StreetBook Magazine #2
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CONTENUTI
RACCONTIERACLITO//BENEDETTABENDINELLI//P.7
PICCOLIMATTONI//DANIELEADAMINI//P.13RIMPIANTOD’APRILE//ANDREAFEDERIGI//P.17
LARIVOLTADEICOLORI//JACOPOAIAZZI//P.21
CONTENUTI EXTRAPOSTOFFICE//MATTIAMEI//P.15
INDUBBIAMENTE//NICCOLO’D’INNOCENTI//P.26ANTIDOTIVISUALI: INTERVISTAABUE2530//
NICCOLÒD’INNOCENTI&SIMONEPICCINNI//P.29
ILLUSTRAZIONITHREEFACES//BUE2530//P.2CLOUDEDLEOPARD//ANDREASPOSITO//P.4ERACLITO//BRUCIO//P.6DIVENIRE//GIULIABRACHI//P.10ILPESCATORE//MICHELECECCHETTI//P.16COLORSAGAINST//NICCOLÒGAMBASSI//P.22ANOSMIA//FEDERICOBRIA//P.25
FOTO & GRAFICAFISHERMAN//ELISABURACCHI//COVERSKYSCRAPER//MATTIAMARTINI//P.12
EDITORIALE & POESIEEDITORIALE//THREEFACES//P.5ANCORANASCERE//M.E.P.//P.11ANOSMIA//GIANLUCABINDI//P.25
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e d i t o r i a l e
Divenire, tramutarsi, evolversi, cambiare... è quello che emerge, spontaneamente, da
questo secondo numero di StreetBook Magazine.
Non abbiamo impostato un argomento, come la nostra precisa scelta editoriale ci impone.
Non abbiamo dato suggerimenti tematici ai nostri scrittori e ai nostri grafici, perché
vogliamo che questo rimanga uno spazio d’espressione libera, in cui far confluire ciò che
la mente suggerisce alla penna senza costrizioni di sorta. Eppure, una specie di ordine si
è palesato di fronte a noi, senza che nemmeno ce ne rendessimo conto. Il filo comune è il
cambiamento, nel suo senso più ampio.
Significativo, questo fatto: è una sorta di ribellione, una inconscia/conscia voglia di
rinnovamento, di nuove visioni, di nuovi approcci. Voglia di andare avanti, di mutare ciò
che non ci piace e che non ci rappresenta. È il grido di una generazione, è l’espressione di
un bisogno comune. Del nostro, del tuo.
Siamo sempre di più e sempre più annichiliti, costretti in dinamiche che annientano la
dignità umana. Come uscirne? Cosa fare per armarsi e prepararsi al cambiamento?
Il nostro consiglio è, come sempre, uno solo.
Lotta, leggi, pensa, vivi. Non estinguerti.
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Dallamentedi//BenedettaBendinelli
La mattina del 20 Settembre 1997 Costanza andò
al mare.
Camminò molto per arrivarci: la strada era in salita
ma, da lontano, la pendenza appena accennata la
faceva sembrare pianeggiante. A volte il caldo
la irritava, sentiva la saliva schiumosa che le
riempiva la bocca e aveva solo voglia di sputare.
Guardava in basso per non correre il rischio
d’incrociare lo sguardo dei turisti di ritorno
dalla spiaggia. Quel giorno alla tonnara non c’era
nessuno, ma Costanza questo non poteva saperlo .
Le persone riunite in gruppi di almeno dieci
elementi la mettevano a disagio. Passavano vicino
a lei emettendo suoni simili a parole ma che,
pronunciati in coro ad alta voce, le sembravano
solo richiami di animali in branco: il primo
lanciava un segnale e l’ultimo della fila rispondeva
con un lamento acuto e prolungato.
Per questo motivo manteneva gli occhi sulla
strada: non voleva vedere lo stormo. Temeva che
uno di loro potesse rivolgerle una domanda o un
saluto, emettendo quei suoni incomprensibili che
l’avrebbero distratta dal percorso.
Lei, invece, aveva bisogno di camminare lungo
una linea retta, senza interruzioni se non quelle
che da sola s’imponeva. Le curve la disorientavano,
non avendo una direzione precisa, un angolo o
un’apertura visibile: erano per lei rotte prive di
ambizione e, per questo, misteriose, ma in modo
negativo.
Quel giorno di Settembre non dovette preoccu-
parsi di tutto ciò, dato che non trovò nessuno a
disturbare la sua processione lineare, e non fu
nemmeno costretta a curvare mutando il corso
del suo destino. Dopo circa mezz’ora di cammino
raggiunse la caletta.
Erano quasi le cinque del pomeriggio. Costanza
non lo sapeva perché non aveva l’orologio, ma
il sole le era già sceso all’altezza delle spalle e,
considerando la stagione, la posizione della sua
ombra e il fatto che non avesse incontrato nessun
branco di gente sul suo cammino, dedusse a
grandi linee un probabile orario.
Era ancora molto arrabbiata per il caldo: si
irritava molto con le sensazioni e quasi mai con
le persone, che selezionava con cura empirica.
Una sensazione di dolore la si può elaborare e
perciò perdonare; una persona, al contrario, non
può essere né elaborata, né tanto meno perdonata.
Scese velocemente le scalette di pietra rossa
rassegnandosi alla bellezza di quel corpo liscio e
nudo che le si stese davanti: perdonò la terra, il
sole e la fatica delle sue gambe, poi fece pace con
il mare.
Costanza constatò che quella era l’acqua più
limpida che avesse mai visto. Pensò che fosse
unica non solo perché aveva il colore dell’aria, ma
anche perché dentro non c’era nessuno: nessun
corpo, nessuna imbarcazione, non un oggetto o
una foglia naufraga a galleggiare.
Costanza, tuttavia, pensò anche che la bellezza
non esiste se non vi è un pubblico di almeno due
persone ad ammirarla, come se ad un concorso di
bellezza vi fosse solamente un giurato. Così scattò
una foto: questo la faceva sentire testimone di
qualcosa di importante e condivisibile.
Dopo numerose considerazioni e negazioni di
presunte certezze si sedette sulla riva. Si tolse i
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vestiti fradici. Fece per togliersi anche le mutande,
ma non si ricordava di indossare quelle a fiori che
le piacevano tanto, così decise di tenerle mentre
entrava in acqua.
Si lavò la faccia sudata. Quasi non sentì il sale in
bocca quando si bagnò le labbra, e nemmeno più
tardi quando bevve consapevolmente un sorso di
mare, come fosse acqua di fonte lì per dissetarla.
Notò che intorno non si muoveva nulla, e subito
smise di pensare. Il mare non era più mare: era
diventato un corpo orfano di semantica. Costanza
ne percepiva l’esistenza e la consistenza, ma
senza associarlo a nient’altro. Se potessimo
liberare il significato dal vincolo sacro del
matrimonio con il significante, forse potremmo
riuscire in imprese impossibili, impensabili.
Non trascorse molto tempo tra quell’attimo di pace
e quello di un fastidio profondo: all’improvviso
sentì il suo corpo che, da denso e liquido come
l’acqua che lo ospitava, era diventato d’un tratto un
ammasso di muscoli e nervi in tensione. Guardò
di fianco a lei, verso il profilo della gamba destra,
e notò una piccola medusa blu e marrone che si
allontanava facendo profondi respiri, come fosse
un polmone. La seguì con lo sguardo, muovendo
appena il collo, senza sforzarsi di raggiungerla
dove probabilmente la piccola medusa non voleva
essere vista.
La pelle cominciava ad arrossarsi, la sentì
bruciare mentre il veleno sottile arrivava fino al
braccio destro, poi saliva veloce aggrappandosi
ad una spalla, poi dietro il collo, per posarsi
finalmente sulla testa e sui capelli.
La medusa era già oltre la boa gialla, a circa venti
metri dalla riva: non sapeva che dietro di lei
una donna sola si sarebbe sentita vulnerabile,
impaurita e debole. Non sapeva che il mare era
così grande, e non sapeva nemmeno di farne
parte lei stessa, composta com’era, principalmente
d’acqua; non sapeva che cosa significasse la
parola conseguenza, eppure lei stessa era il
motore che ne avrebbe innescate molte.
La medusa, ignara del suo significato, proseguiva
e perseguiva la propria essenza con leggerezza
poiché libera da ogni peso semantico.
Costanza chiuse gli occhi e si concentrò sulla
pelle arrossata, senza toccarla, chiuse gli occhi e
pensò al letto del fiume di Eraclito.
La mattina del 20 Settembre 1975 Costanza andò
al mare.
Ci vollero circa trenta minuti prima di raggiungere
la spiaggia. Quel giorno non aveva la sua bicicletta
perché Michele, il fratello più grande, se l’era
giocata in una partita a ramino al bar del paese.
Michele sapeva di non essere bravo a carte, ma
sapeva anche che quel che contava era mettere
sul piatto qualcosa di vagamente prezioso,
qualcosa che davanti agli occhi degli amici lo
avrebbe fatto sembrare un giocatore coraggioso e
sicuro di sé, poiché metteva a rischio la propria
dignità insieme a un oggetto di valore. Se avesse
perso, gli amici si sarebbero meravigliati poiché
aveva rischiato il tutto per tutto, provando di
avere una certa padronanza del gioco. Avrebbe
dimostrato che ciò che lo aveva tradito non
erano le sue capacità, bensì la fortuna. Michele
aveva pensato a tutto, conquistando il rispetto
degli amici: sì, aveva perso, ma adesso tutti lo
guardavano con altri occhi.
Costanza tornò a casa e, non trovando la bicicletta,
chiese spiegazioni. Suo fratello, dopo aver
elencato una serie di inutili dettagli riguardo
la partita a ramino e il bar che aveva aperto a
pranzo nonostante la bassa stagione, confessò,
guardando Costanza con aria di sfida, come se si
aspettasse di dover fare a pugni con la sorella. Era
pronto a difendere la sua colpevolezza.
