Storie di famiglie allargate tra le...

144
A CASA COI NONNI Storie di famiglie allargate... tra le generazioni SOCIETÀ DANTE ALIGHIERI Fondazione Opera Immacolata Concezione Onlus

Transcript of Storie di famiglie allargate tra le...

– 1 –

A CASA COI NONNI

Storie di famiglie allargate...tra le generazioni

SOCIETÀDANTE ALIGHIERI

FondazioneOpera Immacolata Concezione Onlus

– 2 –

Prima edizione: settembre 2012

ISBN 978 88 6129 900 9

© 2012 by cleup sc“Coop. Libraria Editrice Università di Padova”via G. Belzoni 118/3 – Padova (t. 049 8753496)www.cleup.it

Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento,totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresele copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati.

Impaginazione di Cristina Marcato.Grafica di copertina di Massimo Maltauro.

– 3 –

Indice

Presentazioni

Ripartire dalla famiglia allargata 9

Angelo Ferro, Presidente Fondazione OIC Onlus

Di nonno in nonno, le belle storie della nostra infanzia 12

Antonia Arslan, Presidente della Giuria

A casa con i nonni, un’antologia di ricordi 14Luisa Scimemi di San Bonifacio, Presidente emerita Società Dante Alighieri – Comitato di Padova

Abbiamo bisogno di un nuovo Umanesimo 17Alessandro Russello, Direttore «Corriere del Veneto»

Un nonno non si improvvisa 20

Roberto Papetti, Direttore «Il Gazzettino»

Due nonne strordinarie 22

Antonio Ramenghi, Direttore «Il mattino di Padova»,«La tribuna di Treviso», «La Nuova di Venezia e Mestre»,«Corriere delle Alpi»

Anziano, una parola da maneggiare con cura 24

Ario Gervasutti, Direttore «Il Giornale di Vicenza»

Verso un’epoca di super-nonni 26

Maurizio Cattaneo, Direttore «L’Arena»

– 4 –

La famiglia intergenerazionale paradigmaanche per l’azienda 28

Fabio Franceschi, Presidente Grafica Veneta SpA

Anche noi… una famiglia allargata 30

Ambrogio Fassina, Presidente Cleup

Racconti & Poesie

Nonna e bisnonna 33

Tempi lontani 35

A casa coi nonni 37

Il ricordo dei nonni per le mie sante feste e l’amoredel mio canto 40

Al nonno (25/1/1920 - 27/2/2012) 42

Le forti radici della famiglia. Un insegnamentodal passato al futuro 43

Una lunga vita 53

Altri tempi 56

Ricordi di un bambino di… ottanta anni 59

Evviva i nonni! 63

Una famiglia di campagna 67

Suona ancora 71

“Lui e Lei”, due nonni speciali 74

Nell’amore uniti 77

Ninna nanna… pupa zuccherosa 80

A casa con i nonni 85

Se chiudo gli occhi 87

In casa 89

La mistica ortodossa 93

La mia fragile forte Nonna 95

– 5 –

La mia famiglia: ieri un alveare, oggi piccole cellette 99

La mia nonna 103

Diario di un’amicizia 105

C’era una volta… Il gioco di una volta 110

Insieme 113

La valigia dei ricordi 116

Nonno d’America 120

La Cappella del Nonno 124

Una famiglia matrioska. L’incrocio interetnico(e casuale) di quattro generazioni 125

I partecipanti 131

Civitas Vitae, la prima infrastruttura di coesionesociale in Italia 133

I promotori 141

– 6 –

– 7 –

Presentazioni

– 8 –

– 9 –

Ripartire dalla famiglia allargata

Giunto ormai alla quinta edizione, il nostro concorso let-terario, superato l’abbrivio, si avvia a diventare un appunta-mento di tradizione.

L’allargamento dei partner editoriali – dall’iniziale «Cor-riere del Veneto» alle testate Finegil, Athesis e a «Il Gazzetti-no» – è certamente un positivo segno del sempre più ampio coinvolgimento della società veneta, conseguito grazie alla grande sensibilità dei direttori Russello, Ramenghi, Papetti, Gervasutti e Cattaneo e dei loro Editori. Un vero lavoro di squadra che ha visto nella Presidente di Giuria Antonia Ar-slan un infaticabile motore di iniziativa e promozione, insie-me alla casa editrice Cleup, Grafica Veneta e Dante Alighieri nelle varie fasi operative.

Un ampliamento dei partner che mi pare felicemente coerente con il tema di quest’anno: racconti che parlano di “famiglie allargate”, un concetto oggi consueto che qui però ci è piaciuto declinare secondo una diversa ma antica pro-spettiva, che affonda le radici nella tradizione veneta della famiglia, dove spesso si trovavano a convivere sotto il me-desimo tetto diverse generazioni, dai neonati fino ai nonni e perfino ai bisnonni.

Famiglie che erano dei veri e propri “incubatori” di so-cietà e rapporti sociali; famiglie come “contesti” in cui l’in-treccio intergenerazionale e la solidarietà hanno permesso la nascita e il cementarsi di valori e relazioni solide, basate su scambi reali, rifuggendo le deliranti logiche di quella vir-tualizzazione anche economica che ci ha fatto precipitare in questa durissima crisi.

Ritrovare unità e coesione rappresenta quindi la chiave di questi nostri giorni, ripartendo proprio dal nucleo fami-

– 10 –

liare, prima cellula di civiltà. Una coesione la cui preziosità risulta pienamente compresa solo nel momento in cui viene meno, quando cioè una logica basata su separatezze e spe-cializzazioni (dei mestieri, del numero, della performance, degli ambiti, dei protocolli ecc.) ha spazzato via anni di tes-suto sociale intrinsecamente relazionale, sul quale era stato costruito, da tutti, un territorio florido, sano e accogliente.

Urge un cambiamento radicale, fondato su coesione so-ciale, sussidiarietà, intergenerazionalità, ossia sul recupero della capacità collettiva di raggiungere obiettivi comuni, ri-portando nella prassi quotidiana quelle antiche abitudini di cooperazione e collaborazione oggi paradossalmente matri-ci di molti successi di intraprese innovative (basti pensare al valore della conoscenza collettiva sviluppato da un’iniziativa quale wikipedia) mentre sostanzialmente purtroppo disatte-se, annegate in egoismi e particolarismi sterili.

Un ritorno ai “fondamentali” che non intende restare a crogiolarsi nel rimpianto del mondo passato ma che invece significa avere fiducia e visione del futuro, operando lungo una prospettiva che è nelle nostre mani, specie quando l’im-pegno dell’Io riesce a farsi Noi.

In questa logica è cruciale il ruolo dei longevi come ri-sorsa, in quanto portatori di esperienze (hanno superato una guerra mondiale!) e di saperi da trasmettere alle sempre più rassegnate giovani generazioni convinte che la realtà non si possa modificare e riprogettare: i longevi sono qui a dimo-strare che le difficoltà si possono, si debbano superare; che il mondo si può, si deve cambiare. E magari anche rapidamen-te, soprattutto se tutti partecipano, nelle differenze di ruoli e responsabilità, da protagonisti per il Bene Comune.

Non è una ripartenza facile, ma è in questa direzione che da anni la Fondazione OIC insieme alla schiera di crescen-ti sostenitori si è fatta parte attiva, costruendo un percorso che inizia con la storica esperienza di assistenza alle persone longeve per arrivare ad occuparsi di tutte le persone in situa-zione di fragilità, sia dovuta ad accadimenti esterni (il mondo della disabilità) sia connessa alla fase iniziale della vita (la prima infanzia).

– 11 –

In questa logica, con inesorabile concretezza, la Fonda-zione OIC ha voluto realizzare nel tempo una vera e propria palestra, un laboratorio sociale da mettere a disposizione del territorio veneto, un contesto per esercitarsi e allenarsi, a partire dalle più giovani generazioni, a vivere e crescere in armonia di inclusione, sussidiarietà e solidarietà.

Ecco la narrazione del Civitas Vitae (brevemente illustra-ta nelle pagine finali di questo libro), vera e propria “infra-struttura di coesione sociale” aperta e vitale perché gene-rata da quell’agire donativo che, unendo, riesce sempre a ridare slancio ed energia per progredire.

Angelo FerroPresidente Fondazione

OIC Onlus

– 12 –

Di nonno in nonna, le belle storie della nostra infanzia

Quest’anno l’argomento proposto è stato davvero sen-tito, e il “raccolto” abbondante e valido. A casa coi nonni. Storie di famiglie “allargate” fra le generazioni è un tema molto bello e soprattutto stimolante, che ha parlato al cuore e alla mente di molti.

Poco sentimentalismo, molta concretezza e fedeltà di ricordi, che ci hanno messo davanti agli occhi e all’immagi-nazione vividi quadri di ieri e di oggi, famiglione numerose in cui ognuno aveva il suo posto, caratteri scolpiti di personag-gi indimenticabili. Ma anche belle storie contemporanee, di padri e madri affaccendatissimi, e di nonni che trovano nella cura dei nipoti una nuova giovinezza.

Non è stato facile scegliere i racconti da pubblicare: mol-ti autori si sono espressi con vigore e vivacità, da punti di vi-sta diversi, affascinanti e complementari, che hanno tessuto davanti ai nostri occhi di lettori incantati un panorama ricco e variegato di memorie, di condivisione, di dolori e piccole gioie, di momenti di felicità.

Tanti hanno ripercorso con semplicità e precisione le loro storie di vita, le loro memorie famigliari, gli ambienti, gli usi, i riti, la fede semplice della loro infanzia. Altri hanno legato l’ieri all’oggi, descrivendo vicende, episodi, fatti che dimostrano la sintonia profonda, anche se spesso non evi-dente o addirittura dissimulata, che ancora lega le genera-zioni, al di là di ogni apparente contrasto: spesso sul filo di un’ironia affettuosa e partecipe.

Quasi mi pareva, a volte, di sentire le voci dei nostri an-tichi: non dissonanti, non cacofoniche, ma armoniosamente legate alla natura, alla terra, al lento inesorabile scorrere del tempo.

– 13 –

Troviamo allora qui, in questo libretto leggibilissimo e delizioso, nonni saggi e nonni estrosi, gentili nonni taciturni e bonarie nonne generalesse, che reggevano il timone delle loro famiglie in epoche di fame, di tempesta e di guerra; e poi nonne sprint, nonne mistiche e nonne express, di cam-pagna e di città: ma sempre al divertimento si accompagna una sottile nostalgia, pervasa dall’onnipresente sensazione che c’è molto da imparare, da queste storie.

Riannodare il tessuto dello “stare insieme” con uno sco-po, della sopportazione reciproca e della condivisione frater-na; riacquistare il senso del costruire insieme un vivere in cui nessuno è inutile, utilizzando il passato per rendere vivibile il futuro: questa è la scommessa – faticosa ma eccitante – che questo piccolo libro vuole persuaderci a tentare.

Antonia Arslan

Presidente della Giuria

– 14 –

A casa con i nonni, un’antologia di ricordi

Con la partecipazione della Stampa e di un’editoria il-luminata, la Fondazione Opera Immacolata Concezione ha avviato un originale processo di alfabetizzazione civile (qua-si un surrogato inedito degli esami di riparazione a settem-bre…) che si rinnova ad ogni equinozio d’autunno, grazie alla partecipazione corale di uomini (e donne!) di buona volontà che, sempre più numerosi, affiancano l’attività meritoria de-gli operatori dell’OIC. Intitolato A casa con i nonni. Storie di famiglie allargate… tra le generazioni, il piccolo volume, alle-gato oggi ai nostri quotidiani, si presenta come un’antologia familiare fatta di ricordi, di abitudini mutuate dai genitori, dedotte dalle testimonianze di nonni e parenti anziani o dal-la consuetudine domestica con personaggi autorevoli. E rap-presenta una sorgente di documenti spontanei a cui attinge-re per riconoscere, confrontare e definire la nostra e l’altrui identità. È una sommessa epopea che ci racconta come, fin da bambini, apprendiamo dai maggiori di età a rispettare il prossimo, la natura, il mondo che ci circonda; e come spe-rimentiamo l’assurdità tragica della guerra, l’emigrazione verso terre lontane, il gusto della libertà, la gioia e il peso di scelte difficili, di promesse, di impegni che durano una vita: come diventare missionari in Africa, medici, maestri, ope-rai… come si diventa adulti a propria volta, testimoni di una continuità confidente e familiare. In queste pagine si ritrova-no le tradizioni e la cultura di un popolo, attraverso cui si rin-nova, quotidianamente, la Storia più vera: nell’intimità della famiglia o tra le mura di comunità accoglienti, dove il dolore, le mille peripezie, le fatali disuguaglianze tra gli individui rie-

– 15 –

scono ad essere assimilate e integrate con fraterna buona volontà in una convivenza pacifica e civile. Oggi una cronaca omologata tende a contrapporre categorie e gruppi sociali, generi e genti di diversa provenienza; la stessa azione poli-tica, se da un lato risulta incapace di istituire un confronto aperto tra le sempre più numerose realtà pubbliche o priva-te in gioco, dall’altro induce ad un livellamento culturale che scarta ogni diversità – a prima vista antieconomica – a favore di una globalizzazione generica, in teoria più conveniente. Con naturale semplicità, questi brevi diari raccolti dall’OIC fanno invece emergere dal nostro passato occasioni irripeti-bili, in cui l’esperienza e la saggezza delle generazioni prece-denti si fanno guida e traccia esemplare per le generazioni successive, proponendo ai lettori, e non solo ai più giovani, una ri-formazione di base e una visione del mondo che per-mette di progettare entro coordinate valide in ambiti diversi, gli orizzonti politici del nostro futuro. Il rimedio, ci suggerisce Angelo Ferro – economista e imprenditore di successo, saldo nella sua fede profonda e trascinante in Dio e nel prossimo – non può che essere naturale. La natura umana ha, infatti, una sua organica funzionalità nel saldare le generazioni l’una con l’altra, in una logica universale d’insieme che ricompone in una continuità politica, oltre che sociale e familiare, la di-cotomia tra giovani ed anziani, in realtà artificiale e, a vario scopo, spesso strumentalizzata. E favorisce l’evoluzione e il progresso sociale attraverso l’accumulo, nella memoria con-divisa, di esperienze significative trasmesse dal linguaggio, raccolte dai libri.

È nella condivisione dei nostri “ricordi” che si procede a costruire insieme un mondo solidale e migliore e si diven-ta artefici del proprio destino. Perché il tempo misurato dai nostri ricordi – diverso da quello astronomico, infinitamente lontano, o da quello meccanico prodotto da congegni elet-tronici – diventa il patrimonio inalienabile di ciascuno di noi: è il nostro tempo, scandito dalla nostra personale buona volontà, dal nostro impegno nel commisurarlo con il tempo degli altri. Non è più il tempo della necessità, ma diventa il

– 16 –

tempo della libertà, che illumina ogni nostra singola scelta, che ci fa responsabili dei nostri fratelli, della loro e nostra vita in comune.

Ecco quanto ci ricorda questo aureo libretto... Buona lettura e un autunno sereno, per tutti.

Luisa Scimemi di San Bonifacio

Presidente emerita Società Dante Alighieri – Comitato di Padova

– 17 –

Abbiamo bisogno di un nuovo Umanesimo

Da genitore e comunicatore, recentemente, mi ha col-pito l’esito di uno studio che indagava i limiti delle parole e dei linguaggi degli adulti rispetto alla soglia di attenzione dei bambini e degli stessi adolescenti, quantificata – tenetevi forte – in tredici secondi. Ho quindi pensato a quanto ridotte siano, pur nella media del dato percentuale, le mie chance nei confronti di almeno un paio di generazioni di interlocu-tori e rafforzato la mia convinzione. In quei mondi si entra, oltre che con la forza dell’amore, con un “metodo” fatto di tecnica seduttiva, di sensibilità affabulatoria, di empatia non solo programatica. E ho pensato che pur trattandosi di doti rare e poco frequentate, tutto il mondo compreso nel rischio del termine “adultismo” dovrebbe chiedersi se non sia il caso di fare uno sforzo – scuola in testa – ragionando sulla supremazia dell’autorevolezza e della lateralità rispetto al comodo salvacondotto dell’“autoritarismo”.

Ma c’è un ragionamento rovescio che si impone ed è la soglia di disattenzione – immaginabile ma non sondata – che hanno le tribù del mondo giovanile e “giovanilista” nei con-fronti di quel patrimonio di meraviglie e di “esperienza” che hanno i cosiddetti “longevi”, categoria che detterà l’agenda di una rivoluzione già in atto ma per il momento in-visibile se non alle avanguardie politiche, sociali ed economiche. Una disattenzione che ha il proprio limite nell’esclusiva frequen-tazione fisica e culturale di un mondo di “coetanei” che pur nell’allargamento e nella trasversalità della platea anagrafica (dai trentenni ai cinquantenni gli stili di vita sono quasi iden-tici) ha portato quasi a termine il processo di sfaldamento che – originato e consolidato dal modello economico – ha frantumato la famiglia patriarcale nella famiglia mononuclea

– 18 –

re e in un mondo fatto sempre più di single. Con tutto il bene e tutto il male che ciò ha comportato.

Si badi, l’“esperienza” non è quel sostantivo reso qua-si neutro se non odioso dal peso dell’“autorità” che arriva dal passato. Il “fare esperienza” va riscoperto come unità di misura del mettersi in gioco, nel “rischiare la vita” per non farne morire il senso e le sue forme creative, produttive, cul-turali. Per capirci, non dobbiamo mandare i giovani in guerra per “esperire” ciò che è l’esperienza della guerra ma il carico di (dis)umanità che singolarmente e collettivamente si è pro-dotto in un’epoca. Potremmo dire – ancor più chiaramente – la stessa cosa per la “manualità”, per quella meraviglia dei processi e segreti che stanno dentro il prodotto e la mate-ria ed è l’esperienza della scienza, della tecnica, del Pil di un Veneto che ha costruito in modo “duro e puro” la sua eco-nomia.

Per questo il costante lavoro di ri-progettazione di una civiltà di valori che sta a cuore all’Oic e che quest’anno si muove sulla sfida della famiglia allargata e dell’intreccio ge-nerazionale, punta al massimo del bersaglio quando pone il problema del contesto, della comunità, dell’orizzontalità delle parole e delle emozioni, delle microstorie personali che fanno i destini del macro, della reciprocità dell’ascolto in una società, spesso, di storie che suonano sorde.

La crescita in termini percentuali della generazione an-ziana (longeva, corregge da anni il lessico l’Oic) è destinata a correggere antropologicamente la nostra civiltà e ci regala una sorpresa: è più contemporanea di quanto non lo siano i soggetti deputati a vivere la contemporaneità declinata nelle nuove eventuali “esperienze”. Contemporanea, ad esempio, con la saggezza della “fatica”, che non è quella atavica e bru-tale della civiltà contadina – gravata dal giogo di una natura non sempre generosa e da sistemi di potere che la vedevano sottomessa e calpestata – ma è la fatica creativa che sotten-de ad ogni progetto, pulsione, idea, missione, passione.

Allora, bisogna rendere non “coetanee” ma “contempo-ranee” le nuove forme di aggregazione, a partire da quelle familiari. Forme nuove e aperte. Che contengano gli affetti e le sfide, le crisi e le ripartenze. Non prigioni, ma “contesti”,

– 19 –

come direbbe il professor Angelo Ferro. Anche architettonici e urbani, legati, oltre che alla socialità, alla funzionalità e al welfare, alla nuova geografia economica, culturale e senti-mentale. Non la riproposizione – peraltro impossibile – di modelli patriarcali (peraltro sotto certi aspetti da rimpiange-re), ma libere e basiche “comunità” dove la gerarchia è data da un neoumanesimo che arricchisce le persone portando nella case quel cumulo di esperienze personali e collettive e quella contaminazione di saperi di cui si parlava.

Non è uno scherzo da poco. In ballo c’è la nascita di una nuova civiltà. Forse più sostenibile. In tutti i sensi.

Alessandro Russello

Direttore «Corriere del Veneto»

– 20 –

Un nonno non si improvvisa

Un nonno non si improvvisa: infatti per farne uno ci vo-gliono anni”. Ci sono battute che, nella loro semplicità, hanno la capacità di strappare un sorriso, ma anche di sollecitare una riflessione. È il caso di questo acuto aforisma che porta la firma di un comico televisivo di qualche anno fa: Pino Caruso.

Perchè è proprio così: i nonni in una famiglia e nella nostra società non posssono essere solo una presenza per quanto importante. Sono anche e soprattutto un risorsa. Forgiata dal tempo, dall’esperienza, dalle gioie e dai dolori. Anzi, tanto più il mondo corre, si sviluppa, cambia e impone o sugge-risce nuovi modelli di vita e di comportamento alle nuove generazioni, tanto più il valore di questa risorsa aumenta. E proprio nella sua ragione sociale prima: cioè quella di nonno con la N maiuscola, ossia nella sua relazione con i nipoti. Di cui non può e non deve diventare un “genitore” di scorta o un semplice difensore. Ma di cui può essere invece, come ha ben scritto Angelo Ferro nell’introduzione al volume della quarta edizione di questo bel concorso, un produttivo ed originale “motore di ricerca”. Un’opportunità e insieme uno strumento, non imposto ma messo a disposizione dei propri nipoti per aiutarli, mentre crescono, ad addentrarsi nel mondo. Non solo per capirlo meglio o per affrontarlo con minori difficoltà. Ma, innanzitutto, per conoscerlo anche da angolature diverse. Insomma il nonno come presenza non solo rassicurante, ma anche stimolante. Di chi è capace di dare riposte, ma, nel contempo, di suscitare domande, curiosità, anche dubbi se necessario. Con la naturalezza che solo l’esperienza di una vita e le speciali relazioni che si creano dentro una famiglia possono regalare.

– 21 –

A ben guardare è proprio questo il filo rosso che unisce le esperienze raccontate in questo istruttivo e originale libro: i nonni come valore aggiunto. Come motore di crescita per le nuove generazioni. Un motore ben rodato, naturalmente. Per-chè, come si diceva all’inizio, un nonno non si improvvisa.

Roberto Papetti

Direttore «Il Gazzettino»

– 22 –

Due nonne straordinarie

Non sono ancora nonno, anche se per gli anni che porto potrei già esserlo, ma spero prima o poi di diventarlo. Un mestiere che non ho potuto apprendere dai miei nonni ma-schi che non ho conosciuto perché se ne sono andati, assai giovani, prima che io arrivassi.

In compenso ho avuto due nonne straordinarie. Una bella grande e grossa, Teresa: una donnona energica che ge-stiva in paese il deposito delle biciclette, una sorta di gara-ge per chi arrivava sulle due ruote dove nonna le custodiva per poche ore o per un giorno intero (vien da dire che oggi di questi depositi ce ne sarebbe bisogno come allora e for-se più, visti i continui furti di bici). Erano tantissime quelle che arrivavano dalla campagna e dai paesi vicini, da uomo e da donna, e ogni tanto riuscivo a farmi un giretto (la bici all’epoca era per noi ancora un lusso), profittando di qualche distrazione della nonna e scegliendomi quelle da donna che riuscivo a guidare meglio stando solo sui pedaIi, al sellino non arrivavo ancora. Al rientro poi dovevo schivare con abi-lità la mano tesa di nonna nella sculacciata.

L’altra nonna, che si chiamava anche lei Teresa, era piccolina, e fu sempre chiamata ‘Teresina’, per distinguerla dall’altra. Era la mamma di mio padre, e nonostante la picco-la stazza era una donna di una forza, di una tempra e di una fede granitiche. Capace di tirar su cinque figli, tre femmine e due maschi da sola, dopo la morte giovanissima del nonno. Il quale doveva essere davvero un bel tipo. E lo dico perché io sono uguale a lui, tanto uguale che nella visita periodica al cimitero quando andavo a trovarlo, giunto ai trent’anni nell’epoca in cui portavo i baffi proprio come il nonno nella

– 23 –

foto della lapide, mi prese un sussulto: in quella foto di mar-mo mi specchiavo come nello specchio di casa. E mi preoc-cupai pure: non è che anch’io, arrivato a quell’età, ero giunto al mio capolinea?

Fortunatamente non è stato così. E ho potuto continua-re a godere dell’affetto, dei rimproveri, dei complimenti per i voti a scuola, e di tutte le altre cose di cui sono capaci le nonne, compresi i mille rosari che Teresina recitava per tutto il parentado. Teresa e Teresina, a differenza dei mariti, se ne sono andate già avanti con gli anni, nonostante le mille diffi-coltà affrontate nella vita perché oltre a restare vedove assai presto ebbero entrambe la casa distrutta dalla guerra, ma entrambe seppero ricominciare.

La mia esperienza di famiglia allargata, seppur solo nella parte femminile, mi ha insegnato molte cose. Ma una so-prattutto: la voglia di ricominciare anche dopo le disgrazie, anche dopo gli insuccessi, anche dopo i momenti di scon-forto quando tutto ti sembra cadere addosso. Dalle nonne, e poi da mamma e papà, il ritornello che mi sono sentito ri-petere spesso era che bisogna combattere ‘le belle battaglie della vita’ senza mai arrendersi.

Da loro ho avuto sempre sostegno e sprone, con quella diversità di toni, di sensibilità e di visione rispetto a quel che sono e fanno i genitori e che completa l’educazione famiglia-re che resta ancora oggi, nonostante le difficoltà, la prima vera grande risorsa della nostra società.

Antonio RamenghiDirettore «il mattino di Padova»

«la tribuna di Treviso»«La Nuova di Venezia e Mestre»

«Corriere delle Alpi»

– 24 –

Anziano, una parola da maneggiare con cura

Ricordo il giorno in cui scoprii che gli anziani hanno un’età. Prima di quel giorno, tutti coloro che erano nati pri-ma di me, anche di un solo anno, erano "più vecchi"; e tanto bastava per catalogarli in una sezione della vita che per un ventottenne era allo stesso tempo ampia e vaga. Quel giorno di autunno del 1990 il caporedattore de «il Giornale», il bur-bero e minuzioso Michele Sarcina, mi chiamò in tipografia perché voleva parlarmi di un articolo che avevo appena con-segnato. Prevedendo rimbrotti (i complimenti, se del caso, erano considerati una perdita di tempo e quindi Michele non mi avrebbe mai convocato per farmeli) mentre scendevo le scale rilessi la copia di quanto avevo scritto, cercando possi-bili refusi o errori, o mancanze sempre possibili anche in un banale articolo di cronaca. Niente, non c’era nulla che saltas-se all’occhio.

«Vieni, vieni», disse Michele con la voce arrochita dal-le sigarette che all’epoca ammorbavano gli uffici: «Guarda qui cos’hai scritto». Lessi a voce alta il punto incriminato: «... l’anziana è stata raggiunta dai soccorritori mentre...». «Quanti anni ha la signora?», mi interruppe Michele. «L’ho scritto due righe più su: ne ha 79», risposi convinto di aver parato il colpo e pensando che fosse una questione di preci-sione nei dettagli. «E secondo te è anziana?», mi fulminò il caporedattore. Silenzio imbarazzato da parte mia: evidente-mente c’era qualcosa che mi sfuggiva, o quantomeno c’era qualcosa a cui non avevo mai fatto caso prima.

