Storia - Difesa.it · La glorificazione del seppuku spinse in seguito molti Sa-murai verso la...

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Un autentico Samurai con il costume tradizionale ancora in uso nel XIX secolo: ha l’elmeo d’acciaio che ricorda quello tedesco ma non è sormontato dal chiodo prussiano bensì da una mezzaluna; porta sul peo la caraeristica casacca proteiva e sulle spalle ha la faretra colma di ecce. I Samurai erano famosi per l’uso dell’arco e nel maneggio della sciabola: ne avevano due, una lunga, dea katana, e l’altra corta o sthoto che rappresentavano il loro simbolo sacro. Raffaele Girlando È il suicidio giapponese attuato aprendosi l’ad- dome: già Shakespeare fa dire a Bruto: “Esci spirito di Cesare e gira le nostre spade nelle nostre viscere stesse” ed un poeta inglese parla di una spada cacciata nel ventre di una regina. Nel pa- lazzo Rosso di Genova c’è un dipinto del Guer- cino rappresentante la morte di Catone che ha una spada mezzo sepol- ta nell’addome. Questo modo di darsi la morte non ha nulla di ripugnante ed era fonda- ta sull’idea, antichissi- ma, che l’addome fosse la sede dell’anima. Lo stesso Mosè scrisse di Giuseppe: “Le sue vi- scere si struggevano per il fratello suo” e Davide chiedeva a Dio di non dimenticare le sue vi- scere; Isaia e Geremia parlavano del “lamento” delle viscere. Così, un tempo, i giap- ponesi ritenevano che l’anima fosse rinchiusa nell’addome come in un reliquiario; essi prefe- rivano credere che non il cuore, nobile sede dell’amore, ma gli in- testini, benché fossero qualcosa di impuro e di sporco, dovessero es- sere colpiti nel suicidio. Secondo loro, quando l’onore è perduto, morire è un sollievo ed era preferibile la morte al disonore. Già nell’antichità Catone Uticense e Petronio Arbitro posero fine alla loro esistenza per riscattare l’onore e anche Socrate si sottrasse all’ordine dello Stato bevendo la cicuta, cioè facendola scendere nel suo ventre. Il seppuku, volgarmente detto hara-kiri , era HARA-KIRI Storia 46 n. 1 - 2009 Informazioni della Difesa

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Un autentico Samurai con il costume tradizionale ancora in uso nel XIX secolo: ha l’elmetto d’acciaio che ricorda quello tedesco ma non è sormontato dal chiodo prussiano bensì da una mezzaluna; porta sul petto la caratteristica casacca protettiva e sulle spalle ha la faretra colma di frecce. I Samurai erano famosi per l’uso dell’arco e nel maneggio della sciabola: ne avevano due, una lunga, detta katana, e l’altra corta o sthoto che rappresentavano il loro simbolo sacro.

Raffaele Girlando

È il suicidio giapponese attuato aprendosi l’ad-dome: già Shakespeare fa dire a Bruto: “Esci spirito di Cesare e gira le nostre spade nelle

nostre viscere stesse” ed un poeta inglese parla di una spada cacciata nel ventre di una regina. Nel pa-

lazzo Rosso di Genova c’è un dipinto del Guer-cino rappresentante la morte di Catone che ha una spada mezzo sepol-ta nell’addome.Questo modo di darsi la morte non ha nulla di ripugnante ed era fonda-ta sull’idea, antichissi-ma, che l’addome fosse la sede dell’anima. Lo stesso Mosè scrisse di Giuseppe: “Le sue vi-scere si struggevano per il fratello suo” e Davide chiedeva a Dio di non dimenticare le sue vi-scere; Isaia e Geremia parlavano del “lamento” delle viscere.Così, un tempo, i giap-ponesi ritenevano che l’anima fosse rinchiusa nell’addome come in un reliquiario; essi prefe-rivano credere che non il cuore, nobile sede dell’amore, ma gli in-testini, benché fossero qualcosa di impuro e di sporco, dovessero es-sere colpiti nel suicidio. Secondo loro, quando l’onore è perduto, morire

