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6 Due famiglie ebree nell’inferno del nazismo Le nostre storie I SONNINO VENGONO STERMINATI NEI LAGER, I WEILLER SALVATI di Bruno Enriotti Piera Sonnino e Guido Weiller erano due giovani ebrei, ancora ragazzi quando nel 1938 il fascismo promulgò le leggi razziali. Piera aveva 16 anni, Guido 13. Vivevano in due città di- verse: a Genova lei, a Milano lui, e non si sono mai co- nosciuti, eppure le loro vite si incontrano poiché en- trambi hanno sofferto negli anni bui del fascismo espe- rienze simili. Uguale è l’isolamento in cui si vengono a trovare quan- do, ancora ragazzi, si ritrovano improvvisamente espul- si “da tutte le scuole del Regno”, ugualmente dramma- tica la fuga dopo l’8 settembre 1943, quando dalla di- scriminazione razziale si passa, con l’occupazione te- desca e la nascita della Repubblica di Salò, agli arresti e alle deportazioni. Un solo avvenimento – decisivo per il futuro di entrambe le famiglie – imprime un segno opposto al destino loro e delle due famiglie: una, la famiglia Sonnino, finirà ad Auschwitz, dove i genitori e i fratelli di Piera verranno sterminati; l’altra, la famiglia Weiller, incontrerà inve- ce i partigiani e riuscirà a salvarsi. Sul retro è scritto “Genova, estate 1926”. È la sola foto rimasta dei sei fratelli Sonnino Paolo, ucciso ad Auschwitz a 27 anni Maria Luisa, uccisa a Flossenburg a 25 anni Giorgio, che morì ad Auschwitz a 19 anni Roberto, deceduto in luogo e data ignoti Piera Sonnino, che ritornò dai campi e morì a Genova l’11 maggio 1999 Bice, morta a Braunschweig a 21 anni

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Due famiglie ebree nell’inferno del nazismo

Le nostrestorie

I SONNINO VENGONO STERMINATI NEI LAGER, I WEILLER SALVATI

di Bruno Enriotti

Piera Sonnino e Guido Weiller erano due giovani ebrei,ancora ragazzi quando nel 1938 il fascismo promulgò leleggi razziali. Piera aveva 16 anni, Guido 13. Vivevano in due città di-verse: a Genova lei, a Milano lui, e non si sono mai co-nosciuti, eppure le loro vite si incontrano poiché en-trambi hanno sofferto negli anni bui del fascismo espe-rienze simili. Uguale è l’isolamento in cui si vengono a trovare quan-

do, ancora ragazzi, si ritrovano improvvisamente espul-si “da tutte le scuole del Regno”, ugualmente dramma-tica la fuga dopo l’8 settembre 1943, quando dalla di-scriminazione razziale si passa, con l’occupazione te-desca e la nascita della Repubblica di Salò, agli arrestie alle deportazioni. Un solo avvenimento – decisivo per il futuro di entrambele famiglie – imprime un segno opposto al destino loroe delle due famiglie: una, la famiglia Sonnino, finirà adAuschwitz, dove i genitori e i fratelli di Piera verrannosterminati; l’altra, la famiglia Weiller, incontrerà inve-ce i partigiani e riuscirà a salvarsi.

Sul retro è scritto “Genova, estate 1926”. È la sola foto rimasta dei sei fratelli Sonnino

Paolo, ucciso ad Auschwitz

a 27 anni

Maria Luisa,uccisa

a Flossenburg a 25 anni

Giorgio,che morì

ad Auschwitz a 19 anni

Roberto,deceduto

in luogo e dataignoti

Piera Sonnino,che ritornò dai campi

e morì a Genova

l’11 maggio 1999

Bice,morta

a Braunschweiga 21 anni

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DAI PARTIGIANI

Le storie di Piera Sonnino edi Guido Weiller si possonoleggere in due recenti pub-blicazioni.Sul Diario del mese, la ri-vista diretta da EnricoDeaglio, è apparso nel nu-mero dello scorso gennaioun manoscritto di Piera (de-ceduta nel 1999) intitolatoLa deportazione della miafamiglia; Weiller ha pub-blicato il libro autobiogra-fico La bufera – Una fami-glia di ebrei milanesi con ipartigiani dell’Ossola(Giuntina, 19 euro). È pro-prio l’elemento messo in ri-lievo nel titolo di Weiller,l’incontro con i partigiani,che rese tanto diversa la sor-te di queste due famigliebraiche.Piera apparteneva ad unafamiglia della media bor-ghesia. Il padre – che van-tava una parentela conSidney Sonnino, per duevolte presidente del

Consiglio tra il 1906 e il1910 e ministro degli Esteridurante la prima guerramondiale – era un com-merciante con “fortuna al-terna e sempre assai scar-sa”; la madre, eccellentepianista con un diploma diinsegnante, si dedicava al-la cura dei sei figli, tre ma-schi e tre femmine, di cuiPiera era la terz’ultima.Migliore la condizione so-ciale della famiglia Weiller,di cui faceva parte anche unparente che durante la pri-ma guerra mondiale avevavolato su Vienna conD’Annunzio. Il padre era unavvocato milanese abba-stanza affermato che “ave-va aderito al fascismo piùche altro per necessità”; lamoglie accudiva i due figli,Silvana e Guido. I Sonnino avevano raggiun-to proprio in quegli anni unacerta tranquillità economi-ca.

Paolo, il maggiore, riuscì adimpiegarsi presso leAssicurazioni Generali diVenezia ( nel 1940 si laureeràin Economia e commercio);il secondogenito Roberto la-vorava all’Istituto nazionaledelle assicurazioni, la primadelle femmine, Maria Luisa,al Monopolio banane, men-tre gli altri tre figli minori stu-diavano ancora: Piera e Biceall’Istituto commerciale,Giorgio al tecnico. Con le leggi razziali – scrivePiera – “un fulmine si è ab-battuto sulla nostra casa. Nelgiro di pochissimi giorniPaolo, Roberto e Maria Luisafurono licenziati. Giorgio,Bice e io fummo costretti alasciare le scuole statali e aiscriverci alla scuola ebraica. La sera in cui i miei fratelli an-nunciarono il loro licenzia-mento e dinnanzi a noi si aprìla voragine dell’avvenire evi-tammo di lamentarci perchénessuno potesse udirci, ri-

manemmo in silenzio a me-ditare sull’incognita terribi-le dell’indomani”. Anche idue fratelli Weiller nell’au-tunno del ‘38 vengono espul-si dalla scuola pubblica, il li-ceo Parini.Immediatamente si improv-visa una scuola per ragazziebrei “la prima settimana –scrive Guido – si utilizzavacasa nostra, la seconda casaLuzzatto, la terza casa Far-gion. Di quelle settimane ri-cordo più che i volti i nomi:Morpurgo,Luzzatti,Luzzatto,Bonfiglioli, Fargion, Drey-fus, Castelnuovo…”. Pochesettimane dopo la comunitàebraica di Milano dà vita al-la Scuola ebraica, l’IstitutoFranco da Fano, in via Eupili.Lì Guido studia privatamen-te per poi dare gli esami, su-perati col massimo dei voti, inuna scuola pubblica, il Liceoscientifico Schiapparelli. PieraSonnino è invece costretta adabbandonare gli studi.

La vita sconvolta dalle leggi razziali

Piera Sonnino costretta ad abbandonare gli studi

Chi scrive queste note ha conosciuto personalmen-te sia Piera Sonnino sia Guido Weiller. Piera erasposata con A.G. Parodi, uno dei migliori giornali-sti dell’Unità di Genova che ebbe un ruolo poco co-nosciuto ma di primo piano nel creare le condizio-ni per la protesta popolare del luglio ‘60 che portòalla caduta del governo Tambroni; Weiller è diven-

tato un esperto commentatore scientifico al tempodel lancio degli Sputnik e della conquista della Luna,pronto a correre in redazione a qualunque ora delgiorno o della notte per spiegare con lucidità e com-petenza ai lettori dell’Unità, sotto il nome di PaoloSassi, le affascinanti vicende delle conquiste dellascienza.