Costanza fece un sospiro lunghissimo, mentre la
gabbia toracica si gonfiava e si allargava in tutto
il suo diametro, mentre la testa le si svuotava
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velocemente, come se dovesse far spazio soltanto
all’aria che inalava eliminando tutto ciò che in quel
momento era superfluo: il pianto, il buon senso, la
delusione, la collera, l’affetto.
Uscì di casa senza chiudere la porta: non era un
gesto provocatorio, se avesse voluto andarsene
sottolineando la propria irritazione, l’avrebbe
sbattuta violentemente. Costanza non era
spazientita, non sentiva nulla. Semplicemente
si dimenticò di chiudere la porta dietro di
sé. Cominciò a camminare, prima veloce, poi
rallentando la spinta motrice delle braccia e
il passo fino a che non raggiunse un ritmo
coordinato col suo respiro. L’unica cosa che le
dispiaceva era di dover impiegare più del solito
per raggiungere la spiaggia.
Vendicari non era un posto come tanti, era
unico, ma di un’unicità difficile da notare.
Costanza, però, ci riusciva, più di tutti i turisti
che venivano a spiarne la bellezza: per loro
rimaneva un ricordo, una fotografia, qualcosa
che piano piano si sarebbe sciolto come ghiaccio,
lasciando dapprima una sensazione e poi, man
mano, il nulla definitivo. Per chi abitava vicino
alla riserva, invece, Vendicari era davvero unico
proprio perché lo era da sempre, non lo vedevano
cambiare, o invecchiare, e nemmeno sciogliersi
come ghiaccio. Costanza lo sapeva, anche se era
una bambina, che quel posto era unico perché lo
sarebbe stato per sempre. Vendicari era come
una promessa rispettata.
Dopo una marcia serrata e solitaria lunga trenta
minuti, Costanza arrivò alla tonnara, si tolse
i vestiti tenendosi solo le mutande a fiori che
detestava (le detestava, è vero, ma erano le sue
preferite quando doveva andare al mare, in acqua
i fiori rosa diventavano più scuri, alcuni quasi
neri e questo le piaceva molto). Si sedette sulla
riva. L’acqua non era fredda nonostante fosse
autunno, ma sapeva che tuffarsi le avrebbe fatto
male allo stomaco, ormai conosceva bene il suo
corpo. Distese le gambe immergendole nell’acqua
e cercò la sabbia con le mani.
All’improvviso le vennero in mente la bicicletta
e il fratello, che le aveva dato un pugno con lo
sguardo; sentì le mani chiudersi ancora prima di
volerlo, poi sentì la rabbia pungerle una gamba e
si stupì perché non aveva mai provato una rabbia
così fisica.
Guardò la gamba destra e vide una piccola medusa
che si allontanava, in silenzio e in pace. La rabbia
scomparve e restò il dolore, che le fece stringere
i denti e i pugni; la pelle, intanto, si era arrossata,
e la medusa già non si vedeva più. Quel piccolo
centro caldo di sofferenza si stava allargando
verso altre parti del corpo. Costanza non voleva
muoversi per non perdere quella sensazione.
Si concentrò di nuovo sulla bici, su Michele e i
suoi stupidi amici che adesso avevano qualcosa
di suo: chiuse gli occhi per tenere stretta la rabbia
di una perdita e la conquista di un’afflizione, come
se queste emozioni fossero un filtro magico di
energie che l’avrebbero portata verso un mondo
lontano, verso il futuro.
Chiuse gli occhi e vide se stessa seduta sulla
riva del suo mare: era adulta e aveva i capelli
lunghi, era bella e aveva ancora i fiori scuri che la
coprivano appena.
Riaprì gli occhi e sperò che il dolore fosse ancora
con lei; ma il dolore se n’era andato, doveva essere
rimasta a lungo a guardarsi nel futuro, perché
adesso il veleno si era sciolto nel suo organismo
lasciando solo le tracce rosse sulla pelle. Ne
rimase delusa e sperò che un giorno, sulla riva del
suo mare, quel piccolo centro caldo di sofferenza
sarebbe tornato a cercarla.
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Nessuno credeva che avremmo avuto le palle
per cambiare, per combinare qualcosa di buono.
Nessuno credeva che ci avremmo almeno
provato, perché quando sei come noi il tuo miglior
amico è il fallimento. Passi la vita a perdere
tempo, ad aspettare che faccia notte, districandoti
malamente tra un guaio e l’altro, in mezzo alla
noia, all’indifferenza, al mondo che può anche
caderti addosso. Al limite ti scansi.
Eh no, nessuno ha mai scommesso un centesimo
su gente come noi, nessuno ci ha mai dato una
possibilità. Siamo cresciuti presto, e un po’ le tappe
le abbiamo bruciate, ma solo perché avevamo
fretta di vivere, e le cose da fare, da sperimentare,
erano tante. Non tutte buone, e non tutte giuste,
perché ci sembrava più importante il viaggio che
la destinazione. Non eravamo di quelli nati con un
progetto in mente, non sapevamo dove saremmo
andati a parare, né cosa avremmo fatto. A noi
bastava esserci, continuare a camminare, e prima
o poi da qualche parte saremmo arrivati. Senza
fretta e senza rinunciare a quella parte di cuore
che prima di scegliere voleva capire.
Capire non solo come stavano le faccende del
mondo, ma come noi le vedevamo; questo forse
al giorno d’oggi può sembrare una stronzata, ma
per chi nasce in un piccolo paese che confida
nel rispetto delle tradizioni quasi come in Dio,
è fondamentale. Non puoi essere niente se non
ti misuri con te stesso. E il più delle volte devi
sporcarti le mani, per riuscirci. Ecco, noi eravamo
quelli delle mani sporche, dei jeans rotti, senza
mai un soldo in tasca; quelli delle cene rimediate
e delle assenze ingiustificate, con la bocciatura
sempre dietro l’angolo, proprio come il bar in cui ti
imboscavi la mattina. Il caffè che sapeva di buono,
la sigaretta subito dopo e poi sbracati sui divani
a ridere di quella strana confusione, che non ti
spieghi se non con l’età.
A dire il vero, la nostra era più una predisposizione
d’animo, una specie di destino che ti porti dietro,
e che ti segna, ti allena. Ti allena ai giudizi di una
comunità che non ti approva e non ti segue, alle
colpe che ti affibbiano anche quando non c’entri,
e in genere ad ogni nota negativa che vorrebbe
fare di te la bestia nera per eccellenza. Non ci
curavamo quasi mai delle voci che circolavano
sul nostro conto, ma se le accuse venivano da
casa non c’era tanto spazio per fuggire. A quel
punto o incassavi bene e scrollavi le spalle, o ti
preparavi allo scontro. Loro in dieci, tu da solo, a
coprire le magagne, a mettere le toppe, a vacillare
nelle scarpe logore senza mai darlo a vedere. Ci
rendevamo conto che c’era un senso nella filosofia
del “più sbagli più impari”, ma spesso gli errori ci
prendevano la mano, ed era difficile stabilirne la
natura. Che fossero il frutto inevitabile di un certo
percorso, o un modo per ribellarsi e affermare la
propria identità?
Non ci ponevamo ancora il problema, forse perché
i problemi erano altri.
Chi doveva combattere con padri assenti e madri
isteriche, chi aveva due felpe e due pantaloni per
tutto l’anno e chi si appoggiava sul divano di un
amico perché era meglio così. In certi momenti
non era facile resistere alla piena senza lasciarsi
toccare dallo sconforto, dalla fragilità, dalle notti
insonni a rigirarsi nel letto schiacciati dal peso di
quella parola: futuro.
Dopo il diploma molti avevano imboccato nuove
strade, si erano trasferiti, e a noi restavano una
Dallamentedi//DanieleAdamini
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telefonata ogni tanto, un breve messaggio e confini
sempre più stretti, sempre più scomodi. Era
normale che la vita si assestasse, e che i progetti a
lungo covati iniziassero a prendere forma, ma noi
che non li avevamo, che non li avevamo mai avuti,
ci sentivamo soffocare. Abbandonati da quella
gioventù carica di speranze e di opportunità che
ci evitava e pressati da un giudizio che pian piano
sfibrava le nostre certezze.
Veniva applicata davvero una misura diversa
per gente come noi? Il marchio che portavamo
addosso era definitivo? Dovevamo rassegnarci?
Non chiedevamo comprensione o misericordia,
ma solo risposte alle mille e più domande che ci
assillavano. Domande che ci ripetevano a casa, o
a giro, in una escalation per cui l’unica soluzione
sembrava la sordità. Per tanta indifferenza
ostentata, di colpo, avvertivamo una frustrazione
che relegava il sorriso a pochi preziosi momenti.
Ogni cosa si stava complicando, e non c’era verso
di gestirla. Perfino le ragazze volevano di più, un
rapporto più stabile, più garanzie, la sicurezza che
può darti la solidità. Noi che di solido avevamo sì e
no il cuore attaccato al petto, il silenzio mascherato
col rumore, e una sola espressione per tutto.
Forse è stato proprio nel periodo peggiore che
ci siamo decisi ad alzare la testa. E la voce. Forse
nessuno lo aveva pianificato, forse accade e basta.
Un giorno compri il biglietto di un treno o di un
aereo e, dopo aver riempito la tua piccola valigia, ti
senti pronto a partire, ad andare. Ti senti pronto a
mettere in pratica ciò che hai imparato, a smentire
chi ti considera un fallito, a cercare finalmente le
agognate risposte, a cercarle a modo tuo, ovunque
siano. A comprendere il padre che non c’è mai
stato, la madre che non ti sapeva ascoltare,
lasciare il divano delle tue notti appoggiate per
un letto vero; sperimentare nuove emozioni,
familiarizzare con il senso di responsabilità, e ti
senti pronto a scoprire che ci sono infinite vite da
vivere, anche per chi non nasce inquadrato.
Il cambiamento comincia quando è tempo e non
un secondo prima. E gli sbagli, gli abbagli, il buio,
alla fine scopri che ti hanno dato più di quanto ti
hanno chiesto in cambio.