è un sollievo ed era preferibile la morte al disonore.Già nell’antichità Catone Uticense e Petronio Arbitro posero fine alla loro esistenza per riscattare l’onore e anche Socrate si sottrasse all’ordine dello Stato bevendo la cicuta, cioè facendola scendere nel suo ventre. Il seppuku, volgarmente detto hara-kiri, era

HARA-KIRI

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una vera e solenne cerimonia, un’istituzione legale con precise norme rituali.Cominciò ad essere praticata nel medio evo come mezzo di espiazione di quei nobili guerrieri conosciuti come Samurai che intendevano, con il sacrifico della propria vita, di espiare le loro colpe, farsi scusare gli errori compiuti e dare una prova di coraggiosa leal-tà. Questi Samurai, da “saburau - essere al servizio”, fino al secolo XI erano la guardia dell’Imperatore del Giappone poi furono il bushido, la via del guerriero; erano quindi dei vassalli militari.Il suicidio rituale veniva attuato con la propria scia-bola: poteva essere obbligatorio o volontario. Il pri-mo, nel secolo XVI, era privilegio della classe militare come concessione governativa ai Samurai condannati alla pena capitale; il secondo consisteva in un mezzo efficacissimo per dimostrare la propria buona fede, per protestare contro i torti subiti o per una manifesta-zione di cordoglio dopo la morte dell’Imperatore o del proprio signore ed era diffuso anche tra i militari per evitare l’onta di cadere prigionieri del nemico.Il seppuku, quando era imposto come una punizio-ne legale, veniva praticato come una cerimonia con un svolgimento preciso ed, essendo un suicidio raf-finato, occorreva compierlo con la più grande forza d’animo. Ecco la descrizione dell’hara-kiri fatta da un testimone oculare: “Noi rappresentanti stranieri fummo invitati a seguire i testimoni giapponesi nella sala principale del tempio; era una scena imponente, la sala era ampia ed era illuminata da una grande quantità di lampade.Di fronte all’altare maggiore era disteso un tappeto di feltro scarlatto ed alte candele spandevano una luce tremolante; i sette testimoni giapponesi presero po-sto alla sinistra del palco e i sette stranieri si posero alla destra. Dopo pochi minuti, entrò Taki Zenzaburò, dall’aria nobile, accompagnato da un Assistente e da tre Ufficiali vestiti con un soprabito dorato da guer-ra; questo Assistente, un gentiluomo amico del con-dannato, era stato scelto perché abilissimo nell’arte della spada.Taki s’inchinò davanti ai testimoni giapponesi e poi dinnanzi agli stranieri e il condannato salì sul palco, si prostrò due volte davanti all’altare maggiore e poi sedette volgendo le spalle all’altare mentre l’Assi-stente faceva altrettanto. Allora venne avanti uno dei tre Ufficiali recando un vassoio sul quale, avvolta in un foglio di carta, stava una piccola spada giappone-se dalla punta molto acuminata e con il filo tagliente come un rasoio; inchinandosi l’Ufficiale porse il vas-soio al condannato il quale prese la spada, la innalzò sul suo capo con tutte e due le mani e la depose davanti a sé.Dopo un profondo inchino, con una voce che tradiva appena l’emozione, il condannato affermò di essere l’unico colpevole del delitto per il quale era stato pu-