Palmiro Togliatticircondato dacompagni di partito:Gaetano Parodi,marito di PieraSonnino, è il secondoda destra.

Piera Sonnino a una conferenzaper la pace alla finedegli anni Sessanta.

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Una sterminata nei lager,l’altra salvata dai partigiani

Genova e Binascoi “teatri” delle due storie

“Non solo in quel tempo, masoprattutto negli anni che se-guirono – scrive – scoprim-mo attorno a noi una soli-darietà umana silenziosa maoperante. Le misure antie-braiche suscitavano gene-ralmente nuovi motivi con-tro la dittatura fascista e neinostri confronti più simpatiadi quanto ne avessimo mairicevuta”.Paolo e Roberto vengono as-sunti da due ditte private,Maria Luisa da studi di av-vocati e la stessa Piera, nel1941, va a lavorare alla dit-ta Saic, occupando il postodi un ebreo tedesco che erastato rinchiuso in un campodi concentramento a Mon-tefiascone. Piera descrive

con molta efficacia la soli-darietà ricevuta in quegli an-ni: “Ricordo un povero con-tadino di Sampierdicanne,nei pressi di Chiavari, doveci eravamo rifugiati, ripete-re che l’umanità non si di-vide in ebrei e non ebrei main ricchi e poveri, tra chi pos-siede tutto e chi non possie-de nulla, tra chi lavora la ter-ra e non ne gode i frutti e chinon la lavora e si appropriadella mietitura e della ven-demmia”.È in queste condizioni chela famiglia Weiller a Milanoe la famiglia Sonnino aGenova vivono gli anni del-la guerra fino alle dramma-tiche giornate seguenti l’8settembre ’43.

L’armistizio e la conseguenteinvasione nazista colgono lafamiglia Sonnino a Genova,mentre i Weiller erano sfol-lati a Binasco, un paese delsud milanese. Entrambi ca-piscono subito i gravi rischiche corrono gli ebrei con inazisti in casa e cercano dinascondersi.I Sonnino lasciano Genovaa fine settembre e cercanorifugio a Sampierdicanne,nell’entroterra ligure. Ten-tano ogni strada per ripara-re in Svizzera, ma non han-no denaro sufficiente peremigrare.La zona del Chiavarese do-ve si erano rifugiati era inpermanenza battuta dalletruppe naziste e dai fascisti,per cui bisognava abbando-narla al più presto. Qualcuno

gli parla di un alberghetto aPietranera di Rovegno (unaltro paesino nell’entroterraligure) e la famiglia Sonninovi si trasferisce.Ma anche qui il rischio ègrande. Proprio riflettendosul periodo passato in quel-l’alberghetto, Piera Sonninofa una considerazione che,certo inconsapevolmente,delinea la sorte diversa cheavranno nei mesi futuri lafamiglia Sonnino e la fami-glia Weiller. “La zona – scri-ve Piera – era percorsa qua-si quotidianamente da re-parti tedeschi che si dirige-vano verso le montagne.Ad ogni loro apparire ab-bandonavamo l’albergo o lacucina e ci disperdevamo neiboschi.Un giorno fuggimmo per

Sopra: Piera Sonnino,sdraiata, insieme a un’altrasopravvissuta, nella clinica di Cortina d’Ampezzo dove rimase per cinque anni e mezzo dopo la liberazione. Sotto: Piera Sonnino nel 1952.

l’avvicinarsi di un gruppodi uomini in divisa e al no-stro ritorno apprendemmoche si trattava di militari in-glesi evasi dai campi di pri-gionia.

Nessuno ci disse perché era-no transitati da Pietranera.Per oltre un mese vivemmoin una zona controllata inbuona parte dai partigiani elo ignorammo.

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L’arresto dei Sonninoa causa di una spiata

La fuga della famiglia Weiller

Soltanto al mio ritorno ap-presi che cosa racchiudes-sero i monti che avevamo in-torno.E appresi anche quali lega-mi ci fossero tra quei montie i contadini che protesseroanche noi con il loro silen-zio”.Il mancato incontro con ipartigiani ha portato la fa-miglia Sonnino allo stermi-nio di Auschwitz; l’incon-tro con loro ha invece sal-vato la famiglia Weiller.Non sapendo a chi appog-giarsi, la famiglia Sonninoè costretta a fuggire ancheda Rovegno. Sono gli stessi carabinieriad avvertirli: “Non potetepiù stare qui, i tedeschi po-trebbero prendervi. Doveteallontanarvi.” E i Sonninofuggono.Tornano a Genova, una co-noscente trova loro un rifu-gio in un palazzo sinistratosenza luce e gas. Poi, grazieall’interessamento di un sa-cerdote, riescono ad entra-re in un appartamento piùconfortevole. La loro situa-zione si fa sempre più dram-matica.Il 12 ottobre 1944 i militifascisti li arrestano a causadi una spiata.Li portano alla Casa delloStudente (un edificio tri-stemente noto quale sededelle Brigate Nere e dovevennero rinchiusi e tortu-rati numerosi antifascisti);poi al carcere di Marassi,quindi nei campi di con-

centramento, prima a Bol-zano infine ad Auschwitz-Birkenau. All’arrivo i genitori vengo-no subito destinati alle ca-mere a gas; il figlio mag-giore muore poco dopo. AdAuschwitz moriranno anchegli altri due fratelli. Delle tre sorelle una moriràa Flossenburg e un’altra nelcampo di Braunschweig.Piera sarà l’unica a salvar-si.Quando rientra in Italia nonha più nessuno. Passerà di-versi anni in una clinica perrecuperare la salute, poi, tor-nata a Genova, sposa un gior-nalista dell’Unità, A.G.Parodi e dal loro matrimo-nio nascono due figlie, MariaLuisa e Bice. Sono loro che dopo la mor-te dei genitori, hanno con-servato la drammatica testi-monianza della madre perpoi consegnarla alla rivista diEnrico Deaglio.

Anche la famiglia Weillerrischiò di fare la stessa tra-gica fine, ma ciò non av-venne.Lasciata Binasco immedia-tamente dopo l’8 settembre,i Weiller fuggono in Vald’Ossola con la speranza diraggiungere la Svizzera.Anche la loro è un’odissea,cambiano continuamentepaese cercando di sfuggireai fascisti e ai tedeschi. A Villadossola, quando tuttele speranze di trovare rifugioin Svizzera sembrano svani-te, Guido Weiller – allora po-co più che adolescente magià molto intraprendente –decide di prendere contattocon i partigiani. Sa che inquella zona ci sono gli uo-mini del comandante Bel-trami, un architetto milanesesalito in montagna per com-battere i fascisti. Guido riesce ad identificarlolo avvicina e direttamente glidice: “Siamo una famiglia diebrei. Chiediamo protezio-ne”. E Beltrami gli risponde:“Siete sotto la mia protezio-ne. Io rappresento il gover-no italiano. I miei uomini so-no acquartierati a Damasca.Qualunque cosa vi succedasalite anche voi a Damasca.Se io non ci fossi chiedetedel mio vice, il tenente Lino,che sarà avvertito stasera”.Così i Weiller si uniscono aipartigiani e con loro rimar-ranno diversi mesi. L’interafamiglia si rende utile (Guidosi distinguerà aggiustandoarmi e preparando ordigni

esplosivi, mettendo in mo-stra tutta la sua abilità tecni-ca che dopo la guerra farà dilui un ingegnere estroso e ge-niale). I Weiller rimangonocon i partigiani della Vald’Ossola finché un imponenterastrellamento di fascisti etedeschi li costringe a di-sperdersi e a mimetizzarsi.Tutta la famiglia è un gra-vissimo pericolo e i partigianidecidono di farli fuggire inSvizzera.La loro vita è salva. Anchese – come scrive Guido – “miè rimasto dell’esperienza par-tigiana un intimo cruccio:quello di aver lasciato la for-mazione, di avere abbando-nato il posto di combatti-mento, di ‘essere scappato’”.Comunque farà in tempo atornare in Italia per conse-gnare a Milano all’aiutantedi Luigi Longo, il 28 aprile,la prima serie di immaginigiunta in Italia dei campi disterminio nazisti.

