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A. Luca de Martini STORIA DELLA LINGUA SARDA CAMPIDANESE DAL SECOLO XVII AL XXI con testi inediti in appendice SOMMARIO: Introduzione pag. 3 1. Antonio María da Esterzili 8 2. Salvador Vidal e Juan Francisco Carmona: le prime attestazioni del campidanese 36 3. Sa dotrina Christiana a sa lingua sardisca 38 4. Juan María Contu 40 5. La Vida de Santu Potitu 46 6. I Goccius de Santa Barbara 48 7. Il catechismo del Corongiu 49 8. Antonio Purqueddu 51 9. Giuseppe Cossu 53 10. Efisio Pintor Sirigu 56 11. Le Constituzionis po sa Cunfraria de Sant’Efis 57 12. La parafrasi del Salmo cinquantesimo 59 13. Il Vangelo di Matteo tradotto da Federigo Abis 60 14. Sa scomuniga de predi Antiogu 62 15. Gli scrittori del Novecento 63 16. La suddivisione del campidanese in varietà diatopiche 66 17. Opere lessicografiche e grammaticali 72 18. Il campidanese nel ventunesimo secolo 75 19. Ipotesi di unificazione linguistica. Nazionalismo ed etnofilassi 81 Tabella comparativa 101 Bibliografia 102 Appendice I: Giuda nel Libro de comedias di Antonio María da Esterzili 107 Appendice II: Il contrasto in campidanese di J.F. Carmona 119 1

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A. Luca de Martini

STORIA DELLA LINGUA SARDA CAMPIDANESE

DAL SECOLO XVII AL XXI

con testi inediti in appendice

SOMMARIO:

Introduzione pag. 3

1. Antonio María da Esterzili 8

2. Salvador Vidal e Juan Francisco Carmona: le prime attestazioni del campidanese 36

3. Sa dotrina Christiana a sa lingua sardisca 38

4. Juan María Contu 40

5. La Vida de Santu Potitu 46

6. I Goccius de Santa Barbara 48

7. Il catechismo del Corongiu 49

8. Antonio Purqueddu 51

9. Giuseppe Cossu 53

10. Efisio Pintor Sirigu 56

11. Le Constituzionis po sa Cunfraria de Sant’Efis 57

12. La parafrasi del Salmo cinquantesimo 59

13. Il Vangelo di Matteo tradotto da Federigo Abis 60

14. Sa scomuniga de predi Antiogu 62

15. Gli scrittori del Novecento 63

16. La suddivisione del campidanese in varietà diatopiche 66

17. Opere lessicografiche e grammaticali 72

18. Il campidanese nel ventunesimo secolo 75

19. Ipotesi di unificazione linguistica. Nazionalismo ed etnofilassi 81

Tabella comparativa 101

Bibliografia 102

Appendice I: Giuda nel Libro de comedias di Antonio María da Esterzili 107

Appendice II: Il contrasto in campidanese di J.F. Carmona 119

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Appendice III: Due poesie dal Novenariu di J.M. Contu 135

Appendice IV: La Vida de Santu Potitu 146

Appendice V: I Goccius de Santa Barbara 157

Appendice VI: Un inno al Cuore di Gesú 167

Appendice VII: Una disposizione del Segretario Cossu 175

Appendice VIII: Una parafrasi ottocentesca del Salmo cinquantesimo 182

Appendice IX: Fastiju e S’Arruga dereta 198

Appendice X: Il perfetto nella storia della lingua sarda campidanese 211

Appendice XI L’uso dei modi indefiniti in sardo campidanese 215

Appendice XII Dedicata a Romagnino e Beccaria 223

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INTRODUZIONE

Il sardo medievale è il primo idioma neolatino onde siano stati redatti documenti ufficiali di uno

stato: fra il 1070 ed il 1080 d.C. il Giudice Torchitorio di Cagliari promulgò una Carta in volgare,

per mezzo di cui si donavano all’arcivescovado di Cagliari alcune terre con numerosi privilegi,

compresi quelli sulla servitú; è il primo di una lunga serie di documenti, oggi conservati

nell’Archivio Arcivescovile del capoluogo isolano, di alcuni dei quali, compreso il succitato,

esistono copie risalenti ai secoli successivi. Talune carte del Giudicato di Cagliari possiedono anche

l’originalità d’essere scritte in caratteri greci: la piú famosa di esse conservasi a Marsiglia.

Il sardo medievale è conosciuto attraverso tre tipi fondamentali di testi, tutti di carattere giuridico-

amministrativo: le Carte, in prevalenza atti di concessione ad ordini religiosi da parte dei sovrani

sardi; gli Statuti, opere legislative dei giudicati o dei singoli comuni, qual è la famosa Carta de

Logu del Giudicato d’Arborea; i Condaghi (dal greco medievale κοντάκιον, ‘bastone’ su cui

s’avvolgevano le pergamene e che prese poi la significazione di ‘tomo’), ovverosia registri di enti

monastici.

La lingua di tali testi è paratattica, cancelleresca e imperniata su formule fisse, e si contraddistingue

per una grafia etimologica che non consente di leggerle facilmente né, tantomeno, di ricostruirne il

sistema fonologico.

Il volgare di questo genere di documenti, che furono redatti sino al XVI secolo, risulta suddiiviso

latitudinalmente in tre varietà: quella settentrionale, usata nei Giudicati di Torres e Gallura; quella

meridionale, adoperata nel Giudicato di Cagliari; quella mediana, detta ‘arborense’ dal nome del

Giudicato d’Arborea, impiegata nella zona che, soprattutto a occidente, faceva da trapasso fra le due

suddette varietà. La prima è l’antenata della favella chiamata oggi ‘logudorese’, quella meridionale

lascia intravedere le tendenze che saranno proprie del ‘campidanese’1, mentre la mediana prefigura

una zona mista che presenta ancor oggi caratteri compositi logudoresi e campidanesi.

Nella parte settentrionale dell’isola si svilupparono poi due parlate che non rientrano nel sistema

linguistico del sardo neolatino, del quale esse non condividono i caratteri tipici, sí da dover essere

inserite in un altro gruppo romanzo: si tratta del gallurese e del sassarese2. In Sardegna si hanno

inoltre alcuni centri in cui sono parlati alcuni idiomi allogeni: Carloforte e Calasetta, isole

linguistiche liguri; Carbonia e Arborea, fondate nel XX secolo e popolate in alta percentuale da

Italiani (in esse però il campidanese è penetrato); Alghero, città in cui accanto al logudorese è

1

Le due varietà, sino al Novecento, erano di solito definite rispettivamente ‘volgare del Capo di Sopra’ e‘volgare del Capo di Sotto’.2 Poiché esso non è presente nella sola città di Sassari, d’ora in avanti lo chiamerò ‘turritano’.

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ancora vivo il catalano, testimonianza dell’antica cacciata degli indigeni da parte dei conquistatori

iberici.

La prima opera letteraria in sardo che si conosca, Sa vitta et sa morte et passione de sanctu Gavinu,

Prothu e Januariu del sacerdote e poi arcivescovo di Sassari Antonio Cano (1400-1470 circa), è in

logudorese, e mostra peculiarità alquanto lontane da quelle dei documenti giuridici contemporanei.

È rilevante il fatto che tutti gli scrittori i quali hanno adoperato il logudorese, da Cano nel XV

secolo fino ad Antioco Casula detto Montanaru (1878-1957) nel XX secolo inoltrato, si sono

avvalsi di una lingua indiscutibilmente unitaria: essa deriva dal dialetto3 logudorese

nordoccidentale, che ha Bosa e Bonorva come centri principali e possiede un’appendice nell’area

del Monte Acuto e del Limbara (Pattada, Monti ed anche Luras e Olbia città), e sul piano fonetico è

identificabile, in estrema sintesi, dalla locuzione mi piaghet ‘mi piace’, pronunziata /mi΄βjaɣɛðɛ/,

con lenizione di tutte e tre le consonanti occlusive sorde intervocaliche e palatalizzazione del

gruppo latino PL- (in maniera parallela a CL- e FL-)4. Tale idioma, assurto a lingua letteraria, fu

codificato dal canonico Giovanni Spano (1803-1878) nella sua Ortografia sarda nazionale, ossia

grammatica della lingua logudorese (1840).

La prima opera letteraria in campidanese invece è il Libro de comedias (1688) di frate Antonio

María da Esterzili (1644 o 1645-1727), nel quale si riscontra una lingua considerevolmente diversa

da quella dei testi medievali d’area meridionale. Ancor piú evidente è la distanza dal logudorese

coevo, logudorese che lo stesso frate Antonio usa nella sua opera, in particolare nella prima sacra

rappresentazione, quando entrano in scena i pastori, che giungono ad adorare il Bambin Gesú e

s’esprimono cosí, proprio per rimarcare la distanza dalla lingua degli spettatori5.

Noi esamineremo innanzitutto il Libro de comedias sotto i suoi varî aspetti grammaticali,

perciocché esso è la prima testimonianza letteraria di un sistema linguistico come il campidanese

moderno, autonomo dal sardo antico e dal logudorese, il quale ultimo era ed è rimasto piú vicino

alla lingua della Sardegna medievale; seguiremo quindi l’evoluzione del campidanese attraverso i

tre secoli successivi, dapprima con l’analisi delle opere letterarie antiche, poi, dalla nascita della

linguistica sarda per merito di Max Leopold Wagner, anche col sussidio di lavori glottologici e3 Attribuiamo qui a dialetto, sempre in senso glottologico e mai sociolinguistico, il senso di ‘varietà diatopica’ e nediamo la definizione seguente: ‘parlata che rientra nell’ambito di una certa lingua, poiché ne condivide la strutturagrammaticale, ma se ne discosta in qualche punto, foss’anche un solo esito fonetico’; è dunque un tipo interno ad unalingua, una sua suddivisione, e il termine ben s’adopera ad indicare la parlata di un singolo villaggio, considerata inrelazione con quelli vicini. Poiché la parola dialetto ha assunto nel parlar comune un senso alquanto spregiativo, non men’avvarrò piú in questo libro se non per discuterne la significazione.4 Nel Legendariu de santas virgines et martires de Jesu Christu (Roma, 1627) di Gian Matteo Garipa la liquida èconservata (plus ecc.) : ciò può essere comunque un esempio di scrittura etimologica. 5 “La Barbagia e il Logudoro, regioni ... la cui caratteristica economica era ... la pastorizia, si identificano, persovrapposizione, con le campagne di Betlem; e i pastori non saranno più della Giudea, ma della Barbagia” (S.BULLEGAS, La Spagna. Il teatro. La Sardegna, CUEC, Cagliari, 1996, pag. 46).

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lessicografici. Si allega una tabella, nella quale sono schematicamente rappresentati alcuni dei

principali fatti grammaticali che caratterizzano i primi autori, da frate Antonio María a Pintor

Sirigu, e sono infine presentati in appendice, oltre a passi significativi di autori citati, in taluni casi

da me riveduti e ripubblicati, anche i testi inediti da me scoperti e presentati per la prima volta sulla

rivista NAE: si tratta della Vida de Santu Potitu, dei Goccius de Santa Barbara, dei Goccius de su

sacratissimu e dulcissimu coru de Gesú Redentori nostru, della Parafrasi de su Salmu

Cinquantesimu.

Il primo scopo di questo libro è espresso nel titolo, e consiste nel fare conoscere la storia del

campidanese mostrando le fasi principali della sua evoluzione dal secolo decimo settimo al

vigesimo primo; allo stesso tempo si cerca di stimolare lo studio delle opere letterarie prodotte in

quest’area della Sardegna, e infine si vogliono confutare alcune ipotesi di codificazione linguistica

basate su presupposti secondo me errati.

Abdullah Luca de Martini, 1432 E. - 2011 d.C.

Avvertenza sulla grafia

Le citazioni di ogni opera sono fatte secondo la grafia presente nel testo, e dove è stato possibile

ricostruire la natura di un fonema, si è adoperato l’Alfabeto Fonetico Internazionale (AFI). Come

modello di scrittura, noi abbiamo adottato il seguente, del quale si giustifica la scelta nel capitolo

18. L’alfabeto a caratteri latini che qui si è adottato per la scrittura del campidanese si compone di

ventiquattro grafemi: a, b, c, ç, d, e, f, g, h, i, j, l, m, n, o, p, r, s, t, u, v, x, y, z. Si hanno sei

digrammi: ch, dh, gh, sc, sç, tz.

Ecco i ventinove simboli (h da sé solo non esprime fonemi) ed i loro valori fonetici:

a = /a/

b a inizio di parola, dopo consonante diversa da r, e raddoppiato = /b/; intervocalico, tra vocale e r,

e dopo r = /β/

c davanti a a/o/u e consonante = /k/; davanti a e/i = /ʧ/

ch = /k/ (è usato solo davanti a e/i)

ç = /ʧ/ (è usato solo davanti a a/o/u)

d a inizio di parola, dopo consonante, e raddoppiato = /d/; intervocalico, e tra vocale e r = /ð/

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dh = /ɖ/

e: è = /ɛ/ (quando non è accentato, è scritto semplicemente e); é = /e/ (quando non è accentato, è

scritto semplicemente e)

f = /f/

g davanti a a/o/u (ma non intervocalico), davanti a consonante, e raddoppiato /g/; davanti a e/i

= /ʤ/; intervocalico (sempre davanti a a/o/u), e tra vocale e r = /ɣ/

gh non intervocalico = /g/; intervocalico /ɣ/ (è usato solo davanti a e/i)

i = /i/; tra consonante e vocale ha l’allofono /j/

j = /ʤ/ (è usato solo davanti a a/o/u)

l = /l/

m = /m/

n = /n/, con due allofoni: davanti a consonante diversa da n = /ŋ/; se è seguito da d = /ɳɖ/

o: ò = /ɔ/ (quando non è accentato, è scritto semplicemente o); ó = /o/ (quando non è accentato, è

scritto semplicemente o)

p = /p/

r = /r/

s iniziale e davanti a consonante (ma mai davanti a b/d/g/m/v), e raddoppiato = /s/; intervocalico, e

davanti a b/d/g/l/m/n/v = /z/

sc davanti a e/i = /ʃ/ (davanti a a/o/u o consonante = /sk/)

sç = /ʃ/ (è usato solo davanti a a/o/u)

t = /t/

tz = /ʦ/

u = /u/; tra consonante e vocale ha l’allofono /w/

v = /v/

x = /ʒ/

y = /j/

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z = /ʣ/

Il sistema fonologico si compone pertanto di trentadue fonemi.

Le vocali sono sette: a, è, é, i, ó, ò, u; un fonema è approssimante: y; gli altri sono consonanti.

Non è stato assegnato un posto nel sistema fonologico campidanese alla laterale palatale sonora /ʎ/

e alla nasale palatale sonora /ɲ/, in quanto allofoni dei gruppi /l:j/ (/lj/ a inizio di parola) e /n:j/ (/nj/

a inizio di parola): quando però si sono dovuti esprimere, tali fonemi sono stati resi rispettivamente

con lh (per esempio caramelha in luogo di caramèllia) e nh (è il caso di banha in luogo di bànnia).

La lettera h è priva di suono e, fuorché in alcune esclamazioni, è scritta solo unita alle lettere c/d/g,

con cui compone digrammi: non è un grafema essa sola. Le lettere l/n/r/s quando sono raddoppiate

indicano fonema intenso (in questo caso s è sempre sorda), in contrapposizione alla corrispondenti

lettere scempie, che indicano fonema debole: filu e fillu (/l/ e /l:/), manu e mannu (/n/ e /n:/), caru e

carru (/r/ e /r:/), casu e cassu (a contrapporre /z/ e /s/ intenso). Le lettere b/d/g sono scritte

raddoppiate soltanto per indicare che il relativo fonema è occlusivo, affinché si distinguano dalle

corrispondenti fricative, scritte scempie.

L'accento tonico si segna in tutte le parole tronche e sdrucciole, mentre nelle parole piane si segna

soltanto su quelle vocali e ed o che apparentemente contraddicono la norma della metafonesi

vigente sia in logudorese sia in campidanese. Precisamente:

sulle è ed ò toniche le quali, pur essendo seguite da i ed u in sillaba finale, presentano suono

aperto. Si scriverà quindi: totu/totus, inginneri/inginneris; tempus/tèmpus, procu/pròcus;

mèri/mèris, mònti/mòntis. In tutti i suddetti casi, in cui si hanno vocali aperte segnate con

accento, la sillaba finale presentava in origine e ed o, poi chiusesi rispettivamente in i ed u,

ma si mantenne il suono aperto nella penultima sillaba, che aveva sviluppato la vocale

aperta in virtú della metafonesi stessa;

sulle é ed ó le quali, pur essendo seguite da a, presentano suono chiuso. Si scriverà quindi

crésça ‘cresciuta’ (< créscida), arrésça ‘impigliata, attaccata’ (< arréscida) e cóya

‘matrimonio’ (< cóyuva, qui anche a causa della semiconsonante palatale).

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1. ANTONIO MARÍA DA ESTERZILI

Il primo scrittore in lingua campidanese a noi noto è frate Antonio María da Esterzili (1644/1645-

1727)6. Della sua vita non si sa molto, anche perché fu coinvolto in uno scandalo sessuale che gli

costò una sorta di damnatio memoriae: nemmeno il suo cognome ci è noto. Sappiamo che visse nel

convento di Sanluri: può darsi che la composizione del Libro de Comedias (1688) sia nata grazie al

desiderio del frate di riabilitarsi presso la Chiesa. Il manoscritto, conservato nella Biblioteca

Universitaria di Cagliari, risulta essere la trascrizione di opere composte in periodi diversi, come

dimostrano alcune differenze grafiche e linguistiche: la prima sacra rappresentazione risale al 1674,

sulla base dell’indicazione presente nel testo.

L’ampiezza del Libro de comedias permette una soddisfacente ricostruzione sincronica del

campidanese del Seicento.

Grafia e fonologia

Saranno considerati i varî grafemi e i fonemi7, e poi i tratti fonetici peculiari della lingua di frate

Antonio María; a partire dalle lettere scelte per esprimere i diversi suoni8, si delinea il primo

alfabeto campidanese moderno.

Esaminiamo prima le vocali. Le sette vocali del sistema fonetico campidanese sono rese con cinque

lettere: a è aperta (/a/, anteriore aperta non arrotondata), i è chiusa (/i/, anteriore chiusa non

arrotondata), u è chiusa (/u/, posteriore chiusa arrotondata); e ed o rappresentano entrambe due

fonemi diversi, /e/ (anteriore semichiusa non arrotondata) e /ɛ/ (anteriore semiaperta non

arrotondata) la prima, /o/ (posteriore semichiusa arrotondata) e /ɔ/ (posteriore semiaperta

arrotondata) la seconda. I fonemi e ed o aperti e chiusi non trovano quindi nessuna espressione nella

scrittura. Per ragioni etimologiche la lettera e, quando deriva dal latino ae od oe, può presentarsi

come ę (hębreu, pęna). I simboli ij e y sovente stanno al posto di i in fine di parola (dij, soly),

specialmente in fine di verso, mentre talvolta j designa /i/ secondo elemento di dittongo (cujdadu).

L’apostrofo che segue certe vocali è dovuto ad etimologia o a semplice preferenza grafica: a’ (<

ad), e’ (< et), o’ (< aut, e pure come esclamazione).

Consonanti:

6 L’odierno nome campidanese di questo paese, collocato fra la Barbagia di Seulo e l’Ogliastra, è Stertzili, quello localeStressili: la vocale prostetica E- spagnoleggiante non è presente.7 Sugli allofoni si possono proporre solo ipotesi molto difficilmente dimostrabili.8 Tutto questo, s’intende, in base allo sviluppo storico della lingua e alle conoscenze che oggi possediamo: èun’operazione di ricostruzione, e l’effettiva pronunzia della lingua di frate Antonio Maria ci è sconosciuta.

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- b indica occlusiva bilabiale sonora /b/ (beni), talvolta intensa9 (pubblicamenti), e fricativa

bilabiale sonora /β/ (suba)10;

- c davanti a a/o/u indica occlusiva velare sorda /k/ (castigari, confusioni, custu), mentre davanti a

e/i indica o affricata dentale sorda /ʦ/ (cia, preciosu, negociu), o affricata prepalatale sorda /ʧ/

(dulci, innocenti), o fors’anche fricativa dentale sorda /s/ (concillu, acuncentu: in questi gruppi

consonantici, però, la tendenza articolatoria produceva presumibilmente un suono già affricato);

- ç è semplice variante grafica di c davanti a e/i ma si usa anche davanti a a/o/u, e designa i

medesimi fonemi (ançilla; isperança; conçolu);

- ch indica affricata prepalatale sorda /ʧ/ (inchi ‘ci’, isfachadu);

- d indica occlusiva dentale sonora /d/ (dari), anche intensa (adolorada), e fricativa dentale

sonora /ð/ (nadu, idi ‘ti’);

- dd indica occlusiva cacuminale sonora /ɖ/ (ddu), anche intensa (cuddu)11;

- f indica fricativa labiodentale sorda /f/ (fairi, cunffessu), anche intensa (boffitus);

- g davanti a a/o/u indica occlusiva velare sonora /g/ (ingannari, gosari, ingui), mentre davanti a e/i

indica affricata prepalatale sonora /ʤ/ (regia, giganti, genti). In posizione intervocalica12 (solo

davanti a a, o, u) indica invece fricativa velare sonora /ɣ/ (pagu, ligadu);

- gu davanti a e/i indica occlusiva velare sonora /g/ (guerra, guia), ma in posizione intervocalica

indica fricativa velare sonora /ɣ/ (siguiri). Di rado si trova davanti ad a, e in questa posizione indica

il gruppo labiovelare sonoro /gw/ (guardada ‘sorvegliata’, guarnecida ‘fortificata’);

- gn indica nasale palatale sonora /ɲ/ (malignu, intragnas ‘viscere’);

- j indica affricata prepalatale sonora /ʤ/ (tenju, sujeta);

- l indica laterale dentale sonora /l/ (luna), anche intensa (fillu);

- ll indica laterale palatale sonora /ʎ/ (llamadu ‘chiamato’, istrellas ‘stelle’, vellacu);

9 Tutte le consonanti intervocaliche sono rafforzate nella pronunzia, cosicché si è sempre avuta oscillazione nellascrittura: fanno eccezione /l/, /n/, /r/, che oppongono un fonema debole ad uno forte (caru rispetto a carru, pala rispettoa palla ecc.). 10 Tale fonema fricativo è debole, tanto che taluni autori lo considerano approssimante: ciò vale parimenti per /ɣ/ e /ð/.11 Raramente la cacuminale è scritta con d- a inizio di parola: danti = ddu anti.12 Le liquide l e r in tale posizione si comportano come vocali: sagradu in fonetica è reso con /sa'ɣraδu/.

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- m indica nasale bilabiale sonora /m/ (mama), anche intensa (immaculadu);

- n indica nasale dentale sonora /n/ (negari), anche intensa (donnia, linna), e l’allofono nasale

velare sonoro davanti a consonante /ŋ/; talvolta nasale palatale sonora /ɲ/ (senora)13;

- ñ indica nasale palatale sonora /ɲ/ (señori);

- p indica occlusiva bilabiale sorda /p/ (podiri), anche intensa (appu);

- qu è usato generalmente davanti a e/i e indica occlusiva velare sorda (que ‘come’, qui ‘che’),

mentre davanti ad a designa il gruppo labiovelare sordo /kw/ (aqua, isquadroni);

- r indica vibrante dentale sonora /r/ (rica), anche intensa (currenti);

- s indica fricativa dentale sorda /s/ (serbidu), anche intensa (passesti), e fricativa dentale sonora /z/

in posizione intervocalica (nosu) o davanti a consonante sonora (isbandonadu ‘abbandonato’). La s

scempia intervocalica raramente è sorda14;

- sc costituisce digramma quando precede e/i,15 e indica fricativa prepalatale sorda /ʃ/, benché

talvolta non si possa escludere una fricativa dentale sorda /s/ intensa (resuscitadu, descendentis);

- sç è variante grafica di sc (disçipulus);

- t indica occlusiva dentale sorda /t/ (tui), anche intensa (fattu);

- tz indica affricata dentale sorda /ʦ/ intensa (potzat);

- v indica fricativa labiodentale sonora /v/ (vida, bivendu);

- x indica fricativa prepalatale sorda /ʃ/ (ixiri ‘sapere’, quexosu ‘lamentoso’), fricativa prepalatale

sonora /ʒ/ (boxis), affricata prepalatale sonora /ʤ/ (arxentu);

- y indica approssimante palatale sonora /j/ (ayastis ‘avevate’, apoyadiosi ‘appoggiatevi’), ma è

soprattutto usata ad indicare /i/ quando questa è secondo elemento di dittongo (ay, imoy);

- z indica affricata dentale sorda /ʦ/ (zugu ‘collo’, senza), affricata dentale sonora /ʣ/ (mazineri

‘fattucchiere’, iscandalizadus), e raramente fricativa dentale sonora /z/ (belleza, gozendu

‘godendo’).

13 Si può pensare però che in questo caso la tilde sopra n sia stata dimenticata.14 Si veda il caso di esisti (nota n.38). Con la scrittura della consonante scempia potrebbe esservi confusione laddove ilfonema intenso è distintivo, per esempio fra i verbi pasari ‘riposare’ e passari ‘passare’. 15 Infatti davanti a a/o/u si hanno i due distinti fonemi /s/ e /k/.

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I simboli usati (lettere e gruppi di lettere) per vocali e consonanti sono dunque 32, ai quali si

aggiunge h.

Si nota che alcuni fonemi sono espressi con piú di un simbolo:

/ʧ/ è reso con ch, ç, ci, ce;

/ʤ/ è reso con j, x, gi, ge;

/ʦ/ è reso con ç, ci, ce, z, tz.

/z/ è reso con s, z.

Oltre a tutto ciò, va ribadita l’importanza che la grafia etimologica ha nel Libro de comedias: si

trovano lettere o gruppi di lettere, che possono coincidere con quelli succitati ma sono scritti alla

maniera latina, e dunque si leggono diversamente dal modo in cui sono scritti:

h è muta (hora, homini); ct e pt si leggono t(t) (nocti, iscriptus); ti seguito da vocale talvolta si

legge z sorda (presentia); qu davanti a vocale talvolta si legge c velare (quali, quasi); mn si legge

nn (omnipotenti); mpt si legge nt (Redemptori); ch può leggersi c velare (Christu, charidadi); ph si

legge f (sphera); th si legge t (theologus); ps si legge ss (eclipsari); bs si legge s (obscura,

obstinadu); bd si legge d (subditu); dv si legge v (advertidu).

Uno degli aspetti piú caratteristici del manoscritto è la difficoltà, da parte dello scrivente, a

esprimere in forma scritta una lingua di cui non si possedevano opere letterarie: sia l’autore, sia

colui che ricopiò le commedie – se non lo fece lo stesso frate – paiono sentirsi davvero pionieri, ma

tale condizione non giustifica da sé sola le numerosissime incertezze grafiche rintracciabili in ogni

foglio del Libro de comedias. Quando lo scrivente si trova davanti a problemi di fonetica sintattica,

allora – ma non sempre – possono aversi grafie fonetiche che paiono oggi veramente stravaganti16:

a’ sora (= a s’ora), so hortu (= s’ortu), sa alirgat (= si alirgat), a’ sessi fillu (= as essi fillu) ‘sarai

figlio’, non cha pat (= no nchi apat) ‘non ci sia’, ma avisari (= mi avisari) ‘avvisarmi’. Talvolta

alcune parole, come le forme dei verbi ausiliari, sono incorporate da altri elementi della frase: idda

firmada (= idda at firmada) ‘l’ha firmata’; in altri casi il genere del sostantivo può essere arduo da

stabilire: cudda arburi vedadu (= cuddu arburi vedadu) ‘quell’albero vietato’.

I fatti specificamente fonetici piú importanti sono:

presenza frequente di i- prostetica davanti ai gruppi con s + consonante: l’autore usa forme

come ispantas, istari, isconsolada in libera alternanza con stas, speranza. La i- è

obbligatoria solo dopo l’articolo determinativo plurale: is iscribbas;

16 Tanto stravaganti che in questo articolo riportiamo i passi del Libro de comedias già corretti in quelle forme che loscrivente stesso mostra di conoscere, giacché talvolta se ne serve.

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prostesi vocalica di a- davanti a r- iniziale (la quale poi è rafforzata)17: arrestari ‘restare’,

arreposari, arregordu;

casi di epitesi: cun > cuni davanti a consonante (cuni sa solitudi);

chiusura della vocale o in u nei gruppi com/con + consonante: compatiri s’alterna con

cumpatiri, congregari con cungregari ecc.

svariati fenomeni di fonetica sintattica, riguardanti vocali e consonanti: spirantizzazione in

posizione intervocalica in su xelu (= su chelu), assimilazione di grado in cum bosu (= cun

bosu), caduta di occlusive intervocaliche in sa ucca (= sa bucca), sa enida (= sa benida) e

de sa ida (= de sa bida ‘della vedova’), passaggio e > i in presenza di iato in di andari (= de

andari), e, di rado, caduta della consonante d- della preposizione de in po amori e Deus18,

parziale assimilazione vocalica in erriri < arriri ‘ridere’;

sviluppo di consonante labiale iniziale (dall’avverbio di luogo bi < lat. ibi) davanti a verbi in

vocale19: betari (= *bi etari ‘gettare’), bandat (= *bi andat)20, bessiri (= * bi essiri) che

s’alterna con essiri di pronunzia piana, mentre mochiri ‘uccidere’ presenta m- per influsso di

mòrriri (la forma bociri è attestata in campidanese molto piú tardi, sicché non si può parlare

di passaggio b- > m-);

infisso nasale in voci quali grancia ‘grazia’ (che ha una sola occorrenza rispetto al regolare

gracia) e vimbrari ‘vibrare’ (unica forma usata);

affricata prepalatale sonora in getari ‘gettare’21, usato in alternanza con betari;

passaggio da labiovelare, che di regola è sempre conservata, a labiale in bardamenti

‘solamente’ ma non in guardari22; sanguini s’alterna con sanguni, in cui si ha

vocalizzazione della labiale;

passaggio da liquida a vibrante nei gruppi con cons. + l: fruminis < lat. flumen; l’abituale

mantenimento di fl- dev’essere visto come scrittrua etimologica;

passaggio di r mediana a n: mencedi ‘mercede’;

passaggio di ns a nz: tranziri con /ʦ/ accanto a transiri;

casi di metatesi: Perdu è adoperato come variante di Pedru (ciò consente una figura

etimologica: su petus miu, Perdu, qui fudi de perda), arbili è variante di abrili, borqueri

17 Si può presumere che il fenomeno sia molto piú esteso di quanto la grafia mostri: probabilmente r- iniziale èconservata per ragioni etimologiche.18 Il fenomeno si riscontra in uno dei passi dove il tono della conversazione è molto concitato.19 Evidentemente anche questo, in origine, è un fatto di fonetica sintattica. 20 Qui però b- iniziale può essere anche un’eredità del lat. vaděre.21 Questa è la forma di regolare derivazione dal lat. *iectare < iactare; la gutturale del campidanese moderno ghetai nonha ancora trovato una spiegazione plausibile.22 Dal tosc. altramente ‘altrimenti, in caso contrario’, incrociato con *bardari ‘guardare, custodire’ < tosc. guardare: ilverbo è presente nel manoscritto sotto la forma regolare guardari.

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‘scudo’ viene dal cat. broquer (da sillaba aperta a sillaba chiusa); cruxanta ‘corrano’ deriva

da curxanta (congiuntivo pres.) e abrexanta da *aberjanta, con passaggio da affricata a

fricativa, e da sillaba chiusa a sillaba aperta;

casi di dissimilazione vocalica: maladita è variante di maledicta, come aguetari ‘trovare’

rispetto a agatari, e besari ‘baciare’ rispetto a basari;

casi di assimilazione vocalica: ameleçari dallo sp. amenazar (vi è anche il passaggio della

consonante nasale a liquida);

casi di epentesi: inestabili ‘instabile’.

L’accento è segnato soltanto su alcune parole tronche, ma graficamente non si distingue

dall’apostrofo: nel caso dei pronomi enclitici uniti agli imperativi, per esempio, spesso per motivi

metrici l’accento cade certamente sulla vocale pronominale, ma resta il dubbio se tali parole fossero

sempre tronche.

Morfologia

Articolo

Articolo determinativo: al singolare si ha su per il genere maschile, sa per il femminile; al plurale la

forma comune è is. Queste voci sono usate anche come pronomi dimostrativi. Se l’articolo

determinativo è preceduto da preposizione, può fondersi con essa dando luogo alla cosiddetta

preposizione articolata: assu (a + su), ays (a + is).23 La presenza della preposizione può fare

ripristinare la forma originaria dell’articolo24: de issu lillu ‘del giglio’, que issa folla ‘come la

foglia’.

Articolo indeterminativo: maschile unu, femminile una. Quando è preceduto da alcune

preposizioni, sorge d- eufonica: cun dunu, in duna.

Né l’articolo determinativo né quello indeterminativo, sono mai apostrofati: su intentu, unu

unguentu.

Sostantivo

I sostantivi della cosiddetta prima declinazione25, che normalmente sono di genere maschile, hanno

la desinenza del singolare in -u, del plurale in -us. Esistono anche pochi nomi, come petus e tempus,

che al singolare hanno terminazione in -us: derivano da sostantivi neutri latini.23 Anche in altri casi, come po + su, in + sa e in + is, quando nel manoscritto la preposizione è vicinissima all’articolo,si può supporre che l’autore pensasse a una preposizione articolata. Sporadicamente si trova comunque anche possu,scritto indiscutibilmente come preposizione articolata.24 Le forme di partenza sono *issu, -a, -us (< -os), -as: gli articoli su e sa sono ottenuti per aferesi, is per apocope.25 Non è necessario insistere sul fatto che non vi è niente di scientifico nel definire un raggruppamento di nomi ‘primadeclinazione’ o ‘seconda’: lo si fa solo per comodità scolastica, secondo le suddivisioni grammaticali tradizionali.

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La seconda declinazione, prevalentemente costituita da sostantivi di genere femminile, ha uscita del

singolare in -a, del plurale in -as.

La terza declinazione è formata da sostantivi maschili e femminili con singolare in -i e plurale in -is.

I sostantivi che hanno s iniziale seguita da una o due consonanti prendono di norma i- prostetica al

plurale: is istellas, is iscribbas. Al singolare la i- prostetica invece non è sempre usata.

Un diminutivo-vezzeggiativo molto impiegato è quello in -eddu.

Aggettivo

Gli aggettivi di prima classe26 escono in -u, -us (maschile); -a, -as (femminile). Gli aggettivi di

seconda classe hanno singolare in -i e plurale in -is. L’aggettivo segue il sostantivo, ma per ragioni

poetiche può anche essere preposto. In quest’ ultima posizione si trovano aggettivi femminili con

forma maschile: sa grandu Galilea. Nel manoscritto si trovano numerosi superlativi assoluti in

-issimu, che sono da ritenere cultismi.

Numerali

Compaiono nel manoscritto i cardinali unu (femm. una), dus o duus (femm. duas), tres, quaturu

o quateru27, ses ‘sei’, noi ‘nove’, trinta, sessanta, sexentus (composto di chentu, con formazione

di plurale), milla e mili (sia tonico, sia proclitico). La locuzione totu a is dus significa ‘entrambi’.

Come apposizione, il numerale può essere preceduto dall’articolo determinativo: concedimi qui

andeus is duus impari ‘concedimi che andiamo insieme in due’.

I numerali ordinali, fra i quali troviamo primu, segundu, terzu e quartu,28 hanno la particolarità

che l’aggettivo femminile preposto al nome può mantenere la forma maschile o assumere la

desinenza sua propria: sa prima cosa ma sa primu desobediençia, sa segunda perçoni.

Pronomi personali

Soggetto Complem. tonico Complem. atono

I deu, eu mei, mimi mi

II tui tei, ti ti

III issu e issa issu e issa (i)ddu e (i)dda; (i)ddi (indir.)

IV nosu, nosaterus nosu nos(i)

V bosu, bosaterus, osu bosu bos(i), os(i), si (raro)

VI issus e issas issus e issas (i)ddus e (i)ddas; (i)ddis

26 Per il termine ‘classe’ vale lo stesso discorso che si fa per ‘declinazione’: si veda la nota precedente.27 La vocale mediana è epentetica.28 Codesti terzu e quartu sono cultismi: nella lingua viva si dice su de tres e su de cuàturu, e cosí via per tutti gli altrinumerali ordinali; c’è alternanza fra segundu e su de duus/sa de duas.

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Rifl. - sei si

Il clitico (i)ndi significa ‘ne’, e davanti a ddu/dda assume la forma etimologica (i)nde: o puru inde

ddu abaxeis ‘oppure lo calate da là’.

I pronomi ddi e ddis non sono mai usati con la funzione di complemento oggetto. Alla III e alla VI

persona c’è distinzione fra maschile e femminile. Il pronome complemento di I e II persona dopo la

preposizione cun piglia la forma megu e tegu: cun megu(s), cun tegus (-s è avverbiale). Ciò vale

anche per il pronome riflessivo: cun segu.

I pronomi atoni, che hanno funzione di complemento e possono tanto essere preposti quanto

posposti alle forme verbali, spesso assumono i- prostetica al singolare e riflessivo: imi, idi, isi; solo

in un caso, al plurale, si hanno inosi (IV) e isos (V), che forse è analogico e la cui prima s non è

etimologica29; è frequente ios (V), sovente scritto y os (per confusione con l’omografa

congiunzione) e in un caso hios. Tutte codeste forme sono modellate sul pronome personale di III

persona, che infatti tende a mantenere la vocale etimologica iniziale30, e la mantiene sempre dopo

congiuntivo esortativo: fatzantiddu ‘lo facciano’.

Nelle forme osu e osi di V persona b- iniziale è caduta per fonetica sintattica. Un uso pleonastico si

ha con l’accostamento delle due forme pronominali, tonica e atona: a ti ti at bogadu ‘te t’ha tolto’;

talvolta l’impiego del pronome è di per sé ridondante: itta ddu apu guadanjadu in negari su

provadu ‘che cosa ho guadagnato nel negare ciò che è provato?’.

Come pronome di rispetto, oltre a bosu, che frequentemente è sottinteso grazie al verbo di V

persona, è impiegata anche la III persona, espressa da ddi complemento: su qui ddi ollu declarari

‘ciò che le voglio dire’; se il pronome di rispetto di tale persona è soggetto, rimane sottinteso: at

airi intesu ‘(ella) avrà sentito’.

Possessivi

Dalla I alla VI persona abbiamo in ordine: miu, tuu (tu forma contratta), suu (su contratto), nostu,

bostu/ostu, insoru. Il femminile esce ovviamente in -a: si ha dunque tua, sua eccetera. È usato

anche allenu/alienu ‘altrui’.

29 La forma isos, a meno che non sia un errore di scrittura, potrebbe essere spiegata come fenomeno di duplicazione: unsi di V persona con i- prostetica e apocope (si > isi > is), accostato all’abituale os.30 Ricordiamo che iddu proviene infatti dal lat. ĭllu(m).

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Dimostrativi

Si ha custu ‘questo’, cussu ‘codesto’31, cuddu ‘quello’. Nei nessi preposizionali si recupera la

vocale etimologica iniziale32: ai gustu (< a i-custu), in gustu (per sincope: < *in igustu < in i-custu),

cuni cuddus (< cun i-cuddus); talvolta anche dopo congiunzione: ca igussu.

Relativi

È innanzitutto adoperato qui33, polivalente e indeclinabile; vi è poi il relativo-dimostrativo cantu:

esso muta per numero ma non per genere. È un cultismo su quali, frequentemente usato col

significato di ‘la qual cosa’.

Interrogativi

Nel manoscritto si trovano quini, usato solo come pronome; cali, impiegato da aggettivo; it(t)a e

it(t)e (meno frequente), e cantu, che possono essere sia pronomi sia aggettivi: cantu pena, cun itta

crudeli pena ‘con quale crudele pena’.

Indefiniti

Fungono da pronomi e aggettivi indefiniti le seguenti parole: ateru ‘altro’, donnia (che compare

anche, etimologicamente, come de omnia) ‘ogni’, unu ‘alcuno’, donniunu ‘ognuno’, calencunu

‘qualcuno’, meda, tanti e tantu, pagu, prus, totu, calisiollat ‘qualsivoglia’, algunu ‘alcuno,

qualche’, nexunu, nigunu, perunu e nemus, i quali quattro significano ‘nessuno’. Ha declinazione

completa, per genere e per numero, soltanto ateru e unu: pagu, donnia, prus, calisiollat sono

indeclinabili, nexunu e perunu variano per genere ma non per numero, mentre i restanti variano per

numero (a totus, totu sa memoria, tanti traiçioni, meda gosu, meda annus ma anche medas annus);

totu quale aggettivo di solito rimane invariato al plurale prima dell’articolo, ma può anche prendere

-s (totus is rexonis); tanti di rado può essere preceduto da articolo (sa tanti desventura). Sono usati

esclusivamente come pronomi, al singolare maschile, calincunu, donniunu e nemus. Sono usati in

correlazione unus e aterus ‘gli uni ... gli altri’. Si segnala anche un particolare uso di totu: esso può

posporsi al pronome interrogativo, divenendo rafforzativo con una sfumatura di sorpresa (itte totu

mi naras? ‘ma che cosa mi dici mai?’). Gli aggettivi nexunu e perunu sono posposti al nome: falta

nixuna ‘nessuna colpa’.

31 Cussu ha un uso piú largo dell’italiano ‘codesto’, il quale nella lingua parlata è divenuto raro: cussu svolge infattianche la funzione di generico pronome di riferimento, ovverosia serve come ripresa di ciò che è già stato detto nellafrase.32 I pronomi hanno origine dal lat. eccu(m) ĭstu(m) > (e)cústu (sincope di -i-), con successivo passaggio e > i. Inlogudorese, invece, la i- iniziale è conservata solo dopo preposizioni terminanti in consonante. 33 Ricordiamo che la pronunzia è /ki/.

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Avverbî

Secondo la classificazione tradizionale, si hanno avverbî:

di modo, come beni, aichi ‘cosí’, solus, de badas ‘invano’ ecc., oltre a quella formati in

-menti, alla maniera italiana e spagnola, con l’aggettivo in -i che può uscire in -a

(cortesamenti);

di luogo, come innoxi ‘qui’, ingui (trisillabo) ‘costí, lí’, iní ‘lí’, me ‘dentro’, foras, suba,

innanti(s), eccu, (i)ndi ‘ne’, (i)nchi ‘ci’, ddu ‘ci’. Hanno funzione relativa undi e aundi,

inui ‘dove’, inca e ainca ‘dove’;

di tempo: imoi e imò ‘adesso’, hoi34 ‘oggi’, insaras e insara ‘allora’, mai, sempiri, subitu,

(de) pustis ‘poi’, jai, primu ‘prima’;

di giudizio: e totu ‘proprio’, no e non, forsis, quissa ‘forse’;

di quantità: meda, pagu, tropu, nienti, prus, tanti e tantu;

d’interrogatizione, come candu, poitta, cantu, comenti, undi, ainui.

Ha valore di cortesia la locuzione in bona hora (intrinti puru in bona hora ‘entrino pure, prego’).

Preposizioni

Le preposizioni piú impiegate sono a (normalmente scritta a’) de, in, cun (anche cu’ o cum), po.

Fra le particolarità si segnalano: il passaggio de > di davanti a vocale in iato (di andari); il recupero

della vocale etimologica iniziale dei dimostrativi preceduti da preposizione (si veda il paragrafo

specifico); la formazione di preposizioni articolate in presenza d’articolo (si veda sopra). Variante

di po è por, voce castigliana usata soprattutto nella locuzione por vida mia. Altre preposizioni sono

per/peri, sinò ‘eccetto’, suba ‘sopra’, suta ‘sotto’, intre ‘tra’ (da interpretare come intra de >

intra’e), finza/finsa e fina ‘fino’, sena e senza/sensa (anche seguite da de), acanta, innantis de,

ananti de ‘davanti a’ (per gli ultimi esempî è piú corretto parlare di locuzioni preposizionali).

Congiunzioni

Fra le congiunzioni coordinative abbiamo e (scritta e’ e presente nelle varianti et, y)35, ancu, puru,

ne, ni, nimancu (copulative); o (disgiuntiva); ma, totu via ‘tuttavia’ (avversative); aduncas, però

‘perciò’ (conclusiva).

Congiunzioni e locuzioni congiuntive subordinative, che richiedono un modo verbale finito nella

proposizione dipendente, sono invece a e qui, che possono assumere diverse funzioni, in primo

luogo quella dichiarativa; ca (dichiarativa); jai qui, essendu qui, ca, pues e pues qui ‘poiché’, e

soprattutto po qui (causali); si, qui (ipotetiche); ancu qui, ancora qui, si benis ‘sebbene’34 Scritto pure hoy.35 La scrittura y, con passaggio e > i in iato, è dovuta ad influsso spagnolo.

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(concessive); candu, luegu qui, finsa qui, fina qui, apenas (temporali); que ‘come’, comenti,

segundu qui (modali e comparative); ultra qui (eccettuativa); sino ca (esclusiva); a tali qui, de

modu qui (consecutive). La congiunzione po seguita dall’infinito caratterizza le frasi finali;

comenti richiede la preposizione a nelle comparazioni semplici (comenti a’ magu).

Esclamazioni

È frequentemente usata o con valore vocativo; mancari ‘magari’ introduce una frase ottativa,

mentre bastu ‘basta’ è seguita da un sostantivo (bastu prantu) o da un infinito (bastu charlari).

Interiezioni autentiche sono ea, aiosa e l’italiano orsu ‘orsú’, hay/ay ‘ohi’, olà ‘ehilà’.

Verbo

Il sistema verbale del campidanese di frate Antonio María può essere ricostruito in maniera

soddisfacente. Diamo dapprima le desinenze regolari delle sei persone verbali, distinguendo una

prima coniugazione, con infinito presente in ari, da una seconda coniugazione in -iri. Bisogna

precisare che, sotto la seconda coniugazione indicata, rientrano due gruppi di verbi, divisi in base

all’accento dell’infinito: gli uni sono piani, gli altri sdruccioli; la scrittura però non evidenzia tale

opposizione, la quale, peraltro, nel corpo dell’intera coniugazione è limitata al solo infinito e al

participio passato (con uscita rispettivamente in´-idu e -ídu). Le vocali paragogiche, quando sono

diverse dall’ultima vocale della sillaba precedente, sono separate dall’ultima consonante della

desinenza mediante un trattino.

Indicativo presente

I con. II con.

-u -u

-as -is

-at -it

-aus -eus

-ais -eis

-ant -int

Indicativo imperfetto

-à (< -àa) -ia

-àst -ias

-aiat, -àt -iat

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... ...

... -estis

-aiant, -ànt -iant

La forma -aíat è un incrocio di -àt e -iat, ed anche la III persona plurale -aíant è incrocio (fra -ànt e

-iant). Anche le altre desinenze della coniugazione in -iri hanno l’accento sulla i. La forma -estis è

testimoniata dal solo tenestis.

Indicativo perfetto

-ei -isi

-esti -isisti, -isti

-et-i, -esit (raro) -isit

... -isistus

-estis -istis

-ent-i -isint

La desinenza -esit ha una sola attestazione: guadangesit (accanto al normale guadangedi).