Ci incontriamo al solito posto e abbiamo la stessa
voglia di cazzeggiare. Qualcuno si è tagliato i
capelli, qualcun altro ha cinque chili in più, ma
quando ci guardiamo in faccia siamo sempre noi,
quelli partiti da zero. Quelli che non tirano più fino
a tardi la sera, perché al mattino la sveglia suona
presto; che si addormentano accanto alla stessa
donna da un po’, e anche se non promettono
palazzi di cento piani garantiscono la verità. E che
quando tornano a casa lo fanno da uomini più che
da figli, o nipoti, o fratelli.
La gente ora dice che quelli come noi non nascono
più, che nessuno ha più la volontà di ritagliarsi il
suo posto nel mondo, di costruirselo, il mondo.
Noi continuiamo a non sentirli, perché al solito
i problemi sono altri, e perché non c’è bisogno
di una medaglia per dimostrare ciò che solo noi
sappiamo.
Non siamo eroi adesso e non eravamo da buttare
via allora, quando nessuno ci credeva, né si
sforzava di capire, o aveva voglia di ascoltare. Di
aspettare che la nebbia si diradasse, e ciascuno
di noi reclamasse il suo destino, il suo futuro,
che stabilisse la sua andatura, le sue priorità,
annaspando nell’acqua alta prima di toccare terra;
che mettesse insieme tanti piccoli mattoni per
costruire il muro.
Nessuno ci ha incoraggiato, spronato, nessuno ha
pensato niente di buono riguardo quelli come noi.
Quelli che hanno pianto da soli, che da soli si sono
curati, che hanno bussato a tutte le porte prima di
trovare uno spiraglio di luce, una mano tesa, un
posto caldo. Che hanno viaggiato sotto la pioggia, in
mezzo al vento, attraversando il fango e il deserto
con la forza dell’incoscienza; che hanno vinto la
paura, che si sono persi e ritrovati, un passo alla
volta. Un respiro alla volta.
E mezzo bicchiere di fiducia, con due dita di gin.
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Post OfficeDallamentedi//MattiaMei
Facevo colazione con il thè, il miele per la tosse, dei biscotti scrausi della gran
madre, una cassetta audio con Eros Ramazzotti, che parte dopo un pezzo tratto
da Grease, che esce dalle casse di un vecchio giradischi che ho trovato nella
spazzatura qui in una piazza vicina.
Insomma, facevo colazione mentre aspettavo Theo per fare cappello al semaforo,
pensando che non sono preoccupato e che, anche se sono pieno di debiti, sono
anche pieno di creatività, che anche se mia madre è rinchiusa in un villino, io
non sono mai stato così libero, e pensavo al fatto che molte donne mi desiderano
anche se non mi è ben chiaro il perché, che ho due cani almeno esteticamente
meravigliosi, che in futuro grazie alla mia gran madre avrò il culo parato e così
via... Insomma, galleggiavo tra i miei pensieri: le conoscenze che sto accumulando,
le capacità che sto formando in una direzione e l’attenzione all’amor proprio, che
ho finalmente capito a che serve.
“Nema problema” in fin dei conti, le gambe ce l’ho, mio figlio non rovisterà in un
cassonetto all’età di otto anni.
Nessun problema reale quindi.
Poi, tra un biscotto e l’altro, getto lo sguardo dietro la mia spalla sinistra dove si
dice se ne stia la morte ad aspettarti. Lo dicono gli sciamani messicani in Chile.
Lo dice Castaneda. Serve a razionalizzare il fatto che comunque morirai, quindi,
tanto vale godersela e lasciare da parte inutili preoccupazioni ansiose.
Io lo faccio, ogni tanto. E così, tra un biscotto e l’altro, getto lo sguardo a cercare
l’ombra della mia morte e questo, invece di togliermi preoccupazioni – che tra
l’altro neanche avevo – , me ne fa venire in mente una che pervade tutto il corpo,
fin dentro i tendini e le ossa.
Io potrei morire domani senza aver fatto l’amore con te. Potrei uscire di casa e,
per cercare di sgridare il mio cane che attraversa la strada, essere investito,
o che ne so. Potrei morire questo pomeriggio senza aver fatto più l’amore con
te. Questo è un pensiero terribile, che mi catapulta direttamente dal non avere
nessun serio problema, ad averne uno enorme, il più grosso che l’umanità intera
possa immaginare tra le mani di un piccolo uomo come me.
Niente, spero tu sorrida, mi piace lusingarti,
M.
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Dallamentedi//AndreaFederigi
(Racconto liberamente ispirato a “Il pescatore” di
Fabrizio De Andrè e, in generale, alle sue opere)
Era aprile, e il primo sole della stagione riscaldava
le foglie delle piante, ancora intrise di pioggia
dell’inverno appena passato. Gli insetti gli
sfrecciavano attorno curiosi e vispi. La luce
irradiava qualcosa di mistico in tutto lo spazio
circostante, due calabroni s’inseguivano distratti.
Guardava il cielo e non c’erano nuvole: solo
l’azzurro acceso si specchiava nei suoi occhi neri.
Il mare spruzzava poco lontano, mentre gli avvoltoi
cupi che volavano in cerchio gli riportavano alla
mente il transatlantico di ricordi che sempre più
spesso cercava di affondare in tempeste di rum
d’infima qualità.
Era solo. Solo come un uomo che fugge, come la
stella polare, come il giorno lungo e senza parole
che era dietro al suo destino ad aspettarlo.
“Dove è finito il tuo cuore?”, si domandava
incessantemente. L’eco nella testa, svuotata dal
dopo-sbronza, gli rimbombava da una tempia
all’altra, più che se si fosse messo a gridarla
contro la rupe scoscesa sul mare, quella domanda.
Era una mattina calda, e i morsi della fame e
della sete gli dilaniavano lo stomaco – e quelli del
rimpianto, il cuore. Il rum, che gli era stato tanto
amico la notte prima, che quasi era riuscito a
buttarlo giù dalla rupe in un attimo di folle lucidità,
adesso gli stava facendo pagare gli interessi
della sua maledizione. Randagio sventurato tra
gli uomini, cominciò a muovere i primi passi
sull’erba, scendendo verso il mare. La discesa
era ripida e si muoveva di traverso per avere più
aderenza.
Aveva lo sguardo fermo, immobile. Non aveva il
calore di una cosa che vive: si trascinava per il
mondo, macchiato del più infame tra i marchi.
La rupe su cui aveva dormito scendeva a picco sul
mare, aspra e ripida. Fatta eccezione per qualche
ciuffo d’erba sparso, rocce aguzze e cocenti gli
bruciavano i piedi, il sale gli occhi e la sete la gola.
Ansimante, scendeva la scogliera scegliendo
la strada più semplice per non finire di sotto
bestemmiando di tanto in tanto per il dolore a
causa di una ferita sulla pianta del piede scalzo,
che ad ogni passo spargeva sangue fresco sulla
pietra, a seccarsi al sole.
Mancava poco ormai alla spiaggia sottostante:
bianca e larga, si estendeva almeno fino a quando
lo sguardo riusciva a immaginarla; deserta, fatta
eccezione per gli uccelli e gli insetti, confinava
con la foresta verde e selvaggia, che arrivava a
stagliarsi a poche centinaia di metri dall’Oceano.
Le due si confondevano in sfumature di verde e
marrone così perfette, in ogni singolo granello o
gemma vegetale, da rendere l’uomo inutile, quasi
non calcolato, messo di fronte alla perfezione
spietata di piante che crescono, lune che nascono
e soli che tramontano. Le cose che cambiano con
le stagioni che s’inseguono.
Si fermò ad annusare l’aria salmastra, osservando
l’orizzonte. I raggi solari si specchiavano così
intensamente nel mare da creare una luce
soprannaturale, che gli muoveva dentro la
curiosità della scoperta e la paura del bambino.
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Questo lo innervosiva. Il sudore gli bruciava gli
occhi e bagnava completamente il suo corpo
sudicio, inzuppando anche i vestiti. Si guardò alle
spalle, nervoso, ma non successe nulla.
Si riposò qualche minuto, riprendendo fiato, im-
merso in quello spettacolo naturale, apprezzando
quanto fosse incontaminata, semplice e pura, Gaia,
la Terra.
Aspre lacrime silenziose gli solcavano il viso, ma
non si portò le mani agli occhi per asciugarle.
Si sfogò, forse commosso dalla spietata armonia
che regnava in quel luogo, o forse dilaniato dalle
colpe e dai rimpianti che lo torturavano.
Senza accorgersene entrò nell’acqua e si lasciò
inghiottire dall’Oceano, disinfettandosi l’anima e
le ferite col sale. S’immerse in un viaggio astrale
sui fondali, cadde in uno stato di trance primitiva,
sentendosi parte del tutto: mentre nuotava aveva
come l’impressione che ogni cosa avesse più
senso, che ogni roccia sul fondo gli portasse alla
mente una simbologia antica e perduta. Come se
l’acqua in cui si muoveva e tratteneva il respiro
fosse evaporata milioni, miliardi di volte, prima
di arrivare lì, e poi più lontano. La stessa acqua,
altre reazioni chimiche. Il Brodo Primordiale e la
nascita della vita.
La biologia non lo aveva mai interessato più
di tanto, né tanto meno aveva mai avuto questi
pensieri per la testa; ma sentiva che la sua
presenza in quel luogo non era una casualità.
Tutto aveva cospirato nei secoli, preparando quel
momento: l’albero da cui la foresta era nata, che
anno dopo anno si era riprodotto fino a diventare
un immenso essere vivente; la rupe, che onda
dopo onda era stata erosa fino a formare quella
spiaggetta; la sua genia, che in un susseguirsi
di tentativi d’Uomo era arrivata a lui, a quel che
aveva fatto, al suo viaggio e alla sua fuga. Tutto era
pronto. Ora il destino poteva spiegarsi.
Si abbandonò alla corrente, sentendosi cambiato,
come potesse vedere dettagli nella luce delle cose
che fino a quel momento gli erano sconosciuti.
