabbriche, dal mo­mento che esse avrebbero soltanto destabiliz­

56 II leader del Kke Nikos Zachariades affermò che gli era stato assicurato dagli iugoslavi il massimo aiuto possibi­le; si veda D. George Kousoulas, Revolution and Defeat. The Story o f the Greek Communist Party, Oxford, Ox­ford University Press, 1965, p. 237.

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zato l’economia e spaventato le classi medie. Nel periodo tra le due guerre i comunisti ave­vano appreso l’importanza di evitare l’isola­mento e, nel corso del conflitto, avevano ap­preso l’importanza di essere una forza nazio­nale. L’espressione “democrazia popolare” venne coniata proprio per indicare una for­ma di Stato o di regime guidato da una coali­zione di governo all’interno della quale il partito comunista avrebbe avuto una quota significativa di potere. Le politiche di tale re­gime sarebbero state l’allargamento del set­tore pubblico attraverso la nazionalizzazione delle principali industrie, il rafforzamento dei sindacati, lo sviluppo di strumenti di “de­mocrazia diretta” (definiti in modo vago) e una politica estera orientata, in termini gene­rali, all’amicizia con l’Urss. Con lo sviluppo della guerra fredda, l’espressione “democra­zia popolare” divenne un eufemismo per de­signare i regimi comunisti dell’Europa orien­tale, ma ebbe una sua originalità nel rappre­sentare una nuova tendenza nella terminolo­gia comunista. Essa rappresentò un tentativo di andare oltre la rigida dicotomia secondo la quale tutti i regimi non socialisti erano sem­plicemente “borghesi” e tutti i regimi sociali­sti dittatura del proletariato.

Per il successo della strategia della “demo­crazia popolare” era necessaria la prosecu­zione delle coalizioni nazionali e internazio­nali della guerra. Esso implicava inoltre l’in­dividuazione di una autonoma “via nazionale al socialismo”, differente da quella intrapre­sa nel 1917 dai bolscevichi. I comunisti consi­deravano ora quella che continuavano a chia­mare “rivoluzione” come parte di un proces­so di sviluppo, una continuazione delle tradi­zioni radicali delle singole borghesie, dei cui simboli essi si potevano ora appropriare, e non più come una drammatica rottura nella

vita delle diverse nazioni. Gli antecedenti di questa strategia nazionale erano rappresenta­ti dai fronti popolari degli anni trenta, con la differenza che, mentre in quel decennio i par­titi comunisti erano riluttanti ad entrare nel governo (come avvenne in Francia e, inizial­mente, in Spagna), ora essi erano impazienti di ottenere la maggiore partecipazione possi­bile al governo del paese. Ovunque poterono, essi svilupparono una strategia di alleanza che avrebbe sostenuto la loro presenza all’in­terno della coalizione. Questa presenza si ar­ticolava in due diversi modi:

1. Per quanto riguarda gli avversari so­cialdemocratici, i comunisti avrebbero cerca­to di sviluppare al massimo i rapporti di al­leanza, arrivando probabilmente perfino al­l’unificazione. Anche se in Europa occiden­tale non vi furono conseguenze pratiche, il problema di una fusione tra socialisti e co­munisti era stato posto sia da Thorez sia da Togliatti. Nel novembre 1946 Thorez, in una intervista rilasciata a “The Times”, dichiarò: “Il partito francese dei lavoratori che noi in­tendiamo creare attraverso l’unione di comu­nisti e socialisti sarebbe una guida verso que­sta democrazia, nouvelle et populaire”51. To­gliatti si espresse con maggiore cautela. Par­lando a Firenze il 3 ottobre 1944 accennò al problema della fusione con i socialisti: “è ne­cessario attendere la liberazione del Nord, per tentare di realizzare in Italia la creazione di un partito unico”57 58. La fusione era, infat­ti, praticamente imposta dai più forti partiti comunisti in alcune democrazie popolari di recente costituzione dell’Europa orientale e centrale come Cecoslovacchia, Polonia e Germania orientale. Per conseguire questo obiettivo in Occidente sarebbe stato necessa­rio isolare l’ala anticomunista all’interno della socialdemocrazia.

57 Citato in E. Mortimer, The Rise o f French Communist Party 1920-1947, cit. p. 332. Si noti che la Sfio aveva preso l’iniziativa per la fusione (cfr. J.-J. Becker, Le parti communiste veut-il prendre le pouvoir?, cit., p. 183).58 P. Togliatti, I compiti del partito nella situazione attuale, cit., p. 97.

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2. Per quanto riguarda i partiti “borghe­si” di centro, era necessario raggiungere il più possibile un compromesso sulle tradizio­nali richieste avanzate dai socialisti, allo sco­po di evitare che vi fossero motivi per la rot­tura della coalizione (proprio come, durante la guerra, le richieste di tipo socialista furo­no lasciate cadere nell’interesse dell’unità nazionale e dello sforzo bellico).

L’obiettivo di questa strategia era l’inseri­mento permanente dei partiti comunisti, con piena legittimità, nei diversi sistemi politici nazionali. Ciò richiedeva la totale rimozione dal linguaggio politico corrente del tradizio­nale anticomunismo. Il nuovo vincolo ideo­logico che avrebbe mantenuto l’unità dei partiti “democratici” di una democrazia po­polare sarebbe stato l’antifascismo. In altri termini, la legittimazione del comuniSmo ri­chiedeva la delegittimazione dell’anticomu­nismo e dei partiti anticomunisti. Il che po­neva, a sua volta, una drastica alternativa, in base alla quale essere anticomunisti era incompatibile con l’essere veri antifascisti.

Come abbiamo visto, questa strategia del­le “vie nazionali” fallì in tutta l’Europa oc­cidentale. L’asserzione dei comunisti secon­do la quale una democrazia popolare sareb­be stata una forma più avanzata di demo­crazia borghese non era credibile. Essi ven­nero espulsi dalle coalizioni di governo o messi in una posizione tale da non lasciar lo­ro nessuna alternativa all’uscita dall’esecuti­vo. In tutti i casi, con l’eccezione dell’Italia, i partiti socialisti o socialdemocratici rimase­ro nella coalizione o divennero il principale partito dell’opposizione legale. Tutta la di­rezione della strategia comunista in Occi­dente aveva mirato a rendere l’antifascismo il concetto chiave per distinguere ciò che era legittimo oppure inaccettabile sotto il profi­lo politico. Il fallimento fu completo. In Oc­

cidente la condizione per accedere al potere risultò essere l’anticomunismo, cioè l’accet­tazione dei valori “occidentali” definiti nei termini propri della guerra fredda.