Guido Weiller, La bufera (Una famiglia di ebreimilanesi con i partigiani dell’Ossola)Giuntina, pp. 211, euro 12

La scheda

È la storia per molti aspetti unica della famiglia dell’avvoca-to Augusto Weiller che, a differenza di molti altri ebrei, subi-to dopo l’armistizio, decide senza indugi, di lasciare Milanocon la famiglia, moglie e due figli, per trasferirsi sulle mon-

tagne piemontesi dove si stanno organizzando le primebande partigiane. Il contatto, sopra Quarna, è con il famosocapitano Filippo Beltrami che accoglie i fuggiaschi nellaSquadra “Patrioti Vallestrona” dando loro compiti specificiche saranno rispettati. Guido, il figlio diciottenne, partecipaad azioni militari, viene investito da un rastrellamento, perdecontatto con la famiglia che ritroverà poco prima di varcareil confine con la Svizzera, scampando alla “bufera”.

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L’arresto, la deportazione,la morte a Dachaudi Calogero Marrone,un eroe dimenticato

Le nostrestorie

UN LIBRO RICORDA LA FIGURA DEL CAPO DELL’UFFICIO ANAGRAFE DI VA

di Franco Giannantoni e Ibio Paolucci“Un eroe dimenticato” è il titolo di un libro scritto daFranco Giannantoni e Ibio Paolucci, il primo ricercatorestorico e autore di numerose opere sulla Resistenza, ilsecondo giornalista politico e giudiziario dell’Unità ecritico d’arte e teatrale; entrambi sono redattori delTriangolo Rosso.Nel libro - di cui pubblichiamo alcuni stralci del primocapitolo - si racconta la storia di Calogero Marrone, ca-po dell’ufficio anagrafe del Comune di Varese, assassi-nato a Dachau per aver aiutato gli ebrei e gli antifasci-sti durante l’occupazione tedesca. Calogero Marroneveniva dal sud, dalla provincia di Agrigento e si era tra-sferito a Varese, con la moglie e i quattro figli. Diventato capo dell’ufficio anagrafe del Comune, du-rante l’occupazione nazista rilascia centinaia e centi-naia di documenti d’identità falsi soprattutto ad ebrei,ma anche ad antifascisti, salvando, a prezzo della pro-pria, la loro vita. Tradito da un delatore, CalogeroMarrone, viene arrestato dai tedeschi e consegnato al-le SS. Torturato, rinchiuso in diverse carceri, viene quin-di deportato nel campo di sterminio di Dachau, ultimatappa di un viaggio senza ritorno.

Via Sempione è una strada diVarese un tempo perifericae oggi senza soluzione dicontinuità con il centro sto-rico.Durante la guerra si chia-mava via Mario Chiesa, inmemoria del prefetto dellacittà scomparso in un inci-dente aereo e, in un piccoloedificio al numero 14 di pro-prietà del Comune, abitava alsecondo e ultimo piano lafamiglia di Calogero Mar-rone, responsabile dell’uf-ficio anagrafe comunale. Qui due ufficiali tedeschi,uno dei quali parlava l’ita-liano, si presentarono alle

cinque del pomeriggio del 7gennaio del 1944, per pre-levare il capo famiglia, ac-cusato di avere favorito al-cuni ebrei, consegnando lo-ro documenti falsi. I militari che facevano par-te della Va sezione dellaGrenzwache, un corpo spe-ciale di polizia della scuo-la di Innsbruck, suonaronoalla porta dell’unico appar-tamento del secondo pianoe quando la signora Giusep-pina, moglie di CalogeroMarrone, aprì, chiesero contono aspro e minaccioso do-ve fosse il marito. Lui eranella stanza accanto e com-parve non appena udito ilsuo nome. Invitato a seguirli, il signorCalogero chiese di prende-re una borsa dove aveva fic-cato due camicie e un ra-soio per la barba, segno chequella “visita” non era perlui inaspettata. Poi disse alla moglie e al fi-glio sedicenne Domenico,che giaceva a letto per unbrutto mal di gola, di staretranquilli, che tutto si sa-rebbe risolto positivamente,sperabilmente nella stessagiornata.

La lapide in memoria di Calogero Marrone posta nel luogo dove operò e vennetradito. È stata inaugurata il 1° ottobre 1994, a mezzo secolodalla tragica morte a Dachau.L’iniziativa fu dell’avvocatoGiorgio Cavalieri di Varese,ebreo, del Comune di Varese e dell’Associazione Partigianid’Italia (Anpi).

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ARESE NEGLI ANNI DELLE LEGGI RAZZIALI

Non c’era spazio per spera-re in una soluzione né a bre-ve né a lunga scadenza. Tregiorni prima, infatti, a quel-la medesima porta aveva suo-nato il canonico dellaBasilica di San Vittore donLuigi Locatelli, che, primaancora di salutare, aveva sol-lecitato l’amico Calogero asparire da Varese, senza per-dere troppo tempo se nonvoleva finire nelle mani deinazisti. Da fonte certa il sa-cerdote aveva saputo cheMarrone era nel loro mirino

e che una decisione sarebbestata imminente.L’informazione l’aveva avu-ta da gente del Comune, do-ve, fino a qualche giorno pri-ma, Calogero Marrone la-vorava in un settore di estre-ma delicatezza.Dall’ufficio anagrafe, unpaio di locali situati lungo ilporticato di sinistra diPalazzo Estense, di comodoaccesso per i cittadini,Marrone era stato sospesocautelativamente dal primogiorno del ‘44 da Domenico

Castelletti, ultimo sindacodella città nel ‘24 per libereelezioni e poi podestà, sen-za incidenti di percorso si-no al ‘43, “per l’accerta-mento delle eventuali re-sponsabilità sull’irregolarerilascio di carte d’identità”. L’allarme di don Locatelli,dunque, era ben motivato eavrebbe dovuto essere presosul serio. Ma Calogero Marrone, do-po un primo lungo colloquiocon il sacerdote e un secon-do con la moglie, che l’ave-va sollecitato a rifugiarsi in

Svizzera, aveva deciso di re-stare nella sua casa, intantoperché aveva dato la parolad’onore al podestà fascistache non avrebbe abbando-nato Varese restando a suadisposizione per le indagi-ni e non voleva mancare aquell’impegno. Ma soprat-tutto intendeva rimanere pernon esporre i familiari a unainevitabile rappresaglia, incaso di fuga.A provocare la cattura diMarrone era stata una spia,sfortunatamente rimasta ano-nima e dunque impunita.

L’aiuto agli ebrei e il tradimento

Ma nessuno di loro si fece illusioniChe si trattasse di una dela-zione, tuttavia, non c’eranodubbi. L’accusa era proprioquella di avere rilasciato do-cumenti d’identità contraf-fatti a due ebrei di Milano, icui nomi, ovviamente falsi,indicati nei documenti, era-no Pietro Del Giudice eNatalina Rosati. La coppiaera stata presentata a Mar-rone da Alfredo BrusaPasquè, un esponente so-cialista del Cln varesino, co-stretto ad un certo momen-to, quando le probabilità

d’essere sorpreso dai nazi-fascisti erano diventate al-tissime, a riparare in Sviz-zera, nella cui abitazione dipiazza XX Settembre, fre-quentata da Marrone, si riu-nivano con regolarità ele-menti dell’antifascismo.Quali fossero i loro nomi ve-ri dei due ebrei non è statopossibile accertare.Comunque Marrone avevafornito fino a quel momen-to documenti falsi a parecchiebrei, non solamente a queidue, e anche a non ebrei.

Il manifestino con cui il 15 giugno1945 i sindacatiinvitavano i lavoratori ed i cittadini di Varese a sospendere il lavoro per protestare,nel nome diMarrone, Molteni e Vergani, cadutiinnocenti nei campidi sterminio,contro i ritardinell’epurazionee nella punizione deifascisti repubblichini della città e della provincia.