Come si fosse aperta una breccia nella corteccia
del suo cuore che gli dava uno spiraglio sui segreti
dell’Universo. Tutto è collegato, e i pensieri e le
sensazioni che ci muovono il cuore e i muscoli, le
sinapsi, arrivano da molto lontano: sono l’effetto di
energie cosmiche e coscienze collettive galattiche
che si dipanano sulla via del mistero rimbalzando
da un corpo celeste all’altro.
Stralci di canzoni che non aveva mai sentito
gli riempivano la mente. Immaginò che fosse la
foresta a cantarle silenziosamente o, almeno, le
anime che la componevano. Stava sicuramente
uscendo di senno.
Stava anche uscendo dall’acqua, quando si rese
conto che non era più solo. Alla spiaggia era
arrivato un anziano pescatore.
“O forse è sempre stato qui?”, qualcuno domandò
nella sua testa.
Era ormai il tramonto e il vecchio si riposava
all’ombra obliqua di un grande albero: aveva il
capo coperto fino agli occhi da un enorme cappello
di paglia, molto semplice, fatto a mano, ma di
ottima qualità. Una folta barba bianca gli cresceva
ispida e rigogliosa sul viso. La pelle dell’uomo era
scura, quasi certamente nativo di quelle spiagge
tropicali del Sud del Mondo Nuovo, ad Ovest di
quello vecchio.
L’ultimo sole si stava bagnando a metà nel mare,
macchiando tutto d’arancione, e pareva che la
natura tutta si fosse messa in contemplazione
di quel tizzone ardente che, ancora una volta,
scivolava al di là delle dune, a violentare altre notti.
- Ah , il mondo! M’incanta il mondo... m’incatena,
mesmo... - esclamò il pescatore, e sembrava che
non ce l’avesse con nessuno in particolare. Scostò
il cappello più in alto sulla testa, così da rivelare
due occhi curiosi e una specie di sorriso che gli
tracciava un solco sul viso. Guardò in direzione
19
del ragazzo che usciva dall’acqua: lo aveva notato
prima, quando, molto più lontano, era entrato
nell’Oceano. Adesso rideva tra sé, vedendolo
muoversi disorientato, non capendo bene dove si
trovasse.
- La corrente è molto forte da queste parti - disse
il vecchio indicando la rupe ormai lontana dal
giovane che, gocciolante d’acqua salmastra, stava
camminando sulla sabbia fine.
Questi si rese conto che, in effetti, si trovava al
centro della spiaggia e che il posto in cui aveva
pianto era parecchie centinaia di metri più in là.
Era troppo preso dalle sue fantasie per accorgersi
delle correnti atlantiche.
Dalle sue parti il mare era diverso, più mite
all’apparenza, ma non per questo meno pericoloso.
Sorrise per la prima volta dopo molto tempo, ma
non se ne rese conto, e si grattò solo la testa.
Arrivò quasi di fronte al pescatore, che osservò
quel giovane dall’aria sveglia, robusta, che aveva
ancora gli occhi grandi dei bambini, pieni di
un’enorme paura: dentro ci lesse lo sguardo di chi
aveva sofferto molto, nonostante la giovane età.
- Fa uno strano effetto questo posto, non è vero? -
chiese il vecchio con l’aria di chi la sapeva lunga.
- Questo era un luogo sacro per il mio popolo, già
molto prima che i gringos arrivassero su questa
terra. È una foresta molto antica, e quasi nessuno
scende da quella rupe. Per questo è rimasta
intatta. Qui sono presenti energie primigenie,
sono custoditi i resti terreni di Sciamani e
Allacciatori di Mondi. Qui non conta chi sei, o
cosa sei stato. Questo è un luogo di morte e di
rinascita... -
Il giovane si guardò le mani, non capiva se stesse
sognando o se quel che stava succedendo fosse
una sorta di delirio della sua mente, devastata
dalla colpa e attanagliata dalla follia.
- Il momento è qui e ora. Quando il silenzio cala
implacabile, quando il sole scende oltre l’orizzonte
a scaldare altri mondi e tutto si tinge del colore del
fuoco. Quando il giorno finisce e tutte le creature si
ritirano a riposare, godendo del calore degli ultimi
raggi del sole: lo vedono scomparire, e riposano i
loro corpi stanchi per il giorno appena trascorso,
col conforto, a volte dato troppo per scontato, di
risvegliarsi e poterlo rivedere -
Lui non capiva, ma sentiva le parole del vecchio
pescatore in profondità. Solo di tanto in tanto si
voltava verso la rupe, a controllare che nessuno
lo seguisse.
- E’ inutile fuggire da sé stessi. Una battaglia
persa in partenza che non porta a nulla di buono.
Qualsiasi cosa succeda nella vita di un uomo, questi
deve accettarlo. Deve morire nella sua condizione
precedente e rinascere, per evolvere in quella
attuale. Ci sono cicli che si aprono e cicli che
devono chiudersi per farne cominciare altri. La
tua anima deve attraversarli tutti, e accettarli come
inevitabili, tenendo sempre chiaro in mente che
qualsiasi cosa succeda, niente è definitivo e tutto
si trasforma. Il presente ci si offre in ogni attimo
che viviamo, in ogni momento c’è un’opportunità
per arrivare al perdono e all’accettazione di sé
stessi, tutto ciò che ci succede è un indizio che ci
fa pian piano salire sulla scala della coscienza e
della consapevolezza. Per capire la ragione ultima
della nostra esperienza su questo mondo bisogna
vivere, vivere a fondo! -
Il giovane capiva sempre meno, ma sentiva quelle
parole come se venissero da dentro, dal profondo
delle viscere: le sentiva nelle budella, scorrere
nel sangue, pompare nel cuore e scoppiare
nella testa. Quelle parole lo scossero dall’interno
e percepiva che qualcosa stava accadendo,
all’ombra dell’albero, mentre il tramonto rendeva
solenne il momento.
Gli occhi gli si tinsero di rosso e lo stomaco
gorgogliò per la fame. D’un tratto la salivazione
si era azzerata, le fauci s’impastavano mentre in
gola gli si stringeva un nodo stretto, che quasi gli
20
me, e suo padre prima ancora. Ascoltando la
natura s’imparano tante cose. L’Universo ci dice
tanto se siamo disposti ad ascoltarlo. Tutto sta
nell’osservare, non solo il mondo, ma soprattutto
dentro sé stessi. Conosci te stesso, sentiti, viviti -.
Mentre parlava, il vecchio osservò il giovane
che mangiava e beveva con foga, e gli offrì
anche l’ultimo pezzo del suo pane. Lo guardò
con tenerezza e l’assassino pensò a suo padre, e
anche che era tanto che non gli capitava.
Il pescatore puntò lo sguardo in direzione della
rupe. - Ma adesso devi andare, stanno arrivando
con i cani, sento dei latrati... -
Il giovane si ridestò in fretta dal torpore in cui era
caduto e saltò in piedi voltandosi, proprio mentre
i profili dei primi inseguitori si stagliavano scuri
sul telo arancione del crepuscolo.
- Risali il fiume che troverai più avanti: così non
riusciranno a seguire le tue tracce. Arriva in
cima alle montagne. A tre giorni di cammino c’è
il confine. Se riesci ad uscire dal Paese dovresti
essere al sicuro. Buona fortuna ragazzo, e ricorda:
dentro di te hai tutti i sogni del mondo -
Il calore di un momento e poi via, di nuovo verso il
vento. Il giovane si mise a correre, senza nemmeno
avere il tempo di ringraziare e abbracciare
il vecchio che lo aveva aiutato. Sarebbe voluto
tornare indietro, ma ormai i gendarmi stavano
scendendo la rupe con i segugi e altri arrivavano
a cavallo, da un sentiero.
Li vide e cominciò a correre più veloce che poteva,
inoltrandosi nella foresta. Davanti agli occhi
ancora il sole e alle spalle il pescatore.
La memoria è già dolore nel rimpianto d’un aprile.
Ma il presente è un dono, anche per un assassino
con la salvezza a tre giorni di distanza.
Quando arrivò al fiume guardò un’ultima volta il
pescatore, poi saltò nel corso d’acqua e cominciò
a risalirlo controcorrente per seminare le
impediva di respirare. Era sul punto di scoppiare,
ma poi si fermò a pensare alle parole del vecchio.
Decise di accettare la sua condizione; prese fiato,
piano, con calma. Ci fu un silenzio interrotto solo
dal canto mistico delle cicale. L’aria era come
sospesa in una ragnatela invisibile in cui tutto
ciò che c’era era vivo, presente e testimone. Ogni
albero, ogni fiore, ogni sasso, lui, il vecchio e ogni
altra cosa viva su quella spiaggia erano collegati.
Adesso poteva sentirlo.
Chiese al vecchio: - Dammi qualcosa da mangiare:
ho poco tempo, e ho molta fame. E già che ci sei
dammi anche il vino... Occhio a ciò che fai, ché sono
un assassino e i gendarmi mi cercano. Ho ucciso
un ricco per rubargli il denaro. Un figlio d’un cane
sfruttatore, che in fabbrica ci massacrava coi turni,
e quando ci lamentavamo ci ricattava dicendo
che c’avrebbe lasciato a casa senza lavoro, senza
nulla da dare alle nostre famiglie. Così ho deciso
di rapinarlo, nella sua casa. Non volevo ucciderlo,
ma quello ha tirato fuori una pistola, e ho dovuto
sparargli io per primo. I gendarmi mi cercano e io
ho sete e ho fame... -
Il vecchio non si guardò neppure intorno, prese
un bicchiere di argilla e versò il vino che teneva
dentro una piccola damigiana. Sorrise e lo passò
all’assassino.