nito e dichiarò di volersi per questo motivo suicidare pregando i presenti di essere testimoni di tale suo ge-sto. Quindi, si tolse l’abito, facendolo scivolare fino alla cintura, e ne rimboccò le maniche sotto le ginoc-chia per evitare di cadere all’indietro dato che un gen-tiluomo giapponese deve morire cadendo in avanti.A questo punto, prese la piccola spada, detta shoto, e la guardò per un momento poi si immerse l’arma nell’addome sul lato sinistro e la tirò lentamente ver-so destra, poi la girò nella ferita e si fece un altro taglio verso l’alto. Durante questa operazione, certa-mente dolorosa, non mosse un muscolo, non emise un lamento ma trasse il pugnale dalla ferita e sporse il capo in avanti sempre senza un gemito.In quel momento, l’Assistente, che era rimasto ingi-nocchiato alla sua sinistra, balzò in piedi e alzò la sua spada facendola poi ricadere con forza, troncan-do così in un attimo, il capo del condannato. Seguì un silenzio di morte mentre il sangue sgorgava dal collo reciso; l’Assistente fece un profondo inchino, ripulì la sua spada con la carta che aveva preparato e si ritirò dal palco portando via l’arma insanguinata come prova dell’esecuzione avvenuta.I due rappresentanti dell’Imperatore lasciarono allo-ra il loro posto e invitarono noi a testimoniare che la sentenza su Taki Zenzaburò era stata fedelmente eseguita. La cerimonia era terminata”.Un altro esempio non guasta: due giovani fratelli, Sakon e Naiki, uno di ventiquattro e l’altro di dicias-sette anni, avevano tentato di uccidere Iyeyasu per vendicare alcuni torti fatti al loro padre ma, prima ancora che potessero avvicinarlo, erano stati presi e fatti prigionieri. Il generale Iyeyasu ammirò l’auda-cia dei giovani e ordinò che fosse loro concesso di morire di una morte onorevole; anche il loro fratelli-no Hachimaro venne condannato alla stessa sorte poiché la sentenza era stata pronunciata contro tutti i membri maschili della famiglia.I tre fratelli furono condotti ad un monastero dove l’esecuzione doveva compiersi ed un medico, che fu presente alla scena, ha lasciato questo diario: come furono seduti tutti e tre in attesa della fine, Sakon dis-se al più giovane: “Vai tu per primo perché io voglio essere certo che ti comporterai bene”. Ma il piccolo rispose che non aveva mai visto compiere il seppuku e che perciò desiderava vedere come lo compissero i suoi fratelli per poter fare altrettanto.Allora, il fratello maggiore esclamò: “Ben detto, pic-colo uomo” poi, fattolo mettere in mezzo a loro, si cacciò il pugnale nel lato sinistro del ventre dicen-do: “Guarda fratello e bada soltanto a non spingere troppo lo shoto perché potresti cadere all’indietro ma piegati subito in avanti. Naiki fece a sua volta altrettanto raccomandando al fratellino: “Se non vuoi sembrare una donna che muore, tieni gli occhi bene aperti e, se tal pugnale incontra qualche resistenza,

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Il Generale Nogi poche ore prima dell’Hara-kiri il 30 settembre 1912

raddoppia il tuo sforzo per riuscire a trapassarti”.Hachimaro guardò attentamente prima l’uno e poi l’altro fratello e, appena essi spirarono, con gran calma, si de-nudò a metà e si immerse il pugnale nell’addome.La glorificazione del seppuku spinse in seguito molti Sa-murai verso la morte; per essi la vita aveva poco valore ed era sempre preferibile la morte con onore alla viltà.Tutta la cerimonia aveva nome hara (ventre) e kiri (ta-glio) ed è stata praticata fino al XIX secolo ed anche nel XX secolo la cerimonia, purgata dei momenti più crudi, è stata portata nel cinema e nella televisione.Un celebre hara-kiri fu quello compiuto dal Gene-rale Nogi dopo i funerali dell’Imperatore Mutsuhito; tornato a casa il Nogi si aprì l’addome non potendo sopravvivere alla morte del proprio Signore. Nogi era noto in tutto il mondo, ma soprattutto in Giappone, come il Generale che si impadronì di Port Arthur du-rante la guerra russo-giapponese del 1904-1905.Durante il conflitto, i giapponesi rinnovarono gli at-tacchi subendo gravissime perdite e andando all’as-salto come “proiettili umani” che scavalcavano le col-line formate dai propri caduti con assoluto sprezzo