Congiuntivo presente

-i -a

-is -as

-it -at

-eus -aus

-eis -ais

-int -ant

Il congiuntivo imperfetto regolare vede attestata una IV persona di II coniugazione in -ireus

(bolireus ‘volessimo’), ed è testimoniato a sufficienza solo per gli ausiliari àiri ed èssiri; c’è poi un

pensas (I p. di pensari, nella proposizione concessiva si benis mi pensas essiri atesu ‘sebbene io

(mi) pensassi che fosse lontano’), che pare forma derivata dall’italiano.

Il modo imperativo ha forma propria per le persone II e V: -a, -adi (I con.); -i, -edi (II con.). Le

altre persone, e cosí pure spesso le stesse II e V, sono espresse per mezzo del congiuntivo presente,

il quale è impiegato sempre per l’imperativo negativo.

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Gli altri tempi dei modi verbali finiti sono analitici: fra questi, indicativo passato prossimo,

indicativo trapassato prossimo, congiuntivo passato e trapassato richiedono la presenza di uno dei

due verbi ausiliari, seguito dal participio passato del verbo da coniugare (per esempio apu fatu ‘ho

fatto’); l’indicativo futuro semplice è costruito coll’indicativo presente di airi, la congiunzione a e

l’infinito del verbo (at a mostari ‘mostrerà’), mentre il futuro anteriore ha l’infinito di airi e il

participio passato del verbo (at airi intesu ‘avrà sentito’). La forma analitica conserva il valore

originario di necessità in un passo quale è il seguente: fuedda poyta rexoni apu a fari su qui bolis

‘di’ per quale ragione dovrei fare ciò che vuoi’.

Il condizionale è il modo verbale di piú varia complessa costruzione. Esistono diversi tipi di

formazione analitica che elenchiamo di seguito:

1. il perfetto di airi seguito dal participio: merexia veramenti qui si ait fatu ‘meritavo

veramente che si facesse’ (letteralmente ‘si sarebbe fatto’), quey cussu cumbertidu ... qui in

eternu no ddu ai bidu ‘come quel convertito, che in eterno non avrei visto’, beni podiada

issu si chircari unu babu de medas arriquesas qui ddu ait potzidu a cumplimentu regalari

lett. ‘avrebbe potuto trattarlo’ ossia ‘egli avrebbe potuto ben cercarsi un padre di molte

ricchezze, il quale potesse mantenerlo agiatamente’. In questo maniera si esprime il

condizionale passato, con verbi e transitivi e intransitivi. Le frasi del suddetto tipo sono o

ipotetiche o dichiarative che esprimono posteriorità temporale. In un caso si ha l’inserimento

dell’infinito fra il perfetto di airi e il participio: custa ddy per certu non hay estari bidu lett.

‘questo giorno per certo non avrei visto’. Quest’ultimo è un condizionale passato, in cui

l’infinito di stari sostituisce essiri (la qual cosa avviene di norma al perfetto e al participio).

2. l’imperfetto di airi seguito dalla congiunzione a e l’infinito: mi declaret ... qui ayasta a beni

cun gloria lett. ‘verresti’ ossia ‘mi dichiarò che saresti venuta con gloria’, o si no essiri

arruta in sa maldadi comenti aya andari advertida lett. ‘andrei’ ossia ‘oh, se non fossi

caduta nel peccato, come sarei stata attenta’ (qui a è assorbita dalla vocale successiva). In

questa maniera si esprime il condizionale presente, corrispondente a quel condizionale

passato italiano usato nel periodo ipotetico dell’irrealtà. L’uso di questo tipo è diffuso sia in

proposizioni condizionali, sia in proposizioni dichiarative esprimenti posteriorità: itte

isperança ... si podiat tenniri ... sino ca aya a negari su fillu de deu ‘quale speranza si

poteva avere, se non che avrei negato il figlio di Dio’; mi ayastis nadu ... qui os aya a’

negari ‘mi avevate detto che v’avrei rinnegato’. In quest’ultimo caso l’uso del condizionale

presente e non passato separa il sardo, alla pari delle altre lingue romanze, dall’italiano

letterario, che richiede invece il condizionale passato. Questo secondo è il costrutto rimasto

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vivo nella lingua moderna (èmu a nai), nella quale il condizionale passato è cosí composto:

imperfetto di ài + èssi + participio del verbo (em’èssi nau).

3. il perfetto di airi con a e l’infinito: iddi naredi ... qui dd’ait a biri in cumpangia ‘gli disse

che l’avrebbe visto in compagnia’. Questo tipo compare solo una volta, ed è da intendere

come variante del tipo 1).

4. il perfetto di airi seguito dalla particella modale mo e l’infinito (condizionale presente), o da

mo con l’infinito di airi e il participio del verbo coniugato (condizionale passato): s’enti mo

apoderari ‘si impadronirebbero’, mai edi mo bastari ‘mai finirebbe’ (presente); issu idd’edi

m’airi reedificadu ‘egli l’avrebbe ricostruito’, non dd’enti m’airi consignadu ‘non

l’avrebbero consegnato’. In quissa no essi mestiri tentada ‘forse non saresti stata tentata’ si

ha metatesi sillabica: la costruzione è infatti mo esti (perf. di àiri) essiri tentada. Le frasi

possono essere sia ipotetiche (e della possibilità e dell’irrealtà), sia dichiarative, proprio

come i tipi 1 e 2. Questo tipo non è testimoniato in altri autori campidanesi a parte Antonio

María. La particella modale mo deriva da como ‘adesso’ < lat. quomŏdo, che dà l’esito

imò/imoi come avverbio di tempo; nella forma non aferetica essa fu usata dal logudorese

Gerolamo Araolla nel Cinquecento36. Il passaggio dal valore temporale al valore modale è

riscontrabile in e però a parri miu non depu mo’ molestari, che si può intendere

letteralmente ed etimologicamente come ‘e perciò a parer mio non devo ora molestarlo’,

quindi come ‘non dovrei molestarlo’, ovverosia ‘è meglio non molestarlo’ (parla uno dei

giudici del Sinedrio in riferimento a Gesú accusato). In questo passo però sorprende il fatto

che, mentre s’aspetterebbe un soggetto di IV persona, si abbia il verbo alla I persona, tanto

che un errore di copiatura non può essere escluso. Per maggiore chiarezza, vista anche la

singolarità di tale costrutto in campidanese, diamo la coniugazione del condizionale presente

e passato del verbo ‘fare’, indicando con un asterisco le forme ricostruite: presente *ei mo

fàiri, esti mo fàiri, et mo fàiri, *emus mo fàiri, *estis mo fàiri, ent mo fàiri; passato *ei

m’àiri fatu, esti m’àiri fatu, et m’àiri fatu, *emus m’àiri fatu, *estis m’àiri fatu, ent m’àiri

fatu.

Le forme indefinite sono le seguenti:

Infinito: -ari (-ai è la rara forma apocopata37); -iri (-i forma apocopata).

36 Si veda ad esempio t’isti como ispantare ‘ti spaventeresti’ (Rimas spirituales 52, lin. 67, esempio tratto da OfficinaLinguistica, a cura di Giulio Paulis, anno I, num. 1, Settembre 1997, pag. 147). L’avverbio imò è dotato di i- (< in-)avverbiale e, nella forma imòi, anche di i- paragogica.37 Vi fu prima apocope (-ari > -à) analoga a quella della coniugazione in -iri, poi si generò vocale epitetica (-à > -ai):non si tratta di dileguo di -r-. L’uscita in -ai è presente in passi che riproducono la lingua parlata popolare, dunque èprobabile che fosse ritenuta un volgarismo.

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Gerundio: -endu(-ru) e raramente -ende(-ru) per entrambe le coniugazioni sono le forme comuni38,

ma per la I con. sono frequentemente attestate anche -andu(-ru) e -ande(-ru).

Participio: il presente non c’è, il passato esce di norma in -adu (I con.) e -idu (II) ed è regolarmente

declinato come gli aggettivi (-adu, -ada, -adus, -adas ecc.). Vi sono poi verbi con il participio

cosiddetto forte, il quale deriva, talvolta per analogia, da forme latine: esso è caratterizzato di solito

dal suffisso -tu.

Verbi ausiliari

La coniugazione dei due verbi ausiliari39, ‘avere’ ed ‘essere’, è la seguente.

airi essiri

Indicativo presente

apu seu

as-i ses-i

at-i est-i, es

eus seus

eis seis

ant-i funt-i, sunt-i, sunt-u, fun

In un caso si ha sesis, con prolungamento in -s per evitare iato.

Indicativo imperfetto

aia fui

aiast, iast fusti

aiat, iat fuit, fut-i

... ...

ayastis ...

aiant ...

Indicativo perfetto

... ai

... esti

38 Questo -ru è un prolungamento sorto per analogia con la desinenza -ri dell’infinito.39 Entrambi i verbi sono usati anche autonomamente: essiri nelle frasi nominali, airi come transitivo in alternanza contenniri.

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... ait, et-i è supplito

... ... dal verbo stari

apistis ...

apisint ent-i

Il verbo ‘avere’ è ripartito in due colonne: la prima riguarda le forme transitive (le quali indicano il

possesso, e per significato equivalgono al verbo tenniri), la seconda le forme ausiliarie. Il perfetto è

appunto l’unico tempo in cui esistono forme morfologicamente distinte a seconda della funzione;

quelle comincianti con e- sono adoperate per il solo tipo 4) di condizionale, già esaminato nelle

righe precedenti. Per ‘essere’ c’è almeno un caso in cui fut-i si può interpretare come perfetto e non

imperfetto: fudi decretadu ... qui essit mortu in sa Ruxi ‘era (> fu) decretato che fosse morto (=

morisse) in croce’.

Congiuntivo presente

apa ...

appas sias

apat siat

... ...

apais siais

... ...

Congiuntivo imperfetto

airi essiri

airis essisti40

ait essit

aireus ...

aireis ...

airint, arint ...

La III persona di airi, che coincide con la corrispondente dell’ind. perfetto, è dovuta a sincope.

Gli altri tempi dell’indicativo e del congiuntivo hanno formazione analitica, analoga a quella dei

verbi regolari; il futuro di essiri rifiuta la preposizione a: at essi ‘sarà’.

40 Nel manoscritto si legge esisti, con -s- scempia alla maniera spagnola.

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Il condizionale di essiri, accanto al normale costrutto analitico, presente l’eccezionale forma sereus

‘saremmo’ di IV persona, che è probabilmente formata sulla base dello spagnolo seríamos (sereus

causa de meda discuncertu).

L’imperativo dei due verbi ausiliari non è usato.

Le forme infinite sono:

Infinito: airi (ai è la forma apocopata) e essiri (essi);

Gerundio: aendu (haendu con grafia etimologica) e essendu(-ru) (sendu è la forma aferetica);

Participio passato: per il verbo ‘avere’ è supplito da tentu (da tenniri), per il verbo ‘essere’ è

supplito da (i)stadu (participio di stari).

Verbi irregolari

Esistono diversi verbi che presentano forme irregolari o particolari, generalmente per ragioni

etimologiche o analogiche. Vediamo i principali, indicando alcune delle persone attestate, che,

all’interno della coniugazione, mostrano i tratti piú interessanti.

Verbo stari (istari)41. Ind. pres.: stau e istu, stas-i, istat-i, istaus, ..., istant-i. Imperf.: III p. istaiat.

Perf.: I istei, III istetisit. Cong. pres.: II istes-i, V istetais, VI istint-i. Imper.: II istai, V stadi e staxi.

Verbo andari. Imper.: II bai e banda, V baxi. Varie forme con accento sulla prima vocale

premettono b-.

Verbo dari. Ind. pres.: dau, das, dat-i, ..., dais, ... Imperf.: I da. Perf.: I dei e jey42, III dedi. Cong.

pres.: det-i, des-i, det-i, ..., deis, dent-i. Imperf.: III darit. Imper.: II dai, V dadi.

Verbo donari. Ind. pres.: I donju. Cong. pres.: IV dongaus.

Verbo narri. Ind. pres.: naru, naras e nas, narat e nat, naraus e naus, narais e nais, naranta e

nanta43. Perf.: II naresti, III naredi e ned. Cong. pres.: I neri, II neris, IV nareus, V nareis, VI

nerinti. Imper.: V naradi e nadi. Part.: naradu e nadu44.

Verbo fairi (fari). Ind. pres.: I fatzu. Imperf.: III faiat. Perf.: III facisit. Cong. pres.: V fatzais.

Imper.: II fai, V fedi (feedi)45. Part.: fat(t)u.

Verbo biri. Ind. pres.: II bisi. Perf.: I bissisi. Cong. pres.: I bia. Part.: bistu e bidu.

41 Ricordiamo la presenza non costante della i- prostetica nelle parole che cominciano con s + consonante. L’infinito di‘stare’ compare anche sotto la forma estary.42 Per palatalizzazione.43 Le forme senza -ra- sono meno frequenti.44 Il participio nadu è uguale a quello del verbo naxiri, che presenta anche naxidu.45 Nel manoscritto si trova anche un altro imperativo di II persona plurale, fiedi, che può spiegarsi a partire da feedi, cone > i in iato.

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Verbo boliri (oliri)46. Ind. pres.: I bollu, bolis, bolit, boleus, boleis e bolleis47, bolint. Imperf.: I

bolia. Cong. pres.: I bolla, bollas, bollat, bollaus, bollais, bollant. Part.: bofidu48.

Verbo morriri. Ind. perf.: III morxisit. Cong. pres.: V morjais. Ger. morendu.

Verbo podi49. Ind. pres.: I potzu. Perf. III potzisid. Cong. pres.: III potzat. Part.: potzidu.

Verbo tenniri (tenni, teni). Ind. pres.: tenju, tenis, tenit, teneus, teneis, teninti. Imperf.: I tenia, V

tenestis. Perf.: III tengisit50. Cong. pres.: tenja, tenjas, tengiat, tenjaus, tenjais, tenjanta e tenganta51.

Part.: tentu.

Verbo ixiri. Ind. imperf. III xiada52. Cong. pres.: II ixipias. Part.: ixipidu.

Varî verbi hanno participio forte: poniri dà postu, ungiri dà untu ecc. Altri, che oggi hanno

participio forte, qui hanno forma regolare: connoxiri dà conoxidu.

Il verbo lassari ha il cong. pres. con vocale radicale regolarmente in -a-: VI lassint.

Il verbo crèiri presenta contrazione: ind. pres. IV creus; il congiuntivo presente con vocale tematica

regolare in -a-: II creas, III creat.

Il verbo trairi ‘tradire’, il cui infinito non è attestato53, ha il participio forte traitu.

Sintassi

La sintassi verbale offre indicazioni molto interessanti per la storia del campidanese.

I pronomi personali atoni, in unione con le varie forme verbali, possono essere proclitici o enclitici:

mi avisari ‘avvisarmi’ e biriddu ‘vederlo’, fatzatsi ‘si faccia’, e aligradiosi ‘rallegratevi’ e mi lassa

‘lasciami’.

Il presente durativo è espresso con istari o essiri + gerundio: seu spetandu, staus lagrimandu,

istanti miranduru; raramente con andari + gerundio (idd’andas defendendu). Il concetto di ‘essere

sul punto di’ è reso piú spesso con essiri po (a) + infinito: seu po os essi mama naturali ‘sto per

esservi madre naturale’, issu ancora esti a baxari ‘egli deve ancora calare’ (in quest’ultimo esempio

è anche un’idea di necessità); talora anche con istari: istu po mi ndi pesari ‘sto per alzarmi’.

46 La caduta di b- è originariamente dovuta alla fonetica sintattica: nel testo le forme con e senza b- si alternanoliberamente. 47 Il rafforzamento di –l- può essere dovuto ad analogia con la prima persona, che ha –ll- dal lat. volgare *vol-jo(classico volo). Nella lingua moderna tale raddoppiamento è frequente.48 La consonante -f- è sorta per analogia con la forma di perfetto vol-ui > *bolwi> *bolfi. 49 I verbi, che hanno origine nella coniugazione latina in ´-ere, all’infinito hanno spesso apocope dell’ultima sillaba.50 Ugualmente si ha bengisit da benni, verbo che condivide le stesse particolarità di tenni.51 Ugualmente si ha I donju (ind. pres.) da donari, I ponju (ind. pres.) e III pongiat (cong. pres.) da poniri, I benju (ind.pres.) e III benjat (cong. pres.) ma VI benganta da benniri. Le forme in –ng- dei tre verbi suddetti sono dovute adinflusso spagnolo.52 Qui la contrazione di -ii- è espressa da -i- semplice.53 Può essere traíri o traíxiri.

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L’ausiliare airi è preferito a essiri quando si vuole esprimere l’impersonalità: de cantus ind’at

naxidu ‘di quanti sono nati’ (con pronome relativo ridondante), peruna non ndi at nadu in sa terra

‘non ce ne è nessuna che sia nata sulla terra’ (si noti il participio passato maschile che non concorda

con il pronome indefinito femminile); di rado è usato con verbi intransitivi o riflessivi apparenti:

iddi at essidu fueddu discumpostu ‘gli è uscita parola scomposta’, itta disgracia ... ti at costadu ‘che

disgrazia ti è capitata!’, ad resuscitadu ‘è resuscitato’, e si at pigadu tantu ardiri ‘s’è preso tanto

ardire’. L’idea di ‘esserci’ è resa di solito con (i)nchi + airi: de pagari inchadi arrestu ‘c’è un resto

da pagare’; meno spesso con (i)nchi + essiri: non chesti ni mancu pintadu, e con ddu + airi: ixiu ca

ddu ad sufissientia.

Si ha un italianismo sintattico nell’uso di beniri come ausiliare per la forma passiva: de invidia

beneis ispintus; un altro si ritrova nella locuzione fradi miu andas erradu. A proposito della forma

passiva, qualche passo, in cui meglio emerge la lingua colloquiale, mostra la scarso gradimento

della lingua per la suddetta diatesi, che si evita grazie al soggetto sottinteso di sesta persona: non

siais genti molesta po qui os anta a castigari ‘non siate gente molesta perché sarete castigati’.

Il gerundio ha un uso ampio nella subordinazione, e lo si ritrova anche la funzione, tipica del sardo,

di participio congiunto all’oggetto o pronome relativo: biu benni genti cun sonu de trumbita

cerriendu ‘vedo venire gente gridare con suono di tromba’; in imi eis a biri portari istraxinendu a

sonu de trumbita y achotadu ‘mi vedrete portare trascinato (lett. ‘trascinando[mi]’) al suono delle

trombe e flagellato’ il gerundio concorda con un soggetto sottinteso54. Talvolta invece, come in

italiano, il soggetto è il medesimo della proposizione principale: sa genti siada avolotada ...

sentenduriddi tantis cosas predicari. Un gerundio sostantivato può essere equivalente a un infinito

sostantivato italiano: no pensis ... qui m’aconortu de dissimulendu de sa imbaxada ‘non pensare che

(io) mi consoli dall’occultarti la notizia’.

Nelle frasi esclamative-desiderative è usato mancari seguito dal congiuntivo: sia trapassato

(mancari imi essiri abruxadu ‘almeno mi fossi bruciato!’) sia presente (mancari seguis ... cussu

xelus); è presente, inoltre, il particolare costrutto con forcis + congiuntivo imperfetto: forçis

alcansari gracia cun piedadi ‘potessi ricevere grazia e pietà!’, forcis innantis de morri agatari

cudda cara beniña e serena ‘potessi, prima di morire, trovare quella faccia benevola e serena!’. Nei

due esempî si noti il congiuntivo imperfetto (sempre di valore ottativo) di I persona singolare,

omofono dell’infinito: è chiaro però che d’infinito non si tratta. Il congiuntivo trapassato può anche

essere privo dell’interiezione: mortu essiri ixerbeddadu ‘fossi morto scervellato!’; de su qui imoi idi

impudas idi dd’airis pençadu ‘avessi (tu) pensato (prima) a ciò di cui adesso t’accusi!’ lett. ‘te lo

fossi pensato’.

54 Quest’uso del gerundio è insolito, sia perché gli manca il pronome -mi enclitico, sia perché è seguito dal participioachotadu: la scelta del gerundio in vece dell’atteso participio istraxinadu deve spiegarsi con ragioni metriche.

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Il congiuntivo esortativo è usato anche alla I persona in frasi negative: non bia cussas carris

istrachari ‘che io non veda lacerare codeste carni’.

L’indicativo sovente è preferito al congiuntivo nelle oggettive dipendenti da verbi d’opinione: no

pensis qui mi aconortu ‘non pensare che mi consoli’.

Un passo come il seguente rivela la predizione della lingua viva per la forma attiva piuttosto che

passiva: sa sanctissima trinidadi ... hoy de unu arricu mantu da coberinti ‘La santissima Trinità ...

oggi è coperta un ricco manto’.

È frequentissimo l’uso di naru con funzione incidentale (e, in realtà, anche come riempitivo

metrico): ses ancora lamadu de is monarchas naru de genti Ebrea et non Gentili; soli naru

splendenti, et luminosu ‘sole – dico – splendente e luminoso’.

L’articolo determinativo e le preposizioni articolate non sono ripetuti nelle enumerazioni:

lassadimindi ancora ... parti de su dolori, lagrimas e pęna.

Il complemento oggetto di persona è spesso introdotto dalla preposizione a: as mortu a su Innocenti

(si noti anche il verbo morriri, qui transitivo), a quini apu a mandari ‘chi manderò?’; molto

raramente questa costruzione è impiegata per animali e cose: cumbidu a is angelus ... a is chelus ...

a is pillonis.

I pronomi personali clitici possono avere funzione affettiva (si mi miru a is xelus iddus biu tottu

obscuradus); talvolta si evita l’accumulazione di pronomi (su coru ... mi resolvidi in lagrimas, et

prantu ‘il cuore ... mi si scioglie in lacrime e pianto’).

Il relativo qui è polivalente e può avere anche il valore di avverbio di luogo relativo: su caminu qui

passada ‘il cammino che percorre’; dama qui a totus maravilla causat solus sa fama ‘dama di cui

solo la sola fama causa a tutti meraviglia’.

La particella (i)ndi ha valore rafforzativo in casi quali istu po mi ndi pesari ‘sto per alzarmi’ e inde

ddu abaxeis ‘lo calate da là’, e può unirsi ai pronomi personali in espressioni pleonastiche:

lassadimindi ancora a mimi parti de su dolori lett. ‘parte del dolore lasciatemene anche a me’.

Per cause poetiche o metriche l’aggettivo possessivo può seguire il sostantivo anziché precederlo

(sa nosta ingratissima natura), ed è frequente trovare l’inversione dell’ordine di parole consueto:

soggetto-verbo-oggetto-complementi varî.

Nel complemento vocativo è impiegato l’articolo determinativo: firmadi is astrus su velochi motu

‘fermate, o astri, il moto veloce’.

Il complemento d’agente può essere espresso attraverso la preposizione cun: cun milla borqueris

ses guardada ‘sei custodita da mille scudi’.

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Nella subordinazione è diffuso l’impiego del costrutto implicito con l’infinito e il cambiamento di

soggetto rispetto alla reggente: innantis de cantari su caboni imi as a negari ‘prima che il gallo

canti mi rinnegherai’, ada arrestari po sempiri ... finsa su mundu acabari ‘resterà per sempre ... fino

a che il mondo non finisca’; in cantu injustamenti eis patidu danduosi mala fama e peus nomini

‘quanto ingiustamente avete patito, quando vi si è attribuito (lett. ‘dandovisi’) cattiva fama e

peggior nome!’ si ha il gerundio temporal-causale.

Per quello che riguarda la correlazione dei tempi, si nota la predilezione per l’uso del congiuntivo

trapassato, e non imperfetto o passato, sia in frasi finali e dopo verbi desiderativi: apu votadu qui

non dd’airinti molestadu ‘ho votato perché non lo condannassero’, mi naredi qui deu idd’airi

cundennadu ‘mi disse che io lo condannassi’, im’at pregadu qui idd’airi dimandadu ‘mi ha pregato

che gli chiedessi’, unu inferru po mei solu po qui airi patidu ‘un inferno per me solo, affinché

soffrissi’; sia in frasi dichiarative, come tenju sa lisentia ... qui a totus airi intradu ‘ho la licenza di

far entrare tutti’.

Le proposizioni subordinate, ripartite secondo gli schemi tradizionali della grammatica, presentano

le caratteristiche seguenti:

Le proposizioni oggettive, soggettive e dichiarative esplicite sono introdotte dalla congiunzione qui.

Richiedono il modo indicativo anche per i verbi d’opinione: tui penças ca fui deu ‘tu pensavi che

fossi io’. La posteriorità rispetto ad un’azione collocata nel passato è espressa con il condizionale

presente55: non penzasta ca aiada a guadanjari ‘non pensavi che avrebbe guadagnato’, non pencei

qui in custa aia a parari ‘non pensai che sarei andato a parare in questa’, profecia de Simeoni ... qui

aiada a passari sa anima mia de dolu e pena forti una ispada ‘profezia di Simeone: il fatto che la

mia anima sarebbe stata trapassata da una spada di dolore e pena intensa’. Le implicite sono

introdotte da de, che raramente manca: is modus bellus nari funti tantis ‘i modi belli per dirlo sono

tanti’.

Le proposizioni causali sono introdotte da essendu essendu qui, po qui, jai qui, qui, ca, pues, pues

qui: poyta non prangeis jay qui moridi ‘perché non piangete giacché muore?’, mi fait tremiri de

ispantu forcis qui est fillu de Deus ‘mi fa tremare di spavento, forse perché è figlio di Dio’, beni

prestu ... qui custa anima mia tanti bramat.

Le proposizioni concessive sono introdotte da ancu qui, ancora qui, si benis. La locuzione

preposizionale ancu qui, parimenti a si benis, richiede l’indicativo: ancu qui apu pecadu ‘anche se

ho peccato’, ancu qui de pagari inch’at arrestu ‘anche se c’è ancora un resto da pagare’; al

contrario ancora qui è usata col congiuntivo: ancora qui sianta crudelis paganus.

55 Come si è già detto, l’italiano letterario, all’incirca dal Seicento, è l’unico idioma neolatino che adoperi ilcondizionale passato in tale contesto.

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Le proposizioni finali sono introdotte da po qui, qui sempre seguite dal modo congiuntivo: po qui

bollais a mimi ancora perdonari ‘perché vogliate perdonarmi’, qui Rei sias in totu piga po cetru

una canna ‘affinché tu sia re completamente, prende una canna per scettro’. Le implicite hanno po e

infinito, anche con cambiamento di soggetto: mi neris si ses Christu ... po ti adorari ‘dimmi se sei

Cristo affinché ti si adori’.

Le proposizioni consecutive sono generalmente introdotte da qui, e precedute da una principale che,

di solito, contiene l’avverbio tanti. Non è frequente l’omissione dell’avverbio: ti pregu ... qui postru

in terra corona e cetru Reali ‘ti prego ... tanto che depongo in terra corona e scettro reale’. Le

consecutive implicite hanno de e infinito: si veda l’esempio già proposto per le proposizioni

concessive, arrestu de pagari.

Le proposizioni relative sono introdotte da qui, ma è frequente, come s’è già detto, l’uso del

gerundio con funzione relativa.

Le proposizioni temporali sono introdotte da candu, luegu qui, finsa qui e fina qui, imò qui: imo qui

juntus seus ‘adesso che siamo giunti’. Le implicite hanno innantis de con l’infinito: innantis de

cantari su caboni.

Le proposizioni comparative sono introdotte da comenti, que.

Le proposizioni ipotetiche (condizionali) sono introdotte da si, piú raramente da qui (a biri qui

s’ada aguetari una domu ‘a vedere se si troverà una casa’: in questo passo il linguaggio è

colloquiale). Il periodo ipotetico dell’irrealtà può essere espresso per mezzo dell’indicativo

imperfetto, sia nell’apodosi sia nella protasi: si xiada aiada a fueddari ‘se sapesse, parlerebbe’,

Herodes a ti idi boliada dari sa morti ... si podiada ‘Erode a te avrebbe voluto dar(ti) la morte, se

avesse potuto’; è impiegato anche il trapassato prossimo tanto nella reggente quanto nella

subordinata: si iat açeptadu idd’aianta fattu Rei ‘se avesse accettato, l’avrebbero fatto re’.

Nell’apodosi dell’irrealtà si può avere però anche il condizionale con uno dei costrutti

summentovati; questi ultimi sono sempre usati nel periodo ipotetico della possibilità, che nella

protasi richiede un tempo del congiuntivo (qui hayreus arruinadu .. su templu gloriosu .. issu

idd’edi m’airi reedificadu ‘se avessimo distrutto il glorioso tempio egli l’avrebbe ricostruito’), a

meno che – è il caso del periodo ipotetico detto ‘misto’ – non si preferisca l’indicativo per dare piú

espressività all’ipotesi: si cussu liberaus is Romanus enti mo essiri e is’enti mo impadroniri de su

logu qui ocupaus ‘se liberassimo (lett. ‘liberiamo’) costui, i Romani si moverebbero (lett.

‘uscirebbero’) e s’impadronirebbero del luogo che occupiamo’. Nel periodo ipotetico della realtà,

infine, la protasi ha l’indicativo, mentre nell’apodosi si possono trovare varî modi.

Le proposizioni modali sono introdotte da segundu e segundu qui, e le implicite, molto frequenti, si

servono del gerundio.

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Le proposizioni esclusive sono introdotte da sino qui e sino ca; le implicite hanno senza seguito

dall’infinito.

Le proposizioni eccettuative sono introdotte da ultra qui.

Lessico

Il lessico del Libro de comedias ha quattro componenti principali: voci sarde neolatine, che

costituiscono sicuramente il fondo basilare, e poi iberismi, italianismi e latinismi.

Gli iberismi sono molto numerosi: ciò non deve sorprendere, se si considera che l’opera è composta

all’epoca del maggiore influsso spagnolo in Sardegna. In ogni settore del lessico troviamo esempî

interessanti di parole che sono poi uscite dall’uso comune, di solito sostituite dai corrispondenti

moderni italianismi: aconortari ‘confortare’ (< ant. sp. conhortar), atorgari ‘ammettere’ (< ant. sp.

atorgar56), callari ‘tacere’, rematari ‘terminare’, assolari ‘sconfiggere’ (< sp. asolar ‘devastare’),

realzadu ‘rilevante’, dugali ‘cavezza’ (< sp. dogal), vera ‘margine’, parabenis ‘complimenti’ (< sp.

parabién), si alvorai ‘alzarsi a cantare’ (< alborear, letteralmente ‘alzarsi per fare l’alvorada’, che è

la canzone o musica dell’alba57), gusari ‘osare’ (< cat. gosar, diverso dallo sp. gozar ‘godere’ >

camp. gosari), galanu ‘leggiadro’, mas ‘piú’. Sono presenti anche locuzioni, quali por ventura ‘per

caso’.

Fra le cospicue voci d’origine italiana si hanno ardiri, avilidu, grandu, impicari; c’è un interessante

rampanari ‘sopportare’, che è un derivato di rampone. Influssi italiani si hanno anche in locuzioni

quali de su totu ‘del tutto’, no fatzanta capu ‘non facciano capo’. Parecchie parole entrarono in

sardo dall’antico toscano, prima che l’italiano letterario si fosse formato, e sono documentate nei

testi medievali: si hanno bellu, biancu, donniunu, ma, lestu ecc.

I cultismi sono diffusi soprattutto in relazione al lessico sacro e illustre: gloria, padri, eternu,

inclitu, formosu e simili; alcuni sono termini poco diffusi: gemibundu, rutilanti, rubicundu.

Diamo l’elenco dei vocaboli inediti presenti nell’opera di Frate Antonio María.

I singoli versi sono citati con l’indicazione del numero, preceduto da una delle lettere seguenti, che

indicano i singoli componimenti del Libro de comedias: N = Conçueta del Nacimiento de Christo,

P = Comedia de la Passion de nuestro señor Jesu Christo, D = Representaçion de la comedia del

Desenclavamiento de la Cruz de Jesu Christo nuestro señor, V = Versos que se representan el Dia

de la Resurrection, A = Comedia grande sobre la Assumption de la virgen Maria senora nuestra a

los cięlos.

56 Wagner registrò questo verbo come solo logudorese; in sp. mod. si dice otorgar.57 “alborear amanecer ó rayar el dia, primam diei lucem emicare”, “alborada ... música que se da al rayar el dia” (V.SALVÀ, Nuevo diccionario de la lengua castellana, Paris, 1865).

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Le seguenti abbreviazioni indicano lingue: sp. = spagnolo, cat. = catalano, tosc. = toscano, it. =

italiano; le altre abbreviazioni, largamente diffuse, hanno significati grammaticali.

I vocaboli che, eccezion fatta per i cultismi piú comuni, non sono presenti nei principali dizionarî

(Porru, Spano, Wagner) sono: alvorada, alvorari, amançiosu, apella, asolari (1), assentu (nel

significato di ‘seggio’), astrologali, bofitu, cerrialla, desnudu, doctoria, gineta, hierru (2),

illostrosu, illuminosu, iscarniri ‘schernire’, ixutari, ixutu, juntu, murrioni, nigunu, paranju,

passijari, perenali, perjudiciali, perjurari, posta ‘paga’, presurosu, profidiari, realzadu, rematari,

revoltori, rubinadu, sino, solitudi, tempestuosu, traballu (nel significato di ‘pena’), vera. Sono in

larga prevalenza iberismi.

I vocaboli presenti nei dizionarî sardi, ma attribuiti al solo logudorese, sono: atorgari, asolari (2),

cursari, desfalliri, ingastari, isvariadu, pesosu.

alvorada s.f. ‘canto o musica dell’alba’ in N517 (Intoninti a su mundu sa alvorada). Dallo sp.

alborada.

alvorari v. rifl. ‘alzarsi all’alba per cantare’, ovverosia per fare l’alvorada, in N1238 (si funti

alvoradus po intonari cudda gloria in excelsis). Derivato dal su indicato s.f. alvorada.

amançiosu agg. q. ‘mansueto’ in V386 (acudiri prestu meda amançiosus). Deverbale da amansiri.

apella s.f. ‘appello’ in P2843 (No arrichinti apella in custa cosa ‘Non accolgono appello in questa

vicenda’). Può essere un troncamento dello sp. apelación.

asolari (1) v. tr. ‘sconfiggere’ in N15 (soli qui asolas totu sa malicia) e N503 (su peccadu

assolari). È scritto anche assolari. Dallo sp. asolar e cat. assolar ‘devastare, radere al suolo’.

assentu s.m. 1) ‘riposo’ in P514 (eus a chircari una dij de assentu). 2) ‘seggio’ in P276 (is cadiras

de assentu ‘i seggi appositi’). Dallo sp. asiento.

astrologali agg. q. ‘astrologico’ in N121 (O arti astrologali misteriosa) e N166 (vigilias

astrologalis). Derivato di astrologia, con suffisso -ali.

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bofitu s.m. ‘schiaffo’ in P112 (cun ispudus e boffitus affeadu) e P133 (adevina ... quini ti dat

bofitus ispietadus). È scritto anche boffitu. Dal tosc. buffetto, con -i- per chiusura vocalica e -o-

forse dovuta all’influenza dello sp. bofetada.

cerrialla s.f. ‘fracasso’ in N1186 (sa cerrialla de custu paranju ‘il fracasso di questo luogo’).

Derivato di cerriari ‘gridare’.

desnudu agg. q. ‘nudo’ in N500 (sa spada jay desnuda ‘la spada già sguainata’). Dallo sp. desnudo.

doctoria s.f. ‘dottorato’ in N1085 (sa borla de doctoria ‘il simbolo di dottorato’). Derivato di

doctori.

gineta s.f. ‘lancia’ in D677 (lassu custa gineta a una parti). Dallo sp. jineta.

hierru (2) s.m. ‘sbaglio’ in P2196 (aichi anta acabari is qui fainti tali hierru). Dallo sp. yerro.

L’omografo hierru (1) è s.m. ‘inverno’.

illostrosu agg. q. ‘lucente’ in V351 (es tanti illostrosa, qui dat luxi et guia). Dallo sp. lustroso e cat.

llustrós ‘lucido’, con i- iniziale dovuta all’influsso di illustri.

illuminosu agg. q. ‘luminoso’ in P1102 (soli illuminosu). Da luminosu: la i- iniziale è dovuta

all’influenza di illuminari.

iscarniri v. tr. ‘schernire’ in P1412 (iscarniu deu apessiri de sa genti ‘sarò schernito dalla gente’).

Denominale, da iscarnu s.m. ‘scherno’ in P148 (custa notti est deus omnipotenti unu iscarnu, y

arrisu de sa genti), che proviene dal cat. escarni.

ixutari v. tr. ‘asciugare’ in P938 (calis peis is pilus anta ixutari). Deaggettivale da ixutu.

ixutu agg. q. ‘asciutto’ in P3103 e D178 (passandudi in su mari a pei ixutu). Dal cat. eixut.

juntu agg. q. ‘congiunto, unito’ in varî passi (nara imò qui juntus seus ‘di’, ora che siamo riuniti!’).

Dallo sp. junto.

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murrioni s.m. ‘elmo’ in D678 (murrioni de ferru). Dallo sp. mo(r)rión.

nigunu pron. ind. ‘nessuno’ in D1074 (de nigunu seu diletu). Dallo sp. ninguno, con perdita di -n-

per influsso degli altri indefiniti e forse del tosc. niuno.

paranju s.m. ‘luogo’ in N1186 (sa cerrialla de custu paranju). Dal cat. paratge e sp. paraje, con

infisso nasale e cambio di desinenza.

passijari v. intr. ‘passeggiare’ in P1207 (est hora de passijari ‘è ora di passeggiare?’). Dal cat.

passejar.

perenali agg. q. ‘perenne’ in N548 (funtanas perenalis). Dallo sp. perennal.

perjudiciali agg. q. ‘nocivo’ in D344 (unu mali a nosu perjudiciali). Dallo sp. e cat. perjudicial.

perjurari v. intr. ‘spergiurare’ in P1993 (jurei, et perjurey qui non fuit beru). Dallo sp. perjurar.

posta s.f. ‘paga, quota’ in P584 (unu soddu a posta mia). Dall’it. posta.

presurosu agg. q. 1) ‘frettoloso’ in P1063 (presurosus passus). 2) ‘urgente’ in N727 (sa causa est

tantu presurosa). Dallo sp. presuroso.

profidiari v. intr. ‘insistere’ in N1138 (nara no bollas profidiari ‘parla, non voler insistere’).

Denominale dal cat. porfídia ‘insistenza, testardaggine’, con metatesi -or- > -ro- (per ragioni

fonetiche non può derivare dal corrispondente verbo porfidiejar).

realzadu agg. q. ‘rilevante’ in N180 (is prodigius realzadus de is signalis). In origine participio

passato, dallo sp. realzar ‘rialzare, rilevare’.

rematari v. intr. ‘affrettarsi’ in N63 (ti nara qui non tardis ma remata ‘ti dice di non tardare, ma

affrettati’). Dallo sp. e cat. rematar ‘finire’.

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revoltori s.m. ‘sovvertitore’ in P3000 (de totu su Regnu revoltoris). Voce che pare costruita sulla

base di revoltari e revoltosu.

rubinadu s.m. ‘rubino’ in D1194 (sa ucca de rubinadu ‘la bocca color rubino’). Derivato di rubinu.

sino prep. ‘tranne, fuorché’ in varî passi (non si intendat prus lamentu sino dulchi melodia). In

P437 il suo valore si avvicina a quello della cong. avv. ‘ma’ (no acuncentu qui issu siada liberadu

sino qui siada chircadu). È usata anche la forma sinò, e compone loc. prep.: sino ca, sino qui. Dallo

sp. sino e cat. sinó.

solitudi s.f. ‘solitudine’ in N481 (si ad a aligrari ancora su desertu cuni sa solitudi). Dal cat.

solitud.

tempestuosu agg. q. ‘tempestoso’ in P1472 e D51 (que mari tempestuosu conturbada). Dallo sp.

tempestuoso e cat. tempestuós. È usata nell’opera anche la forma tempestosu.

traballu s.m. ‘travaglio, fatica’ in N1061 (benedictu su traballu su stentu su sudori) e D146

(beni ... su mundu os at pagadu su traballu ... qui ... eis tentu).

vera s.f. ‘margine’ in N504 (su peccadu assolari ... cun is veras ‘scacciare il peccato (relegandolo)

ai margini, alle estremità’). Dallo sp. vera.

Seguono adesso i vocaboli che, come s’è detto, sono presenti nei dizionarî sardi, ma sono attribuiti

al solo logudorese.

asolari (2) v. rifl. ‘ritirarsi, restare solo’ in P2768 (que fera asoladu ‘solo come una belva’).

Deaggettivale da solu.

atorgari v. tr. ‘ammettere’ in P2274 (seu obligadu cunffessari et ancu de atorgari) e D279 (si mali

as nadu imoy iddu atorgas). Dallo sp. ant. atorgar (oggi otorgar) e cat. atorgar.

cursari v. tr. ‘percorrere’ in N69 (o soli cursa prestu cussa sfera). Dallo sp. e cat. cursar.

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desfalliri v. intr. ‘venir meno’ in V212 (a is presentis y a is qui fun desfallidus). Dal cat. ant.

desfallir (oggi defallir) e sp. ant. defallir (oggi desfallecer).

ingastari v. tr. ‘incastonare’ in V346 (parinti jaçintus in oru ingastadas). Dallo sp. engastar.

isvariadu agg. q. ‘demente, imbarbogito’ in P1948 (hay tristu de mei bechu isvariadu!). Dallo sp.

desvariado.

pesosu agg. q. ‘pesante’ in P2967 (Ruxi a is palas tanti pesosa). Denominale da pesu.

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2. SALVADOR VIDAL e JUAN FRANCISCO CARMONA: le prime attestazioni del

campidanese

Piú antichi di Antonio María da Esterzili sono Salvador Vidal e Juan Francisco Carmona.

Vidal, al secolo Juan Andrea Cóntini da Mara Calagonis (1581-1647), frate francescano, visse a

lungo in Italia e Spagna e fu scrittore fecondissimo, adoperando con eguale efficacia il latino, il

castigliano e l’italiano. In sardo compose un’unica opera, il poema Urania Sulcitana (1638) sulla

vita di S. Antioco58, e – quando in campidanese non era stata ancora composta nessun’opera

letteraria, cinquant’anni prima del Libro de comedias – decise d’adoperare il logudorese: nella

dedica a don Juan Dexart egli illustra le cagioni della scelta, giustificandola con la maggiore

vicinanza del logudorese al latino, benché poi fornisca un elenco di parole campidanesi che, a

differenza delle corrispondenti logudoresi, si sono mantenute uguali al latino; il campidanese

sarebbe in effetti piú conservativo, ma la lingua di Cagliari – sostiene il frate marense – si è corrotta

per l’afflusso al porto di genti dal mare. Vidal dichiara che il logudorese è per lui una lingua

straniera, ma aggiunge di avere ormai dimenticato il proprio idioma nativo dopo diciannove anni

d’assenza da Mara59. Nel poema Vidal si lascia sfuggire parecchie parole campidanesi, alle quali

fornisce talvolta desinenza logudorese, confermando di non saper maneggiare bene la lingua scelta:

si vedano, come esempî di tale tendenza, Lu spollant (XVI, 41) in luogo del log. Lu ispozan, e Si

cantit à sas Ninfas (XXI, 31) anziché Si cantet. Nella Vida di S. Antioco in prosa castigliana60, della

quale possediamo il manoscritto, Vidal inserisce alcune parole in campidanese: Xeas, che indica un

determinato tipo di terreno (il camp. cea, vocabolo preromano, significa ‘pianura’), e l’intera frase

idindi hadi a bogari is xerbeddus ‘ti schiaccerà le cervella’, lett. ‘te ne toglierà le cervella’,

pronunziata da un eremita del Capo di Sotto. La lingua di questa frase, che, visto il contesto,

apparteneva certo al registro colloquiale, non si discosta da quella di Antonio María da Esterzili: il

pronome di seconda persona ti possiede i- prostetica analogica; il relativo enclitico ndi è

pleonastico; il futuro è costruito analiticamente (con l’ausiliare hat dotato di vocale paragogica -i e

l’infinito in -ari); l’affricata prepalatale sorda iniziale è indicata con x-, come già nel succitato xeas.

58 Urania Sulcitana, de sa vida, martyriu, & morte de su bonaventuradu S. Antiocu, Patronu de sa isula de Sardigna.59 La scelta fu forse dovuta anche al fatto che Vidal si trovava a risiedere in un convento di Sassari e voleva esserecapito dai confratelli, ma non si può nemmeno escludere che egli, oltre a ritenere il logudorese illustre, il quale giàvantava opere scritte importanti, la lingua letteraria di tutta la Sardegna, avesse realmente perso dimestichezza con lapropria lingua nativa. 60 Vida, martirio y milagros de San Antiogo sulcitano, sec. XVII, manoscritto S.P.6.5.13, Biblioteca Universitaria diCagliari.

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Carmona nacque nella seconda metà del XVI secolo, e fu forse giurato di Cagliari nel 162361. Nelle

sue Alabanças de los santos de Serdeña (1631), raccolta di componimenti sacri in castigliano e

catalano, è presente un testo (le Alabanças de San George obispo suelense calaritano) in cui si

presenta un contrasto fra un cólto cittadino di Cagliari ed un pastore di Suelli: il cittadino è indotto a

parlare in campidanese perché il suo interlocutore non capisce lo spagnolo. I versi endecasillabi in

campidanese sono trentaquattro, e mostrano una lingua vicina a quella di Frate Antonio María; la

stessa grafia è modellata su quella castigliana. Differenze sono nelle forme verbali pongu e tengu,

modellate sullo spagnolo, mentre Antonio María usa ancora le forme neolatine ponju e tenju (< lat.

*ponjo < poněo): ciò è indice di un maggiore influsso iberico in Cagliari capitale. È rilevante la

forma ais, V persona indicativo presente del verbo dari: dari e donari, qui usato in un arriali os

dongu col sugnificato di ‘donare’ piuttosto che di ‘dare’, sono ancora in concorrenza, e nel

Settecento s’imporrà dona(r)i. Per ‘bere’ è impiegato biri, omofono del verbo ‘vedere’. Notevole è

l’avversione per le consonanti geminate (bida ‘paese’, maravila, onipotenti; è data doppia la sola

-rr-, e lo stesso nome del paese del pastore, Suedi, vede l’occlusiva cacuminale sonora espressa con

la consonante scempia). Un esempio di fonetica sintattica si trova in sa ia. Per esprimere l’assenza

Carmona usa no dua (= no dhu [< dhoi] at), mentre Frate Antonio María preferirà no nchi at. Il

pronome interrogativo è ite ‘che cosa?’, meno frequente rispetto a it(t)a in A.M. In canta genti c’è

concordanza dell’aggettivo col sostantivo (in A.M. sempre cantu invariabile). La congiunzione

copulativa è ne (in A.M. ni).

Potrebbe risalire al Cinquecento un canto epico dedicato alla vittoria dei Sardi antichi, guidati da

Oroèni, sui Cartaginesi di Malco. Non si sa se sia stato mai pubblicato, né chi sia l’autore; fu

tramandato oralmente per molte generazioni62. I primi quattro versi probabilmente sonavano cosí, o

almeno hanno poi assunto questa forma63:

‘Ca dh’at-i bintu Oroèni a Malcu

s’urrèi gherreri de is Cartaxinèsus

a pustis-i de unus-u dèx’annus

gherrèndi contras a is Afriganus’.