La spiegazione di Michele fu illuminante: «Sappi che in questo giornale vale una regola: può essere definito anziano solo chi ha almeno un anno in più del direttore». Sollevai la

– 25 –

testa verso due postazioni più in là, e vidi il direttore – Indro Montanelli – chino come ogni sera sulla bozza della prima pagina che stava prendendo forma: aveva già superato gli ottanta anni, e per altri undici avrebbe rappresentato un faro per chi fa il mestiere di giornalista. Non so se la regola fosse stata imposta da Montanelli stesso, o se fosse un moto spontaneo di rispetto da parte dei suoi "ragazzi". So però che da quel giorno ogni volta che ho scritto la parola "anzia-no", o ho usato il termine "vecchio", l’ho fatto mettendomi nei panni di chi legge e non di chi scrive. E ho capito che tutto, anche l’età, è relativo. Si può essere vecchi a vent’anni, e giovani a ottanta: conta ciò che si è, ciò che si dà, ciò che si rappresenta. Conta godere il più possibile dell’esperienza e della storia che ogni "vecchio" ha accumulato e che è in grado di trasmettere a chi viene dopo. Conta l’esempio.

Ario GervasuttiDirettore «Il Giornale di Vicenza»

– 26 –

Verso un’epoca di super-nonni

Una volta c’erano i nonni. Oggi ci sono i «super-nonni». I primi, quelli dell’Italia socialmente un po’ sonnacchiosa del secolo scorso erano ben riconoscibili: dolci con i nipoti e comprensivi anche verso il resto della famiglia. Ma dicia-molo: anche un po’ borbottoni e sovente fuori dal tempo, incapaci di interpretare appieno i cambiamenti della socie-tà. A loro toccava qualche ora di piacevole corvè coi nipoti. Punto.

Poi in due decenni la società è cambiata. Il finimondo della globalizzazione, i repentini mutamenti sociali, culturali ed economici hanno minato a fondo (non solo nelle metro-poli ma anche nei piccoli paesi) il modello di famiglia tradi-zionale. Infine è arrivata la grande crisi economica che ancor di più ha costretto le famiglie sulla via obbligata del cercar la-voro anche lontano da casa, dei due stipendi per arrivare alla fine del mese, della forsennata e spesso impossibile rincorsa nel coniugare impegni di lavoro con gli affetti e l’educazione dei figli.

Così in quest’Italia in affanno e che sembra aver sacri-ficato i propri valori nel rincorrere l’effimero mito del gio-vanilismo, del consumo e del successo a tutti i costi, ecco spuntare centrale le figure del “super-nonno” e della “super-nonna”.

Loro del vecchio nonno stile 1900 mantengono la gen-tilezza dell’approccio e la saggezza del consiglio, ma in più devono tener unita la famiglia, sopperire alle assenze, e so-stenere anche in senso economico “la tribù”. Tempo di bor-bottare non ce n’è. Passare il tempo su una bella panchina all’ombra? Neanche a parlarne. Trovarsi al bar con gli amici o per il the con le amiche? Ma scherziamo? Vedere nei figli

– 27 –

“il bastone della vecchiaia”? Tutto il contrario. I supernonni ormai hanno un’agenda più fitta di un manager. Oltre che aprire il portafoglio devono diventare “tecnologici” per col-legarsi via web a nipoti, figli e nuore. Devono conoscere gli orari dell’oratorio e dei corsi di nuoto ma anche il fuso orario di Sidney e come funziona Skype. Non solo: i nonni si devono leggere i manuali di psicologia di coppia e di comportamento adolescenziale per tentare di smorzare conflitti domestici e crisi giovanili.

Al di là delle battute, in quest’Europa che guarda con speranze di progresso al nuovo millennio ci si rende sempre più conto che non si può fare a meno dell’esperienza, del conforto e del ruolo attivo della terza età. E che sia una fiaba letta a bassa voce a un nipote o un messaggio sul telefonino ai figli, è dietro quei sorrisi che si scopre, nel caos, un briciolo di serenità.

Maurizio CattaneoDirettore «L’Arena»

– 28 –

La famiglia intergenerazionale paradigma anche per l’azienda

È sempre un piacere e una sfida essere partner del con-corso letterario promosso dalla Fondazione OIC. Negli anni ho visto crescere la partecipazione dei concorrenti ed il recente coinvolgimento di tutti i quotidiani locali veneti è un’ulteriore testimonianza positiva.

Il tema di quest’anno è particolarmente calzante sia con la realtà attuale sia con lo specifico dell’azienda e della mia in particolare. Ho sempre pensato che la famiglia, soprattutto se intergenerazionale, sia un asset fondamentale per la società e per il suo sistema economico. Un eccellente paradigma da copiare e adattare anche in contesti produttivi.

Come nella famiglia si trasferiscono naturalmente e nel tempo i diversi saperi (dall’elementare camminare fino alla complessa etica personale e anche ad alcune competenze specifiche utili nel mondo del lavoro), anche in azienda si dovrebbe riuscire a creare un giusto mix di persone di di-versa età, dove l’esperienza, la prudenza e l’equilibrio del più anziano trova bilanciamento nella naturale innovatività e sperimentalità del più giovane, riuscendo così a realizzare prodotti coerenti con le richieste del mercato.

Mai come in questo momento di crisi il ri-porre al cen-tro la famiglia mi pare un passaggio necessario e opportuno per tutti, ma non certo la sua valenza di “ente assistenziale” quanto per il suo poter essere un trampolino di lancio verso il mondo.

Tutte le famiglie prima o poi si trovano ad affrontare di-verse sfide (economiche ma anche di rapporti, certo le più dif-ficili da risolvere); solo però le famiglie “solide”, che riescono a stare unite, facendo tesoro dell’esperienza trasmessa dalle persone anziane creando un vero spirito di condivisione ed aiuto, riescono a superare indenni le difficoltà.

– 29 –

Ho fiducia che questo ripartire dai “fondamentali” cioè dalla famiglia come cellula base della società possa essere positivamente applicato non solo al mondo dell’impresa ma anche all’intera comunità di questo Paese: questa, e solo questa, può essere la strada per ripartire. Insieme. Uomini e donne, giovani ed anziani.

Fabio FranceschiPresidente Grafica Veneta Spa

– 30 –

Anche noi... una famiglia allargata

Quest’anno Cleup compie cinquanta anni. È una bella età per una casa editrice che, nata nel 1962 con il fine di agevolare gli studi universitari e professionali, ha saputo nel tempo mantenere i suoi principi, aderendo in pieno alla sua filosofia: Università e Territorio per Cultura.

Non saremmo qui, ancora una volta tra i promotori di questa iniziativa ideata e fortemente voluta dall’amico An-gelo Ferro, se anche noi, come i tanti “nonni” che possiamo leggere in questa raccolta, che si raccontano o sono raccon-tati da figli e nipoti, non avessimo avuto la convinzione che non è mai finito il tempo di progettare e riprogettarsi, per-ché la vita ci consegna sempre uno spazio per cambiare. E lo spazio per cambiare è nutrito dalla nostra esperienza e da quella maturata in uno scambio aperto e profittevole che solo una “famiglia allargata” può sostenere e garantire, sia nelle relazioni parentali sia nelle relazioni che si instaurano nell’ambito lavorativo, entrambe in continuo mutamento.

Di questa evoluzione dovremo saper cogliere l’opportu-nità, specialmente in questo momento storico ed economi-co, facendo tesoro dell’esperienza dei “nonni” senza trala-sciare la voglia di cambiamento e innovazione delle giovani generazioni, consapevoli che la nostra “apertura” non potrà che essere a beneficio di tutti. Questo libro ne è la testimo-nianza e l’augurio per iniziative future.

Ambrogio FassinaPresidente Cleup

– 31 –

Racconti & Poesie

– 32 –

– 33 –

Nonna e bisnonna

di Milena Bartolomei

“C’era una volta…”, iniziavano così le favole che le non-ne raccontavano ai nipotini.

Ma la mia nonna no: nonna Fanny era speciale: grande lettrice mi raccontava le storie dei romanzi famosi, e appas-sionata di lirica e cinema adattava trame di film e di opere che poi raccontava a me bambina.

Mi piacevano anche le storie della famiglia di nonna Fan-ny: zii garibaldini (lei era nata nel 1882 proprio quando morì Garibaldi), patrioti mazziniani, ma la storia che più mi piac-que fu quella della sua mamma, la bisnonna Rosa, che poi avrei conosciuto perché ospite da noi per un po’ di tempo.

Era figlia unica di un signore di campagna toscana, be-nestante, notaio e giovanissima si era innamorata di un ra-gazzo di una famiglia malvista dal padre, che rimasto vedovo con la bimba piccola, si sentiva più che mai responsabile, e a quei tempi poi...

I due ragazzi si vedevano di nascosto e con la complicità di una governante addirittura si incontrarono in una casetta di campagna.

Le famiglie lo vennero a sapere: il ragazzo fu spedito in un’altra città, la piccola Rosa fu chiusa in casa, ormai bollata come donna perduta…

Di matrimonio non se ne parlava, e chi mai avrebbe pre-so in moglie una ragazza che si era così compromessa? Ma qualche anno dopo capitò in paese un giovanotto intrapren-dente e spregiudicato, che sentita la storia si fece avanti.

Era un orologiaio con una piccola bottega in un paese vicino e aveva avuto un incarico importante nel circondario:

– 34 –

regolare gli orologi dei campanili di tutte le chiese, per cui ogni tanto faceva il giro dei paesi.

Ambizioso, pensò che potesse essere una buona occasione.

Si presentò al notaio e si accordarono: il giovanotto spo-sava la ragazza e in cambio avrebbe avuto una buona dote, metà al matrimonio, l’altra metà come si dice... “a babbo morto”.

I due si sposarono e andarono ad abitare nel paese dell’orologiaio, che subito ingrandì la bottega e la fece diven-tare una bella oreficeria. Ma le cose in famiglia non anda-vano e peggiorarono ancora di più quando, morto il babbo di Rosa, ci si accorse che il resto del patrimonio era svanito: il vecchio si era illuso che nella sua campagna ci fosse del petrolio o del carbone e si incaponì con scavi facendo addi-rittura arrivare esperti dall’estero e ipotecando tutto quello che aveva.

Il marito di Rosa, che poi era il bisnonno Eugenio, si sentì imbrogliato e poco dopo nonostante avessero due bambine, impose alla moglie di andarsene.

La poverina, disperata ma non arresa, andò ospite con le bimbe all’inizio da una lontana cugina, poi si occupò come governante presso un signore vedovo con due bimbe.

La cosa funzionò così bene che i due si innamorarono (non si potevano sposare, nonno Eugenio era vispo e vege-to e visse fin verso i novant’anni!) ma si amarono profonda-mente e vissero felici insieme fino alla morte di lui, per oltre quarant’anni, con le bimbe che, diventate grandi, si sposa-rono tutte felicemente. Rosa e Napoleone (così si chiama-va il compagno) ebbero un nugolo di nipoti da una parte e dall’altra, che rallegrarono la loro vecchiaia. Era una grande famiglia e ricordarla mi rende felice.

C’era una volta, ma è ancora nei nostri cuori di bisnipoti.

– 35 –

Tempi lontani

di Maria Grazia Bresolato

In tempi lontani, ma forse non troppi, 35… il ricordo è così nitido e pieno di colori e gioie. Ricordo ancora quella poltrona verde, era là che sedeva la mia dolce e cara nonna “Gilda”, lei era là, e io sulle sue gambe gonfie sedevo, per sentirmi rassicurata, per giocare, e perché lei era così rassi-curante. Poi arrivava il nonno “Giggio” che aveva l’aria seria… e quanto brontolava il nonno. E poi c’era anche la zia Nata-lina! La mitica! Eh sì! Eravamo una bella famiglia allargata, mamma, papà, io e mio fratello e poi nonno, nonna, e zia… Ogni giorno pranzo e cena, eravamo una bella tavolata, tutti avevamo qualcosa da raccontare, storie di vita quotidiana, il nonno poi raccontava sempre di quando fu prigioniero in India per sette anni, e ricordo sempre quando spiegava di come gli inglesi gli avevano insegnato a lavarsi i denti e di quante patate sbucciavano… quintali. Tornò a casa che non lo riconoscevano! Nonna “Gilda” mancò che avevo sei anni, era giovane e un brutto male se la portò via, non lo dimenti-cherò mai quel periodo.

Rimase nonno “Giggio” e la zia “Natalina”! Le comiche! Due fratelli che ogni giorno se ne dicevano, diciamo che

si sopportavano!La zia Natalina era “signorina”, ai tempi nostri “sin-

gle”; all’epoca, figuriamoci, era da sposare e quindi la zi-tella di casa. La zia invece era molto più avanti di quanto si pensasse.

Tutte le generazioni della mia famiglia hanno condiviso la camera con lei, non avendo figli suoi, da mia nonna prima

– 36 –

che si sposasse, a mio zio, a due nipoti, e per ultima io. Fino a diciassette anni ricordo quando rientravo la sera, e magari era tardi, entravo piano, e lei con il suo fotoromanzo prefe-rito sulle gambe, occhiali sotto il naso, retina sulla testa per non scompigliarsi riusciva a dirmi sei qui “bambin mio” e mi dava una caramella, era una seconda mamma, era speciale.

Passa il tempo, il nonno nell’orto a coltivare l’insalata, diventato ormai bisnonno, e la zia che con la sua bicicletta andava ovunque era là con la sedia a rotelle, le gambe l’ave-vano tradita, ma era così bella, la mia zia.

Comunque sia riuscivamo a essere una famiglia allar-gata, e le gran tavolate erano alla domenica ormai, ma che bello!

Nonno è mancato cinque anni fa e la zia due anni fa.Un vuoto assoluto, tutto parla di loro, i ricordi sono

ovunque, i valori che mi hanno trasferito, un bagaglio di vita vissuta, tutto l’amore trasmesso, quello per cui mi ha indirizzato a fare questo lavoro (operatrice) proprio con gli anziani.

Un lavoro dove la vita acquista una sua dimensione, dove quando sto con gli anziani, rivedo il mio passato, ma anche presente e futuro e lo dedico a loro, ai miei cari e a quella famiglia allargata che ora è oic.

– 37 –

A casa coi nonni

di Sandra Conte

È una giornata di pioggia… sono con i miei nipotini… non possiamo uscire… D’un tratto… «Dai nonna!» mi chiede Mher, «raccontaci una delle tue storielle!».

«Va bene, ragazzi, datemi l’INPUT!»L’input è una parola magica per noi: significa che dal

mio subconscio affioreranno ricordi e sentito-dire sulla mia famiglia; io li racconto ai nipoti, arricchendoli ogni volta di piccole varianti, per attirare la loro attenzione…!

Per Hakob, appassionato di aerei, l’input è: nonno Dodi-pilota.

Per Mher, che è un tipo scherzoso, l’input è: topo-indiano.

Per Yuri e Thomas, i due più piccoli, l’input è: nonno Dodi in Argentina.

Comincio con l’accontentare Mher (gli altri tre però brontolano…)

… Anni fa, eravamo in India, nei pressi di Calcutta, che è una città poverissima, dove molte persone non hanno una casa e sono costrette a vivere per strada; dovete sapere, cari ragazzi, che il nonno e io, abbiamo dormito in un albergo, a dir poco, primitivo… e… come se non bastasse, di notte ab-biamo sentito un rumore sospetto…

Cosa sarà? … accendiamo la luce… non vediamo nulla di strano… o forse sì … il pacchetto di crackers sul tavolino è un po’ spostato e rosicchiato… TOPI?!… il nonno si prepara con una ciabatta in mano… spegniamo la luce… di nuovo quel rumoretto strano… il nonno Dodi non ci pensa due volte…

– 38 –

va dritto al tavolino e dà una ciabattata in testa al topone! Quello sviene e… appiattito su di un foglio di giornale, lo por-tiamo alla Reception… siamo molto arrabbiati io e il nonno!

«Lo sapete che questa bestiaccia era in camera nostra?» chiediamo…

L’indiano, con faccia sconsolata (fa l’indiano!), comincia a fare il massaggio cardiaco al topo!… il topo si riprende e se ne va felice!… voi sapete perché in India può succedere questo? Perché lì rispettano tutti gli animali: c’è perfino un tempio dove portano da mangiare i topi!

Questo finale è risaputo, ma ancora una volta, Yuri, “esperto di animali”, ne rimane entusiasta ed esclama: «Quando sarò grande, andrò in India a studiare le PANTEGA-NE: lì devono essere proprio interessanti!»

Rimango, tra il perplesso e il trasognato, a prefigurar-melo, quando la vocina-peperina di Thomas mi richiama alla realtà: «E la nostra?»… «La vostra, cosa?»…

«La nostra storia?!»I due piccoli reclamano il loro turno, così passo al rac-

conto dedicato a loro…«Tanti anni fa, il nonno Dodi col suo papà (il vostro bi-

snonno Paolo) e alcuni amici viaggiavano nella PAMPA, diret-ti a Bariloche, quando… nel bel mezzo di questa landa deser-ta, scoprono che il radiatore della jeep è a secco!… di acqua in giro non ce n’è, e allora…? Allora decidono di fare tutti la PIPÌ nel radiatore! lezione di sopravviv…». Non faccio in tem-po a finire la frase, che Hakob, con aria da vittima (come al solito!) dice che lo trascuro, che non gli ho ancora raccontato di “Dodi-pilota”… così per l’ennesima volta racconto che:

«Tanto tempo fa (non erano ancora nati i vostri genito-ri), il nonno Dodi era in volo verso l’aeroporto di Udine. Non era ancora molto esperto (aveva appena iniziato un corso di addestramento per piloti, come studente universitario) e volava… volava senza riuscire a trovare la meta… a un certo punto si accorge di non avere più carburante: che fifa!

– 39 –

All’improvviso dall’alto vede una pista, allora scende in picchiata in questo piccolo aeroporto della Provvidenza per fare rifornimento!

Qui, non sono abituati ad avere tanto traffico: guarda-no perplessi questo aereo caduto dal cielo, ma alla fine gli fanno il pieno. Il nonno decolla, ma… si accorge subito che il motore non “risponde”: sembra in avaria… l’aereo sta per precipitare! Lui mantiene la calma… fa un atterraggio di for-tuna in un campo di frumento (l’aereo è di quelli leggeri, mo-noposto)… e sapete perché l’aereo non volava più?… perché, per sbaglio, gli avevano fatto un pieno di ACQUA!»

Guardo Hakob: quante volte l’ha sentita questa storia?! E non si stanca mai di ascoltarla!

Mentre parlo, torna il sole e i ragazzi vanno fuori, con-tenti, a giocare; invece io rimango in casa a riflettere: mi do-mando come mai i miei nipoti “gettonino” soprattutto questi aneddoti, anche se gliene ho raccontati molti altri.

A me da piccola, ad esempio, piaceva tanto la storiella della nonna Amalia, che non trovava più la dentiera: tutta la famiglia fu costretta a recitare i SEQUERI, finché un giorno, miracolosamente, la dentiera riapparve!

Rifletto anche su di un’altra cosa: penso che essere nonna sia più semplice che essere mamma: essere mamma è un’esperienza entusiasmante, ma secondo me, tutte le mamme, se vedono i figli in difficoltà, si chiedono se avreb-bero potuto fare di meglio e di più per loro…

Con i nipoti, invece sei più serena: non vuoi a tutti i costi indirizzarli e guidare la loro vita… ma forse, sono solo i pen-sieri di una nonna all’antica…

– 40 –

Il ricordo dei nonni per le mie sante festee l’amore del mio canto

di Oliva Dal Bo

Ricordo con piacere gli anni giovanili trascorsi a casa con i miei genitori, zii e nonni. La nostra era una famiglia allarga-ta che comprendeva più generazioni, unendo parenti diversi. Vivevamo in una casa grande con otto camere matrimoniali e altrettante stanze. C’era la stalla con venti bestie, quattro buoi da tiro, vitelli e un gran numero di vacche; tenevamo un gregge di pecore dalle quali si ricavavano la lana e il latte da cui la nonna faceva il formaggio casalingo, una vera speciali-tà! Avevamo pure molti animali da cortile, i polli, le anatre, i conigli, i tacchini, le oche e persino quattro maiali.

Trascorrevo molto tempo con i miei nonni, che erano dei contadini. Sicuramente erano delle persone speciali. La non-na era la padrona di casa, guidava la famiglia in molte cose. Faceva da mangiare, le spese varie occorrenti, ci accompa-gnava a dottrina e in chiesa, invitava tutti i parenti prepa-rando grandi pranzi nei giorni di festa. La ricordo come una brava donna di casa, alle quattro di pomeriggio ci assicurava sempre una merenda sostanziosa fatta di pane o polenta con formaggio oppure un fico secco per tutti i bambini. Il nonno era molto buono, amava molto i nipoti ed era il capo della stalla. Al mattino si alzava alle prime ore dell’alba e sistema-va le bestie nella stalla, dopodichè lavorava nei campi.

In particolare ci tengo a raccontare un’esperienza molto bella condivisa con i nonni. Si tratta della mia prima Santa Comunione e della mia Santa Cresima. Per queste grandi feste la zia mi prestava il vestito bianco con il velo che io indossavo sentendomi una regina. Poi ricordo le funzioni re-

– 41 –

ligiose, con la comunione alle sei del mattino. Ero accompa-gnata dalla mamma e dal papà, amici e conoscenti del mio paese, Fontanelle, però ci recavamo tutti a piedi nella frazio-ne di Vallonto, più vicina a casa mia. Le sante messe erano cantate, meravigliose e tutte noi bambine eravamo vestite di bianco, il colore della purezza e della luminosità, con vestiti nuovi o prestati da parenti. I miei nonni venivano a seguire le celebrazioni in chiesa e poi ricordo che parecchi giorni prima si preoccupavano di preparare al meglio i pranzi dove io ero la festeggiata, prediligendo la minestra con la carne bollita delle nostre bestie come primo, invece la carne bollita con-tornata da patate o radicchio del nostro orto come secondo. In quegli anni non ci si poteva permettere dolci o frutta, an-che se la mia madrina come regalo comprava dei “buffolà”, pasticcini deliziosi, rendendomi felicissima; erano le prime e uniche occasioni dove potevo assaggiare un dolce! Per la Santa Cresima i miei nonni ci tenevano molto a preparare il pranzo per festeggiare grandiosamente la mia giornata e tutti gli invitati potevano gustare i nostri animali, allevati in casa con tanto impegno e fatica.

Ero una ragazza felicissima, avevo la passione del canto e della musica, cantavo dal mattino fino a sera. A dieci anni andavo a pascolo con le pecorelle del nonno e perciò ero sempre in mezzo ai prati dove si spargeva ovunque la mia bella voce.

La cosa più bella che mi sento di consigliare alle nuove generazioni è il poter stare fuori all’aria aperta, in mezzo alla natura e circondarsi di cose semplici e belle che danno alle-gria come il mio canto, che non mancava mai e che mi cir-condava di calore e affetto unendomi a tutte le persone che mi conoscevano e riconoscevano per “l’usignolo che canta” com’erano soliti chiamarmi.

– 42 –

Al nonno (25.1.1920 - 27.2.2012)

di Giacomo Dalla Pietà

Le tue sorelle: la Virginia, Nice,la tua mamma ricordi e, zio, i nipoti;una Venezia povera; remotitempi chiamarli, ormai, a noi s’addice.Eppure forse non così infeliceetà; di tenerezza e affetti vuoti certo i cuori non erano; mal notiforse malizia e doppiezza. Felicemi appari mentre con mesto trasportone parli, e sei in quel tempo più che in questo,a tuo agio, sempre in quel passato assorto.Albeggia sul canale il sole. Eretto,come già da ragazzo, molto prestola gondola ora guidi, e ridi schietto.

– 43 –

Le forti radici della famigliaUn insegnamento dal passato al futuro

di Matilde Esposito

Introduzione

Mi chiamo Matilde Esposito, ho undici anni e ho la gran-de fortuna di essere cresciuta in una famiglia che unisce, dal lato del mio nonno materno, quattro generazioni assieme a partire dalla mia e quella di mio fratello Manuele, fino a quella del mio bisnonno Evaristo. In questo racconto vorrei rendervi partecipi di quanto conosco dei miei antenati e di quanto mi arricchisca vivere a casa con i nonni per gran par-te della mia giornata e insieme unire il meglio delle nostre quattro generazioni tra loro a confronto... In queste pagine sarà la storia della famiglia Ugarelli a fare la parte predomi-nante, perché sono molte le informazioni in mio possesso, anche grazie ai racconti del mio bisnonno fonte di memo-rie antiche e racconti su come si viveva ai tempi della guer-ra, della fame, quando lui aveva la mia età e ancora prima, come quando mi racconta ritagli di vita che a lui stesso sono stati raccontati da parenti più vecchi.

Il materiale usato per raccontarvi di me, l’ho ottenuto dal mio nonno materno Renato che ha cercato per anni (e continua a cercare) i parenti dispersi in giro per il mondo e che ha sempre desiderato lasciare a mio fratello e a me l’eredità delle nostre origini.

– 44 –

Le origini della famiglia Ugarelli

Di racconto in racconto, ancora oggi, l’origine della fa-miglia Ugarelli non è molto chiara, sembra però che il ca-postipite (Ulisse) fosse figlio illegittimo di un uomo molto importante che lo abbandonò appena nato. Il piccolo Ulisse fu dato all’istituto degli Esposti di Venezia (la Pietà di Vene-zia), dove gli fu assegnato il cognome Ugarelli. Il bambino fu dato in affidamento a una famiglia che viveva sul monte Telva (600 m) nella frazione di Zermen del comune di Feltre (Bl), ed è lì che ancora il mio bisnonno vive, ma il percorso che ci ha riportati lì non è stato semplice. Il piccolo Ulisse, che risulta iscritto all’anagrafe come figlio d’ignoti, si sposò con Maria Elisabetta Cappelin ed ebbero una figlia e due fi-gli maschi, che, per le condizioni di povertà di quel territo-rio, emigrarono giovani nel Sud America: Giovanni, nato nel 1859, emigrò in Venezuela con due figli, ma tutti e tre dopo ritornarono in Italia, e Ambrogio, nato nel 1870, emigrò pri-ma in Venezuela e poi in Perù, dove è morto nel 1942, dando origine alla famiglia degli Ugarelli del Perù.

Il nonno mi ha raccontato che io appartengo al ramo di Giovanni, del quale non si sa molto perché è morto giovane (a quarantasette anni).

Si è sposato con Margherita Cassol (detta Pina) e hanno avuto sette figli di cui due morti, ancora bambini, perché, dice il nonno, “a quei tempi la sopravvivenza era la sfida più grande e comune per i bambini appena nati, non come ora che il cibo bisogna nascondercelo per non ingrassare”. Uno di quei sette figli era il mio trisnonno Valentino.