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L’arresto, la deportazione,la morte a Dachaudi Calogero Marrone,un eroe dimenticato

“Era intestata - ri-corda Maris- atale GianfrancoLanati, di pro-fessione rappre-

sentante di commercio, na-to a Caserta nel 1916.Marrone mi aveva invec-chiato di cinque anni maquel documento mi fu mol-to utile per potermi muo-vere da un luogo all’altro fi-no alla mia cattura, che av-venne non molto tempo do-po, verso la fine di gennaiodel 1944. Io, quando cadde il fasci-smo, ero un giovane uffi-ciale sul fronte jugoslavo.Dopo l’8 settembre gettaila divisa e feci ritorno inItalia, dove mi unii alle for-mazioni partigiane. Il nomedi Marrone me lo fece nel-l’ottobre o nel novembre‘43 il compagno SalvatoreDi Benedetto, allora diri-gente del Pci a Milano e fu-turo parlamentare dellaRepubblica.Ma il tramite, quello che mipresentò a Marrone, fuAlfonso Montuoro, sicilia-no della zona di Agrigento(come Di Benedetto e co-me il capo dell’ufficio ana-grafe di Varese), funziona-rio di una compagnia assi-curativa di Milano, sfolla-to a Varese. Fu lui che miaccompagnò in Comune eche mi fece incontrare con

Marrone. Il contatto, però,fu fuggevole, durò pochi mi-nuti, per cui il mio ricordoè molto vago. Se ben ram-mento lui dette incarico aduno dei suoi collaboratoridi fornirmi la carta d’iden-tità, passandogli un bigliettodove erano indicate le miefalse generalità. Di Benedetto, invece, l’ave-vo conosciuto molto prima,quando avevo 17 anni. Lui,uscito dal confino diVentotene, passato nellaclandestinità, era venuto aMilano. Io allora avevo percompagno di banco, al li-ceo, Pietro Gaffà, col qualec’era già stato uno scambiodi confidenze antifasciste.Fu lui che mi presentò a suofratello, reduce anch’essodal confino di Ventotene. Fu quest’ultimo a farmi co-noscere Di Benedetto. Conloro mi incontrai parecchievolte. L’intenzione, evi-dentemente, era quella direclutarmi ed io, peraltro,non chiedevo di meglio.Infine divenne tutto chiaroe io seppi che tutti e due era-no del Pci. In quegli anniconobbi diversi altri co-munisti. Uno di questi eraVittorio Bardini, che poi,dopo la Liberazione, di-venne uno dei massimi di-rigenti del Partito, membrodella Direzione e segreta-rio regionale in Toscana”.

Il ricordo di MarisIl senatore Gianfranco Maris, attuale presidentedell’Aned (Associazione nazionale ex deportati politici) rammenta benissimo di esserestato da lui per ottenere una carta d’identità falsa.

Salvatore Di Benedetto, dirigente del partito comunistaitaliano (a sinistra) in compagnia del partigiano GianfrancoMaris. Di Benedetto costituì a Ponte Tresa dopo l’ 8 settembre1943 una base per il passaggio dei ricercati politici in Svizzera.Sia Di Benedetto che Maris entrarono in contatto a Varese conCalogero Marrone. Maris ottenne un documento d’identitàcontraffatto che gli permise di muoversi nella clandestinitàsino al giorno dell’arresto e della deportazione a Mauthausen.

Il Tresa, in genere con una modesta portata d’acqua e spesso asecco, fu uno dei punti privilegiati per tentare di passare oltrefrontiera. Nel settembre 1943, Calogero Marrone, pistola allamano, impedì che un milite fascista fermasse il figlio Salvatorementre, con altre persone, era impegnato a guadare il torrente.

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Arrestato dai tedeschi, sot-tratto sin dalle prime battu-te alla giurisdizione fascistache non si occuperà mai delsuo “caso”, Calogero Mar-rone venne portato nel car-cere giudiziario dei Miogniche si trovava poco lontanodalla sua abitazione, tanto èvero - come racconta il fi-glio Domenico, che risiedetuttora a Varese - “che dallaterrazza di via Mario Chiesa,i familiari potevano vedereil loro congiunto, durantel’ora d’aria”. Per gli interrogatori il dete-nuto veniva tradotto poco di-stante, a circa un chilome-tro, nella “villa Concordia”di proprietà Zanoletti, in viaSolferino 6, sede del co-

mando tedesco della Guardiadi frontiera. In quel carcereMarrone rimase fino al 26gennaio 1944. La decisione di trasferire im-provvisamente il detenutoda Varese a Como aveva avu-to ragioni molto serie. Era infatti trapelata la no-tizia che un nucleo parti-giano della 121a brigatad’assalto Garibaldi “Gasto-ne Sozzi” avesse allo stu-dio da qualche giorno unpiano per tentare di libera-re Calogero Marrone nonappena la vettura germani-ca che lo trasferiva ognimattina dal carcere giudi-ziario dei Miogni alla sededel comando tedesco per gliinterrogatori, fosse apparsa

Il fallimento di un progetto partigiano

Il ricordo di CavalieriUn’altra testimonianza dell’opera generosa svolta da Marrone.

“ Io - dice l’avvo-cato GiorgioCavalieri - eroun ebreo misto,nato nel 1921, fi-

glio di Edgardo Cavalieri,e avevo un fratello, Aldo,del 1924. Eravamo tutti diVarese. Mia madre eraariana. Poco dopo l’8 set-tembre, per la precisioneil 17 settembre, andammoa Ponte Tresa e da lì, pas-sando il torrente Tresa, cirifugiammo in Svizzera, do-ve restammo fino al termi-ne della guerra. Con noi c’era anche un ta-le Jarach, nostro parente.Calogero Marrone lo co-nobbi nel 1940. Lui, fral’altro, era arrivato aVarese nel ‘31, su suggeri-mento di un suo parente, ilcavalier Trovato, che l’a-veva informato del con-corso bandito dal Comune.Quando lo conobbi era ap-pena iniziata l’estate e io daun anno ero iscrittoall’Università di Milano.Fui chiamato in Municipioper preparare con altri stu-denti, sotto la direzione diMarrone, degli elenchi dipersone che poi seppi cheerano di soldati al fronte.Quegli elenchi servivanoper far loro avere dei pac-chi-dono. Ritrovai Marrone nel ‘43.Lo ricordo come un uomo

buonissimo, generoso.Posso testimoniare che nelsettembre del ‘43 alcunimiei parenti, ricercati co-me ebrei, già compresi nel-le liste fornite dal podestàai tedeschi, riuscirono alasciare Varese e a rag-giungere l’abitato diMondonico sopra Ganna,dove vissero tranquilli si-no alla Liberazione. Si trattava dei miei cuginiLaura e Ferruccio Pizzo di17 e di 23 anni, della loromadre e mia zia EmiliaCavalieri di 50 anni, non-ché di mia nonna PaolaCarpi Cavalieri di 76 an-ni. Tutti loro vissero senzache nessuno li disturbas-se, avendo documenti fal-si ma sicuri, forniti daMarrone.Non fosse stato così l’ar-rivo di quattro estranei inun piccolo paese di centoabitanti sarebbe stato si-curamente notato. Ho anche memoria di unaltro ebreo polacco, taleSzia Amsterdam, commer-ciante di pellicce, che so-pravvisse a Valle Olona,alle porte di Varese, con lamoglie, grazie ai documenticertamente falsi”.

Poligono di Varese. Il tiro con la pistola olimpica era l’hobbydi Marrone. Il tempo libero lo trascorreva infatti framillimetrici centri e buone letture.

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nella sede stradale. Il pro-getto partigiano, dopo al-cune discussioni, era rien-trato ma i timori che da unmomento all’altro potessesuccedere qualcosa al pre-zioso imputato, l’uomo checonosceva tutti i segreti peraiutare gli ebrei, avevanoconsigliato il commissarioWerner Knop, responsabi-le della zona di frontiera,un cane mastino gettato suiconfini a braccare coloroche in quelle giornate guar-davano alla Svizzera comead un miraggio, a dover spo-stare Calogero Marrone, giàduramente provato dalla de-tenzione, nella vicinaComo.