61 Ciò secondo un’interpretazione di S. Bullegas (Il teatro in Sardegna tra cinquecento e seicento, Editrice DemocraticaSarda, Cagliari, 1976, pagg. 76-77, nota 275); non concorda Cenza Thermes, a parere della quale il Carmona, visti icontenuti delle sue opere, poteva essere un sacerdote (Iuan Francisco Carmona, questo sconosciuto, Quaderni Sardi,Trois editore, Cagliari, 1994, pag. 10). 62 L’argomento trattato presuppone conoscenze storiche che solo un poeta colto o semicolto poteva possedere. Si veda ilsito informatico www.comitau.org: A kini da scit sa poesia de Oroeni?.63 Usiamo il sistema di scrittura del campidanese già visto nell’introduzione, con l’aggiunta, indicata da un trattino, dellevocali paragogiche necessarie per la lettura corretta dei versi.

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3. SA DOTRINA CHRISTIANA A SA LINGUA SARDISCA

Già nel XVI secolo la Chiesa sentí il bisogno di servirsi della lingua del popolo per la predicazione,

e si ebbero catechismi sia in logudorese, sia in campidanese64. Per quel che concerne la parte

meridionale dell’isola, l’opera piú antica, di cui si abbia notizia, fu stampata per la diocesi di Ales

nel 1566, e fu presto seguito da altri: una nel 1568, una nel 1587, con ristampe negli anni 1589,

1594, 1622. Si ebbe poi una riproduzione nel 1695, presso la stamperia cagliaritano di Honofrio

Martín e Juan Antonio Pisá, in occasione del sinodo della diocesi di Cagliari del 9 Gennaio 1695,

tenuto dall’arcivescovo Francisco De Sobrecasas: il breve testo campidanese, denominato Sa

dotrina Christiana a sa lingua sardisca, si trova nelle ultime pagine delle Costituzioni sinodali,

scritte in lingua spagnola ed emanate dal suddetto prelato. Quest’ultima versione del catechismo,

che fu ritrovata da Luigi Spanu nei primi anni Ottanta e pubblicata nel 198365, è disponibile, e su di

essa ora ci soffermeremo, ponendola in confronto con le opere già esaminate.

La grafia, cosí come ogni aspetto linguistico, è vicina a quella usata da Frate Antonio María: si

hanno giu- e ju- per l’affricata prepalatale sonora (giuicari e juigari, bengiat); l’affricata prepalatale

sorda è espressa in piú modi (chincu ‘cinque’, rechiri, celu, dulci); la lettera x è adoperata per varî

fonemi (xelus, ruxi, proximu), ma talvolta certi grafemi o digrammi si avvicinano al modello

italiano (isciri); la c davanti a vocale palatale può leggersi come affricata o fricativa (incerrant); le

occlusive intervocaliche presentano grafia oscillante (seti e setti, dat criadu ‘l’ha creato’; l’articolo

si fonde spesso col nome (sanima, ma anche sa hora); la tilde di frequente è omessa (sinu ma

señori); non mancano le scritture etimologiche (octava, hoi), e gli errori di stampa appaiono

numerosi (per esempio sembra difficile credere che cadidadi presenti assimilazione a partire da

caridadi).

Fonetica: sporadicamente si leggono desinenze etimologiche in -e anziché in -i (gemende,

omnipotente), le quali, accostate ad esiti di tipo logudorese (doigui ‘dodici’ e batordigui

‘quattordici’66, con conservazione della velare e lenizione, ed esito labiale dell’originaria

labiovelare, che in casi come quaturu mostra aspetto campidanese genuino), fanno pensare a una

provenienza del redattore dalla zona oristanese di confine, oppure alla presenza di un originale

logudorese successivamente tradotto in campidanese, nel quale tali forme si sarebbero mantenute; si

hanno esempî di i- prostetica (isciri), talvolta restituita (ei sanima ‘e l’anima’, contra icustus

‘contro questi’, a icudu qui ‘a quello che’); casi di lenizione anche in cultismi (juigari accanto a

64 Si veda un catechismo in sardo del 1777, a cura di Tonino Cabizzosu e Mario Puddu, L’Unione Sarda, 2004,introduzione.65 Sulla rivista S’ischiglia, num. 10, pp. 297-301.66 Tali sono ancor oggi i suddetti numerali nei paesi a settentrione di Oristano.

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giuicari67, miserigordia, padiri ‘patire’); rotacismo popolare di -l- (sarbari ‘salvare’); esiti

particolari (jari ‘dare’, che è qui meno frequente di dari).

Morfologia. Si hanno diversi esempî di preposizioni articolate, come des (alibiu des penas), ais

accanto a de sa, de is ecc. Fra le preposizioni sono usate de, da, dae ‘da’, peri, suba, inter ‘tra’;

interessante locuzione è da inter (resuscitedi dainteris mortus ‘resuscitò di tra i morti’). Gli

aggettivi numerali ordinali seguono la fila latina (segundu, terzu, quartu ecc.). Nomi: alternanza di

maschile e femminile per ‘ventre’: su ventri e sa entri. Pronomi: in un caso è usato il pronome

proclitico lu (lu lassat), per il resto sempre iddu oggetto (su pani nostu de onia dij dai nos iddu hoi

‘dacci oggi il nostro pane quotidiano’) e di indiretto; come pronome complemento c’è ancora ti (a ti

e totu ‘proprio a te’); l’indefinito totu mostra oscillazione di forma al plurale: totus is cosas ma

anche totu is cosas. Verbi: il perfetto è ben conservato: resuscitedi, arcedi, caledi, boguedi

(coniugazione in -ari), e nascesidi, mentre sono usati con valore di perfetto i due presenti recipidi e

ascendidi (-iri); al presente si segnalano seidi ‘siede’, ruidi ‘cade’, suntu ‘(essi) sono’; l’infinito di

‘fare’ e ‘dire’ risulta fairi e narri; il gerundio è di solito in -andu/ -endu, ma in un paio di occasioni

termina in -e (gemende, pla<n>gende); i participî sono in -adu e -idu (nadu ‘nato’, bandidus).

Avverbî: presenti ini ‘lí’ e imo ‘adesso’, forme in -menti (ligermenti); è usato iddu per ‘esserci’ (i

duat seti virtudis ‘vi sono sette virtú’). Congiunzioni: po qui, sendu qui, si ‘se’, a benis qui

‘benché’.

Sintassi: il presente durativo usa l’ausiliare stari (istanta aspetendu), il futuro è analitico. Il

complemento oggetto di persona vuole la preposizione a (honorari a babu tuu).

Lessico: gli iberismi sono molti (fra essi pasiencia, dulzura, alibiu ‘sollievo’); si conservano

numerose voci oggi in disuso (mandiari ‘mangiare’, biri ‘bere’, ea e hea ‘ecco’68, paraula ‘parola’,

cominigari, verdaderu, corparisi ‘colpirsi’).

67 Qui c’è anche caduta di -d- intervocalica.68 Si veda Wagner (DES, I, p. 484).

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4. JUAN MARÍA CONTU

Juan María Contu è il primo prosatore campidanese moderno. La sua opera, il Novenariu cun

platicas a su amantissimu coru de Jesus, è un codice manoscritto conservato nella Biblioteca

Universitaria di Cagliari, insieme con altre due suoi libri in lingua spagnola. L’autore, Reverendo

Padre appartenente all’ordine dei Frati Minori, nella prima pagina si presenta come “Calaritanu, de

sa Regulari Observancia de su S.P.S.69 Franciscu, Letori in Sagrada Theologia, Qualificadori de sa

Santa Inquisicioni in su Archibiscobadu de Oristanis, e Predicadori Apostolicu in sa Provincia de

S. Saturninu Martiri Calaritanu in Sardiña”. Le cariche sopra elencate, che dimostrano il

notevolissimo livello di cultura raggiunto dal Contu, erano fra le piú prestigiose per un ecclesiastico

sardo, e il Contu vi accesse certamente dopo il 1726, anno in cui fu predicatore conventuale annuale

e, in tale veste, prese parte al capitolo provinciale, celebrato nel convento di S. Mauro in Cagliari il

2 ottobre 1726. Il Contu morí nel 1762, cosicché la composizione del Novenariu è da collocare fra

codeste due date. L’unica pubblicazione dell’intera opera fu curata da Maria Teresa Atzori nel

1964.

Il Novenariu è una corposa opera paraliturgica, che descrive la corretta celebrazione della novena,

ovverosia dei riti che si svolgono nei nove dí precedenti le piú importanti festività cristiane.

Le platicas del titolo sono le prediche tenute in ciascuno dei giorni di novena. Il libro si compone di

una dedica, un prologo, sermoni e preghiere ordinati secondo le nove giornate, un indice

d’avvertenze, un catalogo degli autori citati, un indice dei passi della Sacra Scrittura e, infine, un

indice delle cose notevoli.

Vediamo dapprima fonetica e grafia: quest’ultima appare ben piú coerente di quella di frate Antonio

María.

La lettera c ha pronunzia velare sorda davanti ad a, o, u (causa, coru), mentre prima di e ed i può

indicare affricata dentale sorda (arciari, preciadu ‘prezioso’), e fricativa dentale sorda (resucitari,

incerrari: in quest’ultimo caso però si potrebbe avere una pronunzia già affricata). Per l’affricata

dentale sorda talvolta è usato anche il gruppo tz (potzessint), per indicare suono piú intenso. Il

gruppo qu indica la labiovelare sorda (quindixi), ma è adoperato soprattutto per l’occlusiva velare

sorda davanti alle vocali e/i (pitiqueddu, arriquiri); gu è il corrispondente sonoro (guia, guerra). Il

digramma ch esprime l’affricata prepalatale sorda (aichi, bechu, mancha ‘macchia’), mentre i

fonemi palatali hanno scrittura spagnoleggiante: quello nasale con ñ (cariñu, intrañas), quello

laterale con ll (llaga). La lettera x può indicare sia l’affricata prepalatale sorda (xena, xircari) e

sonora (lixit, anxulu, ponxu), sia i due fonemi spiranti prepalatali, sordo (nexunu, ixacuari) e sonoro

69 Serafico Padre Santo.

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(mexinas). La lettera j esprime di regola l’affricata prepalatale sonora davanti a tutte le vocali

(morjesit, monjas, sujetu). La nn intensa compare in forma scempia (danu, pina ‘pinna’): le

consonanti doppie sono infatti rarissime. La lettera z indica fricativa dentale sonora intervocalica

(belleza, rezant ‘pregano’), ma piú spesso affricata dentale sorda (descanzu ‘riposo’, zurpu ‘cieco’)

e sonora (zelosu). La grafia etimologica è ben presente, soprattutto in h iniziale (hora, homini), ct

(perfectamenti, actu, aflictu), th (thema, authoridadi: falsa etimologia), x (exorcistas) e l nei gruppi

consonantici (dulchi, planta). La i prostetica è usata di norma (iscarexiri). Si ha assimilazione in

catodixi ‘quattordici’, apocope negli infiniti come aberrir ‘aprire’. Il sostantivo mochidorxu

‘mattatoio’ mostra che la m- di mochiri, già vista nel Libro de comedias, aveva larga diffusione in

campidanese.

Nella morfologia verbale si ha il congiuntivo imperfetto in -essi (tenxessi, potzessint ecc.), di

origine catalana70. È regolarmente usato il perfetto sigmatico (-esi, -esti, -esit, -estus, -estis, -esint):

si noti la IV persona, che in Antonio María non è attestata: Contu dà merexestus ‘meritammo’.

Talvolta il trapassato prossimo pare acquisire il significato del perfetto (hestis miradu ‘avevate

osservato’ o forse ‘osservaste’, fiat naxidu ‘era nato’ ma meglio ‘nacque’), testimoniando il

processo che ha portato alla scomparsa del perfetto nella lingua moderna. All’imperfetto di I

coniugazione si hanno -aa (xircaa ‘cercavo’) alla I persona e -astis (habitastis) alla V.

Nell’imperativo, nelle cui forme con pronome enclitico non è mai segnato l’accento sull’ultima

sillaba71, la consonante lenita, di solito conservata, può ridursi a zero, soprattutto in vicinanza di

altra -d-: confirmadi, guiadimi, intendedimi ma concedeinosi, adornaiddu e ajudaimi. Il participio

passato esce in -adu e -idu. L’infinito passato di forma attiva ha sempre àiri come ausiliare:

depustis de hairi fatu ‘dopo aver fatto’. Nel verbo èssiri al presente la forma di VI persona è sunti;

all’imperfetto sono impiegate sia forme in fi- (fiat), sia forme in fu- (fustis).

Fra i pronomi atoni, quelli plurali di I e II persona sono nos(i) e os(i), ma quest’ultimo

sporadicamente subisce aferesi: si agradant ‘vi aggradano’; il possessivo ‘vostro’ è ostu.

L’interrogativo ita è usato tanto come pronome, quanto come aggettivo (itas mexinas). Frequente è

l’impiego del pronome relativo letterario su cali. Il sostantivo di ‘giorno’ è maschile (claru di).

L’opera di Contu segna l’apice della spagnolizzazione linguistica della Sardegna: il lessico abbonda

d’iberismi, anche grafici (flechas ‘frecce’), alcuni forse mai veramente entrati nell’uso (remontari

‘sollevare’), altri oggi antiquati (tambeni ‘anche, ancora’).

Ecco un elenco degli iberismi presenti nell’opera, i quali non compaiono sui principali dizionarî:

70 Il congiuntivo imperfetto italiano è morfologicamente simile e può avere influito sulla formazione di questo tempo.Le terminazioni sono: -essi, -essis, -essit, -éssimus, -éssidis/-estis, -essint. La vocale tonica è sempre chiusa.71 Poiché Contu non indica l’accento non possiamo sapere se tali imperativi per accento siano tronchi o sdruccioli.

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aficionari v. tr. ‘affezionare, far amare’. Novenariu, paragrafo 9: MARIA ... cun su exemplu súu

aficionat a’ is animus de is Christianus a’ su xelu ‘Maria ... col suo esempio affeziona gli animi dei

cristiani al cielo’. Dallo sp. aficionar.

aficioni s.f. ‘affetto, affezione’. Dallo sp. afición.

alevosia s.f. ‘perfidia, tradimento’. Dallo sp. alevosía.

altercadu s.m. ‘alterco’. Dallo sp. altercado.

arboleda s.f. ‘boschetto’. Dallo sp. arboleda.

arrastrari v. tr. ‘strisciare, strascinare’. Nov. 361: aychi llagada sa lingua, da arrastrada quindixi

bortas in sa terra. Wagner (DES, II, p.338) segnala la voce log. rastrare. Dallo sp. arrastrar.

cantari (2) s.m. ‘canzone di gesta’. Dallo sp. cantar.

comparziri v. tr. ‘ripartire, dividere’. Composto di cun e parziri ‘dividere’.

cuchillada s.f. ‘coltellata’, non ‘contese, risse’ come sostiene la Atzori (pag. 38). Nov. 214:

piguesinti sa vida a’ cuchilladas a’ cuddu Christianu cautivu. Dallo sp. cuchillada.

cytara s.f. ‘cetra’. Dallo sp. cítara.

chupari v. tr. ‘succhiare’. Wagner (DES, I, p.455) segnala la voce come log. sett. Dallo sp. chupar.

dañosu agg. q. ‘dannoso’. Dallo sp. dañoso.

deleitari v. tr. ‘dilettare’. Dallo sp. deleitar.

deleites s.m.pl. ‘diletti’. Voce spagnola non adattata alla morfologia campidanese.

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desambainari v. tr. ‘sguainare’. Nov., 214: cun is zimitarras desambainadas; desambainesinti is

zimitarras. Dallo sp. desenvainar e cat. ant. desembainar (oggi desembeinar).

descalsu agg. q. ‘scalzo’. Dallo sp. descalzo e cat. descalç.

destilari v. tr. ‘distillato’. Dallo sp. destilar.

donaires s.m. pl. ‘facezie’. Voce sp., oggi al sing. ‘grazia, garbo’.

duque s.m. ‘duca’. Voce sp.

duracioni s.f. ‘durata’. Dallo sp. duración.

eduziri v. tr. ‘estrarre’. Dallo sp. educir.

fealdadi s.f. ‘bruttezza’. Dallo sp. fealdad.

flacu agg. q. ‘fiacco’. Dallo sp. flaco e cat. flac ‘debole, magro’.

galanteari v. intr. ‘galanteggiare’. Dallo sp. galantear.

iglesia s.f. ‘chiesa’. Dallo sp. iglesia.

Inglaterra s.f. ‘Inghilterra’. Dallo sp. Inglaterra.

isquerdu agg. q. ‘sinistro’. Dallo sp. izquierdo.

larga s.f. ‘dilazione’. Dallo sp. largas (plur.).

leyenda s.f. ‘leggenda’. Dallo sp. leyenda.

navidadi s.f. ‘natività’. Dallo sp. navidad.

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nen cong. cop. ‘né’. Wagner (DES, II, p.161) segnala la voce per il sardo medievale e i dialetti

centrali. Dal lat. nec con -n di non.

osculu s.m. ‘bacio’. Spano (Vocabulariu, II, p.252) segnala la voce come log. Cultismo.

paraysu s.m. ‘paradiso’. Dallo sp. paraíso.

pensioni s.f. ‘dazio, tributo’, non ‘premio’ come sostiene la Atzori (pag. 52). Nov. 448: discurriat

de amoris, e’ de cariñus, paguendu pensionis de afectu a’ sa civilidadi de su tratu ‘discorreva di

amori e tenerezze, pagando dazio alla cortesia del suo comportamento’ (in senso metaforico). Dallo

sp. pensión.

perfumu s.m. ‘profumo’. Dal cat. perfum o sp. perfume, con cambiamento di declinazione.

platicari v. intr. ‘conversare’. Dallo sp. platicar.

presa s.f. ‘preda’. Dallo sp. e cat. presa.

queridu agg. q. ‘caro’. Dallo sp. querido.

quizas avv. giud. ‘forse’. Wagner (DES, I, p.346) segnala la voce come log. ant. Dallo sp. quizás.

rasgari v. tr. ‘lacerare’. Dallo sp. rasgar.

recamara s.f. ‘guardaroba’. Wagner (DES, II, p.341) segnala la voce recàmera come log. Dallo sp.

recámara.

receta s.f. ‘ricetta’. Dallo sp. receta.

recomendacioni s.f. ‘raccomandazione’. Dallo sp. recomendación.

recopilari v. tr. ‘riassumere’. Nov. 294: in unu coru ingratu si binti compendiadus, e’ recopiladus

totu is vicius. Dallo sp. recopilar.

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remontari v. intr. ‘salire’. Dallo sp. remontar.

renzilla s.f. ‘risentimento’. Dallo sp. rencilla ‘alterco’.

resplandeziri v. intr. ‘risplendere’. Dallo sp. resplandecer.

resplandori s.m. ‘splendore’. Dallo sp. resplandor.

ruidu s.m. ‘rumore’. Dallo sp. ruido.

sino 1) cong. avv. ‘ma’. 2) prep. ‘tranne’. Dallo sp. sino.

tercu agg. q. ‘ostinato, duro’. Nov. 319: O coru miu tercu, y obstinadu! Dallo sp. terco.

torpeza s.f. ‘turpitudine’, non ‘torpore’ come sostiene la Atzori (pag. 40). Nov. 158: su coru nostu

esti in sa torpeza. Dallo sp. torpeza ‘turpitudine, goffaggine, lentezza, pesantezza, inettitudine’.

zimitarra s.f. ‘scimitarra’. Spano (Voc., IV, p.274) segnala la voce come log. Dallo sp. cimitarra.

La Atzori a pag. 38 segnala la voce bodas ‘godi’, interpretata come II p. ind. pres. di un inesistente

verbo *bodari: si tratta invece del sost. boda ‘matrimonio’ (dallo sp. e cat. boda): Nov. 427: In is

bodas de Cana de Galilea ‘Alle nozze di Cana in Galilea’. Anche le voci *amistu ‘amico’ e

*cenaculadu ‘cenacolo’, che a parere della Atzori sono tratte dai corrispondenti termini spagnoli,

risultano inesistenti nel Novenariu.

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5. LA VIDA DE SANTU POTITU

La Vida, Miraculus, e Martiriu de Santu Potitu è un codice manoscritto anonimo non datato di

quattro fogli, facente parte della collezione Baylle e conservato alla Biblioteca Universitaria di

Cagliari. Nel sottotitolo esso è detto traduzione in sardo dell’opera scritta in latino, presente in un

codice cagliaritano e già inviata al famoso annalista ecclesiastico, il cardinale Cesare Baronio

(1538-1607).

La Vida descrive le straordinarie imprese di San Potito, sardo di nascita e martire all’età di soli

tredici anni. Al termine della narrazione della vita del santo, è citato il passo degli Annales

Sardiniae di frate Salvador Vidal (1581-1647), nel quale è trattato tale argomento.

La Vida è un importante documento della lingua campidanese, ancor oggi facilmente comprensibile.

Ecco le caratteristiche piú interessanti, a cominciare dalla grafia.

I gruppi ch e gh, davanti a e ed i, indicano suono gutturale, come in italiano, e cosí pure i

corrispondenti suoni palatali sono espressi alla maniera italiana con ci/ce e gi/ge; per l’affricata

prepalatale sonora davanti a u, a, o, sono presenti le due forme con gi- e j-, quest’ultima alla

spagnola (Angiulu e Anjulu, giai e disiju). La cacuminale sonora è sempre data dal digramma dh

(cudha), qui attestato per la prima volta nella storia della lingua campidanese. Le occlusive e nasali

intervocaliche sono rese o con scempia, o con geminata (babbu, possibbili, immoi ma ecu, comenti,

imoi; subbitu e accapiau manifestano, in una parola stessa, le due diverse tendenze di scrittura). Le

palatali nasali e laterali si presentano con gn e gl seguite da e/i: in un’occasione sola si ha

degoglaidhu. La fricativa prepalatale sorda è espressa con sc (apparescit), con x (executau) e con sx

(nisxunu), la corrispondente sonora solo con x (boxis, quindixi). L’affricata dentale sorda è resa

sempre con z scempia (poza). Non mancano, infine, esempî di scritture etimologiche (exiliau,

Christu). Ciò che piú colpisce nel manoscritto, peraltro, è l’accentazione indicata nella maggioranza

delle parole, e la distinzione delle vocali e ed o secondo la loro apertura e chiusura: le vocali toniche

i ed u (per natura sempre chiuse), a (per natura sempre aperta), e aperta e o aperta sono segnate tutte

con accento grave, mentre e ed o chiuse sono indicate con i due punti soprastanti (ë, ö).

Un’indicazione tanto meticolosa induce a pensare ad un traduttore dagli spiccati interessi linguistici,

ma il fatto che spesso l’accento sia una correzione del punto sopra la i, consente di supporre

l’intervento successivo di una mano diversa, come suggerisce pure l’inserimento a bordo di pagina

della congiunzione chi dopo un pues: ciò, probabilmente, è opera di un’altra persona, benché poi vi

sia un’occorrenza dello stesso pues chi (pués è congiunzione causale castigliana, passata in sardo ed

usata, fra gli altri, da Giovanni Delogu Ibba nel Settecento e Antonio María da Esterzili alla fine del

Seicento; cominciò quindi a indebolirsi il suo valore causale a vantaggio di quello d’avverbio di

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tempo, e le si aggiunse allora, per mantenere il significato causale, l’altra congiunzione chi, forse

per influsso dell’italiano poiché). Nella punteggiatura va rilevato l’uso, anch’esso secentesco, della

virgola prima della congiunzione e.

Sul piano specificamente fonetico, è notevole l’uso del verbo getai, con affricata prepalatale sonora,

in luogo del moderno ghetai72; in bandat e bessiri s’osserva l’incorporazione dell’originario

avverbio di luogo bi nel verbo per fonetica sintattica, mentre l’articolo determinativo non subisce

elisione, ché invece avviene aferesi della vocale successiva (su ’mperiu).

In morfologia si nota: l’uso di uno specifico pronome complemento per la seconda persona

singolare (de tei); forme d’imperfetto in -eda, alternate con quelle in -iat, nella coniugazione in -iri;

gerundio in -endu, talvolta prolungato in -enduru; congiuntivo presente di lassai in lessi;

congiuntivo imperfetto regolarmente in -essi, ma è presente anche un fussit, di sicura origine

italiana, al posto dell’abituale fessit; compresenza di forme participiali diverse in uno stesso verbo

(istada e istetia). Il participio passato della coniugazione in -ai è -au al maschile, mentre la

coniugazione in -iri (e piana e sdrucciola) mantiene la fricativa intervocalica (posseída, lómpida). Il

perfetto non è attestato, ed è normalmente supplito nelle sue funzioni dal trapassato prossimo.

Nella sintassi meritano attenzione l’uso del condizionale presente nella dichiarativa subordinata,

quando essa esprime un’azione futura (naràda chi no’nd’iat a benni); la protasi dell’irrealtà

all’indicativo imperfetto (si no beniat ...); il gerundio con funzione di participio congiunto

(henduridhu agatau fend’orazioni); la subordinata implicita con soggetto diverso da quello della

reggente (dhu presentant’a is leonis po essiri devorau).

Il lessico è caratterizzato da una gran mole d’ispanismi, alcuni non rintracciabili nei vocabolarî di

sardo (apparesciri < cat. appareixer, posseída < sp. e cat. pos(s)eida). Non è però da trascurare il

peso degli italianismi, dei quali alcuni esprimono sottili sfumature di significato (portai ‘sopportare’

e parai ‘prospettare’, dall’it. ‘porgere, offrire’), altri sono calchi (is calis).

In definitiva, la Vida de Santu Potitu sembra ascrivibile all’epoca di transizione culturale della

Sardegna dall’orbita spagnola a quella italiana, ed è lecito collocare cronologicamente la

composizione del manoscritto intorno all’anno 1750.

72 Poiché tanto Frate Antonio María quanto Cossu testimoniano la forma palatalizzata, l’esistenza di getai accanto aghetai è indubbia: è chiaro che, nel campo della palatalizzazione, la fonetica storica campidanese va rivista.

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6. I GOCCIUS DE SANTA BARBARA

Il componimento è conservato alla Biblioteca Universitaria di Cagliari, fra i manoscritti Laconi. I

Goccius de Santa Barbara, in base all’indicazione di catalogo, furono composti a seguito della

caduta di un’ala del monastero di Santa Caterina in Cagliari, il 27 Dicembre 1747.

Alcuni tratti lessicali e morfologici inducono a credere che l’anonimo poeta fosse cagliaritano,

come lo stesso argomento e le stesse circostanze di composizione confermano. Per quanto

riguarda la grafia, si nota che essa, trent’anni dopo il passaggio dell’isola ai Savoia, è di tipo

italiano: gn indica palatale nasale (carignus), gia affricata prepalatale (giai), ghe e chi

gutturali sonore e sorde (preghera, chi). Un tratto superstite di scrittura iberica è invece la x,

usata per rappresentare la fricativa prepalatale sorda (naximentu). La lettera z indica affricata

dentale sorda (innozenti), ed in un caso è impiegata anche dopo n per esprimere l’effettiva

pronunzia del gruppo ns (cunzervas, ma inserras con grafia etimologica); si nota inoltre

oscillazione di scrittura fra -t e -d nella desinenza verbale di III persona singolare (assegurad,

mandad ma anche mandat). In morfologia si rilevano il genere maschile di dus fontis ‘due

fonti’, che è un cultismo d’origine italiana (l’autore adopera duas funtanas come sinonimo), il

congiuntivo imperfetto in -essi (maltratessit) e il gerundio in -endu (timendu). Gli elementi

caratteristici – ma non esclusivi – del campidanese di Cagliari sono l’uso di fiat e non fut

come imperfetto di èssiri (III persona singolare), e i termini sèu ‘cattedrale’, de undi ‘di dove’

e inní ‘lí’ per quanto attiene al lessico. Sul piano della sintassi, si rileva l’uso del congiuntivo

trapassato in una proposizione finale, laddove in italiano compare il congiuntivo imperfetto:

po chi inní ti essinti fertu.

Nello stesso foglio, sul cui lato sinistro si trova l’ultima parte dei Goccius de Santa Barbara,

comincia un’altro inno sacro, scritto da mano diversa: i Goccius de su sacratissimu e dulcissimu

coru de Gesú Redentori nostru, che portano la data del 1766. La lingua non si allontana da quella

del precedente componimento, se non per un gerundio in -endi (concedendiddi); si ha poi gli per la

palatale laterale (briglianti), e nos come clitico di I persona plurale.

Molto numerosi furono i componimenti di questo genere, onde gli autori sono rimasti per lo piú

anonimi: parecchî non ebbero mai pubblicazione scritta, e certo ve ne sono alcuni rimasti conservati

in qualche biblioteca senza essere stati ancora divulgati. Codesti di Santa Barbara e del Cuore di

Gesú sembrano essere fra i piú antichi.

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7. IL CATECHISMO DEL CORONGIU

In Italia ebbe vasta diffusione, nella seconda metà del Settecento, il catechismo di monsignor

Michele Casati (1699-1782). Il testo fu tradotto in campidanese nel 1777 per iniziativa di don

Francesco Maria Corongiu, che però non fu l’esecutore dell’opera, affidata a un altro sacerdote

rimasto anonimo ma sotto la supervisione dello stesso Corongiu. Il Catezismu rivela la

preoccupazione della Chiesa di trasmettere al popolo i principî della fede, e fu una delle principali

fonti per l’istruzione dei fedeli di Cagliari e della Sardegna meridionale; essa occupa poi un posto

importante nella storia delle traduzioni in sardo. L’autore mostra di nutrire scarsa fiducia nelle

capacità espressive del sardo: eus procurau ... chi fussit tradusiu in su Sardu vulgari de custu Cabu,

in sa mellus manera, ch’est’istau possibili, atendida sa variedadi, e iscarzesa de sa pronunzia, e de

is terminus de custu dialetu73.

L’inclinazione del traduttore è ad attenersi strettamente al testo del Casati, e di semplificare, dove è

possibile, i concetti: il periodo dobbiamo particolarmente ricorrere al nostro Angelo custode, a’

Santi, di cui portiamo il nome, e a’ Santi Protettori della diocesi, e della Parrocchia è reso

pedissequamente con depéus particularmenti recurriri a s’Angiulu nostu Custodiu, a is Santus de is

calis portaus su nomini, e a is Santus Protettóris de sa Diozesi, e de sa Parrocchia . Talvolta anche

parole sarde genuine assumono il valore semantico italiano, come intendiri nel senso di ‘volere’, e il

sintagma benganta variadas ‘siano variate’.

La grafia segue il modello italiano, pur con qualche tratto superstite iberico. Uno è l’uso di x (e

talvolta xi- davanti a a, o, u) per la prepalatale sorda: connoxi, nixunu, exercitai, naxias ‘nate’; la

stessa lettera è adoperata anche per la corrispondente consonante sonora: xelu. Sporadicamente si

trovano anche qu- e gu- velari davanti a e, i: ispliquendu ‘spiegando’, piguit ‘prenda’.

In fonetica si notano frequenti adattamenti di termini cólti alla pronunzia campidanese: recuberai,

iscarzesa, Diozesi. La i- prostetica è frequente: iscola ne è esempio. Vi sono varî esempî di ar-

prostetico: arresussitau, arrobas ‘beni’, arrebivai ‘ravvivare’. Tra i casi d’epentesi, aturus ‘altri’.

Il pronome di II persona plurale atono è osi, quello di I è nosi, quello di III è insoru. Il pronome

clitico è posposto all’infinito verbale: accusaisí, salvaisí, proponniosí ‘proporvi’, salvainosí

‘salvarci’; alla terza persona singolare può perdersi -s di ddis: comenti d’iat fatu ‘come aveva fatto

loro’. Il pronome personale può essere rafforzato con e totu: nos’e totu ‘proprio noi’. Il pronome

relativo è usato alla maniera italiana: oltre al cultismo cali, si veda chi, adoperato in quest’ esempio:

modus, cun chi de bosaturus s’annunziat sa santa Lei ‘modi, coi quali da voialtri è annunziata la

santa Legge’. L’indefinito tottu, al nome, si declina al plurale: tottus is ominis.

73 Si noti la scelta del vocabolo dialetu; esso è inoltre definito su Sardu vulgari de custu Cabu: il termine campidanesenon era ancora usato.

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Nel settore verbale, si segnala come rarissimo l’uso del perfetto in -esi (cumenzesid). Il congiuntivo

imperfetto fussint ‘fossero’ è preso dall’italiano. Il gerundio, di regola in -endu, può ampliarsi in

-endur-, soprattutto se è seguito da pronome: accumpangenduriddus, declarenduriddis ‘dichiarando

loro’, in alternanza con -end- (dimandendiddi e donendiddi). I participî passati sono in -adu (meno

spesso -au) e -iu (ma talvolta -idu): preparadu e istimadus ma istau ‘stato’, intendius, intimorius.

Nel verbo ‘essere’, est del presente diviene piú d’una volta es davanti a consonante sonora: es Deus,

es nezessariu.

Per ‘esistere, esserci’ è preferito il sintagma inci airi: non c’iat duda ‘non v’è dubbio’. Il periodo

ipotetico dell’irrealtà ha il condizionale nella proposizione principale, e il congiuntivo imperfetto

nella subordinata: iant’a essiri ... si s’osservessit. Il futuro anteriore s’avvale di airi come ausiliare:

ant’ai aprendi beni ‘avranno appreso bene’. Di frequente l’aggettivo è preposto al nome:

particulari instruzioni, Santissima Trinidadi. Diffusa è la congiunzione povinzas ‘finché’ parimenti

a poita chi causale, mentre benisí ‘benché’ è calco dell’italiano. Modellati sull’italiano sono anche i

numerosi avverbî uscenti in -menti. Appartiene certo alla lingua viva il nesso di preposizione con

participio: depustis papau ‘dopo aver mangiato’.

Il verbo imparai è usato con costruzione personale, equivale cioè a ‘istruire’. Molti forestierismi

spagnoli ben si riconoscono nella grafia di tipo italiano: glianu ‘piano’, resussitai, sienzia ‘scienza’.

Il lessico d’origine iberica è davvero significativo: vi sono voci oggi scomparse in sardo, quali

chissàs ‘forse’, recaídas ‘cadute’.

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8. ANTONIO PURQUEDDU

Il sacerdote gesuita Antonio Purqueddu (Senorbí 1743-Cagliari 1810) è autore di un poema

didascalico in campidanese con versione italiana, De su tesoru de sa Sardigna, pubblicato nel 1779.

L’opera si compone di tre canti in ottave, con l’aggiunta di un corposo apparato di note, e tratta

dell’allevamento dei bachi da seta e della coltivazione dei gelsi, i quali in quel tempo, secondo le

direttive dell’amministrazione sabauda, parevano rappresentare occasione di grande sviluppo

economico per l’isola.

Sul piano linguistico si rileva subito che il modello ortografico è tutto italiano, senza tratti iberici,

come dimostrano le voci lettisceddus, rescioni, boscis, in cui la fricativa prepalatale sonora è resa

con sc- e mai con x; in escemplu ‘esempio’ è riflessa la pronunzia spagnola con grafia italiana. La

consonante cacuminale è espressa con d: du, da, peddi, cudda. Alcuni fatti fonetici, quali le

assimilazioni di rc > cc in cicanta < circant-a ‘cercano’ e accovecada < acobercada ‘coperchiata’

dimostrano la provenienza dell’autore dalla pianura del Campidano. C’è epentesi in quatturu

‘quattro’. Dopo l’articolo determinativo plurale is, è d’obbligo i- prostetica, che negli altri casi è

facoltativa: is istrofas, is isprigus, e a istrubbai ‘a disturbare’, o istofas, ma cun sperimentus, una

strofa. Anche fenomeni di fonetica sintattica trovano interessante espressione nella scrittura del

Purqueddu: in bosci e bagadia ‘voce di vergine’ d- della preposizione è caduta senza lasciare

traccia; d- cade anche in casi quali no d’ongais ‘non dategli’, mentre in ed a < e a la congiunzione

acquista qeusta -d eufonica italianeggiante forse per esigenze di metrica. Il pronome enclitico di II

persona, che doveva subire lenizione nella pronunzia, è scritto con la consonante originaria: faitì

tenni. I pronomi atoni di I e II persona plurale sono nos(i) e os(i), mentre il pronome soggetto di II è

bosu o bosateras. Dopo la preposizione cun, si hanno forme quali cun tegus.

La desinenza verbale di III persona singolare cade davanti a consonante: dis podi fairi dannu ‘può

far loro danno’, di mudi ‘gli muti’, si oli nadu ‘si vuol detto’; anche -nt di III plurale per esigenze

metriche può cadere (portan).

Il futuro è costruito sempre analiticamante (has a biri), si conserva il perfetto in -esi: cantesi,

conservesti, patesit ‘patí’. L’imperfetto di airi, usato anche come ausiliare per il condizionale, ha ia

alla I persona: ia bolli intendiri ‘vorrei sentire’. Il congiuntivo imperfetto di èssiri presenta forme di

origine italiana (fussi, fussint) anziché catalana in -essi, come hanno gli altri verbi, tra cui airi

(essinti ecc.) L’infinito di prima coniugazione esce in -airi o -ai: incontrairi, pensairi, e dimandai,

donai; quello di seconda e terza coniugazione in -iri (intendiri, concluiri, balliri) può troncarsi

(bolli). Nel participio la consonante desinenziale -d- non sempre è mantenuta, in quanto la prima

coniugazione mostra -adu prevalente su -au (cambiadu ma duplicau), e la seconda alterna -idu/-ida

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con -iu/-ia: dormidus e nascida, ma intendiu e tradusia. Il gerundio esce soltanto in -endu, talora

prolungato in -ru. In alcuni verbi sono presenti forme di origine spagnola, come tengu e bengu. Il

verbo airi è usato spesso come transitivo: has hai dis ‘avrai giorni’, han sa prus gravi cura. Il verbo

andai, per influsso italiano, è usato talvolta come ausiliare: andu liggendu ‘vado leggendo’.

Nelle proposizioni subordinate è largamente usato il modo congiuntivo: pochì stetanta, o tottu

essinti bistu. Come congiunzione condizionale è sempre usata si.

Per quanto riguarda il lessico, non mancano crudi italianismi, come pancia ed ecco.

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9. GIUSEPPE COSSU

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Giuseppe Cossu (1739-1811), cagliaritano, avvocato ed economista, nel 1767 fu nominato

Segretario della giunta istituita per amministrare i Monti frumentarî o granatici, cioè i

magazzini di raccolta del frumento, esistenti negli antichi consorzî agricoli; nel 1770

ottenne la carica di Censore generale. Fra il 1788 e il 1789 pubblicò due dialoghi in

campidanese con versione italiana a fianco, intitolati Moriografia sarda e Seriografia

sarda: nel primo s’insegna la coltivazione dei gelsi, nel secondo s’illustrano le tecniche

per allevare i bachi e produrre la seta. Di Cossu possediamo documenti piú antichi: fra le

carte della collezione Laconi, per esempio, è presente la copia di una circolare, redatta

nell’Aprile del 1769 e rivolta alle amministrazioni locali per sollecitarle a fornire alcuni

chiarimenti sulla produzione agricola, la quale presentiamo in appendice.

Il testo sardo, nelle opere di Cossu, si presenta come una traduzione dall’italiano, non letterale e

spesso semplificata: il suo scopo è di rendere comprensibili anche ai destinatarî

esclusivamente sardofoni le disposizioni impartite. La grafia adoperata s’ispira al

modello italiano, ma sono evidenti alcuni tratti spagnoli: il digramma gu per esprimere la

velare sonora davanti alle vocali e ed i (siguinti ‘seguono’, piguendu ‘prendendo’), e qu –

piú raro – per la velare sorda (qui pronome relativo); la lettera x per rendere la fricativa

prepalatale sorda (connoxit ‘conosce’, paxxit ‘pasce’, exemplu). Le occlusive

intervocaliche e le vocali paragogiche presentano oscillazione nella scrittura:

depint/depinti/deppinti, addirittura piticu/piticcu/pitticu/pitticcu. Nel testo sardo,

differentemente da quello italiano, si trovano anche pochi casi di scrittura etimologica:

existenti. In fonetica è importante l’alternanza di gettai e ghettai. La i- prostetica è usata

sovente: isperdida, istendiriddas ‘stenderle’, ma stasoni ‘stagione’ accanto a istasoni (sp.

estación); frequente è l’uso di ar- prostetico (arremonai ‘rimembrare’, arrespostas).

Nel verbo si segnala la presenza del gruppo -ng- in alcune forme verbali (tengu: è spagnolismo), e

l’alternanza di sunti e funti. Il congiuntivo imperfetto è in -essi, ma fussi per il verbo

‘essere’. Il gerundio può assumere il prolungamento in -ru: si hanno, per lo stesso verbo,

le due forme di gerundio spezifichendu e ispezifichenduru; i participî passati sia in -adu e

-idu, sia in -au e -iu. Il verbo nàrriri è vicino alla forma originaria (lat. narrĕre).

Fra gli indefiniti si segnala nisciunu regolarmente posposto (duda nisciuna). Gli aggettivi propriu e

grandu (d’origine rispettivamente spagnola e italiana), premessi a nomi femminili, sono

lasciati invariati: sa propriu Bidazoni, una grandu diferenzia. Il condizionale è sempre

del tipo in iat a + infinito. Un calco dall’italiano è la locuzione preposizionale baxu pena

de ‘sotto pena di’.

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La prosa di Cossu segue il ritmo di quella italiana, con periodi lunghi e complessi, ma trovano posto

anche tipici costrutti sardi, come il relativo polivalente: is plantas si manteninti attraendu de sa

terra cuddas particulas, chi ddis abbastada po mesu de is arrexinis ‘le piante si mantengono

attraendo dalla terra quelle particelle, che lor convengono per mezzo delle radici’.

La Moriografia e la Seriografia, riunite in un volume dal titolo La coltivazione de’ gelsi e la

propogazione de’ filugelli in Sardegna, sono particolarmente preziose per le testimonianze

nell’ambito del lessico: l’opera non tratta temi religiosi, come le altre opere in prosa già esaminate,

che abbondavano dei cultismi del settore, e si apre dunque al linguaggio vivo del mondo contadino,

facendo ricorso a tutti i necessarî tecnicismi.

Nel libro di Cossu troviamo diverse parole che nei dizionarî antichi e moderni mancano, ovvero

sono presenti ma non ritenute campidanesi: si hanno voci quali abrigai ‘riparare’ (< sp. abrigar) e

arrancai, ritenute da Wagner solo logudorese, copiolus ‘gemelli’ (derivato dell’it. coppia), dal

Tedesco ascritta al logud. settentrionale, avrincaisí ‘piegarsi’ (da avra < lat. aura), inconesciu

‘inopportuno, incoerente’ (sp. inconexo ‘sconnesso’). Si trovano anche parole dotte in forma

spagnola (esciofagu, influxu) ed è da rimarcare la presenza di svariati iberismi (porventura ‘forse’).

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10. EFISIO PINTOR SIRIGU

Il noto avvocato cagliaritano Efisio Pintor Sirigu (1765-1814) detto Pintoredhu, protagonista delle

vicende politiche del suo tempo, compose liriche in latino e italiano, e scrisse in campidanese una

serie di poesie satiriche, molto elaborate metricamente, sí che furono denominate cantzonis a curba

‘canzoni a strofe’. Gli furono attribuite le rime religiose pubblicate nel 1833 a Cagliari nella

raccolta dei Canti popolari di Sardegna, ma esse risultano essere opera del contemporaneo Efisio

Luigi Pintor Navoni.

La lingua di Pintor Sirigu si può ben definire cagliaritana, perciocché in essa si trova testimonianza

di quegli elementi, soprattutto morfologici e lessicali, che i glottologi moderni hanno ritenuto

caratteristici del campidanese meridionale, e dalla zona di Cagliari diffusisi poi in quasi tutto il

Capo di Sotto: pronomi enclitici di I e II persona plurale in si (< nosi e bosi); imperfetto di prima

persona in -emu (II classe) piú frequente che in -ia; imperfetto di ‘essere’ con femu e fiat;

congiuntivo imperfetto in -essi anche per il verbo ‘essere’; infiniti solo in -ai e -iri, quest’ultimo

frequentemente troncato in -i; participî solo in -au e -iu; forme dei verbi ‘tenere’ e ‘venire’ con -ng-

spagnolo (tengu, bengant ecc.); l’infinito passato ha l’ausiliare èssiri e non àiri (su dd’essi

acchistau ‘il fatto d’averlo acquistato’).

Per alcuni altri aspetti la lingua di Pintor Sirigu è piú conservativa: il gerundio esce sia in -endi, sia

in -endu, ed entrambe le forme possono prolungarsi in -ru; è frequente la prostesi di i- dinanzi ai

gruppi consonantici con s-, in ogni posizione; est del verbo ‘essere’ passa a es davanti a consonante

sonora.

Si può insomma sostenere che la grammatica campidanese, nei duecento anni che separano Pintor

Sirigu dalla lingua scritta contemporanea, non abbia subito variazioni di rilievo.

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11. LE CONSTITUZIONIS PO SA CUNFRARIA DE SANT’EFIS

Le Constituzionis po sa Illustri Cunfraria de Sant’Efis de sa bidda de Quartu (1802)74 mostrano un

processo di italianizzazione decisamente avanzato. L’italiano è divenuto l’indiscussa e unica fonte

letteraria di riferimento e questo testo, che comunque mantiene – è bene precisarlo – una struttura

fonomorfologica rigorosamente sarda, appare molte volte una traduzione dall’italiano in

campidanese: prova di ciò è la frase una maggiori devozioni iguali a sa maggiori regolaridadi de

sa giai nada alternativa. Vi sono anche prestiti italiani nemmeno adattati: Settembre, Marzo.

La grafia, come è facile dedurre da tale premessa, è basata su quella italiana: la fricativa prepalatale

sonora, che in italiano non esiste, è resa con x, mentre l’occlusiva cacuminale sonora compare ora

come doppia dd (si ddi ‘glie lo’), ora come d scempia (dus ‘li’, pronome proclitico). La x, d’altra

parte, per eredità spagnola può indicare anche la prepalatale sorda, come in exerziri ‘effettuare’ e in

merexiaus ‘meritiamo’ (congiuntivo presente): si noti il gruppo xia- scritto in analogia con scia-,

parimenti che in dexiottu. Nell’aggettivo possessivo inzoru ‘loro’ si manifesta il passaggio -nts- <

-ns-. Le incertezze grafiche non sono molto frequenti: tra queste in dat a podiri fai ‘ne potrà fare’,

con in dat in luogo di indi at.

In morfologia è rilevante il mantenimento della forma non aferetica dei pronomi personali:

illuminainosi ‘illuminateci’, nos perdonit, os airi ofendiu. Il gerundio con uscita in -endu prevale su

quello in -endi, e si trova anche -enduru. Il participio passato del verbo ‘stare’ è debole: cun tegus

est istau. Fra gli aggettivi indefiniti è ancora vitale alguna. A parte il relativo su cali, non raro in

letteratura, un calco sintattico dell’italiano si trova nell’espressione s’at a stai congreghendu. Una

voce spagnola antiquata è desde ‘da’ (desde su primu annu)75. L’aggettivo asuli ‘azzurro’, che ci

pare non essere attestato altrove, è variante di asulu (< sp. azul). Il sostantivo abidu, specifico del

lessico ecclesiastico, significa ‘abito talare’.

Non bisogna dimenticare che, nonostante l’influenza italiana già posta in evidenza, nel terreno della

Chiesa erano fissate radici iberiche ancora ben salde, come prova la nota d’approvazione dello

statuto, firmata dall’arcivescovo di Cagliari Diego e controfirmata dal segretario Juán Zapata, la

quale è scritta in ispagnolo.