Mio nonno sa poco della storia del suo bisnonno Gio-vanni, che non hanno conosciuto né lui né il suo papà, ma ha conosciuto bene la bisnonna “nonna Pina” (morta nel 1949) e di lei ricorda qualche caratteristica: era una donna forte, coraggiosa capace di vivere da sola in montagna, con cinque figli da crescere grazie a un po’ di agricoltura e vendita dei prodotti della terra. Il nonno ricorda, che era maniaca per

– 45 –

la pulizia; infatti, non posso fare a meno di ridere ogni volta che mi racconta che ogni giorno puliva, lavandoli con acqua e sapone, gli attrezzi di lavoro della stalla e della campagna e il giorno che è morta, ha chiesto ai figli che andassero a pulire il tetto della casa, perché cominciava a nevicare e, allo scioglimento della neve, l’acqua piovana doveva arrivare pu-lita nel pozzo.

VALENTINO, il mio trisnonno

Valentino è nato nel 1989, ha potuto frequentare soli tre anni di scuola (ma mio nonno ricorda che sapeva fare le equazioni e parlava lo spagnolo), a dieci anni emigrò la pri-ma volta in Venezuela per lavoro, assieme al papà Giovanni, lo zio Ambrogio e il fratello Ernesto. Il suo lavoro era: porta-tore acqua in galleria ai minatori. Valentino sposò Appollo-nia Zatta (1889-1972); si videro la prima volta a dodici anni al suo primo ritorno in Italia e si piacquero senza parlarsi. Lui ritornò in Venezuela e si rividero a sedici anni, poi lui ripartì e ritornò dal Venezuela a diciotto anni, questa volta si spo-sarono e dopo un breve periodo, andarono insieme in Ve-nezuela. In Venezuela nacquero quattro figli, anche per loro un figlio morì appena nato e la mamma disperata ritornò in Italia. Era il 1913 quando Valentino ritornò in Italia per stare un po’ con la moglie, approfittando di una pausa di lavoro; la prima guerra mondiale lo fermò e fece settanta mesi di guerra compresa la prigionia in un campo d’Austria. Dopo la guerra ritornarono ancora in Venezuela e là nacque il mio bisnonno Evaristo (1923); tornarono poi in Italia dove nac-que nel 1927 il fratello più piccolo del mio bisnonno, Egidio. Valentino nel frattempo con i risparmi aveva comprato terra e casa, dopo la nascita dell’ultimo figlio ripartì ancora per pagare qualche debito e ritornò per sempre quando aveva quaranta anni. Il mio bisnonno e il suo fratellino Egidio però non lo conoscevano e impiegarono molto tempo prima di

– 46 –

avere confidenza e chiamarlo “pare” (che significa padre nel dialetto feltrino). Valentino raccontò a mio nonno, molti fatti di quel periodo: i viaggi in nave per il Venezuela che durava-no tre mesi via mare, la vita nelle baracche con i serpenti, i molti rischi della vita, la guerra, la prigionia, le fughe dalla prigionia, il ritorno a piedi dal campo di prigionia di Vienna. Mio nonno ricorda i “filò nella stalla” (riscaldata dagli anima-li) di sera, durante la quale, fumando la pipa il suo nonno gli raccontava le avventure della sua vita. Parlava anche di Am-brogio che decise di non ritornare in Italia, ma di andare in Perù, dove aveva sentito che c’erano condizioni economiche migliori. Valentino e lo zio Ambrogio erano molto legati, per-ché abbastanza vicini di età (avevano solo diciannove anni di differenza); restarono in contatto per lettera per molto tem-po poi si persero, anche se entrambi cercarono di ristabilire il contatto e lo raccomandarono ai loro discendenti. Valen-tino diceva sempre, a mio nonno, di cercare i “peruviani”, ma solo dopo una settimana dalla sua morte (luglio 1983) il contatto fu ristabilito, grazie all’arrivo in Italia di Eva e Clara, allora hostess della compagnia di volo peruviana, atterra-te con volo a Venezia e ripartite il giorno dopo. Mio nonno dice che fu una serata molto emozionante, perché arrivaro-no improvvisamente a Feltre dal mio “bisnonno” Evaristo. Il legame genetico e il bisogno di ritrovarsi è la caratterista più forte che ho imparato come caratteristica degli Ugarelli e ancora oggi continua nelle nuove generazioni facilitate dalle nuove tecnologie di comunicazione: e-mail, Skype, Wath’s App e soprattutto Facebook. Tralascio di raccontare le storie dei fratelli del mio trisavolo per non dilungarmi troppo, ma anche i loro racconti sono testimonianze uniche di quanto diversa fosse la vita di allora e mi hanno insegnato molto... ad apprezzare la qualità della mia vita.

– 47 –

EVARISTO, il mio bisnonno

Il mio bisnonno Evaristo è in cima a queste quattro ge-nerazioni ed è il punto di riferimento forte e stabile per le ge-nerazioni a seguire, quella del mio nonno, della mia mamma e anche della mia. Il mio bisnonno si sposò a venti anni con Celestina Zannin che abitava a Zermen. Prima di sposarsi, Celestina, era stata a Roma e a Milano presso famiglie ricche per lavorare come baby sitter. Evaristo, invece, in gioventù era stato un famoso campione di sci a livello squadra az-zurra, partecipò alle selezioni per le Olimpiadi di Oslo 1952 dove Zeno Colò vinse la gara di discesa libera, col quale mio nonno ha mantenuto i contatti anche in età avanzata (il mio bisnonno ancora oggi, a quasi novanta anni, va a sciare!).

I primi sci li ha inforcati a sei anni. Li aveva costruiti il fra-tello maggiore, dopo che a suon di pianti il piccolo Evaristo aveva convinto il padre a lasciarlo sciare. Negli anni ’30 ha mosso i primi passi verso la nazionale della Gioventù Italia-na, ma appese gli sci al chiodo a trentuno anni; come ultimo atto da sportivo portò la fiaccola delle Olimpiadi invernali del 1956 di Cortina. Tornò a infilare gli scarponi nel 1985 per insegnare a sciare alla mia mamma e a mia zia e da ‘over 60’ ha conquistato ancora cinquantacinque podi, alcuni dei quali con i colori della sezione Feltre ai campionati nazionali degli Alpini. A quasi ottanta, si è aggiudicato il campionato nazionale Alpini del 2002 nella sua categoria.

Anche il nonno Evaristo ha conosciuto la Guerra da vi-cino: alpino del Val Cismon della Julia, combatté sette mesi in Jugoslavia nel 1943. Il bisnonno Evaristo mi ha raccontato direttamente della sua partecipazione alla guerra.

L’esercito italiano aveva raccolto più persone che pote-va, anche giovani, uno di questi è stato lui: era nel corpo de-gli Alpini “Settimo Reggimento Battaglione Feltre”. Il primo posto dove è stato mandato a combattere è stata la Carnia, dove hanno combattuto contro i “Partigiani Slavi”, qui han-no perso tre uomini. Poi sono stati trasferiti a Longarone e

– 48 –

hanno aderito al “Battaglione Val Cismon”; da lì si sono stati trasferiti in Jugoslavia, dove hanno dovuto combattere con-tro l’esercito jugoslavo. Mentre mio bisnonno era in guerra la mia bisnonna (incinta di mio nonno), è andata a trovarlo, ma si è dovuta portare il certificato di matrimonio per dor-mire con lui. Nel frattempo è arrivato l’8 settembre 1943: quel giorno la guerra si fermò, quando le persone lo han-no saputo si sono tolti l’uniforme, e tutti hanno corso verso le loro case e famiglie. Mio bisnonno, dal Montenegro, ha camminato per due settimane circa, chiedendo accoglienza nella casa di alcuni italiani. Alla fine della guerra i familiari di mio nonno andarono nei magazzini dei materiali lasciati là dai soldati tedeschi per prendere tante cose necessarie per vivere. Mi ha raccontato anche che una notte lui, piccolino, stava spegnendo e riaccendendo la luce in continuazione e i tedeschi pensarono che fosse una sorta di segnale e quindi volevano andare a uccidere tutti, ma un uomo ha detto loro che era solo un bambino e sono stati risparmiati…

Evaristo e la nonna Celestina andarono a vivere sulla casa costruita da Valentino sul monte Telva ed ebbero due figli, Renato, mio nonno, e la zia Liviana.

Il 6 gennaio 2008, una brutta malattia portò con sé mia nonna Celestina. Mio nonno Evaristo non riesce tuttora ad accettare la dolorosa perdita, e, nei week-end, andiamo quasi sempre a trovarlo e a me piace molto trascorrere del tempo con lui sul Telva, centro di questa avvincente storia della nostra famiglia. D’inverno andiamo spesso a sciare, tutti assieme: quattro generazioni una di seguito all’altra e il nonno Evaristo è ancora il più forte!

I MIEI “NONNINI” e la mia famiglia

Mio nonno Renato è nato nel 1943 nella casa del Monte Telva il 10 aprile. Il mio bisnonno che allora era, come già detto, combattente della seconda guerra, quel giorno tornò

– 49 –

a casa e la mia bisnonna venne colta dalle doglie, lui partì di corsa a piedi per chiamare l’ostetrica, ma il mio nonno venne al mondo con il solo aiuto delle due nonne, anziane.

È stato un bambino sereno in un piccolo mondo fatto da, mamma, papà, nonna, nonno, zio, zia e cugini. Vivevano tutti sotto lo stesso tetto, in una grande casa. La cucina era unica con un grande focolare e attraverso una scala andavano alle camere che davano sul “piol”, un terrazzino in legno nel dia-letto bellunese. Per bagno c’era una “dependance” esterna, mentre per lavarsi c’era una bella tinozza da riempire con acqua riscaldata al fuoco del camino. Lavatrice: mastello in legno, dove le donne giovani lavavano con la cenere. L’erba veniva tagliata a mano con la falce. A fianco della casa c’era la stalla con mucche, maiali, conigli e galline. Mio trisnonno era sempre il primo ad alzarsi e dopo, tutti operosi, si alza-vano. Anche mio nonno, grandicello, al ritorno dalla scuola aveva i suoi lavoretti da compiere, per esempio spostare l’er-ba dall’ombra (le ombrie) verso il sole in modo che si essic-casse. La grande casa del Telva, diventata sempre più vuota, con gli anni fu restaurata, gli animali sono stati venduti.

Nel 1943 sette mesi dopo la nascita di mio nonno, a Mestre è nata la mia “nonnina” Antonietta (20 novembre). Mia nonna è nata e cresciuta a Venezia; verso gli otto anni, per ragioni di salute, il suo papà si è dovuto trasferire in un paesino vicino a Feltre (Fener). Gli anni passarono e i miei nonni s’incontrano a scuola e finiti gli studi si fidanzarono, fino al matrimonio il 12 settembre 1964. Il 3 gennaio 1966, nasce mia mamma Mariacristina e il 24 febbraio 1973 la mia zia Rita. La vita continua, mia mamma e mia zia si laureano, i miei genitori si conoscono… arriva il 27 giugno 1998 quando i miei genitori si sposano e trascorrono la loro vita tranquilli fino al 4 maggio 2001, in cui si crea la sesta generazione degli Ugarelli grazie alla mia nascita. Io cresco, dico la mia prima parola “gnogno” (per nonno), cammino e arriva anche il 25 gennaio 2004, data di nascita di mio fratello Manuele.

– 50 –

Mio nonno ha avuto una lunga vita di manager inter-nazionale, con tante belle soddisfazioni e il cuore pieno di bei ricordi e dopo la pensione si è anche laureato, ora è un consulente d’azienda.

Mia mamma e mio papà sono avvocati, mia zia Rita è in-gegnere, fa il professore e la ricercatrice e vive in Norvegia.

La mia nonna Antonietta dopo il matrimonio ha dedi-cato la sua vita alla famiglia, accudendo le figlie prima e poi me e mio fratello: diciamo che ha cresciuto quattro figli e per me è la fonte di tante tenerezze e rifugio nei momenti di ansia e dubbi della mia vita. Io credo che la persona che sono ora sia anche influenzato dalla ricchezza dell’eredità e scambio multigenerazionale che ho la fortuna di condivide-re. I miei nonni dedicano a me molto tempo e mi insegnano a capire da dove vengo e ad apprezzare la serenità della vita moderna, anche quando sembra frenetica; credo però che faccia bene anche a loro trascorrere del tempo con me e mio fratello. La nostra presenza li contagia della nostra vivacità, allegria e freschezza.

LE RADICI SONO ANCORA FORTI:un insegnamento dal passato al futuro

Grazie ai contatti che mio nonno sta ristabilendo con i brasiliani e peruviani, molti Ugarelli stanno venendo in Italia per scoprire dove vivevano i loro predecessori. Tutti dicono che quello che hanno provato è stata l’emozione più bella nella loro vita. In particolare mi ha colpito molto un’e-mail inviata da un nostro parente che è stato in Italia poche setti-mane fa. Mi farebbe molto piacere scrivere tutta l’e-mail, ma ne scriverò solo un pezzetto:

“Non ho parole per descrivere la gratitudine dopo aver trascorso la giornata d’ieri negli stessi posti in cui ci sono sta-ti i miei predecessori.

– 51 –

Non ero preparato a una simile esperienza. Io non sono una persona molto espressiva, ma dentro di me ho prova-to un’emozione stupenda che non riesco ancora a calmare. Credo che gli esseri umani sentano e abbiano il diritto di sco-prire e capire da dove veniamo.”

In particolare, io sono stata coinvolta in una situazione in cui ho capito che le storie della vita delle persone fanno giri lunghi, vanno per strade sconosciute e poi in maniera sconvolgente ritornano e si scoprono i collegamenti col pas-sato; tale situazione la chiamo “il ritorno di Manina Bella.”

Il ritorno di “manina bela”

L’anno scorso ci è venuta a trovare una nostra parente brasiliana (Irani Ugarelli). È venuta con suo figlio (Leonardo) e una sua nipote (Marcella Klemtz). Marcella fa parte di un ramo discendente dagli Ugarelli. Durante la serata Marcella si ricordò di una filastrocca che le aveva insegnato la nonna italiana in dialetto veneto, di cui lei, che parla portoghese e inglese, non capiva il significato…

Filastrocca di “Manina Bela“

Manìna bela,Fata a penèla,dove sètu stata?Dala nòna.Cos’atu mangià?Poenta e late.Gate, gate, gate!

Rimasi colpita perché era la stessa che la mia “nonnina” mi sussurrava da piccola e toccò a me (che parlo anche in-glese) tradurla per lei.

– 52 –

Ho scritto questo come testimonianza e conclusione di un pensiero che ha travolto sia la mia mente sia quella dei miei famigliari, cioè di quanto le persone rimangono attac-cate ai loro ricordi, anche quelli meno significanti, e anche di come ogni persona voglia trasmettere ai propri successori i ricordi della vita e il valore dei collegamenti intergenera-zionali, attraverso le persone, il tempo e lo spazio, in ambiti anche geografici diversi.

– 53 –

Una lunga vita

di Anita Feltrin

Comincio da me che sono nata nel 1921.Mi chiamo Assunta, i miei anni sono tanti. Voglio rac-

contarvi la mia famiglia e la mia vita.Sono nata in un paese di montagna, quando da poco era

finita la prima guerra mondiale.La mia era una famiglia di contadini, piccoli proprietari,

e tutti, io, i miei genitori e le mie sorelle lavoravamo la ter-ra, andavamo a far legna nei boschi, guardavamo le bestie, come si faceva una volta in campagna.

Ho due sorelle più grandi di me, Antonia ha novantatré anni e Ninetta ne ha ben novantanove. Siamo ancora tutte vive, anche se un po’ acciaccate.

Sono stata a scuola fino alla quinta elementare e mi è sempre piaciuto leggere e ascoltare chi è più istruito di me.

Quanto ci divertivamo noi tre sorelle... le corse pazze sui prati, le capriole, i giochi sull’aia e poi le sere d’estate, assieme a cantare con gli amici, a ridere a gioire.

Quando avevo diciotto anni è scoppiata la seconda guer-ra mondiale; allora, tempi duri e tristi, ma almeno, essendo in campagna, qualcosa avevamo da mangiare.

Ci mancavano il sale e la farina bianca per fare il pane. Allora io, che ero la più avventurosa delle tre sorelle, mi cari-cavo sullo zaino del formaggio e della ricotta; attraversando le montagne che dividono le province di Belluno e Treviso, andavo a Follina a scambiare i latticini con la farina e il sale. Le strade erano sentieri, io camminavo veloce e senza paura e tornavo a casa con il mio piccolo tesoro.

– 54 –

Nel frattempo ho conosciuto il mio futuro marito e dopo un po’ ci siamo sposati. Siamo andati ad abitare a casa dei miei suoceri e vivevamo in famiglia.

Ho avuto due figli: una ragazza, Anna, e un maschio Giovanni.

Sempre lavorando siamo andati avanti. I soldi non ba-stavano mai e ho dovuto andare a lavorare via di casa, a Milano. Facevo la dama di compagnia a una signora molto buona, che mi ha voluto bene...

Però la malinconia mi soffocava, la sera nel mio lettino... pensavo ai miei bambini, a casa con mia suocera che li tene-va... e al mio caro maritino...

D’altra parte il bisogno era grande e non si poteva fare in altro modo.

Poi, dopo qualche anno, sono tornata a casa, anche per-ché mia suocera si era ammalata ed era invalida su una car-rozzina. Io l’ho curata e seguita finché è morta.

Quanto affetto e riconoscenza ho avuto da questa se-conda mamma... I ragazzi sono cresciuti e mio marito, che lavorava presso il comune del paese, aveva fatto costruire la nostra bella casa, dove abito tutt’ora.

Nel frattempo però lui era stato colpito da un brutto male e se ne è andato in cielo, lasciandomi sola, con questi giovani figli da crescere e la casa da finire di pagare.

I miei ragazzi erano vivaci e intelligenti, ma non ho po-tuto farli studiare, non avevamo soldi e così hanno dovuto andare a lavorare presto.

La ragazza è andata in Germania e ha trovato lavoro in una gelateria, e il ragazzo aveva trovato posto in una fabbri-ca. Lui era caparbio, un capo nato, era rappresentante sinda-cale, era amato e rispettato da tutti.

Nel frattempo, erano ormai gli anni ’70, è nata una bambina a mia figlia ed è stata accolta con una immensa gioia da tutti.

Per me che ero a casa è stata un rinnovamento della mia vita. Mia figlia doveva lavorare, io guardavo questo piccolo fiore crescere, lo educavo e lo amavo.

– 55 –

Un brutto giorno, un grave incidente stradale, mi ha portato via mio figlio.

Non posso descrivere la disperazione che ho ancora nel cuore...

Sopravvivere a un figlio non è una cosa naturale... è un dolore che non si cancella mai.

Per fortuna che c’era Sandra, piccola innocente, cresce-va ed era amata da tutti.

Suo padre se ne era andato, ma sia io che le zie, le mie care sorelle, e la sua mamma la adoravamo.

L’abbiamo cresciuta al meglio, è andata a scuola, è vis-suta nella comunità del paese, ha appreso le nostre usanze e le rispetta. Lei ora ci ricambia con tutto il suo amore.

Mi ha resa felice e orgogliosa mia nipote; si è sposata con un bravissimo ragazzo e hanno due figli di nove e dodici anni che sono la luce dei miei occhi.

Ora io sono vecchia, ma sono contenta. Appena possia-mo, io e le mie sorelle ci troviamo e stiamo insieme a parla-re, bere il caffé e raccontarci delle nostre famiglie e dei nostri acciacchi...

Mia figlia vive con me, ha preso il mio posto nella casa, fa tutto lei ormai e in più ha tenuto i bambini di Sandra quan-do erano piccoli, perché mia nipote lavorava. Mi accudisce, sono ancora autonoma, ma lei mi controlla; sta attenta se ho bisogno di qualcosa, mi porta dal medico, dal parrucchiere e mi accompagna anche a mangiare fuori qualche volta.

Sono molto riconoscente a lei. E poi… mi ha donato que-sta nipote meravigliosa, che ha una bella famiglia, due ragaz-zi intelligenti e vivaci, che mi rispettano e mi ascoltano.

Parlano con me e, essendo io un po’ sorda, si rivolgono a me con la voce più alta; io sorrido e rispondo e racconto loro le storie della mia infanzia e della mia lunga vita.

Mi sento una nonna molto amata e molto curata. Grazie a tutti.

– 56 –

Altri tempi

di Aurora Fiorotto

Sono una donna di una certa età, mamma di un Angelo. Il mio tempo si è fermato con la sua nascita. Il mio oggi è il mio ieri e il mio domani è il mio oggi.

Ricordi, pensieri girano attorno al mio Angelo, al tempo trascorso con lui, al passo double della nostra vita.

La mia gioventù è stata rimossa quasi completamente dalla mia mente, dal mio cuore. È un periodo così lontano, così confuso nella nebbia.

Quasi rimossi i ricordi ma basta una vecchia foto ingial-lita dal tempo e il mio ieri, ieri riaffiora.

Una piccola donnina, magra magra vestita di nero, con i capelli raccolti, viso scuro e rugoso senza sorriso.

“Nonna Angela”, la madre di mio padre. Si abitava negli anni ’50 in campagna, in una casetta a schiera, l’ultima della serie. Nonna, padre, madre, io e mia sorella (in ordine cro-nologico). Un piccolo orto ben coltivato, un pergolato d’uva, un angolo per qualche gallina e coniglio. Niente fiori. Non servivano, non erano necessari.

E la casa! Al piano terra la cucina molto spartana. Quat-tro o cinque sedie di paglia, un tavolo di legno, una piccola credenza color latte. Non c’era acqua in casa. Solo un piano di marmo o cemento come lavandino-lavatoio, una stufa a le-gna, un sottoscala e un angolo per le biciclette. A quell’epoca erano l’unico mezzo di trasporto e non era da tutti. Nel sot-toscala una piccola dispensa, un mobiletto appeso al muro con retina anti-mosche, per mettere in mezzo un pezzo di formaggio o un salame.

– 57 –

Non c’erano acqua né servizi in casa, solo la luce. Niente riscaldamento e in quei freddi inverni l’unica fonte di calore era la stufa che veniva poco accesa.

Ricordo mia nonna, molto parsimoniosa, bagnare la le-gna prima di metterla nella stufa così durava di più. Un gran fumo nella stanza e così si andava nelle camere con la borsa dell’acqua calda e sotto le coperte. Non c’era il gabinetto, tanto meno il bagno. Il gabinetto si trovava dietro la casa in un piccolo sgabuzzino: water alla turca, come carta igienica pezzi di giornale strappati piccoli e appesi a un gancio di fer-ro vicino alla catena dell’acqua.

L’acqua, per l’uso di casa, per mangiare e lavarsi veniva fornita da una fontana a pompa e si trovava sotto il pergola-to. Una scala di legno, una decina di scalini, portava alle ca-mere: una per mia nonna, l’altra per noi quattro. Pavimenti in travi di legno, si poteva vedere il piano sottostante, arre-damento pure spartano: un armadio, un letto matrimoniale, un letto singolo dove noi sorelle dormivamo. Una alla testa e l’altra ai piedi del letto. Come servizio in camera (non si usciva di notte specialmente d’inverno) per andare al gabi-netto c’era un boccale. Quand’era pieno, mia madre apriva il balcone e gettava il tutto fuori in mezzo ai campi.

Non so perché noi in quattro in camera, mentre mia nonna era da sola. Aveva una stanza molto grande e sempre spartanamente arredata. Chiudeva tutto a chiave e poche sono state le volte che mi lasciava entrare.

Una cassapanca, un comò con tutti i cassetti chiusi a doppia mandata, un letto in ferro, un comodino per il bocca-le. Noi lo mettevamo sotto il letto…

La cassapanca mi impressionava molto. Sembrava una bara e conteneva due abiti: uno invernale e l’altro per l’esta-te e un enorme grosso scialle nero, usato come cappotto.

Non c’era amore, non c’erano sorrisi in quella casa. Solo lo stretto necessario per sopravvivere… I “musi” di suocera e nuora, gli scapaccioni sulla mia testa e sedere e lo sguardo severo e senza parole di mio padre… Mi sembrava che quella

– 58 –

fosse la vita di tutti, uguale a tutte le altre persone. Ma ero una bambina piccola e sola. Mia nonna non stava mai ferma e non buttava via niente, risparmiava all’inverosimile, anche nelle carezze.

A distanza di tempo posso capirla, la vita a quei tempi non era facile e lei vedova di guerra, della grande guerra, aveva da sola allevato i suoi due figli. Ha dato loro il tutto e il più, ma forse non ha avuto tempo di dare amore o forse non sapeva dimostrarlo o forse …

Non erano tempi facili, non c’erano giocattoli, non c’era niente di superfluo.

Angela Graziosa il suo nome completo andava alla pri-ma messa del giorno e tutte le sere frequentava la chiesa. Era sempre con il rosario in mano anche quando lavorava. Faceva parte di lei.

Angela Graziosa un piccolo donnino scuro ma pieno di carattere.

Un’altra foto: il mio Angelo. Un uomo di quasi trent’an-ni. Un altro mondo a confronto, altri usi, altri costumi. Ap-partamento caldo di riscaldamento e d’amore. Armadi pie-ni con qualche cosa in più forse, ma anche tanto ma tanto amore in più.

Il mio ieri, ieri di bambina. Il mio oggi che respira il ieri di mamma di Francesco e vive l’oggi di mamma di un Angelo.

– 59 –

Ricordi di un bambino di… ottanta anni

di Dario Foà

Quando è mancato il mio Nonno materno, noi ragazzi abbiamo fatto a gara per trasferirci a casa della Nonna per non lasciarla sola. Fra i miei fratelli io ho… vinto questa gara e così ho avuto la fortuna di vivere alcuni anni con la Nonna e tuttora (oramai ho superato gli ottanta!!!) ricordo con af-fetto, tenerezza e gratitudine tutto quello che la nonna mi ha insegnato con il suo amore e con la sua spontaneità.

Ora che sono nonno di tre nipoti (Davide, Gabriele e So-fia) mi piacerebbe tanto essere capace di trasmettere ai tre ragazzi le mie esperienze.

Tra queste ha una grande, grandissima importanza quel terribile periodo che va dal 1938 al 1943 che ha segnato in modo indelebile la mia vita per colpa di quelle leggi ingiuste che furono definite “Leggi per la difesa della razza”. Ed è di questo, ragazzi, che voglio parlarvi, anche se mi costa una certa fatica!

Nel 1938 avevo sette anni e vivevamo a Napoli dove mio Nonno era Rabbino Capo.

Avevo appena finito di frequentare la prima elemen-tare. Ricordo che avevo indossato, come tutti i bambini di quell’età, la mia brava divisa di ‘figlio della lupa’, e che mi preparavo a frequentare la seconda classe elementare con la trepidazione e l’ansia di tutti i ragazzini di quell’età.

Improvvisamente mia mamma ci disse che non avrem-mo potuto frequentare le scuole insieme agli altri ragazzini.

Lì per lì forse non capii bene il significato di quello che la mamma mi aveva detto. Ricordo solo che qualcuno ave-va scoperto che ero diverso dagli altri. Diverso da quelli che

– 60 –

fino al giorno prima erano invece eguali a me: qualcuno più bello e qualcuno più brutto, qualcuno più alto e qualcuno più basso, qualcuno biondo e qualcuno bruno, qualcuno con gli occhiali eccetera.

Bene: tutto questo non era più vero: ero diverso da tutti gli altri perché ero EBREO. E come ebreo non potevo più vi-vere insieme agli altri ragazzini, quasi li potessi infettare.