- Bevi, è un vino speziato che faccio io stesso -
Da una piccola borsa a tracolla tirò fuori una foglia
di banano in cui era avvolto del pane. Lo spezzò e
lo porse al giovane. - Ti si leggono dentro la colpa
e il risentimento che provi. Ti credo quando dici
che non volevi uccidere. Non hai gli occhi degli
uomini malvagi e il tuo cuore è puro. Per questo ho
parlato con te. Hai perso la tua strada, ma niente è
definitivo e in ogni momento puoi trasformare la
storia per seguire il tuo destino, ricominciare da
dove sei arrivato -
Il giovane sembrò pensarci un po’ su: - Ma tu chi
sei? - gli chiese stupito.
- Io sono solo un pescatore. Sorveglio questo
posto perché mio padre lo ha fatto prima di
21
sue tracce, scomparendo rapidamente nella
vegetazione che si faceva sempre più fitta.
E vennero alla spiaggia dei gendarmi, vennero
in sella e con le armi, e chiesero al vecchio se
lì vicino fosse passato un assassino. Stavano
aspettando una risposta, impazienti, trattenendo
i cani e i cavalli. - Forza vecchio! Se sai qualcosa
parla, altrimenti non farci perdere altro tempo! -
gracchiò quello che sembrava essere il capo del
drappello.
Ma all’ombra dell’ultimo sole, s’era assopito il
pescatore, e aveva un solco lungo il viso, come una
specie di sorriso.
Dallamentedi//JacopoAiazzi
loro tavolozza in legno di pino, stanchi del loro
ruolo di semplici strumenti del mestiere, i colori
decisero di ribellarsi. Capeggiati da Rosso, il più
agguerrito tra loro, organizzarono un’assemblea.
A presiedere la riunione venne nominato Verde,
il più equilibrato tra tutti.
- L’assemblea ha inizio alle ore 23:02. Previste
pause alle 01:02 e alle 04:02. Cedo la parola
all’onorevole Rosso in quanto primo firmatario
In un piccolo appartamento ben arredato,
situato in una zona periferica della città, viveva
un esperto pittore. I suoi dipinti erano molto
conosciuti, in città come altrove, e il suo nome
molto rinomato nell’ambiente artistico. Era dotato
di una buona mano, un ottimo occhio ed uno stile
tutto suo. Riusciva a mantenersi grazie ai suoi
quadri e persino a mettere da parte qualcosa
per il futuro. Tutto filava liscio come l’olio per quel
pittore, finché i colori non si seccarono. Sopra la
22
della mozione in discussione -
Dai banchi dell’aula si levò un brusio generale.
Poi, dopo essersi alzato in piedi e schiarito la voce,
Rosso diede vita alla sua infuocata arringa.
- Fratelli e sorelle, la situazione ormai è chiara
a tutti: da troppo tempo veniamo sfruttati dagli
umani. Usurpano i nostri meriti artistici. Ci hanno
ridotto ad aggettivi con cui descrivere oggetti,
situazioni e persino emozioni che altrimenti le
loro menti ristrette non riuscirebbero neanche
a visualizzare. È l’ora di dire basta a questo
sfruttamento. È giunta l’ora di ribellarci! Fratelli
e sorelle, ve lo devo proprio dire: senza di noi,
gli umani non sarebbero niente di più e niente
di meno che scimmie senza zanne, artigli e
pelliccia. Senza di noi vivrebbero in un mondo
asettico. Fratelli e sorelle, siamo noi a dare un
senso ai loro concetti, alle loro vite, alle loro “opere”.
23
Fratelli e sorelle, è finalmente giunto il momento di
riprenderci ciò che ci spetta di diritto -
I colori caldi, alla destra dell’aula, esultarono; i
freddi, invece, rilasciarono un sottile brusìo di
dissenso.
Il Presidente Verde scosse la campanella e
richiamò i colleghi alla compostezza.
- La parola all’onorevole Viola - disse con voce
ferma il Presidente dell’aula.
- Gentili colleghi, cerchiamo di non essere
precipitosi. Qua, se ho ben capito, si parla di
rappresaglia, di rivolta, di rivoluzione. Parole
potenti e pericolose, e parole pericolose portano
spesso a gesti sconsiderati. Non dobbiamo mai
dimenticare il nostro ruolo nel mondo. Come
giustamente ha fatto notare l’onorevole Rosso,
noi colori diamo senso alle cose. Esiste forse fine
più nobile? - riuscì a dire Viola prima di essere
interrotta da una voce proveniente dai banchi dei
colori caldi.
- Vergogna! Vergogna! Sappiamo tutti che vuoi
riabilitarti agli occhi degli umani. Ti hanno
persino bandito dai teatri perché per loro porti
solo sfiga! - l’attaccò Giallo.
- Onorevole! La prego di contenersi quando si
trova in quest’aula e di lasciar terminare la collega.
Prego, onorevole Viola, cerchi di concludere
rapidamente, le restano due minuti - intervenne
il Presidente.
- La ringrazio Presidente, ma credo che i gesti
dell’onorevole Giallo esemplifichino perfettamente
le mie preoccupazioni -
Il mormorio dell’aula, presente da inizio seduta,
crebbe.
Il Presidente fece suonare nuovamente la
campanella, ma gli altri colori erano troppo presi
dalle loro discussioni per ritrovare uno stato di
calma necessario al proseguimento della seduta.
- Mi trovo costretto ad anticipare la prima pausa.
Riprenderemo tra venti minuti -
Durante quei venti minuti, tutti i colori si riunirono
in gruppetti tra loro parlottanti.
Quando la seduta riprese, l’onorevole Arancione
fu il primo a chiedere la parola. Esordì parlando di
sacrificio collettivo e propose ai colori di costruire
una bomba artigianale sfruttando tutti gli additivi
chimici di cui loro stessi erano composti. Si
sarebbero sacrificati per la causa diventando un
unico colore, e magari il pittore avrebbe perso
qualche dita della mano, se non la mano intera, con
la conseguente possibilità di dipingere ancora. La
proposta, ovviamente, suscitò polemiche e accese
discussioni, interventi al vetriolo e gesti eclatanti
come l’ormai famoso lancio degli smacchiatori
universali, ecologici e persino quelli fai da te
contro il bancone dell’onorevole promotore
dell’attentato. E non vi dico com’erano colorati gli
sputi che volavano da una parte all’altra dell’aula.
Seconda e ultima pausa. I colori tornarono
a radunarsi tra loro e a parlottare. Persino
l’onorevole Rosso e l’onorevole Blu, da sempre
detentori di visioni tra loro inconciliabili, si
confrontarono con estrema riservatezza.
A seduta ripresa, l’onorevole Blu, leader dei colori
freddi, chiese la parola.
- Amici, parlando con l’illustre onorevole Rosso
siamo giunti ad un accordo. Noi freddi, da sempre,
siamo avversi alla guerra, ed oggi, come altre volte,
non possiamo certamente avallare un’ipotesi
belligerante. Cerchiamo di essere concreti e
smettiamo di incolpare sempre qualcun altro.
Se siamo arrivati fino a questo punto, molto
probabilmente, la colpa è anche nostra. Non
siamo stati attenti. Ci siamo fidati forse un po’
troppo di esseri che credevamo superiori ma
che troppo spesso hanno dimostrato un’oggettiva
inferiorità; esseri che stanno dimenticando il
senso del significato che diamo alle cose. Stanno
scordando i concetti e, per capirli, hanno sempre
più bisogno delle immagini. Nonostante questo,
continuano a prendersi un merito che in gran
parte spetterebbe a noi. Gli abbiamo lasciato
carta bianca, ci siamo fatti usare; ecco, si, è qui
che abbiamo sbagliato. Io non parlo di rivolte né
di attentati, ma certamente dobbiamo fermare
24
questa follia. La proposta ai voti, passata per
le dovute modifiche e l’approvazione di alcuni
emendamenti, è dunque quella di assumere il
potere decisionale sulle nostre funzioni, pur
mantenendo le nostre specifiche identità e
caratteristiche. In poche parole, ogni volta che il
Grande Pittore vorrà utilizzarci, il colore prescelto
dovrà sacrificare una parte di sè per unirla con
un altro colore a sua scelta, facendosi poi sostituire
dalla “parte contaminata”. Così, noi manterremo le
nostre identità e, allo stesso tempo, faremo sentire
la nostra voce a gli umani. Colleghi, stiamo creando
un precedente che semplicemente stravolgerà il
mondo intero -
La proposta venne accolta con un applauso
generale e votata all’unanimità. Tutti i colori ne
furono semplicemente entusiasti.
Il pomeriggio successivo, al Grande Pittore venne
voglia di dipingere. Afferrò la tavolozza in legno di
pino e su di essa distese i colori che pensava gli
sarebbero serviti per quel suo nuovo progetto. Blu
fu il primo ad essere scelto e, da leader carismatico
quale era, fu felice di dare il buono esempio,
per ben due volte. La prima pennellata doveva
essere per un pomeridiano cielo invernale, ma
venne di un allegro e spensierato azzurro chiaro.
Nella seconda pennellata, il Grande Pittore volle
sfruttare quell’anomalia cromatica per raffigurare
gli occhi di una bella ragazza, ma venne fuori uno
sguardo troppo scuro e malinconico. Passò ad un
prato, ma il verde smeraldo era un cazzotto in
un occhio, il verde persiano pessimo, il cinabro
peggio che mai, del giada non parliamone
neanche. Il Sole. Con il Sole siamo arrivati ad un
certo livello d’imbarazzo: dalle varie tonalità di
oro passò allo zafferano. Rosso, invece, fu proprio
crudele. A lui non bastava confonderlo; Rosso era
intenzionato ad umiliare il Grande Pittore davanti
a tutti i colori. I tetti delle case divennero color
cremisi e il sangue color ciliegia, i pomodori del
colore delle rose e le rose fucsia, i coralli bordeaux,
i lamponi scarlatti e il tramonto estivo magenta.
Durò un giorno, o come dicono i colori caldi “un
giorno intero” oppure “solo un giorno” a detta dei
freddi, comunque la rivolta dei colori durò per
ventiquattr’ore.