Discorso simile, riguardo all’influsso italiano, può essere fatto per altri libri ottocenteschi, i quali,

piú che traduzioni in sardo di testi italiani, sono le stesse opere italiane in veste morfologica sarda:

buon esempio forniscono le Brevis lezionis de ostetricia del chirurgo cagliaritano Efis Nonnis, che,

nella dedica al professor Solinas, dichiara “mi seu serbiu ancoras de sa lingua patria po sa prus

74 L’edizione piú recente è a cura di Anna Castellino e Linda Garavaglia, Gasperini, Cagliari, 1998.75 Nell’edizione del 1998 si legge dende.

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facili intelligenzia de dognunu”. Che volgarizzazioni di questo genere fossero accessibili ad un

pubblico poco cólto, si può legittimamente dubitare, visto il costante impiego dei termini tecnici

della medicina italiana.

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12. LA PARAFRASI DEL SALMO CINQUANTESIMO

L’opera, pubblicata dalla stamperia civica di Carlo Timon nel 1823, proviene dalla raccolta Laconi

ed è un componimento di centoquarantaquattro versi in ottave. Il termine ‘parafrasi’ è inteso non

solo e non tanto come esposizione del testo latino, per mezzo di parole diverse, quanto come libera

riflessione e meditazione dei varî passi del salmo.

L’opera, stilisticamente ben curata, è un buon esempio di campidanese illustre del primo Ottocento,

e offre elementi utili per la storia della lingua. La grafia segue decisamente l’alfabeto italiano, e di

spagnolo resta un solo tratto, la lettera x che, in concorrenza con sce/sci, indica la fricativa

prepalatale sorda: a sciu e conosci’ ‘conoscere’ si contrappongono conoxiu, in cui la -i- è inutile

simbolo grafico in analogia con lo stesso trigramma italiano sci-, ed exemplu (qui il grafema non

pare avere valore etimologico); la x è usata anche per la corrispondente consonante sonora,

inesistente nel sistema fonologico italiano (rexoni, cumplaxeis). Per l’affricata dentale sorda si usa

solo z: zerriau, pozza ‘che io possa’. La vocale e in iato può passare a i (di essiri, i heis a essiri). Le

consonanti intervocaliche dalla pronunzia intensa sono quasi sempre scritte doppie. Sono segnati gli

accenti per indicare il timbro delle vocali e ed o. L’infinito apocopato è segnato con l’apostrofo.

Un’incertezza grafica si riscontra al verso 70: non de ddu pighéis, con de che sta per relativo di

luogo nde/ndi. Nelle forme del verbo ‘avere’ compare h- etimologica, ed il pronome relativo è

scritto su quali.

Numerosi sono i fatti interessanti di morfologia. I pronomi enclitici, uniti all’imperativo dei verbi,

prendono sempre l’accento (castiaimì, agatendumì); il pronome di II persona plurale si presenta

nelle diverse forme bosu (tonico), os(i) e si (atoni). Il congiuntivo imperfetto ha desinenza -essi

(fessi). Il gerundio esce in -endu (sighendu, cantendu), in un caso allungato in -ru (essenduru). Il

participio passato solitamente esce in -au/-ada e –iu/-ia (incadenau, obbligau, benìu, dividìu), ma

quello di seconda coniugazione per motivi metrici può mantenere -d-: seu stetid’obbligau. Si nota

l’assenza del perfetto, sostituito nelle sue funzioni dal trapassato prossimo (idd’hestis revelau ‘lo

rivelaste’). La congiunzione concessiva mancai richiede il verbo al modo congiuntivo (mancai

dignu non sia), il quale modo è usato nelle proposizioni finali (osì pregu, chi innantis mi limpiéis).e

temporali (innantis chi deu torri). Esempî di stile letterario sono il pronome relativo su quali e il

frequente uso della forma passiva. Un tipico costrutto implicito sardo si ritrova al v. 60: su quali

pregu a bosu a mi donai. Un evidente italianismo sintattico, a parte l’aggettivo – anche possessivo –

spesso preposto al nome, è la locuzione avverbiale de su tottu ‘del tutto’. L’aggettivo femminile

esenta è una forma antiquata del moderno esente, e riprende il latino exemptus.

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13. IL VANGELO DI MATTEO TRADOTTO DA FEDERIGO ABIS

L’opera rientra nel progetto del principe Luigi Luciano Bonaparte (1813-1891), che si poneva il

fine di documentare comparativamente gli idiomi parlati in Europa, per mezzo della traduzione di

passi biblici. Nel 1858 uscí il Vangelo di Matteo tradotto in sardo logudorese dal canonico Giovanni

Soano, due anni piú tardi il Vangelo di S. Matteo, volgarizzato in dialetto sardo cagliaritano

dall’Avv. Federigo Abis. Entrambe le versioni dal latino (Vulgata Clementina) furono pubblicate a

Londra in una tiratura di sole duecentocinquanta copie, e furono seguite dalle traduzioni del Libro

di Rut, del Cantico de’ Cantici di Salomone, dalla Profezia di Giona e dalla Storia di Giuseppe

Ebreo.

La grafia è ispirata al modello italiano, con eccezione di qualche cediglia (çittadi, saçerdotus), e

non s’ispira a criterî etimologici, piuttosto cerca di esprimere la pronunzia reale (cattodixi

‘quattordici’).

È usato il pronome relativo su cali, cultismo. I pronomi personali atono di I e II persona plurale non

presenta aferesi: liberanosì de dogna mali, osi nau, osi battiu ‘vi battezzo’. Per quanto riguarda i

verbi, si notano bidit ‘egli vede’, stiant ‘stavano’; l’imperativo di andai esce sia in baxi sia in andai.

Il participio di cumparri è cumpartu (fiat cumparta). L’indicativo perfetto non è usato, ed in sua

vece si impiega di norma il trapassato prossimo: E candu fiant intraus a Gerusalemmi, si fiat posta

in motu totu sa çittadi. Il congiuntivo imperfetto, usato frequentemente, è sempre in -essi (bollessit,

si citessint ‘si zittissero’). Anche nomi proprî sono adattati alla morfologia campidanese, come

Nazarettu e il succitato Gerusalemmi.

Sul piano della sintassi, sono evidenti alcuni cultismi e italianismi, come il gerundio narrativo, usato

con funzione di subordinazione causale-temporale: essendisì sposada sa mamma de Issu Maria cun

Giuseppi, innantis chi bivessint impari, s’est incontrada pringia po opra de su Spiritu Santu, ovvero

hendi Gesus acabau totu custus discursus. Per indicare la posteriorità rispetto ad un’azione del

passato, è adoperato il condizionale presente: ddis domandàt aundi hiat a nasciri Cristus

‘domandava loro dove sarebbe nato Cristo’. Compare anche il costrutto passivo: su ch’est stetiu

nau de su Signori.

Il verbo sfendiai ‘partorire’ è costruito con de: sfendiai de unu fillu.

Il lessico rivela lo sforzo di esprimere i concetti con parole in uso, e non con latinismi evangelici:

frastimai e frastimu si contrappongono a blasphemare e blasphemia, presenti nella traduzione di

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Spano in logudorese; il lat. redemptio è reso con rescatu, dilectus è vòlto in stimau. L’evangelico

mensas nummulariorum ... evertit, ‘rovescia i tavoli dei cambiavalute’, per esempio, è tradotto con

sciusciat is mesas de is cambistas.

Sono presenti anche iberismi che, al tempo di Abis, già dovevano essere poco diffusi: offressiri

‘offrire’ (dallo sp. ofrecer), accumpliri ‘compiere’ (dal cat. acomplir).

Nel complesso si può dire che le scelte linguistiche di Abis rispecchino l’idioma campidanese vivo,

a differenza della versione di Spano, densa di cultismi ortografici e lessicali e ispirata ad estremo

letteralismo.

Lo Spano tradusse poi lo stesso vangelo in sassarese nel 1866, preceduto dalla versione nel

gallurese di Tempio, curata da padre G.M. Mundula nel 1861: anche il principe Bonaparte, cultore

di linguistica appassionato delle lingue di minoranze, aveva riconosciuto l’esistenze di quattro

idiomi distinti in Sardegna.

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14. SA SCOMUNIGA DE PREDI ANTIOGU ARRETTORI DE MASUDDAS

Questo poemetto anonimo in settenarî ebbe diffusione orale per qualche decennio, e fu pubblicato

per la prima volta sur un foglio volante nel 1879: secondo il curatore Antonello Satta Sa scomuniga

fu composta intorno alla metà del secolo, all’epoca dell’abolizione delle decime. Prima del 1983 vi

era già stata una decina d’edizioni, alcune con differenze significative rispetto alle altre, giacché la

poesia ebbe vasta diffusione orale, e i criterî di grafia variarono notevolmente, anche a causa delle

difficoltà ad esprimere taluni suoni; l’edizione del 1942 è la piú famosa, poiché fu curata da

Wagner. Colui si occupò di questo componimento, perché è il primo documento letterario di chiara

impronta campidanese rustica, precisamente della zona della Marmilla, nella quale si trova il paese

del titolo, e la lingua usata non sembra pagare il solito debito dei testi letterarî sardi verso la

tradizione cólta.

Delle caratteristiche dell’area in questione, che nel poemetto sono fedelmente rispecchiate (in

particolare le metatesi e le assimilazioni e dissimilazioni vocaliche), si dirà nel prossimo capitolo;

qui accenniamo brevemente al lessico, che presenta parecchie voci notevoli. Parole quali

archiladori ‘sgarrettatore’, traberecu ‘tabernacolo’, manastai ‘mescolare’ (da manestu ‘minestra’,

piuttosto che da amonestai ‘ammonire’ incrociato con amesturai), incappa ‘forse’, perunu

‘nessuno’ (aggettivo indefinito, sempre posposto), fadigu ‘miseria’, annischizzai ‘infastidire’,

acuiai ‘condurre all’ovile’, cada ‘verso’ (preposizione, < sp. cara), intregai ‘consegnare’

forniscono preziose testimonianze di lingua popolare e oggi sono, per la maggior parte, cadute in

disuso. Si nota poi che i- prostetica è molto diffusa (qui ben piú che nel campidanese rustico dei

giorni nostri), il pronome si ha del tutto soppiantato (b)osi alla seconda persona plurale, il verbo

‘essere’ ha forme particolari (imperfetto VI persona: fuant e fuènt-a), il congiuntivo imperfetto di

‘avere’ e ‘essere’ esce in essi e fessi, l’infinito passato attivo ha l’ausiliare ai (no ai sonau ‘non aver

sonato’).

Dall’area oristanese provengono altri testi poemetti popolari anonimi, piú moderni di Sa scomuniga:

da Cabras Sa giorronada’e Conchiattu, da Sanluri (Sedhori) Sa predica de su para Usai, mentre un

disco ormai raro tramanda Is predicas de Predi Poddighe76.

76 A. Satta, Sa scomuniga, Cagliari, Della Torre, 1983, pag. 23. Conchiattu = conca de gatu.

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15. GLI SCRITTORI DEL NOVECENTO

In questo libro si è cercato di esaminare i maggiori testi scritti, ma non bisogna dmenticare che in

tutto il Capo di Sotto esiste un’antica tradizione poetica d’improvvisazione, e le voci dei cantatori

del Novecento sono state registrate. In qualche caso la poesia orale è stata messa per iscritto: per la

conoscenza del cagliaritano del primo Novecento, per esempio, la fonte migliore rimane la raccolta

di Raffa Garzia: i mille mottetti della tradizione sono preziosissima testimonianza di versificazione

popolare. Lo schema metrico di gran lunga prevalente nei mutettus è la quartina di settenarî in rima

alternata: Candu fait araxi / s’asçutant is paperis; / is mèris de Stampaxi / funt is arrigateris;

oppure Dúnnia àrburi ch’infrorit / su frutu in terra lassat: / tristu de chini morit / ca su prantu gi

passat. Ho usato il sistema di scrittura presentato nell’introduzione, servendosi Garzia di una grafia

fonetica illeggibile per i profani: la meticolosità della sua opera gli vale un posto di rilievo fra i

linguisti sardi del primo Novecento. Fra i meriti del Garzia, si ha che, dopo la Vita di San Potito,

finalmente in un testo scritto è indicato il timbro di e/o: possiamo dunque sapere che, per esempio,

ai suoi tempi si diceva morit (oggi è piú usato mòrrit); si alternavano benit e bènit, senza il

rafforzamento della nasale che adesso è comune, e allora c’era solo al participio: bénniu, in

concorrenza con beniu proprio come oggi; bessit aveva sempre la vocale chiusa, mentre mi còyu/mi

coyu presentava duplice timbro (ma nelle altre persone la o era sempre chiusa). Dall’ultimo mottetto

citato, si nota anche che dúnnia era preferito a dónnia, pòburu aveva vocale aperta, e cosí via per

altre particolarità cagliaritane.

Ai primi decenni del Novecento risalgono le commedie di Efisio Vincenzo Melis. Nelle sue opere,

segnatamente in Ziu Paddori, il tema principale è l’inizio della diffusione dell’italiano in un

ambiente sardofono; sono testi preziosi soprattutto per lo studio dell’italiano regionale di Sardegna,

ma offrono anche esempî interessanti sulla sintassi e sul lessico sardi. Di qualche decennio

posteriori sono le commedie di Antonio Garau, che hanno avuto una certa successo a partire dagli

anni Cinquanta.

Cagliari annovera un buon numero di poeti: a cavallo fra i due secoli Ottone Baccaredda (1849-

1921), Ignazio Cogotti (1868-1946) e Gaetano Canelles (1876-1942), poi nel Novecento Teresa

Mundula Crespellani (1894-1980), Luigino Cocco (1910-1997), Aquilino Cannas (1914-2005),

Franca Ferraris Cornaglia (1926), Luciana Muscas Aresu (1929) e altri.

I tratti dialettali cagliaritani si fanno sempre piú evidenti con gli autori piú recenti: Cocco, per

esempio scrive sempre mera per meda, come effettivamente oggi si pronunzia. I poeti cagliaritani

sono importanti per la storia della lingua, giacché badano in primo luogo a mantenere memoria del

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sardo parlato nei quartieri storici cagliaritani, soprattutto quella usato dai ceti elevati, a cui essi in

maggioranza appartengono, tanto che danno testimonianza di molte parole notevoli; salvo poche

eccezioni, non paiono minimamente interessati alle parlate campidanesi nel loro complesso, anzi

autori quali Canelles nei proprî versi compiutamente esprimono il tradizionale disprezzo provato dai

patrizî cittadini (ma il discorso vale anche per i popolani castedhayus) nei confronti dei paesani,

chiamati mayòlus, bidhunculòsus e cosí via. Il modello ortografico scelto da questi scrittori è

solitamente italiano: come scrive la Ferraris “Ogni sardo ha imparato e impara a scrivere e a

leggere esattamente in lingua italiana”. Nelle poesie degli autori suddetti s’incontrano taluni

vocaboli che mancano nelle principali selezioni lessicografiche: Matteo Porru segnala, fra gli altri,

incutuliu ‘sporco’, rancinosu ‘rauco, stridulo’, afateriai ‘faticare’77.

Il prosatore e poeta Francesco Carlini di Vallermosa (sardo Badhi Ermosa) rappresenta meglio di

altri l’indirizzo arcaizzante degli scrittori campidanesi moderni: vivi sono in loro il fastidio per

l’italianizzazione della lingua e il timore della sua scomparsa, cosicché eglino cercano di recuperare

quei termini, spesso usciti dall’uso comune, i quali fanno parte del patrimonio lessicale storico del

campidanese. Poiché la maggioranza dei lettori oggi non comprende buona parte degli arcaismi da

lui proposti, Carlini aggiunge la traduzione in italiano: siamo già nell’ottica della scrittura a fini non

soltanto letterarî, ma viepiú di difesa di della lingua. La prosa di Carlini è limpida, essenziale,

moderatamente influenzata dalla varietà rustica, e nel complesso definibile campidanese comune.

Salvator Angelo Spano, scomparso nel 2004, è autore di commedie e di Sa vida’e Gesu Gristu a sa

manera nosta, una raccolta di trecentocinquanta sonetti ispirati ai principali episodî del Vangelo.

L’opera è in puro campidanese rustico, e l’assetto metrico dei singoli componimenti si basa sulla

fonetica specifica di tale parlata, con le sue nasalizzazioni e cadute di vocali: volta in un’altra

varietà campidanese, la struttura della Vida’e Gesu Gristu non si reggerebbe piú in piedi. Spano, pur

talvolta costretto da esigenze metriche ad adottare alcune soluzioni stilistiche lontane dal parlato

comune, riesce ad esprimere bene in un testo letterario la lingua viva, ed inserisce nell’opera

vocaboli desueti, segnalati con un asterisco nel glossario finale. Come Carlini, cosí pure Spano dà la

traduzione in lingua italiana.

La recente opera Apedala, dimòniu! di Amos Cardia (2004) è espressione letteraria della scuola

grammaticale di Antonio Lepori, e si pone soprattutto il fine di contrastare l’italianizzazione del

lessico sardo78; cotanto sforzo non trova però corrispondenza nelle scelte sintattiche, che, a

77 M. Porru, Cagliari e i suoi poeti in lingua sarda, Edizioni Castello, Cagliari, 1999, pp. 182-183.78 Quest’orientamento, fatto proprio da Cardia, giunse fino a proporre fantasiose sardizzazioni popolari di cultismi:ricordo addirittura un sonétiga da fonétiga.

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cominciare dall’uso costante del gerundio narrativo, presentano periodi talvolta complessi

invariabilmente modellati sull’italiano.

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16. LA SUDDIVISIONE DEL CAMPIDANESE IN VARIETÀ DIATOPICHE

Il territorio del Capo di Sotto può essere ripartito in diverse zone. La tradizionale suddivisione del

campidanese in varietà diatopiche si basa su isoglosse caratteristiche ed è fondata soprattutto su fatti

fonetici, ma essa potrebbe subire variazioni se si tenessero prevalentemente in conto fattori morfo-

sintattici. La ripartizione che presentiamo è dunque quella maggiormente conosciuta, e

sostanzialmente ha corrispondenza con le principali regioni storico-geografiche della Sardegna

meridionale. Si ha dunque:

d1): compresa fra il Sarcidano meridionale e l’Ogliastra, è l’area dai tratti meno marcati, nel senso

che questo campidanese di Nurri e Orroli è probabilmente il piú comprensibile per gli abitanti di

tutte le altre zone, e si avvicina al concetto di ‘campidanese comune’. Quasi tutta la letteratura

campidanese, infatti, per fonetica, morfologia e sintassi rispecchia quest’area, che un tempo non si

distingueva dalla successiva area d2: è molto rilevante, per esempio, il mantenimento di -L- e -N-

intervocalici, benché, come scrive Maurizio Virdis, “con la loro pronunzia intensa potrebbero far

pensare a una loro reintroduzione seriore che avrebbe sostituito degli esiti diversi”79. Il gruppo

latino -LJ- diviene /l:/, mentre -TJ-/-CJ- passa a /ʦ/: fillu, palla, e pratza, fatzu ecc. Nello stesso

libro di Virdis d1 e d2 sono unite, ma tra esse non c’è contiguità territoriale.

d2): è l’area meridionale costiera, contraddistinta dalla presenza della capitale Cagliari80. Parte da

Teulada, a occidente, e giunge fino a Villasimius (Bidha Simius) a oriente, e attraverso Castiadas

arriva a Burcei. Cagliari, e in particolare le sue variabili diastratiche e diafasiche, ha funto da varietà

cólta per tutto il Capo di Sotto: la sua influenza ha toccato tutti i centri urbani di dimensioni non

piccole. L’area d2 presenta molte analogie con d1, rispetto a cui Cagliari ha introdotto alcune

innovazioni: la piú evidente è -d- > -r- intervocalico, per cui meda > mera. Wagner trovava ancora

quest’ultimo suono diverso da /r/ originaria, e lo definiva “un’articolazione alveolare di scarsa

sonorità”81. Oggi comunque tale distinzione non sussiste, pertanto si può ricostruire il passaggio

fonetico /ð/ > /ɾ/ (monovibrante apico-alveolare sonora) > /r/, che ha toccato i comuni vicini a

Cagliari (d3) fino a Iglesias. Vi è poi una spiccata tendenza allo iato, anche a partire da consonanti

palatali: yerru > ierru (trisillabo), ulleras > ollieras (/u'ʎɛ:ras/ > /u'l:jɛras/ > /ol:i'ɛras/, ma si ha

79 M. Virdis, Fonetica del dialetto sardo campidanese, Cagliari, Della Torre, 1978, pag. 14.80 Il nome Càllari o Càlliari non è usuale in campidanese: la capitale è abitualmente chiamata Castedhu, dal nome delquartiere storico che è stato sede dei governi dell’isola e, essendo situato su d’un colle, oggi è detto Castedhu’e susu‘Castello di sopra’.81 In M. Virdis, opera citata, pag. 43.

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pure ulleras /u'l:ɛras/). Un altro tratto importante è il rafforzamento delle consonanti sonore

iniziali in fonetica sintattica, laddove, nel resto del dominio campidanese, si ha piuttosto il dileguo:

su bentu è pronunziato /su'b:eɲtu/, su didu /su'd:iru/82 (in luogo di su ’entu e su ’idu). Tende alla

spirantizzazione, invece, m- in fonetica sintattica: sa mija ha per allofono /saˈμiʤa/. A Cagliari

fino a cinquant’anni fa circa era diffuso il passaggio di -l- intervocalica o preconsonantica a /ʟ/

(laterale velare): oggi il fenomeno è scomparso, ma ha lasciato traccia nell’italiano regionale, dove,

per ipercorrettismo, si ode frequentemente, per esempio, un’esclamazione come albitro colnuto.

La parlata popolare cagliaritana offre molti spunti d’interesse: è documentata da diversi decenni la

palatalizzazione delle velari davanti alla vocale a, che a sua volta tende a chiudersi verso /ɛ/,

spiccatamente in fonetica sintattica: campu > /'kʲæmpu/ e /'cæmpu/, su cani > /su'ʝæni/

(fricativa palatale sonora), sa gatu > /sa'ɟ:ætu/ (con occlusiva palatale sonora); nel cagliaritano

volgare la palatalizzazione delle velari ha toccato anche la vocale o: custa cosa è pronunziato /

ˌkuʃta:'ʝɔz:a/. In contesti particolari83, si ode talora palatalizzazione perfino davanti a u: su

cucu /su:'ʝuku/. L’ultimo esempio palesa poi il frequente passaggio di -st- mediano

all’allofono /ʃt/, il rafforzamento della sibilante sonora intervocalica a /z:/ e soprattutto

l’allungamento della vocale pretonica, che conferisce al cagliaritano popolare la sua caratteristica

cadenza, passata pari pari nell’italiano regionale. In fonetica sintattica si rileva che su lati,

pronunziato in campidanese comune col fonema debole, talvolta velarizzato, /su'lati/ o /su'lˠati/,

diventa in taluni quartieri di Cagliari /su'l:ati/ o addirittura, nella parlata bassa

cagliaritana, /su:'ɭ:at:i/ con cacuminalizzazione. Ancora nel cagliaritano volgare oggi si segnalano

l’assordimento, se non l’aferesi, della i- dell’articolo plurale e il passaggio delle vocali postoniche al

timbro indistinto /ǝ/: is canis s’ode talvolta pronunziato /'ʃcæ:nǝzǝ/.

Sul piano morfologico, tutta d2 si segnala per l’estensione della desinenza -mu alla I persona

dell’indicativo imperfetto della coniugazione in -iri: perdèmu e dromèmu al posto del camp.

comune perdia e dromia. Tale innovazione, evidentemente dovuta ad analogia con cantamu della I

coniugazione, ha investito anche altre aree, e fèmu ‘io ero’ prevale su fui e fia in tutto il Campidano.

Come III pers. dell’imperf. indic. di èssi qui inoltre è preferita la forma fiat (/'fiara/ < /'fiaða/) a

82 Non c’è mai – è bene ricordarlo – opposizione fonematica fra tali occlusive sonore, pronunziate con particolareintensità in fonetica sintattica, e le altre occlusive sonore intervocaliche. 83 Che io definirei ‘autoimitativi’, nel senso che il parlante, cosciente della sua cadenza, la calca ancora di piú. Similepronunzia è verificabile anche quando è assunto un tono minaccioso verso un inferiore.

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fut /'fuði/ o /'fuða/. Il gerundio, soprattutto a Cagliari, esce sempre in -endi, mentre il pronome di

IV persona può presentarsi come nòsus. Un tratto morfologico proprio della parlata cagliaritana è

l’estensione di -t alla I persona del congiuntivo, sia presente sia, soprattutto, imperfetto (dèu siat,

dèu fessit): lo si trova attestato nei mottetti di Garzia, e pare dovuto a fonetica sintattica piú che ad

analogia con le altre desinenze (che escono tutte in consinante, differenziandosi dalla stessa I

persona).

d3): è l’area centrale del Capo di Sotto. Essa parte dalla periferia di Cagliari, ovverosia già da Pirri

storica e Monserrato (Pauli), e giunge, a settentrione, fino a Nuragus e Ísili (Sarcidano) attraverso il

Gerrei e il Parteolla. Si deve però osservare che tutto il circondario di Cagliari oggi è ripopolato da

cagliaritani, i quali, quando ancora padroneggiano il sardo, diffondono la loro d2. Tratto fonetico

caratteristico è la rotacizzazione di -L- > /ʀ/ (vibrante uvulare): mèli diventa /'mɛʀi/. Oggi però,

soprattutto in fonetica sintattica, l’indebolimento articolatorio porta generalmente al dileguo della

consonante: sa luxi dà l’esito /sa'uʒi/. A Ísili -N- dà occlusiva glottidale sorda /ʔ/ con

nasalizzazione della vocale precedente: su pani > /su'ßaʔi/. A Siurgus-Donigala il colpo di glottide

è invece esito di -L-: pilu > /'piʔu/.

d4): è l’area del Sàrrabus orientale, comprendente tre soli paesi: Muravera (Murera), San Vito

(Santu Idu) e Villaputzu (Bidha’e Putzu). Qui è avvenuto il passaggio di -L- e -N- a /ʔ/, per cui sa

luna è pronunziato /sa'ʔuʔa/. -N-, come si vede, lascia una traccia di nasalizzazione; presso le

generazioni giovani il colpo di glottide tende al dileguo: /sa'ua/.

d5): è l’area che abbraccia tutta la pianura del Campidano, da Oristano (Aristanis) a Uta (Uda) ed

Assèmini. Tipici di questa parte del dominio campidanese, ben documentati in Sa scomuniga, sono:

la caduta di -N- intervocalica con nasalizzazione della vocale precedente (su pani > /su'ßãi/); il

passaggio di -L- intervocalico a /ß/ o /w/, per cui sòli diviene /'sɔßi/ o /'sɔwi/; assimilazioni

consonantiche di r davanti a t e c: mòrti > mòti, circai > cicai; predilezione per la sillaba aperta, a

cui si giunge spesso per mezzo di metatesi: marjani > mraxani (con ispirantizzazione), sèrpi >

srèpi, órdini > ódrini; dissimilazioni e assimilazioni vocaliche (bassiri < bessiri, discannotu <

disconnotu, dannuntziai < denuntziai84 tzaramonieri < tzerimonieri, arrasutau < arresurtau

84 Si noti anche il raddoppiamento della nasale intervocalica: la parola citata è un forestierismo.

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‘risultato’), con ispiccata predilezione per a pretonica (anche in mamentu < momentu); -r-

intervocalico passa solitamente a /ɾ/.

Per esprimere l’imperativo negativo di II persona, il congiuntivo impiegato assume di regola

l’uscita in -st: no timast, no benjast. Ciò è piú raro nelle altre aree campidanesi.

d6): è l’area del Sulcis-Iglesiente. Qui TJ-/-CJ- > /ʧ/, mentre -N- si conserva. -L- invece ha duplice

esito: dileguo in posizione postonica (sali > sai, fèli > fèi), rotacizzazione in posizione pretonica,

con passaggio a /ʀ/ (bolai > /bɔ'ʀai/). È molto frequente, inoltre, la caduta di -R- intervocalica: se

non cade, essa, alla pari di -T- > /ð/ intervocalica, dà l’esito /ɾ/ già visto per il cagliaritano. La

vocale o di domu ha timbro chiuso: ciò è un indizio di arcaicità, ma non rimanda a una fase di

latinità antica.

Il Sulcis possiede un tratto morfologico molto caratteristico: le forme verbali dell’imperfetto

derivano prevalentemente dal perfetto latino. Si hanno quindi coniugazioni come papài (alternato

con papàmu), papàsta, papàda (con /ɾ/), papàstisi (/pa'pastizi/, forma comune di IV e V persona),

papànta; bivèi (e bivèmu), bivèsta, bivèda, bivèstisi, bivènta. Altro fatto notevole è l’assenza del

congiuntivo imperfetto.

Iglesias (Igrésias) ha perso molti dei tratti tipici dell’area, ma li possedeva sino a tempi recenti,

come testimoniano insegne e cartelli stradali con -ç- invece di -tz-: puçu, praça ecc. Oggi Iglesias

condivide coi paesini sulcitani il solo mantenimento di -rt-, che nei centri vicini presenta

assimilazione (mortu di contro a motu), e l’indebolimento di -R- intervocalico.

d7): è l’area dell’Ogliastra (Ollastra). Qui -CE-/-CI- preceduti da vocale danno /ʤe/ e /ʤi/ (pagi e

pragèri per paxi e prexèri); -TJ-/-CJ- > /s:/ (prassa per pratza); -LJ- > /ʎ/ (laterale palatale e non

dentale) o /ʤ/ o /ʒ/; la -s finale dell’articolo subisce sonorizzazione davanti a consonante sonora (ir

manus). L’esito delle labiovelari è di tipo logudorese: limba, sàmbini. In molte località ogliastrine,

inoltre, le vocali paragogiche sono assenti o fortemente assordite, e -s finale non si sonorizza

stabilmente. I fenomeni elencati sono proprî dei centri dell’Ogliastra centrale: soltanto -ss- per -tz- è

presente dappertutto, pure a occidente, comprendendo Sàdali, Seui ed Esterzili. Poiché nell’opera di

frate Antonio María non si ha traccia di codesto esito consonantico, si può pensare ad influsso

ogliastrino recente. Anche qui, come nel Sulcis, la vocale tonica di domu ha timbro chiuso.

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L’alta Ogliastra ha caratteri piú logudoresi che campidanesi: ivi, insino ad Àrzana, piuttosto che

-ss-, si ha la spirante interdentale sorda /θ/, e nei centri settentrionali si registra pure il

mantenimento di -e e -o finali; a Urzulei (Urthulè) il plurale è in -os, senza oscillazioni, mentre a

Baunei i plurali in -os e -us s’alternano: dopo le vocali chiuse u/i si preferisce -us (us pilus, ur

genuglus), altrimenti -os (us ferros, us oglos). Si è vista dagli ultimi esempî la particolarità

dell’articolo plurale: a Urzulei è os/as, a Baunei us/as. Urzulei è stata toccata altresí dal passaggio

-k- > /h/, tipico di Dorgali.

Si sono viste dunque sette varietà diatopiche le quali, in linguistica sincronica, si possono chiamare

‘dialetti’ del campidanese: in definitiva soltanto i paesi del Sulcis e dell’Ogliastra centrale

possiedono tratti diatopici piuttosto spiccati.

Bisogna adesso trattare della zona di confine, quella in cui i tratti tipici campidanesi si diradano e

lasciano spazio a fenomeni via via sempre piú proprî del logudorese.

d8): è l’area nord-occidentale, o ‘arborense meridionale’, a settentrione di Oristano, dove sono

conservate le consonanti velari: chentu, chircari, lughi e pischi per centu, circai, luxi e pisci. I tre

centri di Busachi, Ortueri e Sòrgono mantengono -e e -o finali, cosicché ivi si hanno plurali come

pisches e procos. Le labiovelari latine danno b- iniziale e -mb- mediano: bàtoro, chimbanta , ebba

‘cavalla’. Nella zona orientale di d8 si ha -LJ- > /ʤ/. La -s finale spesso rimane sorda, finanche

quando è seguita da vocale paragogica: cantas è pronunziato a volte /'kaɲtasa/, a

volte /'kaɲtaza/. La vocale -a è molto usata come paragogica: pea ‘piede’, setzeisia ‘sedetevi’. Il

tipo arroda/orroda è prevale nettamente sulle forme non prostetiche, mentre in alcuni paesi è

attestato l’uso di i- prostetica: s’ispiga piuttosto che sa spiga. In morfologia spicca la conservazione

dell’infinito in -ari, e quella, ormai sporadica, dell’antico congiuntivo imperfetto in -ari/-iri anziché

in -essi (il congiuntivo imperfetto, e di conseguenza il trapassato, sono infatti scomparsi quasi in

tutta l’area, abitualmente sostituiti nelle loro funzioni dall’indicativo imperfetto, che sta

soppiantando anche il condizionale). L’indicativo imperfetto di I coniugazione esce normalmente in

-aia: cantaia. Quest’area condivide molte caratteristiche con il sardo medievale ‘mediano’ della

Carta de Logu.

d9): è l’area della Barbagia meridionale. Qui si conservano le vocali finali -e e -o: sole, domo per

sòli e dòmu. Le consonanti velari davanti a e/i subiscono sí palatalizzazione, ma tendono a restare

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occlusive piuttosto che mutarsi in affricate: dal lat. circare si ha /cir'karɛ/. È diffuso il passaggio

-LJ- > /ʒ/. Anche qui, come in d8, l’esito delle labiovelari è di tipo logudorese: abba, sàmbene ecc.

Sul piano morfologico c’è grande vicinanza al gruppo d8.

Va ricordato infine che le aree d8 e d9 hanno sempre adottato il logudorese come lingua letteraria85.

Nella suddivisione del campidanese in varietà diatopiche non si è dato conto delle particolarità

lessicali proprie di ogni area, giacché ogni singolo paese sardo ha qualche vocabolo distintivo

rispetto ai centri vicini; una classificazione di questo tipo inoltre oggi non sarebbe sufficientemente

fondata, perché i repertorî lessicali per aree non sono abbastanza aggiornati.

85 Maurizio Carrus da San Vero Milis (Santu Eru) nel XVIII secolo, Antioco Casula da Désulo e Giuseppe Mereu daTonara tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento scrissero tutti in logudorese letterario.

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17. OPERE LESSICOGRAFICHE E GRAMMATICALI

Il primo vocabolario campidanese, oltreché primo vocabolario di sardo in assoluto, è quello di don

Vincenzo Porru, pubblicato nel 1832. L’autore nella prefazione auspica che “Condotta così la

sarda favella a regole ed a sistema ... anderà purificandosi anche da quelle imperfezioni di

pronunzia, e d’inflessioni, che dalle persone di volgo e di contado usansi in Sardegna al par che

nelle altre nazioni e provincie”: simili presupposti, che evidentemente fanno a pugni con le

moderne concezioni glottologiche, consentono di capire bene l’ostinata ricerca di legami del sardo

con le piú celebri lingue scritte, e lo scarso credito, di cui godono i vocaboli ritenuti rustici.

Al Porru mancò un criterio grafico preciso, il che si tradusse in un’imitazione della grafia italiana;

sbagliò spesso nelle ipotesi etimologiche, e inoltre fece passare per voci sarde alcune parole cólte,

tanto da trarre in inganno gli studiosi: buon esempio è nùndinas (dal latino nundĭnae ‘mercato,

giorni festivi’), termine che, cosí come è presentato, potrebbe far pensare ad una sua eccezionale

sopravvivenza in una lingua romanza.

Wagner apprezzò l’imponente opera del Porru, che fu fondamentale per la sua conoscenza del

campidanese, giacché gran parte dei vocaboli citati nel DES è tratta da Porru; sull’opera di Porru si

basarono diversi lessicografi posteriori, come lo Spano e il Martelli.

Nel 1840 uscí l’Ortografia Sarda Nazionale del canonico Spano, che postulava l’adozione del

logudorese illustre (‘illustre’ in quanto farcito di latinismi e scritto con grafia latineggiante) come

‘vera’ lingua sarda nazionale. Lo Spano, nativo di Ploaghe, nel suo vocabolario volle inserire voci

campidanesi e galluresi: come scrive Antonio Lepori, però, “la bilancia delle voci pende così

nettamente a vantaggio del logudorese ... che anche il vocabolario dello Spano può essere

considerato monodialettale”86.

Il vocabolarietto di Martelli ebbe ai suoi tempi un certo valore pratico, ma è in realtà inaffidabile

sotto ogni aspetto, essendo composto da un toscano poco appena giunto in Sardegna e poco ferrato

in linguistica.

Ai primi del Novecento cominciarono ad apparire dizionarî dedicati a singole sezioni del lessico: si

ha l’ottimo Vocabolario domestico di Emilio Atzeni (1912)87, i glossarî di Efisio Marcialis sulla

fauna del Golfo di Cagliari (1913) e della Sardegna tutta, e la molto piú recente Flora pratica sarda

illustrata di Amatore Cossu (1968). Tali opere avevano il fine primo di diffondere la conoscenza

dell’italiano fra i sardi, non erano concepite per migliorare l’apprendimento del sardo, ché ancora

esso avveniva già naturalmente.

86 A. LEPORI, Dizionario italiano-sardo campidanese, Cagliari, Edizioni Castello, 1988, prefazione, pag. I.87 Atzeni aveva in animo di scrivere un vocabolario univerasale campidanese-italiano, ma non riuscí a completarenemmeno la lettera a.

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L’opera di Wagner, i cui interessi erano soprattutto etimologici e rivolti all’epoca della nascita del

sardo, segna la nascita dello studio scientifico della lingua; non è necessario soffermarsi a lungo sui

meriti del glottologo tedesco, i di cui Dizionario etimologico della lingua sarda e Fonetica storica

del sardo sono punti di riferimento imprescindibili per chiunque s’accosti ad una qualsiasi varietà di

logudorese e campidanese: vedremo invece nei prossimi capitoli a quali rischî si vada incontro se si

segue acriticamente il punto di vista di Wagner, e, a maggior ragione, se si travisa il suo pensiero.

Negli ultimi anni, con l’impellenza di scongiurare la scomparsa della lingua, sono state pubblicate

varie raccolte lessicografiche, talune delle quali, come quelle il Casciu e il Melis Onnis,

abbracciano tutte le varietà campidanesi, altre, come i dizionarî di Artizzu e Giovanni Mura, sono

specifiche di singoli centri. Soprattutto il volume del Mura sulla parlata di Isili è pregevole, perché,

oltre a riportare tutti i vocaboli d’uso comune, alcuni dei quali non presenti negli altri vocabolarî,

segnala i principali modi di dire e locuzioni idiomatiche, che contraddistinguono la lingua viva del

centro sarcidanese.

Il piú importante fra i vocabolarî moderni è il Ditzionariu di Mario Puddu, che comprende le voci

logudoresi e campidanesi.

Nel 1988, ad opera di Antonio Lepori, che già si era occupato di sinonimi e contrarî, uscí il primo

vocabolario italiano-campidanese. Ciò è indicativo delle nuove condizioni linguistiche della

Sardegna: lo scopo ora è quello insegnare il sardo a chi parla prevalentemente in italiano, e far

conoscere i vocaboli campidanesi genuini a chi usa un lessico italianizzato. Nell’opera infatti non

sono inseriti i termini italiani moderni entrati in campidanese, ma solamente le voci che

corrispondono a parole campidanesi affatto diverse; per la prima volta si dà spazio a neoformazioni

autoctone, ottenute principalmente con l’ausilio dei suffissi -mentu e -adura. Sulle orme di Lepori,

che usa una grafia distante da quella italiana, un gruppo di giovani cultori del campidanese si dedica

alla difesa delle parole tipiche campidanesi e soprattutto alla coniazione di neologismi: coloro

lavorano sui siti internet www.comitau.org, www.sardu.net, www.isardi.net.

Il grande Dizionario Universale della lingua di Sardegna di Antonino Rubattu traduce tutte le

parole italiane in logudorese, nuorese, campidanese, turritano e gallurese, e dà pure i vocaboli

corrispondenti nelle principali lingue europee: inevitabilmente, in un’opera di dimensioni tanto

rilevanti, le sfumature sinonimiche sono sovente trascurate, e spesso occorre cercare i significati

precisi in uno specifico vocabolario sardo-italiano.

Parimenti la prima grammatica sarda è opera di Vissentu Porru: Saggio di grammatica sul dialetto

sardo meridionale (1811). Del 1842 è l’opera di don Giovanni Rossi, scritta tutta in campidanese,

Elementus de gramatica de su dialettu sardu meridionali: l’autore, il quale, come il suo

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predecessore voleva offrire uno strumento per facilitare lo studio della lingua italiana, ancor piú di

Porru si limita a dotare di desinenze campidanesi i termini grammaticali italiani; la povertà del

lavoro è affatto evidente.

A metà dell’Ottocento Vittorio Angius, nell’ambito del Dizionario degli Stati di Sardegna di

Goffredo Casalis, compose una grammatica sarda, nella quale furono presi in esame principalmente

i documenti medievali, in particolare la Carta de Logu. L’opera, notevole per precisione e

meticolosità, è basata su di una ripartizione della Sardegna in Parte Susu e Parte Jossu: a ciò

corrispondono le divergenze già medievali fra logudorese e campidanese, che ad Angius apparivano

ben chiare.

Vi è poi un vuoto di oltre cent’anni, e nel 1978 Maurizio Virdis, sulla base della Fonetica del

Wagner, pubblica il primo manuale sulla fonetica campidanese. Negli anni Ottanta gli studiosi,

consci del pericolo d’estinzione delle parlate sarde, cominciano a dedicarsi alla compilazione di

opere sulla struttura della lingua. Esce dapprima nel 1984 una notabile Storia linguistica della

Sardegna di Eduardo Blasco Ferrer, poi lo stesso linguista catalano a partire dalla seconda metà

degli anni Ottanta pubblica alcune grammatiche sarde. Vi sono inoltre alcune brevi opere di

Francesco Corda, esperto di gallurese: ognuna di esse è dedicata a una specifica parlata sarda. La

prima grammatica moderna solo campidanese, scritta in campidanese con versione italiana, è opera

di Antonio Lepori (2001): essa, che nasce dichiaratamente con l’intento di insegnare un buon sardo

ai sardi, è molto valida, ed ottima nel tentativo di creare un lessico grammaticale, ma troppo

sintetica sotto certi aspetti, quali la fonetica e la sintassi. A proposito di sintassi, è stata tradotta in

italiano pochi anni or sono l’opera dell’inglese Allen Sardinian Syntax, che prende in

considerazione le varietà nuoresi ritenute maggiormente conservative.

Gli autori odierni propendono a dedicare grammatiche specifiche alle diverse parlate sarde:

bonissimo, fra gli altri, è il lavoro monografico di Piras sulla varietà sulcitana.

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18. IL CAMPIDANESE NEL VENTUNESIMO SECOLO

Oggi il campidanese appare abbastanza unitario, e il suo insegnamento, cosí come il suo uso in

documenti ufficiali, non pone difficoltà di rilievo da nessun punto di vista. Ciò sarebbe un valido

mezzo per difenderlo, per poi propagarlo eziandio, ma non basta a garantirne la sopravvivenza: la

sua tutela comincia dalle mura domestiche. Come ogni sardo sa, e come qualsiasi semplice indagine

sociologica può dimostrare, se oggi molti Sardi non solo non parlano nella loro lingua, ma, almeno

nei centri urbani, nemmeno la capiscono, la colpa è soprattutto degli stessi Sardi: per molti anni,

diciamo per tutto il secolo XX, si è ritenuto che il parlare italiano rappresentasse una via

d’elevazione sociale. Peralmeno due generazioni le madri per prime, ma anche i padri, e

ugualmente i nonni, in Sardegna hanno volutamente e scientificamente usato, coi loro figli e nipoti,

la lingua imparata a scuola, non la propria lingua nativa: di conseguenza il sardo non è piú ben

conosciuto, e, poiché l’italiano parlato in famiglie dapprima solo sardofone era pieno d’errori, cioè

era un italiano regionale foneticamente e sintatticamente modellato sul sardo, molti abitanti

dell’isola oggi adoperano soltanto un italiano grammaticalmente scorretto e lessicalmente

poverissimo. Il campidanese, allo stesso modo del logudorese, sul piano della fonetica, della

morfologia e della sintassi resiste ancora bene, forse in virtú della sua grande lontananza

dall’italiano, ma sul piano lessicale subisce un’influenza forte da parte della lingua ufficiale:

soltanto gli studiosi del sardo oggi sono in grado di leggere facilmente e capire le opere degli

scrittori, compresi i contemporanei. Ogni educazione esclusivamente italofona impartita ad un

bambino è una coltellata al cuore degli idiomi locali.

Questo fenomeno si riscontra in molti luoghi: in Europa tutte le lingue di minoranza, ovverosia tutti

gli idiomi non usati a livello ufficiale (orale ma soprattutto scritto) negli stati sovrani, sono oggi,

quando non in via d’estinzione, comunque in fase di forte regresso, ad eccezione del catalano, che

però vive in una condizione di bilinguismo, e non piú di diglossia, con lo spagnolo letterario

d’ascendenza castigliana. Vi sono d’altronde lingue ufficiali le quali ricoprono funzione piú

simbolica che pratica: l’irlandese, per esempio, rappresenta soprattutto l’unità nazionale del paese e

i suoi valori culturali, ma nell’uso è stato quasi completamente soppiantato dall’inglese (solo l’1%

della popolazione parla sempre in irlandese, e meno del 5% lo usa abitualmente). Il primo ostacolo

che si deve superare, ai fini del recupero e della diffusione di una lingua di minoranza, è dunque

l’ostilità di parte della popolazione stessa; poiché molte persone non sanno piú parlare le lingue

locali e devono quindi impararle, diviene poi indispensabile l’adozione di un’ortografia e, affinché

l’idioma in questione possa essere studiato per mezzo di grammatiche e libri appositi, la scelta di

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una varietà, allorché la lingua non sia sufficientemente unitaria88: d’altra parte è necessario

verificare se le varianti prescelte non siano troppo differenti tra loro, perché in questo caso la lingua

adottata non sarebbe rappresentativa di tutte le varietà diatopiche.

Nel prossimo capitolo tratteremo dei tentativi di individuazione di una lingua sarda unificata; qui

cominciamo a vedere le proposte di grafia per il solo campidanese. Esistono due orientamenti

contrapposti: uno definibile ‘italianista’, l’altro che pretende di essere indipendente dall’ortografia

italiana.

La corrente italianista fa sue le parole della Ferraris, già ricordate, e sostiene che la gente non

capirebbe una grafia diversa; gli scrittori quasi sempre hanno scelto questa strada (cosí come nel

periodo spagnolo la grafia era di tipo castigliano). Per i fonemi inesistenti in italiano, nel caso di /ʒ/

gli italianisti si servono o di x, talvolta xi davanti a a, o, u secondo il parallelo sci sordo (x/xi è la

soluzione piú frequente), oppure dell’italiano sci, che diventa perciò ambivalente; nel caso di /ɖ/, si

servono di d(d), tanto che il pronome clitico può trovarsi scritto come du o ddu. Le consonanti

intervocaliche, escluse l/n/r/s, sono scritte o scempie o doppie: se la parola corrispondente esiste in

italiano, la scelta è facile, ma in caso contrario manca una norma, giacché in campidanese non

sussiste una distinzione del tipo fato/fatto ch’esprime opposizione fonematica; si noti poi che in

campidanese l’opposizione fra s e ss in posizione mediana è tra un fonema sonoro ed uno sordo

intenso (casu e cassu), mentre in italiano può in tal modo esprimersi anche contrapposizione fra

sibilante sorda debole e forte: casa /ˈka:sa/ e cassa /ˈkas:a/89, róso (participio di ródere) e rósso

eccetera. Con l’adozione del modello italianista tutte le incoerenze grafiche dell’italiano sono

trasportate in sardo: mancata distinzione tra z sorda e z sonora, uso di qu-, h- iniziale nel verbo

‘avere’ (ma soltanto in alcune forme, e non sempre), presenza di i grafica e non vocalica in cia, gia,

scia90.