A pensarci oggi c’è da rimanere senza parole: cosa dire-ste se per legge da domani impedissero ai figli degli avvocati di frequentare le scuole? Solo perché figli di un avvocato; oppure ai figli dei macchinisti delle ferrovie, oppure ai figli delle infermiere! Assurdo solo pensarlo, eppure settanta anni fa nessuno trovò assurdo che un simile divieto venisse imposto per legge ai figli degli ebrei!

Ma cosa era successo? Il governo italiano aveva emesso delle leggi “per la difesa della razza”. Queste leggi stabiliva-no che i cittadini anche se italiani, di razza ebraica (notare: non cittadini italiani di religione ebraica, ma cittadini italiani di razza ebraica) erano considerati un pericolo per gli altri cittadini (da qui la necessità di difendere la razza). Di conse-guenza diventavano operative una serie di discriminazioni: fra queste era previsto che gli ebrei non potevano insegnare né nelle università né nelle scuole; non potevano avere do-mestici di “altra razza”; non potevano avere impieghi stata-li; non potevano essere militari: tutte cose che io, nella mia beata ingenuità di un bambino di sette anni non capivo poi tanto.

Ma una cosa l’ho capita subito: non potevo tornare a scuola insieme ai miei compagni.

Di andare all’università nemmeno parlarne. Mio fratello maggiore (eravamo cinque fratelli), che sarebbe dovuto an-dare all’Università, riuscì a emigrare negli Stati Uniti dove si è laureato, ha preso la cittadinanza americana e dove vive tuttora.

Altri due fratelli dovevano andare alle scuole medie e ginnasiali, ma la cosa non fu possibile perché gli studenti di

– 61 –

queste classi potevano solo studiare privatamente. Fu così che i professori ebrei espulsi dalle scuole misero in piedi una specie di scuola privata per aiutare questi ragazzi a non in-terrompere gli studi. Ogni anno, come tutti gli studenti delle scuole private, dovevano sostenere un esame, ma a diffe-renza degli altri questi esami venivano sostenuti in un’au-la allestita appositamente per gli studenti ebrei e i risultati degli esami venivano esposti sui tabelloni dove accanto al nome, veniva indicato chiaramente “di razza ebraica”.

Per le scuole elementari la cosa era leggermente diver-sa: esisteva una disposizione che permetteva di costituire una sezione speciale per bambini di razza ebraica.

Ricordo piuttosto vagamente i giorni febbrili che si con-clusero con la concessione, da parte del direttore della Scuo-la Vanvitelli, il Dott. Muro, di un’aula speciale dove ragazzini ebrei di età diversa potevano riunirsi per completare gli stu-di elementari. Si trattava della “Sezione speciale per fanciulli di razza ebraica”, così la legge ci definiva, e dava il permesso per la costituzione di questa sezione speciale a condizione che i ragazzini fossero almeno dieci.

Napoli era ed è una piccola Comunità ebraica e, fatta la conta, ci ritrovammo a essere solo nove. Quindi la sezione speciale non poteva essere creata! E allora facemmo un pic-colo imbroglio: iscrivemmo alla prima anche il mio fratellino più piccolo (allora la legge voleva che i ragazzini della prima elementare compissero i sei anni entro il 31 dicembre, ma mio fratello a novembre ne avrebbe compiuto solo cinque, facemmo finta di sbagliare e il Dott. Muro… sbagliò anche lui e finse di non accorgersi che mio fratello aveva solo cinque anni. E così nacque la “sezione speciale”.

Ma cosa aveva di speciale? Qui i miei ricordi sono molto nitidi.

Innanzi tutto la nostra aula aveva la porta che dava direttamente sulla strada, in modo che noi non… contami-nassimo gli altri ragazzini. Poi, per essere più tranquilli, noi entravamo e uscivamo in orario diverso dagli altri (un quar-

– 62 –

to d’ora prima) così come facevamo anche la ricreazione in orario diverso.

E la ginnastica? Non si poteva fare in palestra, doveva-mo farla in classe. E la visione (obbligatoria) dei film di pro-paganda il sabato che allora si chiama “Sabato fascista”? Quelli potevamo, anzi dovevamo vederli, ma seduti nelle ul-time file di sedie e con almeno tre file di sedie vuote tra noi e gli altri ragazzini.

Quando, nel 1998 un gruppo di insegnanti della scuola Vanvitelli trovò in archivio notizie di questa sezione speciale di cui ignoravano l’esistenza, dopo un primo momento di in-credulità, si attivarono per rintracciare qualcuno di quei die-ci ragazzini di sessanta anni prima. Ne trovarono otto perché nel frattempo uno era morto per malattia e uno perché era stato deportato ad Auschwitz insieme a tutta la sua famiglia e non era più tornato.

Così ci ritrovammo nella nostra vecchia aula, e noi otto uomini e donne ormai anziani, ci sedemmo (a fatica) nei no-stri piccoli banchi!

E ci chiesero di raccontare qualcosa di quel periodo. Mi trovai così a raccontare cose di sessanta anni prima, cose di cui non avevo mai parlato né con i miei figli né con i miei nipoti, fatti oramai vecchi e (così credevo) ormai digeriti. In-vece ho rivissuto improvvisamente l’umiliazione di essere isolato e indicato come “diverso”. E mi è venuta una grande rabbia; avrei voluto urlare con tutta la forza dei miei polmoni che io non ero diverso dagli altri, che non era giusto trattar-mi in quel modo.

Avrei voluto urlare in quel momento per quanto non avevo urlato sessanta anni prima. Ma non ne sono stato ca-pace: un nodo alla gola me lo ha impedito.

E allora ho fatto una promessa a me stesso: finchè il Si-gnore mi darà la forza cercherò di portare questa mia testi-monianza raccontandola soprattutto ai giovani perché non dimentichino e perché una testimonianza diretta “racconta-ta” vale molto di più di un libro o di un documentario.

– 63 –

Evviva i nonni!

di Angelo Frison

Se non ci fossero, i nonni bisognerebbe inventarli. Que-sta frase la ripeto a tutti quando si parla di famiglia, di figli, di generazioni. Ho un ricordo bellissimo dei miei nonni.

Nel periodo dell’ultima guerra, mentre mio padre era in servizio militare mia madre si ammalò gravemente e, così, io e le mie due sorelline fummo accolti dai nonni materni nella loro grande casa.

Quella dei nonni era una famiglia patriarcale in cui, con essi, convivevano due figli sposati, uno dei quali aveva due figli e l’altro tre, e due figlie ancora da sposare. In tutti erava-mo in sedici: otto adulti e otto bambini.

Ho ricordi indelebili della nonna. Al mattino, quan-do apriva la porta del pollaio, a mano a mano che le galli-ne uscivano le prendeva in mano, metteva un dito sotto la loro coda e diceva: «Questa oggi farà l’uovo». Con questo sistema lei sapeva quante uova le galline avrebbero fatto in giornata e verso sera, quando andava a prendere le uova nel fienile dove le galline erano abituate a deporle, non sempre le trovava del numero che aveva previsto. Allora mandava noi nipotini a cercarle. Noi entravamo entusiasticamente in azione e ci divertivamo da matti nella ricerca.

Oggi i tempi sono cambiati e non ci sono più famiglie patriarcali come quella. Adesso, quando si sposano, i figli vogliono essere indipendenti dai genitori; il desiderio di for-mare una famiglia propria libera dai condizionamenti, anche da parte dei propri genitori, è molto sentito. È giusto che sia così e per un po’ i “vecchi” sono lasciati da parte. Ma con la nascita dei nipoti anche noi nonni rientriamo in gioco.

– 64 –

Nonno da parecchi anni, ripercorro in queste poche ri-ghe l’esperienza che ho acquisito con la venuta dei nipoti nella mia casa.

Mia figlia ebbe un bambino e, dopo i sei mesi di mater-nità riconosciutile dalla legge, dovette riprendere il lavoro: ecco giungere allora da noi nonni il primo nipotino a scom-bussolare il nostro quieto vivere, solidamente tranquillo da anni. Per abituarci al nuovo ritmo di vita impostoci dalla pre-senza del bambino ci vollero parecchi giorni, ma ora c’era Luca e noi nonni ci adattammo alle sue esigenze.

Non passò neanche un anno e pure l’altra figlia rimase incinta. Dopo i sei mesi di maternità che le spettavano anche lei dovette riprendere il lavoro e, seguendo l’esempio della sorella, ci portò Eleonora.

Si potrebbe pensare che accudire due bambini piccoli per i nonni sia stata una faticaccia, ma, avendoli accolti con amore come avevamo fatto noi, la fatica si tramutò in gioia.

Passò qualche anno e nacque Marco, fratello di Luca, e a sei mesi dalla nascita anche lui venne ad aggiungersi agli altri due.

Con l’arrivo del terzo nipote abbiamo dovuto rivedere tutto lo svolgersi della giornata e ripartirci più ordinatamen-te i compiti. Mia moglie seguiva le necessità strettamente personali dei nipotini, mentre io li facevo giocare, li portavo al parco-giochi parrocchiale, facevo far loro dei giretti con la bici seduti su un sicuro seggiolino. Eravamo davvero impe-gnati al massimo, ma eravamo contenti: ci sentivamo utili e, soprattutto, riamati dai nipoti.

Abbiamo altri due nipoti, Andrea e Beatrice, che però venivano, e vengono, da noi nonni solo saltuariamente, in quanto le loro madri hanno scelto di non lavorare per rima-nere a casa con i figli.

Attualmente siamo, per così dire, disoccupati, perché ormai i primi nipoti sono cresciuti e vanno a scuola, ma fra due mesi nascerà Elena, e allora… Nel frattempo non è che i nostri nipoti non li vediamo più. Anzi: nei giorni festivi la

– 65 –

nostra casa sembra un agriturismo in cui si aggirano nipoti di tutte le età.

I più piccoli giocano con i lego o disegnano, i più grandi giocano con il computer mentre i loro genitori sono impe-gnati in animose discussioni di politica e i nonni sono affac-cendati tra i fornelli in cucina. All’ora di pranzo, però, figli, nipoti e nonni ci ritroviamo seduti tutti insieme attorno alla tavola imbandita. E fra un boccone e l’altro vengono fuori le più disparate discussioni e ricordi del passato.

«Nonno! Nonno!», alza la voce Luca sovrastando tutte le altre. «Ti ricordi della cavallina quando mi portavi a fare i giretti in bici e ci fermavamo a darle da mangiare erba attra-verso le maglie della rete di recinzione?».

Interrompendolo, Eleonora aggiunge in fretta: «Nonno! Ti ricordi di quando mi portavi al parco giochi in parrocchia e, prima che suonasse la campana di mezzogiorno, mi dicevi: “Guarda la campana più grande del campanile” e, spostan-do lo sguardo sul tuo orologio, mi dicevi: “Sta attenta: uno, due eee… tre!”, e al tre vedevo la campana che cominciava a muoversi e a suonare. A quel tempo pensavo che fosse il tuo orologio a far suonare la campana».

Marco, parlando ancora più forte, quasi urla: «Nonno! Ti ricordi la fabbrica che aveva preso fuoco e di cui erano rima-sti in piedi solo i muri anneriti dal fumo? Quando le passava-mo davanti io dicevo: “Tutto bruciato! Tutto bruciato!”».

Queste sono le cose importanti per noi nonni. Ci fanno dimenticare le fatiche, le piccole e grandi magagne che ci opprimono quotidianamente e che ci possono portare alla depressione.

Nostri medici e nostre vere medicine sono i nipoti. Stan-do con loro non si invecchia mai; diventiamo più allegri, spi-ritosi, si ha voglia di scherzare, ci si sente vivi, perché amati.

A me e a mia moglie essi hanno sempre rivolto doman-de in continuazione, specialmente quando erano nell’‘età dei perché’; erano curiosi di sapere e occorreva essere in grado di rispondere alle loro domande. Ecco, così, che ci

– 66 –

costringevano a consultare enciclopedie, testi e vocabolari come quando eravamo studenti, e in questo modo la nostra memoria è rimasta sveglia.

Sono sempre contento quando vengono i miei nipoti, perché stando in mezzo a loro mi sento felice al punto che, talvolta, mi sento nonno di tutti i nipoti del mondo. Allora, preso da un entusiasmo che non so contenere, sento in me una forza interiore che mi fa mentalmente gridare a tutti i nonni del mondo: “Evviva i nipoti!”, ma anche, e soprattutto: “Evviva i nonni!”.

– 67 –

Una famiglia di campagna

di Sofia Giachin

Facevo parte di una famiglia numerosa, venticinque perso-ne, lavoravamo una grande campagna, mio nonno e mia nonna erano nati nel 1880, avevano sette figli quattro ma-schi e tre femmine. Mio padre e gli zii dopo il matrimonio continuarono a vivere nella casa paterna, anche le due zie nubili rimasero in casa.Noi ragazzi eravamo in dodici fra fratelli e cugini, comunque ci sentivamo tutti fratelli, dormivamo in due grandi camere una per i maschi e una per le femmine, noi ragazze avevamo un solo guardaroba e bastava per tutte, gli abiti che possede-vamo erano sempre in ordine e puliti, così era per le scarpe.Ci difendevamo l’uno con l’altro e coprivamo le marachelle dei più vivaci, insomma eravamo una vera squadra.

Venne ad abitare da noi la mamma di nonna, era rimasta vedova e sola, lei sapeva che poteva contare sulla nonna ma anche su tutti noi.La bisnonna Lucia aiutava la nonna in cucina, anche il pane veniva fatto in casa, il forno era in cortile, nel periodo che precedeva la Pasqua venivano in molti a cucinare le focacce nel nostro forno.Nella nostra fattoria c’era un gran lavoro per tutti e veniva suddiviso conforme le capacità individuali, era a conduzione famigliare e il nonno aveva la direzione di tutto perché ave-va esperienza, capacità e saggezza, era un uomo severo ma giusto.Avevamo colture molto estese, oltre al foraggio e granaglie coltivavamo frutta e verdura.

– 68 –

Seminavamo anche la canapa, quando la raccoglievamo ve-niva messa a macerare nel fosso e dopo essere stata trattata veniva filata e tessuta al telaio, diventata tela venivano con-fezionate lenzuola, federe tovaglie e strofinacci.D’inverno non c’era molto lavoro nei campi e allora le donne si dedicavano ai lavori di cucito, lo facevano soprattutto le zie che non avevano figli da accudire; alle volte c’era qualche battibecco fra di loro, allora la nonna diceva: «Se si tace le cose vanno a posto da sole», e la cosa finiva lì.

Nei periodi dei raccolti non ce la facevamo a fare tutto il la-voro da soli, allora i vicini ci davano una mano, noi aiutava-mo loro.Avevamo una grande cucina, gli adulti mangiavano in un tavolo, noi ragazzi in un altro, se parlavamo ad alta voce la nonna veniva ad ammonirci, allora arrivava la bisnonna Lu-cia, lei ci affascinava, con le sue fiabe fantastiche ci traspor-tava in un mondo incantato fatto di fate, streghe e folletti, a quel tempo la televisione non c’era.

Se veniva qualche mendicante all’ora di pranzo il nonno lo faceva entrare e mangiava con noi.La nonna insegnava alle nipoti più grandi a fare i lavori di casa, era buona la nonna, ci dava qualche moneta di mancia e diceva: «Domenica dopo la messa andate a prendervi un gelato».Ricordo una notte di Natale, il fuoco nel camino scoppiettava e mandava una grande luce, Franco il maggiore dei cugini che tutti ammiravamo perché era buono e bravo a scuola e, insegnava a fare i compiti e a studiare il catechismo a tut-ti noi, era in piedi accanto all’albero di Natale ed esclamò: «Desidero andare in seminario per diventare sacerdote!».Guardai la nonna, nonostante fosse in un angolo della cucina vidi luccicare le lacrime sulle sue guance, le andai vicino e le presi una mano, lei in preda alla commozione disse: «È il

– 69 –

primo uccellino che lascia il nido, ma attraverso la preghiera saremo sempre insieme».La domenica andavamo in chiesa tutti a piedi, i più grandi tenevano per mano i più piccoli, le strade allora non erano asfaltate e le auto erano pochissime.

Ricordo con nostalgia i pomeriggi estivi, i grandi dopo pranzo andavano un po’ a riposare, noi ragazzi andavamo in cortile, giocavamo a trea e a dama, c’erano dei platani altissimi con le loro fronde coprivano d’ombra tutto il cortile.A casa nostra veniva spesso qualcuno, c’era chi chiedeva qualche attrezzo da lavoro in prestito e chi aveva bisogno di bere, allora andava a dissetarsi al pozzo.Il cigolio della carrucola del pozzo, lo starnazzare delle ana-tre nella roggia, il chiocciare delle chiocce che scorgevano la poiana e temevano che rubasse i pulcini, le galline poi, face-vano di quelle buche in cortile da farlo sembrare un enorme scolapasta, non c’era mai il tempo per annoiarsi.

I fusari, anche loro venivano da noi per riposare all’ombra, arrivavano a piedi dalle montagne, calzavano scarpe di pan-no leggere ingegnosamente fatte a mano, portavano sulla schiena la gerla con gli oggetti di legno intagliati fatti duran-te l’inverno, ammiravo molto quei lavori nella nostra cucina c’erano molte cose fatte a mano da loro.Il sabato noi ragazze lucidavamo gli utensili di rame che era-no in cucina, quando la luce del sole arrivava alla parete dove erano appesi sembrava una cosa irreale la nonna ci teneva molto a quello splendore.Lavoravamo e pregavamo, rapportavamo tutto con la fede, se c’era il temporale che minacciava la caduta della grandine accendevamo le candele davanti alle immagini sacre, aveva-mo paura che il maltempo distruggesse il nostro lavoro, se c’era siccità facevamo un triduo di preghiere per la pioggia.Con il cibo stabilivamo la relazione e condivisione con la re-ligione, a Pasqua preparavamo l’agnello, il cotechino con la

– 70 –

lingua il giorno dell’Ascensione, l’anatra per il rosario, osser-vavamo con rispetto i giorni di astinenza e di digiuno.

Sono passati molti anni da allora, la campagna non c’è più, al suo posto ci sono strade, palazzi e case, ma io con gli occhi del cuore rivedo tutto come allora.

La famiglia è il valore più grande, ci dà il calore e la sicurezza di cui abbiamo bisogno per tutta la vita.

– 71 –

Suona ancora

di Anna Girardi

Il salotto è una bolla di luce e silenzio.Lo sgabello scricchiola appena mentre, sedendomi, alzo

lentamente il coperchio del pianoforte che ho davanti e spo-glio i tasti dal rettangolo di stoffa che li ricopre. Resto im-mobile, mentre un esercito di particelle di polvere si alza in volo per farsi trafiggere dai raggi del sole che entrano obliqui dalla porta finestra. Appoggio le mani sui tasti, li accarezzo facendo attenzione a non imprimere abbastanza pressione da farli suonare. Stendo le dita e mi sorprendo a pensare a come esse si siano allungate dalla prima volta in cui han-no toccato questo pianoforte; sorrido al pensiero che, pur essendo cresciute, queste mie mani non siano abbastanza grandi per trattenere tutti i ricordi di cui sono colme.

Indugio ancora un po’ nel silenzio d’agosto, mentre mi chiedo come sarà la prima nota che uscirà dalla cassa armo-nica dopo tutto questo tempo. Non ho più suonato da allora. Qualcosa mi dice che è arrivato il momento di ricominciare. Lui vorrebbe che fosse così.

«Suonalo ancora, dai».Una bimbetta dalla carnagione chiarissima e una lunga

treccia che scivola lungo la schiena prova e riprova il brano che dovrà suonare al saggio di fine anno della scuola di pia-noforte a cui è iscritta da alcuni mesi.

«Nonno, continuo a sbagliare. Non riesco!»«Dai dai, insisti, che io ti ascolto.»La bimba si rimette a suonare, le sue piccole dita sottili

– 72 –

si muovono sui tasti incerte e immature: ci vorranno ancora anni prima di raggiungere una buona tecnica, ma ora deve fare bella figura, suo nonno la sta ascoltando e non può delu-derlo. Mentre tiene un accordo alza per un secondo lo sguar-do: lui è lì, davanti a lei, con l’espressione seria e concentra-ta, eppure non c’è traccia di severità in quegli occhi azzurri e limpidi, solo un infinito affetto.

È un uomo d’altri tempi, non è abituato a slanci e mani-festazioni plateali di sentimenti, eppure basta guardarlo per capire quanto sia emozionato, ora che la sera è arrivata e lui siede, con il resto della famiglia, sulle poltroncine rosse della platea di un minuscolo teatro, osservando nella penombra la bimba china sui tasti. Ha sempre amato la musica: fin da giovane ha ascoltato tutto ciò che le possibilità gli permet-tevano e ha coltivato, quasi di nascosto, la passione per il violino, tanto da acquisire la tecnica necessaria per poterlo costruire. La bimba conosce bene il profumo di legno e ver-nici che la investe quando apre la porta del garage dove il nonno sta lavorando, lo stesso profumo che resta su di lui anche quando si trovano altrove, come se quella passione non lo abbandonasse mai e rimanesse attaccata alla pelle. Forse è per questo che, da quando la bimba ha memoria, in casa si è sempre respirata musica, è per questo che non ricorda un solo giorno senza note ed è per questo che ha tro-vato così naturale, un giorno, alzare il pesante coperchio di quello strano mobile nero del salotto e trovarci dentro una meravigliosa scatola piena di suoni magici che aspettavano solo le sue mani per poter essere messi in ordine.

Sorride, ora, la bambina: si è alzata in piedi e sta rice-vendo l’applauso del pubblico presente. Un po’ imbarazza-ta, stringe al petto lo spartito che ha eseguito poco prima e alza lo sguardo dai suoi sandaletti comprati per l’occasione. In quarta fila, trova gli occhi azzurri che ogni pomeriggio la osservano e la guidano mentre fa i compiti all’ombra del-la betulla in giardino: sono colmi di orgoglio e di una dol-cezza che, in altre situazioni, non ammetterà mai, ma che,

– 73 –

in quell’istante che appartiene solo a loro, le mostra senza remora alcuna, donandole un altro dei ricordi che terrà per sempre stretti tra le dita.

L’ultimo accordo dell’Adagio al chiaro di luna si spegne sotto le mie mani e si dissolve tra le particelle di polvere che continuano a danzarmi attorno. Resto immobile con le dita appoggiate alla tastiera, ascoltando il silenzio, sperando per un secondo di riconoscere, tra la luce e le note, una voce che non posso più sentire.

Poi, mentre un raggio di sole attraversa il vetro e mi si posa sulle dita, chiudo gli occhi e, finalmente, sorrido: pro-fumo di vernici e legno, profumo di ricordi a fiamma viva, profumo di un passato che non si cancella e che, ogni volta in cui una nota nascerà, mi si siederà di nuovo accanto e, con occhi azzurri severi e dolcissimi, mi dirà: «Suona ancora, che io ti ascolto».

– 74 –

“Lui e Lei” due nonni speciali

di Maria Pia Lo Vullo

Seduta nella mia poltrona, in compagnia del silenzio che danza in punta di piedi avvolgendomi tutta, mi ritrovo a pensare. Sono cose passate, lontane nel tempo; ricordi non sempre piacevoli ma pur sempre “ricordi”.

I NONNI! Io non li ho conosciuti e non ho fotografie per poterli guardare. Porto però il nome di mia nonna materna; ne sono orgogliosa e, per una strana sensazione che sem-pre mi accompagna, sono convinta di assomigliarle. Ci sono sempre, però, delle figure sostitutive ed è per questo che mi ritengo una fortunata. Lasciamo spazio proprio al ricordo di queste figure; come sono entrate nella mia vita e quanta gratitudine porto ancora nel mio cuore.

Mia mamma Ellade, per poter arrotondare lo stipendio del mio papà, stirava presso una ricca famiglia veneziana. Presso la stessa famiglia lavorava come cuoca una mia zia, Erminia, sorella di mia madre. La signora “Lei” diceva sempre che nessuno sapeva stirare come mia madre; il signore “Lui” asseriva che la zia era un’ottima cuoca. “Lei” era veneziana e “Lui” era di Finale Emilia, il paese d’origine di mia zia e di mamma. Io ero ancora piccola e mamma mi portava con sé. Dalla fondamenta Cannaregio, dove abitavamo, si andava a piedi sino a campo S. Maurizio, per raggiungere il palazzo, in Calle del Dose (Doge), ove “Lei e Lui” risiedevano; un bel po’ strada; camminavamo circa un’ora. C’era il vaporetto sul Canal Grande, ma non c’erano i soldi per il biglietto.

Io arrivavo sfinita; pregustavo però alcuni momenti che si ripetevano ogni qual volta mi trovavo in quella “casa”. Mi

– 75 –

portavo il quaderno e libro di scuola; li posavo con molta at-tenzione su di un tavolo antico e mentre mia madre lavorava io potevo studiare.

Mi piaceva studiare. In particolare mi piaceva studiare immersa in quell’ambiente da favola. Alle 17, puntualissimo appariva il maggiordomo Giovanni. Aveva il dono di stupirmi per quel suo apparire in guanti bianchi e giacca ogni volta di-versa, a righe nere-gialle, nere-viola, verde-rosa, nere-rosse. Portava un vassoio con il the che io bevevo, anche se non mi piaceva; posavo lo sguardo su tutto ciò che mi circondava e lo sorseggiavo assaporando non il the, ma la tazzina che lo conteneva come fosse un prezioso gioiello… Ma quando mai avrei potuto avere tutto questo?

Una “casa” disposta su quattro piani; ogni piano un sa-lotto; in ogni salotto un pianoforte (uno addirittura in avo-rio). Pur non sapendo suonare, su uno di quei pianoforti mi era permesso di provare a muovere le mie piccole, poi gran-di, dita. Un giorno il cuore mi saltò in gola perché mi accorsi che alle mie spalle c’era la loro figlia Bianca e la sua cara amica Franca Valeri che mi applaudivano; vollero insegnar-mi un motivetto che ancora ricordo e suono, provando una piacevole emozione. Non fu l’unica volta che mi sentii ascol-tata; mi trovai alle spalle anche Emma Grammatica, l’attrice di prosa, che abitava in un palazzo in Campo S. Maurizio.

I signori erano di religione ebraica, lui era Rabbino del “Gheto” (Ghetto) di Venezia. Avevano anche un figlio ma-schio che rifugiatosi a Londra per sfuggire alle deportazioni degli Ebrei, trasmetteva attraverso Radio Londra; trasmissio-ni che si annunciavano con uno strano, da tutti segretamen-te atteso, suono: ta-ta-ta-tam.

Mi volevano molto bene e mi facevano fare le vacanze nella loro villa sul Terraglio, la via che portava a Treviso. Era come vivere in un sogno. Una stanza da letto solo per me, il bagno con tanto di vasca, a casa non l’avevo, e cosa preziosa, il permesso di entrare nella “stanza degli armadi”, dove la loro figlia Bianca riponeva e custodiva tutti i suoi vestiti. Ve-

– 76 –

stiti che avevo la gioia di provare perché, pur essendoci una differenza d’età, le nostre due figure erano simili. Mi ammi-ravo allo specchio, incredula di potermi vedere in abiti così belli, fantasiosi, morbidi e profumati.