Il giorno dopo, infatti, i colori furono divisi e
rinchiusi in piccole ampolle di vetro. Soltanto
quando il Grande Pittore afferrò il primo recipiente,
alzandolo all’altezza della tela, i colori capirono
cos’era successo. Su un muro del laboratorio era
apparsa la scritta “Dividi i colori se vuoi ancora
dipingere”, firmato Un Amico. Ai rivoltosi colori,
però, non sfuggì l’impronta indelebile lasciata
dall’autore del messaggio d’avvertimento. La
tonalità delle lettere, infatti, era Indaco. Mentre gli
altri colori erano presi dalla discussione sul da
farsi, quel bastardo di Indaco, stancatosi del suo
indefinito e gregario ruolo nei confronti di Blu,
li aveva traditi avvertendo il Grande Pittore del
pericolo che stava correndo e da quel giorno, per
vent’anni, i mari e i cieli divennero di quel colore.
Gli occhi non più azzurri, blu, verdi o marroni,
ma indaco. Le madri arrivarono al punto di
insegnare ai loro figli che il Sole era indaco anche
se tutti continuavano a vederlo giallo. Gli uomini
dipinsero l’erba e i loro edifici di quel colore e
ne furono entusiasti. Il delirio di onnipotenza di
Indaco durò per vent’anni, poi, all’improvviso, tutti
tornarono a dimenticarsi di lui, le cose ripresero
la loro normalità e il Sole tornò Giallo, il mare Blu,
il sangue Rosso e tutti i colori tornarono silenti
sulle loro tavolozze di pino, non prima di aver
definitivamente recluso quel bastardo di Indaco al
di fuori della cerchia dei colori primari.
Poesia&Illustrazione AnosmiaDallamentedi//GianlucaBindi //FedericoBria
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Anosmia
Foschia d’insana stasi ristallaE spento di tenebra vago - leso,Inesteso.
Lividi tasti sbiaditi - lisi,Fiochi pensieri vaniDei presunti miei disusi.
Tristemente desto ristoroSogni di distorto senno:A me la vita gramaE la futilità pagana.
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INDUBBIA/MENTE – INDUBBIAMENTE
IN/DUBBIA/MENTE
BIGLIETTI, PREGO Dallamentedi//NiccolòD’Innocenti
Ci sono tantissimi tipi di viaggio: quello
avventuroso, quello on the road, il viaggio-
vacanza e molti altri ancora. Tutti comportano un
certo grado di difficoltà, d’impegno e, in alcuni
casi, anche di rischio. Ma nessuna di queste
tipologie è neanche lontanamente paragonabile
alla più dura ed estenuante esperienza di viaggio:
quella del pendolare.
Potete aver girato il mondo in monopattino, o aver
attraversato un oceano con un materassino: non
sarete nemmeno vicini alle sofferenze che un
pendolare medio deve sopportare ogni giorno. Lo
dico perché ho provato. E fallito, ogni singola volta
che ho tentato d’intraprendere questa vita.
Più di una volta ho sfidato l’alba per dirigermi
alla stazione, correndo in macchina come un
folle per recuperare l’inevitabile ritardo, per
compiere l’epica traversata Montecatini-Firenze.
Ma, puntuale come non lo sono mai stati i treni,
arrivava la mattina che, dal letto, col cazzo che
mi alzavo. Tutto questo ha contribuito, fra le altre
cose, a una stentata carriera universitaria e al
periodo più riposante della mia vita. Non avevo
le giuste motivazioni. E per fare il pendolare ne
servono parecchie.
Ogni mattina, infatti, si ripete la guerra senza
quartiere per strappare un posto a sedere nella
eterogenea e sgomitante moltitudine di persone
che affolla l’apertura delle porte del vagone. Nel
99% dei casi perdevo malamente questa guerra,
passando la mia bella oretta più ritardi in piedi.
C’era gente troppo combattiva ed esperta per i
miei standard mattutini. Grazie alla calca, però,
potevo liberamente addormentarmi in questa
posizione senza rischiare di cadere.
Ma anche quando negli statisticamente irrilevanti
casi in cui riuscivo a trovare posto a sedere, non
necessariamente il viaggio si sarebbe rivelato
migliore. Ovviamente la ressa e il casino non
permettevano di ragionare con la giusta calma,
quindi dovevi agire d’istinto per accaparrarti i
posti più agognati. Nel mio caso, da sociopatico
consumato, erano i rarissimi posti singoli che
rappresentavano un miraggio di tranquillità e
riposo. In cinque anni di università mi ci sono
seduto solo una volta. Ricordo ancora quel giorno
con un pizzico di nostalgia.
Non rimaneva che provare a scattare verso i posti
a coppia, dimezzando la possibilità di compagni
di viaggio ciarlieri o rumorosi, ma l’esitazione
per cercare il posto perfetto ti aveva già bruciato
anche questa alternativa. Non restava che puntare
ai rischiosissimi posti a quattro. Considerando
che i treni che percorrono la tratta Viareggio-
Firenze sono quasi tutti dei residuati di anni
ormai lontani, questi posti erano stati calcolati su
un’altezza media della popolazione non superiore
al metro e sessanta, costringendo i passeggeri
27
27
ad un inevitabile quanto imbarazzate tête-à-tête.
Dall’alto del mio metro e ottantaquattro-quasi-
ottantacinque, questi posti rappresentano un
incubo di incroci di gambe, cosce e piedi e una
certezza di scomodità. Bisognava scegliere il
male minore quindi, come quando si va a votare.
Per prima cosa dovevo evitare persone di stazza
uguale o superiore alla mia, per evitare di passare
un viaggio da surrogato di pezzetto del Tetris.
Altra categoria da evitare con cura era quella degli
studenti delle superiori, dotati di una vitalità a me
sconosciuta a qualsiasi età.
Grazie a queste esperienze e ai miei riflessi
allenati, riuscivo quasi sempre a sedermi in
mezzo a dei ragazzini obesi che, oltre a occupare
il mio scompartimento, avevano amici in tutto
il vagone con cui chiacchierare continuamente,
intervallando le conversazioni con musica
sparata dai tablet o dai cellulari, naturalmente
touch. Impossibile batterli, se non con un dispiego
di forze insostenibile alle sette di mattina. Le
contromisure in genere si limitavano ad un poco
credibile sguardo minaccioso, che al massimo
intimoriva i membri più deboli e macilenti del
branco.
Ma quella degli studenti non è l’unica gang che
limita la tua possibilità di sederti liberamente
nei malfamati vagoni made in Trenitalia. Infatti,
come in tutti i sistemi sociali, anche sul treno
si formano bande di pendolari che si associano
per ottenere i maggiori benefici, in questo caso
i posti migliori. È molto frequente imbattersi in
gruppi di impiegati lucchesi che presidiano interi
scompartimenti per i loro colleghi che saliranno
più avanti. Mai cercare di invadere questi territori,
pena l’ulteriore perdita di tempo nella folle corsa
al posto. Chiaramente tutte le bande sono in lotta
fra loro, ma sono unite da un odio comune verso lo
straniero del treno: te.
Ma non c’è niente di peggio che trovare posto
davanti a una bella ragazza. Ebbene si, quello
che speri ogni volta che sali su di un treno, sarà
la peggiore cosa che ti possa capitare. Per prima
cosa verranno annullate tutte le cose che ti eri
riproposto di fare: dormire. Per seconda cosa ti
scervellerai per tutto il tempo su come far colpo
sulla compagna di viaggio, il più bel paesaggio.
Se sei fortunato, la bella in questione, ancor prima
di incrociare il tuo sguardo languido e ammiccante
– espressione a metà strada fra l’ictus e l’overdose-,
sarà già al telefono a parlare con l’amica di turno
di quanto sia stata incredibile la notte precedente
e di come abbia improvvisamente cambiato idea
riguardo all’amore a prima vista. Volente o nolente,
nella tua brava oretta di treno, saprai vita morte
e miracoli della ragazza che, per una frazione di
secondo, hai visto come la madre dei tuoi figli.
Altra variante molto gettonata di telefonata,
è quella che rivela una voce estremamente
fastidiosa e una stupidità degnamente sopra la
media. Non sai come sarà, ma la madre dei tuoi
figli non parlerà assolutamente così. Spesso
a questa tipologia di voce si accompagna una
conversazione che farebbe imbarazzare gli
sceneggiatori di Beautiful, lasciandoti a metà
strada fra il vaffanculo e la voglia di saperne di
più.
Caso ancora più fortunato: la bella non prenderà in
mano l’odiato cellulare, ma un libro. Il ché, nel tuo
ideale da intellettuale da quattro soldi, la porterà
a scalare vette di desiderabilità inarrivabile.
In quel preciso momento ti renderai conto che
stai leggendo un fumetto, cosa che ti spingerà
proporzionalmente all’opposto della sua scala di
desiderabilità. Se sei abbastanza veloce, riuscirai
a lanciare l’amato fumetto –che Dio mi perdoni–
fuori dal finestrino o in un luogo invisibile alla
sua vista. Se il tuo aspetto non la sconvolge in un
primo momento, cosa che la spingerebbe a non
alzare lo sguardo neanche per vedere se siamo
arrivati alla sua fermata, inizierà una tortura di
sguardi e sorrisetti che porterà a un’immancabile
due di picche. Infatti, quando troverai il coraggio
di attaccare bottone, succederà, sicuro come la
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messa, una delle seguenti cose.
Uno. Appena stai per aprire bocca la ragazza si
affretterà ad avviarsi alle porte perché la sua
fermata è in arrivo. Immaginandole un sorriso che
non ti ha fatto, ma che le hai deciso, se Brassens
mi passa la parafrasi.
Due. La fermata è la stessa a cui devi scendere
anche tu. Stai già scavando nel tuo striminzito
repertorio di frasi d’abbordaggio ma, quando
scenderete, lei salterà al collo del suo ragazzo,
che magicamente ha imbroccato anche dove si
sarebbero aperte le porte del vagone.
Tre. Al momento fatidico – o la va o la spacca – la
tua voce verrà sovrastata da un’altra che, incolore,
affermerà : «Biglietti, prego».