del pericolo. I giornali di tutto il mondo riportarono le illustrazioni mostranti gli Ufficiali della marina giap-ponese che facevano hara-kiri sulla tolda delle loro navi in procinto di affondare sotto i colpi della flotta russa momentaneamente vincente.Pochi giapponesi, come il Generale Nogi, furono ca-paci di creare il Giappone moderno riuscendo, puri come erano da ogni ambizione personale, a fondere le qualità spartane di quel popolo e ad aprirlo alle novità del mondo occidentale moderno. Nogi, poche ore prima di compiere l’hara-kiri il 30 settembre del 1912, dichiarò che si suicidava in segno di profonda ed illimitata devozione al suo Imperatore defunto e come espiazione per aver egli dovuto ordinare tanti cruenti assalti alla base nemica.Egli si sacrificò per essere di monito alle giovani ge-nerazioni del suo Paese e per dimostrare come ci si comporta al cospetto dell’eternità e sua moglie, che già aveva dato due figli alla Patria, volle seguirlo ri-petendo stoicamente lo stesso sacrificio. Due esem-pi indimenticabili per tutti gli uomini e tutte le donne giapponesi!Niku-dan vuol dire mitraglia umana o proiettile uma-no e niku-dan erano gli eroici soldati giapponesi che si scagliavano contro le difese di Port Arthur e, men-tre in occidente si usa il termine difensivo di “carne da cannone” in Giappone si parla di “proiettili umani” concetto spiccatamente offensivo. I giapponesi, ec-cellenti guerrieri nell’offensiva, ignorano il modo di ritirarsi e, una volta fissato un obiettivo, ripetono i loro assalti sempre più violenti ed ostinati.Nei manuali di tattica giapponesi, almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale, il tema della ritirata non è nemmeno preso in considerazione. I nipponici imi-tano in ciò il cinghiale che attacca sempre diretta-mente e a testa bassa spazzando ogni ostacolo fino ad abbatterlo.Nelle trincee russe di Taiposhan, conquistate dopo una lotta accanita e feroce di tre giorni e tre notti i giapponesi perdettero più di quattromila uomini ed, essendo digiuni da alcuni giorni, perché l’ardore e l’eccitazione avevano loro impedito di alimentarsi, furono costretti a cibarsi dei viveri abbandonati dai russi in mezzo alle immondizie accumulatesi nei loro rifugi. I soldati giapponesi erano convinti di dover sacrificare la loro vita e desideravano approfittare dell’occasione offerta dalla battaglia per raggiunge-re la morte nella maniera più nobile ed accettabile ed è evidente, allora, che, in caso di insuccesso, ai comandanti nipponici non restava altro da fare che sopprimersi con il rituale militare e cavalleresco dell’hara-kiri.All’eterno grido “banzai!” quei militari si votavano alla morte e se questa non veniva era allora meglio non vivere più e la soluzione finale non poteva es-sere che il seppuku. Il conquistatore di Port Arthur,

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il Generale Nogi, tornò dalla guerra chiuso in una serena tristezza, con il ricordo dei suoi due fi-gli morti in battaglia ed il peso, enorme, di 50.000 caduti tra le rocce della piazzaforte nemica per gli assalti suicidi ordinati da lui stesso.Davanti alla base nemi-ca, i cadaveri degli as-salitori formavamo pic-cole montagne e Nogi, tornato a casa sano e salvo ne ebbe rimorso, non volle onori e nean-che ricompense dal suo amato sovrano ma si ri-dusse in ascetica pover-tà ed ebbe pace soltanto quando si abbatté sulla sua spada di Samurai per raggiungere le falangi dei soldati morti eroicamente ai suoi ordini. In realtà, Port Arthur era considerata dai giapponesi una fortezza inespugnabile che sa-rebbe stata cagione di morti e rovina per quei ne-mici che l’avessero attaccata ma lo Stato Maggiore nipponico incominciò a studiare parecchi anni prima le modalità di attacco e scelse ben presto il capo al quale affidare la rivendicazione dell’onore nazionale dato che la piazzaforte era considerata terra giap-ponese usurpata dai russi.Il compito di portare a buon fine questa azione ven-ne affidato a Nogi che conosceva bene la zona in quanto aveva avuto il comando di una Brigata nel 1894 allorché la fortezza era stata strappata ai cine-si in una sola giornata. In una serie di spettacolosi assalti, i giapponesi avevano conquistato la fortezza principale e, memori di quei loro successi, nel 1904 tentarono di nuovo l’impresa ma i russi avevano frat-tanto migliorato notevolmente le opere difensive co-struendo un sistema campale molto efficiente.