La giustificazione successivamente addot­ta dell’espulsione dei comunisti dai governi di coalizione di tutta l’Europa fu la presa del potere da parte dei comunisti in Cecoslo­vacchia, che venne presentata come la dimo­strazione della loro inaffidabilità come membri di una coalizione. Si trattava, deci­samente, di una spiegazione post facto, dal momento che in Occidente l’espulsione dei comunisti dal governo si verificò principal­mente nel 1947, mentre la presa del potere in Cecoslovacchia ebbe luogo nel 1948; cio­nondimeno, la giustificazione conteneva in effetti molto di vero. La strategia vittoriosa adottata dal partito comunista ceco assomi­gliava a quella (sebbene infruttuosa) dei suoi omologhi occidentali e merita di essere sinte­ticamente descritta. Al suo congresso del 1946 il partito comunista cecoslovacco (Ksc) aveva attirato l’attenzione sul fatto che la fase in cui si trovava il paese era quella di una rivoluzione nazionaldemocratica piutto­sto che socialista. Al pari degli altri partiti comunisti, inclusi il francese e l’italiano, ac­cettava che vi potessero essere vie diverse al socialismo. Esso era il partito dominante al­l’interno della coalizione nazionale e rappre­sentava anche la forza principale nelle orga­nizzazioni di massa che erano in breve tem­po sorte nel paese (i sindacati, il movimento giovanile, le organizzazioni degli agricoltori e delle donne, le associazioni sportive)59. Nelle elezioni del 1946 aveva ottenuto il 38 per cento dei voti e 114 dei 300 seggi dell’As­semblea nazionale; con i suoi alleati social- democratici disponeva, con 153 seggi, della maggioranza. Klement Gottwald, il leader comunista ceco nonché capo del governo,

59 Vladimir V. Kusin, Czechoslovakia, in M. McCauley (a cura di), Communist Power in Europe 1944-1949, cit., pp. 78-79.

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aveva preso tanto sul serio la strategia della democrazia popolare da essersi perfino di­mostrato favorevole al Piano Marshall pri­ma di esserne dissuaso dall’Unione Sovieti­ca. Così i comunisti cechi si trovarono in una situazione non diversa da quella dei co­munisti francesi e italiani, analogamente messi al bando all’interno di governi di coa­lizione che comprendevano partiti non di si­nistra. La guerra fredda rese indifendibili queste coalizioni. Nel 1947 i comunisti fran­cesi e italiani vennero espulsi dai governi dei rispettivi paesi e, successivamente, nello stesso anno, al congresso di fondazione del Cominform, rimproverati per aver subito senza reagire il proprio allontanamento dal potere60.

A differenza di quanto avveniva negli altri paesi dell’Europa occidentale, tuttavia, alla fine del 1947 il Ksc era ancora al potere, controllava i principali ministeri e poteva formare, nel febbraio del 1948, un governo senza partiti di centro e di destra. Avendo fatto ciò sulla base di un consistente appog­gio popolare, esso soppresse tutti gli altri partiti con l’eccezione dei socialdemocratici che in ogni caso vennero assorbiti pochi me­si dopo. A differenza dei comunisti italiani e francesi, il Ksc fu in grado di mobilitare, per restare al governo, la forza della classe ope­raia organizzata61. Questa via per raggiunge­re il potere, la via cecoslovacca, venne as­sunta come il modello strategico cui si ispi­rava il comuniSmo occidentale e come la ra­gione in base alla quale i comunisti non po­tevano essere creduti. I comunisti — si dice­va — fingono soltanto di seguire una via de­mocratica, ma preparono in segreto la sov­versione della democrazia. Sembra che cer­chino alleati ed appaiono desiderosi di con­

dividere con loro la gestione del potere, ma in realtà li considerano “utili idioti” da met­tere da parte al momento opportuno; pro­clamano il proprio patriottismo mentre di­fendono gli interessi dell’Unione Sovietica al di sopra di quelli dei loro stessi paesi, come era risultato evidente dopo il patto fra Urss e Germania del 1939. Ciascuna di queste af­fermazioni e molte altre analoghe potevano essere sostenute (come in effetti furono) sul­la base di esempi tratti dalla recente storia politica. In nessuno Stato cosiddetto sociali­sta il partito comunista ha affrontato la pro­va del voto popolare in una competizione elettorale non fittizia fino al 1990. In ogni caso non si può instaurare democraticamen­te nessun sistema monopartitico, dal mo­mento che nessuna maggioranza, per quanto ampia essa sia, può impegnare gli elettori delle successive generazioni.

I comunisti occidentali non potevano pro­porre nessuna argomentazione ragionevole per confutare queste affermazioni. Il com­portamento prudente e democratico, la mo­derazione, il riconoscimento delle garanzie costituzionali, la difesa dei diritti civili non costituivano una prova valida di fronte al convincimento che tutto questo faceva parte di un inganno. La loro credibilità sarebbe stata accresciuta soltanto dal rifiuto di offri­re un sostegno acritico e sistematico alla po­litica estera sovietica e dalla critica delle po­litiche messe in atto dal socialismo in Euro­pa orientale e in Urss. Ma nell’immediato questa non era una scelta possibile per i co­munisti occidentali. La leadership dei partiti comunisti non poteva ignorare i propri so­stenitori, convinti che ciò che si stava co­struendo in Urss e negli altri paesi dell’Euro­pa orientale era il socialismo; e, parlando in

60 Eugenio Reale, Nascita del Cominform, Milano, Mondadori, 1958, pp. 17, 118-119, 123. Nella sostanza questo resoconto non è mai stato messo in dubbio da nessuno dei presenti.61 Si veda Jon Bloomfield, Passive Revolution. Politics and the Czechoslovak Working Class 1945-1948, New York, St. Martin’s Press, 1979, pp. 216-217.

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generale, questa convinzione era condivisa dai militanti così come dai leader. Inoltre, denunciando il socialismo sovietico si sareb­be cancellata la principale linea di demarca­zione tra socialdemocratici e comunisti; sa­rebbe stato come sciogliere il partito ed unir­si ai socialdemocratici. E gli attivisti comu­nisti, tanto inaffidabili per i socialdemocra­tici, a loro volta non nutrivano alcuna fidu­cia verso questi ultimi: i socialdemocratici parlavano sempre di socialismo, dimostran­dosi al tempo stesso sempre disponibili al compromesso con il capitalismo.