A Como, nel carcere di SanDonnino, Marrone rimasefino a giugno. La successivatappa fu a San Vittore, aMilano, nel VI° raggio, quel-lo dei politici, direttamentecontrollato dai nazisti cheper interrogarlo lo trasferi-vano ogni giorno all’HotelRegina, sede del ComandoSS. Qui restò fino al 23 set-tembre e, fra le altre cose,svolse pure la funzione dibibliotecario.Nel suo libro di memorie pa-dre Giannantonio Agosti ri-corda: “Io fui destinato allabiblioteca col compito di te-nere in ordine i libri e ripa-rarli quando occorresse e di-stribuirli a chi li desiderava,portandoli io stesso ai dete-nuti isolati degli altri raggi.(…). Vi trovai già addetti tre

autentiche personalità: il ge-nerale Zambon, aiutante dicampo del principe eredita-rio, il generale Robolotti, co-mandante dei bersaglieri el’avvocato Frezzati. In se-guito vennero sostituiti dalcolonnello Rossi, addetto al-la famiglia reale, dal colon-nello Ratti, attualmente ge-nerale comandante di divi-sione, e dal signor Marrone,impiegato del Comune diVarese”18.Dopo San Vittore, Marronefu portato nel lager diBolzano-Gries, dove restòquasi certamente sino al 5ottobre.Poi l’ultima tappa, il campodi sterminio di Dachau, dovèmorì presumibilmente il 15febbraio del ‘45 di tifo pe-tecchiale.

Marrone viene trasferito aBolzano-Gries, nel BloccoD, Polizeiliches Durchgang-slager. Dal nuovo luogo di deten-zione scrive il 23 settembre:“Ed eccomi alla nuova resi-denza sempre in ottima sa-lute e morale alto. Trovomiin un campo di concentra-mento di prigionieri politiciove non manca l’aria deimonti respirando a pieni pol-moni (..) C’è il problema de-gli indumenti di lana, ma pa-zienza, saprò adattarmi (..)Tutto mi basta e so assue-farmi ad ogni sorta di lavo-ro.Tornerò con i calli che sonoonore per l’uomo. A noi ciè dato scrivere due volte almese e possiamo riceveresenza limitazioni. Scrivetemi

quindi per illudermi di aver-vi più vicini”. La realtà, in-vece, sarà del tutto diversa.Lui scriverà ancora sei let-tere durante la sua perma-nenza a Bolzano, ma non ri-ceverà neppure una riga daisuoi cari, che, naturalmen-te, di lettere gliene scrisseroparecchie.L’ultima lettera da Bolzanoè del 5 ottobre. “Miei ama-ti, oggi si doveva prosegui-re la Via Crucis ma è statasospesa la partenza a causadi forte pillolamento proprioa poca distanza da noi”. Poiin cima alla lettera, prima dichiuderla scrive: “Ore 12 sia-mo sempre in attesa di par-tire”.E ancora l’angoscia di nonavere ricevuto nulla dai suoicongiunti: “Mi duole non

Dal carcere di Comoa San Vittore a Milano

Il passaggio a Bolzano-Gries anticamera della Germania

L’arresto, la deportazione,la morte a Dachaudi Calogero Marrone,un eroe dimenticato

“Da Sant’Antonio”. Con queste parole, l’ingegnerCamillo Lucchina, presidentedel Comitato di Liberazionenazionale di Varese, solevapresentarsi alla fine di ognimese in casa Marrone perconsegnare una somma didenaro alla famiglia rimastasenza mezzi. In questainedita fotografia del 23luglio 1945, CamilloLucchina (l’uomo in primopiano senza capelli) è allaspalle di Charles Poletti,il governatore alleato della Lombardia, giunto a Varese per ricevere la cittadinanza onoraria.Poletti, è morto nell’estate2002 in Florida a 99 anni.

La pagina 76 del Registro dell’ufficio dimatricola del carcere di San Donnino diComo. Accanto alla scheda di CalogeroMarrone, redatta il 25 gennaio 1944,giorno del suo trasferimento da Varese,l’ordine di scarcerazione del Comando SSdel 20 luglio 1944 che, per motivisconosciuti, non fu eseguito. Si può notarela firma di Marrone per presa visione.

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poco non avere vostre noti-zie e sa Dio quando potròaverne poiché quella nonsarà residenza fissa dovendoancora proseguire. Propriouna Via Crucis. Speriamo dinon arrivare al Golgota e pas-sare alla resurrezione”. Poi,di seguito, parole di confor-to: “Sono stato fortementeraffreddato, ma oggi mi sen-to un po’bene. Non impres-sionatevi. Vi raccomando difarvi sempre forza e corag-gio nella fiducia di riab-bracciarci al più presto.Ma…..”. Proprio non ce la fa ad es-sere sereno e ottimista. Quelma, seguito da cinque pun-tini, è indicativo di uno sta-to d’animo lacerante. E an-cora, rivolgendosi alla mo-glie: “Il pacco, che certa-mente avrai spedito, sarà ri-tirato da un mio amico che ri-mane al campo, per ridar-melo - se possibile - alla fi-ne”. Colme di disperazionele ultime note: “Vorrei trat-tenermi con voi, miei cari,a lungo, ma è meglio so-spendere nella tema di ram-mollirmi il cuore. Come sento il bisogno di unvostro conforto! Ma pa-zienza. Coraggio e fortezzada ambo le parti”.Non spedisce la lettera, latiene con sé ancora un po’.C’è un’aggiunta, difatti, incui dice che “ieri” avevapreavvisato che sarebbe par-tito per Merano: “Beh! è sta-ta sospesa la partenza, manon è escluso che si partirà,essendo questo un campo ditransito”.Torna ancora sul tema degliindumenti di lana, rilevan-done l’inutilità, giacché an-

che se arrivassero i tedeschinon si sarebbero certo oc-cupati di inoltrarli. Epperòla preoccupazione è forte e,dunque, “purtroppo debboparlarne poiché qui comin-cia a fare freddo non poco. Imonti oggi sono coperti dineve ed il frescolino ci ca-rezza.Ed allora tentiamo e nel pe-ricolo di smarrimento met-ti roba vecchia e rattoppata.Per la spedizione cerca, an-zi per guadagnare tempo,spedisci da Milano.Consigliati con don Bic-chierai, parroco del carce-re”. Infine, dopo altre con-siderazioni, le ultime paro-le: “La mia salute - ripeto -è ottima e lo spirito alto, sem-pre pronto a sopportare qual-siasi disagio. Bacioni fortiforti e ardenti. Calogero”.Non ci saranno più parole.La successiva stazione del-la Via Crucis non saràMerano.È Dachau, l’orrendo campodi sterminio. Da Bolzano-Gries Calogero Marrone par-te con 518 compagni di viag-gio, su un treno intermina-bile, proprio quel 5 ottobre,quasi certamente nel pome-riggio, una volta terminatoil bombardamento. Il “tran-sport” per la ferrea burocra-zia del Terzo Reich è il n.90. Raggiunge l’inferno il 9ottobre 1944. Quattro giorni accatastati suivagoni-bestiame in attesadella “soluzione finale” chearriverà per stenti, malattie,violenze, esecuzioni som-marie.Di quel viaggio tornerannoin trenta e Calogero Marronenon sarà fra questi.