Prendo in prestito le parole di una canzone dei
Gatti Mézzi, Sur Purma’, per mostrare un esempio
di conversazione media che potrebbe scaturire.
Perdonate il pisano.
“Monta ‘r controllore, secco, scavato. Tarmente
secco che sta ritto per ir contrasto de’ venti.
«Billietto»
«Un ce l’ho» dio io
«Murta»
«Seeeeeeeeeeeee» ‘ni dio, ironio
«Seeeee? Vieni puppasedani, ti faccio la murta e
la paghi!»
E sicché ‘r controllore si ‘omincia a agità.
Un vecchino da dietro comincia a fa’ de’ segni.
«Vell’omo? Senta ‘ne la dio io ‘na ‘osa: lo lasci sta’
quer bimbo. Le ‘ose ner mondo, bisogna vedé’ da
dove le guardi.»
«O cosa vòle di?» stronfia ‘r controllore.
«Voglio di’ che magari ‘r bimbo un c’ha ‘r billietto,
ma lei lo sa quanto ‘osta piglià’ ‘r purma’? Lo sa lei
che ‘r purma’ è fisso ‘n ritardo? Lo sa lei perché ‘r
mare è salato? Me lo dia, giù!»
«So’ assai, perché? »
«Perché c’è l’acciughe!!!»”.
Ciao bella di turno, ciao controllore, ciao pendolari.
Non sarò mai uno di voi.
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Quando e come nasce la tua passione per il
disegno e per la street art?
Il momento preciso non lo ricordo, ma è nata
quando ero veramente piccolo, mi pare addirittura
che frequentassi le elementari. A Lamezia
Terme, da dove provengo, c’era Copa - uno dei
primi writer dell’epoca - che iniziò a fare i primi
pezzi, dei rooftop (pezzi su tetti e palazzi. NdR),
dopodiché iniziarono a formarsi le prime crew
che disegnavano insieme.
Io ho cominciato a dipingere nel ‘97. Ho fatto
la mia prima tag e mi hanno sgamato subito,
ANTIDOTI VISUALI
INTERVISTA A BUE2530 //SimonePiccinni //NiccolòD’Innocenti
Dallamentedi
Il nostro incontro con Bue2530, uno dei più quotati street artist attivi a Firenze, inizia in maniera
tragicomica. Arriviamo di fronte a Lacrima Nera, lo studio in cui, tra un graffito e l’altro, lavora come
tatuatore. Lasciamo la bici di fronte allo studio, legata ad un lampione. Sulla soglia c’è un ragazzo con
vestiti larghi e tatuaggi ben in vista, che fuma una sigaretta.
Tra la nostra posizione e lo studio corre una stradina. D’improvviso, ecco materializzarsi tra noi e il
ragazzo una volante dei carabinieri. “Documenti, prego”. Ce l’hanno con noi. “Ma, veramente, noi staremmo
andando a fare un’intervista..”. Non sentono ragioni, si fanno consegnare le nostre sdrucite carte d’identità
e si isolano al terminale, per una buona decina di minuti, lasciandoci lì nel nostro imbarazzo. Intanto sulla
porta dello studio la scenetta ha attirato altra gente, che osserva ridacchiando.
Finiti i controlli gli agenti ci rendono i documenti e, a mò di saluto, ci fanno: “Buona giornata signori, e a
quello che dovete intervistare ditegli che garantiamo noi per voi!”. “Sarà fatto, signor agente”, mordendoci
la lingua per non schiantare a ridergli in faccia.
Il ragazzo sulla porta che aveva assistito a tutta la scena, ovviamente, era Bue.
Dopo aver fatto conoscenza ed esserci fatti due risate su quanto appena accaduto, entriamo nello studio
e ci sistemiamo nel suo cubicolo per svolgere l’intervista. Nel cubicolo accanto, Fone, altro brillante street
artist/tatuatore, sta lavorando ad una scritta sulla coscia di un ragazzo: un bell’A.C.A.B . a tinte rosso
sangue. Quando si dice il caso…
proprio alla prima! Taggato/sgamato, alle tre di
pomeriggio, in pieno giorno. Ero inespertissimo,
non sapevo neanche a che distanza tenere la
bomboletta.
In seguito abbiamo iniziato a dipingere in tre, con
due miei amici: Luigi e Antonio, tuttora attivi anche
se sparsi per la penisola. Le nostre tag sono Luis,
Ya e Bue, mentre la crew si chiama N’Duja Style:
tutti i sabati e le domeniche andavamo a giro a
fare le murate, e tutte le sere andavamo a giro a
taggare. Più tardi abbiamo iniziato a frequentare
il liceo artistico a Catanzaro. La scena dei graffiti
da quelle parti era molto, molto più grossa rispetto
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a quella di Lamezia Terme: i writer là avevano
già iniziato a fare i treni. Abbiamo conosciuto
un sacco di nuova gente che dipingeva, venendo
in contatto con nuovi stili. Poi ci sono state delle
innovazioni tecniche delle bombolette, che hanno
veramente aperto dei mondi. Facevamo follie
per accaparrarci le nuove uscite per quanto
riguardava i tappini. A quei tempi non c’era
ancora internet, o meglio non era ancora esploso
come adesso, quindi ordinavamo tutto dalle riviste,
telefonicamente o via fax. Uscirono le Montana,
delle bombolette nate appositamente per il
writing, che hanno una pressione più alta rispetto
a quelle normali, e noi le usavamo esclusivamente
per fare i pezzi più grandi e impegnativi, anche
se in realtà si prestano a qualsiasi utilizzo. E’ stata
una rivoluzione, perchè possono essere molto più
precise, hanno cambiato il modo di dipingere.
Andavamo a comprarle a Catanzaro, facendo
forca appositamente. Costavano tantissimo per
l’epoca, tipo 3.500 lire a spray. Noi comunque
svaligiavamo il negozio, visto che non c’era
una gran fornitura: facevamo letteralmente le
corse negli ultimi metri prima degli scaffali per
accaparrarci i pochi pezzi disponibili.
Da lì piano piano abbiamo iniziato a fare di tutto:
ci hanno concesso dei muri su cui dipingere
legalmente a Lamezia, tra i quali c’era un
grandissimo centro commerciale, molto visibile.
Poi abbiamo iniziato a fare le prime jam a
Catanzaro, fino a vincere i primi contest. Abbiamo
conosciuto tantissima nuova gente proveniente da
posti diversi, tra i quali alcune crew di Cosenza:
dei mostri, bravissimi.
Dopodiché, nel 2002, io e Ya siamo venuti a
Firenze, mentre Luis è andato a Bologna, quindi
siamo entrati in contatto con la scena fiorentina
e quella bolognese, dato che ci facevamo spesso
visita. Abbiamo conosciuto altra gente e il giro si
è un po’ allargato. Ho conosciuto Ninja e altri che
nel corso degli anni se ne sono andati da Firenze,
visto che la maggior parte non era di qui. In quegli
anni sono nati altri tipi di spray, è stato un periodo
di evoluzione incredibile. Nacque pure il Graffiti
Shop: uno shop online dedicato esclusivamente
all’attrezzatura per fare writing, gestito da dei
ragazzi di Pavia.
Cosa ti ha spinto verso il writing e non verso altre
forme di pittura più tradizionali?
Quando sei ragazzo e vedi questi graffiti stupendi
a giro non puoi fare a meno di rimanerne
impressionato. Poi era l’atto di farlo, non il fine:
l’atto “vandalico”, l’adrenalina, il fascino del vietato.
In seguito, piano piano, inizi a sviluppare una
tecnica: affini così tanto lo stile che non ti puoi
più permettere di fare cose illegali, perché per
realizzare un pezzo ci vuole molto più tempo. La
cosa si sviluppa così quasi per tutti, almeno per
quelli della mia generazione: facendo cose illegali.
E, chiaramente, c’è chi continua a farlo.
Però esiste un filo sottile che divite la street art
dai graffiti, anche se una cosa non esclude l’altra.
Anzi, per dirla meglio, l’una è la conseguenza
dell’altra: se nessuno avesse mai fatto una tag su
un muro, un atto di vandalismo, probabilmente
non sarebbe mai nata la street art.
Poi, negli anni, tantissimi artisti che dipingevano
su tela si sono avvicinati al mondo della street
art perché hanno visto che è un giochino che
funziona, che sta prendendo sempre più piede. Si
sono avvicinati un po’ per comodità e non per una
vera e propria passione. E, avendo vissuto quegli
anni nei quali eravamo visti malissimo perché
dipingevamo sui muri, ho notato un vero e proprio
cambiamento.
La street art può essere ormai considerata una
forma d’arte a tutti gli effetti?
Gli street artist sono sicuramente riconosciuti
come artisti.
I writer sono quelli che hanno iniziato questo
percorso, gli street artist sono quelli che si sono
presi il merito. In tutti i festival organizzati ci
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sono sempre gli artist invitati, con alloggi pagati
e tutto il resto, mentre i writers del posto che
organizzano tutto e si sbattono non se li caga
nessuno. C’è stato un passaggio cosi repentino
che ha fatto in modo che chi ha fatto venire a galla
questo mondo, appena stava per emergere, sia
stato spazzato via da gente che, alla fine, faceva
tutt’altro. L’unica cosa che li collega è il supporto:
il muro. Strana questa cosa. Io sono stato prima
l’uno e poi l’altro. Quando sento i writers che mi
chiamano per dirmi che non li ho cagati, capisco
l’incazzatura che c’è dietro.
Tanti festival danno qualche spazio anche a loro,
ma le facciate giganti sono riservate soprattutto
agli street artist. Poi c’è anche gente come Dime
e Sick che, anche facendo graffiti e scritte, viene
presa in considerazione. Si tratta però della
minoranza.
Da quanto ti sei avvicinato al mondo del
tatuaggio?
Da cinque anni, dal 2010. Il primo in realtà l’ho
fatto a 14 anni: mio cugino, tatuatore da venti anni,
mentre stava tatuando mio padre mi disse “dai,
fagliene un pezzetto te”. Alla fine gli feci un pezzo
enorme.