Nella prima giornata di combattimenti, i nipponici per-sero 3.000 uomini tra i quali c’era il figlio maggiore di Nogi e, nella seconda giornata, tornarono all’attac-co incontrando solo una debole resistenza. Questa volta si affermò nelle menti degli Ufficiali giapponesi il concetto che le baionette dei loro uomini fossero irresistibili.Da quella vittoria nacque l’errore che diede origine al dramma di Port Arthur perché l’Esercito del Sol Levante si convinse che il successo era stato dovuto soltanto agli assalti delle proprie fanterie ed alla for-za dell’arma bianca. Dopo un fuoco di artiglieria pre-paratorio, Nogi ordinò un assalto alla baionetta e la fanteria mosse attraverso la vallata completamente allo scoperto; gli attacchi si susseguirono per quasi una settimana e reggimenti su reggimenti vennero distrutti sotto gli imprendibili forti russi.In un solo giorno un Battaglione vide i suoi effettivi ridursi da 1.200 uomini a soli 17 superstiti con un solo Ufficiale; in quella terribile settimana caddero circa 35.000 uomini andati all’assalto senza un atti-

Questi sono gli Ufficiali giapponesi che comandarono

l’assedio ed il successivo attacco suicida a Port Arthur. Tra

loro c’è il Generale Kiten Maresuke Nogi. Sono quasi

tutti appartenenti alla Marina imperiale nipponica e alcuni

Ufficiali dell’Esercito giapponese che sopportò terribili perdite in

vite umane per conquistare la piazzaforte russa.

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Statua dedicata al Gen. Nogi

mo di esitazione. Così cominciava a cadere su Nogi il primo immane peso; egli aveva fatto ciò che gli era stato ordinato ma Port Arthur era ancora in mano russa ed il Generale viveva in una capanna di fango e pietre che era a tiro dell’artiglieria nemica.Ogni mattino gli veniva presentata la lunga lista dei caduti, dei mutilati e dei feriti e ciò deprimeva profon-damente il Generale che si rendeva conto dell’inuti-lità tragica di quegli eventi ma nessuno lo udì mai parlare di quelle perdite tremende anche se egli co-nosceva personalmente quasi tutti gli Ufficiali ai suoi ordini ed era molto popolare tra i soldati.La nona Divisione di Fanteria che Nogi aveva co-mandato a lungo subì negli attacchi perdite spaven-tose ed egli leggeva tanti nomi noti in quegli elenchi che riceveva al mattino. Durante la triste settimana del primo assalto generale del mese di agosto, il Ge-nerale era sempre sulle prime linee ad assistere al disastro che accadeva secondo un piano che non era suo ma che lui aveva il dovere di porre in atto.Gli uomini che andavano all’assalto sotto i suoi occhi