La Varese razzista e fascista si è riproposta, come spessole capita, all’improvviso, scossa questa volta da una cir-costanza che non si materializzava in una partita di cal-cio o di basket, classici siti della più becera provocazio-ne, ma nella richiesta civile e motivata di dedicare unavia, una piazza o un edificio pubblico, alla memoria diCalogero Marrone, il capo dell’ufficio anagrafe del Comune,arrestato dai tedeschi, su mandato fascista, nel gennaio 1944e assassinato nel campo di sterminio di Dachau nel feb-braio 1945. La doverosa proposta era stata avanzata già due anni fadall’Aned, dai partiti politici dei Democratici di Sinistra,della Rifondazione Comunista e ora da tutta l’opposizionealla giunta di centro-destra, Margherita e “Varese Città”,il gruppo dell’ex sindaco leghista Fassa, compresi.Bene, anzi male. Se il sindaco leghista-doc Aldo Fumagalli,preside liceale in aspettativa, ha fatto finta di niente comespesso gli accade, evitando di dare una risposta a chi loaveva “interrogato”, dai consiglieri comunali ai semplicicittadini, sfidando la decenza e dimostrando che il rispet-to civico non è fra i suoi attributi migliori, di peggio han-no fatto coloro che, accettando di partecipare ad un refe-rendum del giornale telematico Varese News (“è giusto in-titolare una via a Marrone?) si sono sbizzarriti in una se-quela di insulti, provocazioni, richiami all’ideologia nazi-fascista da far tremare i polsi. Fa impressione ma è il caso di proporre qualche esempio.“Marrone? ma con quel cognome terrone cosa c’entra conVarese?” oppure “Facciamogli la via ma al posto del suonome scriviamo il numero che aveva tatuato sul braccio,eh, eh, eh…” oppure “Smettiamola con questi nomi di in-fami”.Fermarsi qui è opportuno, e per rispetto al caduto e pernon fare da cassa di risonanza a queste follie. Ebbene, nep-pure davanti a questo monumento all’imbecillità e al di-leggio prolungato, il sindaco Fumagalli che passerà alla sto-ria per aver ripescato dalle cantine il monumento ad Umberto1°, il re sanguinario di Bava Beccaris e di Adua, e per averdisegnato coi fiori il sole che ride nella piazza principale del-la città, ha ritenuto di aprire bocca.Non solo non ha detto niente circa l’eventualità di intitolareuna via al povero Marrone (celebrato, guarda caso, conspiegamento di spazio proprio da la Padania, come un eroerisorgimentale, perché, ha spiegato il foglio leghista, “non-no della moglie di Bossi”!) ma non ha ritenuto di striglia-re chi ha oltraggiato la memoria di un uomo del Sud, cadutoin un lager per salvare la vita a tanti altri italiai, ebrei e an-tifascisti.Un silenzio pilatesco che pare richiamare, per impressio-nante ed oscura analogia, quello del podestà Castelletti,che sessant’anni fa, ordinò al dipendente Calogero Marrone,tradito mentre consegnava carte d’identità a uomini brac-cati, di restare a disposizione per lo sviluppo delle indagi-ni. Marrone obbedì, fiducioso che la faccenda si risolves-se, ma a casa sua, circondato dalla moglie e dai quattro fi-gli, arrivarono i tedeschi! (f.g.)

✔Una via in memoria di Calogero Marrone?

Il sindaco tace e sfida la città

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Gli “schiavi” della Todt.I nazisti chiedevano,i francesi rifornivanodi uomini i campi di lavoro

Le nostrestorie

BEN 650 MILA FRANCESI MANDATI A LAVORARE NEI CAMPI DI CONCE

di Pietro Ramella

Assieme all’inumano progetto dei campi di sterminio,i nazisti programmarono lo sfruttamento come forzalavoro di oltre 7.000.000 di stranieri prelevati da tut-ti i paesi europei occupati per le esigenze della loroeconomia di guerra, compresi i militari fatti prigio-nieri nel corso delle operazioni di guerra, in partico-lare polacchi, francesi, olandesi, belgi, norvegesi. I rus-si non furono mai considerati lavoratori ma semplice-mente schiavi.Qualificandolo come “crimine di guerra, crimine con-tro l’umanità”, la più alta giurisdizione internazionale,il Tribunale militare internazionale di Norimberga co-stituito per il processo ai grandi criminali di guerra, de-finì tale programma “la più grande e la più terribile im-presa di schiavitù che si sia mai vista nella storia”. Poiché non è possibile nel breve contesto di un artico-lo ricordare vicende che interessarono tutta l’Europa,qui ci si limita a quanto accadde in Francia dove fu lostesso governo nazionale che volle gestire lo sfrutta-mento dei propri cittadini.

All’atto dell’armistizio conla Germania del 22 giugno1940 non fu sollevato, daparte francese, il problemadel milione e mezzo di pri-gionieri di guerra, che si tro-vavano in mani tedesche, fuconvenuto che sarebbero sta-ti liberati con la firma deltrattato di pace. La norma non aveva susci-tato particolari eccezioni per-

ché, secondo Pétain, la GranBretagna sarebbe stata scon-fitta nel giro di poche setti-mane, la guerra sarebbe finitaed i prigionieri francesi sa-rebbero ritornati a casa. Ma le cose andarono diver-samente: l’Inghilterra resi-stette, combatté e vinse labattaglia aerea che avrebbedovuto prima fiaccarne ilmorale e poi favorire l’in-

vasione dell’isola, mentre ilgenerale De Gaulle, supe-rata la diffidenza britanni-ca, riusciva ad aggregare at-torno alla sua persona laFrancia che non si ricono-sceva vinta. L’anno seguen-te fu decisivo per le sorti delconflitto, infatti, Hitler il 22giugno iniziò l’invasionedell’Urss e il 7 dicembre ilGiappone attaccò gli StatiUniti dando così al conflit-to un carattere di guerra to-tale che allontanava ogni spe-ranza di pace, procrastinan-do il ritorno a casa dei pri-gionieri.La Germania, duramenteimpegnata sul frontedell’Est e nel mantenere ilcontrollo dei paesi occupa-ti, dove i movimenti di re-sistenza diventavano sem-pre più attivi, fu costretta achiamare sotto le armi i te-deschi che fino ad allora pernecessità legate all’indu-stria bellica erano stati eso-nerati dal servizio militare,ma per:- mantenere gli elevati ritmidi produzione dell’econo-mia di guerra in Germania,- consentire all’Organizza-zione Todt di portare a ter-mine il Vallo Atlantico, si-stema di fortificazioni attea contrastare un eventualesbarco alleato sulle costefrancesi e di supportare le

installazioni militari (ripa-razioni d’aerodromi, porti,linee ferroviarie, strade, ecc.danneggiati dai bombarda-menti aerei),ricorse al reclutamento for-zoso di lavoratori dai paesieuropei occupati.L’Organizzazione Todt pren-deva il nome dell’ingegneretedesco che l’aveva creatanel 1933 per combattere ladisoccupazione in Germania.Aveva dapprima costruitograndi opere pubbliche (re-te d’autostrade), poi la lineadi fortificazioni Sigfrido sulconfine francese, ora avevail compito di innalzare il co-siddetto Vallo Atlantico, ope-ra difensiva che partendo daiPaesi Bassi arrivava fino alconfine con la Spagnasull’Oceano Atlantico.Comprendeva oltre a trin-cee, fortini, installazioni dibatterie d’artiglieria anchebasi per sottomarini che ope-ravano nell’Atlantico con-tro i convogli provenientidall’America diretti inInghilterra.La Germania era diventataun’immensa fabbrica cheimpiegava tra tedeschi e stra-nieri circa 40 milioni di per-sone nello sforzo bellico,senza considerare i depor-tati nei campi di sterminio,il cui utilizzo era relativa-mente breve per le disuma-

Un milione e mezzo di francesi in mano tedesca

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NTRAMENTO IN GERMANIA: PER TRE QUARTI NON CI FU RITORNO

ne condizioni in cui eranocostretti a vivere.La razzia di mano d’operaorganizzata dai tedeschi intutta Europa toccò anche laFrancia di Vichy, ma il go-verno di Pétain e Laval nonvolendo abdicare alla sua so-vranità nazionale, il 16 giu-gno 1942 stipulò con il gau-leiter Sauckel, il negreriod’Europa, un accordo discambio, la Relève, che pre-vedeva il rimpatrio di un pri-gioniero di guerra ogni trelavoratori inviati in Ger-mania.

L’Etat Français si impegna-va a fornire entro fine anno250.000 lavoratori (di cui150.000 specializzati) ai te-deschi, ma voleva farlo conproprie leggi. Fu emanata la legge 4.9.1942che stabiliva: “Tutte le per-sone di sesso maschile di piùdi 18 anni e meno di 50 e tut-te le persone di sesso fem-minile di più di 21 anni e me-no di 35 possono essere as-soggettate ad effettuare tut-ti i lavori che il governo giu-dicherà utili nell’interessedella Nazione.”

Il “Service du Travail Obligatoire”...