Ecco perché “Lui e Lei” li consideravo e ancora li ricordo come i miei secondi nonni. Nonni che mi chiamavano scher-zosamente “Pancoto” per il mio carattere troppo tenero. Nonni che mi hanno insegnato, congiuntamente ai miei ge-nitori, che esistono il rispetto verso il prossimo, l’altruismo e in particolare il valore delle cose che la vita ci fa conoscere, ci regala o toglie. Due nonni speciali!

Come dimenticare quel vissuto? Ora i miei genitori ripo-sano a Venezia nell’isola di S. Michele e “Loro” riposano al Lido di Venezia. Li ho sempre tutti e quattro nel mio cuore e con tanto affetto li ricordo; affetto che, pur non avendoli conosciuti, porto anche per i miei quattro nonni veri.

– 77 –

Nell’amore uniti

di Rita Mazzon

Mio padre per lavoro era stato trasferito a Udine.Io ero piccola e mi sembrava che quella città fosse molto

lontana.Cambiavo città, cambiavo scuola, lasciavo la mia amica

del cuore Anna e soprattutto lasciavo la mia nonna.Furono anni di lontananze, di partenze e di abbandoni.Mio padre faceva il viaggiatore di commercio ed era

sempre via.Mia madre si chiudeva in una specie di mutismo creati-

vo e nella stanzetta dava sfogo al suo talento da pittrice.Io vivevo per la maggior parte della giornata nella gran-

de soffitta popolata dalle mie fantasie.Eravamo chiusi nella nostra solitudine, e le poche volte

che ci trovavamo assieme non bastavano ad aprire il nostro cuore ai discorsi.

Aspettavo, contavo i giorni, in cui si programmava di ri-tornare per qualche giorno a Padova.

Lì mi sentivo in una piazza piena di carezze e di baci. Lì diventavo il centro di tutte le attenzioni.

La nonna viveva con il figlio sposato, che aveva avuto due bambini. Nella stessa casa c’era mia zia che aveva il com-plesso di essere zitella. Al piano superiore della casa viveva un’altra zia sposata che aveva tre figli.

Una parentela allargata. Una girandola di zii e cugini.Quando arrivavamo nella casa c’era un chiacchiericcio

continuo.

– 78 –

Tutti volevano sapere le ultime novità, dato che le lette-re erano poche e le telefonate costose.

La nonna mi chiedeva se ero stata brava a scuola e per ogni voto buono che avevo preso mi dava un bacio e una caramella.

Nella cucina bollivano sempre i pentoloni con il brodo o le pignatte colme di sugo. La nonna mi preparava il risotto, perché sapeva che mi piaceva. Alla fine del pranzo una fetta di torta margherita si trovava sempre sul mio piatto.

Io mi coccolavo tra le braccia della mia nonna, così bella, morbida, paffutella. Lei mi raccontava della sua gioventù, di quando aveva i capelli lunghi e biondi. Io pensavo che mi raccontasse una favola, perché non ho mai creduto che fos-se stata giovane.

Se faceva bel tempo giocavo con i miei cugini nel grande cortile. Ci divertivamo a rincorrerci, a saltare con la corda.

La sera, dopo aver bevuto il latte e sussurrato una pre-ghiera al buon Angelo Custode, si andava a dormire nel gran-de lettone. C’era sempre posto in quel letto. Sembrava una fisarmonica che si aprisse ad ogni nuovo arrivato.

Non c’era mai freddo in quella casa. Tutto era riscaldato dal nostro amore.

Non c’era la possibilità che qualcuno si mettesse in un angolo e si sentisse solo, perché subito veniva coccolato in un abbraccio. Andavo così a mendicare a ognuno una paro-la per portarla via e tenerla stretta. Mi sarebbe servita per quando sarei ritornata nella soffitta. Infatti spesso parlavo da sola, dando corpo ai miei cari, che si materializzavano dal-la memoria di quei momenti passati in compagnia.

La cucina era la stanza più importante della casa. Lì si mangiava sul tavolo grosso di legno, dove la nonna stendeva con il matterello le tagliatelle gialle.

Lì la zia lavorava a maglia seduta sulla sedia impagliata e noi cugini ci davamo una mano a fare i compiti. Non erano

– 79 –

poi tanto giusti, ma era uno spasso ridere, scherzare. La non-na ogni tanto ci zittiva, ma poi si metteva a ridere con noi.

Quando arrivava il giorno di partire mi sembrava che ogni volta si staccasse un pezzo dal mio cuore.

Sapevo che a Udine avrei ritrovato il silenzio di sempre.Mi pesava il senso di quell’abbandono. Avrei voluto te-

nerli tutti fissi, incollati a me i miei cari, portarmi la nonna dentro la valigia, ma non si poteva.

Ancora adesso che ho le strade delle mie rughe ispessite sulla fronte, mi piace passare il dito sulla pelle e ripercorrere all’indietro il mio cammino. Quasi volessi ripassare la lezione della vita insegnatami da loro.

Il volto amato dei miei cari rappresenta l’attaccamento alle mie origini.

Mi ricordo delle parole della nonna, che mi diceva: «Si possono risolvere tutti i problemi della vita, restando nell’amore uniti».

– 80 –

Ninna nanna… pupa zuccherosa

di Giancarla Milan

Quando è nata Laura i suoi genitori vivevano con me e con mio figlio più giovane. Io lavoravo ancora, ma dal tardo pomeriggio fino alle sette di mattina la bimba era tutta mia. Io arrivavo a casa e mio figlio e mia nuora partivano per an-dare ad aprire il loro esercizio pubblico fino a notte inoltrata. Era la mia prima nipotina e il papà le aveva dato lo stesso nome di quella sorellina che era nata prima di lui ma che non aveva mai conosciuto. È facile intuire quanto io adorassi Laura e quanto rappresentasse per me quella figlia che mi era mancata.

Dormiva nella sua culla vicino al mio letto, l’addormen-tavo tenendola per mano e trascorrevo tutta la notte rivolta verso di lei. Al suono della sveglia ero io che le davo il bi-beron di latte e dopo averla lavata e cambiata spingevo la culla con la bimba nella camera dei suoi genitori e io me ne andavo a lavorare tutta felice.

Come facevo con i miei figli quando erano piccoli, il mio pensiero la seguiva durante tutta la giornata e vedevo ovun-que quei suoi occhi azzurro chiaro.

La nostra era un po’ la casa madre, rallegrata da una famiglia gioiosa che riuniva nei giorni di festa tutti i parenti perché si sa che dalla nonna si mangia bene, la nonna tiene tutte le fotografie, la nonna sa attaccare un bottone, ti rifà la piega scucita dei pantaloni, la nonna ti lascia fare i salti sui letti e sulle poltrone… C’era anche un immenso giardino e quindi spazio per Luna e Sole, i due cuccioli che i miei figli erano andati a prendere in un canile.

– 81 –

Col tempo era arrivato anche Thomas, con due occhioni ancora più azzurri di Laura. Come nonna ero già esperta e quindi facilitata nei rapporti con il nuovo nipotino. Eravamo sereni, forse anche felici, una famiglia allargata dove nessu-no rubava spazio agli altri, dove ognuno aveva il proprio ruo-lo, dove nessuno interferiva sul comportamento degli altri e dove ai bambini veniva garantita una crescita senza disconti-nuità di amore e di protezione.

Mio figlio minore si era sposato, io ero stata trasferita da Padova a Venezia con il mio lavoro. La grande casa si stava svuotando e ognuno di noi era andato a vivere con il pro-prio nucleo famigliare. Io ovviamente da sola. Luna e Sole erano gli unici a essere rimasti nella grande casa con i nuovi padroni.

Avevo delle serate vuote, rispetto alla vita di prima. Tro-vavo anche il tempo per riascoltare le cassette registrate con i nipoti mentre cantavano le canzoni dello Zecchino d’oro o le interviste che facevo loro per godermi quell’infinità di risposte fantasiose, o la ninna nanna di Gabriella Ferri che iniziava con “E fai la ninna nanna bimba bella, e fai la ninna nanna pupa zuccherosa…”. Quanto piaceva a Laura!

E sorridevo spesso pensando a quante ne combinava-no nel loro nuovo appartamento con mamma e papà, come quando avevano deciso di comprare una tenda da campeg-gio e l’avevano poi montata nel soggiorno per provarla. Oc-cupava l’intero spazio della grande stanza e avevano dormi-to in tenda, felicemente tutti insieme, senza che a nessuno passasse per la testa di trasferirsi in camera da letto. Ecco, pensando a questo mi ero spesso chiesta quanto probabil-mente avessero avuto tutti voglia di un po’ di libertà, di fare pazzie… nella grande casa della nonna questo non sarebbe mai stato possibile.

Quando sono nata io, i miei genitori vivevano in una grande tenuta di campagna con nonni e zii. Ero la prima ni-potina e i miei nonni mi adoravano, ma dopo qualche anno

– 82 –

mamma e papà avevano deciso di trasferirsi in città. Ritorna-vamo in campagna tutte le domeniche e durante le vacanze. Non c’era un posto migliore per me, ma forse per i miei geni-tori era molto importante formarsi la loro famiglia ed essere indipendenti. Quando anche i nonni decisero di lasciare la tenuta e di andare a vivere con un figlio molto lontano da noi, ricordo che mi sembrava di averli perduti per sempre. Iniziava invece un rapporto epistolare meraviglioso e io con-servo ancora adesso le lettere che mi scriveva soprattutto mia nonna quando studiavo in Inghilterra e perfino quan-do ero già sposata, dandomi dei consigli e facendomi delle raccomandazioni.

«Laura non sta bene, piange disperata e vuole il suo papà. Adesso è a letto con me, abbracciata a me, non so più che cosa dirle. Lo sapevo che con lei sarebbe stato difficile…»

Mi arriva questo messaggio in piena notte, al mare, dove sto trascorrendo qualche giorno di vacanza nel tentativo di ricaricarmi, di trovare nuove energie.

Rivedo Laura ancora piccola, in moto con il suo papà, abbracciata strettamente a lui nella corsa verso il mare, mentre la mamma seguiva in macchina terrorizzata che la bimba cadesse.

Laura ha ormai quindici anni, un’adolescente che si ri-volge alla mamma, una mamma che chiede aiuto alla suo-cera. Un rapporto fra tre generazioni, dove quella che sta in mezzo non ha più bisogno di libertà e indipendenza ormai raggiunte, ma si sente fragile e incapace di lenire il dolore dei figli in un momento così delicato e difficile.

E allora mi rendo conto quanto sia ancora importante il mio ruolo di nonna, quanto più forte sia la mia generazione in questa battaglia, quanto sia necessario che al più presto io dimentichi di essermi sentita disumana, impotente, crudele, una nullità, quando mio figlio mi supplicava: «Mamma, tu che puoi tutto, portami a casa» e io non ho potuto farlo, non mi avrebbero permesso di farlo… aggrappandoci tutti a quel sottilissimo filo di speranza.

– 83 –

Thomas quel giorno compiva tredici anni. Io avevo scel-to di staccare il telefono e di trascorrere la giornata da sola, andando a cercare tra i ricordi… i primi pensierini dei miei nipoti. Thomas aveva scritto del suo papà: «Mio papà è for-te, ha tanti muscoli e mi difenderà sempre». Il giorno dopo sarebbe stato lui, magrolino e con pochi muscoli a essere il più forte e accompagnare il suo papà. Era stato lui a dare il terribile annuncio alla bisnonna, a consolarla, a tenerle la mano. A scuola i suoi compagni avevano portato dolci e bibi-te per festeggiare ugualmente il suo compleanno e avevano sospeso la recita di Natale per essergli accanto nell’estremo saluto al giovane papà. Sono infinitamente belli e grandiosi questi nostri adolescenti.

E poi c’è il piccolo Andrea. Sotto il cuscino del suo lettino custodisce gelosamente un vecchio portafoglio sgualcito del papà. Disegna e scrive spesso letterine per lui, che depone tra i fiori davanti alla sua foto. Non guarda più gli aerei aspet-tando il suo ritorno…

Generazioni a confronto, nei momenti di gioia e nel grande dolore. Ogni generazione ha le proprie risorse, le proprie capacità, le proprie debolezze e le proprie forze. L’importante è rivolgersi sempre, quando ci sentiamo per-duti, a chi in quel momento riteniamo più forte di noi, fosse anche un bambino.

Ne ho avuto la conferma quando la mia attività al Museo Veneto del Giocattolo mi ha permesso di essere a contatto con centinaia di bambini e di adolescenti. Sono stati una me-dicina e un grande sollievo, anche se qualche volta non sono riuscita a frenare la commozione quando mi si presentava un bimbo con gli occhi neri e un casco di capelli biondi. Nei più piccoli ho amato la loro spontaneità, la loro ingenuità, il loro chiamarti “nonna” anche se non ti hanno mai visto prima, il loro fingere di non essere in grado di infilarsi una scarpina solo per averti in esclusiva per un attimo; nei più

– 84 –

grandi ho apprezzato il loro confidarsi e il loro esprimersi con i propri sentimenti ed emozioni, ecco tutto questo è entrato nel cuore di una nonna e lo ha reso vellutato dopo un pro-fondo graffio.

“E fai la ninna nanna bimba bella, e fai la ninna nanna pupa zuccherosa…” Sì, quando Laura verrà a stare con me un po’ di tempo la terrò stretta tra le mie braccia e le canterò la sua ninna nanna preferita per farla addormentare… sono certa che le piacerà.

– 85 –

A casa con i nonni

di Alfredo Modenato

Purtroppo i nonni non li conobbi; sono morti di crepa-cuore, dopo la fine della guerra, attendendo i figli che, senza poter inviare notizie, tornarono troppo tardi dal fronte.

Nacqui nel ventuno e ora, sulla soglia dei novantadue ringrazio il Signore perché viva è in me ancora la fiamma del ricordo delle nonne.

La paterna nonna Gegia, la “nona dele bale”, conduceva una osteria con gioco di bocce e la trovavamo mentre me-sceva “ombre ” sul bancone o serviva gli anziani che, ai tavo-li, giocavano a carte.

Con noi abitava Marietta, la nonna materna, e con lei divisi la camera da letto per nove anni.

Conduceva la sua vita casalinga con metodica precisione, accompagnata da un sorriso, accennato ma continuo, e dalla dolcezza dello sguardo che mi inseguiva costantemente.

Giocava con me, ma meglio esprimeva il calore del suo affetto tenendomi in braccio o appoggiato al suo grembo.

Emanava il profumo dell’amore, ove la saggezza si espri-meva più che nella ricerca, nella felicità della dolcezza di un passato che si trasformava in un luminoso avvenire.

Dopo i piccoli sprazzi fra le nebbie della fanciullezza, il primo che si affaccia al sole dei ricordi è la lunga passeggiata con cui mi portò a iscrivermi alle elementari a Marghera.

Al mattino, assestava i letti della nostra stanza, prepara-va la colazione, puliva i pavimenti e le sue faccende si realiz-zavano col rito di una funzione sacra.

– 86 –

Dopo pranzo, sparecchiata la tavola, si metteva – pareva avesse soggezione – nell’angolo del focolare, accendendo la sua pipa di terracotta.

Tempo permettendo, usciva sulla grande terrazza, pas-sava in rivista e curava le piccole piante e i tanti fiori.

Era il tempo delle vacanze; ogni giorno andavo a pren-dere il pane all’unico negozietto di legno, installato in quella landa su cui si stendeva la zona industriale di Porto Marghera.

Avevo undici anni quando, quel giorno, rientrando col pane, alcune persone, in servizio nella portineria della fab-brica, cercarono di trattenermi mentre stavo per imboccare la scala che conduceva al nostro appartamento; ma io sfuggii dalle loro mani e, di corsa, salii la scala, senza sapere la cau-sa; un raptus improvviso, un richiamo dell’anima!

Trovai la nonna a letto, assistita dal medico. Era caduta per uno svenimento davanti al lavello mentre stava pulendo il cucchiaio che considerava di sua esclusiva appartenenza.

Sette giorni le fui accanto al capezzale, pregando e sperando…

Ora, a ottant’anni di distanza, sento la sua mano che si posa sul capo e benedice… e m’accompagna sui cammini della memoria, facendomi ritornare bambino, gioire del suo amore che, spontaneo, emanava dalla sua dedizione e dise-gnava tenerezze di madre antica.

– 87 –

Se chiudo gli occhi

di Emanuela Prior

Se chiudo gli occhi vedo ancora quella grande casa in cui abitavamo in ventisei persone… si arrivava perfino al quar-to grado di parentela! Eravamo in tanti e noi bambini non potevamo mangiare in cucina con i grandi ma stavamo sui gradini della scala che portavano al granaio… come i polli! La nostra cena era un bicchiere di latte e solo i figli del padrone potevano gustarsi una scodella di caffelatte con lo zucchero. Io per assaggiare un po’ di zucchero dovevo guardarmi bene di non essere vista da nessuno: quando il padrone, che era un invalido di guerra, mi mandava a comprare due etti di zucchero non riuscivo a resistere alla tentazione… di nasco-sto aprivo il sacchetto, leccavo un dito, lo affondavo dentro e poi dritto in bocca. Velocemente mi pulivo e richiudevo il sacchetto come era prima perché nessuno doveva sospetta-re di nulla.

Quanti ricordi mi tornano alla mente... ma questo rac-conto lo voglio dedicare a mio nonno Bepi che mi voleva tan-to bene. Avevo otto anni e una sera, dopo la recita del santo rosario, lui si è avvicinato dicendomi: «A letto subito! Do-mani mattina prima che suoni l’Ave Maria dobbiamo andare nel terreno che tua nonna ha ereditato!». E io, borbottando tra me e me perché dopo i campi ci sarebbe stata la scuola, sono andata a letto contenta perché il nonno aveva scelto me per aiutarlo.

L’indomani prima delle cinque è venuto a chiamarmi e con i buoi e le mucche abbiamo attraversato il paese; sia-mo arrivati nel terreno che era ancora buio, ci siamo seduti

– 88 –

e io ho preso sonno! Mi sono svegliata perché ho sentito qualcosa muoversi sotto il mio sedere, era una piccola bi-scia! Suonava l’Ave Maria e insieme abbiamo detto l’Angelus Domini. Abbiamo munto una mucca per fare colazione e ci siamo incamminati verso casa. Puntuale alle otto e mezza sono arrivata a scuola.

Avevo otto anni e oggi che ne ho ottantanove molti sono i ricordi che ho perso ma dentro di me, insieme al viso e al modo di parlarmi di mio nonno, rimangono i colori del cielo alle cinque di mattina, il suono delle campane dell’Ave Ma-ria, il silenzio del paese che dorme, il mio sedere muoversi sopra la biscia, il sapore del latte appena munto… rimango-no in me e mi fanno sentire viva!

– 89 –

In casa

di Carla Ravazzolo

5 aprile

Mattone, malta leggera, mattone, malta leggera, col-petto di cazzuola. Mattone, malta leggera, mattone, malta leggera, altro colpetto di cazzuola. Sono diventato veloce e preciso, chi l’avrebbe detto…

Mi sto costruendo intorno una piccola casa.Quasi ogni notte quello che ho costruito viene demolito,

e tutti i mattoni e gli attrezzi vengono ordinati in un angolo sopra una stuoia che mio figlio ha comprato apposta per non rovinare il pavimento.

Giusto, non voglio rovinare niente, anzi voglio costruire qualcosa di nuovo. Ci ho messo mesi a fargli capire, e non ha capito, che non è mia intenzione rinchiudermi in una specie di loculo, o separarmi dal mondo che mi sta intorno.

9 aprile

Sono rimasto a casa da solo per il fine settimana e sono riuscito quasi ad arrivare al coperto: io non sono molto alto e quindi ho previsto la copertura a un metro e novanta. E lì ero arrivato, dopo un sabato e una domenica senza quasi pause, quando è tornato; ho visto subito che ci era rimasto molto male.

Per tranquillizzarlo ho dovuto innanzi tutto promettere che avrei aumentato la dimensione delle mie finestre: forse non aveva torto nel dire che più che finestre sembravano feritoie e che anche parlare attraverso aperture così piccole può diventare un problema. Diceva che da dentro non è pos-sibile parlare, al massimo sparare.

– 90 –

In realtà non ho mica tanta voglia di parlare, ho sprecato voce tutta la vita a parlare, spiegare, rimproverare, rispiega-re, interrogare. Ora voglio solo costruire qualcosa di pratico, che si possa vedere ogni sera; mattone su mattone voglio tirare su i muri e avere una piccola casa fatta da me. Quattro mura, uno e novanta per uno e novanta, una apertura picco-la ma sufficiente da sessanta sulla facciata, su ognuno degli altri lati una finestra non più piccola, ho dovuto cedere, di cinquanta per cinquanta. Abbiamo demolito tutto.

16 aprile

Quando arriverò al tetto, sarà da vedere come realizzar-lo. Non mi dispiacerebbe mettere delle travi, ricavare un pic-colo solaio per esempio, ma per la copertura esterna ancora non ho deciso.

Dovrò discutere tutti questi particolari con mio figlio, che da qualche anno, da quando si è separato dalla moglie, è tornato a vivere con me nella nostra casa di famiglia: è bella e grande, casa di campagna, o meglio che una volta era di campagna perché con il passare del tempo è diventata di periferia e con un altro po’ di tempo quasi di prima periferia. Ma è rimasta grande, solida e con un grande ambiente al piano terra che è diventato il mio terreno da lottizzare e da costruire.

17 aprile

So che passo di volta in volta per stravagante, malato, eccentrico, poco in sé o mica tanto giusto, tutto sommato innocuo o un po’ molesto, presenza confortante o sconfor-tante a seconda dei momenti e delle persone.

Mio figlio non capisce ma neanche io avrei capito alla sua età. È in quella fase della vita in cui l’immagine che si vuole dare di sé supera quello che si desidera essere e ancor più quello che si è. Un padre come me oggi può essere imba-razzante, lo capisco. Talvolta mi piacerebbe dirgli che anche lui da ragazzo è stato imbarazzante per me. Ma è un bravo

– 91 –

figlio e non voglio rendergli la vita difficile. E in fondo mi di-spiace anche che sia costretto ogni sera a smontare i miei mattoni e a sistemare le mie cose. Gli ho detto più volte di lasciare stare; quando avrò finito pulirò tutto e rimarrà solo la mia piccola casa dentro la casa che ormai è sua perché voglio che sia sua.

24 aprile

Si preoccupa, dice che in casa nostra potremmo vivere in cinque o sei senza mai pestarci i piedi, e ha ragione, che posso prendermi tutto lo spazio che voglio, e non ha ragione perché non ho la mia piccola casa e insiste, insiste perché io esca; ma io non voglio uscire, voglio entrare. Voglio essere nella sua realtà con la mia piccola ben fatta e ben rifinita realtà.

26 aprile

Le cose stanno cambiando rapidamente. Da qualche mese frequenta, come dice lui, una ragazza. Carina, ben educata, gentile. Parla poco ma, cosa ben più importante, capisce. Sento che qualche sera si ferma a dormire con lui e ne sono contento. Forse lui gliel’ha riferito perché una matti-na di qualche giorno fa, quando sono andato per riprendere il mio lavoro, ho trovato davanti a quella che sarà la soglia della mia porta tre piccole piantine. Parla poco ma capisce, l’ho detto.

29 aprile

Quando dico che le cose stanno cambiando rapidamen-te, sono probabilmente troppo lento nel dirlo e scriverlo; cambiano molto più rapidamente di quanto pensassi. La ragazza ha una bambina. È anche lei carina, ben educata, gentile. Ma non parla poco, anzi chiede molto. Vuole sapere tutto sul progetto della mia casa, domanda cosa ci metterò dentro una volta che l’avrò finita, di che colore farò le pareti e se inviterò qualcuno per fare una festa. Non è questo l’in-tento, le spiego, ma non si sa mai.

– 92 –

6 maggio

Ieri pomeriggio mio figlio è tornato a casa presto. Sicco-me so che non gli piace vedermi con mattoni malta cazzuola, ho interrotto il mio lavoro e ho iniziato a sistemare in giro. Si è fermato a fare due chiacchiere, come fa ogni giorno; ma stavolta ho capito che aveva qualcosa per la testa. Infatti dopo un po’ ha iniziato a parlarmi di questa ragazza; mi ha confidato che ci tiene davvero molto a lei e anche alla bambi-na. Si vede, gli ho detto, e mi sembra una bella cosa, ne sono contento. Allora mi ha chiesto un favore: per il complean- no la piccola gli ha chiesto di poter far campeggio con una piccola tenda vicino alla mia casa in costruzione. Pensavo di poterla accontentare? Gli promettevo di pensarci?

9 maggio

Ci ho riflettuto parecchio, anzi in questi giorni non ho fatto altro. Non so quali pensieri mi sono passati per la testa, non so se ho avuto timore di offenderlo o se ho voluto com-piacerlo o se mi ha fatto felice la richiesta, non so davvero perché, ma ho accettato.

Credo che se l’esperimento funzionerà, potrebbe essere divertente ampliare il mio progetto a una bifamiliare e anche oltre.

– 93 –

La mistica ortodossa

di Annamaria Ridolfi De Zan

Per andare da mio nonno Sandro c’erano due possibilità di entrata. Una per il portone di casa, l’altra per la Roma. Passato il portone, attraversato un androne grande e scuro, diritto, una porta finestra fra due finestre. Poi un giardino senza sole, in mezzo un marciapiede e di fronte la porta di casa sua. Una porta sempre aperta incorniciava sullo sfondo una porta finestra su un giardino. Pieno di sole. Si intravede-vano rose da orto. Attraverso questo giardino raggiungevo il suo ufficio. L’altra entrata era per la Roma. Qualche passo in più rispetto alla prima. Un cancello di ferro e rotaie. Suo-navo e veniva sempre ad aprire la Roma: la portinaia. Era l’accesso alla fabbrica della Saffa. A sinistra, nella strada di terra battuta le rotaie. A destra, prolungamento della por-tineria, un edificio basso a un solo piano, dentro un odo-re greve di ufficio. Gli uffici si aprivano uno dentro l’altro, il pavimento di legno scricchiolava ad ogni passo, l’ultimo in fondo era quello del nonno. Dalle finestre del suo ufficio in-corniciate d’estate di rose da orto si vedeva il giardino pieno di sole, sfondo della prima, vera e propria entrata di casa sua. La strada di terra battuta. Sulle rotaie carrelli di ferro. Fra «tira su le gambe! tienti salda!...» e nostre grida esal-tanti ci spingeva fino a dove in fondo si aprivano campi fra enormi capannoni e cataste di legname. Qui il suo orto, la sua campagna in città, campagna solo per lui e per me, per noi che la desideravamo. L’avevamo a portata di mano. Fuori del cancello la città, l’acqua, i monumenti, il ponte dei tre archi tra i monti e il mare. Di qua del cancello, noi, la terra

– 94 –

battuta, le rose spampanate, i carrelli treni, i campi di erba alta, l’odore del legno, l’orto. Ero una bambina di otto anni e non capivo perché dovevo entrare in quell’orto con tanta circospezione. Pian piano apriva il cancello di legno, subito mi diceva di stare attenta a dove mettevo i piedi. Rapito poi dalla presenza delle sue piante si occupava di loro e io più libera andavo fra i pomodori. Speravo di riuscire a staccarne uno, senza essere vista, per poi nascosta fra le verdure an-nusare quel profumo che mi restava nelle mani, che esalava proprio là dove lo avevo staccato. Un profumo indefinibile, misto di terra, di mare, di sole.