In Europa occidentale il requisito princi­pale per l’instaurazione di un regime di “de­mocrazia popolare” , ossia un forte partito comunista, esisteva soltanto in Italia, in Francia e in Finlandia. In questi paesi i co­munisti si trovarono alleati ad un partito so­cialista o socialdemocratico e ad un partito di centro: in Francia con il Mouvement ré­publicain populaire (Mrp) a base cattolica, in Italia con la Democrazia cristiana e in Finlandia con il partito agrario. Queste coa­lizioni sopravvissero fino al 1947 o al 1948. In questi tre paesi i comunisti ottennero, in questo periodo, il consenso di circa un quar­to dell’elettorato, più del doppio della media dei voti ottenuti dai comunisti in Belgio, Da­nimarca, Paesi Bassi, Svezia e Norvegia. In termini elettorali il più forte partito comuni­sta fu senza dubbio quello francese, che ot­tenne circa il 26 per cento nelle due elezioni del 1945 ed il 28,6 per cento nel 1946, dive­nendo così il maggiore partito francese sia nel paese che nell’Assemblea nazionale. Era inoltre diventato un vero partito nazionale, con almeno un deputato eletto, in pratica, in ogni dipartimento62. In tutte le elezioni esso risultò più forte dei socialisti della Sfio. Più deboli apparivano al paragone i comunisti italiani che, alle elezioni per l’Assemblea co­stituente, ottennero il 19 per cento, mentre il

partito socialista li superò appena con il 20,7 per cento, un risultato ben al di sotto di quello del principale partito, la Democrazia cristiana, che raggiunse il 35,2 per cento dei suffragi. Più tardi, nel 1948, comunisti e so­cialisti affrontarono insieme, con un’unica lista, lo scontro elettorale, ottenendo il 31 per cento dei voti, con una perdita quindi di otto punti in percentuale rispetto ai risultati del 1946. In Finlandia i comunisti raccolsero nel 1945 il 23,5 per cento dei suffragi, risul­tando secondi rispetto ai socialdemocratici, che raggiunsero il 25,1 per cento; nel 1948 essi ottennero il 20 per cento in confronto al 26,3 per cento dei socialdemocratici ed al 24,2 per cento del partito di centro.

La relativa debolezza elettorale del Pei ri­spetto al Pcf era in parte compensata dal più alto numero di iscritti. Alla fine del 1946 il Pei aveva quasi due milioni di aderenti in confronto agli 800.000 del Pcf. Questo di­stacco era in qualche misura il risultato di diverse scelte politiche. L’obiettivo di To­gliatti era di raggiungere il più alto numero possibile di iscritti, senza preoccuparsi trop­po delle credenziali ideologiche dei nuovi proseliti. I comunisti francesi furono più prudenti, anche perché potevano permettersi di avere un partito di dimensioni minori ri­spetto a quello italiano. In Francia non vi era una tradizione di partiti di massa: né i cattolici del Mrp né i socialisti della Sfio avevano una organizzazione lontanamente paragonabile a quella dei comunisti. In Ita­lia la Democrazia cristiana stava emergendo — con il decisivo appoggio della Chiesa — come partito di massa, al centro, non diver­samente dai comunisti italiani, di una rete di associazioni e di attività organizzate. Sia i comunisti francesi che quelli italiani perse­guirono coerentemente la strategia di coali­zione delle “democrazie popolari” . Entram­bi erano desiderosi di dimostrare le proprie

62 J.-J. Becker, Le parti communiste veut-il prendre le pouvoir?, cit., p. 174.

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qualità nella direzione dello Stato e il pro­prio senso di responsabilità nell’affrontare i problemi nazionali. Entrambi erano impe­gnati a migliorare, a prezzo di concessioni, i propri rapporti con le classi medie, per otte­nerne il favore e isolare quelli che chiamava­no trust (Pcf) o monopoli (Pei). Di conse­guenza essi scoraggiarono gli scioperi e le ri­chieste di alti salari, per una politica mirante ad accrescere la produttività nell’industria, la quale ovviamente costituiva la migliore politica da seguire dato il basso livello rag­giunto nei due paesi dalla produzione indu­striale. Il contenimento degli scioperi dimo­strava che entrambi i partiti erano decisi a divenire forze politiche nazionali e non i rappresentanti dei ristretti interessi corpora­tivi della classe lavoratrice.

Così il 21 luglio 1945 Thorez affermò, di fronte ai minatori di Waziers, che il loro do­vere di classe era di produrre più carbone63, mentre Gaston Monmousseau, un veterano del sindacalismo comunista, dichiarò che “gli scioperi sono un’arma dei trust”64. Nel suo famoso discorso di Waziers, Thorez in­sistette sulla disciplina, suggerì che i lavora­tori avrebbero potuto prendere in considera­zione la rinuncia alle vacanze, attaccò l’as­senteismo (“i fannulloni non saranno mai buoni comunisti o buoni rivoluzionari, mai, mai...”), ma insistette anche sul fatto che le condizioni di lavoro dovevano essere miglio­rate, che, allo scopo di accrescere il numero degli addetti, il lavoro nelle miniere avrebbe dovuto essere reso più appetibile, che le donne avrebbero dovuto essere incoraggiate

ad impiegarsi nell’industria (a dispetto dei “reazionari che abbracciano l’opinione se­condo la quale le donne dovrebbero restare a casa. Non vi sarà nessuna emancipazione delle donne se non saranno le donne stesse ad ottenerla”)65. Nonostante ciò non vi è al­cun dubbio sul fatto che l’aumento della produzione rappresentasse una priorità as­soluta; così il Programme d ’action gouver­nementale del Pcf del novembre 1946 pone­va, nel capitolo sull’industria, un’enfasi molto maggiore sulle necessità della produ­zione piuttosto che sulla nazionalizzazione, mentre non accennava al controllo dei lavo­ratori sulla produzione o alla democrazia in­dustriale66. Nonostante la loro retorica radi­cale, i comunisti francesi corteggiavano le classi medie con meno remore del Pei, di­chiarando di essere per il massimo sviluppo dell’iniziativa individuale e bloccando il pia­no di Mendès France per imporre il cambio delle banconote in circolazione. Scopo della manovra era la tassazione degli illeciti pro­fitti di guerra accumulati in contanti nei ma­terassi67. In Italia l’attuazione di un analogo piano era stata iniziata dal ministro delle Fi­nanze, il comunista Mauro Scoccimarro, ma venne poi bloccato dai democristiani, i più coerenti protettori degli interessi economici della classe media.

Nell’agosto 1945 Togliatti, al convegno economico indetto dal Pei, si oppose ai sus­sidi, ad una pianificazione economica nazio­nale (definita “utopistica”), a controlli di ti­po sovietico dell’economia e richiese invece un accrescimento della produzione, controlli

63 Si veda M. Adereth, The French Communist Party, cit., p. 141 e J.-J. Becker, Le parti comuniste veut-ilprendre le pouvoir?, cit., p. 161.64 E. Mortimer, The Rise o f French Communist Party 1920-1947, cit., p. 347.65 Per il testo del discorso di Waziers, si veda Maurice Thorez, Oeuvres, vol. 5, Parte 21 (giugno 1945-marzo 1946), Paris, Editions Sociales, 1963; per i riferimenti alle condizioni di lavoro ed ai più alti salari, cfr. p. 158 e p. 160, al­le donne p. 159, alla disciplina, alle vacanze, all’assenteismo e alla pigrizia, pp. 163-168.66 II testo del Programme è pubblicato in M. Thorez, Oeuvres, vol. 5, Parte 23 (novembre 1946-giugno 1947), cit., pp. 152 sgg.67 I. Wall. French Communism in the Era o f Stalin, cit. pp. 35-36.