…esteso agli uomini dai 16 ai 60e le donne dai 18 ai 45

Malgrado una intensa cam-pagna propagandistica perradio, sulla stampa e con ma-nifesti rivolta ad operai, gio-vani e anche donne per con-vincerli che il lavoro volon-tario in Germania era neces-sario all’avvenire dellaFrancia, i risultati furono me-diocri. Neppure l’appello adarruolarsi per permettere laliberazione dei prigionieri diguerra ebbe effetto: solo163.726 francesi risposeroall’appello di Pétain. Nel gen-naio 1943 Sauckel richiese500.000 lavoratori, di cui lametà da mandare inGermania, per cui visti i de-

ludenti risultati della prece-dente operazione su base vo-lontaria, il governo franceseistituì con legge 16 febbraio1943, il Service du TravailObligatoire - STO che dalsettembre fu esteso anche al-le donne ed ordinò la mobi-litazione delle classi 1920,1921, 1922. Ora i giovanifrancesi diventavano coscrittisoggetti ad una semplice chia-mata riprodotta, nel riquadroqui sopra. Il reclutamento for-zato ottenne i risultati pre-fissati, mentre la propagandagovernativa esaltava gli altisalari, il buon vitto, la siste-mazione confortevole, ecc.

Quando nel giugno 1943 fuavanzata da parte tedesca larichiesta di altri 220.000 la-voratori, il clima generale eracambiato, quelli tornati inpermesso dalla Germaniaavevano raccontato che la vi-ta era tutt’altro che idilliaca,come la propaganda la de-cantava, il salario era moltobasso perché decurtato di ognispesa (vitto, alloggio,…) le si-stemazioni pessime, l’orariodi lavoro pesante infine il pe-ricolo rappresentato dai bom-bardamenti alleati sempre piùfrequenti e micidiali. Per tut-to ciò molti dei rientrati de-cisero di non ripartire.

All’ultima chiamata rispo-se appena il 60% dei reclu-tati, tanto che Sauckel nelgennaio 1944 avanzò unanuova richiesta di 855.000elementi. Per far fronte aciò il governo emanò la leg-ge 1° febbraio 1944 in cuivenivano ampliate le clas-si di requisizione com-prendendovi gli uomini dai16 ai 60 anni e le donne sen-za figli dai 18 ai 45 anni.Le autorità amministrativefrancesi si sforzarono in tut-ti i modi di ostacolare le ri-chieste tedesche che disor-ganizzavano la vita sociale,pregiudicavano la produ-

Oggetto:Assegnazione al Servizio di Lavoro Obbligatorio

«Ho l’onore di informarvi che la Commissione franco-tedesca, incaricata di assegnare i giovani designati per ilS.T.O., vi ha designato per andare a lavorare nell’Orga-nizzazione Todt in Germania. Di conseguenza, secondo le istruzioni della Feldkom-mandantur, ho il piacere di invitarvi a presentarviall’Agenzia di Collocamento tedesca, via..... il............,alle ore....., per prendere conoscenza delle condizioni dilavoro oltre che della data e dell’ora di partenza.

Vi preciso che la mancata esecuzione da parte vostra diquest’ordine d’assegnazione è soggetta alle pene previ-ste dalla legge 15 febbraio 1943».

La targa sulla facciatadel deposito diBrandenburgoa ricordo di undicilavoratorifrancesideportatie decapitati il 13 settembre1944.

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Gli “schiavi” della Todt.I nazisti chiedevano,i francesi rifornivanodi uomini i campi di lavorozione industriale, metteva-no a rischio l’agricolturama soprattutto mandavanodei giovani francesi incon-tro ad un destino pieno dipericoli. I medici cercaro-no di esonerare quanti piùpotevano, molti furono ar-ruolati nei corpi esentatidalla chiamata come poli-zia, vigili del fuoco, ferro-vie o anche nella Todt, inquanto almeno lavoravanoin territorio francese. Moltis’iscrissero all’Università,altri s’impiegarono in fat-torie agricole, o anche inminiere... o si arruolarononel servizio di sorveglian-za di strade, ponti e ferro-vie, per scongiurare even-tuali sabotaggi da parte deipartigiani. Tutti questi eso-neri, anche se corredati daun crisma di regolarità, ir-

ritarono le autorità d’oc-cupazione che aumentaro-no la pressione sul gover-no francese, quasi ormaiprivo d’ogni autorità, dopoche i tedeschi avevano oc-cupato, in seguito agli sbar-chi americani nel NordAfrica nel novembre 1942,anche la zona libera e do-po l’8 settembre 1943 laparte della Francia primacontrollata dagli italiani.Le cattive notizie, che fil-travano attraverso la cen-sura, circa la pericolositàdella vita nel Reich e la pro-paganda della radio ingle-se e dei giornali clandesti-ni, che ripetevano sloganquali: «Un uomo che parteè un ostaggio nelle mani delnemico, un uomo nel ma-quis è un soldato contro ilnemico.

Se non volete subire anghe-rie né morire sotto le bombeinglesi non partite per laGermania», indusse la mag-gior parte dei richiamati anon rispondere alle convo-cazioni ed a darsi alla mac-chia, tanto che Sauckel ven-ne definito il miglior reclu-tatore della Resistenza.Nacque la figura del réfrac-taire, cioè di chi non ri-spondeva alla precettazio-ne; sui treni in partenza perla Germania diminuì sem-pre più il numero dei volon-taires mentre aumentavaesponenzialmente quello deirequis, cioè di quelli obbli-gati con la forza a partire.

La repressione tedesca con-tro i refractaires fu come sem-pre dura e non fece che ac-centuare l’ostilità della po-polazione nei confronti del-l’occupante e dei collabora-zionisti. Vi furono manife-stazioni di protesta alla par-tenza dei treni per laGermania, le lacrime dei fa-miliari, i canti della Mar-sigliese e dell’Internazionale,i pugni levati, le scritte con ilgesso sulle porte dei vagoni:Laval assassino, Laval al mu-ro, viva De Gaulle. AMontlucon i precettati fuggi-rono dal treno, protetti dallafolla e dai ferrovieri che neavevano ritardata la partenza.

La figura dei “refractaires”

Il Monumento di Grossbeeren eretto presso la fossa comunedell’Arbeitsstraflagerdove furono gettati i cadaveri di oltre800 lavoratori deportati.

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A Lione nel marzo 1943 leproteste furono così violen-te che la polizia vietò l’ac-cesso alla stazione dei fa-miliari. La misura fu prestogeneralizzata, infatti, il mi-nistero degli Interni inviò atutti i prefetti un telegram-ma che prescriveva: «Vietareaccesso stazioni e luoghi li-mitrofi al pubblico e alle fa-miglie al momento parten-za o passaggio treni scam-bio».

Dei circa 650.000 i france-si mandati in Germania,60.000 non tornarono, trequarti morirono vittime deibombardamenti alleati, perdenutrizione e fatica, 15.000furono fucilati, impiccati,decapitati per aver sabotatola produzione o appoggiatola Resistenza.Alla fine della guerra i redu-ci dai campi si unirono inun’associazione denomina-ta Fédération nationale des

déportés du travail, FNDT,che divenne nel 1978 laFédération nationale des vic-times et rescapés des campsnazis du travail forcé in quan-to la Corte di Cassazione sta-bilì che solo i deportati resi-stenti e i deportati politici po-tevano vantare il diritto al ti-tolo di déportés.La Federazione si fece pro-motrice per ricordare questiforzati del lavoro. I loro no-mi vennero incisi sulle lapi-

di dei Mourts pour la Francee numerosi monumenti nericordarono il sacrificio. Il 22 giugno 1947 le spogliedi un travailleur requis in-connu furono inumate al ci-mitero Père-Lachaise, pres-so il muro dei Federati, do-ve il 21 giugno 1970 venneeretto un imponente monu-mento, altre steli e monu-menti sorsero in tutta laFrancia, molte nella stazio-ni da cui partirono.Anche in Germania furonoricordati, con un grande mo-numento a Dortmund, eret-to nella foresta di Bitter-marck, dove erano stati inu-mati 347 deportati, la mag-gior parte francesi massa-crati il venerdì santo del1945, una targa sulla fac-ciata della stazione diBrandenburg, ricorda undi-ci ferrovieri francesi deca-pitati il 13 settembre 1944per fatti di Resistenza, men-tre un monumento è statoeretto a Grossbeeren doveera la fossa comune di 800lavoratori forzati di tuttaEuropa (tra cui 185 france-si) massacrati in più voltedai nazisti.