A causa di questi difetti, alcuni grammatici sardi hanno suggerito sistemi di scrittura non basati su

quello italiano, da cui si discostano laddove le necessità d’esprimere i suoni del sardo lo richiedano.

La proposta ortografica che ha ottenuto maggiore diffusione è stata avanzata da Antonio Lepori, e le

sue caratteristiche sono le seguenti: consonanti scritte sempre scempie, ad eccezione di l/r/n (che

nella pronunzia sono deboli o intense), d (che quando è doppia è quasi sempre cacuminale), s (che

88 È evidente che una lingua non può essere perfettamente unitaria, se non altro perché vi sono comunque differenze trai suoi parlanti.89 Davvero incredibile è che addirittura grammatiche, vocabolarî e manuali d’italiano per istranieri indichino casa comeesempio di fricativa dentale sonora intervocalica, associandolo tale parola a rosa: ciò è una delle conseguenze piúclamorose del mancato insegnamento del sistema fonologico dell’italiano a scuola, la qual cosa dipende a sua voltadall’inesistenza di un luogo in cui si pronunzî correttamente detta lingua.90 Quest’ultimo mi pare il difetto maggiore: quante volte si sente che “in aiuole sono presenti tutte le cinque vocaliitaliane”? Non si insegna che /aˈjwɔ:le/ è un trisillabo con trittongo, e che l’italiano ha sette vocali e non cinque.

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quando è doppia è sorda intensa), senza distinzione fra sonore occlusive e sonore fricative; d

cacuminale iniziale scritta scempia; tz per l’affricata dentale sorda; simbolo ku in àkua ‘acqua’; k

davanti a e, i, ma gh nella medesima posizione; ç davanti a a/o/u per l’affricata /ʧ/; j davanti a a/o/u

per l’affricata /ʤ/; sç davanti a a/o/u per la fricativa /ʃ/; x per la fricativa /ʒ/; lly e nny per le palatali

mediane; y semiconsonante, ma solo ad inizio di dittongo (yayu); mancata scrittura delle vocali

paragogiche, escluse quelle diverse dalle vocali immediatamente precedenti (sesi, esti, anti);

mancata indicazione dell’apertura di e/o; accento segnato sulle voci tronche e sdrucciole.

Mario Puddu adopera una grafia vicina a quella italiana, ma scrive tz per l’affricata dentale sorda e

dh per la cacuminale, anche dopo n (candhu).

Il tipo di scrittura che ho impiegato in questo libro s’avvicina a quello di Lepori, ma con alcune

differenze:

1) scrittura scempia delle intervocaliche occlusive e fricative sorde, ma doppia per le occlusive

sonore, poiché le lettere scempie stanno a indicare le sonore fricative: acatai, açapai, acabbai,

abrili, abbrubudhai ‘gorgogliare’, atafai ‘immergere’, aggafai ‘afferrare’. È evidente il mancato

parallelismo tra sorde e sonore, ma, stante la necessità di distinguere i fonemi occlusivi da quelli

fricativi, una possibilità sarebbe quella d’adottare per i fonemi fricativi le lettere greche β/γ/δ, sí da

potere scrivere sempre scempie anche le consonanti sonore non fricative. L’uso di simboli non

presenti nell’alfabeto latino comporta però difficoltà, soprattutto a livello di tastiere, e tale ipotesi

non pare per ora concretabile.

2) ch parallelo a gh davanti a e, i: in campidanese è regolare la lenizione della velare sorda iniziale,

e k mal si presta a indicare una consonante lenita, dato che nelle lingue dove è usata, ad eccezione

dello svedese, indica sempre un suono duro (gutturale occlusivo).

3) dh per la cacuminale, ma non dopo n: c’è bisogno d’indicare il suono esatto di verbi come

addanniai e adderetzai, che hanno dentale intervocalica, mentre dopo n il gruppo nd è sempre

cerebrale (ma sempre dentale per coloro che non riescono a pronunziare piú il suono antico), e una

h distintiva è dunque inutile non essendovi casi d’ambiguità tra ndh e nd. Abbiamo visto che il

digramma dh fu adoperato già nella Vida de Santu Potitu, dunque non è un’innovazione.

4) lli- (li- iniziale) e nni- (ni- iniziale) per i suoni originariamente palatali, rispettivamente laterale e

nasale, in parole d’origine italiana e spagnola, come caramèllia e bànnia: essi in campidanese essi

sono instabili. Distinguiamo tra posizione pretonica e postonica. In posizione pretonica, di solito

divengono dentali intensi con appendice approssimante, la quale crea dittongo con la vocale

seguente; poi, soprattutto a Cagliari, i dittonghi cosí sviluppatisi hanno la tendenza a trasformarsi in

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iati (atropelliai è pronunziato come esasillabo). Si ha dunque una forma iniziale quale atropelhai

/atrɔpɛˈʎai/, che tende a divenire atropelliai con laterale dentale e approssimante /atrɔpɛ

ˈl:jai/ > /atropeˈl:jai/ e perfino a produrre iato /atropel:iˈai/. Medesima situazione si ha

per addanhai > addanniai; quando il fenomeno suddetto si presenti a inizio di parola, si

scriverà meglio liàuna e non lhàuna, liaga e non lhaga, nióculu e non nhóculu.

I suoni palatali si conservano meglio in posizione postonica, cosicché si hanno pronunzie effettive

quali /karaˈmɛʎa/ e /ˈbaɲa/ forse piú frequenti di /karaˈmɛl:ja/ e /ˈban:ja/ senza che si giunga

fino allo iato, tuttavia già quel che si verifica consente di parlare di allofoni e non di fonemi

indipendenti, in virtú dell’assenza di coppie minime91; oltre a ciò, va detto che, se si adottasse il

digramma specifico per i suoni palatali, nella coniugazione verbale si avrebbe un’alternanza

inopportuna tra atropelhaus e atropèlliant, addanhaus e addànniant eccetera.

5) indicazione dell’apertura delle vocali e/o, laddove sussista eccezione al principio metafonetico, il

quale richiede chiuse tali vocali quando siano seguite dalle vocali chiuse i/u, come nel caso di

lèpuri e leperédhu (dunque scriviamo mullèri e mullèris, trasseri e trasseris, ómini e óminis, ma

corpus e còrpus, beni ‘vieni!’ e bèni ‘bene’, nasçu < nàscidu, ceréxa < cerésia ‘ciliegia’). A parte il

fatto che il campidanese possiede un sistema eptavocalico, la pronunzia errata di e/o da parte delle

giovani generazioni è uno degli influssi piú forti dell’italiano regionale in campo fonetico92; ad ogni

modo, è sicuramente da evitare che il fatto che si indichino con l’accento grave vocali e/o chiuse,

come prevede invece la grafia del Lepori.

6) Le vocali paragogiche non sono mai scritte (dunque ant e non *anti, cras e non *crasi);

7) I pronomi atoni sono scritti separati quando sono proclitici, uniti quando sono enclitici, senza

l’uso del trattino: indi dhu bògu, bogamindedhu.

Il miglior sistema ortografico esprimerebbe ogni fonema con un solo specifico grafema, ma varî

ostacoli impediscono ciò: tanto la storia della grafia delle lingue neolatine (con esiti diversi, per

esempio, tra CA e CI latini, con quel che ne consegue), quanto gli strumenti di scrittura odierni,

quali la configurazione delle tastiere, basate sulla grafie delle lingue ufficiali. Come ho già detto si

potrebbero adoperare i simboli greci per le fricative intervocaliche β/γ/δ (che potrebbero comparire

tutte in una sola parola quale *saβoγaδa), ma capisco che non oggidí non è possibile93; a me

91 Le coppie minime sono quelle due parole che si distinguono per la presenza di un fonema, il quale assume perciò unruolo distintivo nel sistema fonologico di una certa lingua: in campidanese, per esempio, beni e bèni si distinguono perla vocale e chiusa o aperta. 92 Può essere definito ‘influsso di ritorno’, nel senso che i giovani essenzialmente italofoni pronunziano il campidanesecon influsso italiano (ad esempio *déu séu), un italiano la cui fonetica a sua volta è influenzata dal sardo (*motòre e*motório, per metafonia applicata all’italiano, invece dei corretti motóre e motòrio). 93 Inoltre la lettera beta, quando è scritta maiuscola, è uguale a B latina, dunque si confonderebbero i relativi fonemi.

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piacerebbe valermi d’un solo grafema, come ş, per la fricativa prepalatale sorda, e si potrebbero fare

altri esempî ancora; se non si possono eliminare tutti i digrammi, almeno ai trigrammi si può invece

rinunziare facilmente. Il fine maggiore di un buon modello di scrittura, ad ogni modo, è di evitare

che ci sia qualche combinazione di lettere la quale possa leggersi in piú d’una maniera: ossia

l’eliminazione d’ogni ambiguità.

Una proposta recente è rappresentata dalle Arrègulas, presentate nel Marzo 2009: la Provincia di

Cagliari affidò ad un gruppo di studiosi94 il compito di redigere le norme per l’uso del campidanese

scritto. La grafia adottata si distingue da quella italiana soltanto per i simboli tz e x, e addirittura si

adopera l’inutile trigramma sci- per rendere /ʃ/ davanti a a/o/u.

La scelta di scrivere con grafia italiana si basa sull’idea che sia piú facile, soprattutto per i bambini,

esprimere gli stessi suoni con le stesse lettere: orbene, a parte il fatto che i fonemi dell’italiano non

sono gli stessi del campidanese, tale opzione è smentita dalla realtà, essendo insegnate alle scuole

elementari, se non già all’asilo, lingue quali l’inglese e il francese, scritte in un’altra varietà di

alfabeto latino. Nessuno – mi risulta – propone di scrivere inizialmente *giob l’inglese job o

*giardin il francese jardin per affinità con l’ortografia italiana: come si può pensare allora che la

grafia jardinu, attestata già dal Seicento, complichi la vita dei ragazzi? Il campidanese ha una sua

struttura e una sua storia, indipendenti dall’italiano, lingua con la quale, nel corso della storia, ha

avuto un contatto meno forte che con il catalano e il castigliano: non ha nessun bisogno d’essere

scritto come l’italiano, e, mancando una grafia consolidata, può semmai prendere il meglio dai

diversi alfabeti ch’esistono. Oltre ch’esser segno di subalternità culturale, l’ortografia italianista

costituisce per giunta una scelta antieconomica: per quale ragione scrivere acciappai, quando

bastano le sei sole battute di açapai?

Le proposte fatte in merito all’ortografia riguardano il solo campidanese comune, ossia la lingua dei

documenti scritti: certo se si volesse esprimere graficamente ogni passaggio fonetico presente nelle

diverse varietà campidanesi, il compito diverrebbe piú arduo; siffatta opera comunque può

interessare i poeti vernacolari, ed ognuno, almeno nel proprio esercizio letterario, in fin dei conti è

libero di regolarsi come meglio crede. I testi letterarî infatti presentano un’uniformità che la lingua

parlata difficilmente potrebbe offrire, giacché appunto molti esiti consonantici creerebbero notevoli

problemi di scrittura.

94 Arrègulas po ortografia, fonètica, morfologia e fueddàriu de sa Norma Campidanesa de sa Lìngua Sarda . Il comitatoscientifico era composto da Amos Cardia, Stefano Cherchi, Nicola Dessí, Massimo Madrigale, Michele Madrigale,Francesco Maxia, Ivo Murgia, Pietro Perra, Oreste Pili, Antonio Pistis, Antonella Rodi, Paola Sanna, Marco Sitzia; siavvalse della consulenza di Edoardo Blasco Ferrer e Paolo Zedda.

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La morfologia è ben delineata; si ha talvolta molteplicità di forme, come timèmu/timia, ma ciò si

constata in qualsiasi lingua.

La sintassi è omogenea.

Quanto al lessico, va rilevata la sua notevolissima ricchezza, dovuta al contatto con piú idiomi,

alcuni dei quali dotati di gran prestigio letterario. Sul piano diacronico notiamo:

i sostrati (ben piú d’uno!) preromani hanno lasciato tracce nonché nella toponomastica, ma

nel lessico comune: mata ‘arbusto, albero’ e pibitziri ‘cavalletta’ sono fra i numerosi

fitonimi e zoonimi presenti, e voci d’origine ignota si hanno anche in altri settori del lessico;

dopo la lunga epoca romana, i Vandali non lasciarono tracce, i Greci dell’Impero Romano

d’Oriente ne lasciarono poche, mentre un’influenza araba significativa non è dimostrabile;

nel Basso Medioevo i rapporti con la Penisola Italica divennero costanti, e nel lessico, tanto

sardo quanto particolarmente campidanese, entrarono parecchî vocaboli toscani e alcuni

liguri;

l’epoca iberica (XIV secolo) cominciò con una fortissima influenza catalana (mentre

rarissime sono le parole attribuibili specificamente all’aragonese), la quale poi dal XVII

secolo lasciò il posto al castigliano, ormai spagnolo letterario;

dopo il passaggio della Sardegna ai Savoia, s’iniziò il periodo italiano che dura tutt’ora, e

nei primi due secoli entrarono anche parole piemontesi.

Di conseguenza si presentano spesso sinonimi dovuti all’esistenza di superstrati diversi, e tipico è il

caso in cui un iberismo tende ad essere sostituito da un ialianismo: acontèssi (sp. acontecer) oggi

cede il posto a sutzèdi, gastai (sp. gastar) è rimpiazzato da spèndi, aurrai (sp. ahorrar) è caduto in

disuso per la presenza di (ar)risparmiai. Lo scrittore, il giurista e l’economista i quali, istruiti in

istoria della lingua, vogliano preservarne il lessico dovranno favorire, per quanto possibile,

l’impiego delle voci piú antiche, ma senza trascurare tutte le varianti sinonimiche di una lingua

lessicalmente ricchissima qual è il campidanese.

Insomma il problema della codificazione, relativamente al campidanese, riguarda l’ortografia,

poiché il sistema linguistico, come abbiamo visto attraverso le opere letterarie, si è già codificato da

sé: è una lingua già bene strutturata e idonea a qualsisia impiego scritto.

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19. IPOTESI DI UNIFICAZIONE. NAZIONALISMO ED ETNOFILASSI

Nei capitoli precedenti si sono visti fenomeni principali della storia del campidanese, e si sono

incontrati i maggiori scrittori e le opere letterarie piú notevoli. La letteratura in lingua logudorese è

piú ricca di autori e testi, e maggiormente antica di quella campidanese: il poema di Antonio Cano

dedicato ai santi Gavino, Proto e Gianuario fu composto a metà del Quattrocento, in un’epoca

anteriore alla redazione di alcuni condaghi, come il Cabrevadu che è del XVI secolo; le opere

letterarie in gallurese e turritano sono piú recenti. Da quando sono attestate le quattro favelle

summenzionate, nessuna di esse si è imposta mai in tutta l’isola.

Specialmente dopo l’approvazione della Legge Regionale 26/97 e di quella Statale 482/99, si sono

susseguite varie proposte di lingua scritta pansarda, per dare alla Sardegna un idioma ufficiale

unitario. Va però rimarcato subito che il gallurese ed il turritano, essendo molto diversi dal

logudorese e dal campidanese oltre che parlati in aree piú ristrette, non possono in alcun modo

rientrare in tale progetto: la lingua unica dovrebbe rappresentare tutto il resto dell’isola, anche

perché – si sostiene – il gallurese95 e il turritano96 per influsso esterno si sarebbero formati nell’isola

dopo la diffusione del sardo medievale97: gli antichi giudicati di Sassari e Gallura adoperavano la

varietà settentrionale del sardo medievale, ossia il protologudorese. Innanzitutto va premesso che,

fino a quando si predilige l’una o l’altra grafia, si affronta il problema del come scrivere una

determinata lingua (è il caso già ricordato di giardinu/jardinu); se si sceglie fra due forme quali

timèmu o timia si rimane nel campo della morfologia della stessa lingua, e ugualmente, ma nel

campo lessicale, se si opta per uno fra betiri e portai; se però si piglia uno fra tipi molto diversi,

com’è il caso di log. fàghere e camp. fai, log. cantaret e camp. cantessit, allora la questione diventa

che cosa scrivere.

Si deve quindi ribadire quali siano le differenze principali tra logudorese e campidanese:

il sistema fonologico logudorese conta ventisei fonemi, il campidanese ne ha trentadue98;

95 Il gallurese, sur un sostrato logudorese, potrebbe essersi formato a seguito di un’immigrazione dalla Corsica che,almeno parzialmente, avrebbe ripopolato la Gallura, forse alla fine del XIV secolo, ma non è da escludere che essa si siaprotratta per un tempo piú lungo. Il gallurese è sostanzialmente intelligibile col còrso meridionale, e si può inserirlo inun gruppo romanzo ‘còrso-gallurese’.96 Il turritano nacque forse come lingua franca ed appare oggi una sorta di creolo, giacché sul sostrato logudoreseconversero toscano, ligure e còrso: quantunque quest’ultimo elemento forse prevalga sul toscano e ancor piú sul ligure,è problematica la collocazione di tale idioma nel gruppo còrso-gallurese. I suoi esiti vocalici corrispondono a quelli delcòrso settentrionale.97 Il gallurese e il turritano non condividono molti dei caratteri peculiari del sardo medievale: articolo derivato dal lat.ipsu(m), plurale in -s, III e VI persona verbale in -t e -nt, formazione perifrastica di indicativo futuro e condizionale,struttura del sistema vocalico.98 In logudorese mancano due vocali e le quattro consonanti prepalatali.

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il logudorese nei polisillabi, sia flessi sia invariabili, mantiene -e/-o finali, il campidanese le

muta in -i/-u, con la conseguenza che il logudorese possiede un sistema ancora

pentavocalico, mentre quello campidanese è eptavocalico99. Siffatta mutazione fonetica

tocca tanto sostantivi, aggettivi e pronomi, quanto avverbî, preposizioni e congiunzioni

(camp. ndi, nci, imòi, candu, innòi/innòxi, sèmpiri ecc., log. nde, nche, imoe, cando, inoghe,

semper), ed ha notabili conseguenze nella morfologia, poiché in campidanese i sostantivi,

aggettivi e pronomi interessati al fenomeno sopraccitato formano il plurale in -is/-us, di

contro al log. -es/-os; cosí il congiuntivo presente di -are in camp. diviene canti, cantis,

cantit, canteus, canteis, cantint, mentre il log. ha cante, cantes, cantet, cantemus, cantedes,

canten, a causa della mutazione fonetica in sillaba finale;

il campidanese gradisce le parole ossitone ancor meno di quanto le tolleri il logudorese,

cosicché si serve di vocali paragogiche: log. cafè e camp. cafèi, log. però e camp. peròu,

log. ja/ya e camp. jai ‘già’. Anche negli ipocoristici da troncamento, come si può osservare

anche nell’italiano regionale, vige la medesima tendenza: log. Manuè < Manuele/Manuela,

camp. Manu < Manuèli/Manuela;

in log. sono conservate le occlusive velari davanti alle vocali palatali e/i, cosicché si ha

chentu e ghelu, deghe rispetto al camp. centu, gelu, dèxi;

i gruppî labiovelari si conservano in camp., perdono l’elemento velare in log.: camp. cuatru,

àcua, sànguni/sànguini, rispetto a log. bàtoro, abba, sàmbene100;

da -LJ- latino si hanno gli esiti principali /z/ log., /l:/ camp. (log. fizu e camp. fillu); da -TJ-/-

CJ- si hanno gli esiti principali /t/ log., /ʦ/ camp. (log. poto, camp. pòtzu);

i gruppi -PL- e -FL- in camp. danno sempre -pr- e -fr- (prus, frama), nel log. letterario /pj/ e

/fj/ (pius, fiama);

/ʧ/ e /ʤ/ dei prestiti in log. si trasformano nelle corrispondenti affricate dentali, in camp. di

norma non mutano: log. tritza e zente, camp. triça e gènti;

l’articolo determinativo plurale è sos/sas in log., is in camp.101;

i pronomi personali log. lu, la, li, bi (III pers.), mie, nois, bois, rispetto al camp. dhu, dha,

dhi, si, mèi, nòsu, bòsu;

99 In logudorese il timbro vocalico di e,o è esclusivamente dalla metafonesi, e non si ha mai opposizione fonologica traè/é, e ò/ó; in campidanese, dove la metafonesi parimenti agisce, esistono oggi sette fonemi vocalici indipendenti, comeprovano opposizioni del tipo sèu ‘cattedrale’ / séu ‘grasso’, òru ‘oro’ / óru ‘bordo’. In campidanese proprio il timbrovocalico distingue talvolta il plurale dal singolare: tempus / tèmpus, corpus / còrpus.100 Secondo Wagner e altri il campidanese avrebbe ripristinato le labiovelari per influsso italiano, ma ciò non è statoprovato.101 Nei documenti medievali della Sardegna meridionale si trova l’articolo sus/sas, ma a quei tempi doveva essereancora diffusa la forma non aferetica issus/issas, come dimostra l’evoluzione in is.

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la conservazione della desinenza -nt di VI pers. in camp. mentre in log. si ha -n;

la conservazione della forma originaria di congiuntivo imperfetto in log., con forme quali

cantàrepo, cantares ecc., mentre il moderno camp. cantessi, cantessis deriva dal catalano ed

è stato anche influenzato dall’italiano (in catalano e italiano tale tempo è tratto dal

congiuntivo piucchepperfetto latino);

l’infinito esce in -are, -ere (con frequente apocope in -er), -ire in log., mentre in

campidanese l’ultima sillaba si può troncare: -ai, -i (insieme con '-iri), -iri (prevalente su -í);

il gerundio logudorese è in -ande, -ende, -inde, mentre in campidanese le tre coniugazioni

sono unficate in -èndi/-èndu (talvolta con ampliamento: -èndiri/-ènduru)

i participî passati hanno -adu/-idu in logudorese102, mentre in camp. sono passati a -au/-iu.

Ciò limitatamente ai piani fonologico e morfologico.

A proposito della sintassi le differenze non sono cospicue. Una tra queste è l’uso degli ausiliari

nelle forme verbali composte: il logudorese impiega frequentemente dèpere per àere, mentre la

maggior parte dei dialetti campidanesi oggi si serve dell’infinito èssi in luogo di ai davanti a

participio. Si ha dunque log. depo andare e camp. apu a andai > ap’andai ‘andrò’; log. at aer fatu e

camp. at èssi fatu ‘avrà fatto’; log. lu dio aer fatu e camp. dhu èmu èssi fatu > dh’em’èssi fatu

‘l’avrei fatto’. Codesto impiego di èssi al posto di ai nell’infinito passato, nel futuro anteriore e nel

condizionale passato è particolarmente diffuso nel campidanese meridionale (Pintor Sirigu già

testimonia l’innovazione, mentre Sa scomuniga ancora cinquant’anni dopo usa ai). Mi pare però

che gli studî di sintassi logudorese e campidanese comparata non siano ancora molto sviluppati, e

qualche altra differenza si possa trovare: riguardo alla subordinazione, per esempio, ho

l’impressione che il campidanese per i costrutti impliciti mostri una predilezione la quale in

logudorese sia meno spiccata.

Riguardo al lessico, si può rilevare quanto segue:

l’influsso toscano e ligure nel Basso Medioevo fu maggiore nel Nord della Sardegna, e

provocò addirittura la nascita del turritano, mentre l’ispanizzazione del Mezzogiorno fu

invece piú rapida e piú profonda. Per tali ragioni si hanno esempî di un italianismo in

logudorese e un iberismo in campidanese per indicare lo stesso concetto: log. otzales (dal

tosc. occhiali) e camp. ullieras (< cat. ulleras, oggi ulleres), log. biazu (dal tosc. viaggio) e

camp. biaxi (sp. viaje);

102 Fuorché nel Supramonte, dove -au ha ormai soppiantato -adu. Anche in campidanese l’innovazione ebbe inizio cóllaprima coniugazione.

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nel periodo iberico (1324-1714) l’influsso catalano fu molto notevole in campidanese,

mentre in logudorese prevalsero nettamente i castiglianismi: log. feu (sp. feo) e camp. leju

(cat. lleig) ‘brutto’, log. gosos (sp. gozo) e camp. gòçus (dal cat. goig) letteralmente

‘godimenti’, per indicare gli inni di lode ai santi.

Anche per i tempi piú antichi si possono rilevare alcune divergenze:

in epoca preromana i Fenici di Cartagine diffusero la loro lingua cananea nel Sud-Ovest, e

alcuni resti si sono conservati in campidanese: mitza ‘sorgente’ rispetto al log. bena (dal lat.

vena), tzípiri ‘rosmarino’ di contro al log. romasinu;

la romanizzazione del centro dell’isola fu rapida e profonda103, e fu condotta con una

presenza militare cospicua già nel II secolo avanti Cristo: come dimostra il fatto che nel

territorio del comune di altitudine piú elevata di tutta la Sardegna, ossia Fonni, i Romani

presto costruirono la stazione di cambio di cavalli chiamata Sorabile, questa prima presenza

romana si radicò, tanto da non subire le influenze dei successivi strati di latinità, che invece

raggiunsero il Sud. Sul piano linguistico non solo è evidente l’opposizione tra logudorese e

campidanese negli esiti delle velari, ma si nota anche, in alcuni punti del Centro-Nord come

Bitti, la conservazione di forme quali fúghere ‘fuggire’, testimonianza di una latinità molto

antica (lat. fugere), che in gran parte dell’isola furono poi soppiantate dalle forme latine piú

tarde (fugire nel caso specifico);

il periodo bizantino lasciò tracce molto piú consistenti nel Sud dell’isola, dove il Giudicato

di Cagliari fino al XIII secolo, negli atti dei sovrani, usò bolle con leggenda greca, e alcune

carte in volgare furono composte in alfabeto greco: è probabile che vi sia stata un’influenza

greca maggiore proprio nel territorio di quel regno, ma le voci bizantine superstiti nella

lingua moderna sono cosí poche che l’ipotesi non può essere provata.

Se si vogliono stabilire i confini dei due idiomi104, tracciata una linea che secondo longitudine tagli

precisamente in due l’isola, si ottiene un approssimativo limite linguistico-geografico fra logudorese

e campidanese, ma in realtà si verifica subito che i paesi logudoresi meridionali e quelli

campidanesi settentrionali presentano diverse affinità. Se si cerca perciò d’individuare criterî precisi

di divisione, si possono indicare quattro tratti distintivi principali, che coincidono con la presenza di

tutte le isoglosse maggiormente notevoli: il rafforzamento della vibrante e conseguente prostesi

vocalica; la palatalizzazione delle velari davanti a vocale palatale; l’articolo plurale in is per tutti i

103 Ciò spiega perché fu tanto accanita la resistenza dei Sardi alla conquista romana: se i nuovi venuti si fossero limitatia sfruttare le coste e le pianure maggiori, avrebbero potuto stabilire con gli indigeni gli stessi rapporti di buon vicinatoche avevano contraddistinto il periodo punico.104 Si veda per esempio E. Blasco Ferrer, Ello Ellus. Grammatica della lingua sarda, Nuoro, Poliedro, 1994, pag. 104.

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due generi105; la terminazione in -i/-u per le parti invariabili e variabili del discorso, le quali ultime

formano dunque il plurale rispettivamente in -is e -us. Insomma è schiettamente campidanese ogni

parlata che soddisfaccia a queste condizioni: arr- iniziale, centu e genugu, articolo plurale is,

uscita in -i/-u di sostantivi, aggettivi, pronomi, congiunzioni ed avverbî.

Il primo fra i recenti progetti di ‘unificazione linguistica’ fu varato nel 2001, per iniziativa

dell’assessore Onida: la cosiddetta LSU, la ‘Limba Sarda Unificada’, che di unificato aveva soltanto

il nome, nome invero massimamente ingannevole, giacché non si ebbe nemmeno il coraggio di

ammettere che era stato adottato un tipo di logudorese106. Non il logudorese letterario, ma una

varietà vicina a quella di Macomer (Macumere) epperò artificiale, poiché si immettevano alcuni

elementi ad essa estranei, come la desinenza campidanese -nt. L’aspetto piú inquietante della

vicenda fu il criterio di scelta: nell’opuscolo pubblicato dalla Regione Sardegna si legge, a pagina 5,

che “la norma deliberata dalla Commissione ... è rappresentativa di quelle varietà più vicine alle

origini storico-evolutive della lingua sarda, meno esposte ad interferenze esogene ... e fuori dalla

Sardegna maggiormente insegnate e rappresentate nelle sedi universitarie e nel mondo scientifico”.

Come se la presunta maggiore vicinanza al latino fosse un titolo di merito! Come se i Sardi in

materia linguistica dovessero agire solo in base a quello che di loro pensano gli altri!

Particolarmente interessante, per esempio, è il fatto che, nel capitolo riguardante la fonetica, la LSU

prenda in esame tutti gli esiti delle consonanti latine, e conceda uno spazio esiguo al trattamento dei

forestierismi, ossia a tutte le decine di migliaia di vocaboli entrati nella lingua dopo la formazione

dell’idioma romanzo. Si noti questo caso: /ʃ/ non è ritenuto fonema indipendente in logudorese

perché può volgersi in /sʲj/, e la LSU si serve del simbolo ss per tutti i prestiti in cui vi sia la

fricativa prepalatale sorda, cosicché si danno come esempî issena ‘scena’ e isserpa, variante molto

rara, mantenendosi in realtà l’it. sciarpa identico nella pronunzia in quasi tutto il dominio

logudorese. Allora in casi come lo spagnolo bruja si dovrebbe scrivere *brussa? In questa ipotesi si

annullerebbe l’opposizione fonematica fra l’iberismo cassa ‘caccia’ (variante lessicale

dell’italianismo catza) e casça ‘cassa’: evidentemente qui bisognerebbe fare ricorso a -ssi-.

La LSU, fors’anche per le sue ombre autoritarie (“Per le altre consonanti, in via sperimentale, si

lascia libertà di scrivere una sola consonante o due” si legge, ad esempio, a pag. 11), non ha

riscosso successo, ed oggi soltanto la provincia di Núoro tiene vivo il progetto del dottor Corràine,

105 I due paesi alto-ogliastrini sono gli unici che adoperano forme intermedie di articolo: a Urzulei os/as, a Bauneius/as. Si veda la trattazione dell’area ogliastrina, indicata come d7. 106 La Commissione di esperti era formata dai seguenti dieci: Edoardo Blasco Ferrer, Roberto Bolognesi, DiegoSalvatore Corraine, Ignazio Delogu, Antonietta Dettori, Giulio Paulis, Massimo Pittau, Matteo Porru, AntoninoRubattu, Leonardo Sole, Heinz Jürgen Wolf.

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vero promotore della LSU, a parere del quale le diverse varietà locali sono ammissibili solo nella

lingua parlata, ché nella lingua scritta c’è posto per un solo sardo: il suo.

In seguito ha incontrato maggiori consensi la cosiddetta Limba de Mesania, inizialmente

propugnata da Mario Puddu e da numerosi altri esperti, in prevalenza - non a caso - originarî

dell’area storica arborense. Criterî non soltanto linguistici, ma anche storici e idealistici, qual è il

richiamo all’antico Giudicato d’Arborea, furono fra i motivi ispiratori del nuovo progetto.

Essa è stata presentata dapprima come “aperta”, nel senso che la Limba de Mesania dovrebbe essere

adoperata dalla Regione solo in uscita, e ognuno dovrebbe essere libero di usare la propria varietà

d’appartenenza nei documenti scritti, come in un articolo su L’Unione Sarda107 sostenne Giuseppe

Corongiu, il quale era sempre stato molto critico verso la scarsa ‘democraticità’ della LSU. La

Limba de mesania, poi codificata sotto il nome di LSC, ossia ‘Limba Sarda Comuna’, si avvicina

alla parlata di Samugheo, ma presenta altresí elementi di artificiosità, tant’è vero che Puddu,

sostenitore della scelta del sardo realmente parlato in un singolo paese, se n’è discostato. Se è vero

che la LSC è presentata come tipo intermedio fra logudorese e campidanese, in realtà essa è

palesemente logudorese, a cominciare dalla morfologia, e non è affatto dimostrato ch’essa sia

comprensibile per tutti i Sardi.

La LSC è stata adottata dalla Regione Sardegna il 18 Aprile 2006, quale lingua di sola “uscita”, ma

si sta rafforzando la corrente di pensiero, sostenuta da associazioni politiche e culturali, la quale

s’impegna affinché l’uso della LSC si diffonda, a cominciare dalle scuole e dai mezzi di

comunicazione: la delberazione della Regione, infatti, di per sé ha un valore piú simbolico che

pratico, e l’adozione della LSC sembra un biglietto di visita a sancire il principio del bilinguismo.

È necessario a questo punto riflettere su quel che significhi l’idea di una lingua sarda unica.

Se si vuole scegliere una varietà esistente, gran parte dell’isola non capirebbe né accetterebbe

l’idioma adottato, qualunque esso fosse, e la storia dimostra inoltre che le quattro favelle

summenzionate si sono elevate al livello di lingue letterarie, cioè – vorrei che il discorso fosse piú

chiaro – il logudorese illustre non si è affermato in tutta l’isola108. Ancor piú che il logudorese

illustre, il quale è perlomeno dotato di una tradizione letteraria e non è mai stato imposto a nessuno,

i Campidanesi rifiutano e il logudorese targato LSU e il logudorese targato LSC, poché considerano

estranee entrambe le lingue “unificate”: come si può seriamente sostenere che oggi i Campidanesi si

mettano a scrivere sas berbeghes e non is brebèis?

107 E sulla torre di Babele solo la limba di Mesania, su L’Unione Sarda, 26 Febbraio 2005, pag. 14.108 Tutte le proposte avanzate presuppongono invariabilmente la prevalenza del logudorese sul campidanese.

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Se invece si pretende di trovare una lingua intermedia che rifletta tutto il sardo non gallurese e

turritano, il tentativo non può che fallire, giacché il logudorese e il campidanese, in linguistica

sincronica, oggi non sono due varietà della stessa lingua, ma due lingue diverse. Non lo prova

soltanto il riconoscimento di esse quali idiomi distinti che i codici mondiali dei glottologi

impiegano (il piú noto è l’ISO 639-3), ma soprattutto il fatto che qualsiasi grammatica, quando pur

voglia presentarsi come semplicemente ‘sarda’, deve sempre distinguere tra forme campidanesi e

forme logudoresi. Affinché si possa sostenere l’unità di una lingua in tutte le sue varietà, bisogna

che vi sia una reciproca intelligibilità sufficiente, ma se grandi sono le differenze di fonologia,

morfologia, sintassi e lessico, in tutti e quattro o solamente in alcuni di codesti quattro ambiti, la

lingua non è piú una sola: questo è appunto il caso del rapporto fra logudorese e campidanese, e

Non è verosimile una conversazione tra un nuorese e un cagliaritano se ognuno adopera la sua

varietà linguistica; oggi è molto raro trovare in logudorese e campidanese due frasi non solo uguali,

ma che anche non presentino diversità significative.

Si può provare a unificare le varietà di un’unica lingua, ossia a trovare forme comuni comprensibili

per tutti i parlanti; non si possono unificare due lingue distinte.

Lo stesso termine macrovarietà non è altro che un eufemismo: il Blasco, a proposito di logudorese

e campidanese, lo definisce “Nella dialettologia, insieme di dialetti circoscritti da un fascio di

isoglosse, ossia da una barriera formata da piú isoglosse che si affastellano e s’intersecano lungo

un percorso poco uniforme, dove può sorgere un’area grigia (anfizona)”109. E ciò è esattamente il

criterio per cui si individuano due differenti lingue all’interno di un gruppo, è il principio di

separazione fra lingue affini.

Tale situazione è evidente, ma da molte persone non è accettata a causa del dogma dell’unità

linguistica sarda: si pensi all’ottimo lessicografo Puddu, a parere del quale “sa língua sarda, puru

cun totu is diferéntzias chi tènidi, est una língua rigorosamenti unitària, a su narri de is

istudiosus”110; nello stesso manifesto della LSC si legge che “le attuali differenze interne” sarebbero

“fondamentalmente di tipo fonetico – e molto limitatamente di tipo grammaticale e lessicale”. Gli è

che, o per idealismo sentimentalista, o per ottenebramento da nazionalismo, non si gradisce

l’espressione ‘due lingue’, ma una rigorosa valutazione scientifica non può fare altro che

riconoscere l’impossibilità dell’unificazione; è alquanto ipocrito l’atteggiamento di quei linguisti i

quali pretendono di convincere che vi siano soltanto poche differenze limtate al settore fonetico.

Una caratteristica delle varie ipotesi di codificazione e scelta d’una lingua unica, a mio avviso, è che

esse paiono partire dall’assunto che il sardo non sia mai stato scritto: i loro sostenitori si sentono

109 E. Blasco Ferrer, Glossario di linguistica sarda, CUEC, Cagliari, 2008, pag. 86.110 M. Puddu, Istoria de sa limba sarda, Domus de Janas, Dolianova, 2000, pagg. 67-68.

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pionieri, quasi che fossero (o si fossero) investiti del ruolo di fondatori, o forse rifondatori, di una

lingua solo orale e massimamente frammentata. Non si tiene, cioè, minimamente conto della lunga

storia scritta di quell’insieme linguistico chiamato sardo, e di tutte le opere letterarie, le quali,

benché non si elevino all’altezza di capolavori, tuttavia hanno avuto larga circolazione, divenendo

talvolta, come nel caso degli inni sacri, autentico patrimonio della popolazione dell’isola, in

larghissima maggioranza analfabeta. Le proposte recenti infatti per nulla si curano delle opere

letterarie: possibile che per codificatori e glottopoieti la storia letteraria sarda non valga nulla?

Possibilissimo: ché molti fra costoro non la conoscono.

In merito alla lingua mediana, essa non ha niente di originale, ma solamente mescola alcuni tratti

logudoresi con altri campidanesi; va poi aggiunto che codest’anfizona non ha mai esercitato una

forza d’attrazione sulle parlate contigue, sia logudoresi sia campidanesi, ma ha consentito piuttosto

ai suoi abitanti di capire a sufficienza i vicini del Capo di Sopra e del capo di Sotto. Leggo che

qualcuno, dopo l’uscita del libro di La Croce, pensa alla parlata di Tonara come lingua di mesania

‘nazionale’, e a me, con tutto il rispetto per i Tonaresi, per il loro paese e per il loro torrone, viene

spontaneo domandare: quando i Tonaresi stessi, come il loro piú noto scrittore Peppino Mereu,

hanno sempre scritto in logudorese illustre, come si può pensare che il tonarese assuma dall’oggi al

domani tanto prestigio da essere adottato da tutti i Sardi?

Su altre idee veramente assurde, come quella di scrivere un’unica varietà sarda (il logudorese,

ovviamente) da pronunziare in modo differente da zona a zona, mi pare che basti dire questo:

qualsiasi lingua codificata possiede una pronunzia definita, quantunque piccole variazioni siano

ammesse, ma pensare che cantaret si possa automaticamente volgere in cantessit, o che deghe si

legga dèxi, significa non capire il nesso fra i concetti di sistema fonematico e di scrittura fonetica.

Soltanto la scrittura ideogrammica è indipendente dalla fonetica.

Quanto al logudorese illustre di Araolla e Delogu Ibba e Giovanni Spano, oggi non è prospettato

come lingua rappresentativa di tutta la Sardegna, essendogli preferita, come dimostra il caso della

LSU, una varietà logudorese che, a parte i suoi elementi di artificiosità, risulta piú centro-

meridionale, ed è assolutamente priva di storia letteraria.

Riguardo appunto alla tanto diffusa predilezione pel nuorese, credo che all’origine di siffatta

inclinazione sia un’errata interpretazione dell’opera di Wagner e un malinteso senso di devozione al

maestro tedesco.

È necessario allora ricordare brevemente la figura di Wagner. Egli è stato indiscutibilmente il

fondatore della linguistica sarda, nell’ambito della quale le sue opere eccellono, ed uno dei migliori

glottologi romanzi. Possedeva vastissima preparazione ed instancabile curiosità intellettuale, ed era

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dotato di una capacità d’apprendere le lingue piú unica che rara; i suoi meriti scientifici sono

assolutamente notabili. Ciò che, anche per rispetto dello stesso professore amburghese, è ingiusto

fare, è che qualcuno usi Wagner per fini proprî, attribuendogli ciò che egli non disse mai e

accollandogli intenzioni che giammai ebbe. Wagner era un tardo romantico, spinto dall’amore per

l’autoctono e l’avito: “Tre sole regioni europee vale la pena di visitare: la Sardegna, l’Albania ed

il Taigeto” fu una delle sue affermazioni inequivocabili. Aveva verso la Sardegna lo stesso

atteggiamento degli antropologi che si recano in luoghi poco contaminati dalla civiltà moderna,

come le zone piú impervie dell’isola di Nuova Guinea: l’avvento della civiltà moderna cambia

radicalmente i costumi di vita delle popolazioni, e questo è proprio ciò che il tedesco paventava111.

Wagner non era minimamente interessato a discussioni sulla codificazione della lingua sarda quale

s’intende oggi, perché egli conosceva bene la letteratura sarda (ovverosia la codificazione già

esistente), la quale invero non lo appassionava, essendo, a suo parere, tale letteratura dotta,

latineggiante e lontana dalla lingua viva: la codificazione tende a ingessare una lingua, dunque è

pericolosa per la salute della parlata popolare. Ai tempi di Wagner – è bene ricordarlo – quasi tutti i

sardi avevano ancora un’unica lingua nativa, e non si poneva il problema di preservarne l’esistenza

come invece accade ai nostri giorni: pigliare adesso, in nome di Wagner, per lingua scritta una tra le

piú conservative varietà nuoresi significa fraintendere le idee del linguista di Monaco.

Wagner era infatuato dei Sardi del centro montano, che considerava alti e belli, fieri e battaglieri, e

li contrapponeva ai contadini meridionali e agli abitanti delle coste, che reputava bassi e brutti, vili e

arrendevoli, giusta un paradigma degno di Lavater o Lombroso. Non nego che nelle idee di Wagner

possa essere eziandio qualcosa di vero o verisimile, ma, a parte il fatto che non è dato conoscere

etnie solamente virtuose o soltanto malvagie, bisogna rammentare che i Logudoresi, come dimostra

il nome geografico con cui sono appellati, non sono tutti montanari, e in una parte della Barbagia

stessa vive gente che parla campidanese. L’amore di Wagner per il centro della Sardegna si capisce

soltanto se si rammentano le sue convinzioni razziali: laddove la lingua è piú pura, la razza è piú

incontaminata. Di conseguenza il sardo logudorese è piú genuino del campidanese e, ovviamente,

delle altre lingue di Sardegna: i Sardi del Centro sono piú sardi degli altri. Ecco le equazioni:

logudorese = puro, campidanese = bastardo. Quante volte si ode che “Il logudorese è la vera

lingua sarda”? Nella storia s’incontrano troppi ‘popoli eletti’ o supposti tali: mi pare che, con tutta

franchezza, in Sardegna non se ne senta il bisogno.

Gli effetti disastrosi che simili opinioni mal recepite esercitano sulle convinzioni paralinguistiche e

parastoriche di molta gente sono palesi: qualcuno addirittura ha pensato al sardo di Bitti come

lingua ufficiale, perocché esso rappresenterebbe il miglior esempio di purezza neolatina, mentre lo

111 A questo proposito si veda l’articolo di Roberto Bolognesi Quanti luoghi comuni nella lingua sarda, su L’UnioneSarda, 13 Giugno 2005, pag. 21.

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stesso benemerito Wagner, ben piú di mezzo secolo or sono, osservava che le consonanti sorde

intervocaliche stavano subendo lenizione persino lí, ovverosia nella zona ritenuta la piú

conservativa dell’isola, e che i maestri bittesi correggevano i ragazzini del paese quando questi

recitavano le preghiere secondo la pronunzia locale e non quella della lingua logudorese

scritta, cioè dicevano su’itzu alla bittese in luogo di su fizu!

Soltanto se si valúta tutto questo, cioè se si considera l’autentica ‘vaghnerite’ che affligge finanche

linguisti o presunti tali, si spiegano asserzioni come quelle dello stesso Bolognesi (“nessuno è stato

talmente scellerato da proporre una variante campidanese come lingua standard per tutti i

sardi”112), o di Porru, il quale minacciosamente avverte che, al posto della LSU, la commissione

regionale avrebbe potuto adottare addirittura il nuorese “in ossequio alle tesi rispettabilissime di

Max Leopold Wagner, di Mighel de Unamuno, di Shigeaki Sugeta e di Michele Contini”113. Io dico:

ma se tanto si vuole essere tanto conservatori, perché non si torna al latino, lingua sicuramente ben

codificata?

Non havvi ragione per inventare, col pretesto della codificazione o normalizzazione, lingue sarde

nuove o originarie114: in Sardegna, come i testi scritti dimostrano, e come la stessa coscienza dei

Sardi prova, esistono da secoli quattro diverse lingue letterarie, ovverosia esistono una letteratura

logudorese, una campidanese, una gallurese e una turritana, ognuna delle quali è sufficientemente

unitaria, e non havvi nemmeno ragione per cui qualcuna di queste debba essere soppressa nell’uso

scritto (o addirittura orale, in prospettiva). Non esiste la lingua sarda: esistono quattro lingue

sarde115.

A questo punto mi pare opportuna una riflessione di carattere storico, poiché queste discussioni

sull’unificazione linguistica sarda risentono di un preconcetto ottocentesco, esprimibile nella

formula ‘stato-nazione’. La scienza linguistica moderna si sviluppò mirabilmente ed

impetuosamente nel XIX secolo, epoca che coincide con la diffusione del nazionalismo. Tale

dottrina politica fu influenzata dalla glottologia, ma a sua volta influenzò grandemente i linguisti, in

una maniera tanto forte che le conseguenze si avvertono agevolmente pure ai nostri tempi. Col

nazionalismo, a partire dalla Francia della Rivoluzione, si affermò il principio dello ‘stato

nazionale’: un territorio, una patria, una nazione, una lingua, uno stato; Alessandro Manzoni, in

Marzo 1821, di ‘nazione’ formulò la chiara definizione seguente: “Una d’arme, di lingua,

112 Per una convivenza di tutte le “limbe”, su L’Unione Sarda, 4 Aprile 2005, pag. 27. 113 Ma la limba non è stata sperimentata nella scuola, su L’Unione Sarda, 7 Marzo 2005, pag. 19.114 Di scoperte di lingue nuove si potrebbe parlare se si ritrovassero testi in sardo nuragico, non a proposito del sardoneolatino.115 E non si può essere certi affatto né che, prima della nascita del gallurese e del turritano, le tre varietà del sardomedioevale formassero un’unica lingua, né che a quei tempi in Sardegna non vi fossero altri idiomi.

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d’altare, / Di memorie, di sangue e di cor”. Conseguenza di ciò fu che essa parola (letteralmente

‘nascita’ e poi ‘etnia’) divenne sinonimo di ‘stato’, perfino nella sua accezione territoriale.