Mi rivelò in quell’orto il rispetto religioso verso la na-tura. In silenzio le offriva il suo amore più vero e più nasco-sto. Mi era richiesta una concentrazione come mai in altre occasioni.

Entrare a casa sua, era entrare in un porto di mare, posto per tutti, tanto posto per i cappotti, entrare per una stanza o per l’altra era lo stesso, fosse lo studio dal pavi-mento di legno lucido o la cucina. Ma nell’orto in fondo, no. Era un posto in fondo, in fondo all’anima. Era come entrare nella sua chiesa dei greci, dove fin da piccola mi portava te-nendomi per mano, la mia piccola mano nella sua grande e forte. Le candeline accese nella sabbia, per i morti. Per i suoi morti. Greci ortodossi da secoli a Venezia. Religione di culto, religione del ritrovarsi nel silenzio fra gli alti banchi di legno, nell’intenso e inebriante profumo dell’incenso, fra i canti lunghi, estenuanti e penetranti, fra preghiere recitate in greco da lui e dai suoi fratelli e sorelle e io che non capivo niente e mi sentivo in paradiso.

– 95 –

La mia fragile forte Nonna

di Luigino Righetto

Vivo l’età in cui si diventa nonni e ripenso spesso alla figura esile, debole all’apparenza, che mi ha accompagnato con discrezione alla giovinezza.

Alta un metro e mezzo, aveva il capo coperto da un velo nero stretto con un nodo sulle spalle, che nascondeva i suoi candidi capelli raccolti in crocchia a formare un mazzocchio sulla nuca. Gli occhi limpidi e trasparenti come un cristallo, donavano al suo viso segnato da profonde rughe, scavate dall’età e dalle sofferenze, una luce brillante che rendeva se-rena la sua bellezza senile, aggraziata da un timido sorriso che lasciava intravedere le nude gengive e il suo unico den-te canino. Le piccole mani nodose erano segnate da grosse vene.

L’unico vestito che ha sempre indossato era una lunga tunica nera che le copriva le caviglie e lasciava spuntare un paio di nere ciabatte che nelle occasioni importanti lucidava con cura.

Era la mia Nonna paterna, per me la nonna più bella del mondo.

La ricordo vecchia e l’ho vista consumarsi lentamente fino a conservare solo la magra corteccia di uno scheletro minuto.

Alla fragilità del corpo contrapponeva una grande forza d’animo in contrasto con una mite bontà che nella mia vita non ho più ritrovato in altre persone.

– 96 –

Gli ultimi ricordi che ho di lei sono le lacrime e le parole chi mi ha detto quando sono partito per il servizio militare, dandomi l’ultimo bacio: «Vai vai bello mio, noi non ci rive-dremo più».

È stata profetica. È morta solo un mese dopo, mentre ero lontano da casa.

Ho saputo in seguito che dopo la mia partenza, già mi-nata dal male, girava per casa depressa, stordita e assente, come alla ricerca di qualche cosa che le mancava. Cosa le sarà passato per la mente? Forse il ricordo di mio nonno, partito per la guerra e mai più tornato?

Ho vissuto con lei fino ai vent’anni e il rammarico che mi porto nel cuore è di non averla potuta salutare per l’ultima volta.

Ottenuto un permesso, dopo un lungo viaggio, sono ar-rivato in paese per i suoi funerali, ma sceso dal pullman, un amico di famiglia, con gli occhi gonfi di pianto mi ha informa-to che la nonna era stata sepolta il giorno prima.

Non volevo crederci e mi sono recato al cimitero poco lontano.

Le alte mura e i cancelli in ferro che racchiudevano il cimitero, a me bambino, apparivano come un castello. Pur-troppo il tumulo di terra fresca e la foto che ritraeva la nonna con gli occhi chiari e il sorriso triste ma dolce, mi hanno con-fermato la realtà e da quel giorno anche per me quel luogo è diventato il cimitero. Mi ha preso un brivido e in solitudine ho pianto perché non avrei più potuto tenermi abbracciato a quella mia piccola e fragile nonnina che tanto bene mi aveva voluto e le ho detto: «Nonna, ora tu sei finalmente felice, ma io non potrò più sentire la tua mano delicata accarezzarmi i capelli.»

In un attimo ho rivisto il film della sua vita. Il suo rap-porto stretto con me e i miei fratelli, le sue poche gioie e le sue tante tribolazioni. Mi sono tornate alla mente le fiabe che mi aveva raccontato e i tanti racconti delle vicende della sua vita. Ho realizzato che giovane vedova di guerra aveva

– 97 –

allevato da sola senza mai lamentarsi, quattro bambini, che non ricordavano il loro padre assente da casa per il servizio militare.

Ho rivissuto le tante sere prima di addormentarmi quan-do già al caldo sotto le coperte, in una camera gelida e mai riscaldata, la sentivo arrivare leggera e silenziosa per coricar-si. Si avvicinava con discrezione, mi chiedeva se avevo recita-to le preghiere della sera e con la sua flebile voce sussurrava il pater ave e gloria, prima in latino poi in italiano, quasi che le prime non fossero state capite da Dio, poi le preghiere dei defunti e altre invocazioni.

Mentre si coricava, rimboccandosi le coperte, recitava in dialetto l’ultima preghiera che ancora ricordo:

A leto me ne voDe sveiarme mi no soVu Madona che savì Quante Grazie me donarìConfession, Comunion, òjo SantoNel nome del Padre...

Me ne vado a lettoma non so se domani sarò ancora vivoVoi Madonna che conoscete il mio futuroMi auguro mi diate la grazia di riceverela Confessione, la Comunione e l’unzione delle infermiNel nome del Padre...

Con il tempo ho capito il suo abbandono alla volontà divina e la piena fiducia nella sua misericordia, e il profondo desiderio di cristiana praticante di ricevere con coscienza gli ultimi sacramenti.

Un turbinio di ricordi affollano ora la mia mente ma pos-so trascrivere poche significative memorie per ricordare gli insegnamenti ricevuti più con l’esempio che con le parole.

A casa eravamo in otto: papà, mamma, cinque fratelli e la Nonna.

Lei, come spesso succede fra gli anziani, si era ricavata il ruolo di saggia.

– 98 –

Non era né saccente né invadente ma la sua discrezio-ne ci portava quasi inconsapevolmente a chiedere sempre il suo parere quando c’erano delle decisioni importanti da prendere. Trovava sempre il tempo di ascoltare tutti.

I miei genitori, consapevoli del suo patrimonio di espe-rienza, tenevano in grande conto il suo pensiero e i suoi consigli.

Noi bambini e ragazzi avevamo quasi una venerazione nei suoi confronti.

Leggeva senza occhiali il settimanale «Famiglia Cristia-na» e ne commentava criticamente gli articoli più importan-ti, lasciandoci stupiti della sua capacità di comprendere e commentare quanto aveva letto. Aveva frequentato solo la seconda elementare.

Quando combinavo delle marachelle e succedeva spes-so, a volte ero punito e mandato a letto senza cena.

Mia Nonna non interveniva mai in mia difesa, ma nel silenzio della notte, quando tutti erano a letto mi dimostrava il suo amore portandomi qualche cosa da mangiare. Mi rac-comandava di non riferirlo alla mamma, ma sono convinto che qualche volta fossero d’accordo fra di loro.

In quelle occasioni non mancava di rimproverarmi e con un leggero ticchettio della mano sulla mia fronte ripeteva una sua frase ricorrente: «Lazaròn, quando xe che te metaré giudissio».

Ora che i bollori di gioventù sono svaniti, ti assicuro Nonna, che vorrei essere buono come lo sei stata tu.

– 99 –

La mia famiglia: ieri un alveare, oggi piccole cellette

di Francesca Rigoni

Quando mi capita di andare in ricognizione nella “cane-va” (cantina) della casa dei miei genitori alla ricerca di qual-cosa, un martello, un cacciavite o solo per tuffarmi un po’ nel passato, a volte mi accompagna mia nipote Alice. La cosa mi fa felice perché le sue domande, la sua curiosità danno fondo alla memoria e inizio così il gioco dei ricordi con la speranza di trasmetterle conoscenza di cose, di fatti che stia-mo perdendo.

«Zia, cos’è quel quadro mezzo nascosto là in fondo?» «Oh, quello è il ritratto del bisnonno Federico, il papà della mamma di mio papà, di tuo nonno Pasquale dunque; quan-to tempo è passato da quando troneggiava imperiosio nella “stua” o tinello della casa del Ferro: ci han sempre detto che era molto severo e i suoi occhi incutevano timore anche in foto. Vedi anche ora sembra scrutarci e ammonirci, se non sbaglio stai studiando il Risorgimento, ecco lui è vissuto in quell’epoca, pensa che la tua bisnonna di secondo nome fa-ceva Italia: altri tempi!»

«Zia, sento spesso nominare gli anni in cui avete abitato al Ferro, me ne parli un po’?»

«Volentieri, io ci ho vissuto solo i primi dodici anni della mia vita e forse perché ero bambina li ricordo con tanta no-stalgia ma quanto lavoro, quanti sacrifici per i tuoi nonni!»

«Alla solitaria casa del Ferro i tuoi bisnonni erano arriva-ti nel 1929 dopo aver passato la Grande Guerra, il profugato, generato sette figli (due femmine e cinque maschi di cui uno disabile), la divisione dal ceppo originario inevitabile: troppe

– 100 –

le bocche da sfamare, pochi i campi di proprietà da lavorare. Padroni di casa e terreno erano dei signori veneziani e noi siamo stati loro fittavoli per ben quarant’anni ma facciamo un salto nel tempo a quando tua nonna, mia mamma, entra a far parte della famiglia pochi anni dopo la fine della Secon-da Guerra Mondiale.»

«Uffa zia, ma erano sempre in guerra una volta?»«Purtroppo sì e dopo la guerra rimanevano solo dolore

e povertà ma torniamo alla nostra storia.»«Nonno Cristiano e nonna Anna arrivati alla sessantina

ormai avevano esaurito le forze, allora si invecchiava prima, le due figlie femmine si erano sposate e in casa urgeva la presenza di un’altra figura femminile con cinque maschi in casa. Solo tuo nonno Pasquale aveva la morosa, la nonna Ca-terina, e così si affrettarono le nozze. Ci pensi arrivare in una nuova casa poco più che ventenne e trovarsi subito immersa in una montagna di lavoro? Sarà stato l’amore, saranno stati altri tempi ma per tua nonna non penso sia stato proprio facile. Allora ai suoceri si dava ancora del voi, non si ribat-teva nulla, si obbediva e basta, e se il nonno Cristiano era di pasta buona, la nonna Anna invece, a detta di tutti, compresi i suoi fratelli e sorelle, aveva ereditato il carattere duro del padre. Era lei il patriarca di famiglia, teneva ben stretti i cor-doni della borsa e con l’arrivo di mia mamma decise solo di comandare e farsi servire.»

«Ma quanto grande era la casa per starci tutti? Una ca-meretta tutta per te l’hai mai avuta?»

«Scherzi? La casa era sì grande, di giorno si viveva negli spazi comuni, cucina, “stua”, la sera d’inverno si faceva il filò nella stalla e d’estate si lavorava fino a tardi giusto in tempo per andare a dormire. Le stanze da letto erano quattro, la più grande la occupava nonna Anna anche dopo la morte di nonno Cristiano, con lei dormivano tua zia Anna e tuo zio Aldo, un’altra era occupata da mio zio Attilio, nel frattempo anche lui sposato, nella più piccola c’era lo zio Vittorio che, a causa della sua disabilità, ogni tanto ne combinava una del-

– 101 –

le sue. Tornando alla cameretta tutta mia, io dormivo in un lettino accanto al letto dei miei genitori e sai chi dormiva in mezzo a loro? Il tuo papà, ultimo arrivato in famiglia.»

«Mamma mia, chissà che confusione ma i giochi, le tue cose dove le tenevi?»

«Ah, non era un problema: avevo così poco! Fin da pic-cola però ho sempre amato leggere: tutto quello che tro-vavo in casa e i libri della biblioteca scolastica erano i miei giocattoli!»

«Meno male che il fratello più giovane del nonno, lo zio Toni, è emigrato in Australia, se no dove avrebbe dormito con la sua famiglia?»

«Beh, lo zio Toni è emigrato come tanti perché dopo la guerra c’era tanta fame e poco lavoro ma se fosse rimasto, stai tranquilla che un posto lo trovavano: la casa aveva an-che il granaio, oggi è un lusso avere una mansarda! D’estate poi la famiglia aumentava ancora: arrivavano le sorelle del-la nonna Anna con i figli dalla campagna a “prendere l’aria buona”, c’erano “le opere”, i lavoranti, assunti nei periodi di grande lavoro; mi ricordo bene dell’ultimo nell’estate del ’69, l’ultima passata al Ferro: Luigi, un ventenne sardo, spaesato, la prima volta lontano dalla famiglia, a stento si capiva il suo dialetto mischiato all’italiano, difficile il suo adattamento, ma dopo di noi ha trovato lavoro in pianura e ogni tanto tor-na a trovarci.»

«Ho poi un bellissimo ricordo di una signora del pado-vano di nome Virginia, una vecchietta esile e dolce che, fin che la salute gliel’ha permesso, passava l’estate da noi; era diventata una seconda nonna, ci coccolava, ci narrava storie, cosa che non faceva nonna Anna, sempre dura, severa fino alla morte. A volte mi chiedo se era il suo carattere o se è stata la vita a renderla così.»

«La casa del Ferro, seppur isolata, è sempre stata pie-na di vita, di persone anche tanto diverse tra loro, per molti versi una scuola ed è per questo che ne parlo sempre vo-lentieri perché voglio mantenerla viva con i ricordi. Non ho

– 102 –

vissuto male qui in questa casa ai Rigoni, dopotutto è stato un ritorno alle origini, ma il mondo ha preso a correre e tutto è cambiato: le stanze da troppo piene una alla volta si son svuotate. La nonna Anna è morta, accudita in casa fino all’ul-timo e così gli zii; noi fratelli, uno per volta ci siam sposati e il conquistato benessere ha fatto sì che ognuno “ndasse star par conto suo”, ci siam costruiti delle piccole cellette fuori dall’alveare nel quale son rimasti solo i tuoi nonni.»

«Beh zia, non so se mi sarebbe piaciuto vivere così, sono così contenta di avere uno spazio tutto mio!»

«Pur con tutta la nostalgia che senti nella mia voce, nemmeno io cambierei la mia vita di oggi con quella di allora ma con la crisi che c’è in giro, mi sa che ci sarà un ritorno al passato: forse bisognerà tornare agli alveari!»

– 103 –

La mia nonna

di Giuseppina Sanguin

La mia nonna materna… una persona dolcissima.Dopo la morte del nonno, la nonna materna, era venuta

ad abitare con la mia famiglia.A causa della vecchiaia aveva le gambe che non la sor-

reggevano più così passava le giornate seduta in poltrona davanti alla finestra che dava sulla strada riconoscendo, a volte, le persone che passavano, nonostante l’età.

A poco a poco mi affezionai a lei, la portavo al bagno appena tornavo da scuola, le portavo da mangiare e poi l’aiutavo ad andare a letto per il sonnellino pomeridiano. La sera, stessa cosa: bagno, camicia da notte e poi la mettevo a letto.

Tutto questo andò avanti per diversi anni. Finita la scuo-la, andai a lavorare.

Quando, a mezzogiorno, rientravo dal lavoro, la prima cosa che facevo era correre in camera perché sapevo che mi aspettava per andare al bagno e voleva solo me (diceva che avevo pazienza).

Poi andavo a pranzare. Naturalmente c’era mia mam-ma che le faceva il bagno e l’accudiva quando io non ero in casa.

Il sabato era il giorno della “barba”, dato che le erano cresciuti dei peletti sopra la bocca a mo’ di baffo e, una volta al mese, le tagliavo i capelli.

La cosa bella di mia nonna era che, con lei, si poteva parlare di tutto e aveva una risposta per tutto.

Per me era un’amica e una mamma. Mi ha insegnato un sacco di cose della vita e come dovevo comportarmi in tutte

– 104 –

le occasioni che mi potevano capitare. Insomma… quando avevo qualche problema c’era sempre lei pronta ad ascoltar-mi e a risolvere tutto con dolcezza e serenità.

Io dormivo con mia nonna nel lettone e mi rannicchiavo tutta vicino a lei e mi sentivo protetta.

Una mattina di gennaio l’ho salutata come sempre pri-ma di andare al lavoro ma… era diverso dal solito perché aveva preso l’influenza e non stava bene. Allora le ho racco-mandato di stare al caldo e di coprirsi perché faceva molto freddo. Le diedi lo sciroppo e andai al lavoro.

Al mio rientro, a mezzogiorno, volevo correre subito da lei ma mia mamma mi fermò!

Mi disse che la nonna non c’era più: era morta!Non sono andata a vederla. La volevo ricordare così, con

il suo dolcissimo sorriso e la serenità che solo lei mi sapeva infondere.

Da allora sono passati trentasette anni ma la mia nonni-na sarà con me finchè avrò vita!

Ogni volta che la penso vedo il suo sorriso e la vedo che mi parla come solo lei sapeva fare.

Ciao nonna. Ti voglio tanto bene.

Tua Bepina

– 105 –

Diario di un’amicizia

Scuola Don Milani – Classe IaB e IaC

Mestre, 16 gennaio 2012

Caro diario,ti voglio inaugurare, raccontandoti la storia di una nuo-

va amicizia che mi sta regalando tante emozioni.Tutto è iniziato proprio oggi da una comune gita fatta

con la classe, in quella che credevamo fosse una semplice struttura per anziani.

Invece ai nostri occhi si è aperto uno spettacolo comple-tamente inimmaginabile: da fuori la struttura era immensa e sembrava incutere un certo timore. Ci attendavamo una specie di “ospedale-casa” di quelli che si vedono ovunque e ci chiedevamo come mai, tra tutte le gite possibili, fosse proprio quella la nostra meta. Sapevamo solo che avremmo incontrato dei nonni speciali; i “nonni del cuore”.

Chissà come sarebbero stati; come ci avrebbero accol-ti, se avremmo imparato qualcosa di nuovo, se gli saremmo piaciuti, se ci saremmo divertiti o annoiati.

Questi erano gli interrogativi che vagavano nella nostra mente.

Ma eccoci entrare nell’edificio grande e misterioso che fissavamo con aria interessata e titubante. C’è stato un at-timo di suspance, riuscivo a vedere nello sguardo dei miei compagni la curiosità dell’attesa, ho trattenuto il fiato, fin-ché non ho visto un nonno sorridente venirci incontro.

Il suo sorriso trasmetteva un senso di accoglienza; senti-vo che sarebbe stata una giornata speciale.

– 106 –

Siamo stati colpiti dalla grandezza degli spazi, dall’ordi-ne e dalla pulizia, sembrava di essere in un hotel a cinque stelle! Stranamente eravamo tutti silenziosi, ci sentivamo piccoli come formiche.

Una signora bionda, dall’aria efficiente, ci ha presentato il gruppo di nonni che ci avrebbe accompagnato a visitare il Museo del Giocattolo. Ci aspettavamo dei “vecchietti”, in-vece erano persone giovanili, spiritose, accoglienti, vivaci e piene di storie da raccontarci. Dopo pochi minuti ci sembra-va di conoscerli da sempre!!!

È stato un vero tuffo nel passato. Di vetrina in vetrina ci sembrava di vedere i nonni bambini divertirsi con quei gio-chi: servire il the alle bambole, fare la guerra con soldatini di latta, con le macchinine e costruire modellini di treni.

Seguendo i loro racconti potevamo vagare con la fanta-sia in un mondo misterioso e a noi sconosciuto.

Finita la visita del museo siamo andati nel laboratorio del giocattolo dove ci hanno messo a disposizione materiali di tutti i tipi: bottiglie di plastica, conchiglie, lana, tessuti, piz-zo, bottoni, cartone e tappi di sughero.

Di fronte a tutto ciò ci sentivamo pieni di dubbi: cosa avremmo potuto fare con tutto quel materiale di scarto? Ma i nonni sono venuti in nostro aiuto.

Divisi in gruppi abbiamo cominciato a lavorare armati di forbici, colla e tanta fantasia, ascoltando i loro suggerimenti abbiamo creato dei piccoli capolavori. Sembrava un’impresa impossibile, ma ce l’abbiamo fatta!

Non pensavamo che i nonni sapessero realizzare dei giochi meravigliosi e che la loro fantasia ci travolgesse.

I ragazzi più grandi di noi hanno un’immagine comple-tamente diversa sugli anziani, da quella che abbiamo avuto modo di sperimentare in prima persona.

Ma questi nonni sono completamente diversi! Che dire?

Abbiamo scoperto che hanno persino un loro blog. Sa-rebbe bello poter comunicare con loro!

– 107 –

Mestre, 6 aprile 2012

Caro diario,non avrei mai potuto immaginare di partecipare a un

vero e proprio scambio intergenerazionale attraverso il pc! I nonni ci hanno accolti con entusiasmo nel loro blog e li ab-biamo invitati a raccontarci dei giochi che utilizzavano du-rante l’infanzia per passare il tempo, dei loro amici, dei luo-ghi per loro indimenticabili. Ma anche noi abbiamo lasciato i nostri ricordi… e soprattutto le nostre emozioni.

Adesso darei tutto per tornare indietro nel tempo, è un peccato che non posso; comunque sono felice perché di tut-ti quei bei momenti mi è rimasta almeno una cosa impor-tante che avrò per sempre “I RICORDI PIÙ BELLI DELLA MIA INFANZIA”…

Tatiana

Bei tempi quando ero alle materne!!!Tuttora gioco, non bisogna perdere questi momenti. È

necessario portarli nel cuore e non è vero che crescendo non si debba più giocare.

Anzi, si deve giocare di più altrimenti si invecchia dentro e si MUORE.

Samuele

Penso che crescere avendo un gioco sempre al tuo fian-co sia una cosa magnifica e che ti faccia crescere con gioia e serenità.

Secondo me il laboratorio fatto con voi, nonni del cuo-re, è una cosa stupenda ...tutti i bambini dovrebbero avere l’opportunità di parteciparvi, perché ti insegna che anche da oggetti di riciclo si può creare un magnifico gioco. È stata un’esperienza magnifica!

Secondo me il giocattolo che preferivi quando eri piccolo non te lo scordi mai, perché è come dimenticarsi di andare in bicicletta: una cosa impossibile.

Matteo

– 108 –

E che dire delle nostre e loro sensazioni che sono emerse? Abbiamo lasciato spazio a quello che ci accadeva “dentro”.

Quando parlo con voi mi sento come una ballerina, per-ché quando sono felice io ballo e scateno tutta la mia energia. Il mio cuore si riempie di gioia e soprattutto sono felice quan-do ricevo commenti, anche se ci sono scritte due parole.

Insomma quando parlo con voi mi sento così!Un bacio.Vale

Carissimi ragazzi/e della “Don Milani”, ci ho pensato un po’, ma penso che questa immagine possa rendere l’idea del-la vostra irruzione nel nostro Blog: un’onda del mare che por-ta dei ragazzi e della ragazze e che quasi ci travolge lascian-doci, a volte, senza fiato e senza parole. Noi nonni siamo un po’ ‘lenti’ e abbiamo i nostri ritmi e voi ci avete… travolto!

E a noi fa molto piacere essere travolti!!!Un abbraccio a tuttiPaolo

Mestre, 9 maggio 2012

Caro diario,il laboratorio autobiografico con i nonni del cuore è

molto divertente, ma soprattutto sempre più educativo e costruttivo.

Essendo in contatto quasi costantemente con loro, rie-scono a darci consigli e ci raccontano com’erano alla nostra età, ma in particolare ci insegnano a trovare la bellezza e lo stupore nelle piccole cose.

Non serve andare tanto lontano per vedere cose magni-

– 109 –

fiche nel mondo, basta solo che ci guardiamo intorno…È importante avere uno sguardo di questo tipo, perché

un giorno impareremo a guardare ciò che ci circonda, ca-pendo quanto sia importante. A volte dalle piccole cose si capisce tutto, anche da un semplice gesto, tipo una carezza o un sorriso.

Si può provare gioia da un sorriso di un bambino, dal-la carezza che ti fa un amico per consolarti oppure da uno schiaffo che ti tira per farti capire qual è la cosa giusta da fare, lo schiaffo fa male ma fa meno male di una bugia…

Insomma questo blog mi sta aiutando a crescere men-talmente e a fare riflessioni che prima non avevo mai fatto, adesso riesco a vedere cose che non vedevo…

Mestre, 9 giugno 2012

Caro diario,sono arrivate le vacanze! In un certo senso sono conten-

ta perché ho più tempo di rilassarmi e di stare con amici e famiglia. Una cosa però mi mancherà, il contatto con i nonni. Non avendo il pc con me, non riuscirò a comunicare con loro via blog.

Ti dico però che, anche se non li sentirò fisicamente, porterò nel cuore l’immagine di ognuno di loro, dell’allegria, della gioia e dell’amore che mi hanno donato in questi mesi, fiduciosa di poterli ritrovare presto.

Che fantastica storia questa nuova amicizia!

– 110 –

C’era una volta...Il gioco di una volta

Scuola Primaria G. Bonetto

C’era una volta un piccolo indianofaceva augh! con una manolegava la squaw al palo della torturama poi la liberava senza paura.Oggi c’è la lotta tra i Gormitinoi li vediamo spesso,sono dei veri miti!

C’era una voltail gioco dei tappi di bottigliali raccoglieva tutta la famiglia,che meraviglia!I bambini in strada, in casa o nel cortilefacevano gare a non finire.Oggi c’è la pista con le automobiline telecomandateche vanno a pilee sono molto amatecorrono veloci e filano come un razzoogni bambino come noi ne va pazzo!

C’era una voltauna bambola di pezzala nonnina da bambinale faceva una carezzaper lei era una vera bellezza!

– 111 –

La sua nonna le cuciva i vestitinie con la lana le faceva i cappellinile bambine ci giocavano da mattina a serafacevano finta che fosse una bambina vera.Ora c’è la Barbie affascinantealta, bella, sportiva ed elegante,vestita da sposa in un ristorante,di vestiti, borsette e scarpene ha tante!Ha la villa con giardino e piscina,l’automobile, il castello,è fidanzata con Kenun ragazzo muscoloso e bello.

C’era una volta il gioco dello scaloneera detto anche campana e campanoneera un percorso di abilitàsi saltava su un piede o duedi qua e di làe dava molta felicità,si calciava un sassomolto più piccolo di un masso,chi riusciva a farlo tuttoera un vero asso,chi arrivava alla casella paradisovinceva e faceva un bel sorriso!Ora c’è la Wii con pedana e schermoti metti in salotto e pratichi sportstando quasi fermo,molti ce l’hannoma costa tanti soldiniforse non è un gioco molto adatto ai bambini.

– 112 –

Prima c’era l’album con la raccolta dei calciatoriche facevano gol e rigori,le figurine erano dei veri tesori.Ora, cosa molto strana,c’è una raccolta alla settimana,le raccolte sono tantee ognuna per noi è importante:c’è quella dei cucciolotti, dei Gormiti,del gatto con gli stivalidi cani, di gatti e perfino di... maiali!