Il monumento erettodalla Municipalità di Dortmund a ricordo di 300 lavoratori deportatifrancesi, massacrati dalle SS nella notte del venerdì santodel 1945; un monumentodove ogni venerdì santo si raccolgono migliaia dicittadini tedeschi, francesi,belgi e olandesi.

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Nel museo ebraico di Praga i quattromila disegni di Terezin

NELL’UNIVERSO CONCENTRAZIONARIO, QUESTO CAMPO DI STER

di Ibio Paolucci

Praga, marzo 1939, l’invasionedelle armate hitleriane

Nata come città fortezza fatta costruire dall’impera-

tore Giuseppe II nel 1780 e battezzata col nome del-

la madre, Maria Teresa, Theresienstadt venne tra-

sformata dai nazisti in un ghetto, diciamo così, un

po’particolare, le cui finalità, tuttavia, erano identi-

che a quelle di tutti gli altri campi di concentramen-

to: lo sterminio di tutti gli ebrei.

Nell’universo concentrazionario nazista, Terezin è

conosciuta per i disegni dei bambini, quattromila dei

quali sono oggi custoditi nel Museo ebraico di Praga.

Gli autori di questi straordinari dipinti sono quasi

tutti morti nelle camere a gas di Auschwitz.

Come si sa le armate di Hitlerentrarono a Praga il 15 mar-zo del 1939 e quattro mesidopo vennero emanate le leg-gi razziali con la conse-guenza, fra le tantissime al-tre, di vietare ai ragazzi ebreidi frequentare le scuole pub-bliche, come, peraltro, eragià avvenuto, con un anno dianticipo, in Italia. La depor-tazione in massa degli ebrei

della Boemia e della Moraviavenne decretata nel settem-bre del 1941 e un mese dopo,il 19 ottobre, Terezin co-minciò a funzionare comeghetto. Secondo lo storicoRaul Hilberg, autore del fon-damentale libro La distru-zione degli ebrei in Europa(editore Einaudi), quel ghet-to servì ai nazisti anche perdare un contentino agli alti

comandi della Wehrmacht,che chiedevano un tratta-mento speciale per gli ebreiex combattenti della primaguerra mondiale, che aveva-no meritato la Croce di fer-ro di prima classe o una de-corazione austriaca equiva-lente. In sostanza, il ghettofu creato sulla base di dueconsiderazioni: creare uncampo di concentramentoper gli ebrei del Prottetoratoceco, per poi utilizzarlo pergli ebrei “importanti” e peraltre categorie speciali. In

ogni caso Heydrich sfruttòla sua posizione di Rei-chsprotektor per ordinare latotale distruzione della pic-cola città, l’evacuazione del-la popolazione ceca e la crea-zione di un insediamentoebraico (Judensiedlung). Unghetto, infine, che nelle in-tenzioni di Himmler, caposupremo delle SS, dovevaanche servire, eventualmen-te, come in effetti servì, daspecchietto per le allodolein caso di ispezioni dellaCroce rossa internazionale.

Le nostrestorie

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In realtà, il ghetto di Terezin,dove furono inviate oltre140.000 persone, di cui15.000 bambini, non eranient’altro che una tappa cheportava al grande cimiterodi Auschwitz. Valgano, al ri-guardo, le cifre: dei 140.000detenuti, 33.456 morirono

nel campo, mentre ben88.202, e cioè la quasi tota-lità dei restanti, furono i de-portati nel campo di stermi-nio polacco. I liberati dal-l’Armata rossa, il 19 mag-gio del ‘45, furono 1654.In questo campo, dal ‘42 al’44, venero deportati 15.000

bambini dai 7 ai 13 anni, che,a scaglioni, furono anch’es-si trasferiti ad Auschwitz. Sene salvarono solo un centi-naio. Molti di loro lasciaro-no a Terezin un patrimonioprezioso di disegni e di poe-sie, una rassegna dei qualifece il giro del mondo, Italia

compresa. La mostra, fral’altro, fu accompagnata daun bel catalogo con una co-pertina dove era riprodottouno stupendo dipinto diRenzo Vespignani, dedica-to ai bambini di Terezin edonato al Museo ebraico diPraga.

MINIO È TRAGICAMENTE NOTO PER I DISEGNI DEI BAMBINI

Il dipinto di Renzo Vespignani donato al museo ebraico di Praga raffigurante un bambino.Accanto: i piccoli, nel dormitorio.

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Prima di finire ad Auschwitzconsegnò i dipinti allo zio

Disegni teneri e strazianti,nati nella realtà allucinantedel campo, autori ragazzinie ragazzine quasi tutti mor-ti ad Auschwitz. È impressionante, infatti,scorrere le didascalie delleimmagini nel catalogo, do-ve, nove volte su dieci, si tro-va il nome e il cognome, ladata della nascita e quelladella morte ad Auschwitz.

Fra le bambine trasferite adAuschwitz, dopo una lungapermanenza a Terezin, c’e-ra anche Helga Weissova,una delle pochissime so-pravvissute, che, a Terezin,aveva dipinto ciò che avevavisto e che, quando fu ob-bligata a lasciare il campoper Auschwitz, consegnò idisegni allo zio, che li na-scose e riuscì a salvarli.

“Disegna ciò che vedi” leaveva detto il padre, finitoad Auschwitz, e lei, dotatadi un grande talento, avevaseguito il suggerimento. Ciòche Helga vede non sono sol-tanto le cose sotto i suoi oc-chi, ma anche quello che vor-rebbe, che sogna. Di fuggi-re, innanzitutto, da Terezinper tornare nella sua casa di

Praga. Uno dei disegni, in-fatti, rappresenta la giova-nissima Helga, vestita spor-tivamente, con tanto di zai-no e coperta arrotolata inspalla, borsetta e mani in ta-sca, che si lascia alle spalleil cartello stradale con indi-cato Terezin mentre, con ariasoddisfatta, imbocca la viaper Praga. Questo il sogno.

La realtà, invece, è quelladell’arrivo a Terezin, con lafila delle persone, uominidonne bambini, con la stel-la gialla di David cucita suicappotti, il gendarme che lisorveglia con il fucile in spal-la. Oppure la distribuzionedello scarsissimo e poveris-simo cibo in un cortile gri-giastro, spoglio, squallido.

O ancora, il trasporto di ognicosa, compreso il pane, incarri funebri, mentre le ba-re erano trasportate su tavo-le con le ruote. E poi di nuo-vo il sogno per il suo quat-tordicesimo compleanno,raffigurato da un trittico, contre diverse date. La prima,1929, quella della sua na-scita con un bel lettino, fio-

“Disegna ciò che vedi”le aveva detto il padre

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ri, colori dolcissimi; la se-conda, 1943, quella dellapresenza nel lager, con leiseduta su un letto a castel-lo, meditabonda; la terza,1957, quella dell’agognatoritorno alla normalità, conlei ed una amica che spin-gono carrozzelle, macchinee tram che sfrecciano nellestrade. C’è anche il disegno,

che illustra l’arrivo dellaCommissione della Crocerossa internazionale, accet-tata dai nazisti per dare l’im-pressione che a Terezin gliebrei erano trattati bene.I disegni, generalmente apenna, inchiostro e acqua-relli, pur non essendo maitroppo cupi, colpiscono perla loro sconvolgente testi-

monianza di una realtà an-gosciante, dominata da unabarbarie senza limiti. Solorifugio i sogni: il dono piùprezioso, rappresentato dalcibo, e nel disegno si vedeuna specie di paese della cuc-cagna, con persone che tra-sportano cibarie e dolciumidi ogni tipo, e, ricorrente,martellante, il sogno del ri-

torno. Infine ci sono i dise-gni fatti subito dopo la libe-razione, fra il ‘45 e il ‘46,che riguardano la sua per-manenza ad Auschwitz, que-sti sì cupi, tragicamente do-loranti, senza speranza: ilsuicidio sul filo spinato, laselezione, la marcia dellamorte: gli orrendi ritmi del-la shoah.

L’ingresso del ghetto di Terezin, a sinistra e quello che immetteva al campo qui a destra.Sotto, i disegni di Helga.