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analoghi a quelli adottati dalla Gran Breta­gna nel corso della guerra, una politica an- tinflazionistica per proteggere i piccoli ri­sparmiatori (questa “parte ingente della po­polazione italiana [...] se venisse rovinata da una inflazione, potrebbe essere gettata nelle braccia di correnti reazionarie e fasciste”). Infine mise in guardia i sindacati perché si interessassero più all’aumento della produ­zione che ai livelli salariali68. Si dovrebbe ag­giungere che sia in Francia che in Italia que­sto atteggiamento non portò alcun vantag­gio ai comunisti. Togliatti commentava amaramente il 19 febbraio 1947, pochi mesi prima della rottura della coalizione triparti­ta: “Non ha avuto luogo negli ultimi anni in Italia nessuno sciopero politico [...] siamo un Paese nel quale le organizzazioni operaie hanno firmato una tregua salariale [...] Que­sto è l’assurdo della situazione economica nella quale noi viviamo: da parte delle classi lavoratrici e dei sindacati si danno tutti gli esempi e si compiono tutti gli atti necessari per mantenere la disciplina della produzio­ne, l’ordine e la pace sociale, per consentire la ricostruzione, mentre dall’altra parte un pugno di speculatori economici e politici ap­profittano di questa situazione”69.

Sia in Italia che in Francia i due partiti erano dunque sensibili non soltanto alle obiettive esigenze economiche del dopo­guerra, ma anche alla necessità di stabilire un’alleanza con le classi medie. La differen­za decisiva tra le due forze politiche era che per i comunisti francesi stabilire un’alleanza con le classi medie non significava giungere ad un accordo con i partiti delle classi me­die. Al contrario la loro politica cercava di isolare il partito con il più vasto seguito nel­la classe media, il Mrp, cattolico e di cen­tro-destra, e di ostacolare qualsiasi riavvici­namento tra quest’ultimo e la Sfio. Durante

tutto questo periodo il Pcf si impegnò per arrivare ad una coalizione di sinistra insieme alla Sfio, supponendo ancora, di conseguen­za, che fosse possibile per la sinistra tradi­zionale rappresentare una sezione significa­tiva delle classi medie. È questo il motivo per cui nel periodo tra il 1945 e il 1947 vi fu­rono continui appelli rivolti dal Pcf alla Sfio per formare un governo senza il Mrp. Con la guerra fredda la Sfio, costretta a scegliere tra gli inaffidabili comunisti alla propria si­nistra e il Mrp, sicuro e rispettabile sul pia­no internazionale, alla sua destra, preferì quest’ultimo ed il Pcf si trovò al di fuori del­la coalizione di governo.

Altrettanto insuccesso ebbero i comunisti italiani nel tentativo di restare al governo, ma la loro strategia delle alleanze era molto diversa da quella del partito francese. Se è vero che, come il Pcf, essi cercarono di fare appello direttamente alle classi medie, rico­nobbero anche al tempo stesso il ruolo cen­trale svolto dalla Democrazia cristiana come loro espressione politica. Di conseguenza tutti gli sforzi del partito furono diretti al mantenimento della coalizione tripartita tra socialisti, comunisti e democristiani. Il com­promesso con le classi medie al quale mira­vano era volutamente inteso in senso ampio, al punto da includere la Democrazia cristia­na (sebbene questo permettesse ai socialisti di opporsi ai comunisti da sinistra). Natural­mente si può sostenere che in Italia, a diffe­renza che in Francia, la sinistra non aveva la maggioranza e che il Pei non aveva quindi la possibilità di battersi per un governo di sini­stra; di conseguenza la differenza nella stra­tegia perseguita rifletteva una diversa forza elettorale. Comunque, è altrettanto chiaro che Togliatti sperava che tale compromesso con la De potesse mantenere quest’ultima su di una linea riformista e impedire la ricosti­

68 P. Togliatti, Opere, vol. V, 1944-1955, cit., pp. 165-167 e 171-172.69 P. Togliatti, Discorsi parlamentari, vol. I, Roma, Camera dei deputati, 1984, pp. 45-46.

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tuzione di un blocco di potere conservatore. Togliatti era ben conscio della complessa composizione sociale della Democrazia cri­stiana e della sua forza. Nell’importante di­scorso tenuto a Firenze il 3 ottobre 1944, egli sottolineò la vitalità delle organizzazioni cattoliche, che erano state capaci “per venti anni [di] esistere legalmente, o quasi legal­mente, in regime fascista e quindi hanno una quantità di quadri i quali in questo mo­mento rientrano nella vita politica e possono rapidamente lavorare per l’organizzazione di un grande partito” , sostenendo che nella De vi fossero non soltanto appartenenti alle classi possidenti borghesi, ma anche “grandi masse di lavoratori, di operai anche, ma so­prattutto di contadini”70. Togliatti cercava di sviluppare quella che i politologi avrebbe­ro successivamente chiamato democrazia consociativa, una grande coalizione semi­permanente il cui asse centrale sarebbe stata la sinistra dello schieramento politico di cen­tro. Il progetto di Thorez era molto più vici­no al funzionamento del modello britanni­co: un sistema bipolare con una contrappo­sizione tra destra e sinistra e chiare demarca­zioni di natura ideologica. Le differenze nel­la tattica adottata dai partiti francese e ita­liano possono essere meglio comprese con­frontando il loro modo di affrontare i pro­blemi costituzionali. Nel 1945 era generale l’accordo sul fatto che non vi potesse essere un ritorno ai precedenti regimi costituziona­li: la Terza repubblica in Francia e lo Stato liberale prefascista in Italia. Entrambi i pae­si stavano quindi affrontando il problema della stesura di una nuova costituzione. Per la prima volta nella storia, dei partiti comu­nisti vennero invitati a partecipare alla defi­nizione della forma costituzionale di uno Stato non socialista. Sia il Pcf che il Pei era­no per una singola assemblea rappresentati­

va dotata di poteri reali e non ostacolata da una seconda camera, per un presidente auto­revole, per un esecutivo forte o una corte su­prema. In pratica entrambi immaginavano un sistema politico nel quale le principali forme di organizzazione sarebbero state rap­presentate da partiti politici autonomi e po­tenti, in grado di controllare completamente i processi decisionali. Questa presa di posi­zione coincideva con un’ottimistica stima delle possibilità elettorali dei partiti comuni­sti e della sinistra in generale. Più ristretto era il sistema di controlli e contrappesi di ti­po costituzionale, più facilmente una mag­gioranza parlamentare di sinistra avrebbe potuto trasformare la struttura economica e sociale del paese.