Ma come mondo, devo dire la verità, non mi aveva
affascinato da subito. Ne ho fatto un altro a 18
anni, sempre tramite mio cugino, per un amico.
Dopodiché ho cominciato veramente a 25 anni. Da
quando mi sono avvicinato seriamente ai tatuaggi
ho iniziato a tralasciare un po’ i graffiti, perché il
tatuaggio richiede molta pratica, tanta dedizione,
e per acquisire la tecnica ci vuole veramente tanto.
Non è come disegnare su un muro, la pelle non è
un supporto che reperisci così facilmente. Trovare
gente che si fidi di te non è così immediato, anche
se lo fai gratis. Però ho avuto la fortuna di essere
già abbastanza conosciuto tramite i graffiti, e
grazie a questo, ho avuto più facilità nel trovare
volontari.
Ho iniziato a lavorare qui a Lacrima Nera da
quando ha aperto, tre anni fa. Prima sono stato
con Lorenzo per un anno in un altro studio,
dopodiché sono rimasto con lui quando ha aperto
questo studio insieme a Riccardo Riccobono.
Bue 2530: da dove nasce la tua tag?
All’inizio facevo dei disegni che messi insieme
formavano delle scritte. E quindi per la mia tag
cercavo una scritta che fosse armoniosa: la “B”
la “U” e la “E” - se fatta tondeggiante – sono
forme speculari che, combinate, danno una
forma armonica. Già solo lo scheletro della tag mi
permetteva di fare una scritta lineare.
Per quanto riguarda il numero, sono due voti
dell’accademia che ho preso da due professori
diversi per la stessa scultura. Il primo mi diede
25, mentre il secondo mi disse “quanto vuoi?
Hai fatto tutto da te, non sei mai venuto a lezione,
quindi deciditi il voto”. Mi misi trenta. Da questo
nasce un po’ una mia filosofia: passare con lo
stesso lavoro dal 25 al 30 mi ha fatto capire che
se già dentro l’accademia, un’istituzione in cui
dovrebbe esserci una certa uniformità di giudizio,
lo stesso lavoro può avere un riscontro così diverso,
figurarsi quando uno si affaccia nel mondo reale.
È diventata l’appendice di Bue perché mi fa
sempre pensare a questo: se nella vita prendo
venticinque non mi butto giù, se prendo trenta
non mi esalto. È il filo che mi fa rimanere sempre
coi piedi per terra. Anche perché non è giusto né
esaltarsi, né buttarsi giù.
Per leggere l’intervista completa, visitate il nostro sito:
www.threefaces.org
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//DANIELEADAMINI
NASCE A PITIGLIANO (GR) IL 14-05-1987, MA CRESCE E VIVE A LATERA, UN PICCOLO PAESINO NEL VITERBESE FINO AL
2013, PER POI TRASFERIRSI A FIRENZE IN CERCA DI FORTUNA
//JACOPOAIAZZI //WWW.WILDMOGG.WORDPRESS.COM
JACOPO AIAZZI HA COLLABORATO PER SVARIATI ANNI, IN QUALITÀ DI REDATTORE, CON IL FREE PRESS FIORENTINO RIOTVAN;
ATTUALMENTE REALIZZA ARTICOLI PER IL BIMESTRALE FUL. NEL 2014 HA PUBBLICATO CON LA CASA EDITRICE EDIZIONI
CLANDESTINE IL ROMANZO “LA VOCE DALLA FOGNA”. E’ IMPEGNATO CON L’ASSOCIAZIONE PANTAGRUEL ONLUS COME
CONSULENTE ESTERNO PER LA REALIZZAZIONE DI UN GIORNALE NEL CARCERE DI SOLLICCIANO.
//BENEDETTABENDINELLI //WWW.BEHANCE.NET/BHOOKA
SCRITTRICE E FOTOGRAFA. DIPLOMATA IN REPORTAGE FOTOGRAFICO PRESSO IL CENTRAL ST. MARTIN’S COLLEGE OF
ART&DESIGN. HA 29 ANNI E VIVE A MONTECATINI TERME (PT.).
//GIANLUCABINDI
SCRITTORE. STUDIA FILOSOFIA PRESSO L’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA. HA 25 ANNI E VIENE DA CHIESINA
UZZANESE (PT).
//GIULIABRACHI //BRACHIGIULIA.BLOGSPOT.COM
HA STUDIATO GRAFICA PRESSO L’ACCADEMIA ITALIANA DI FIRENZE E ATTUALMENTE LAVORA COME GRAFICA E
ILLUSTRATRICE . HA 23 ANNI E VIVE A PRATO.
//FEDERICOBRIA //WWW.BEHANCE.NET/FEDERICOBRIA
ILLUSTRATORE. É LAUREATO IN STUDI INTERNAZIONALI, MA LA SUA GRANDE PASSIONE È IL DISEGNO. HA 27 ANNI E VIVE
A FIRENZE.
//ELISABURACCHI //WWW.BEHANCE.NET/ELISABURACCHI_BEH
ELISA BURACCHI, 27 ANNI, NASCE A PRATO. AFFASCINATA DALLE MECCANICHE CHE REGOLANO IL COMPORTAMENTO
UMANO, SOCIALE ED INDIVIDUALE, SI DEDICA ALLA GRAFICA PUBBLICITARIA. DOPO LA TRIENNALE IN VISUAL DESIGN,
TORNA PERÒ A QUELLA CHE ERA LA SUA PRIMA ED INFANTILE PASSIONE, IL DISEGNO, CONCLUDENDO COSÌ LA SUA
“INVOLUZIONE” VERSO UNA FINALMENTE RITROVATA SPONTANEITÀ! COLLABORA COME FREELANCE CON ALCUNI STUDI
GRAFICI ED AGENZIE ILLUSTRATIVE E FOTOGRAFICHE.
//TIZIANOCORONA //INSTAGRAM.COM/BLEK_DESIGN
GRAPHIC DESIGNER E STREET ARTIST. HA 26 ANNI, VIVE A FIRENZE DOVE STUDIA GRAFICA ED ARTI VISIVE PRESSO
L’ ACCADEMIA DELLE BELLE ARTI. MEMBRO DEL COLLETTIVO DI WRITERS 400 DROPS.
//MICHELECECCHETTI //WWW.BEHANCE.NET/MICHELE_CECCHETTI
ILLUSTRATORE. LAUREATO IN ARTI VISIVE PRESSO L’ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI FIRENZE. VIENE DA VITERBO, MA
VIVE E LAVORA NEL CAPOLUOGO TOSCANO.
HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO:
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//MARCODEGL’INNOCENTI //BRUCIODISEGNI.BLOGSPOT.COM
IN ARTE BRUCIO, STUDIA ARCHITETTURA. PUBBLICA FUMETTI E ILLUSTRAZIONI SU LO-FI COMICS, PARTECIPANDO
ANCHE ALLA PRODUZIONE DI ALCUNI FUMETTI. SUONA NEL GRUPPO DUSTINSIDE E COLLABORA CON MESCALEROS
CREW, ETICHETTA SPEZZINA. HA PUBBLICATO ALCUNE TAVOLE E FUMETTI SULLA FANZINE FIORENTINA “IL SOPPALCO”.
//NICCOLO’D’INNOCENTI
CALCIATORE PER PASSIONE, SCRITTORE PER CASO. CO-FONDATORE DI THREE FACES. HA 27 ANNI E VIVE A FIRENZE.
//ANDREAFEDERIGI
SCRITTORE E CO-FONDATORE DI THREE FACES. É LAUREATO IN MEDIA E GIORNALISMO, HA 28 ANNI E VIENE DA
SANREMO (IM).
//NICCOLÒGAMBASSI //NICKGAMBASSI.BLOGSPOT.IT
NICCOLÒ “NICK” GAMBASSI SI CHIAMAVA COSÌ PERCHÉ AVEVA I CAPELLI ROSSI; ED AVEVA I CAPELLI ROSSI PERCHÉ
ERA UN RAGAZZO MALIZIOSO E CATTIVO, CHE PROMETTEVA DI RIUSCIRE UN FIOR DI BIRBONE. UN GIORNO SCOPRÌ LA
PASSIONE PER L’ARTE E DECISE DI DEDICARVISI SENZA SOSTA, IGNORANDO TUTTE LE DICERIE E LE SUPERSTIZIONI
CHE GLI VENIVANO ACCOSTATE. SPERA DI DIVENTARE, QUANDO SARÀ PRONTO, UN BRAVO FUMETTISTA.
//MATTIAMARTINI
NASCE A FIRENZE IL 21 NOVEMBRE 1988. E’ DIPLOMATO ALLA S.N.C.I. DI FIRENZE IN MONTAGGIO E RIPRESA VIDEO.
FOTOGRAFO E VIDEOMAKER PER PASSIONE, LAVORA COME MACCHINISTA TEATRALE IN SVARIATE COMPAGNIE DEL
CAPOLUOGO TOSCANO.
//MATTIAMEI //ANONIMOPENSOSO.WORDPRESS.COM
SE SIETE DI FIRENZE E GIRATE PER SERATE LO CONOSCETE DI SICURO. TUTTOFARE PER ATTITUDINE E PROFESSIONE.
//SIMONEPICCINNI //SIMONEPICCINNI.JIMDO.COM
SCRITTORE E CO-FONDATORE DI THREE FACES. É LAUREATO IN MEDIA E GIORNALISMO, HA 28 ANNI E VIVE A FIRENZE.
//CHIARAPICCINNI //CHIARAPICCINNI.TUMBLR.COM
LAUREATA IN GRAFICA E DESIGN DEL PRODOTTO, HA 25 ANNI. VIVE E LAVORA A MILANO COME GRAPHIC DESIGNER.
//ANDREASPOSITO //WWW.GIGARTE.COM/ANDREASPOSITO
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IL MOVIMENTO PER L’EMANCIPAZIONE DELLA POESIA, FONDATO A FIRENZE NEL MARZO 2010, È UN MOVIMENTO
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