accettavano il loro destino con il medesimo stoicismo del capo che li comandava; sembrava che tra Nogi ed i suoi soldati si fosse cre-ata una volontà di sacrificio così ardente da giungere al fanatismo. Il Generale vestiva una uniforme modesta e senza orpelli tranne le insegne del grado ma appariva sempre più abbattuto e preoccu-pato e la sua salute cominciava a preoccupare i suoi più intimi colla-boratori.Ciò nonostante, egli si era imposto una maschera impenetrabile dietro la quale celava un’angoscia che sarebbe culminata nell’hara-kiri; egli aveva ereditato dai suoi avi Samurai quasi una gioia nell’ac-cettare il dolore che le circostan-ze gli procuravano ad espiazione della sua vita. Intanto, gli attacchi alla fortezza russa languivano e le truppe nipponiche intrapresero lavori di scavo per poter giungere al coperto in prossimità delle posi-zioni nemiche; ebbe inizio anche una febbrile attività dei minato-ri giapponesi che fecero brillare quintali di esplosivo.

In tal modo, vennero allestite nuove piazzole per l’artiglieria pesante che iniziò lo smantellamento graduale della fortificazioni russe ed anche la flot-ta nemica si trovò ben presto sotto il tiro dei grossi calibri giapponesi. Giungeva nel frattempo una nuo-vissima Divisione nipponica modernamente armata composta di circa 20.000 uomini ansiosi di battersi mentre al Quartier Generale di Nogi veniva deciso un nuovo attacco di massa ma il Generale stesso non ne era molto convinto; egli fece presente che era indispensabile occupare una collina alta 203 metri dalla quale era possibile dominare la flotta russa e distruggere i pezzi dell’artiglieria pesante.Così stabilì Nogi, ma il suo cuore era colmo d’an-goscia perché sulla prima linea di quella Divisione era schierato anche l’ultimo suo figlio che si sareb-be scagliato tra poco in avanti nell’ultimo assalto. Il disperato combattimento per la presa del colle 203 era appena iniziato allorché il giovane Nogi venne ucciso sul bordo della trincea di partenza.La morte del figlio spezzò il cuore del Generale ma

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Port Arthur, alla fine di tanti sacrifici che costarono la vita di migliaia di giovani giapponesi, cadde e si concluse con l’affondamento della flotta russa e con la cattura dei suoi comandanti. La guarnigione si ar-rese e tonnellate di materiali costituirono il bottino fatto dai soldati del Sol Levante; la preda bellica era costituita da viveri e munizioni in abbondanza.Tutto il mondo rese omaggio al Generale vincitore e l’avvenimento ebbe risonanza universale, così che egli divenne, di colpo, l’eroe nazionale; migliaia di telegrammi giunsero al Quartier Generale rappre-sentato dall’umile casa di fango. Quando Port Arthur venne presa tutti i componenti dello Stato Maggio-re esultarono ma Nogi pianse perché la vittoria era costata troppo cara; migliaia di soldati erano morti, il Generale li aveva mandati al macello ed ora ne aveva rimorso.Dopo la conquista della Piazzaforte, i giapponesi si diressero a nord dove erano schierate quattro Arma-te e la battaglia di Mukden ebbe inizio con l’arrivo di Nogi; in effetti, si trattò di molti combattimenti e scaramucce proseguendo sino alla metà di marzo e sorse allora il terrore tra i russi già scossi per l’in-credibile perdita di Port Arthur. La caduta del colle 203, dove i giapponesi sacrificarono 15.000 uomini, veniva narrata dai russi con ammirazione perché la fanteria nipponica, esaurite le munizioni, aveva ri-fiutato di retrocedere ed aveva continuato l’assalto servendosi di pietre.La fama di Nogi crebbe ancora dopo la battaglia di Mukden e, quando le sue truppe aggirarono le po-sizioni nemiche, la giornata si era conclusa con la sconfitta dei russi; ebbe quindi inizio la loro ritira-ta, quasi una fuga. Tuttavia, i giapponesi non furono in grado di compiere lo sforzo supremo dato che si erano dissanguati nella conquista di Port Arthur; ciò indusse il Generale, sempre più scosso per le gravi perdite che erano costate la vita anche ai suoi due figli, ad ordinare lavori di trinceramento.Si profilava, infatti, la volontà russa di fortificarsi su nuove e più salde posizioni e bisognava affrontare il problema di un’altra battaglia che si prospettava non meno difficile di quella di Mukden; i giappone-si si accamparono nella vecchia città di Fakumen e qui, dentro un piccolo recinto di pietra, viveva Nogi sempre più preoccupato ed invecchiato a causa dei tragici avvenimenti di Port Arthur.Nel maggio di quell’anno, Nogi stava per essere cat-turato dai russi perché due reggimenti di cavalleria nemici avevano aggirato l’estremità dell’ala sinistra giapponese mentre, nello stesso tempo, 2.000 avver-sari comparivano a pochi chilometri da Fakumen.Ma, improvvisamente, giunse al galoppo l’artiglieria a cavallo giapponese e, dopo pochi minuti, ecco ar-rivare un’altra batteria; i due reparti erano accorsi su ordine di Nogi ed il pericolo era stato scongiurato. Lo