Proprio la Francia, nella quale già nel Medio Evo il sentimento e la retorica nazionale furono

fortemente alimentati dalla monarchia, è in Europa l’esempio di stato moderno nazionalista e

centralista (oltre che laicista) per eccellenza: come ha scritto Fabio Ratto Trabucco, “Col passare

dei secoli, nel paese transalpino si è sviluppata una politica di accentramento amministrativo che è

andata di pari passo con il soffocamento delle identità regionali. la lotta contro le autonomie

locali, comunali e feudali, e contro gli idiomi e le culture minoritarie, ha infatti tradizioni antiche

in un paese nel quale la ‘lingua del re’ fu ritenuta, fin dal Rinascimento, uno degli elementi di

coesione e di unità statale. Lo Stato francese, per questa visione fondamentalista della lingua, ha

sempre considerato tutte le comunità allofone del suo territorio non solo e non tanto come nemici

dell’organizzazione centralizzata, ma piuttosto come situazioni di anomalia culturale, da eliminare

attraverso l’introduzione della “civilizzazione” francese. Nello stesso tempo la Francia ha

considerato le popolazioni del suo vasto impero coloniale come soggetti cui “donare”, volenti o

nolenti, la sua lingua e la sua cultura116, perché solo con l’assorbimento di questi valori avrebbero

potuto incamminarsi verso il progresso”117. Da queste parole chiarissime si evince altresí il legame

fra nazionalismo e colonialismo, oltre all’insofferenza per le minoranze etniche.

Ogni stato, soprattutto gli ‘stati nazionali’, cominciò ad adottare una politica linguistica, per

rafforzare la lingua della nazione dominante e affossare quelle delle minoranze; parallelamente

sorse una linguistica politica, vale a dire che alcuni linguisti cominciarono ad agire non per iscopi

puramente scientifici, bensí nazionalistici, al servizio del potere politico che ben li ripagò con

cattedre universitarie e carriere sfolgoranti. In quel clima di esasperato nazionalismo, nell’Europa

della fine dell’Ottocento il riconoscimento di un qualche idioma quale lingua a sé stante ea sancito

con l’aggettivo indipendente, che richiamava immediatamente concetti politici come quelli di

indipendenza, secessione, lotta nazionale.

Anche in istati ufficialmente multietnici la linguistica ha obbedito alle esigenze del potere politico:

nell’ex Unione Sovietica, per esempio, la Repubblica di Moldavia aveva come ufficiale la lingua

chiamata ‘moldava’ e non ‘romena’, affinché non fosse in nessun modo stimolata la tendenza

all’unificazione di quel territorio con la madrepatria romena118; i glottologi sovietici si sforzarono

dunque di dimostrare l’indipendenza del romeno dal moldavo, amplificando ed esaltando ogni

differenza tra la parlata locale e la lingua letteraria, fino a creare un modello ortografico e

grammaticale distinto. Il caso forse maggiormente clamoroso, e per di piú molto recente, di

116 Per esempio nei libri scolastici in lingua francese distribuiti in Senegal si legge “Noi discendiamo dai Galli”.117 Il regime linguistico e la tutela delle minoranze in Francia, pubblicato su Il Politico, Settembre-Dicembre 2005, n. 3,Milano, pagine 523-541.118 La Moldavia è abitata anche da molti Russi e Ucraini, ed esiste pure una minoranza turca.

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adeguamento della linguistica alle esigenze della politica è rappresentato dalla lingua serbo-croata o

jugoslava, ufficiale nell’ex Jugoslavia. Questo idioma è usato da tre principali comunità culturali e

religiose: i cristiani cattolici detti Croati dal nome della regione in cui prevalgono, i cristiani

ortodossi detti Serbi, i musulmani prevalenti in Bosnia. Finché la Jugoslavia rimase unita come

stato, si è parlò sempre di lingua serbo-croata, soltanto suddivisa in alcune varietà, ma da quando

quello stato si è decomposto, le tre nuove repubbliche di Serbia, Croazia e Bosnia hanno voluto

denominare la propria lingua con il nome dello stato stesso, ed è invalsa, presso la stessa comunità

scientifica, l’abitudine di chiamre serba, croata e bosniaca la lingua piú diffusa nei tre nuovi

rispettivi stati. In realtà le differenze tra serbo, croato e bosniaco sono prive di rilievo, e non

impediscono minimamente la comunicazione e la comprensione reciproca fra i parlanti: cosí come

adesso si danno tre nomi diversi alle suddette varietà della stessa lingua, non ci si dovrà stupire se

ugualmente il Montenegro, ultimo nato fra gli stati indipendenti dell’ex Jugoslavia, darà il proprio

nome al serbo-croato, proclamandolo montenegrino.

Lo Stato Italiano nacque su imitazione del modello francese, e la sua politica linguistica non se ne

discostò granché. Lo Stato Italiano nel corso dei decenni ha dovuto però riconoscere la presenza di

minoranze linguistiche, dapprima quelle legate ai grandi stati europei (germanofoni nel Tirolo

Meridionale, francofoni in Valle d’Aosta), poi il ladino dolomitico e successivamente il friulano, il

sardo e le isole linguistiche greche ed albanesi, senza però consentire un autentico bilinguismo né

ammettere la presenza delle corrispondenti minoranze etniche: tutte le altre parlate della Penisola

non godono di nessuna tutela e ricadono sotto la qualificazione di ‘dialetti’. Orbene basta consultare

un efficace fonte di conoscenza di quest’epoca qual è Wikipedia, per verificare che la comunità

scientifica, parimenti a istituzioni rispettate come l’UNESCO, per motivi esclusivi di linguistica

sincronica e senza sconfinare in campo politico, definisce ‘lingue’ e non ‘dialetti’ il piemontese, il

lombardo, l’emiliano-romagnolo, il ligure, il veneto, il campano-pugliese e il siculo-calabro-

salentino.

Va rammentato che la Carta Europea delle Lingue Regionali o Minoritarie all’Articolo 1 afferma

che per “lingue regionali o minoritarie si intendono le lingue ... che non sono dialetti della lingua

ufficiale dello stato”. L’atto fu approvato il 25 Giugno 1992 ed entrò in vigore il I Marzo 1998:

l’Italia lo firmò il 27 Giugno 2000 ma non l’ha ancora ratificato.

Approdò all’esame della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, nel Giugno del 2009, la

proposta d’introdurre nelle scuole elementari l’insegnamento delle lingue locali, con riferimento

alle “specificità culturali, geografiche e storiche delle comunità locali”. Subito il quotidiano Il

Secolo d’Italia cosí ribatté: “L’apprendimento coattivo del dialetto postula sul piano culturale,

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antropologico e istituzionale la dissoluzione dell’unità d’Italia”. Oibò! Qui, con autentico paraocchî

ottocentesco, si associa automaticamente il riconoscimento di una lingua all’esistenza di un’etnia, la

quale possa rivendicare l’indipendenza politica. In un’epoca storica segnata dalle migrazioni e da

profondi mutamenti culturali, tali convinzioni suscitano autentico sgomento.

L’odio nazionalista nei confronti delle lingue locali è alimentato anche da molti linguisti, che

spacciano per glottologiche le situazioni sociolinguistiche: si considerino le dichiarazioni di un Gian

Luigi Beccaria (“I dialetti servono soltanto per parlare di peperoni”, disse una volta in televisione,

e poi: “Non sanno che i dialetti si parlano, non si insegnano. Né si scrivono, a meno di essere poeti.

Un dialetto è un sistema linguistico che soddisfa egregiamente, delle nostre esigenze espressive,

soltanto alcuni aspetti (l’usuale, il pratico, l’affettivo, il familiare), ma non altri (il tecnico, il

filosofico, lo scientifico). «In dialetto - diceva il grande poeta dialettale Raffaello Baldini - si può

parlare con Dio, non si può parlare di Dio». Non credo che in dialetto si stampino studi o si

facciano dibattiti di teologia. Quando un dialettofono scrive, scrive in italiano”119) o di un Raffaele

Simone (“Neppure sardo e friulano sono lingue a parte. Lo status di lingua concesso ad alcuni

dialetti come il sardo e il friulano è di natura puramente strategica. Per evitare attriti, è stato

conferito a comunità fortemente consapevoli di sé, autonome e dotate di dialetti diversi quanto

basta a convincerle che le loro siano lingue. Ma in Italia c’è una sola lingua, l’italiano. Diverso è

il caso dell’albanese e del tedesco: sono lingue minoritarie”120).

Costoro fingono di non sapere che la lingua italiana ha prosperata finché sono fiorite le lingue locali

(da loro appellate ‘dialetti’), proprio in virtú del fatto che la lingua italiana era coltivata solamente

da pochi dotti: non appena si è cercato di diffonderla a scapito delle favelle delle piccole nazioni, ha

cominciato a palesarsi il fenomeno dell’italiano regionale: l’italiano infatti ha subito negli ultimi

sessant’anni piú cambiamenti di quelli ch’erano avvenuti in cinque secoli. E va precisato a scanso

d’equivoci che non è assolutamente l’italiano illustre il nemico delle lingue di minoranza: tanto la

lingua letteraria di Boccaccio quanto gli idiomi delle piccole nazioni sono devastati dall’italiano

regionale, l’‘italiese’ delle cento parole. Quest’ultima mezza lingua ha preso il posto di ciò che

aveva avuto vigore per secoli, e – per le persone di cultura – era coesistito con l’italiano letterario:

penso che il vocabolo piú idoneo a significare che cosa rappresenta l’assunzione dell’italiano

regionale come lingua nativa, sia ‘disgrazia’.

In realtà talune lingue della Penisola, quali il veneto, il lombardo e il napoletano, godono di una

letteratura illustre o sono state idiomi ufficiali dei rispettivi stati. A causa della politica linguistica di

119 Su Tuttolibri, 10 Ottobre 2010. Si noti che questo signore, a meno che non vi sia stato un refuso nell’articolo, pareaver dimenticato che il verbo satisfare/sodisfare/soddisfare, parimenti a disfare, nella storia della lingua italiana, èconiugato come fare, al quale s’aggiunge il prefisso bisillabo: è corretta la forma soddisfà tronca, mentre soddisfa conaccento sulla penultima è colloquiale.120 Venerdí di Repubblica, 25 Settembre 2010.

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genocidio culturale perpetrata dallo Stato Italiano, la quale ha spinto la gente comune a disprezzare

la propria parlata locale, sul piano sociolinguistico tutte le lingue minori, eccezion fatta per il

francese in Valle d’Aosta e il tedesco in Tirolo Meridionale121, si sono ridotte a dialetti: ciò è

indiscutibile, ma Simone omette di dire che in linguistica sincronica e diacronica la definizione di

‘dialetto’ è assolutamente diversa, e che anche in sociolinguistica la situazione in passato era

differente; si commette poi uno strafalcione quando si associano al tedesco, quali idiomi di

minoranza, le isole linguistiche albanesi in Italia: chi parla albanese conosce certamente la varietà

siciliana, calabrese o lucana della sua zona, perciocché la sua parlata è sociolinguisticamente

subordinata al piú vasto idioma locale.

Riguardo alla tesi per la quale in ‘dialetto’ non si possano esprimere certi concetti, basti citare un

esempio a proposito del Sudafrica: oggi in lingua zulu si compongono pregevoli melodrammi,

mentre in passato la voce ‘zulú’ era sinonimo di ‘incivile’. Il nazionalismo linguistico non è altro

che una forma di razzismo.

Perfino Tullio De Mauro, consapevole della notevolezza delle favelle locali (“La conoscenza del

dialetto fornisce strumenti linguistici che migliorano anche la padronanza dell’italiano e facilitano

l’apprendimento delle lingue straniere”122) per le quali ha sempre mostrato rispetto pur non

riuscendo a considerarne bene la crisi profonda (“I dialetti in Italia godono di buona salute” – ha

dichiarato in varie occasioni), rimane per altri aspetti prigioniero dei preconcetti ottocenteschi:

nonché impiega la parola ‘dialetto’ senza distinzioni, ma la sua classificazione dei volgari della

Penisola appare piú la proiezione linguistica della Grande Italia vagheggiata dai garibaldini che una

schietta valutazione scientifica123.

Pare che l’idea di ‘unità nazionale’, tanto per lo ‘stato-nazione’ quanto per le minoranze etniche, sia

assurto a dogma: nella maggior parte dell’Europa e dell’intero Occidente non si può sostenere

l’esistenza di gruppi etnici indigeni, non si può parlare di stati multinazionali o nazioni composite

riguardo agli autoctoni; ciò è politicamente scorretto, e l’aggettivo ‘multietnico’, piú usato di

‘multinazionale’ (il quale risente dell’impiego scorretto del termine ‘nazione’), è ammesso soltanto

per indicare la presenza di immigrati, con le loro lingue e culture, in un certo stato. Soltanto a

proposito degli stati del Terzo Mondo, e in particolare per l’Africa, si riconosce la presenza di varie

etnie e le si classifica per consistenza numerica: nella ricca Europa no, giacché vale il principio

dell’‘unità nazionale’. Questo è l’odierno pensiero dominante.

121 Con i Francesi e con i Tedeschi di Germania e Austria lo Stato Italiano, trovandosi in posizione di debolezza, non hapotuto agire con troppa prepotenza, e ha dovuto concedere il bilinguismo (e consistenti agevolazioni economiche efiscali, quel che non è stato accordato alla Sardegna) in quelle due regioni di cultura e identità evidentemente nonitaliane.122 A seguito del piano di tutela dell’idioma locale in Calabria, 22 Novembre 2010.123 M. Dardano, Nuovo Manualetto di Linguistica Italiana, Bologna, Zanichelli, 2005.

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Per quanto riguarda la Sardegna e i Sardi, si deve riflettere se essi costituiscano nel nostro tempo

una nazione, quando un notevole numero di essi, pur non ispingendosi fino a festeggiare i

centocinquant’anni dello Stato Italiano, si definisce però italiano; e se la Nazione Sarda esiste, si

deve valutare se essa possa essere considerata unitaria, o piuttosto un insieme di nazioni: si

potrebbero adoperare forse i vocaboli ‘sovrannazione’ e ‘subnazioni’, e, in altri termini, domandarsi

se vi siano i Sardi e basta, ovvero se esistano innanzitutto i Campidanesi (o gente della Sardegna

meridionale), i Logudoresi-Nuoresi (Sardi del Centro-Nord), i Sassaresi e i Galluresi, e se ognuno

di questi quattro gruppi etnici comprenda significativi sottogruppi culturali e linguistici. Non è mia

invenzione che taluni Sassaresi dicano ancor oggi “Vado in Sardegna” quando si spostano nelle

zone di lingua diversa, e soprattutto che in Gallura e pure nel Sassarese siano chiamati li Saldi gli

abitanti delle vicine aree logudoresi, per rimarcarne la diversità da chi vive a settentrione; è noto

che i Campidanesi, appellando ‘Capo di Sotto’ la proprie contrade, si contrappongono al ‘Capo di

Sopra’ che indica tutto il resto dell’isola. Nel Nuorese sono detti abitualmente campidanesos quelli

del Capo di Sotto.

Invero Sardegna, siccome Penisola Italica e Penisola Iberica, è un nome geografico, e di per sé

non esprime un concetto etnico: in ciascuno di tali spazî potrebbe vivere sí una sola nazione, ma

potrebbero esservene pure due, dieci o vénti, con altrettante lingue. Di un’isola quale Hispaniola

pochi conoscono il nome, essendo il suo territorio suddiviso in due stati, Haiti e Repubblica

Domenicana: si può forse dire che il territorio comune d’Hispaniola presupponga l’unità etnica?

L’esistenza di una lingua non equivale di per sé alla presenza di una nazione: come l’etnologia

insegna, vi sono altri parametri da valutare; quel che però la storia dimostra, è che di norma a

differenze linguistiche si accompagnano difformità culturali.

Ugualmente a proposito del cosiddetto ‘paleosardo’ si riscontra la medesima cieca propensione a

non tollerare la pluralità: gli elenchi dei nomi delle popolazioni sarde, che i Romani redassero

indicando anche i luoghi in cui la maggior parte di esse era stanziata, suggeriscono una

composizione etnica complessa. Se si riuscisse a dimostrare per prima una presenza iberica, oppure

accadica, ovvero protocananea, per quale ragione si dovrebbe escludere per principio qualsiasi altro

elemento etnico e linguistico, come quello berbero, illirico, o etrusco? Perché dunque credere sia

esistito un solo linguaggio paleosardo e non i paleosardi?

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Chi dunque, con un mal celato ideale di purezza della razza, vuole eliminare il campidanese

ritenendolo un ostacolo all’unificazione linguistica, rammenti che esso è parlato, o almeno

conosciuto bene o male, da circa un milione di persone, cioè la maggioranza assoluta dei Sardi.

Tale tendenza si manifestò dopoché, il 16 Marzo 2010, la Provincia di Cagliari ebbe scelto il

campidanese, codificato nelle Arregulas suddette, quale lingua coufficiale con l’italiano. Subito si

ebbero reazioni durissime, soprattutto – e non può essere un caso – da parte di forze politiche

nazionaliste e indipendentiste. IRS il 18 Marzo nel suo sito Internet intitolò un articolo Due lingue

sarde. Una follia della Provincia di Cagliari e proclamò: “IRS – indipendèntzia Repùbrica de

Sardigna denuncia l’iniziativa della Provincia di Cagliari che ha votato nella giornata di ieri

all’unanimità in Consiglio Provinciale una normalizzazione grafica della variante meridionale del

sardo ... con il risultato di sancire politicamente la divisione della lingua sarda in due vere e

proprie lingue, intese arbitrariamente come “campidanese” e “logudorese” ... Il sistema

linguistico sardo è un sistema unitario, nel quale le differenze fonetiche sono considerate una

ricchezza di forme espressive e non possono essere utilizzate arbitrariamente per stabilire rigidi

confini interni. IRS ritiene che una norma scritta unitaria seria e ragionata debba essere il

trampolino di lancio per un utilizzo maturo e serio della propria lingua storica nel futuro ... La

Provincia di Cagliari si appresta a votare una proposta che divide arbitrariamente la lingua sarda

in due lingue, sfruttando le costruzioni mentali e culturali frutto di decenni di opposizione al

processo di rivivificazione della lingua sarda”; Sardigna Natzione, a conclusione di una sua nota,

scrisse: “Stante che la lingua è quella che si parla - con la sua multiforme ricchezza locale - e il

passaggio dall'oralità alla scrittura ne determina una rappresentazione, Sardigna Natzione

ribadisce la necessità' che questa rappresentazione sia unitaria in tutto il territorio nazionale”.

Come si vede, la mentalità è la medesima del nazionalismo italiano: un territorio ‘nazionale’, una

sola lingua ‘nazionale’. Coloro non capiscono che imporre in tutta la Sardegna un qualsiasi tipo di

logudorese a scapito delle varietà locali, cioè scavalcandole, è un atto di violenza che appare

concepito col fine d’annullare le realtà locali; nelle scuole poi ciò significa introdurre una nuova

lingua straniera: errore gravissimo sul piano glottodidattico, tale da ostacolare ancor piú la

sardofonia. Uguale giudizio varrebbe se qualcuno pensasse di obbligare a usare il campidanese a

Núoro, il gallurese a Oristano e il turritano a Cagliari.

Dopo la pubblicazione dell’articolo Un po’ di arregulas per affossare il sardo e vincere le elezioni

(18 Marzo), nel quale si contestava l’adozione del campidanese da parte della Provincia in quanto

“una parte, non so quanto grande, degli autori de is arregulas lavorano per due standard e due

lingue”, al sito www.gianfrancopintoreblogspot.com, uno fra i piú aggiornati luoghi di dibattito

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sulla cultura sarda124, io inviai il 20 Marzo la lettera intitolata Sardínnia: curturas e línguas

diferèntis che qui riporto:

Saludi. A parri miu sa detzididura de sa Provinça’e Càllari espressat s’arrealidadi sceti, ne prus

ne mancu: in Sardínnia dhoi at cuàturu línguas indígenas noulatinas òi: logudoresu e

campidanesu, galluresu e sassaresu, is primas duas de unu grupu, is segundas de un’atru. Is

assótzius mundialis de linguistas dhu testimonjant (castiai su códixi ISO 639-3, su jassu

www.ethnologue.com / Languages of Italy ecètera), e nòsi ndi acataus nòsu totus, si no teneus su

paraògus. Mancai custa situatziòni dispraxat a calincunu, candu is sistemas gramatalicalis (est a

nai fonologia, morfologia e sintassi, in prus de is fuèdhus umperaus) bessint diferèntis e comunigai

a pari est barrancu mannu, tocat a chistionai de línguas e totu, e no si cuai desuta’e “bariantis”,

“bariedadis” o atru, chi nci funt aintru’e dónnia língua e indidant intamus is mudàntzias piticas de

bidha a bidha. Agoa no si dèpit scarèsci chi a donniuna de is cuàturu línguas no dhi mancant obras

literàrias. Sa situatziòni est custa ca s’istória at ocasionau custu: pòdit èssi chi siat una farta, ma

pòdit èssi un’arrichesa puru.

Sardínnia est innanti’e totu unu lómini jogràfigu, cumènti’e is fuèdhus Itàlia e Ispànnia, e un’ísula

de sèi, cumènti’e ísula, no tènnit po fortza una natziòni sola o una língua úniga.

In beridadi, a sa própiu manera chi s’Itàlia e s’Ispànnia tènnint medas curturas e medas natziònis,

in Sardínnia puru bivint unas cantu’e gèntis diferèntis. No dennègu chi de Natziòni Sarda si potzat

chistionai, ma si dhoi at, cussa est una “Natziòni de Natziònis”, po dhu nai cumènti afirmat sa lèi

ispanniola: bollinai una natziòni conjugada a su prurali.

Liju chi IRS e SN funt primadas cun sa Provinça’e Castedhu, e dèu, chi no cuncòrdu nemancu cun

s’assentu’e scriidura chi cussa dh’at sçoberau, a is de IRS e SN dhis pregòntu:

¿poita no si funt chesçaus tanti candu sa própiu cosa dh’at fata chini pigat sa LSU o sa

LSC?

¿fortzis timint a chitai s’independéntzia’e sa Sardínnia s’umperu’e su sardu de Cabu’e

suta?

¿fortzis ind unu stadu, comarca o arrejòni dhoi dèpit èssi una língua arreconnota sola?

¿fortzis candu sa Sardínnia fiat líbbera dhoi fiat una língua ufitziali sola, e si proibbiant is

atras? ¿E fortzis intzandus dhoi fiat unu stadu unitàriu solu?

124 Gianfranco Pintore sostiene l’uso di una sola varietà sarda come lingua scritta per tutta la Sardegna.

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E si pòdit açungi: ¿a su tempus de is nuraxis fortzis si chistionàt una língua sceti? ¿Chini nòsi

dh’amostat?

No bastat a tzitai Ispànnia, Svítzera o Belju, ma arremònu chi in Perú calisiollat língua logali est

ufitziali sigumènti arreconnota, e, tanti po ndi argunas, in s’Uniòni Soviétiga passada is línguas de

Ceremissus e Morduinus fiant ufitzialis in duas “bariedadis” (bollinai línguas) e sa de is Vógulus-

Ostiagus in tres.

S’agualamentu’e sa bidea de terra cun sa bidea de natziòni úniga est un’eredadi mala de su

natzionalismu oprimidòri de s’Otuxèntus, arrexòni’e sçacus mannus in s’istória probiana: a

caristia sa mentalidadi centralista est bia tambèni, e bòllit arremprasai su stadu italianu cund

un’atru stadu, sardu e pitichedhu ma acentradòri. Po chi su spetat a igusta chistiòni, a palas apubu

unu pentzamentu fadhiu: su logudoresu iat èssi sa língua pura de is Sardus sintzillus, is Sardus

bèrus, e is atrus iant èssi burdus. A mèi mi parrit una cosa arratzista de spreai: gosintisidha is chi

ndi funt cumbintus, is tzurpus ecisaus chi sighint a Wagner, grandu linguista ma arromàntigu

arratzista arrorosu puru, chi peròu no dh’importàt nudha de propostas assuba’e línguas ufitzialis.

S’efetu’e custas atziònis est chi is Sardus si spartzint de prus, e intzandus dhu nau ladinu: is

campidanèsus tènnint una literadura de trexèntus cincuanta annus e prus, de Para Antoni Maria de

Stertzili fintzas a Frantziscu Carlini, e no intèndint sintidu’e inferioridadi perunu cun nèmus; no

arrenúntziant a sa língua intzòru, ne fuedhada ne scrita.

Che fare dunque? In una sua opera del 1994, il Blasco scriveva: “Se capiamo la profondità e

l’importanza di questa frattura, fra campidanese e logudorese, che come si vede è ‘storica’,

accetteremo più facilmente una norma duplice, che rispetti l’evoluzione differenziata del latino

nelle due regioni dell’isola”125. Egli, prima di convertirsi, forse solo temporaneamente, all’ipotesi

della LSU, proponeva dunque inequivocabilmente una doppia codificazione del sardo, cosí come

torna a proporre adesso, dopo aver pensato all’adozione di una lingua “mediana” del tipo che stiamo

per discutere: vale a dire che le due ‘macrovarietà’ sarde non sarebbero piú riconducibili ad una

norma unica; ha poi sostenuto ancor piú convintamente: “In Sardegna la storia, già a partire dal

latino, ha creato una netta biforcazione tra le varietà logudoresi e le varietà campidanesi, sicché la

ricerca di uno standard che si basi su una varietà logudorese ‘schiaccia’ l’identità etnico-

linguistica dei Campidanesi, e viceversa una lingua comune formata sulla base del campidanese

‘annulla’ le peculiarità linguistiche, e in fondo storico-linguistiche dei Logudoresi”126. Non

solamente di doppia codificazione si parla, ma si accenna anche all’intoccabile tema delle

differenze etniche.

125 E. Blasco Ferrer, Ello Ellus, pag. 167; si veda anche pag. 52 del medesimo libro.126 E. Blasco Ferrer, Tecniche di apprendimento e di insegnamento del sardo, Della Torre, Cagliari, 2005, pag. 22.

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Qualcuno obiettava e obietta però che non ci sarebbero esempî di doppia codificazione e che essa

sarebbe d’ostacolo allo sviluppo di una lingua nazionale.

Consideriamo allora la vecchia Unione Sovietica. Fra le decine di lingue che furono interessate a un

processo di codificazione – autentica prima codificazione, si badi bene, giacché parecchie non erano

mai state scritte – erano molte della famiglia uralica. Orbene tre di queste lingue, appartenenti al

gruppo ugro-finnico (sottogruppo finnico), furono e sono tuttora scritte in due diverse varietà: si

tratta del morduino, del comi, e del mari (detto pure ceremisso). Un’altra lingua dello stesso gruppo,

ma appartenente al sottogruppo ugro, ebbe addirittura tripla codificazione: è il hanty (prima

chiamato ostiaco), usato da poche migliaia di individui. È vero che la politica linguistica

dell’Unione Sovietica, non dissimilmente, d’altronde, da ogni altra politica linguistica proprio in

quanto ‘politica’, tenne conto di fattori non esclusivamente glottologici e spesso serví da sostegno

alle decisioni governative, ma in quest’ultimo caso non si può certamente affermare che un piccolo

popolo di pescatori ugri (oggi sono meno di quindicimila) potesse rappresentare un pericolo per la

stabilità dell’URSS, o almeno che simile conseguenza potesse avere una codificazione unica e non

triplice, la quale, in pratica, si sarebbe tradotta nella scelta della parlata di un piccolo gruppo di

villaggi come lingua scritta: semplicemente si constatò che le differenze fra le diverse parlate

rendevano preferibile l’adozione di tre varietà diverse come lingue scritte. Fu dunque una scelta di

praticità linguistica, non dovuta a calcoli politici: sul piano glottologico, si hanno effettivamente

due lingue morduine (erzya e moksha), due comi (sirieno e permiacco), due mari (occidentale e

orientale).

A me pare che si possano evitare contrasti per questioni linguistiche, se si giunge ad accettare il

principio seguente: ciascuna lingua sia riconosciuta ufficialmente nel luogo in cui si usa, cosicché

ogni autorità pubblica ed ogni istituzione giuridica e politica siano tenuti ad usare anche la lingua

locale, non soltanto quella ufficiale (o quelle ufficiali, se sono piú d’una) dello stato centrale.

Dunque nonché comune e provincia, ma regione e stato centrale e qualsivoglia altra entità giuridica

presente o avvenire, cosí come ospedali, scuole, questure e ogni ente ed istituzione pubblica, nel

caso della Sardegna, dovrebbero redigere documenti e mostrare cartelli in logudorese, campidanese,

gallurese e turritano, nelle zone in cui tali idiomi sono usati127. Bisogna costringere ogni istituzione

a usare la lingua locale a non imporre soltanto la propria: se, per esempio, un domani lo Stato

Italiano o l’Unione Europea vendessero la Sardegna, o solo parte di essa, alla Tunisia o alla Cina,

127 E ciò significa esattamente: a Carloforte il ligure, a Luras il logudorese, a Budoni centro il gallurese, ad Olbia città illogudorese ma in alcune sue frazioni il gallurese; ogni comune, secondo tradizioni e necessità, scelga quella lingua chele è propria o che sente piú vicina. A ciascuno il suo.

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dai nuovi dominatori si dovrebbe ugualmente esigere il rispetto della realtà linguistica. Tale criterio,

insomma, si limita a proteggere le lingue locali, senza imporre in alcun luogo l’uso esclusivo di

idiomi estranei: ciò è il contrario del nazionalismo, poiché è la semplice protezione del patrimonio

linguistico esistente in un certo luogo. Il riconoscimento delle quattro lingue sarde esistenti, tutte di

uguale dignità, non è cagione di divisione e di scontro, ma va visto come motivo di coesione: unità

nella diversità; Sardi sí, ma Sardi Logudoresi, Campidanesi, Galluresi e Turritani. Non è detto che

una o piú lingue si conservino meglio soltanto in uno stato indipendente: è sufficiente che uno stato

ammetta la sua natura multiculturale e ammetta il plurilinguismo. Il contrario di quel che fa il

nazionalismo: un nuovo stato indipendente può essere molto piú repressivo verso le sue minoranze

rispetto all’entità statale di provenienza.

Qualcuno potrebbe obiettare che a questo punto ogni paese, giusta il criterio suddetto, potrebbe

codificarsi la ‘sua’ lingua sarda, e per esempio si potrebbe domandare: che accadrebbe se il

consiglio comunale di Giba scrivesse praça e non pratza? Non accadrebbe niente: sempre

campidanese sarebbe, e si tratterebbe di questione meramente municipale.

Il nazionalismo ottocentesco si configurò come esaltazione bellicosa di una nazione e conseguente

aggressione a danno di nemici interni ed esterni, non fu sola protezione dei valori della nazione

stessa: il nazionalismo è stato, ed è ancora, non difesa ma offesa; è violenza, attacco, sopraffazione.

Piuttosto che distinguere fra ‘nazionalismo offensivo’ e ‘nazionalismo difensivo’, preferisco

contrapporre a ‘nazionalismo’ il composto greco etnofilassi, ossia ‘protezione della nazione’. Il

nazionalismo sardo in materia linguistica, per esempio, giunge insino al punto di affermare con tono

reboante che il logudorese e il campidanese sarebbero, come lessi alcuni mesi fa da qualche parte,

“invenzioni del colonizzatore straniero per dividere i Sardi e impedire lo sviluppo di una vera

lingua nazionale”128.

In conclusione, parlare ed insegnare ai bambini qualsiasi idioma e varietà sarda è una risposta al

nazionalismo italiano, e impiegare nello scritto il turritano, il gallurese e il campidanese oltre al

logudorese è una difesa dal nazionalismo sardo; al nazionalismo glottofago di qualsivoglia matrice

– tanto italiano quanto sardo, o in futuro di altro tipo – è opportuno rispondere che i Sardi

Meridionali, ossia Is de Parti’e Yòssu ovvero de Cabu’e Suta, hanno una loro lingua e una loro

letteratura, che vanno curate e protette laddove la gente le senta ancora proprie: la Nazione

Campidanese non accètta che la sua identità sia sacrificata all’idolo nazionalista.

128 Ecco perché mi convinco che certuni non conoscano la letteratura sarda. Vien da domandarsi, per esempio, quantopotesse interessare agli Spagnoli che Frate Antonio María componesse il Libro de comedias in campidanese: forse percodesti eruditi nazionalisti egli sarà stato pagato al fine di distruggere l’unità linguistica dell’isola, diabolico ispiratored’una cospirazione a danno della limba sarda comuna.

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Tabella su alcuni dei principali fatti ortografici e morfologici nei primi autori campidanesi (1688-1800 circa)

Ant.M.Est.

Contu S.Potito S.Barbara

Corongiu Cossu Purqueddu

Pintor S.

/k/

/g/

quigui

quigui

chighi

chighi

chi, quighi, gui

chi, quighi, gui

chighi

chighi

/ʃ//ʒ/

sci, xx

xx

x, sci, sxx

sci, xx

xx

sci, x, xxx

scisci

scix

/ɲ/

/ʎ/

ñ, gnll

ñll

gngl

gngl

gngl

gngl

gngl

gngl

/ʧ/

/ʤ/

ch, ci, çj, gi, x

chj, x

cigi, j

cigi

cigi

cigi

cigi

cigi

/ʦ/ ç, c ,z, tz c, z, tz z z z z z z, zz

/ɖ/ (cacum.)

d(d) d(d) dh d(d) d(d) d(d) d(d) d(d)

Perfetto -ei; -isi -esi manca manca -esi raro manca -esi mancaCondiz.pres.

aiat a inf.edimo inf.

iat a inf. iat a inf. ? iat a inf. iat a inf. iat a inf. iat a inf.

Cong.imperf.‘essere’

-(a)iriessiri

-essi -essifussi, fessi

-essifessi

-essifussi

-essifussi

-essifussi

-essifessi

Infinito -are

-ari -ari -ai -ai -ai -ari, -ai -airi, -ai -ai

Gerundio -endi-endu(ru)–andu(ru)

-endu -endu(ru)-endi-endu -endu(ru) -endu(ru) -endu(ru)

-endi(ri)-endu(ru)

Participio -adu-idu

-adu-idu

-au-idu, -iu

-adu-idu

-adu,-au-idu,-iu

-adu,-au-idu,-iu

-adu,-au-idu,-iu

-au-iu

Fut-fiat fuit, fut fiat fiat, fet fiat fut fiat fut fiatTengu-

tenjutenju tenju ? ? tengu tengu tengu tengu

NosiBosi

nosibosi, osi, si (raro)

nosiosi, si

??

nosi?

nosiosi

nosiosi

nosiosi

sisi

I primi sei fenomeni riguardano l’espressione di alcuni fonemi, i successivi sono morfologici. ConPintor Sirigu la lingua giunge ad un grado d’evoluzione grammaticale da cui, in sostanza, non si èancora allontanata.

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BIBLIOGRAFIA

È necessario distinguere i testi degli autori campidanesi, trattati in questa relazione, dalle opere

grammaticali e lessicografiche sulla lingua sarda in generale e sul campidanese in particolare. Per i

manoscritti valgono le indicazioni sulla collocazione nella Biblioteca Universitaria di Cagliari, date

nei capitoli precedenti.

EDIZIONI DI DOCUMENTI LETTERARÎ IN CAMPIDANESE

Anonimo, Sa scomuniga de Predi Antiogu arrettori de Masuddas, a cura di Antonello Satta,

Cagliari, Della Torre, 1983.

Frate ANTONIO MARÍA DA ESTERZILI, Libro de comedias, a cura di A. Luca de Martini,

Cagliari, Dicembre 2006, Centro di studi filologici sardi / Cuec.

S. BULLEGAS, Il teatro in Sardegna fra Cinque e Seicento, Cagliari, EDES, 1976 (su Carmona).

S. BULLEGAS, La Spagna, il teatro, la Sardegna, Cagliari, CUEC, 1992 (su Antonio María da

Esterzili).

S. BULLEGAS, La scena e il paesaggio, Dell’Orso, 1997 (su Vidal).

S. BULLEGAS, L’Urania Sulcitana di Salvatore Vidal. Classicità e teatralità della lingua sarda,

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F. CARLINI, S’omini chi bendiat su tempus, Sestu, Zonza, 2001.

L. COCCO, Poesias de Casteddu, Cagliari, Della Torre, 1981.

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Appendice I

Giuda nel Libro de comedias di Antonio María da Esterzili

La Comedia de la Passion de nuestro Señor Jesu Christo è la piú corposa fra le sacre

rappresentazioni del Libro de comedias (1688) di Antonio María da Esterzili. Abbiamo scelto il

passo seguente (versi 2070-2196) come esemplificazione di lingua e stili del frate cappuccino. Le

didascalie sono in castigliano.

(Agora entran a’ Christo, y sale Judas con la bolsa en manos echa el dinero en la mesa y se

desespera y se ahorca diziendo)

Judas.

Maledicta siat sa sorti 2070

qui ay gustu imat portadu!

Et poita mala morti

no mi ayada acabadu

innantis de custa notti?

Mancari imessiri129 abruxadu 2075

de una infernali flama

po no benni ay gustu istadu!

Maladita siat sa mama

qui a mimi adi ingendradu.

Mortu essiri ixerbeddadu 2080

innantis de custa dij!

Mortu essiri apugnaladu

solus po non birimi

ay custu puntu torradu!

Deu, Judas, maledictu 2085

sia de Deus primeramenti

129

= imi essiri.

107

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essendu qui apu traitu

cuddu sanguini innocenti

de avaricia ispintu.

Cuddus Angelus sagradus 2090

mi malaixanta in ęternu;

contra de mei ayradus

si mostinti in sempiternu

po qui biva cun is dañadus.

Maledictu siat su lati 2095

qui mat130 dadu mama mia!

Maladixu in custu instanti

is xelus in cumpañia

qui a mimi cobertu imanti131.

Maledita siat sa terra 2100

aundi seu abitadu!

Contra de mei sa perda

cun totu su quest criadu

mi fatzanta dura guerra!

Maleditu siat totu 2105

qui a mimi at dadu elementu!

Po’ birimi in custu afrontu

malaixu aqua et bentu

qui andadus mi sunti a’ tortu.

Est impossibili mai 2110

qui alcansi misericordia:

segura est capa a’ istari

in continua discordia

e in su infferru abruxari.

130 = mi at.131 = imi anti.

108

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Disgratiadu, itta appu fattu 2115

de bendiri a’ su maistu?

Certu ca a’ impicari mappu132

comenti e’ vellacu e’ tristu

qui a’ tottus serbat de ispantu.

Ma innantis bollu andari 2120

a’ is jugis de su senadu

po qui iddis bollu torrari

sa’ paga qui manti dadu

e’ de pustis imi impicari.

(Va’ Judas a’ consejo y buelve el dinero diziendo)

Judas.

Custus dinaris pigadi 2125

ca no mi gustat su pattu:

imeis133 boffidu ingannari

et deu quali mi agatu

senza de guadanjari!

Cayphas.

Pagu idi importat, Judas, 2130

qui cun nosu istesi ayradu:

de su qui imoi idi impudas

ididdairis pençadu

innantis de fairi su peccadu.

Tui e’ tottu bengisisti 2135

e’ intresti in su senadu

y ancu nos promitisti

darinosiddu ligadu.

132 = mi appu.133 = imi eis.

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(Agora se entra el consejo y judas queda en el cadalso diziendo)

Judas.

Et poitta incontinenti

no abaxada unu lampu 2140

in presentia de sa genti

possu134 mali qui appu fattu

et torridimi a’ nienti?

O’ furias infernalis

de dimonius in cust hora, 2145

Luciferu principali

et Sathanas ancora

benjanta po mi impicari.

(Agora salen Lucifer, y Sathanas con furia, y dize Lucifer)

Luciffer.

Itte olis? Nara, amigu,

mira cantu prestu seu: 2150

ay guddus qui amu eu

iddis accudu et non trigu.

Deu seu Lucifferu,

cuddu qui tui as llamadu:

prontu seu y aparichadu 2155

po ti portari a’ su infferru.

Sathanas.

Deu seu Sathanas

et benju po ti ajudari

si ti olis impicari

134 = po su.

110

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po qui mai no appas pasu. 2160

Itte ti pençasta fairi,

babu de vera discordia?

Non cha135 prus misericordia

undi ti potzas salvari.

Ei ga pençis agatari 2165

miserigordia in Deu?

Ma comenti deu seu

in su infferru asa istari.

Judas.

Aduncas itta apa a’ fairi,

tristu de mei isventuradu? 2170

Luciffer.

Su dugali est pręparadu

qui ti potzas impicari,

de pustis ti apa a’ portari

a’ su inferru condennadu.

Judas.

Ajudadimi aduncas tottu 2175

jai qui seis benidus;

fedi qui perda is sentidus

et prestu qui sia mortu.

Sathanas.

Si impicari os boleis

custa funi est preparada: 2180

sa cosa a’ manu teneis,

no perdais sa jornada.

135 = non chi at < no inchi at.

111

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(Judas se pone la cuerda al cuello: con vos temerosa dize)

Judas.

Hay de mei tristu mesquinu,

miradi ainca mat portadu

su vadu miu et destinu 2185

que est136 de morriri impicadu

et de mei sia buchinu.

A su infferru ęternali

intregu custa personi

po qui ini apa a’ pagari 2190

una tali traiçioni

qui apu bofidu portari.

Luciffer.

Andeus imo a’ su inferru

po in sempiternu pęnari

y aichi anta acabari 2195

is qui fainti tali hierru.

(Judas queda haorcado)

(Adesso portano fuori Cristo; sale Giuda con la borsa in mano, getta il denaro sul tavolo, si

dispera e s’impicca dicendo)

Giuda.

Maledetta sia la sorte 2070

che a questo mi ha portato!

E perché crudele morte

136 = qui est.

112

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non mi colse

prima di questa notte?

Magari mi fossi arso 2075

di un’infernale fiamma

per non venire a questo stato!

Maledetta sia la mamma

la quale me mi ha generato!

Morto fossi con le cervella schiacciate 2080

prima di questo giorno!

Morto fossi pugnalato

solo per non vedermi

giunto a questo punto!

Io, Giuda, maledetto 2085

sia da Dio primieramente,

essendo che ho tradito

quel sangue innocente,

spinto da avidità.

Quegli angeli sacri 2090

mi maledicano in eterno,

contro di me irati

si mostrino per sempre,

affinché viva con i dannati.

Maledetto sia il latte 2095

che m’ha dato mamma mia:

maledico in quest’istante

i cieli in sua compagnia,

che mi hanno sovrastato.

Maledetta sia la terra 2100

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dove io sono vissuto!

Contro di me la pietra,

con tutto ciò che è creato,

mi facciano dura guerra!

Maledetto sia ogni elemento 2105

che a me è toccato

perché mi vedessi in questa sorte!

Maledico acqua e vento

che mi hanno fatto torto.

È impossibile che mai 2110

ottenga misericordia:

sicuramente starò

in perenne sventura,

e all’inferno brucerò.

Disgraziato, che ho fatto? 2115

Vendere il maestro!

Certo che m’impiccherò

come mascalzone tristo:

che a tutti serva da sgomento.

Ma prima voglio andare 2120

dai giudici del senato

poiché voglio loro restituire

la paga che mi han dato,

e poi impiccarmi.

(Va Giuda al consiglio e restituisce il denaro, dicendo)

Giuda.

Prendete questo denaro 2125

ché non mi aggrada il patto:

114

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mi avete voluto ingannare,

ed io, quale mi trovo,

senza niente guadagnare!

Caifa.

Poco t’importa, Giuda, 2130

che con noi stia irato:

a quello di cui ora t’accusi

avresti dovuto pensare137

prima di commettere peccato.

Proprio tu venisti 2135

ed entrasti in senato,

ed anche ci promettesti

di consegnarcelo legato.

(Adesso esce il consiglio e Giuda rimane sul palco dicendo)

Giuda.

Ma perché immediatamente

non scende un lampo 2140

in presenza della gente,

per il male che ho fatto,

ad annullarmi?

O furie infernali,

fra i demòni adesso 2145

Lucifero per primo

ed anche Satana

vengano ad impiccarmi!

(Adesso salgono Lucifero e Satana con furia, e dice Lucifero)

137 Lett. ‘te lo fossi pensato!’ esclamativo.

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Lucifero.

Che vuoi? Di’, amico,

mira quanto sono lesto 2150

Da coloro che io amo

accorro presto e non tardo.

Io sono Lucifero,

quello che tu hai chiamato:

sono pronto e preparato 2155

per portarti all’inferno.

Satana.

Io sono Satanasso

e vengo per aiutarti

se ti vuoi impiccare,

perché giammai abbia riposo. 2160

Che cosa ti credevi di fare,

padre di vera discordia:

non c’è piú misericordia

con cui ti possa salvare.

E che pensi di trovare 2165

misericordia in Dio?

Come è vero che son io,

all’inferno tu starai.

Giuda.

Dunque che cosa farò,

me meschino sventurato? 2170

Lucifero.

La cavezza è preparata,

con cui ti possa impiccare,

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poi ti porterò

all’inferno condannato.

Giuda.

Aiutatemi dunque tutti 2175

giacché siete venuti:

fate che perda i sensi

e che sia morto presto.

Satana.

Se impiccare vi volete

questa fune è preparata: 2180

l’opportunità avete in mano,

non perdete l’occasione.

(Giuda si pone la corda al collo, e con voce tremante dice)

Giuda.

Ahimé tristo meschino,

guardate dove mi ha portato

il mio fato e destino, 2185

che è di morire impiccato

ed essere di me carnefice.

All’inferno eterno

consegno questa persona,

poiché lí pagherò 2190

un tale tradimento

che ho voluto perpetrare.

Lucifero.

Andiamo adesso all’inferno

per patire in eterno,

e lí finiranno 2195

117

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quelli che fanno tale sbaglio.

(Giuda resta impiccato).

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Appendice II

Il contrasto in campidanese di J.F. Carmona

Il cagliaritano Juan Francisco Carmona nacque nella seconda metà del XVI secolo, e fu forse

giurato di Cagliari nel 1623138. Fu autore di un breve dramma sacro in castigliano139 e delle

Alabanças de los santos de Serdeña (1631), manoscritto conservato nella Biblioteca Universitaria di

Cagliari, sotto la sigla Ms. S.P. 6.2.31, il quale comprende componimenti in castigliano e catalano.

In una delle lodi dei santi (le Alabanças de San George obispo suelense calaritano) l’autore

inserisce un contrasto fra un colto cittadino di Cagliari ed un pastore di Suelli, nel quale il cittadino

è indotto a parlare in campidanese perché il suo interlocutore non capisce il castigliano.

Il suddetto testo, che qui si prende in esame, ha grande importanza perché è, fra i monumenti finora

conosciuti, la prima attestazione scritta del campidanese moderno, idioma che dal raffinato e

ispaneggiantissimo Carmona è adoperata per solo scopo comico. I versi in campidanese sono

trentaquattro, e mostrano una lingua sicuramente vicina a quella di Frate Antonio María da Esterzili,

posteriore a Carmona di almeno due generazioni e autore della prima opera letteraria in

campidanese (Libro de comedias, 1688)140. È opportuno dunque un confronto fra i due autori, che

metta in evidenza le principali differenze linguistiche.

Le forme verbali pongu e tengu sono modellate sullo spagnolo, mentre Antonio María userà ancora

le forme neolatine ponju e tenju (< lat. *ponjo < poněo): ciò è indice di un maggiore influsso iberico

in Cagliari capitale. È rilevante la forma ais (da dais con caduta di d- in fonetica sintattica), V

persona dell’indicativo presente del verbo dari: i verbi donari e dari sono ancora in competizione, e

nel Settecento s’imporrà dona(r)i. Un altro esempio di fonetica sintattica si trova in sa ia. Per ‘bere’

è usato biri, omofono del verbo ‘vedere’. Per esprimere l’assenza Carmona usa no dua (= no dhu [<

dhoi] at), mentre Frate Antonio María preferirà no nchi at. Il pronome interrogativo è ite ‘che

cosa?’, meno frequente rispetto a it(t)a in Antonio María. In canta genti c’è concordanza

dell’aggettivo col sostantivo (in A.M. sempre cantu invariabile), e cosí pure l’indefinito tanta, che

al plurale fa tantas, non presenta cambio di declinazione. La congiunzione copulativa è ne (in A.M.

ni). La forma *feisti, che si trova in Bullegas 1976, è frutto di un’errata lettura del presente feis ‘voi

fate’.