C’era una volta la corda per saltarebambine e bambini ci volevano giocareera divertente: anche le ziefacevano acrobazie.Che pazzie!Si giocava al mare o in montagnae dopo si mangiava la lasagnaperchè con i saltelli veniva famea più non possotanto da mangiarti perfino un osso!

I giochi dei nonni costavano pochi soldinima divertivano molto i bambini.Oggi di giochi noi ne abbiamo tantice li regalano genitorinonni e parentieppure noi non siamo mai contenti.Che impazienti!

Invece i giochi di una volta erano una vera magiabastava un legno, una corda e...tanta fantasia!

– 113 –

Insieme

di Antonietta Sforza

I ricordi più belli della mia vita sono quelli che mi ripor-tano bambina, a casa dei nonni paterni, in un paese del Sud, allora povero e selvaggio dove l’acqua si comprava da carret-tini ambulanti e il terreno sempre arsiccio dava vita a ulivi secolari che si incolonnavano in lunghissime file fino all’oriz-zonte. Il paesaggio per lunghi tratti non offriva alternative, racchiuso tra muretti di pietra rozzamente ammucchiata che delineavano gli argini delle lunghe e larghissime proprietà private. Era ancora una terra di latifondi che apparteneva-no a vecchi signori addirittura spesso blasonati come i conti Ceci e Spagnoletti, che non vivevano però sulle proprie terre ma in città più grandi e più moderne come Napoli o Roma.

Il cosiddetto “ceto medio borghese” era quello degli stu-diosi che si occupavano di cultura umanistica, giurispruden-za, medicina e farmacia, commerci di prodotti a volte famosi e richiesti anche all’estero. Quasi tutte le forze di ordine pub-blico e difesa dei cittadini erano formate da uomini del Sud.

Facevano parte di questo grado sociale i miei nonni pa-terni che appartenevano agli studiosi di giurisprudenza: mio nonno Francesco Sforza era infatti il pretore del suo paese, Andria, in provincia di Bari, costruito su lievi ondulazioni del terreno, a pochi chilometri della costa adriatica. Era una pic-cola città ma popolosa, come tutte le altre di questa regione, perché i contadini, a sera, ritornavano a casa dai campi.

La mia famiglia, purtroppo per noi bambini, non poteva vivere in quel paese perché mio padre dirigeva una filiale dell’allora Banco di Roma a Bari; tutte le nostre feste però

– 114 –

avevano come meta il paese dei nonni. Arrivavamo in car-rozza: eravamo in otto, un po’ pigiati ma tutti impazienti e felici.

La casa dei nonni era una costruzione seicentesca col classico atrio per i cavalli e due rampe di scale curve e diver-genti che portavano agli appartamenti del primo piano; i più grandetti di noi si catapultavano su per le scale per buttarsi per primi nelle braccia che si aprivano verso di noi con escla-mazioni gioiose e lacrime di felicità!

Anche il nonno, in quelle occasioni sfoggiava luminosi sorrisi, dimenticando la consueta austerità forense. Era un uomo alto e robusto, capelli a spazzola e sguardo severo di occhi ombreggiati dalle lunghe ciglia (come quelli di papà mio) e capaci di inchiodarti senza bisogno di parole.

La nonna, invece, era una donnina fine e graziosa, sem-pre sorridente e continuamente indaffarata per preparare a mano sul tagliere “maccheroni” di tanti imprevedibili for-mati o pasticcini di mandorle con o senza cioccolato che si chiamavano “amaretti”.

A casa dei nonni tutte le feste erano pregne di un’at-mosfera incantata che prometteva allegria e tanti giochi ru-morosi e felici con i numerosi cuginetti di ambo i sessi, di varie età e temperamento ma tutti ansiosi di godere con un po’ di libertà quelle feste magiche come favole. Messi insie-me eravamo tredici di strettissima consanguineità, poiché i nostri padri erano rispettivamente fratelli e le nostre madri sorelle! I primi quattro portavano i nomi dei relativi nonni e i primogeniti si chiamavano immancabilmente come il nonno paterno e cioè Francesco Sforza.

Era stato un condottiero spericolato e audace, rude ma tenero d’animo, bruto ma molto amato dalle donne, padre di un numero imprecisato di figli dei quali però si prendeva assidua cura: fu un suo omonimo pronipote a conquistare per sé e per i suoi le terre di Puglia con il titolo di Duca di Bari nel 1600.

– 115 –

Ci si sedeva a tavola per consumare i pasti per i quali la nonna aveva preparato ghiotte specialità paesane: il nonno era naturalmente a capotavola, da cui dominava figli e nipo-ti, ai quali distribuiva personalmente le varie porzioni.

La festa a me più cara era quella della Pasqua, perché mi piaceva pensare che Gesù fosse risorto, dispensando con le sue mani luce e bene a tutti.

In quel giorno santo della Pasqua il nonno aveva accanto a sé una ciotola bianca dalla quale si affacciava un rametto di ulivo con cui il nonno impartiva la benedizione a tutti i convi-tati. Quando si arrivava al dolce pasquale, i nipoti più avanti negli studi leggevano una propria letterina beneaugurante, a volte anche in francese o spagnolo, ricevendo in cambio una bella moneta d’argento.

Finite le feste la mia famiglia prendeva la via del ritorno cercando di scacciare la malinconia con il pensiero che nelle seguenti ferie estive i nonni sarebbero stati nostri ospiti al mare insieme a un gruppo di nipoti, a turno, il premio dei successi scolastici.

– 116 –

La valigia dei ricordi

di Clara Sinigaglia

Ecco che alla fermata del bus sta arrivando nonno “An-tonio Primo” con il suo calesse trainato da “Roma”, una mae-stosa cavalla bianca con il mantello a macchie grigiastre.

«Che emozione, non sono mai salita sul calesse!».Alla fermata del bus stavo con la mamma che tutti gli

anni mi accompagnava in vacanza e per l’occasione si vestiva bene e metteva pure un bel rossetto che io chiamavo “rosso scioco”: era un momento speciale per entrambe.

Salite sul calesse, i soliti baci e abbracci. Un leggero plaid sulle gambe (con quel caldo!) e via per strade sterrate e pol-verose soprattutto in quella stagione. Ben presto saremmo arrivate alla fattoria e lungo il tragitto la mamma chiede al nonno: «Come steo vù messere?»

“Oddio” pensai, “la mamma parla un’altra lingua, mai sentito niente di simile!” Così per tutto il viaggio mamma e nonno continuarono a chiacchierare: io percepivo solo una serie di suoni e fonemi inimmaginabili, compresi i versi che il nonno faceva per guidare la cavalla che, mi sa, capiva più di me.

Rinunciavo poi ad ascoltarli per godermi tutto ciò che lentamente passava davanti ai miei occhi: chilometri di cam-pagna con distese di fieno tagliato che, asciugandosi al sole, emanava un profumo speciale. A tratti si sentiva pure la puz-za delle stalle che olezzava l’aria calda di quel mattino.

In quel lento trottare l’aria mi scompigliava i capelli e gli insettini che si impigliavano nella mia chioma mi solleticava-no con piacere, quasi il loro fosse un benvenuto.

– 117 –

Dopo venti minuti circa arrivammo alla fattoria dei non-ni: qui sono stata assalita dai baci e dagli abbracci di zii e cugini che mi attendevano con ansia.

Era quasi l’ora di pranzo e tutti aspettavano solo noi per sedersi a tavola: la mamma prima di sera sarebbe dovuta rientrare a casa. Che bella tavolata e quante cose buone ci avevano preparato, il meglio della cucina povera contadina, con i prodotti piantati e coltivati da loro.

Il nonno era il primo a sedere capotavola, poi toccava a tutti gli altri: le zie e la nonna invece servivano il pranzo.

“Mamma mia” pensai contando tutti quanti, “siamo in quattordici, vuoi vedere che mi trovo proprio in una tradi-zionale famiglia allargata? Chissà quante belle giornate mi aspettano”. Proprio così, giorno per giorno cercavo di ade-guarmi a questo tipo di vita, del tutto diverso da quello di città.

Al mattino nonni e zii si alzavano molto presto, tanti era-no i lavori da fare. Io li osservavo e li ammiravo per la loro laboriosità.

Dopo una sostanziosa colazione gli zii prendevano ac-cordi per i lavori da compiere in giornata e poi tutti si av-viavano verso i campi, non prima di aver rassettato la stalla, munto le mucche e sistemato il fieno.

Se non dovevo aiutare la nonna anch’io andavo con gli zii sui campi, allegramente, con le gambe penzoloni su una vecchia carretta di legno trainata da un trattore, che brividi!

A mezzogiorno circa rientravamo a casa, ci davamo una rinfrescata alla fontana che stava nell’aia e poi tutti a tavola a trovare un po’ di ristoro, tanto eravamo affamati e assetati.

Quando sedevo a tavola la nonna e gli zii mi guardava-no compiaciuti perché mangiavo sempre di tutto (dovevo diventare grande!).

A me piaceva tanto la casa dei nonni: insieme si condivi-deva tutto, ognuno aveva il suo ruolo, c’erano collaborazione e rispetto, in particolar modo verso i nonni. Ogni decisione da prendere veniva discussa assieme, anche animatamente,

– 118 –

a pranzo o a cena, tutti lì seduti a tavola banchettando con un buon bicchier di vino che riusciva sempre a mettere tutti d’accordo.

Nelle prime ore pomeridiane faceva molto caldo e tutti andavano un po’ a riposare: se io non ne avevo voglia mi riti-ravo nel tinello vicino alla cucina ed eseguivo i compiti per le vacanze. Qualche volta mi raggiungeva zia Luigia che sedeva vicino a me a riparare la biancheria e i calzini bucati: io la spiavo e mi veniva da ridere perché si addormentava e rus-sava con il lavoro in mano, tanto era stanca! Per non parlare della sera quando veniva a raccontarmi le favole, che però non finiva mai, poiché anche in questa occasione il sonno prendeva il sopravvento fino a farle dondolare la testa.

Cara zia Luigia, se chiudo gli occhi sento ancora il profu-mo di borotalco della mia camera e ricordo le piste che face-vano i topini sul granaio sopra la mia stanza. Ricordo che non avevo paura di nulla e i miei cugini più grandi ne approfitta-vano per spaventarmi con innocui serpentelli di campagna, anche se poi erano proprio loro a scappare. Se nonna Maria si accorgeva di questi stupidi scherzi o altri dispetti nei miei confronti, mi difendeva sempre, usando pure qualsiasi arne-se alla sua portata. Nonna Maria era una donna piccolina e le volevo un gran bene: dietro ai suoi grandi occhiali brilla-vano due occhietti dal colore speciale “azzurro tenerezza” e, nonostante la sua figura esile, era una vera forza della na-tura. Instancabile e operosa, teneva a bada l’intera famiglia ed erano guai se qualcuno le mancava di rispetto perché se serviva si faceva temere come era giusto che fosse.

Ben presto le vacanze sarebbero terminate e una legge-ra malinconia mi attanagliava dentro: ero però ansiosa di ri-vedere mamma e papà pur sapendo che al mio ritorno dalle vacanze tutto sarebbe tornato come prima.

Un altro anno da trascorrere tra casa, chiesa e scuola, con i soliti impegni che ti accompagnano anno dopo anno.

Ma c’è una cosa però: l’allegra bambina di quel tempo ha fatto tesoro di tutto quello che ha imparato durante le

– 119 –

vacanze, tesoro che le è servito nella vita di tutti i giorni. Dentro alla valigia, oltre ai vestitini, ha messo l’esperienza che ogni anno ha condiviso con tanta gioia in quella famiglia allargata nella quale si è sentita accolta, ascoltata e amata.

Un patrimonio di valori che all’occorrenza usa aprendo quella valigia dei ricordi che profumano sì di stalla, ma so-prattutto di un’infanzia felice.

– 120 –

Nonno d’America

di Lorenza Toson

Ero tornato dall’America un Natale e mia nipote doveva avere sui quattro o cinque anni. Ne aveva sette e già andava a scuola. Aveva capelli rossi e una quantità di lentiggini tale da farla apparire molto più furba di quanto fosse in realtà. Era con mio figlio all’aeroporto. Li stavo a osservare nascosto dietro al vetro del check in. Marco aveva perso i capelli e ave-va un’aria afflitta così che, per contrasto, la piccola appariva scoppiettante come un petardo. Nel momento in cui avevo deciso di farmi avanti, mio figlio aveva cambiato espressio-ne. Per un attimo lo avevo rivisto bambino con le guance rotonde e gli occhi allegri: aveva sorriso, ma era un sorriso diverso, come se dentro la testa minuscoli cavi avessero co-minciato ad avvolgersi per sollevare le labbra, subito dopo i cavi erano stati rilasciati e l’espressione era tornata quella di prima. «Ti vedo bene. Questa è Linda. Linda, questo è il non-no». La piccola mi scrutava. Come mi vedevano gli occhi di una bambina? Come un vecchio? Come un estraneo? Come un vecchio estraneo di cui non le importava nulla? Aveva sol-levato un piede chiedendo: «Ti piacciono le mie scarpe?»

Non ero riuscito a risponderle.La casa di mio figlio era come la ricordavo: ordinata, non

grande. Chissà nella testa di Marco che fine aveva fatto la villa a Valnerina, la casa della sua infanzia. I due piani di stan-ze grandi, il parco con gli alberi, i colli, le cascate, il fiume, il torrente. Un appartamento era più semplice: non c’era il pensiero del giardino, dell’erba, la lunga siepe da tagliare. Era comodo ricevere un assegno ogni mese. Questo, pensa-

– 121 –

va. Così aveva affittato tutto, villa, mobili, ricordi; tranne l’ar-genteria sparsa tra il soggiorno e il salotto della casa di sua moglie nel centro di Terni. Nemmeno il tavolo in ciliegio si era preso, e sì che ne avrebbe avuto bisogno, stavamo stretti intorno al rettangolo di formica. La moglie di Marco sorri-deva evasiva. Eravamo a cena ma lei non stava mai seduta: i piatti arrivavano e scomparivano come per magia. Non ero riuscito a mangiare niente.

«È vero che dipingi quadri e che hai un sacco di soldi?»Ah! La capacità di sintesi dei bambini! Sì, dipingevo,

ma non ero così ricco. Pensavo a quali discorsi doveva aver sentito per rivolgermi una domanda come quella, a quanto avesse fantasticato, per conto suo. E chissà di cosa si parlava, se adesso la conversazione era così difficile. Le frasi anda-vano a scatti, si bloccavano e ripartivano. A volte parlava-mo in quattro, tutti insieme. Ero stato grato a Linda quando mi aveva portato nella sua camera. Una stanza con un letto, un armadio, una scrivania incassata in una libreria. Legato al termosifone c’era un cane di pezza, un bassotto con lun-ghe orecchie. Istintivamente lo avevo liberato togliendogli il guinzaglio, lo avevo preso in braccio.

«No!» Linda teneva le mani tra i capelli in un gesto drammatico. «È cattivo, morde!» «Morde perché è legato». Lo avevo posato sul pavimento e, con due dita, avevo mosso la coda di pezza. «Non vedi com’è felice di essere libero?» «Ora fa la cacca», aveva concluso. «No, tu la fai dappertut-to?» «Ma no!», aveva risposto aggressiva, «sono una bambi-na!» «Anche i cani sanno imparare tante cose, come te».

Più di te, avevo pensato, senza dirlo.«Mio papà dice che sono sporchi».Ero rimasto zitto. Marco era cresciuto con tanti cani.

Cosa gli era rimasto di loro? Solo la cacca che facevamo spa-rire dal giardino? Intanto Linda aveva acceso la radio, balla-va. «Guarda!» aveva ordinato. Sollevava le gambe, le brac-cia. «Sono brava?»

– 122 –

Non avevo risposto, ero già in un taxi diretto all’albergo.Mi ha scritto molti anni dopo. «Il papà non sopporta sia

andata a vivere nella tua casa. Si aspetta gli paghi l’affitto o mi sposi. Forse un giorno, chissà, intanto sto bene sotto il salice a studiare, o a spasso per le colline con i miei cani. Cani, già e non li tengo legati al termosifone! Un bacio inter-continentale. Linda».

Alla sesta lettera ho capito quanto bisogno aveva di co-municare, proprio come me. Avevo risposto: «Vieni», ma era una bugia, una di quelle che si raccontano due persone che si sono incontrate una sola volta e che poi, per un motivo o per l’altro, tristezza e solitudine, continuano a cercarsi senza stare insieme mai.

Spesso, la sera, le sue lettere davanti, la immaginavo inerpicarsi per i sentieri o scendere le gole profonde fino alla Cascata delle Marmore. Nel teatro dei ricordi respiravo gli scenari vissuti e amati tanto da rammentarne ogni dettaglio. Uno spettacolo che non sopportavo dopo la morte di Maria. Ero partito per New York dopo le nozze di Marco, a un mese dal funerale. Il lavoro era una scusa per arginare i ricordi. Quale illusione! Dietro ogni pensiero, ogni nuovo quadro, la tristezza: la stessa che intuivo tra le dissimulatrici righe di Linda. Sprofondato nella poltrona, in certe notti newyorche-si la immaginavo a primavera nel mezzo del verde anfiteatro naturale cullata dalle legittime speranze di una giovane don-na. Ma c’erano altre notti in cui mi sorprendevo a sognarla osservare un temporale: folate di vento flagellavano i rami del salice e la tempesta montava. Il fiume Nera diventava cattivo, l’aria sollevava colonne d’acqua dalla cascata e si schiantavano sulle pietre tra spruzzi e schiuma bianca. Allora temevo in una sorta di corrispondenza tra la violenza degli elementi e il tumulto della sua coscienza inquieta.

Quella sera era diventata l’alba: ero ancora in poltrona, mezzo addormentato. Pioveva e le gocce sbattevano contro la finestra.

Un indizio.

– 123 –

Alla fine ci siamo incontrati. All’aeroporto l’ho ricono-sciuta subito per via dei capelli e qualche altra cosa che non ha nome.

In auto, aveva detto: «Come sono felice di essere con te».Non avevo risposto, non riuscivo a parlare.Intanto guidavo, ai semafori rossi mi fermavo, con il ver-

de ripartivo.Noi due insieme.Seduti uno di fianco all’altra.Questo era tutto.E non era poco.

– 124 –

La Cappella del Nonno

di Maria Visnadi

Mio nonno Visnadi Giovanni Battista aveva tre figli che erano partiti per la Grande Guerra del 1918. Il suo desiderio era quello che ritornassero a casa sani e salvi; se ciò fosse ac-caduto in segno di ringraziamento a Dio diceva che avrebbe costruito una grande cappella con la Madonna a Fontanelle (Tv). Finita la guerra i suoi figli sono tornati a casa e pertanto mio nonno ha mantenuto la sua promessa, facendo richiesta al comune di poter avviare il lavori per la costruzione del-la cappella. Il comune ha accettato e quindi mio nonno con l’aiuto della nonna e dei figli rientrati ha iniziato subito i la-vori. A Fontanelle c’è una chiesa molto antica, semplice che costeggia il fiume Monticano; poco dopo una discesa si può vedere ancor oggi la cappella che ha costruito il nonno. La cappella è di grandi dimensioni, rotonda e dentro vi è una statua della Madonna in piedi. Durante il mese di maggio di ogni anno si tiene il rosario e la festa del patrono.

Io ricordo che i miei nonni erano grandi lavoratori e il nonno si è prodigato molto per la costruzione di questa cap-pella; le sue fatiche sono valse a tenere unita tutta la fami-glia; i suoi figli gli sono stati sempre riconoscenti per la sua opera. Lui adesso non c’è più e nemmeno i suoi figli. Ma io e mia sorella Bianca, l’unica ancora viva, così come i miei ni-poti, ricordiamo ancora la cappella costruita da mio nonno. Questa sua grande opera ha permesso di legare le genera-zioni della nostra famiglia e non solo, perchè ieri come oggi sono molte altre le famiglie che vanno a pregare. L’ultimo custode della cappella è un figlio di un mio cugino, che tiene in ordine la cappella nei giorni nostri.

– 125 –

Una famiglia matrioskaL’incrocio interetnico (e casuale)di quattro generazioni

di Andrea Zampella

Enrica e io (Paolo) non volevamo crederci. Quella sera di primavera, cercammo in fretta una farmacia di turno e, trovatala, subito a casa per avere certezze! Nostra figlia Ja-smine, sedicenne, venuta dall’India all’età di tre anni, era in-cinta, ormai non c’erano più dubbi. Subito dopo l’inequivo-cabile “test”, pensieri e immagini del passato e di un futuro problematico si aggrovigliavano. Nei lunghi silenzi, a tratti ci uscivano domande senza un filo logico, forse un modo per esorcizzare chissà quale male sconosciuto o trovarne risvolti positivi.

Superato lo choc, si fa per dire, ad attendere l’evento eravamo in tanti a casa. Enrica, moglie e amante meraviglio-sa, grande lavoratrice in casa e fuori, oltre trent’anni passati insieme nelle tempeste e nella felicità. Milanese, efficienti-na, perfettina… irraggiungibile. Di fronte a lei un mediocre come me, mezzo terrone cresciuto in Friuli, di natura ab-bondante in tutto nelle cose che non contano, non avrebbe mai potuto rischiare la propria “autostima”, quella dei “nor-mali” s’intende. La bisnonna, Veronica (mamma di Enrica), originaria delle calle alte del sacro Piave, sempre generosa di ricordi e consigli di circostanza, anche lei perfettina e un po’… rompina, come tutte le suocere. Dimitri, della bianca Russia, padre inconsapevole (incosciente nel nostro primo pensiero) del nascituro, sempre con lo sguardo stralunato ma di un ottimismo sconfinato verso l’aiuto e la compren-

– 126 –

sione di chiunque incontrasse. Nostra figlia Jasmine, minuta in origine e ora sempre più “tondeggiante”, studentessa e mamma precoce. Joy, fratello di sangue di Jasmine e adottati insieme, un tipo riservato, molto “fisico”, tutto casa-lavoro e patronato dove, ormai adulto, ancor oggi continuava a giocare e dar sfogo alla sua vitalità. Katia, la figlia maggio-re, italiana, anch’essa adottata da piccola, una bambinona cresciutella, chiassosa e, come tanti in famiglia, carente di affetto. Dopo poco tempo, nei giorni in cui soggiornava da noi, Dimitri lasciò la provvisoria sistemazione di circostan-za nella camera di Joy per passare in quella di Jasmine; su-perate le comprensibili turbolenze e incomprensioni delle prime settimane dovevamo realizzare tutti che Dimitri non era un abusivo, volente o nolente ci aveva proprio messo del suo nella “vicenda” con sentimenti sinceri (confidava-mo tutti) verso nostra figlia. In quei mesi di attesa ognuno di noi progettava il futuro a breve, ciascuno dal suo punto di vista, ciascuno si sentiva a suo modo madre e padre del piccolino in arrivo. Lo scambio di idee provocava spesso con-fusione e fraintendimenti. Il piccolo Andrea nacque dunque sanissimo la mattina di un freddo gennaio. Tutta la famiglia era eccitatissima: mentre intorno alla sala parto aleggiava-no gli effetti dei “rosari” della bisnonna Veronica, la nonna Enrica e il papà Dimitri assistevano in sala parto all’evento, il sottoscritto in prossimità, poté entrare appena ripulito il neonato – parto perfetto – mentre dai cellulari viaggiava la notizia. Chissà perché il neonato della tua famiglia è sem-pre un bellissimo bambino, vispo e intelligente e nessuno si arrischia mai di predire che sarà un bimbo – nella migliore delle ipotesi – normale, talvolta capriccioso, noioso e poco somigliante a qualcuno. Dico questo perché per noi, Andrea era veramente il bimbo più bello che potevamo aspettarci, guardandolo ogni imbarazzo e disagio del presente e ogni incertezza sul futuro svanivano come per incanto. Ma tor-niamo indietro a quando Jasmine entrò nel quinto mese e contemporaneamente iniziava l’ultimo anno delle superiori,

– 127 –

riflettendo su come eravamo messi in famiglia e sul “dopo”, pensai “da fuori di testa” che avrei potuto spendermi in un ruolo decisivo, quanto sfidante. A un atto improvvido e di impulso si doveva contrapporre un piccolo ma utile compor-tamento della “ragione”. Per farla breve decisi di lasciare in anticipo la mia professione – non che mi mancassero le sod-disfazioni, anche materiali – e di andare in esodo, una specie di pre-pensionamento, un anticipo concordato e certo della pensione, per fare il nonno-baby sitter (mia moglie doveva lavorare ancora e gli altri erano tutti impegnati). Proprio a me toccava questa cosa, un “segno” dall’Alto (si dice così quando prendi una botta in testa), chissà un regalo inatteso e insperato, mettiamola così (ma forse le cose più inattese si sarebbero manifestate più in là). Come padre adottivo di bimbi avuti sopra i tre anni (li prendi come sono, non li sce-gli), né io né mia moglie ci eravamo cimentati in prima per-sona con pannolini, poppate, ruttini, pianti da mal di pancia ecc. Anzi dirò di più, molti anni prima, avendo “sofferto” la nascita e lo svezzamento in sequenza ravvicinata dei tre miei fratelli minori, in allora solo scocciatori capaci di monopoliz-zare l’altrui attenzione distogliendola dal sottoscritto, capite con quale disagio e al tempo stesso con quale incoscienza mi apprestavo al ruolo di nutrice. Dico “nutrice” (un termine senza il maschile!) perché nelle prime ore della giornata di scuola somministravo con il biberon al piccolo Andrea il lat-te che mia figlia si era “tirato” ore prima. Poi nell’intervallo pomeridiano si tornava alla poppata doc e tra una poppata e l’altra il piccolino passava il tempo col nonno Paolo. Che coppia, quante avventure in macchina, lui tranquillo nel suo ovetto come in una culla, insieme nel traffico, anche cin-quanta-sessanta km al giorno (casa-scuola-casa, dal nostro paesello in collina a Padova e ritorno) con ogni condizione di tempo. A volte anche con neve e ghiaccio in tornanti ripidi. E poi posteggiare in città, vicino alla scuola di Jasmine per non far prender freddo al piccolo. Condividevamo lo stupore nei nostri confronti di giovani (ma anche meno giovani) donne

– 128 –

“materne” che certo – a noi due maschietti – non poteva dispiacere. Condizionati dagli eventi, Andrea, ma soprat-tutto mamma Jasmine e papà Dimitri crescevano cercando di acquisire una sempre maggiore maturità per metter su famiglia. I nonni di Andrea si preoccupavano delle esigenze materiali anche se le spiacevoli e involontarie interferenze sui baby genitori erano inevitabili vivendo tutti e otto sotto lo stesso tetto. La bisnonna Veronica anche lei interveniva spesso e, quando veniva tacitata, si rifugiava in un tauma-turgico “rosario” sempre a portata di mano; le coccole però, al piccolo Andrea, erano quelle del tempo antico, cantilene ormai in disuso ma sempre efficaci. Katia mostrò subito ver-so Andrea l’affetto tipico della zia spensierata e un po’ mat-ta, ma tanto simpatica. Con Joy invece il confronto era sugli oggetti e sui piccoli giochini, la memoria dell’infanzia di Joy si rifletteva in quella di Andrea, un’infanzia dove si giocava con poco… con quello che c’era. In Andrea si riscattava la ge-nerazione di Jasmine e di Joy. Tra fratelli (madre e zio di An-drea) un legame fortissimo da replicare sul piccolo Andrea nella memoria riconoscente ma sfumata degli avi indiani, una famiglia indiana atipica, dentro una famiglia interetnica ancora da formare, a loro volta dentro una grande famiglia eterogenea di quattro generazioni: una specie di famiglia sul modello matrioska.