Stato Maggiore volle onorare il successo di quella giornata e tutti gli Ufficiali si riunirono in una gran-de sala per brindare al Generale e all’Imperatore ma Nogi è triste e, nelle sue parole, c’è molta mestizia per il costante ricordo dei suoi figli caduti a Port Ar-thur.Questo dolore si unisce al rimorso di aver mandato a morte, quel giorno, 10.0000 uomini; però, egli era un discendente di Samurai per i quali era la cosa più naturale del mondo il fatto di sacrificare la vita nel nome di un ideale cavalleresco. I soldati l’avevano fatto senza esitare ma lui era ancora vivo; si giunse così al 30 giugno 1904, poi rinviato al 1 agosto, per celebrare l’anniversario della conquista della prima linea di colline davanti a Port Arthur.Al cospetto di Nogi, si svolse prima una competizio-ne di lotta giapponese seguita da una gara di danza tra militari; fece seguito un pranzo nel quale com-parvero leccornìe di ogni tipo compresi alcuni dolci lasciati dai russi. Questa parentesi terminò presto, si determinò subito dopo un clima di guerra imminen-te e si sparse la voce che 15.000 uomini stessero preparando un movimento avvolgente; giunse però, fulminea, la notizia che era stata fatta la pace: si era nel mese di settembre del 1905.Fu un annuncio che piombò sull’Esercito del Sol Le-vante come un macigno, tutti i suoi componenti, da Nogi all’ultimo dei fantaccini, lo sentirono come un colpo crudele; tutti, infatti, ardevano dal desiderio di cancellare la supremazia russa nell’Estremo Oriente anche se ciò fosse costato migliaia di morti. Anche il Generale appariva amaramente deluso, volle tut-tavia dare un pranzo d’addio ai rappresentanti della stampa straniera, pranzo al quale non fu presente ma comparve improvvisamente verso la fine con il viso triste e alzò il bicchiere di champagne imitato da tutti i presenti.Nogi gridò: “banzai!” e tutti gli Ufficiali risposero: “banzai!” ripetendo il grido tre volte, quindi il Gene-rale uscì.Finita la guerra Nogi tornò in patria e ricevette i massimi onori dall’Imperatore stesso; il giorno 12 settembre 1912 l’Imperatore del Giappone moriva e Nogi assisteva impassibile alla cerimonia della so-lenne circostanza. Nel momento in cui il primo colpo di cannone salutava il seppellimento del suo Signo-re, il Generale, ultimo di una lunga discendenza di Samurai, con piena e tranquilla coscienza, dopo al-cuni giorni decise e piantò lo shoto nell’addome, lo passò dal lato sinistro al destro e poi fece un taglio verso l’alto; quindi, piegò il capo in avanti.In quell’istante, un Assistente gli tagliò la testa con un fendente fulmineo e così Nogi seguì il suo Impe-ratore ed uscì dalla vita ma entrò nella Storia. Era il 30 settembre 1912 e terminava l’esistenza di Kiten Maresuke conte di Nogi. n