138 Ciò secondo un’interpretazione di S. Bullegas (Il teatro in Sardegna tra cinquecento e seicento,Editrice Democratica Sarda, Cagliari, 1976, pagg. 76-77, nota 275); non concorda Cenza Thermes,a parere della quale il Carmona, visti i contenuti delle sue opere, poteva essere un sacerdote (IuanFrancisco Carmona, questo sconosciuto, Quaderni Sardi, Trois editore, Cagliari, 1994, pag. 10). 139 Passion de Christo nuestro Señor, pubblicato da F. Alziator nel 1948.140 Non integralmente in campidanese, però, giacché le didascalie sono in castigliano e nei dialoghisono usati anche il logudorese, il latino e il castigliano.

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Fra gli iberismi semantici in Carmona, si segnala il verbo intendiri col significato dello spagnolo

entender ‘capire’. In alcuni casi sono presenti forme morfologicamente irregolari, in contrasto con il

resto del testo: santo (con -o invece di -u), narademi (e non *naradimi, alla pari di guardadimi). La

grafia per molti aspetti si allontana dal modello castigliano: la fricativa prepalatale sorda è espressa

con sci (scipiais), la nasale palatale è resa con gn (monsignori), l’affricata prepalatale sonora con gi

(giorgiu); d’altronde si ha ch (aparichadu) per l’affricata prepalatale sorda, e l’influsso spagnolo è

evidente nell’avversione per le consonanti geminate (bida ‘paese’, seda ‘sella’, maravila,

onipotenti): è data doppia la sola -rr-, e lo stesso nome del paese del pastore, Suedi, vede l’occlusiva

cacuminale sonora espressa con la consonante scempia. Il complemento vocativo prevede l’uso

dell’articolo (O sa Virgini maria ‘O Vergine Maria’, nada mi su pastori ‘dimmi, pastore’).

L’interiezione o è marcata da due trattini obliqui sottoscritti. Le maiuscole non sono adoperate con

coerenza, e di solito dopo tutti i segni d’interpunzione si ha iniziale minuscola. La calligrafia

dell’opera è poco curata, piena di svolazzi, cosicché spesso parole distinte, scritte non attaccate,

risultano unite fra loro.

Sul piano metrico, dopo l’apostrofe iniziale al pubblico (cinque terzine in rima incatenata), nelle

successive strofe di lunghezza variabile, le quali corrispondono agli interventi del cittadino e del

pastore, si nota l’uso di rime incrociate, alternate e – di rado – baciate, liberamente disposte; il verso

piú usato è l’endecasillabo. Per quanto riguarda l’aspetto retorico-stilistico, l’autore sa ben servirsi

di giochi di parole per effetto comico, e frequentemente fa ricorso all’allitterazione.

Fra i simboli usati in quest’edizione, ≡ indica lettere aggiunte sopra la parole, M designa il

manoscritto.

Alabanças de san George obispo Suelense Calaritano

Ciudadano

Señores141 hoj silensio a todos pido

en este rato y entretenimiento

muj alto y celestial dendos142 oido.

No ponga nadie algun Impedimento

mas con animo llano y muj devoto 5

de cada qual al alma su alimento.

141 Sopra la lettera n sta un segno arcuato, che pare rappresentare la moderna tilde.142 In M è possibile leggere anche dendeos (= dend os), ovvero den de os.

120

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A todos la atension eo mucho exorto

pues oira’143 de san George los favores

y como Dios con el fue manirroto.

Oiran de la su vida los lohores 10

y del premio a las obras conveniente

y de la su laureola las flores.

Veran nuestro discurso en que es pediente

decreto dara fin y necesario

quedando a todos claro y muj patente. 15

Pastor.

O sa Virgini144 maria e145 canta genti

in suedi no dua tantas berbeis,

ne arboris o deus onipotenti.

In artu istau e in seda pongu is peis

simbilada asu sartu e asu medadu 20

eite? mi scurtais e no mi rispondeis?

Ciudadano.

Que tienes di pastor de que te espantas?

que nunca has visto pueblo congregado?

Pastor.

Eite mi nais si seu coiadu?

Ciudadano.

Que no me entiendes? 25

o que pastor bosal aqui me vino.

Pastor.

A fidi tengu sidi e istau fadiadu

scipiais que es meda atesu su caminu

143 = oiran. La lettera a è sormontata da un archetto.144 In M è possibile leggere anche Vurigini, che sarebbe una grafia errata di Virgini.145 La e a inizio di parola di solito è segnata con una virgoletta simile ad un apostrofo.

121

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e si a biri mi ais, riscotu os apa dari

e ancora os tengu casu aparichadu. 30

Ciudadano.

Mejor sera que en sardo tanbien able

pues algo dello146 se y nos oigamos

nada mi su pastori de undi seis?

Pastor.

De suedi mi senori e manti cumandadu

portari unu presenti a monsignori. 35

Ciudadano.

Imoj ià mi Intendeis su que apu nadu.

Pastor.

Narademi eite este tanta genti In copangia147

e de quali santu feis inoxi festa?

que biu totu sa ia e is fenestras

prenas de genti que esti maravila. 40

Ciudadano.

Non bieis que hoj feus sa festa e prosesioni

di santu giorgiu nostru ecu sa Imagini.

Pastor.

di santu georgiu di suedi?

Ciudadano.

Si.

Pastor.

O santo georgiu nostru beneditu 45

146 = de ello.147 = compangia. La lettera p descrive un archetto sopra la o.

122

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de is sardus abogadu poderosu

pregadi pro me poveru e148 aflitu

un arriali os dongu o gloriosu

sucurredimi in sa nesesidadi

e guardadimi sepiri149 de onia mali. 50

Ciudadano.

Pesadiosindi e basti sa orationi

no disturbeis sa festa que eus a fari

miradi qui os ispetanta a masoni.

Pastor.

A una parti cuadu mapa150 istari

fina a biri sa festa a comprimentu 55

e totu apusti in bida apa contari.

... (continua in ispagnolo, con l’entrata in scena di un cavaliere e di un ecclesiastico)

Cittadino.

Signori, oggi silenzio chiedo a tutti

in questo tempo ed intrattenimento

altissimo e sublime, costí da voi a udirsi.

Non ponga niun alcun impedimento,

ma con animo calmo e assai devoto 5

all’alma ognuno dia il suo alimento.

A tutti l’attenzione molto esorto,

l’opere udranno infatti di San Giorgio,

e come Dio con lui fu generoso.

Della sua vita udiranno gli elogi, 10

e del premio adeguato alle sue azioni,

e della sua corona i fiori.

148 Qui la lettera e è scritta senza la virgoletta, ed è seguita da una macchia.149 = sempiri. Le lettere ep sono sormontate da un archetto.150 M mapa, con pa ≡.

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Vedranno dove tende il mio sermone:

darà giudizio fine e necessario,

restando a tutti chiaro e assai palese. 15

Pastore.

O Vergine Maria, quanta gente!

A Suelli tante pecore non sono,

né alberi, o Dio onnipotente!

In alto sto e in sella pongo i piedi,

somiglia alla campagna e fattoria. 20

Che? M’ascoltate e non mi rispondete?

Cittadino.

Che hai? Parla, pastor, di che hai timore?

Non hai mai visto gente riunita?

Pastore.

Che cosa dite, se sono sposato?

Cittadino

Non mi capisci? 25

O che pastore sciocco qua m’è giunto!

Pastore.

In fede sento sete e sono stanco,

sappiate che il cammino è molto lungo:

se a ber mi date, ricotta vi darò;

per voi ho anche pronto del formaggio. 30

Cittadino.

Meglio sarà che in sardo allora parli,

ché so di lui qualcosa, per capirci.

Dimmi, pastore, da dove venite151?

151 Il cittadino, usando il sardo, passa dal ‘tu’ al ‘voi’, mentre in castigliano dava del ‘tu’.

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Pastore.

Da Suelli, signor mio: m’hanno ordinato

di portare un regalo a monsignore. 35

Cittadino.

Adesso sí, capite quel che ho detto.

Pastore.

Dite: chi è tutta questa gente insieme

e di qual santo qui fate la festa?

Vedo la via e tutte le finestre

piene di gente, ch’è una meraviglia! 40

Cittadino.

Non vedete la festa e processione

di Santo Giorgio nostro: ecco l’immagine.

Pastore.

Di San Giorgio di Suelli?

Cittadino.

Sí.

Pastore.

O Santo Giorgio nostro benedetto, 45

dei sardi difensore poderoso,

pregate per me povero ed afflitto.

Una moneta dovvi, o glorioso:

soccorretemi nella ristrettezza,

proteggetemi sempre da ogni male. 50

Cittadino.

Alzatevi e vi basti la preghiera!

125

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Non turbate la festa che faremo:

badate che v’attendono all’ovile.

Pastore.

Nascosto da una parte mi starò

fino a veder la festa a compimento, 55

racconterò poi tutto al mio paese.

Glossario

Le persone verbali sono indicate con numerazione crescente in cifre romane: le tre persone singolari

sono contraddistinte dai numeri I, II e III, le tre plurali dai numeri IV, V e VI. Fra parentesi quadre

si trovano quelle forme d’infinito, che nel testo non sono presenti.

a ‘a’ 1) prep. Regge il compl. avv. di modo: 27 (a fidi tengu sidi), 55 (biri sa festa a comprimentu);

il compl. di termine: 35 (portari unu presenti a monsignori); il compl. di stato in luogo: 54 (a una

parti cuadu). 2) cong. Introduce la prop. temporale dopo fina: 55 (fina a biri sa festa a

comprimentu). Si usa per il futuro analitico, costrutto in cui può fondersi col verbo ausiliare: 29 due

volte (si a biri mi ais, rescotu os apa dari = os apu a dari), 52 (eus a fari), 54 (mapa istari = mi

apu a istari), 56 (apa contari = apu a contari). 3) Seguita dall’articolo compone la preposizione

articolata asu: 20 (simbilada asu sartu e’ asu medadu).

abogadu s.m. ‘difensore’: 46 (abogadu poderosu).

[afligiri] v. tr. Part. m.s. aflitu: 47 (pregadi pro me poveru e aflitu).

[airi] v. intr. ‘avere’. Indic. pres.: I apu: 36 (su que apu nadu), e ap-: 29 (riscotu os apa dari), 56

(apa contari ‘racconterò’); III -a: 17 (in suedi no dua tantis berbeis ‘a Suelli non vi sono tante

pecore’: è da rilevare il costrutto impersonale con du- e airi); IV eus: 52 (sa festa que eus a fari);

VI -anti: 34 (manti cumandadu). È usato sempre come ausiliare, tranne che col significato di

‘esservi’.

ancora avv. m. ‘inoltre’: 30 (ancora os tengu casu aparichadu).

126

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[aparichari] v. tr. ‘preparare’. Part. m.s. aparichadu: 30 (os tengu casu aparichadu ‘per voi ho

formaggio preparato’).

apusti avv. tempo ‘poi’: 56 (totu apusti in bida apa contari).

arboris s.f. pl. ‘alberi’: 18 (in suedi no dua tantas berbeis, ne arboris).

arriali s.m. ‘soldo’: 48 (un arriali os dongu).

artu agg. qual. m.s. ‘alto’, usato con valore avv.: 19 (in artu istau ‘sto in alto’).

atesu agg. qual. m.s. ‘lungo’: 28 (es meda atesu su caminu).

basti inter. ‘basta’: 51 (basti sa orationi).

beneditu agg. qual. m.s. ‘benedetto’: 45 (o santo georgiu nostru beneditu).

berbeis s.f. pl. ‘pecore’: 17 (in suedi no dua tantas berbeis).

bida s.f. ‘paese’: 56 (totu apusti in bida apa contari).

biri (1) v. tr. ‘vedere’. Inf.: 55 (fina a biri sa festa a comprimentu). Indic. pres. I biu: 39 (biu totu

sa ia e is fenestras). V bieis: 41 (no bieis que hoj feus sa festa).

biri (2) v. tr. ‘bere’. Inf.: 29 (si a biri mi ais ‘se mi date da bere’).

caminu s.m.‘cammino’: 28 (es meda atesu su caminu).

canta agg. interr. f.s. ‘quanta’, con valore esclamativo: 16 (canta genti).

casu s.m. ‘formaggio’: 30 (casu aparichadu).

[coiari] v. intr. ‘sposare’. Part. m.s. coiadu, usato come agg. q.: 24 (Eite mi nais si seu coiadu?).

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comprimentu s.m. ‘compimento’: 55 (fina a biri sa festa a comprimentu: ha valore avv.).

contari v. tr. ‘raccontare’: 56 (totu apusti in bida apa contari).

copangia (= compangia) s.f. ‘compagnia’: 37 (tanta genti in copangia).

[cuari] v. tr. ‘nascondere’. Part. m. s. cuadu: 54 (a una parti cuadu mapa istari).

[cumandari] v. tr. ‘comandare’. Part. m.s. cumandadu: 34 (manti cumandadu portari unu presenti

a monsignori).

dari v. tr. ‘dare’. Inf. (riscotu os apa dari). Ind. pres. V ais, con caduta di d- in fonetica sintattica:

29 (si a biri mi ais).

de prep. ‘di’. Esprime di solito specificazione o provenienza: 33, 34, 38, 40 (prenas de genti:

compl. d’abbondanza), 46, 50; di: 42, 43 due volte.

deus s.m. ‘Dio’: 18 (deus onipotenti).

[disturbari] v. tr. ‘disturbare’. Cong. pres. V disturbeis: 52 (no distubeis sa festa que eus a fari).

[donari] v. tr. ‘donare’. Ind. pres. I dongu: 48 (un arriali os dongu o gloriosu).

du- avv. luogo ‘ci’: 17 (in suedi no dua tantis brebeis).

e cong. cop. ‘e’: 16, 19, 20, 21, 27, 29, 30, 34, 38, 39, 41, 47, 50, 51, 56. Ha valore esclamativo in

16 (O sa Virgini maria e canta genti).

ecu avv. giud. presentat. ‘ecco’: 42 (ecu sa Imagini).

eite pron. interr. ‘che cosa?’: 21, 24 (eite mi nais si seu coiadu), 37.

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[essiri] v. intr. ‘essere’. Indic. pres. I seu: 24 (Eite mi nais si seu coiadu?); III es: 28 (es meda atesu

su caminu), esti: 40 (prenas de genti que esti maravila), e este: 37 (eite este tanta genti In

copangia); V seis: 33 (de undi seis?).

[fadiari] v. intr. ‘faticare’. Part. m.s. fadiadu, con significato di agg. q. ‘stanco’: 27 (istau fadiadu).

fari v. tr. ‘fare’. Inf.: 52 (sa festa que eus a fari). Indic. pres. IV feus: 41 (hoj feus sa festa e

prosesioni); V feis: 38 (de quali santu feis inoxi festa?).

fenestras s.f. pl. ‘finestre’: 39 (totu sa ia e is fenestras).

festa s.f. ‘festa’: 38 (de quali santu feis inoxi festa?), 52 (no disturbeis sa festa que eus a fari), 55

(fina a biri sa festa a comprimentu).

fidi s.f. ‘fede’. È usato in senso avv.: 27 (a fidi tengu sidi ‘in fede, effettivamente ho sete’).

fina prep. ‘fino’: 55 (fina a biri).

genti s.f. ‘gente’: 16 (canta genti), 37 (tanta genti In copangia), 40 (prenas de genti).

georgiu n.p. ‘Giorgio’: 43, 45; giorgiu: 42. È San Giorgio, vescovo e patrono di Suelli, morto nel

1117.

gloriosu agg. qual. m.s. ‘glorioso’: 48 (un arriali os dongu o gloriosu).

[guardari] v. tr. ‘proteggere’. Imp. II p.p. guardadi- (guardadimi sempiri de onia mali).

hoj avv. tempo ‘oggi’: 41 (hoj feus festa e prosesioni).

ia s.f. ‘via’: 39 (biu totu sa ia e is fenestras / prenas de genti). Deriva da bia, con caduta della

vocale iniziale in fonetica sintattica.

ià avv. tempo ‘già’: 36 (ià mi Intendeis).

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Imagini s.f. ‘immagine’: 42 (di santu giorgiu nostru ecu sa Imagini).

Imoj avv. tempo ‘adesso’: 36 (Imoj ià mi Intendeis).

in prep. ‘in’. Regge il complemento di stato in luogo, anche figurato: 17, 19 due volte, 37

(maiuscolo), 49, 56.

inoxi avv. luogo ‘qui’: 38 (de quali santu feis inoxi festa?).

[intendiri] v. tr. ‘intendere’. Indic. pres. V Intendeis: 36 (ià mi Intendeis su que apu nadu).

[ispetari] v. tr. ‘aspettare’. Indic. pres. VI ispetanta: 53 (os ispetanta a masoni).

istari v. intr. ‘stare’. Inf.: 54 (a una parti cuadu mapa istari). Indic. pres. I istau: 19 (in artu istau),

27 (istau fadiadu).

mali s.m. ‘male’: 50 (guardadimi sempiri de onia mali).

maravila s.f. ‘meraviglia’: 40 (prenas de genti que esti maravila).

maria s.f. ‘Maria’: 16 (Virgini maria).

masoni s.m. ‘ovile’: 53 (os ispetanta a masoni).

me pron. pers. compl. I p. ‘mi’: 47. La forma atona è mi (1): proclitica in 21 due volte, 24, 29, 36, e

scritta m- davanti al verbo in 34 (manti cumandadu) e 54 (mapa istari); enclitica in 33, 37, 49, 50.

meda avv. quant. ‘molto’: 28 (es meda atesu su caminu).

medadu s.m. ‘fattoria’: 20 (simbilada asu sartu e asu medadu).

mi (2) agg. poss. ‘mio’: 34 (mi senori).

[mirari] v. intr. ‘badare’. Imp. V miradi: 53 (miradi qui os ispetanta a masoni).

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monsignori s.m. ‘monsignore, vescovo’: 35 (portari unu presenti a monsignori).

[narri] v. tr. ‘dire’. Indic. pres. V nais: 24 (Eite mi nais si seu coiadu). Imp. II nada-: 33 (nada mi

su pastori de undi seis); V narade-: 37 (narademi eite este tanta genti). Part. m.s. nadu: 36 (su que

apu nadu).

-ndi pron. pers. ‘ne’: 51 (pesadiosindi).

ne cong. cop. ‘né’: 18.

nesesidadi s.f. ‘necessità’: 49 (sucurredimi in sa nesesidadi).

no avv. giud. neg. ‘non’: 52; non: 41.

nostru agg. poss. ‘nostro’: 42 (santu giorgiu nostru), 45.

o interiez. ‘o’: 16 (O sa Virgini maria), 18 (o deus onipotenti), 45 (O santo georgiu), 48 (o

gloriosu).

onia agg. indef. ‘ogni’ (onia mali): 50 (guardadimi sempiri de onia mali).

onipotenti agg. qual. m.s. ‘onnipotente’: 18 (deus onipotenti).

orationi s.f. ‘orazione’: 51 (pesadiosindi e basti sa orationi).

os pron. pers. compl. atono V p. ‘vi’: 29, 30, 48, 53; -osi-: 51 (pesadiosindi).

parti s.f. ‘parte’: 54 (a una parti cuadu).

peis s. m. pl. ‘piedi’: 19 (in seda pongu is peis).

pesari v. rifl. ‘alzarsi’. Imp. V pesadi-: 51 (pesadiosindi e basti sa orationi).

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poderosu agg. qual. m.s. ‘potente’: 46 (abogadu poderosu).

[poniri] v. tr. ‘porre’. Indic. pres. I pongu: 19 (in seda pongu is peis).

portari v. tr. ‘portare’. Inf.: 34 (portari unu presenti a monsignori).

poveru agg. qual. m.s. ‘povero’: 47 (pregadi pro me poveru e aflitu).

[pregari] v. intr. ‘pregare’. Imp. V pregadi: 47 (pregadi pro me poveru e aflitu).

prenas agg. qual. f.p.: 40 (sa ia e is fenestras / prenas de genti).

presenti s.m. ‘presente, dono’: 35 (portari unu presenti a monsignori).

pro prep. ‘per’: 47 (pregadi pro me poveru e aflitu).

prosesioni s.f. ‘processione’: 41 (no bieis que hoj feus sa festa e prosesioni).

quali agg. interr. m.s. ‘quale’: 38 (de quali santu feis inoxi festa?).

que (1) cong. ‘che’. 1) dichiarativa: 41 (no bieis que hoj feus sa festa e prosesioni). 2) causale: 39

(que biu totu sa ia e is fenestras); qui: 53 (miradi qui os ispetanta a masoni). 3) consecutiva: 40 (sa

ia e is fenestras / prenas de genti que esti maravila).

que (2) pron. rel. ‘che’: 36 (su que apu nadu), 52 (sa festa que eus a fari).

riscotu s.m. ‘ricotta’: 29 (riscotu os apa dari).

[rispondiri] v. intr. ‘rispondere’. Indic. pres. V rispondeis: 21 (mi scurtais e no mi rispondeis?).

santu s.m. ‘santo’: 38 (de quali santu feis inoxi festa?); santo: 45 (o santo georgiu nostru).

sardus s.m. pl. ‘sardi’: 46 (de is sardus abogadu poderosu).

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sartu s.m. ‘campagna’: 20 (simbilada asu sartu).

[sciri] v. tr. ‘sapere’. Cong. pres. V scipiais: 28 (scipiais que es meda atesu su caminu).

[scurtari] v. tr. ‘ascoltare’. Indic. pres. V scurtais: 21 (mi scurtais e no mi rispondeis?).

seda s.f. ‘sella’: 19 (in seda pongu is peis).

sepiri (= sempiri) avv. tempo ‘sempre’: 50 (guardadimi sempiri de onia mali).

senori s.m. ‘signore’: 34 (mi senori).

si (1) avv. giud. afferm. ‘sí’: 44.

si (2) cong. condiz. ‘se’: 24 (Eite mi nais si seu coiadu?), 29 (si a biri mi ais).

sidi s.m. ‘sete’: 27 (A fidi tengu sidi).

[simbilari] v. intr. ‘somigliare’. Indic. pres. III simbilada: 20 (simbilada asu sartu).

su 1) art. det. m.s. ‘il’: 28, 33 (nada mi su pastori: introduce il compl. vocativo); f.s. sa: 16, 39, 41,

42, 49, 51, 52, 55; m.p. is: 19, 46; f.p. 39. Forma prep. artic. con a: 20 (asu sartu e asu medadu). 2)

pron. dim. m.s. ‘ciò’: 36 (su que apu nadu).

[sucurriri] v. tr. ‘soccorrere’. Imp. V sucurredi-: 49 (sucurredimi in sa nesesidadi).

suedi s.m. ‘Suelli’: 17, 34, 43. È il paese del pastore e di San Giorgio.

tanta agg. indef. f.s. ‘tanta’ : 37 (tanta genti in copangia); f.p. tantis: 17 (tantis berbeis).

[teniri] v. tr. ‘avere’. Indic. pres. I tengu: 27 (A fidi tengu sidi).

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totu agg. e pron. indef. ‘tutto’. Pron. m.s.: 56 (totu apusti in bida apa contari). Agg. f.s. e p.: 39

(totu sa ia e’ is fenestras: usato davanti ai sostantivi, cui si riferisce, non muta per genere e

numero).

undi avv. luogo ‘dove’: 33 (de undi seis?).

unu art. indet. m.s. ‘uno’: 35 (portari unu presenti); un: 48 (un arriali os dongu). Femm. una: 54

(a una parti cuadu mapa istari).

Virgini s.f. ‘vergine’: 16 (Virgini maria).

(Pubblicato sul numero 15 di NAE)

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Appendice III

Due poesie dal Novenariu di J.M. Contu

Il Novenariu cun platicas a su amantissimu coru de Jesus è un codice manoscritto conservato nella

Biblioteca Universitaria di Cagliari, dove è siglato Ms. 152, e consta di 318 fogli. L’autore è il

Reverendo Padre Juan María Contu, appartenente all’ordine dei Frati Minori, che nella prima

pagina si presenta come “Calaritanu, de sa Regulari Observancia de su S.P.S.152 Franciscu, Letori

in Sagrada Theologia, Qualificadori de sa Santa Inquisicioni in su Archibiscobadu de Oristanis, e

Predicadori Apostolicu in sa Provincia de S. Saturninu Martiri Calaritanu in Sardiña”. Le cariche

sopra elencate erano fra le piú prestigiose per un ecclesiastico sardo, e il Contu vi accesse

certamente dopo il 1726, anno in cui fu predicatore conventuale annuale e, in tale veste, prese parte

al capitolo provinciale, celebrato nel convento di S. Mauro in Cagliari il 2 ottobre 1726. Il Contu

morí nel 1762, cosicché la composizione del Novenariu è da collocare fra le due date suddette.

Scrisse altre due opere, entrambe in lingua spagnola, che sono anch’esse custodite alla Biblioteca

Universitaria di Cagliari, la Obra poetica, sermon y novenario del Beato Salvador de Horta (Ms.

S.P. 6.6.55), e la Vida del Venerable Fray Salvador Vidal marense (Ms. S.P. 6.6.28).

Il Novenariu è una corposa opera paraliturgica, che descrive la corretta celebrazione della novena,

ovvero dei riti che si svolgono nei nove dí precedenti le piú importanti festività cristiane. Le

platicas153 del titolo sono le prediche tenute in ciascuno dei giorni di novena. Il libro si compone di

una dedica, un prologo, sermoni e preghiere ordinati secondo le nove giornate, un indice

d’avvertenze, un catalogo degli autori citati, un indice dei passi della Sacra Scrittura e, infine, un

indice delle cose notevoli. Il Novenariu occupa un posto importante nella storia della lingua sarda

campidanese, soprattutto perché è la prima opera moderna in prosa pervenutaci: essa è scritta in uno

stile limpido e scorrevole, di gradevole lettura anche per i profani. Particolarmente accurati sono gli

indici, nei quali sono riportate tutte le citazioni poste, nei paragrafi dedicati alle singole giornate

della novena, ai bordi di pagina: il Contu appare un uomo di Chiesa colto e particolarmente

meticoloso, come mostra la sua pregevole calligrafia, e, pur agendo da pioniere nel campo della

prosa religiosa campidanese, mostra una padronanza linguistica considerevole. Le sue scelte

grafiche, per esempio, sono coerenti perché, soprattutto, non rivelano quelle oscillazioni che invece

caratterizzano autori a lui precedenti e contemporanei (e per la verità anche successivi).

Indichiamo ora qualche tratto linguistico importante. Nel campo della grafia il grafema x è usato per

indicare diversi fonemi: /ʒ/, /dʒ/ (in alternanza con j e, di rado, g), /∫/ (in netta prevalenza su z) e

/t∫/, anche in fonetica sintattica. In morfologia spicca la conservazione del perfetto, di tipo sigmatico

152 Serafico Padre Santo.153 Sp. platica ‘predica, sermone’, oggi piú adoperato nel senso di ‘conversazione, colloquio’.

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in (-esi) e regolarmente impiegato: morjesit ‘morí’. Il gerundio è in -endu; sono conservative le

forme dell’infinito in -ari e -iri, e del participio passato maschile in -adu, -idu, mentre

all’imperativo troviamo sia confirmadi e concedeinosi ‘concedeteci’ (con mantenimento della

fricativa), sia adornaiddu e preneidda, forme piú moderne. I pronomi con funzioni di complemento,

alla I e II persona plurale, sono -nos(i) e -os(i), ma spunta anche qualche -si proclitico, oggi

prevalente in campidanese. Non mancano voci colte e lontane dall’uso popolare, come su cali e

quartu. Nel lessico sono riscontrabili varî iberismi, che il Contu adopera moderatamente ma

palesando, allo stesso tempo, un’ottima conoscenza dello spagnolo.

Presentiamo qui due poesie, inserite rispettivamente nella prima e nella terza giornata di novena, le

quali, per caratteristiche tematiche e formali, rientrano nel genere letterario delle lodi dei santi, che

in Sardegna presero il nome di gosos in logudorese e gòçus in campidanese. La prima poesia, in

versi ottonarî, che si trova alle pagine 30 e 31 del manoscritto, è costituita da una quartina con

schema metrico ABBA, che funge anche da ritornello; cinque ottave, lo schema metrico della prima

delle quali è CDDCBAxy, dove x e y sono gli stessi versi terzo e quarto della quartina iniziale,

mentre B è in rima con x e A è in rima con y; una quartina finale, dove, in confronto colla quartina

iniziale, il primo verso è differente ma in rima col corrispondente primo verso, mentre i versi

restanti sono uguali. La seconda poesia proposta (pp. 88-89), pure essa dedicata al cuore di Gesú, ha

la particolarità d’essere scritta in versi senarî: ciò costituisce una rarità nella letteratura sacra sarda,

ma non mancano esempî di suo uso in antiche lodi e italiane e spagnole, nelle quali ultime il primo

accento metrico del singolo verso cadeva sulla terza sillaba anziché sulla seconda, come di norma in

un senario (in Contu codesto primo accento cade a volte sulla seconda sillaba, a volte sulla terza).

Un’altra differenza col primo componimento sta nella struttura strofica, che qui è, come si vede

nella prima ottava, CDDCCAxy, dove il sesto verso è in rima col primo e col quarto della quartina

iniziale ABBA. Anche in questa poesia le ottave sono composte secondo il principio della rima

incrociata.

Si segnalano in nota i fatti linguistici interessanti.

VERSUS SARDUS DE SU AMANTISSIMU CORU DE JESUS

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po sa prima di de sa Novena.

O coru divinizadu!

Ti istimu, ti amu154, e ti adoru;

O dulzura de su coru!

Sentu155, qui non ti apu amadu.

Si repitit.

Si despidis156 resplandoris

Est po mi donari luxi;

Posta in su coru sa ruxi

Manifestu prus amoris;

O instrumentu sonoru

Cun is llamas concertadu157!

O dulzura de su coru !

Sentu, qui non ti apu amadu.

Si repitit.

Cun invencionis divinas,

E ingenius158 prenus de amoris,

Ses gravellu inter is floris;

Ses Rosa inter is ispinas159;

Inter metallus, ses oru

154 E’ usata qui la coppia di verbi stimai e amai. Scrive Wagner, citando R. Garzia: “amare,-ai ... ‘ha un significatogenerico, quindi piuttosto vago e indeterminato: è quel bene momentaneo che si vuole a una persona o a una cosa chedesta e attira la nostra attenzione, anzi la nostra simpatia: Stimai è dell’amore profondo, schietto, intimo, dell’amore inuna parola’ (Garzia, Mut. Cagl., no. 151)” (M.L.WAGNER, Dizionario Etimologico Sardo, ed. Trois 1989, vol. I, pag.77). 155 “sentire, -i log. e camp. ‘sentire’ (ma mai nel senso di ‘sentire coll’udito’ ... che è intèndere, -´iri). Invece si impiegaspesso nel senso di ‘dolere, essere spiacevole’ ... Questo è il senso dello sp. e cat. sentir. Anche sentimentu ha il sensodi ‘dolore, compianto’ ... = sp. sentimiento ... cat. sentiment” (DES, II, 405).156 “dispeđire log.: dispiđiri camp. ‘congedare’, = sp.-cat. despedir ... In log. si usa ... anche nel senso di ‘spargere,spandere’ (‘difundir o esparcir olor, rayos de luz’) ... In questo senso lo usava anche Fra A.M. di Esterzili” (DES, I,472). Abbiamo qui dunque un’altra attestazione del suddetto senso secondario. Anche il resplandoris seguente èschietto spagnolismo. 157 Questo verbo ha qui, piuttosto che il senso primario di “‘comporre, ordinare, aggiustare’ = sp.-cat. concertar” (DES,I, 434), la specifica accezione musicale di ‘accordare’ (Dizionario italiano-spagnolo e spagnolo-italiano, CollinsMondadori, 1985, parte II, pag. 46). 158 Anche questa parola, nel significato di ‘ispirazioni’, è uno spagnolismo: “ingenio m. enginy; ingeni; inspiració”(Canigó, diccionari iŀlustrat català-castellà castellà-català, Sopena, Barcelona, 1990, pag. 708).159 In campidanese i sostantivi con s+cons. iniziale di parola prendono, al plurale, e obbligatoriamente quando seguonol’articolo determinativo, una i- prostetica, che è facoltativa al singolare. Il Contu la usa anche al singolare.

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Brillanti, e purificadu.

O dulzura de su coru!

Sentu, qui non ti apu amadu.

Si repitit.

Sentu meda sa lanzada

Qui su coru ti hat abertu,

E sentu, qui restis160 fertu

Cun llaga tanti penada;

Qui est de su amori, no ignoru

Cussu coru traspassadu.

O dulzura de su coru!

Sentu, qui non ti apu amadu.

Si repitit.

Sentu, qui non sentu prus

Su tempus, qui apu perdidu;

Sentu, qui ti apu ofendidu

Clementissimu JESUS;

Cun is intrañas ti adoru

Coru, de coru istimadu.

O dulzura de su coru!

Sentu qui non ti apu amadu.

Si repitit.

Sa ingratitudini mia

Cun tanti dolori sentu,

Qui de puru sentimentu161

Morrir162 milli ortas163 bolia164.

O celestiali thesoru!

Perdonami, qui apu erradu.

160 Questa voce verbale è sicuramente un presente indicativo di II pers. sing., dunque ci aspetteremmo * restas e nonrestis: poiché non si tratta di vocabolo sardo genuino, è probabile che sia un italianismo morfologico.161 Cfr. nota n.4.162 Apocope per morriri.163 Caduta di b- iniziale in fonetica sintattica.164 L’imperfetto indicativo può sostituire il condizionale passato nel periodo ipotetico.

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O dulzura de su coru!

Sentu, qui non ti apu amadu.

Si repitit.

O coru amanti, e sagradu!

Ti istimu, ti amu, e ti adoru;

O dulzura de su coru!

Sentu, qui non ti apu amadu.

Si repitit.

Versi sardi dell’amorosissimo cuore di Gesú

per il primo giorno della novena

O cuore divinizzato!

T’amo, ti voglio bene e t’adoro;

o dolcezza del cuore!

Mi dolgo di non averti amato.

(Si ripete)

Se diffondi bagliori

è per darmi luce;

posta nel cuore la croce

tu manifesti piú amori;

o strumento sonoro

accordato con le fiamme!

O dolcezza del cuore!

Mi dolgo di non averti amato.

(Si ripete)

Con invenzioni divine

e ispirazioni piene d’amore

sei garofano tra i fiori,

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e sei rosa fra le spine;

tra i metalli sei oro

brillante e purificato.

O dolcezza del cuore!

Mi dolgo di non averti amato.

(Si ripete)

Patisco molto la ferita

che t’ha aperto il cuore,

e sento che resti ferito

con piaga tanto penosa;

non ignoro che codesto cuore

è trapassato d’amore.

O dolcezza del cuore!

Mi dolgo di non averti amato.

(Si ripete)

Soffro perché non percepisco piú

il tempo che ho perso,

sento che t’ho offeso,

clementissimo Gesú;

con le viscere t’adoro,

o cuore, amato di cuore.

o dolcezza del cuore!

Mi dolgo di non averti amato.

(Si ripete)

La mia ingratitudine

patisco con tanto dolore,

che, di puro compianto,

vorrei morire mille volte.

O celestiale tesoro!

Perdonami poiché ho errato.

O dolcezza del cuore!

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Mi dolgo di non averti amato.

(Si ripete)

O cuore amoroso e consacrato!

T’amo, ti voglio bene e t’adoro;

o dolcezza del cuore!

Mi dolgo di non averti amato.

(Si ripete)

******

VERSUS

po sa terza di de sa Novena.

Coru prus preciadu

De sa plata, y oru;

De JESUS165 su coru

Siat alabadu.

Si repit it.

O coru divinu!

Qui nos donas luxi,

Cun sa hermosa ruxi

Qui portas in sinu;

Coru amanti finu166

De pagus amadu.

De JESUS su coru

Siat alabadu.

Si repitit.

165 In tutto il Novenariu i nomi JESUS e MARIA sono sempre scritti maiuscoli.166 Italianismo (fino, variante regionale di fine, dal lat. finis), come il fiu della quarta strofa.

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Coru, qui ti inclinas

A su pecadori;

O coru de amori!

E gracias divinas,

De cruelis ispinas167

Coru traspassadu.

De JESUS su coru

Siat alabadu.

Si repitit.

Po su coru ostu

Divinu JESUS,

Non boleus prus

Custu coru nostu;

O coru dispostu

A essi llagadu!

De JESUS su coru

Siat alabadu.

Si repitit.

Su sanguni a fiu

Currit de is llagas,

E cun cussu pagas

Su pecadu miu;

O JESUS confiu

Essi perdonadu

De JESUS su coru

Siat alabadu.

Si repitit.

E poita mi clamas

Coru adoloridu168?

167 Cfr. nota n.8.168 Dal cat. adolorir.

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Si ti apu ofendidu

Poita tanti mi amas?

In ardentis llamas169

Restas inflamadu.

De JESUS su coru

Siat alabadu.

Si repitit.

De xelu170 abaxadu

Celesti thesoru,

De JESUS su coru

Siat alabadu.

Si repitit.

Versi per il terzo giorno della novena.

Cuore piú prezioso

dell’argento e dell’oro;

di Gesú il cuore

sia lodato.

(Si ripete)

O cuore divino,

che ci dài luce

con la bella croce

che porti in seno!

cuore amoroso e puro

da pochi amato.

Di Gesú il cuore

sia lodato.

(Si ripete)

169 Dallo sp. llama; la voce sarda è flama / frama, che si ritrova nella radice dell’inflamadu al verso seguente.170 Scrittura fonetica per su celu.

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Cuore, che ti inchini

al peccatore;

o cuore d’amore

e grazie divine!

Da crudeli spine

cuore trapassato171.

Di Gesú il cuore

sia lodato.

(Si ripete)

Per il cuore vostro,

divino Gesú,

non vogliamo piú

questo cuore nostro;

o cuore disposto

a essere piagato!

Di Gesú il cuore

sia lodato.

(Si ripete)

Il sangue, come fio172,

scorre dalle piaghe,

e con ciò paghi

il mio peccato;

O Gesú, confido

d’essere perdonato.

Di Gesú il cuore

sia lodato.

(Si ripete)

E perché mi chiami,

171 Separiamo cosí, nella traduzione, per mezzo del punto esclamativo, il quarto verso dal quinto, giacché ispinas parelegarsi soltanto a Coru traspassadu.172 Gesú paga cioè il fio delle colpe commesse dall’umanità.

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o cuore addolorato?

Se t’ho offeso

perché mi ami tanto?

In fiamme ardenti

resti infiammato.

Di Gesú il cuore

sia lodato.

(Si ripete)

Dal cielo disceso

celeste tesoro,

Di Gesú il cuore

sia lodato.

(Si ripete)

(Pubblicato sul numero 6 di NAE)

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Appendice IV

La Vida de Santu Potitu

La Vida, Miraculus, e Martiriu de Santu Potitu è un codice manoscritto anonimo non datato di

quattro fogli, facente parte della collezione Baylle, catalogato S.P. 6 bis 1.5.728 dalla Biblioteca

Universitaria di Cagliari, dove è conservato. Nel sottotitolo esso è detto traduzione in sardo

dell’opera scritta in latino, presente in un codice cagliaritano e già inviata al famoso annalista

ecclesiastico, il cardinale Cesare Baronio (1538-1607).

La Vida descrive le straordinarie imprese di San Potito, sardo di nascita e martire all’età di soli

tredici anni173. Al termine della narrazione della vita del santo, è citato il passo degli Annales

Sardiniae di frate Salvador Vidal (1581-1647), nel quale è trattato tale argomento. Si dice poi che,

nel suddetto passo di Vidal, e in uno degli Annales Ecclesiastici del cardinale Baronio, è presentata

la data del martirio; seguono alcune notizie sulla collocazione dei resti del santo, desunte dalla

Chronica Sanctorum Sardiniae dello storico Dimas Serpi (1545-1609).

La Vida è un importante documento della lingua sarda campidanese di alcuni secoli orsono, ancor

oggi facilmente comprensibile: vediamone le caratteristiche piú interessanti, a cominciare dalla

grafia.

I gruppi ch e gh, davanti a e ed i, indicano suono gutturale, come in italiano, e cosí pure i

corrispondenti suoni palatali sono espressi alla maniera italiana con ci,ce e gi,ge; per l’affricata

prepalatale sonora davanti a u, a, o, sono presenti le due forme con gi- e j-, quest’ultima alla

spagnola (Angiulu e Anjulu, giai e disiju). La cacuminale sonora è sempre data da dh (cudha). Le

occlusive e nasali intervocaliche sono rese o con scempia, o con geminata (babbu, possibbili, immoi

ma ecu, comenti, imoi; subbitu e accapiau manifestano, in una parola stessa, le due diverse

tendenze di scrittura). Le palatali nasali e laterali si presentano con gn e gl seguite da e/i: in

un’occasione sola si ha degoglaidhu. La fricativa prepalatale sorda è espressa con sc (apparescit),

con x (executau) e con sx (nisxunu), la corrispondente sonora solo con x (boxis, quindixi).

L’affricata dentale sorda è resa sempre con z scempia (poza). Non mancano, infine, esempî di

scritture etimologiche (exiliau, Christu). Ciò che piú colpisce nel manoscritto, peraltro, è

l’accentazione indicata nella maggioranza delle parole, e la distinzione delle vocali e ed o secondo

la loro apertura e chiusura: le vocali toniche i ed u (per natura sempre chiuse), a (per natura sempre

aperta), e aperta e o aperta sono segnate tutte con accento grave, mentre e ed o chiuse sono indicate

con i due punti soprastanti (ë, ö). Un’indicazione tanto meticolosa induce a pensare ad un traduttore

dagli spiccati interessi linguistici, ma il fatto che spesso l’accento sia una correzione del punto sopra

173 Alle gesta di San Potito, diffuse nella narrativa popolare cristiana, dedicò un libro raffinato e ironico l’umanista LeonBattista Alberti, per criticare l’esaltazione della passività e della devozione al martirio tanto apprezzati dalla Chiesa.

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la i, consente di supporre l’intervento successivo di una mano diversa, come suggerisce pure

l’inserimento a bordo di pagina della congiunzione chi dopo un pues: ciò, probabilmente, è opera di

un’altra persona, benché poi vi sia un’occorrenza dello stesso pues chi (pués è congiunzione causale

castigliana, passata in sardo ed usata, fra gli altri, da Giovanni Delogu Ibba nel Settecento e Antonio

María da Esterzili alla fine del Seicento; cominciò quindi a indebolirsi il suo valore causale a

vantaggio di quello d’avverbio di tempo, e le si aggiunse allora, per mantenere il significato causale,

l’altra congiunzione chi, forse per influsso dell’italiano poiché). Nella punteggiatura va rilevato

l’uso, anch’esso secentesco, della virgola prima della congiunzione e.

Sul piano specificamente fonetico, è notevole l’uso del verbo getai, con affricata prepalatale sonora,

in luogo del moderno ghettai; in bandat e bessiri s’osserva l’incorporazione dell’originario

avverbio di luogo bi nel verbo per fonetica sintattica, mentre l’articolo determinativo non subisce

elisione, ché invece avviene aferesi della vocale successiva (su ’mperiu).

In morfologia si nota: l’uso di uno specifico pronome complemento per la seconda persona

singolare (de tei); forme d’imperfetto in -eda, alternate con quelle in -iat, nella coniugazione in -iri;

gerundio in -endu, talvolta prolungato in -enduru; congiuntivo presente di lassai in lessi;

congiuntivo imperfetto regolarmente in -essi, ma è presente anche un fussit, di sicura origine

italiana, al posto dell’abituale fessit; compresenza di forme participiali diverse in uno stesso verbo

(istada e istetia). Il participio passato della coniugazione in -ai è -au al maschile, mentre la

coniugazione in -iri (e piana e sdrucciola) mantiene la fricativa intervocalica (posseída, lömpida). Il

perfetto non è attestato, ed è normalmente supplito nelle sue funzioni dal trapassato prossimo.

Nella sintassi meritano attenzione l’uso del condizionale presente nella dichiarativa subordinata,

quando essa esprime un’azione futura (naràda chi no’nd’iat a benni); la protasi dell’irrealtà

all’indicativo imperfetto (si no beniat ...); il gerundio con funzione di participio congiunto

(henduridhu agatau fend’orazioni); la subordinata implicita con soggetto diverso da quello della

reggente (dhu presentant’a is leonis po essiri devorau).

Il lessico è caratterizzato da una gran mole d’ispanismi, alcuni non rintracciabili nei vocabolarî di

sardo (è il caso di apparesciri < cat. appareixer, e posseída < sp. e cat. pos(s)eida). Non è però da

trascurare il peso degli italianismi, dei quali alcuni esprimono sottili sfumature di significato (portai

‘sopportare’ e parai ‘prospettare’, dall’it. ‘porgere, offrire’), altri sono calchi (is calis).

In definitiva, la Vida de Santu Potitu sembra ascrivibile all’epoca di transizione culturale della

Sardegna dall’orbita spagnola a quella italiana, ed è lecito collocare cronologicamente la

composizione del manoscritto intorno all’anno 1750.

Vida, Miráculus e Martíriu de

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Santu Potítu174,

Tradúsida in sardu de sa scritta in latínu in su Cödigu Calaritánu, sa chi si fiat imbiáda a su

Cardináli Baröniu zélebri Annalísta Ecclesiásticu.