In Francia il Pcf fu in grado di convincere una Sfio molto riluttante, contro l’opposi­zione del Mrp, e lacerata al suo interno ad appoggiarlo nella difesa del principio di una unica ed autorevole camera legislativa e ad unirsi ad esso nella presentazione del proget­to costituzionale del maggio 1946 che venne sottoposto a referendum. La strategia si ri­velò disastrosa. L’elettorato, con l’appog­gio, pare, anche di 600.000 voti socialisti, ri­fiutò il progetto71. Un nuovo progetto costi­tuzionale emendato, che prevedeva una se­conda camera, venne approvato di misura, con i comunisti costretti, non senza esitazio­ni, a sostenerlo. Poco più di un terzo dell’e­lettorato votò a favore, mentre poco meno di un terzo votò contro e il 31,2 per cento si astenne. La nuova costituzione comprende­va molti articoli progressisti, come l’ugua­glianza tra i sessi, la piena occupazione, il diritto di sciopero, il diritto all’istruzione, la nazionalizzazione dei monopoli, un sistema di previdenza sociale e la creazione nei luo­ghi di lavoro di comitati misti tra direzione e lavoratori72. Ma l’intransigenza del Pcf nella

70 P. Togliatti, I compiti del partito nella situazione attuale, cit., pp. 97-98.71 E. Mortimer, The Rise o f French Communist Party 1920-1947, cit. p. 350.72 M. Adereth. The French Communist Party, cit. p. 139.

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battaglia politica per la costituzione aveva portato al suo isolamento ed al tanto temuto riavvicinamento tra la Sfio e il Mrp.

I comunisti italiani, pur partendo con progetti costituzionali analoghi a quelli dei loro compagni francesi, arrivarono in breve a sacrificarli allo scopo di assicurare la sta­bilità delPalleanza con i democristiani. Arri­varono fino al punto di votare insieme alla De (nonostante le forti pressioni dei sociali­sti) per la conservazione nel testo costituzio­nale del Concordato del 1929 e di accettare le idee dei democristiani in materia di decen­tramento amministrativo a livello regionale. Il testo costituzionale finale comprendeva così i tradizionali principi liberali e i diritti economici e sociali quali il diritto di sciope­ro e di organizzazione sindacale. Includeva inoltre una disposizione (il secondo paragra­fo del terzo articolo) secondo la quale “è compito della repubblica rimuovere gli osta­coli di ordine economico e sociale, che, limi­tando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione della politica, economica e sociale del paese”73.

Anche se la strategia politica seguita dai comunisti italiani fallì poiché non poterono restare al governo con la Democrazia cristia­na, la loro strategia costituzionale ebbe suc­cesso. La forma statuale che essi contribui­rono a creare sopravvisse all’intero corso della guerra fredda a differenza della Quarta repubblica francese. Essi potevano a ragione affermare di essere i principali difensori del­la costituzione e, di conseguenza, un partito

costituzionale, e di aver contribuito in ma­niera decisiva al consolidamento della de­mocrazia nel paese74. Il sistema elettorale proporzionale, pur non previsto dalla costi­tuzione, garantiva loro un peso parlamenta­re adeguato all’appoggio popolare, appog­gio che crebbe ininterrottamente fino al 1979. Il tipo di organizzazione scelto dai co­munisti, il partito di massa sostenuto da una rete di associazioni fiancheggiatrici, consentì al partito di affermarsi come presenza per­manente nel panorama politico. L’alleanza con il partito socialista durò fino alla fine degli anni cinquanta. Il partito comunista non venne mai relegato in un ghetto, taglia­to fuori dal potere, in costante attesa dello scioglimento di un dramma politico nel qua­le non recitava nessuna parte. Il consenso popolare di massa ottenuto dai comunisti in Italia centrale, e specialmente nelle città e nei paesi dell’Emilia, consentì loro di svilup­pare una forma di socialismo municipale molto ammirato e studiato75. A paragone di quello del Pei, il curriculum del partito co­munista francese non è certamente brillante. La costituzione a malincuore accettata durò poco più di dieci anni. Nel momento in cui i comunisti ne divennero entusiasti difensori, la crisi algerina riportò De Gaulle al potere e condusse direttamente alla fine della Quarta repubblica e ad una nuova costituzione che attribuì al presidente i principali poteri ese­cutivi.

La traiettoria descritta dai comunisti fin­landesi presenta una marcata analogia con quella dei francesi e degli italiani sebbene la Finlandia rappresenti, come sempre, un ca-

73 Si veda il capitolo sulla costituzione nel mio volume Contemporary Italy, London, Longman, 1986, pp. 195-209 (traduzione italiana: L ’Italia contemporanea. Ipartiti le politiche la società dal 1945 a oggi, Roma, Editori Riuniti, 1987).74 Per un’analisi più dettagliata, si veda il mio saggio su The Role o f the Italian Communist Party in the Consoli­dation o f Parliamentary Democracy in Italy, in Geoffrey Pridham, Securing Democracy. Political Parties and De­mocratic Consolidation in Southern Europe, London and New York, Routledge, 1990 (in precedenza comparso in “Critica marxista”, 1985, n. 1, con il titolo Togliatti e la centralità del parlamento).75 Si veda ad esempio la positiva descrizione di Bologna fatta dai tre giornalisti svizzeri Max Jàggi, Roger Miiller e Sii Schmid, Red Bologna, London, Writers and Readers, 1977.

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so a parte. Grazie ai suoi primati elettorali nel dopoguerra il partito comunista finlan­dese (Skp) si colloca tra i forti partiti comu­nisti, insieme a quello italiano e a quello francese, con un risultato sorprendentemen­te buono alle elezioni del 1945. A differenza di questi ultimi due partiti, tuttavia, non si può attribuire il successo alla lotta armata, dal momento che non vi fu un importante movimento di resistenza armata antitedesca nel paese. La popolazione finlandese aveva ben pochi motivi per essere grata all’Urss: l’aggressione sovietica aveva portato alla “guerra d’inverno” del 1939-1940 e poi, nel 1941-1944, alla guerra combattuta dalla stessa parte della Germania nazista. Quando la guerra ebbe inizio, il partito comunista, già illegale, era ancora un gruppo di dimen­sioni minime e privo di influenza ed è pro­babilmente infondata l’ipotesi secondo la quale esso godeva di un occulto appoggio di massa, che potè palesarsi soltanto dopo il 194576. Tuttavia il partito aveva ereditato un nocciolo duro di attivisti dal Suomen sosiali- stinen tyòvàenpuole (Sstp), il partito sociali­sta finlandese dei lavoratori che era, tra il 1919 e il 1923, la principale alternativa di si­nistra ai socialdemocratici e che rappresen­tava una forma di radicalismo di sinistra ti­pico del paese77. Inoltre il partito comunista finlandese fu l’unico beneficiario del genera­le spostamento verso sinistra che si ebbe nel dopoguerra. L’avversario più prossimo, il partito socialdemocratico, portava il mar­chio derivante dall’aver partecipato ad un governo che aveva combattuto dalla stessa parte dei nazisti.