Enrica rivelò nell’attaccamento al piccolo Andrea la par-te più dolce e materna, quella forse rimasta nascosta e riser-vata a un neonato del quale non si era mai potuta curare, un lutto forse solo parzialmente cancellato da tre bambini non suoi e adottati ben dopo lo svezzamento. Quando meno se l’aspettava… proprio improbabili, oltre che infinite, le vie del Signore!

E Dimitri?... anche lui era rimasto orfano da piccolo nel-la fredda Russia, dopo i 18 anni esule in Italia grazie a una brava famiglia di Padova che lo accolse; mille mestieri avreb-be affrontato senza mai perdersi d’animo; anche lui lottava per avere affetto e sicurezza. Quel figlio capitato per caso, lo

– 129 –

aveva messo inizialmente in una posizione complicata, ma poi, paradossalmente veniva riabilitato, accolto e aiutato ad avere riferimenti precisi nei quali lui aveva caparbiamente sempre sperato. Col crescere di Andrea, gli orfani si sentiva-no meno orfani, i genitori provavano a essere sempre più ge-nitori e i neofiti nonni sempre migliori nonni in una famiglia inizialmente sparigliata e disorientata, dove ancora si fa gran chiasso, spesso si sbattono le porte, volano parole grosse e ciascuno vuol primeggiare, ma con qualche grammo in più di consapevolezza in un’affettuosa turbolenza. Vite incrociatesi “per caso”, con il cuore mai staccatosi dalle proprie lontane origini e lo sguardo fiducioso verso un futuro ruvido ma sem-pre appassionato, in un fluire di generazioni che lasciano a quelle che seguono generosamente un po’ di vita buona.

– 131 –

I partecipanti

Acevedo AlicaAndreatta VirginiaAngela Livia AnnaAtehortua CarlosBaggio AntoniaBalasso ValeriaBartolomei MilenaBellotto GemmaBernardi GiustinaBertolini GilmoBilato AdeliaBoldrin FrancescaBortoletto ClementinaBottignolo Elisa Bozzetto MarisaBresolato Maria GraziaBuio MarinaCabianca FedericaCaccin GianmarcoCampi AdelinaCanton OsannaCarpanese Anna LuciaCarta GiovannaCastagnotto GabriellaCavasin MaryCerinato MariaCeron MargheritaChiorboli Donatella Civolani TeresaConte Sandra

Corazza Irma Da Ros BrunoDal Bo OlivaDalla Pietà GiacomoDaniele MarilinaDaurù ClaudiaDe Mori DonatellaDe Fort IdaDe Marchi ChristianDi Prossimo MariaDuca MarilenaEsposito MatildeFagherazzi AnnamariaFeltrin AnitaFerlito ElenaFerrasin CarolinaFiorotto AuroraFoà DarioForalosso GiampieroForese RinoFranciosi CarlaFrison AngeloGasperin IleniaGenovese AngelicaGiachin SofiaGirardi AnnaGreblo CarolinaGrotto GiuseppeGruppo di lavoro “S. Chiara”Lo Vullo Maria Pia

– 132 –

Logari GiulianaLongato MarilenaLongato GiuliaLongo CesiraMarcolin ArgenideMazzoccato EnricaMazzon RitaMeneghetti LuigiMenegon LorettaMerialdo AlbertoMescalchin MariaMigliavacca GiovanniMilan GiancarlaMilanese AnnamariaMiniati BenitaMissaglia Michele Modenato AlfredoMontagnini MarinaMoretti IleniaOmacini RenatoOperatori I pianoOrtolan MariaPaggiarin Maria RosaPallaro MariaPampuch ElisabettaParpinello LodovicaPercacini BonaPerini RomanaPiccioli FrancescoPillon LidiaPilotto RobertaPollastri GiorgiaPrior Emanuela Pugnali LinaRagazzo SilviaRavazzolo Carla

Ravazzolo Maria GraziaRedolfi De Zan AnnamariaReggi Maria GraziaRighetto LuiginoRigoni FrancescaRizzo RenatoRoncato MariaRosin AngelaRossato SoniaSailer AnnarosaSanguin GiuseppinaSchiavon MariaScuola Don Milani – Classe IaB e IaCScuola Primaria G. BonettoSforza AntoniettaSimonetto FedericaSinigaglia ClaraSoavi MinaSoldà SilvanoSoldi CarmenSolombrino FulviaSpanò M. IoseTacchetto RosannaTamiello PaolaTonello MarilenaToson LorenzaTrozzo Beatrice MariaTuretta LuciaVenturato RobertaVisnadi MariaZago NoemiZampella AndreaZenari OriettaZin ValentinaZorzetto Franca

– 133 –

Civitas Vitae, la prima infrastrutturadi coesione sociale in Italia

Il mondo sta, per la prima volta, sperimentando una situazio-ne sconosciuta e fortunata: poter vivere normalmente fino a quasi cent’anni è un evento sconosciuto nella storia. Dobbiamo vivere questa nuova fase come un’opportunità; bisogna avere il coraggio di modificare giudizi, comportamenti e strumenti.

Ecco perchè è il momento di inventare anche delle infrastrut-ture di coesione sociale specificatamente disegnate su questi nuo-vi e sconosciuti fabbisogni: l’apporto del pubblico sarà sicuramente importante, il contributo del no profit sarà molto importante, la centralità della famiglia sarà veramente fondamentale.

Corrado Passera - Ministro dello Sviluppo Economico

L’invecchiamento di massa è un inarrestabile fenomeno de-mografico che, generando profonde modificazioni sociali ed eco-nomiche, viene oggi letto più come una minaccia che come una conquista del genere umano: la Fondazione OIC onlus crede inve-ce che sia un inedito scenario che apre a nuove opportunità.

Per OIC l’anziano non è un essere umano al capolinea, ma una preziosa risorsa, eventualmente contenuta in un contenitore fragile. E proprio in quanto risorsa, il longevo va salvaguardato, creando contesti in cui possa vivere con pienezza, sviluppando relazioni tra persone, tra generazioni, tra ruoli, tra ambienti, ge-nerando così beneficio non solo per se stesso ma per l’intera co-munità.

In questa logica la Fondazione OIC ha realizzato alle porte di Padova una vera e propria palestra, un laboratorio sociale interge-nerazionale a disposizione del territorio, un contesto per eserci-tarsi ed allenarsi, a partire dalle più giovani generazioni, a vivere e crescere in armonia di inclusione, sussidiarietà e solidarietà.

– 134 –

Quattro sono i riferimenti dell’agire quotidiano del Civitas Vi-tae:

1. cultura del limite: è la fragilità che produce coesione ed sti-mola la capacità di condividere situazioni difficili, con l’obiet-tivo per superarle in spirito comunitario

2. esperienza: solo il patrimonio esperienziale proprio dei longe-vi può offrire alle nuove generazioni uno sguardo d’insieme sulla prospettiva di vita, dandole un senso positivo

3. intergenerazionalità: mettere in rapporto sinergico la prima e la terza età del vivere consente ad entrambe un reciproco arricchimento costruito sul dono

4. apertura e connessione: quanto avviene al Civitas Vitae non rimane chiuso al suo interno ma è condiviso con la comunità civile nazionale ed internazionale. Grazie alle più avanzate tecnologie internet è possibile vivere il Civitas Vitae (i suoi eventi, i suoi servizi, ecc.) anche dalla propria abitazione, al-lacciando così ulteriori nuovi legami.

Il Civitas Vitae di OIC è quindi la prima infrastruttura di coesione sociale (ICS) in Italia, costruita nella convinzione che la risorsa longevità possa essere asset fondante per rea- lizzare progetti di vita nella prima e terza età, cioè al servizio delle fasce di popolazione oggi più fragili e meno tutelate: una vera e propria città integrata di oltre 12 ettari, declinata in componenti sinergi-che ed animata da catalizzatori di relazione, pensati, promossi e realizzati in collaborazione con l’iniziativa privata e pubblica.

Collegate da 2 km di ampi corridoi sotterranei e dalle più mo-derne strumentazioni informatiche, qui convivono armonicamente strutture sanitarie e sociosanitarie, attività di formazione e ricerca, abitazioni private ed organizzazioni commerciali nonché edifici per la pratica sportiva e luoghi di aggregazione sociale e culturale. Una grande rete inserita in un ampio polmone verde volutamente sen-za soluzione di continuità con il territorio circostante: ogni giorno mediamente 3.000 persone entrano in contatto con il Civitas Vi-tae, siano esse operatori, medici, dipendenti, familiari, visitatori, bambini, famiglie, scolaresche, istituzioni ecc.

Civitas Vitae - la prima infrastruttura di coesione sociale in Italia

“Il mondo sta, per la prima volta, sperimentando una situazione sconosciuta e fortunata: poter vivere normalmente fino a quasi cent’anni è un evento sconosciuto nella storia. Dobbiamo vivere questa nuova

fase come un’opportunità; bisogna avere il coraggio di modificare giudizi, comportamenti e strumenti. Ecco perchè è il momento di inventare anche delle infrastrutture di coesione sociale

specificatamente disegnate su questi nuovi e sconosciuti fabbisogni: l’apporto del pubblico sarà sicuramente importante, il contributo del no profit sarà molto importante, la centralità della famiglia sarà

veramente fondamentale” Corrado Passera - Ministro dello Sviluppo Economico

L’invecchiamento di massa è un inarrestabile fenomeno demografico che, generando profonde modificazioni sociali ed economiche, viene oggi letto più come una minaccia che come una conquista del genere umano: la Fondazione OIC onlus crede invece che sia un inedito scenario che apre a nuove opportunità. Per OIC l’anziano non è un essere umano al capolinea, ma una preziosa risorsa, eventualmente contenuta in un contenitore fragile. E proprio in quanto risorsa, il longevo va salvaguardato, creando contesti in cui possa vivere con pienezza, sviluppando relazioni tra persone, tra generazioni, tra ruoli, tra ambienti, generando così beneficio non solo per se stesso ma per l’intera comunità. In questa logica la Fondazione OIC ha realizzato alle porte di Padova una vera e propria palestra, un laboratorio sociale intergenerazionale a disposizione del territorio, un contesto per esercitarsi ed allenarsi, a partire dalle più giovani generazioni, a vivere e crescere in armonia di inclusione, sussidiarietà e solidarietà. Quattro sono ii riferimenti dell’agire quotidiano del Civitas Vitae:

1. cultura del limite: è la fragilità che produce coesione ed stimola la capacità di condividere situazioni difficili, con l’obiettivo per superarle in spirito comunitario

2. esperienza: solo il patrimonio esperienziale proprio dei longevi può offrire alle nuove generazioni uno sguardo d’insieme sulla prospettiva di vita, dandole un senso positivo

3. intergenerazionalità: mettere in rapporto sinergico la prima e la terza età del vivere consente ad entrambe un reciproco arricchimento costruito sul dono

4. apertura e connessione: quanto avviene al Civitas Vitae non rimane chiuso al suo interno ma è condiviso con la comunità civile nazionale ed internazionale. Grazie alle più avanzate tecnologie internet è possibile vivere il Civitas Vitae (i suoi eventi, i suoi servizi, ecc.) anche dalla propria abitazione, allacciando così ulteriori nuovi legami

Il Civitas Vitae di OIC è quindi la prima infrastruttura di coesione sociale (ICS) in Italia, costruita nella convinzione che la risorsa longevità possa essere asset fondante per realizzare progetti di vita nella prima e terza età, cioè al servizio delle fasce di popolazione oggi più fragili e meno tutelate: una vera e propria città integrata di oltre 12 ettari, declinata in componenti sinergiche ed animata da catalizzatori di relazione, pensati, promossi e realizzati in collaborazione con l’iniziativa privata e pubblica. Collegate da 2 km di ampi corridoi sotterranei e dalle più moderne strumentazioni informatiche, qui convivono armonicamente strutture sanitarie e

sociosanitarie, attività di formazione e ricerca, abitazioni private ed organizzazioni commerciali nonchè edifici per la pratica sportiva e luoghi di aggregazione sociale e culturale. Una grande rete inserita in un ampio polmone verde volutamente senza soluzione di continuità con il

– 135 –

Elementi diversi ma non distanti perchè uniti in relazione sistemica

Ogni componente del Civitas Vitae esprime tutto il suo poten-ziale in quanto connesso all’altro. Non è quindi possibile enuclear-ne solo alcuni (per esempio quelli sociosanitari) riproducendo in altro luogo solo una parte specifica di questo social-lab, dato che verrebbe a mancare quel patrimonio di relazioni e valore aggiun-to che è invece naturalmente generato dall’essere parte del tutto. Qui dunque convivono:

● strutture sociosanitarie:

○ Residenza Santa Chiara, ospita 480 persone non auto-sufficienti, in ambienti dotati di ogni comfort e di tutti i servizi medico-infermieristici.

○ Struttura intermedia, un Ospedale di Comunità per l’as-sistenza post acuzie e la riabilitazione, gestito in collabo-razione con l’USL16 di Padova.

○ N.A.I.S.S. - nucleo ad alta intensità sociosanitaria, perno della rete dei servizi residenziali territoriali dell’USL16, accoglie persone non in grado di proseguire la convale-scenza presso il proprio domicilio.

○ Residenza del sollievo Paolo VI, circa 40 posti per per-sone in stato terminale (hospice) o di minima coscienza (coma vigile), gestita in collaborazione con l’USL16 di Pa-dova.

○ Residenza Pio XII per circa 220 persone anziane non au-tosufficienti, con ricettività e servizi ai più alti standard di mercato.

○ Casa della Sussidiarietà Filippo Franceschi, attiva da fine 2012, ospita su tre piani, religiosi/e anziani o in servizio presso il Civitas Vitae, giovani disabili anche come coach per non autosufficienti anziani nonché ambulatori di medicina generale ed attività commerciali.

○ Centro di riabilitazione, con servizi integrati di logope-dia, ergoterapia, fisioterapia, recupero postrianimazio-ne, fisiokinesiterapia, idroterapia, servizi ambulatoriali, punto prelievi (in collaborazione con USL16).

– 136 –

● strutture residenziali e relazionali

○ Residenze Airone per persone longeve autosufficienti, un complesso strutturato come le antiche corti venete, formato da 11 villette con appartamenti da 27 a 77 mq, comunicanti tra loro mediante percorsi protetti.

○ Auditorium S. Pontello, un sistema di sale attrezzate di oltre 1.200 metri quadri con capienza fino a 320 posti, punto di interrelazione con l’esterno per convegni, con-gressi, incontri, esposizioni, mostre ecc.

○ Centro Benessere, servizi per il tempo libero e la cura della persona: biblioteca, mediateca, connessione in-ternet, bar, animazione sociale, parrucchiera, barbiere, pedicure, podologo.

● strutture educative e culturali

○ Centro formazione e ricerca Varotto-Berto, qui vengono formati (anche in collaborazione con Enti esterni) sia gli operatori OIC sia i gruppi di longevi attivi che scelgono di frequentare i percorsi (gratuiti) Terza Età Protagonista. Vengono inoltre “inventate” e sperimentate soluzioni materiali ed immateriali per il maggior/miglior benesse-re degli ospiti.

○ Centro Infanzia Intergenerazionale C.G. Ferro, asilo nido e scuola materna: dove viene data forma concreta alla costruzione di relazioni intergenerazionali e offerto un supporto pratico e pedagogico alle famiglie del territorio e della comunità OIC.

○ Museo Veneto del Giocattolo: riconosciuto dalla Regio-ne Veneto, raccoglie una collezione straordinaria di gio-cattoli dello scorso secolo, consentendo così un gioioso ritorno all’infanzia dei longevi. Vengono ospitate ogni settimana numerose scolaresche che partecipano ad ini-ziative didattiche (laboratori del riuso) animate dal team dei Nonni del Cuore in Azione.

○ Autodromo didattico, un sistema di strade ed arredo ur-bano dove imparare l’educazione stradale e conseguire la patente per ciclomotore, accompagnati sia da Ospiti delle residenze sia da longevi attivi, con la collaborazione

– 137 –

tecnica della Polizia Municipale e dell’Associazione Amici della bicicletta, sotto l’egida dell’Ufficio Scolastico di Pa-dova.

○ Accademia dei Talenti, un contesto declinato in sale/ambienti attrezzate per diverse attività (dalla musica alla meccanica, dalla danza al videogioco, dall’agricoltura al design etc.) dove adolescenti e ragazzi sono stimolati a sviluppare le proprie aspirazioni e le proprie capacità sul “cosa fare da grandi”, con la collaborazione di longevi esperti nei diversi campi.

○ Palazzetto sportivo, omologato Coni per diverse disci-pline, a disposizione sia per esercizi sportivi da parte di persone con disabilità, sia per associazioni sportive, sia per manifestazioni di aggregazione etc.

Queste tre realtà si pongono come strumenti educativi/formativi all’incontro con l’altro (la strada quale struttura di comunicazione) alle “regole” attraverso lo sport, al la-voro mettendo a frutto le proprie attitudini/inclinazioni.

○ Parco della Vita e delle Esperienze con orti sociali, area giochi per i più piccoli, percorso vita attrezzato, punto di ristoro, bocciodromo con tribuna, laghetto per model-lismo navale e prossimamente anche un nucleo per la pet-therapy.

Polivalenza e varietà delle attività del Civitas Vitae ogni giorno rinforzano, sia in quanti vi lavorano sia in quanti lo frequentano, quel senso di appartenenza ad una comunità civile che così riesce ad armonizzare in modo vitale le differenze di stato, di ruolo, di salute, di identità individuale.

Civitas Vitae - i motori delle relazioni

Come avviene in ogni borgo o contesto sociale, non sono co-munque le strutture fisiche a dare vita alla comunità bensì le sin-gole persone e le loro aggregazioni. Per questo motivo l’esperienza del Civitas Vitae è un quotidiano rinnovarsi grazie all’intreccio rela-zionale promosso anche da specifiche organizzazioni:

● Agorà: un’associazione di longevi attivi quali civil servant per

– 138 –

collaborare con istituzioni pubbliche e private in progetti che vanno dalla cultura dell’alimentazione al supporto a consu-mi e acquisti, dalla costruzione di reti intergenerazionali nel-le scuole allo studio delle tecnologie informatiche etc. È lo sbocco operativo di quanti, per 6 mesi, sviluppano i percorsi di Terza Età Protagonista riservati ad over 65, che maturano la coscienza liberamente di dedicarsi agli altri con iniziative strutturate; ad esempio in questo senso, ha realizzato i corsi per la qualifica di amministratore di sostegno, una nuova figu-ra giuridica nata per supportare in modo disinteressato per-sone longeve nella delicata fase del passaggio generazionale. Dal 2008 ha promosso la prima community online di longevi e gestisce un’innovativa mediateca digitale.

● Nonni del Cuore, gruppo di longevi soci di Agorà che hanno seguito uno specifico corso di oltre 600 ore per imparare ad interagire in modo pedagogicamente corretto (al di là cioè del naturale affetto) con bimbi ed adolescenti in modo da diffon-dere e allargare antropologicamente quel risultato di gioia e proprio dell’approccio nonno/nipote. Si occupano dell’anima-zione dei laboratori didattici del Museo del Giocattolo, di spe-cifiche attività all’interno del Centro Infanzia, dell’animazione dell’autodromo didattico e dell’Accademia dei Talenti con le finalità sopra descritte.

● Comitato ospiti: organo di rappresentanza di Ospiti e familiari eletti nelle residenze della Fondazione OIC, con votazione de-mocratica ogni sei anni, si dedica allo sviluppo delle relazioni tra strutture operative ed Ospiti: una sorta di ombudsman ante litteram, introdotto in OIC fin dal 1987 e solo nel 2001 reso obbligatorio dalla Regione Veneto.

● VADA - Volontari Amici degli Anziani: unisce quanti, in spirito di solidarietà, si «spendono» a favore degli Ospiti per combat-terne la solitudine, per supportare chi si trova in situazione fragile e delicata, per dare consistenza all’ideale di famiglia allargata caratteristico del modello Civitas Vitae.

● Cilpress: cooperativa i cui soci, tutti over sessantacinque, concretizzano la loro carica imprenditoriale in attività di «re-lational service»: dall’accompagnamento in ospedale alla consegna di pasti a domicilio fino ad arrivare al Banco Ausili,

– 139 –

un riferimento di gestione e riparazione di ausili per disabili realizzato insieme alla ong israeliana Yad Sarah.

Insieme a questi momenti strutturati, il Civitas Vitae colla-bora quotidianamente con tanti soggetti attivi nel territorio ed in particolare con il Consiglio di quartiere Armistizio, le parrocchie, il Comune e la Provincia di Padova, il Centro Servizi per il Volontaria-to, diverse scuole primarie e secondarie, l’Università di Padova, il Museo Civico di Rovereto, l’Accademia di Arti Grafiche di Venezia nonché diverse imprese private. Il tutto in un’atmosfera di agire donativo e di fervida spiritualità che infonde speranza, concreta-mente, per un futuro migliore.

● Comitato ospiti: organo di rappresentanza di Ospiti e familiari eletti nelle residenze della Fondazione OIC, con votazione democratica ogni sei anni, si dedica allo sviluppo delle relazioni tra strutture operative ed Ospiti: una sorta di ombudsman ante litteram, introdotto in OIC fin dal 1987 e solo nel 2001 reso obbligatorio dalla Regione Veneto.

● VADA - Volontari Amici degli Anziani: unisce quanti, in spirito di solidarietà, si «spendono» a favore degli Ospiti per combatterne la solitudine, per supportare chi si trova in situazione fragile e delicata, per dare consistenza all'ideale di famiglia allargata caratteristico del modello Civitas Vitae.

● Cilpress: cooperativa i cui soci, tutti over sessantacinque, concretizzano la loro carica imprenditoriale in attività di «relational service»: dall’accompagnamento in ospedale alla consegna di pasti a domicilio fino ad arrivare al Banco Ausili, un riferimento di gestione e riparazione di ausili per disabili realizzato insieme alla ong israeliana Yad Sarah.

Insieme a questi momenti strutturati, il Civitas Vitae collabora quotidianamente con tanti soggetti attivi nel territorio ed in particolare con il Consiglio di quartiere Armistizio, le parrocchie, il Comune e la Provincia di Padova, il Centro Servizi per il Volontariato, diverse scuole primarie e secondarie, l’Università di Padova, il Museo Civico di Rovereto, l’Accademia di Arti Grafiche di Venezia nonché diverse imprese private. Il tutto in un’atmosfera di agire donativo e di fervida spiritualità che infonde speranza, concretamente, per un futuro migliore.

– 141 –

I promotori

L’Associazione Opera Immacolata Concezione nasce il 5 agosto 1955 per iniziativa di Mons. Antonio Varotto e Nella Maria Berto, un sacerdote ed un’assistente sociale che si trovarono a dover individuare una soluzione per otto anziane domestiche ormai non più in grado di lavorare. Con un’operazione di completa rottura con gli schemi dell’epoca, si inventarono un approccio comunitario alla vecchiaia, basato sulla sinergia dei momenti di riposo, di tempo libero, di attività lavorative, di volontariato, di spiritualità, di preghiera; il tutto vissuto con una cultura dell’accoglienza solidale ed aperta al territorio, fortemente professionale anche in virtù delle precedenti esperienze di lavoro.Dalla iniziale residenza di via Gustavo Modena a Padova (prima in Italia ad avere solo stanze a uno e due letti con bagno e servizi, una grande cucina aperta dove divertirsi a fare manicaretti, sale da pranzo e ritrovi dislocati in ogni piano) l’Associazione è evoluta fino all’attuale assetto di fondazione onlus, prima in Italia ad avere una governance duale, capace di accogliere oltre 2.200 ospiti sulla base di 9 Centri Residenziali, grazie al lavoro di oltre 1.500 dipendenti di 28 diverse nazionalità.www.oiconlus.it

Se in Italia venissero messe a sistema le logiche di approccioalla longevità dell’OIC, otterremmo in poco tempoun incremento del PIL del 7%.Giuseppe De Rita - Censis -2009

– 142 –

La Società Dante Alighieri, fondata a Roma nel 1889 con il compito di salvaguardare e diffondere la lingua e la cultura italiana nel mondo, promuove “un’opera altamente ed essenzialmente civile e pacifica, a cui ogni italiano, qualunque sia la sua fede religiosa o le opinioni politiche, deve sentire il bisogno e il dovere di prendere parte”. Aderire ad uno dei 500 Comitati della Dante diffusi in tutto il mondo è per chiunque motivo di fierezza e di considerazione: significa esprimere, rappresentare e sostenere princìpi e valori universali, operando secondo ideali di solidarietà, di progresso e umanità da tutti condivisi.www.ladante.it

GRAFICA VENETA Spa di Trebaseleghe in provincia di Padova è uno dei più vasti e attrezzati luoghi europei per il confezionamento di milioni di libri.In oltre dieci anni d’attività ha raggiunto una posizione di rilievo nella produzione libraria internazionale collaborando con i più importanti editori, augurandosi che in un futuro prossimo ogni persona abbia vicino almeno un libro.Quale operatore di mercato, investita di una responsabilità sociale, l’azienda si impegna con la propria attività a divulgare la cultura in tutto il mondo attraverso la stampa di volumi nel convinto rispetto per l’ambiente. Data la particolarità della materia prima utilizzata, si prefigge inoltre di ridurre l’incidenza dei costi sociali, migliorando l’efficienza dei processi produttivi, utilizzando materie prime provenienti da foreste razionalmente gestite.Tutto ciò in un ambito che privilegia la qualità, come dimostrano le certificazioni per gli standard qualitativi e di tutela ambientale come il marchio Forest Stewardship Council, meglio conosciuto con l’acronimo FSC, rilasciato da un’organizzazione internazionale non governativa, indipendente e senza fini di lucro.www.graficaveneta.com

La casa editrice Cleup (Cooperativa Libraria Editrice Università di Padova) è presente da cinquant’anni anni nel panorama editoriale ed è specializzata nella stampa di testi universitari e professionali, contando all’interno del catalogo un numero significativo di pubblicazioni volte alla conoscenza e valorizzazione del territorio e della cultura. Accanto all’Università di Padova, principale

– 143 –

partner istituzionale, Cleup annovera collaborazioni con numerosi altri atenei italiani e con importanti centri di ricerca, fondazioni e associazioni, aderendo in pieno alla sua filosofia: Università e Territorio per Cultura.www.cleup.it

– 144 –

Finito di stampare nel mese di presso

Via Malcanton, 2 - Trebaseleghe (PD)Printed in Italy

The first carbon-free printing company in the world

This book is printed by the sun

settembreFinito di stampare nel mese di settembre 2012 presso