Nel corso del suo primo congresso legale

che si tenne il 4 e il 5 ottobre 1944, il partito comunista finlandese decise di seguire la strategia altrove concepita e praticata della democrazia popolare. Di conseguenza ab­bandonò il programma rivoluzionario e si impegnò in una politica rispettosa della co­stituzione sulla base di un ampio schiera­mento popolare78, mirando inoltre ad una unione con i socialdemocratici e ad una inte­sa con il partito agrario. Tuttavia l’obiettivo di creare un unico partito della sinistra ven­ne frustrato dall’espulsione dal partito so­cialdemocratico del gruppo filocomunista di Vapaa Sana, guidato da Karl Wiik. Al suo posto venne costituita la Lega democratica del popolo finlandese (Skdl), una alleanza elettorale tra Skp, il gruppo di Vapaa Sana ed altri gruppi di sinistra79. La lega era do­minata, anche se non in misura schiacciante, dai comunisti. È stato stimato che 130.000 dei 398.618 voti da essa ottenuti proveniva­no dai gruppi di Vapaa Sana e da altri so­cialdemocratici di sinistra. Insieme questi gruppi ottennero 9 dei 49 eletti dalla lega in parlamento. Anche se il posto chiave di se­gretario generale venne occupato da comu­nisti fino al 1965, quando venne eletto il so­cialista indipendente Eie Alenius, per tutto il dopoguerra la presidenza della Skdl non venne affidata ad un comunista80. Il pro­gramma elettorale della lega era coerente con la strategia della democrazia popolare: esso difendeva l’antifascismo come ideolo­gia unificante e sosteneva di conseguenza la messa al bando delle organizzazioni fasciste, una politica estera conforme ai principi delle Nazioni unite ed uno speciale stretto legame con l’Urss81.

76 J.H. Hodgson, Communism in Finland, cit., p. 221.77 Si veda David Kirby, New Wine in Old Vessels? The Finnish Socialist Workers’ Party, 1919-1923, “The Slavonic and East European Review”, 1988, n. 3, p. 443.8 Anthony Upton, Finland, in M. McCauley, Communist Power in Europe 1944-1949, cit., p. 134.

79 J.H. Hodgson, Communism in Finland, cit. pp. 206-207.80 J.H. Hodgson, Communism in Finland, cit., pp. 212 e 230.81 A. Upton, Finland, cit., p. 136.

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I risultati elettorali positivi ottenuti nel 1945, quando la lega ottenne il 23,5 per cen­to dei voti ed emerse come il gruppo più nu­meroso in parlamento, incoraggiò i leader comunisti a discutere un progetto di fusione con gli altri due principali partiti. Nell’aprile del 1945 si arrivò ad un accordo. I comunisti e i loro alleati ottennero quasi un terzo degli incarichi ministeriali compreso, come in Ce­coslovacchia, il ministero degli Interni, che naturalmente consentiva il controllo della polizia. Un modello non dissimile rispetto agli eventi che si susseguirono in Cecoslo­vacchia. Nella primavera del 1946 il partito comunista lanciò un grande movimento di massa sostenuto da dimostrazioni che chie­devano l’attuazione di riforme sociali, la de­mocratizzazione dell’esercito ed il servizio civile. A differenza del movimento praghe­se, esso fallì e i socialdemocratici poterono riprendere l’iniziativa. Riuscirono a pospor­re le elezioni degli organismi sindacali addu- cendo irregolarità, e, quando alla fine nel 1947 si tennero le elezioni, i sociademocrati­ci ottennero la maggioranza sulla base di una piattaforma anticomunista82. Entro il maggio 1948 l’accordo tra i tre maggiori partiti era nella pratica completamente supe­rato e l’anticomunismo era allora riemerso come risultato dell’elezione. La lega, che nel 1945 aveva ottenuto 49 dei 200 seggi della Camera, ora aveva soltanto 34 seggi e rice­veva l’offerta di entrare al governo con un ruolo di minore importanza. Essa rifiutò, abbandonando il governo e restando quindi all’opposizione fino al 196683.

Sono rimasti controversi i motivi per cui in Finlandia il partito comunista non seguì la strada intrapresa dal partito comunista cecoslovacco84. Coloro che cercano di spie­gare la presa del potere comunista in Euro­pa orientale e centrale unicamente sulla ba­se di motivazioni geopolitiche si trovano in questo caso di fronte ad una vicenda che confuta la validità della loro tesi: sotto il profilo geopolitico la posizione dei due pae­si era molto simile, dal momento che nessu­no dei due si trovava nella sfera d’influenza occidentale o occupato dall’Armata rossa. È chiaro che l’Unione Sovietica era ben contenta di avere in Finlandia una situazio­ne nella quale l’amicizia con l’Urss veniva condivisa da tutti i principali partiti politici, compresi quelli conservatori. Essa aveva perseguito ed ottenuto l’epurazione di tutti coloro che avevano collaborato con i tede­schi (in particolare i socialdemocratici come Vaino Tanner che era stato ministro degli Esteri durante la guerra), come simbolo del- l’avvenuta espiazione del passato. La Fin­landia rimase la sola dimostrazione del fat­to che era perfettamente possibile praticare l’anticomunismo in politica interna senza essere antisovietici in politica estera. La dif­ferenza più evidente tra i due paesi riguar­dava la politica interna. I comunisti cechi avevano il 40 per cento dei voti, i finlandesi soltanto il 25. Tra il 1947 e il 1948 in tutta Europa le coalizioni nazionali che compren­devano comunisti ed anticomunisti subiro­no il contraccolpo della rottura della coali­zione antifascista internazionale, cioè della

82 David G. Kirby, Finland in the Twentieth Century, London, C. Hurst & Co., 1979, p. 194.83 Anche in questo caso, come in molti altri simili, non esiste alcuna prova che dimostri la validità dell’interpreta­zione, proposta, ad esempio, da Pekka Haapakoski, Brezhnevism in Finland, “New Left Review”, 1974, n. 86, p. 34, secondo la quale la condotta moderata dei comunisti al governo nel periodo 1945-1948 ne erose la credibilità tra i lavoratori portando il partito alla sconfitta. L’abbandono da parte dei lavoratori delle fila del partito comportò la loro adesione alla più moderata socialdemocrazia, come dimostrano i risultati delle elezioni nei sindacati.84 Alcuni storici scelgono di esprimersi nel modo più ovvio; si veda per esempio la considerazione non molto utile di L.A. Puntila in The Political History o f Finland 1809-1966, London, Heinemann, 1975, p. 205: “L’esperienza maturata con l’instaurazione delle democrazie popolari nei paesi occupati dell’Europa orientale non era evidente­mente applicabile alla Finlandia”.

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guerra fredda. Nella maggior parte dei casi gli anticomunisti furono abbastanza forti da al­lontanare i comunisti da ogni responsabilità all’interno del governo. È quello che avvenne in Italia e in Francia, per non parlare dei paesi dell’Europa occidentale dove i comunisti rap­presentavano il 10 per cento o anche meno dell’elettorato. In Finlandia gli anticomunisti furono abbastanza forti da umiliare i comuni­sti e costringerli ad uscire dal governo. Sol­tanto in Cecoslovacchia i comunisti erano troppo forti per poter essere espulsi.

La socialdemocrazia e il declino comunista nell’Europa occidentale

Il ruolo svolto dai socialisti o dai socialdemo­cratici è cruciale per spiegare la fine della par­tecipazione comunista ai governi dell’Europa occidentale. In Francia i socialisti non ebbero timore di combattere i comunisti ed ebbero forti alleati al centro. In Italia soltanto una minoranza del partito socialista scelse di col­locarsi con gli anticomunisti, ma ciò fu suffi­ciente per fornire alla Democrazia cristiana la forza necessaria per espellere la sinistra dal governo. Di nuovo diversa è la situazione in Cecoslovacchia. Pur impegnandosi a fondo, l’ala destra del partito socialdemocratico venne sconfitta da una maggioranza realmen­te desiderosa di cooperare con i comunisti co­sì come era avvenuto durante la guerra85. In Finlandia i socialdemocratici avevano com­battuto insieme ai tedeschi durante la guerra e, dopo la sua conclusione, soltanto con mol­ta riluttanza avevano deciso di cooperare con i comunisti. Inoltre, una volta espulso il gruppo di Vapaa Sana dal partito socialde­mocratico, il partito comunista non potè più contare su una tendenza favorevole all’unità

all’interno della socialdemocrazia, che, in ogni caso, era stata abbandonata durante la guerra da molti dei suoi attivisti86. In realtà, nonostante i successi elettorali, in Finlandia il partito comunista era troppo debole sia per prendere il potere nel paese attraverso la lotta armata (una via che non aveva alcuna inten­zione di intraprendere) sia per divenire un ele­mento permanente all’interno della coalizio­ne di governo. La sua condizione era quindi di gran lunga più simile a quella dei partiti francese e italiano che a quella dei comunisti cecoslovacchi.

A pochi anni dal raggiungimento del mi­glior risultato sotto il profilo elettorale, si può tracciare rapidamente il bilancio finale del comuniSmo in Occidente. Al di fuori dei tre paesi appena esaminati, nei sistemi politici delle altre nazioni esso cessò semplicemente di rappresentare una forza significativa. In Europa orientale, invece, il comuniSmo trionfò grazie alle pressioni o all’intervento diretto sovietico. Per anni le solenni dichiara­zioni dei dirigenti sovietici avrebbero ricorda­to che qualunque fossero le caratteristiche della società che si andava costruendo in Eu­ropa orientale, essa rappresentava la sola for­ma di “socialismo reale” . I territori sottopo­sti a tale regime erano situati, con qualche ec­cezione, nelle aree che nel secolo precedente erano state soggette al dominio prussiano o a quello degli imperi zarista, austriaco e turco — tutti territori che avevano rappresentato per l’Europa liberale e progressista dell’Otto­cento il punto di forza della reazione. È in quest’area, storicamente così refrattaria al­la fioritura di una robusta tradizione demo­cratica, che il socialismo venne instaurato, imprigionato all’interno di un blocco relati­vamente monolitico, vanificato entro una ideologia ufficiale, incapace di sviluppo, di

85 Si veda J. Bloomfield, Passive Revolution. Politics and the Czechoslovak Working Class 1945-1948, cit. pp. 199-200 e 225-226.86 Su quest’ultima questione si veda Pertti Hyhynen, The Popular Front in Finland, “New Left Review”, 1969, n. 57, pp. 8-9.

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adattamento o mutamento. Di conseguenza veniva distrutta non soltanto la tradizione socialdemocratica, ma anche la possibilità di un genuino sviluppo di quella comunista. Ciò che avvenne fu l’imposizione dall’alto di un più o meno uniforme modello sovietico di costruzione di una società socialista in paesi che erano differenti in misura signifi­cativa sia tra loro sia rispetto all’Urss.

L’imposizione del modello sovietico in Europa orientale e centrale non può essere separata dalla particolare congiuntura rivo­luzionaria che si presentò tra il 1917 e il 1920. La creazione del Comintern si basò sull’ipotesi centrale che il processo rivolu­zionario in corso avrebbe avuto una dimen­sione internazionale ed avrebbe di conse­guenza richiesto un coordinamento a tale li­vello. In questo senso il Comintern era dav­vero figlio del XX secolo, non soltanto per la sua ideologia, ma anche perché l’assunto che ne stava alla base era l’interdipendenza e la dimensione globale delle trasformazioni. Questi concetti svolsero un ruolo centrale nell’originario credo comunista, secondo il quale la rivoluzione sovietica non poteva so­pravvivere senza l’avvio di un analogo pro­cesso in altri paesi. Una tale trasformazione sarebbe stata favorita da una crisi generale del capitalismo, che richiedeva l’adozione di strategie analoghe da parte dei comunisti dei diversi paesi. Ma la moderna ipotesi di una società globale interdipendente coesisteva con una struttura delle relazioni internazio­nali molto più vecchia e stabile: il moderno sistema degli stati derivato, senza soluzione di continuità, dall’Europa del Settecento, quello cioè di una comunità di stati i cui in­teressi in conflitto vengono risolti attraverso la diplomazia e/o la forza. Così i bolscevichi si trovarono alla direzione non soltanto del loro Stato — l’Unione dei soviet, la terra del socialismo che ancora doveva essere inven­tata — ma anche di uno Stato che era l’ere­de dell’impero zarista, uno Stato con preci­si interessi attinenti la sicurezza nazionale

che non potevano cambiare del tutto sempli­cemente perché erano guidati da una nuova ideologia. L’Urss, al pari della Russia zari­sta, aveva bisogno di frontiere ben difese, di Stati cuscinetto, di cinture di sicurezza attor­no ai propri confini, di trattati internaziona­li, di una diplomazia segreta e via dicendo. Chiunque volesse governare l’Unione Sovie­tica avrebbe dovuto affrontare questa realtà.

Alla metà degli anni trenta esisteva una correlazione oggettiva tra gli interessi della politica estera sovietica e quelli del movi­mento comunista in Europa occidentale: il fascismo rappresentava una minaccia non soltanto all’interno di ciascuno Stato euro­peo, ma anche, data la potenza della Ger­mania e la sua posizione geopolitica, per l’Urss. La politica dei fronti popolari rap­presentava il riconoscimento del fatto che era nell’interesse dell’Urss che ogni partito adottasse politiche coerenti rispetto alle pe­culiarità nazionali del proprio paese, dal momento che tale strategia rappresentava il modo migliore per fermare il fascismo.

Una volta adottato il principio delle vie nazionali non vi era alcun motivo per cui dovesse sopravvivere la concezione leninista fatta propria dal Comintern di un coordina­mento delle attività rivoluzionarie. I partiti comunisti erano pronti per affrontare i pro­pri avversari socialisti sulla base delle “poli­tiche democratiche” e, su quella base, di unirsi a loro in alleanze più o meno tempo­ranee. Una volta accettata la possibilità di una pacifica transizione al socialismo attra­verso gli strumenti propri della democrazia liberale e una volta fatto proprio l’orizzonte politico dello Stato nazionale, non vi era più bisogno di una specifica tradizione comuni­sta. I partiti comunisti, se fossero sopravvis­suti, avrebbero potuto semplicemente finire per rappresentare una tendenza più radicale tra le diverse espressioni del socialismo na­zionale.

In assenza della guerra fredda e della pau­

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ra del comuniSmo sovietico, i partiti comu­nisti avrebbero potuto svilupparsi piuttosto che vedere ridotto il proprio seguito in na­zioni come il Belgio e i Paesi Bassi o si sa­rebbero uniti ai partiti socialisti per creare un’autorevole forza politica di ispirazione radicale. In Francia sarebbe stata possibile una sinistra unita e in Italia, dove socialisti e comunisti cooperarono fino alla fine degli anni cinquanta, essi avrebbero potuto insie­me frenare la crescita dell’establishment de­mocristiano.

Il processo di graduale riconciliazione del­le due ali del socialismo si era avviato, non senza esitazioni, alla metà degli anni trenta, continuando con maggiore sicurezza duran­te la guerra. La guerra fredda ne arrestò bruscamente il corso. In Europa orientale le vie nazionali al socialismo vennero abban­donate per seguire la strada intrapresa dal- l’Urss. In Europa occidentale quella delle vie nazionali rappresentava una strategia impossibile o difficile da seguire poiché tutti i comunisti venivano considerati, inevitabil­mente e, nella maggior parte dei casi, corret­tamente, come sostanzialmente subordinati agli interessi della politica estera sovietica. Dove il comuniSmo sopravvisse, come in Francia, in Finlandia o in Italia, ciò avvenne perché diventò l’erede e il rappresentante di una forte tradizione nazionale radicale di si­nistra a spese dei socialdemocratici. Nel caso francese esso si sostituì nella direzione di una forte corrente operaista che altrove (per esempio in Gran Bretagna o in Germania) era presente nei partiti socialdemocratici. In Italia il Pei divenne il rappresentante di gran parte della tradizione radicale “sovversiva”, specialmente in Toscana e in Emilia Roma­gna, e si trasformò in un polo d’attrazione per l’intellighenzia non clericale.

In ogni caso i comunisti dei paesi occiden­

tali vissero gli inizi della guerra fredda come eventi loro imposti dall’esterno. La cortina di ferro, il Cominform, la dottrina Truman, il Piano Marshall, perfino la loro partecipa­zione al governo, erano tutti fenomeni che li ponevano — come il generale di Gabriel Garda Marquez — alla mercé di un destino che non era il loro. Essi divennero il bersa­glio di una propaganda delirante e furono ritenuti responsabili di una repressione che essi non avevano iniziato e che, comunque, si trovarono costretti a giustificare. In quan­to forza di minoranza essi difesero tenace­mente e con coerenza tutti i diritti civili che la democrazia occidentale offriva loro; in quanto comunisti essi difendevano in modo altrettanto tenace tutte le violazioni di questi diritti nelle “democrazie popolari” dell’Eu­ropa orientale. Raramente una forza politi­ca si era trovata tanto invischiata in una si­tuazione schizofrenica. Lo sviluppo della guerra fredda e la divisione dell’Europa se­gnarono il destino dei comunisti nella ma­niera più umiliante. Essi non si opposero al­l’espulsione dal governo e sulla base di una buona motivazione. Entro il 1947 essi erano arrivati a rendersi conto di non poter più in­fluenzare gli avvenimenti stando all’interno dei governi e, proprio per questo motivo, di non poter dare nuovo impulso all’opposizio­ne. In Francia, in particolare, non potevano rischiare di permettere ai militanti trotzkisti di fomentare il radicalismo tra le classi lavo­ratrici, come era avvenuto in due stabilimen­ti della Renault nell’aprile del 194787. Ci si aspettava che, al governo, i comunisti del­l’Europa occidentale continuassero a soste­nere i programmi di austerità che pesavano fortemente sulle classi lavoratrici. In Fran­cia il Pcf non poteva continuare a sostene­re l’intervento militare in Indocina, contro il movimento anticolonialista guidato dai

87 E. Mortimer, The Rise o f French Communist Party 1920-1947, cit., p. 145 e J.-J. Becker, Le parti communiste veut-il prendre le pouvoir?, cit., p. 193.

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comunisti88. A livello sia nazionale che inter­nazionale la tendenza predominante stava di nuovo spostandosi verso la restaurazione dell’ethos e dei valori capitalistici. I venti ra­dicali suscitati dalla guerra, e sulla cui vitali­tà e forza i comunisti dell’Occidente aveva­no rischiato il proprio futuro politico, si era­no calmati.

Completamente diverso fu il destino riser­vato in Europa occidentale a socialisti e so­cialdemocratici, che poterono arrivare al po­tere — e lo fecero — giovandosi delle condi­zioni democratiche e di libertà che essi ave­vano contribuito in maniera così decisiva ad istituire, a dispetto dell’opposizione o co­stringendo la destra, pur fortemente contra­ria, ad accettarle.

Il significato della guerra fredda, tuttavia, era che i socialisti potevano arrivare al potere soltanto dopo aver accettato l’egemonia in­ternazionale degli Stati Uniti, la sola potenza capitalistica priva di un forte partito sociali­sta. In Europa occidentale il socialismo si dovette quindi sviluppare sotto la protezione internazionale di un paese il cui ethos, le cui tradizioni e il cui modo di percepire la realtà erano profondamente ostili al socialismo e tali da non permettere neppure la speranza di un governo favorevole ad un progetto so­cialista qualunque esso fosse. Era un ordine

internazionale che a certe condizioni poteva tollerare il socialismo, ma che non avrebbe mai potuto incoraggiarlo.

Questa fondamentale subordinazione del­le idee socialiste alle necessità di un mondo bipolare costituiva semplicemente un aspet­to della decadenza della potenza europea successiva alla seconda guerra mondiale. Il destino del socialismo era inseparabile dal destino politico dei singoli stati nazionali. In una Europa divisa e soggetta a costrizioni esterne i socialisti si trovarono ad operare su un terreno ostile. Cadde su di loro l’arduo compito di vivere un paradosso particolar­mente gravoso. Essi dovevano far avanzare la causa del socialismo combattendo al tem­po stesso una guerra fredda contro la sola nazione “socialista” esistente.

Naturalmente anche i partiti conservatori e confessionali, che costituivano i principali avversari dei socialisti, erano condizionati dalla debolezza dell’Europa, che però fun­zionava a loro vantaggio. Essi erano, dopo­tutto, i naturali alleati della superpotenza americana; a differenza dei socialisti, essi non dovevano dimostrare la propria affida­bilità all’ombra della sovranità esercitata dagli Stati Uniti.

Donald Sassoon[traduzione dall’inglese di Paolo Ferrari]

J.-J. Becker, Le parti communiste veut-il prendre le pouvoir?, cit., p. 197.

Donald Sassoon è docente di storia al Queen Mary and Westfield College dell’Università di Londra. Ha pubblicato in Italia Togliatti e la via italiana al socialismo (Einaudi) e L ’Italia contemporanea (Editori Riuniti). Attualmente sta scrivendo una storia comparata dei partiti della sinistra dell’Europa occidentale dal 1889 ad oggi.