Santu Potítu Sardu de nazióni, fillu de Hila hömini nobbilíssimu, de pitichëdhu híat cumenzáu a

serbíri a su Dëus de xëlu, e terra. Biéndu Hilas idólatra, chi su fillu suu Potítu fiat Cristiánu, dhu

portât pesadamente: e ponéda tötu su cuidáu possíbbili po ’ndëdhu appartái de Gësu Christu175; ma

in vanu fiat andáu töttu su trabbállu suu. Po su chi dh’híat pöstu in presóni, proibendurídhi

töt’alimëntu, e naréndur’idhi: biáus immói,176 si su Dëus, chi adóras t’hat a donái pani po papái. Ma

Potítu recurrénd’a Dëus cun s’orazióni fed’istëtiu alimentáu po mësu de un’Ángiulu; aíci coménti

su Proféta Abacúc, sendu in su lacu de is Leónis, híat tëntu s’alimëntu po manus de s’Anjulu.177 De

custa manéra Potítu po ispáziu de medas dîs fiat istáu sustentáu de un’Ánjulu.178

Meda tëmpus fiat passáu in chi cun losíngus, e ammelézus hiat procuráu Hilas distráiri a Potítu

de sa fidi Christiána senza bessiríndi cun su ’ntëntu. A su fini podit Potítu fuíri de presóni, e acuáisí

in dunu böscu179 appartenénti a Zëperu, aundi s’Ánjulu si dh’180apparéxidi, paréndur’idhi is

persecuziónis, e gherras de su Dimöniu, e preparéndur’idhu181 cun instruziónis contra is insídias, e

tentaziónis de s’Enemígu. Apénas s’apártat s’Ánjulu, écu Satanássu grandu dimöniu si apparéscit

arriéndu, e coment’e chi dh’’olëssit abbrassái dhi narat: o Potítu ita fais ? Torra a domu de babbu tû,

chi de lögu in lögu ti circat prangéndu, e gosadí de is benis, e richésas suas182; pues chi183 no tenit

atturu, sinó a tui; tui ses sa pipía de is ogus sûs. Respóndit Potítu. Chini ses tui, po chi poza184

obbidíri a is cunzillus, chi mi donas ? Narat Satanás. Deu seu Gesu Christu Segnóri, e Dëus tû, chi

disíju185 meda sa salúdi de s’ánima tua. Dhu mirat attëntu Potítu, e avértit chi portáda is carcánjus

eleváus de terra, luégu si fait sa Gruxi, e arzend’is ógus a Cëlu pregat a Dëus: súbbitu su dimöniu si

únfrada, e s’árziat in ária casi quíndixi brazus. Isclámat Potítu: foras de mei Satanás, torra in palas,

poíta186 mi tentas ? No has a pódiri prevaléssiri contra de mei, chi seu sërvu de Gësu Christu. Su

dimöniu inzáras si fúrriat in mallöru e muinéndu, cun grandu fierésa paríat de bóllir’imbistíri contra

174 Sopra il titolo si legge N. XI, che è scritto dalla stessa mano dell’autore anonimo; a destra della prima riga si legge 1.,che indica il primo foglio; a destra della seconda riga si legge /ms. Baille 80728. Questi ultimi sono tutti segni dicatalogazione, aggiunti successivamente alla stesura del manoscritto.175 Una linea unisce la -u alla C-. Ciò avviene sempre in presenza del nome Gesu Christu. 176 Sopra la virgola si può leggere un puntino.177 Segue una cancellatura (≠). In De cu- l’inchiostro è molto denso.178 In M il punto manca.179 Segue ≠.180 Una linea prolunga la -i in segno d’unione alla d-, che si trova a capo della riga successiva.181 -dh- si legge a malapena a causa di una macchia d’inchiostro. 182 La s- è coperta da una macchia.183 Questo chi pare essere aggiunto da mano diversa.184 Segue ≠.185 disiju > disíju.186 poita > poíta.

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Potítu, ma issu fendusí sa Gruxi dhi getat manus in pizus, e187 aferréndurídhu a is corrus, dhu getat a

terra, dh’accápiat a quatru peis, e dhi stat asúba acarcighendur’idhu; issu peró de suta vomitáda

flamas de fögu de is ogus, cárigas, e buca, fendu talis boxis, chi paríat trémiri sa terra a ingíriu. In

su mentras pregáda a Potítu naréndu: Lassa m’andái po chi pighi algúnu refrigëriu de is torméntus,

chi mi donas. Poita m’has getáu in tanti fögu ? Tötu m’abbrúxu; teni cumpassioni de mei, e de is

dolóris mius. Sa Gruxi de Gësu Christu (narat S.Potítu) t’hat accapiáu; ma si ’olis chi ti lëssi ti

cumandu, bëstia infernali, po virtúdi da sa Santa Gruxi, chi no fazas mali a Christiánu perúnu.

Inzáras su dimöniu zerriéndu prus forti, e strepiténdu narat: ahi chi unu pipíu mi bíncit188 ! Ma ti

promíttu, ch’in pena de su chi m’has fattu, has a accabbái sa vida in torméntus: iscíu, Potítu, su

ch’hapa a fai in Roma189: bai po imói, e ispétta190 sa vengánza.

Fuíu si fíat191 su dimöniu boxinéndu përi su böscu, e Potítu dhu insultada. Áttara dî Potítu bandat

a sa Ziutádi de Valëria, e accánt’‘e s’arríu192, chi currit bixinu, si sezit po si discanzái; pustis intrat

in sa Ziutádi predichéndu a su pöpulu. Inci fiat inní una fëmina chi si narát Luiríaca193, mulléri de

Agathóni Senadóri, tott’issa prena de lepra, a sa chi S.Potítu dh’íat sanáda cun sölus fairídhi sa

Gruxi; e a vistas de custu miráculu issa cun meda pöpulu de cudhu lögu si fet convërtia a sa fidi de

Gësu Christu. Intertántu Hilas babbu de Potítu circáda de torrái a arrególliri su fillu, ne dh’híat

pöziu ténnir’in manus,194 po essir’istëtiu avisáu Potítu de s’Ánjulu; hendu195 pués agatáu bastimëntu

s’imbárcat, e andat a Roma. Inní passát sa vida piadosamenti, e santamenti cun átterus christiánus.

Ma no podéndu istái occúlta sa santidádi sua, Dëus híat böfiu, chi fëssit ancóra manifésta a su

’Mperadóri Antonínu Piu, su cali teníat sa filla sua Agnesa ispiridáda, e posseída de su pröpiu

dimöniu, chi Potítu196 híat afrontáu, e attormentáu in Zëperu.197 Custu fuedhendu in buca de Agnesa

naráda198 chi no ’ndíat a bessíri de cörpus de issa, si no beníat Potítu Sardu antis199 chi dh’hiat a

bocíri. Intendéndu custu su ’Mperadóri cumándat si circhit Potítu200, y hendurídhu agatáu in su

monti fend’orazióni, dhu pórtant a presënzia de su ’Mperadóri, su chi dhu fuedhat in custa manéra.

Su struëndu, e sa fama de is cosas maravigliósas chi fais est lömpida a is orígas mias; Potítu, si

líbberas a filla mia de su dimöniu, t’hapa carrigái de richésas, e in sa corti mia de honóris. Dhi

187 ≡ e.188 bincit > bíncit.189 Sopra la -o- c’è un punto.190 In interlinea (≡) una macchia. Un’altra piccola macchia è sotto la -e-.191 fiat > fíat.192 arriu > arríu.193 Luíriaca > Luiríaca.194 Il punto è corretto in virgola.195 M Hendu.196 potítu > Potítu.197 Dopo Zëperu il punto è ripetuto.198 Dopo naráda si può leggere una virgola.199 La -s è coperta da una macchia.200 Potitu > Potítu.

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respóndit Potítu: prus honóri, e prus richésa est serbíri a Gësu Christu Creadóri de Celu, e terra, e 201

chi rëinat in su Cëlu: crei in Iesu, o Imperadóri, poíta ch’esti su verdadëru Dëus. Niénti a custu

respondéndu su ’Mperadóri, tórrat a dhi nai: Potítu líbbera a filla mia de su dimöniu, custu esti su

chi202 bollu de tei. Inzáras Potítu cumándat a su dimöniu, in nómini de Gësu Christu, ch’indi bessat

de cudha criatúra, e súbbitu ’ndi bëssit in presënzia de töt’is chi fenta inní; is calis a grandus boxis

naránta, chi grandu e potentíssimu fiat su Dëus de Potítu.

Intándu su203 ’Mperadóri cun medas arrexónis solizitàda204 a Potítu, chi sacrifichëssit a is

Ídolus205, promitténdur’idhi grandus arregálus, ma issu forti, e immöbbili coménte iscögliu in

mës’’e mari, predicáda sa fidi Christiána, e sind’arríat de is promissas de su ’Mperadóri; custu dhu

pórtat206 cun sëgus a su tëmplu de is ídolus, e sendur’in faci insóru dhi narat: mira Potítu, custus

sunt’is verdadérus déus, chi si tui dhus adóras, e dhis donas inzënsu, t’hap’a fai Prínzipi in su

’mpëriu miu. Ma Potítu arzénd’is ogus a Cëlu, pregat a Dëus, e luégu ’nd’arrúint is ídolus a terra

fattus a rogus. Indinnáu de custu su ’Mperadori, cumándat siat pöstu Potítu in presóni, e207

incadenáu, e ségliat sa porta de presoni cun208 su sëgliu suu, po chi nisxúnu dhi portëssit ita papái,

ne dhu fuedhëssit. Ma s’Ánjulu de su Segnóri abbásxat de su xëlu, illúminat su presóni, e iscállat,

comente cera is cadénas cun is chi fiat incadenáu su Sërvu de Dëus. Bistu tali resplendóri is

guárdias de su presóni, cúrrint a su ’Mperadóri, naréndur’idhi, chi Potítu aíntr’‘e presóni fuedhát

cun dunu gióvunu, chi dhi brigliát sa faci comente Soli, e chi fiat intráu resténdu sa porta serráda

cun su sëgliu.

Su ’Mperadóri, a custa notízia, timéndu de su Dëus de Potítu, e rezeléndu209 de no fai contra is

deus suus calencún’átturu mali, coment’híat fattu innántis in su tëmplu, dhu ’mbiat exiliáu;

iscriéndu a Gelásiu Presidénti chi si Potítu persistíat in s’ostinazióni sua, dh’attormentëssit finzas a

’ndëdhi pigái sa vida. Po tantu imbarcáu Potítu fed’istëtiu portáu aundi Gelásiu fiat Presidenti.

Custu passádas algúnas dîs in is chi no híat pöziu superái sa constánzia de sa fidi in Potítu, dhu fait

bogái a su Teátru, aundi pustis de varius torméntus210, cruelménti fed’istëtiu ancora211 attormentáu in

s’Equléu212; dhi fiant istëtias applicádas hácias de fögu a un’e áturu ladus, e bogádas de is didus is

ungas. Töttu custus torméntus hiat bintu Potítu cun sa virtúdi de Gësu Christu a chini de coru

201 ≡ e.202 ≡ chi.203 su è coperto da una macchia.204 L’accento qui segnato è grave.205 ídolus > Ídolus.206 portát > pórtat.207 ≡ e.208 La parola si conclude con una macchia dopo -n.209 reseléndu > rezeléndu.210 tormëntus > torméntus.211 ≡ ancora.212 L’accento in realtà sta sulla -u-, come dimostra, quattro righe in basso, la grafia eqúleu.

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istimáda, e serbéda; beféndusí de su tyranu, e donéndu grazias a Dëus. Su pöpulu, biéndu custas

cosas, clamáda a boxis mannas alabéndu su Dëus de Potítu.

Líbberu giái de su tormëntu de s’eqúleu, e de su fögu, dhu preséntant’a is leónis po essiri

devoráu, ma issus, depósta sa fierésa insóru, dhi língint is peis, e stenta anánti sû, comente angiónis.

Bistu custu miráculu medas de is zircumstántis, abbandonéndu is ídolus, si fíanta cunvërtius a sa

fidi Christiána. A biri custu su Presidénti, cun ira prus infogáda cumandat chi dhu gétinti a una

sartáina prena213 de öllu, a prumu arbigáu; ma niénti henta molestáu a Potítu custas matërias

infogádas, antis beni in mësu de issas cantáda alabanzas divinas ; e comente chi fëssit in mësu de

s’arrösu de un’amënu campu si gosáda, e cumplaxíat cun Dëus, chi feda sa saludi sua. Gelásiu

biendusí bintu de Potítu, prus e prus s’infuriáda contra issu, no sciéndu su mödu, comenti pódiri214

pigái ’ndëdhi sa vida.

Po su chi cumándat, chi dhu tórrint a presóni, mentras issu penzat sa manéra de dhi donái sa

morti. Sa dî sighenti cumándat portaídhu a sa presënzia sua, e appústis de várius, e longus discúrsus

fattus in vanu po tróciri a su Sërvu de Dëus de su camínu de sa vera fidi, cumándat dhi siat claváu

un’obbílu in conca. Pöstu custu in execuzióni, Dëus hiat fattu, chi su dolóri, chi depíat patíri su

Martiri, dhu patëssit issetöttu, e cudhu no; e po tantu cuménzat a zerriái a grandus boxis: Potitu teni

cumpassióni de mei, chi giái hapu ’sperimentáu cantu mannu, e poderösu esti su Dëus tuu. Inzáras

dhu ’nsultat Potítu, naréndu: poíta no t’agiúdant is Deus tuus ? A s’hora si pesat unu grandu

bisbígliu in su pöpulu, naréndu: manna esti sa fidi, e su podéri de custu picínnu215, pöstu chi bincit is

deus nostus. Niénti de mancu Potítu fendu su segnáli de sa Gruxi a su Presidénti dhu sánat de su

dolóri chi teníat, abbarréndusi issu cun s’obbílu claváu, ma senz’avértiri dolóri, e allirgaménti. Po

custu miráculu si fiat convërtia216 una grandu multitúdini de Gentílis.

Sa ricumpénsa chi su Presidénti hiat donáu a su benefattóri sû fiat istada, de ’ndëdhi fai segái sa

lingua, e bogaindëdhi is ogus. Custa ingratitúdini hat fattu móviri casi tottu sa Ziutádi contra su

tiránu; po su quali timéndu s’alborötu de su pöpulu cumándat fëssit portáu Potítu átter’’orta a

presóni, e chi a notti serráda, a iscúsi de töttus, fussit portáu a217 unu lögu, chi si narat Apulia (Pula),

e inní degoglaídhu. Su cali ördini si fiat executáu a trexi218 13. de Genárju, sèndu219 Potítu in edádi

de trëx’annus. S’ánima sua fed’istëtia bista de is zircumstantis220 bolái a su xëlu in forma de

colúmba. Su cörpus fiat istëtiu sepultáu in su pröpiu lögu, in su chi debústis is Christianus hanti

213 La -e- è coperta da una macchia.214 ≠ pigaindëdhi.215 picinnu > picínnu.216 I puntini sulla -e- sono coperti da una macchia.217 ≠ Pula.218 ≡ trexi.219 L’accento qui segnato è grave.220 La -r- è coperta da una macchia.

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fabricáu una Crësia dedicáda a Issu. Agnésa filla de221 su ’Mperadori, innantis222 chi223 fëssit istáu

disterráu Potítu, hendusí224 cunvërtia a sa fidi, de issetöttu hiat arricíu su Santu batizimu225; sa chi

debústis exiliáda a su pröpiu lögu, aúndi fiat istëtiu exiliáu Potítu, inní po sa santa fidi Christiana

hat arricíu su martíriu. ― Vidal. Annal. Sard. tom.2 impres. Mediol. pag. 161226.

S’annu chi fiat istëtiu martirizáu S. Potítu esti s’annu 154, segundu227 Vidal in lögu228 citau, e

Baröniu tom.2 Ann. Eccl.229 fol.130. num III230. — Su cörpus de S. Potítu paris cun su de S. Efis

inde dh’hanti pigáu is Pisanus de Pula e collocau honradamente231 in Pisa s’annu 1088 ― ; ma sa

conca de S. Potítu232 clavada cun s’obbílu, si creit siat istëtia de tëmpus meda anterióris portáda a

Castëdhu, aundi s’est cunserváda in sa Crësia de S. Bardíli, Cumbëntu fiat de is Trinitárius, sa chi

s’est agatáda accánta de s’altari majori s’annu 1588; e de inní trasladáda233 a su Santuáriu de sa Seu

de Castëdhu. Aíci dhu penzat Dimas Serpy in Chr. Sanct. Sard. lib.1. cap. 28. fol. 48234.

Vita, Miracoli e Martirio di

San Potito,

Tradotta in sardo da quella scritta in latino nel Codice Cagliaritano, che fu inviata al Cardinale

Baronio celebre annalista ecclesiastico.

San Potito, sardo di nascita, figlio di Ila uomo nobilissimo, da fanciulletto aveva cominciato a

servire il Dio di cielo e terra. Vedendo Ila idolatra che suo figlio Potito era cristiano, lo sopportava a

fatica, e poneva tutta la sollecitudine possibile per allontanarlo da Gesú Cristo; invano, però, andò

tutto il suo lavoro. Perciò235 lo mise in prigione, privandolo di ogni cibo e dicendogli: “Vediamo ora

se il Dio che adori ti darà pane per mangiare”. Ma Potito, ricorrendo a Dio con l’orazione, fu

alimentato per mezzo di un angelo, cosí come il profeta Abacuc, essendo nella fossa236 dei leoni237,

221 Segue ≠.222 Segue un piccolo segno +.223 ≡ chi.224 hendu- è legato a -sí da una linea.225 batisimu > batizimu.226 Annales Sardiniae, tomus 2, impressus Mediolani, pagina 161.227 In M c’è punto anziché virgola.228 La -u è coperta da una macchia.229 In M manca il punto.230 Tomus 2, Annales Ecclesiastici, folium 136, numerus III.231 M honradam.te.232 Potitu > Potítu.233 ≠ -s.234 Chronica Sanctorum Sardiniae, liber I, capitulum 28, folium 48.235 Po su chi è calco dell’it. perciocché, con valore causale. Il periodo è privo di proposizione principale.236 lacu letteralmente significa ‘vasca’, ed è usato soprattutto per indicare l’abbeveratoio degli animali.237 Citazione biblica imprecisa. Secondo la storia di Belo e il dragone, che forma la seconda appendice deuterocanonicadel Libro di Daniele, un “profeta Abacuc in Giudea”, spinto da un angelo, portò il cibo a Daniele, il quale era stato

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aveva avuto il cibo per mano dell’angelo. In questa maniera Potito, per lo spazio di molti giorni, fu

sostentato da un angelo.

Molto tempo era passato, nel quale con lusinghe e minacce Ila aveva tentato di distogliere Potito

dalla fede cristiana, senza riuscire nell’intento. Alla fine Potito può fuggire di prigione, e

nascondersi in un bosco appartenente a Zèpero, dove l’angelo gli appare, prospettandogli le

persecuzioni e guerre del Demonio, e preparandolo con istruzioni contro le insidie e tentazioni del

Nemico. Appena si parte l’angelo ecco Satanasso grande demonio, che compare ridendo, e come se

volesse abbracciarlo gli dice: “O Potito, cosa fai ? Torna a casa di tuo padre, che di luogo in luogo ti

cerca piangendo, e goditi i beni e le ricchezze sue, poiché non ha altri che te; tu sei la pupilla dei

suoi occhî”. Risponde Potito: “Chi sei tu, perché possa io obbedire ai consigli che mi dài ?”. Dice

Satana: “Io sono Gesú Cristo, Signore e Dio tuo, che desidero molto la salvezza dell’anima tua”. Lo

osserva attento Potito, e nota che portava i calcagni sollevati da terra. Subito si fa la croce, e

alzando gli occhî al cielo prega Dio: subito il Demonio si adira238, e s’alza in aria di quasi quindici

braccia239. Esclama Potito: “Lungi da me, Satana, fatti indietro ! Perché mi tenti ? No potrai

prevalere contro di me, che sono servo di Gesú Cristo”. Il Demonio allora si tramuta in toro, e

mugghiando con grande ferocia pareva volere assalire Potito, ma egli, facendosi la croce, gli mette

le mani addosso, e afferrandolo per le corna lo getta a terra, lo lega alle quattro zampe, e gli sta

sopra calpestandolo; esso però da sotto vomitava fiamme di fuoco dagli occhî, narici e bocca,

facendo voci tali, che pareva tremare la terra intorno. Nel mentre implorava Potito dicendo:

“Lasciami andare, affinché prenda qualche refrigerio dai tormenti che mi dai. Perché m’hai gettato

in tanto fuoco ? Mi brucio tutto: abbi pietà di me e dei miei dolori”. “La Croce di Gesú Cristo – dice

San Potito – t’ha legato; ma se vuoi che ti lasci ti comando, bestia infernale, per la virtú della Santa

Croce, che non faccia male a nessun cristiano”. Allora il Demonio, gridando piú forte e strepitando,

dice: “Ahimé, un bambino mi vince ! Ma ti prometto che, in pena di ciò che m’hai fatto, finirai la

vita nei tormenti. So, Potito, quello che farò a Roma: vai per ora, e aspetta la vendetta”.

Fuggito se n’era il Demonio urlando per il bosco, e Potito l’insultava. Un altro giorno Potito va alla

città di Valeria240, e presso il fiume, che corre vicino, si siede per riposarsi; poi entra in città,

predicando al popolo. Lí era una donna di nome Luiríaca, moglie del senatore Agatone, tutta piena

di lebbra: Potito la guarí col solo farle la croce, e, alla vista di questo miracolo, ella con molta gente

di quel luogo si convertí alla fede di Gesú Cristo. Intanto Ila, padre di Potito, cercava di tornare a

gettato nella fossa dei leoni (Bibbia, Daniele, 6 e 14, 33-42). Codesto personaggio è solo omonimo del piú conosciutoAbacuc, ottavo fra i profeti minori della Bibbia. 238 In campidanese s’unfrai ha il significato primario di ‘gonfiarsi’ (dal lat. inflare, forse attraverso la forma volgare*unflare), da cui deriva quello di ‘adirarsi’.239 Il braccio, adottato quale unità di misura, aveva un valore variabile da un luogo all’altro, comunque intorno aisessanta centimetri. Il Demonio si sarebbe dunque sollevato a quasi nove metri d’altezza.240 Nel periodo del Tardo Impero prese il nome di Valeria (dalla Via Valeria che l’attraversava), una provincia d’Italia,corrispondente pressappoco all’attuale Abruzzo. Era chiamata Valeria anche una provincia della Pannonia Inferiore.

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prendere il figlio, e non aveva potuto averlo in mano, essendo stato avvisato Potito da un angelo;

avendo poi trovato una nave, s’imbarca e va a Roma241. Lí passava la vita devotamente e santamente

con altri cristiani. Non potendo però restare occulta la sua santità, Dio volle che fosse manifesta

anche242 all’imperatore Antonino Pio, il quale aveva sua figlia Agnesa spiritata e posseduta dallo

stesso demonio, che Potito aveva affrontato e tormentato in Zèpero. Costui, parlando in bocca di

Agnesa, diceva che non sarebbe uscito dal corpo di lei se non fosse venuto Potito, anzi l’avrebbe

uccisa. Udendo questo l’imperatore comanda che si cerchi Potito, e avendolo trovato sul monte

mentre pregava, lo portano in presenza dell’imperatore, il quale243 si rivolge244 a lui in questa

maniera: “Il fragore e la fama delle cose meravigliose che fai è giunta alle mie orecchie; Potito, se

liberi mia figlia dal demonio, ti caricherò di ricchezze e onori nella mia corte”. Gli risponde Potito:

“Maggiore onore e maggiore ricchezza è servire Gesú Cristo, Creatore del cielo e della terra, che

regna in cielo. Credi in Lui, o imperatore, perché è il vero Dio”. Niente rispondendo a ciò,

l’imperatore torna a dirgli: “Potito, libera mia figlia dal demonio, questo è ciò che voglio da te”.

Allora Potito comanda al Demonio, in nome di Gesú Cristo, che esca da quella creatura, e subito

esce, in presenza di tutti coloro che erano lí; i quali a gran voce dicevano che grande e potentissimo

era il Dio di Potito.

Intanto l’imperatore con molte ragioni sollecitava Potito che sacrificasse agl’idoli, promettendogli

grandi regali, ma egli, forte e immobile come scoglio in mezzo al mare, predicava la fede cristiana,

e si rideva delle promesse dell’imperatore. Questi lo porta con sé al tempio degl’idoli, e stando di

fronte a loro gli dice: “Osserva, Potito, questi sono i veri dèi: se tu li adori e doni loro incenso, ti

farò principe nel mio impero”. Ma Potito, alzando gli occhî al cielo, prega Dio, e subito gli idoli

cadono a terra, fatti a pezzi245. Indignato di ciò l’imperatore comanda che Potito sia posto in

prigione e incatenato, e sigilla la porta della prigione col proprio sigillo, affinché nessuno gli porti

da mangiare, né gli parli. Ma l’angelo del Signore scende dal cielo, illumina la prigione e scioglie

come cera le catene, con le quali era avvinto il servo di Dio. Visto tale splendore, le guardie della

prigione corrono dall’imperatore, dicendogli che Potito dentro la prigione parlava con un giovane, il

cui vólto brillava come il sole, e ch’era entrato pur restando chiusa col sigillo la porta.

L’imperatore a questa notizia, temendo il Dio di Potito e avendo paura che facesse contro i suoi dèi

qualche altro male246, come aveva fatto prima nel tempio, lo manda in esilio, scrivendo al preside247

Gelasio che, se Potito avesse persistito nella propria ostinazione, lo torturasse fino a togliergli la241 Il soggetto qui è Potito.242 Qui l’italianismo ancora ha il significato di ‘anche’ piuttosto che di ‘ancora’: l’uso corrisponde a quello di tambèni(dallo sp. también).243 su chi corrisponde all’it. il quale.244 fuedhai ‘parlare’, quando regge il complemento oggetto, assume il valore di ‘rivolgersi a qualcuno’. 245 Nella scrittura a rogus non sono espresse la vocale prostetica e la consonante rafforzata del sostantivo (arrogus). 246 Il costrutto rezelendu de no fai ... equivale a quello dei verba timendi latini.247 Col termine Presidenti s’indicava la carica piú alta nei tribunali anticristiani.

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vita. Pertanto Potito fu portato in nave nel luogo dove Gelasio era preside. Costui, passati alcuni

giorni nei quali non aveva potuto superare la costanza della fede di Potito, lo fa condurre al teatro,

dove, dopo varî tormenti, crudelmente fu tormentato anche nel cavalletto248; gli furono applicate

torce di fuoco all’uno e all’altro fianco, e cavate dalle dita le unghie. Tutti questi tormenti furono

vinti da Potito con la virtú di Gesú Cristo, che di cuore amava e serbava, beffandosi del tiranno, e

rendendo grazia a Dio. Il popolo, vedendo queste cose, gridava ad alta voce lodando il Dio di

Potito.

Libero già dal tormento del cavalletto e del fuoco, lo presentano ai leoni perché fosse divorato, ma

essi, lasciata la loro ferinità, gli leccano i piedi, restandogli249 davanti come agnelli. Visto questo

miracolo, molti fra i circostanti, abbandonando gli idoli, si convertirono alla fede cristiana. A vedere

ciò il preside, con ira piú accesa comanda che lo gettino in una padella piena d’olio, arroventato col

piombo; ma per niente questa materia infocata molestò Potito, anzi in mezzo ad essa ben cantava

lodi divine; e come se fosse in mezzo alla rugiada di un ameno campo godeva e si compiaceva con

Dio, che era la sua salute. Gelasio, vedendosi vinto da Potito, sempre piú s’infuriava con lui, non

sapendo in che modo poter togliergli la vita.

Perciò ordina che lo riportino in prigione, mentre egli pensa alla maniera di dargli la morte. Il

giorno seguente ordina di portarlo alla sua presenza, e dopo varî e lunghi discorsi, fatti invano per

isviare il servo di Dio dal cammino della vera fede, comanda che gli sia ficcato un chiodo in testa.

Essendo stato eseguito ciò, Dio fece in modo che il dolore, il quale avrebbe dovuto patire il martire,

patisse proprio questi, e quegli no250; e pertanto comincia a gridare a gran voce: “Potito, abbi pietà

di me, che ho già sperimentato quanto grande e potente è il tuo Dio !” Allora si leva un grande

bisbiglio nel popolo, che dice: “Grande è la fede, ed il potere di questo ragazzo, giacché vince i

nostri dèi”. Nondimeno Potito, facendo il segno della croce al preside, lo sana dal dolore che aveva,

rimanendo egli col chiodo conficcato, ma senza avvertire dolore e allegramente. Per questo

miracolo si convertí una grande moltitudine di pagani.

La ricompensa che il preside diede al suo benefattore fu di fargli tagliare la lingua e cavargli gli

occhî. Questa ingratitudine ha fatto muovere quasi tutta la città contro il tiranno; temendo perciò la

sollevazione del popolo, ordina che Potito fosse portato un’altra volta in prigione, e che a notte

fonda, di nascosto da tutti, fosse condotto in un luogo chiamato Apulia (Pula), e lí decapitato. Il

quale ordine fu eseguito il tredici di gennaio, essendo Potito in età di tredici anni. La anima sua fu

vista fu vista dai circostanti volare al cielo in forma di colomba. Il corpo fu sepolto nello stesso

248 Il lat. equulĕus (eculĕus) significa ‘puledro’ed è diminutivo di equus ‘cavallo’; già da Cicerone è usato anche nelsenso traslato di ‘cavalletto di tortura’. 249 Trasformiamo in implicita la proposizione esplicita del testo sardo, nella quale avviene il frequente passaggio dalpresente storico all’imperfetto. 250 Gelasio soffrí dunque la pena alla quale aveva condannato Potito.

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luogo, in cui poi i cristiani edificarono una chiesa a lui dedicata. Agnesa figlia dell’imperatore,

prima che Potito fosse esiliato, essendosi convertita alla fede ricevette da lui il santo battesimo; in

seguito esiliata nello stesso luogo, dove era stato esiliato Potito, ricevette lí il martirio. — Vidal,

Annali di Sardegna, tomo II, stampato a Milano, pagina 161.

L’anno in cui fu martirizzato San Potito è il 154, secondo Vidal nel luogo citato e Baronio in Annali

ecclesiastici, tomo II, foglio 136, numero III. Il corpo di San Potito, insieme con quello di

Sant’Efisio, dai Pisani fu prelevato da Pula e collocato onorevolmente a Pisa nell’anno 1088. La

testa di San Potito col chiodo conficcato, però, si crede che sia stata portata molto tempo prima a

Cagliari, dove s’è conservata nella chiesa di San Bardilio, convento dei Trinitarî, e fu trovata

accanto all’altare maggiore nell’anno 1588; da là fu trasportata al santuario della Cattedrale di

Cagliari. Cosí pensa Dimas Serpi in Cronaca dei santi di Sardegna, libro I, capitolo 28, foglio 48.

(Pubblicato sul numero 5 di NAE)

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Appendice V

I Goccius de Santa Barbara

Il componimento è conservato alla Biblioteca Universitaria di Cagliari, nel fascicolo n.36 dei

manoscritti Laconi (Ms LI/36). I Goccius de Santa Barbara, in base all’indicazione di catalogo,

furono composti a seguito della caduta di un’ala del monastero di Santa Caterina in Cagliari, il 27

dicembre 1747. L’opera, dopo la quartina iniziale, i cui ultimi due versi fungono da ritornello dopo

le sestine, si compone di quattordici strofe di ottonarî e novenarî, i quali ultimi paiono essere dovuti

ad imperizia dell’autore. Secondo il genere degli inni sacri, lo schema metrico della quartina è xyyx,

quello delle sestine è ABBAAx, in cui x è in rima con l’ultimo verso del ritornello. I Goccius sono

seguiti da una breve preghiera in latino.

La santa alla quale è dedicato l’inno non è la vergine martire di Nicomedia in Bitinia, unica Barbara

presente nel martirologio romano, bensí una donna “natia di Cagliari”, che “visse nel III secolo,

vergine e martire”; il suo culto “ebbe rinnovato impulso a partire dal 1620. In quell’anno, infatti,

durante gli scavi nella Cripta di Santa Restituta a Cagliari, il 23 giugno fu ritrovato un loculo

terragno con la seguente iscrizione “Santa Barbara, vergine e martire, che visse trent’anni” ... gli

studiosi dovettero ricredersi e ammettere un caso di omonimia”251.

La lingua di quest’inno è il sardo campidanese: alcuni tratti lessicali e morfologici inducono a

credere che l’anonimo poeta fosse cagliaritano, come lo stesso argomento e le stesse circostanze di

composizione confermano. Questo testo è uno dei primi in campidanese moderno, ma la lingua non

è molto diversa da quella di oggi. Per quanto riguarda la grafia, si nota che il modello, trent’anni

dopo il passaggio dell’isola ai Savoia, è l’italiano: gn indica palatale nasale (carignus), gia affricata

palatoalveolare (giai), ghe e chi gutturali sonore e sorde (preghera, chi). Un tratto superstite di

scrittura iberica è invece la x, usata per rappresentare la fricativa palatoalveolare sorda (naximentu).

La lettera z indica affricata dentale sorda (innozenti), ed in un caso è impiegata anche dopo n per

esprimere l’effettiva pronunzia del gruppo ns (cunzervas, ma inserras con grafia etimologica); si

nota inoltre oscillazione di scrittura fra -t e -d nella desinenza verbale di III persona singolare

(assegurad, mandad ma anche mandat). In morfologia si rilevano il genere maschile di dus fontis

‘due fonti’, che è un cultismo d’origine italiana (l’autore adopera duas funtanas come sinonimo), il

congiuntivo imperfetto in -essi (maltratessit) e il gerundio in -endu (timendu). Gli elementi

caratteristici – ma non esclusivi – del campidanese di Cagliari sono l’uso di fiat e non fut come

imperfetto di èssiri (III persona singolare), e i termini sèu ‘cattedrale’, de undi ‘di dove’ e inní ‘lí’

per quanto attiene al lessico. Sul piano della sintassi, è rilevante l’uso del congiuntivo trapassato in

251 Dizionario iconografico dei patroni e dei santi della Sardegna, a cura di Ino Chisesi, Cagliari,L’Unione Sarda, 2004, pag. 41.

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una proposizione finale, laddove in italiano compare il congiuntivo imperfetto: po chi inní ti essinti

fertu.

Goccius de Santa Barbara Virgini, e Martiri Cagliaritana

Po Cristus Martirizada

In su Monti occultamenti

Barbara sesi innozenti

A Gesus sacrificada. 4

Barbara Calaritana

nobili de naximentu

tui ses gloria e ornamentu

de sa patria paisana

ses de sa lei pagana

enemiga declarada. 10

Barbara sesi innozenti252.

Cum sa grazia batisimali

ti cunzervas innozenti

e merescis giuntamenti

una puresa angelicali,

sa corona triunphali

cum sa palma duplicada. 16

Barbara sesi innozenti.

Candu sa corti Romana

s’assegurad totalmenti

chi in Casteddu sa prus genti

fiat Catolica Cristiana

format sa lei tirana

contra cristus promulgada. 22

Barbara sesi innozenti.

252 M innoz. L’abbreviazione è dovuta a motivi di spazio nel foglio.

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Po su rigori vehementi

ti inserras induna grutta

e cum santa Restituta

fiasta fida penitenti

appartada de sa genti

Ma de su Xelu accumpangiada. 28

Barbara sesi innozenti.

A su Barbaru presidenti

mandad su imperiu Romanu,

po chi donnia Cristianu

maltratessit aspramenti

ses Barbara prontamenti

de su Barbaru impresonada. 34

Barbara sesi innozenti.

Cum carignus e cum rigoris,

ses tentada in su presoni

disprezias s’adorazioni

de is gentilicus erroris

suffris crudelis doloris

cum ispinas maltratada. 40

Barbara sesi innozenti.

Su Barbaru timendu zertu

sa potenti nobilesa

in occultu e cum lestresa

ti mandat in su desertu

po chi inní ti essinti fertu

fessis decapitada. 46

Barbara sesi innozenti.

Moris Barbara costanti

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degollada indunu monti

aundi repentinu fonti

si cumparid a su instanti

chi po nomini incessanti

si narad sa scabizada. 52

Barbara sesi innozenti.

Duas funtanas de repenti

osservat s’esecutori

una di aqua de candori

s’altera sanguini innozenti

e Barbara in sa currenti

de duas undas annegada. 58

Barbara sesi innozenti.

Is dus fontis veramenti

declaranta sa puresa

su Martiriu e fortalesa

de sa Martiri valenti

chi bivit eternamenti

in su Xelu coronada. 64

Barbara sesi innozenti.

Dioclezianu Imperadori

e Barbaru Presidenti

a trinta annus resistenti

moris in s’aspru rigori

po Cristus nostru Signori

cum chini ses desposada. 70

Barbara sesi innozenti.

In Casteddu occultamenti

ti donant sepultura

in sa grutta tanti oscura

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chi abbitasta tui biventi

e ses hoi presentementi

in sa seu depositada. 76

Barbara sesi innozenti.

Cun respettu e devozioni

ses visitada in su monti

sa cresia tua cun su fonti

adorad dogni personi

po memoria e menzioni

de undi ses martirizada. 82

Barbara sesi innozenti.

Giai chi has bintu sa vittoria

de una gherra sanguinosa

sa preghera fervorosa

presenta in sa eterna gloria

de chini faid memoria

de tui barbara avvocada. 88

Barbara sesi innozenti

A Gesus sacrificada.

L’orazione dell’istessa Santa Barbara.253

Ora pro nobis beata Barbara, ut digni efficiamur promissionibus Christi. Oremus Deus qui inter

cetera providentiae tuae miracula etiam in sexu fragili victoriam Martyrii contulisti, concede

propitius ut qui Beatae Barbarae virginis, e Martiris tuae natalitia colimus per eius ad te exempla

gradiamur. Per Christum Dominum nostrum amen.

L’orazione della stessa santa Barbara.

Prega per noi, beata Barbara, affinché siamo resi degni delle promesse di Cristo. Preghiamo te, Dio,

che fra gli altri miracoli della tua provvidenza hai attribuito anche al sesso debole la vittoria del

martirio. Concedi propizio a noi, i quali onoriamo l’anniversario della tua beata vergine e martire

Barbara, di venire a te attraverso il suo esempio. Per Cristo nostro Signore amen.

253 La didascalia è in italiano. La preghiera è inserita verticalmente al centro del foglio.

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Inno di Santa Barbara vergine e martire cagliaritana

Martirizzata per Cristo

occultamente nel monte,

Barbara sei innocente,

sacrificata a Gesú. 4

Barbara cagliaritana,

nobile di nascita,

tu sei gloria e ornamento

della patria nazionale,

e sei, della legge pagana,

nemica dichiarata. 10

Barbara sei innocente.

Con la grazia battesimale

ti conservi innocente,

e congiuntamente meriti

una purezza angelica

e la corona trionfale

con la palma254 raddoppiata. 16

Barbara sei innocente.

Quando la corte romana

si assicura totalmente

che a Cagliari la gente255

era cattolica cristiana,

redige la legge tiranna,

promulgata contro Cristo. 22

254 La palma è simbolo della vittoria dei martiri.255 Lett. “la maggioranza della gente”.

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Barbara sei innocente.

Con rigore zelante

ti ritiri in una grotta

e con Santa Restituta256

divieni fida penitente,

lontana dalla gente,

ma accompagnata dal cielo. 28

Barbara sei innocente.

L’impero romano

invia il presidente Barbaro257,

affinché ogni cristiano

sia perseguitato duramente:

tu, Barbara, sei subito

imprigionata dal Barbaro. 34

Barbara sei innocente.

Con allettamenti e minacce

in prigione sei tentata,

ma disprezzi l’adorazione

degli errori pagani,

e soffri crudeli dolori,

maltrattata con le spine. 40

Barbara sei innocente.

Il Barbaro, temendo certo

la potente nobiltà,

di nascosto e con prontezza

ti manda nel deserto,

perché lí ti percotessero

256 “Poiché le reliquie di Santa Barbara e quelle di Santa Restituta erano state ritrovate a brevedistanza le une dalle altre, si ipotizzò che le due fossero state compagne anche nel martirio”, operacitata.257 Il nome, con il quale è indicato il presidente del tribunale anticristiano, esprime già di per sé laferocia della persecuzione.

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e poi ti tagliassero la testa. 46

Barbara sei innocente.

Muori, o Barbara, con fermezza,

decapitata su d’un monte,

dove improvvisamente

compare subito una fonte,

che per nome perpetuo

è detto ‘La Decapitata’258. 52

Barbara sei innocente.

Due fontane repentinamente

osserva l’esecutore

una d’acqua limpida,

l’altra di sangue innocente,

e Barbara nella corrente

di due onde annegata. 58

Barbara sei innocente.

Le due fonti veramente

manifestano la purezza,

il martirio e la fortezza

della valorosa martire,

che vive in eterno

incoronata in cielo. 64

Barbara sei innocente.

Sotto Diocleziano imperatore

e Barbaro presidente,

tenace a trent’anni

muori in modo duro e crudele

per Cristo nostro signore,

258 Santa Barbara è chiamata infatti Sa scabitzada. Si noti la ricchezza lessicale del sardo, chepossiede tre sinonimi per ‘tagliare la testa’: il neolatino scabitzai (= segai sa cabitza, voce ormaisoppiantata da conca), l’iberismo degollai, che entrò anche in italiano, e il cultismo decapitai.

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col quale sei sposata. 70

Barbara sei innocente.

In Cagliari segretamente

ti danno sepoltura

nella grotta cosí oscura,

in cui abitavi da viva,

e oggi, in questo momento

sei collocata in cattedrale. 76

Barbara sei innocente.

Con rispetto e devozione

sei visitata nel monte,

la tua chiesa con la fonte

è adorata da ogni persona

per memoria e ricordo

del luogo del martirio. 82

Barbara sei innocente.

Giacché hai ottenuto la vittoria

in una guerra sanguinosa,

presente la fervente

preghiera nell’eterna gloria

di chi fa menzione

di te, Barbara difenditrice. 88

Barbara sei innocente

sacrificata a Gesú.

L’orazione della stessa santa Barbara.

Prega per noi, beata Barbara, affinché siamo resi degni delle promesse di Cristo. Preghiamo te, Dio,

che fra gli altri miracoli della tua provvidenza hai attribuito anche al sesso debole la vittoria del

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martirio. Concedi propizio a noi, i quali onoriamo l’anniversario della tua beata vergine e martire

Barbara, di venire a te attraverso il suo esempio. Per Cristo nostro Signore amen.

(Pubblicato sul numero 13 di NAE)

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Appendice VI

Un inno al Cuore di Gesú (1766)

Nei manoscritti Laconi si conserva, nei fogli dei Goccius de Santa Barbara già pubblicati sul

numero 13 di NAE, un inno al Cuore di Gesú (Ms LI/36), anch’esso scritto in campidanese,

composto nel 1766, come è indicato nel manoscritto: i Goccius de su sacratissimu e dulcissimu

coru de Gesú Redentori nostru.

Questi Goccius, composti dunque nella seconda metà del Settecento, rivelano uno lessico di

influenza ancora prevalentemente iberica: lo provano vocaboli quali l’inedito malogradu

‘sventurato’ (dallo spagnolo malogrado), e poi olvidu ‘oblio’, verdaderu ‘vero’, briglianti

‘brillante’, in un’epoca nella quale, come dimostra l’ultimo aggettivo succitato, il modello grafico

italiano s’era già imposto. Il verbo torgari ‘concedere’ corrisponde al cat. atorgar ed allo sp.

otorgar (oggi ‘concedere, permettere; dare’): la forma antica atorgar aveva anche il valore di

‘ammettere, confessare’, e con questo significato fu usata da frate Antonio María da Esterzili nel

tardo Seicento. Il verbo reparari ‘rilevare, notare’ con quest’accezione è spagnolismo: autori

precedenti lo avevano già adoperato in tutte le accezioni dell’it. riparare e dello sp. reparar. Il

verbo scudiri (dal lat. tardo excutulare), che in campidanese si usa col significato di ‘battere,

scuotere’, soprattutto nell’accezione di ‘abbacchiare’, battere gli alberi per far cadere i frutti, qui è

impiegato nel verso scudiri in gruxi ispirendu ‘salire in croce spirando’.

Sul piano morfologico si rileva il troncamento nell’infinito del verbo ‘essere’ in chini at essi tanti

ingratu.

L’opera, dopo la quartina iniziale, i cui ultimi due versi fungono da ritornello dopo le sestine, si

compone di dieci strofe di ottonarî, con qualche novenario, che pare essere dovuto ad imperizia, piú

che alla scelta dell’anacrusi da parte dell’autore; al termine del componimento si trova un’altra

quartina di supplica. Secondo il genere degli inni sacri, lo schema metrico delle quartine è xyyx,

quello delle sestine è ABBAAx, in cui x è in rima con l’ultimo verso del ritornello. I Goccius sono

seguiti da una breve preghiera in latino.

Goccius de su sacratissimu e dulcissimu coru de Gesú Redentori nostru

In tronu de amori postu

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cumparis meda briglianti

inflama su coru nostru,

Coru de Gesus amanti. 4

A su mundu ti declaras

Amorosu e resentidu

Po causa de tanti olvidu

Chi in is ominis reparas259

A is finesas tanti raras

chi dispensas abbundanti. 10

Inflama ...

Cum tres insignas de amori

Gruxi, spinas, e lanzada

Amostas franca s’intrada

A su tristu peccadori

Concedendiddi dolori

Verdaderu260 e penetranti. 16

Inflama ...

In custu coru infogadu

S’incendit su coru fridu

S’emendat dognia depidu

S’achistat su malogradu

Tottu benit rettocadu

De custu fini diamanti. 22

Inflama ...

Is animas fervorosas

De custu coru Divinu

Aspiranta de continu

A operas prus virtuosas

Po essiri veras isposas

259 In M segue ≠ dopo hominis.260 In M è parzialmente coperto da una macchia d’inchiostro.

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Cum puru affettu e costanti. 28

Inflama ...

Su Babbu eternu promitit

Per custu coru amurosu

Conzedid meda gustosu

Cant’a nosu necessitit

Mentras po issu si supplichit

Si torgat tottu a s’instanti. 34

Inflama ...

Custu coru appassionadu

Scudiri in gruxi ispirendu

A su babbu fiat preghendu

Po chi ddiat crucificadu

Aici nos at imparadu

Su perdonu a s’adversanti. 40

Inflama ...

A tali eccessu de amori

Su coru ti hat portadu

Chi ti ses sacramentadu

po su giustu e peccadori

O amantissimu segnori

Chi t’hat obligadu a tanti. 46

Inflama ...

Chini hat essi tanti ingratu

Chi non istimit custu coru

Est precissu chi siat moru

Po non bolliri essi gratu

O ddi pargiat su chi at fattu

Chi ancora non siat bastanti. 52

Inflama ...

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O arcivu de arrichesa

Mari de dognia cuntentu

De s’inferru ses tormentu

E de is angiulus bellesa

Concedinosi puresa

E sa grazia confirmanti. 58

Inflama ...

Po cuddu coru preziosu

De mamma tua virginali

Liberanosi de mali

E de su inferru orgogliosu

E po issu vitoriosu

Bessant dognia agonizanti. 64

Inflama ...

Tottu custu s’est propostu

De su umili supplicanti

Decreta a favori nostu

Coru de Gesus amanti. 68

Antifona.

Improperium expertavit261 cor meum, et meseriam262, et substinui, qui simul contristaretur, et non

fuit, et qui consolaretur, etsi263 inveni.

Discite a me quia mitis sum, et humilis corde. Alleluia.

Et invenietis requiem animabus vestris. Alleluia.

Oremus.

261 Nel latino classico si usava expertum est.262 = miseriam.263 È scritto staccato et si.

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Domine Jesu qui ineffabiles cordis tui divitias Ecclesię sponsę tuę264 singulari beneficio aperire

dignatus es: concede propitius ut gratiis celestibus265 ex hoc dulcissimo fonte manantibus corda

nostra ditari, ac rec<re>ari266 mereantur. Qui vivis et regnas Deus in secula seculorum267.

1766

Inno del santissimo e dolcissimo Cuore di Gesú Redentore nostro

In trono di amore posto,

compari molto brillante:

infiamma il core nostro,

cuore di Gesú amante. 4

Al mondo ti dichiari

amoroso e risentito,

a causa di tanto oblio

che negli uomini rilevi

in cambio delle cortesie tanto singolari,

che dispensi in abbondanza. 10

Infiamma ...

Con tre insegne d’amore –

croce, spine e ferita,

mostri aperta l’entrata

al tristo peccatore,

dandogli dolore

vero e penetrante. 16

Infiamma ...

In questo cuore infocato

s’accende il cuore freddo,

s’estingue ogni debito,

264 Il simbolo ę corrisponde al classico ae: Ecclesiae sponsae tuae.265 = caelestibus.266 Una macchia copre la parte mediana del verbo.267 Nel latino classico saecula saeculorum.

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s’avvantaggia lo sventurato:

tutto è migliorato

da questo fine diamante. 22

Infiamma ...

Le anime desiderose

di questo cuore divino

aspirano di continuo

ad opere piú virtuose

per essere sue vere spose

con puro affetto costante. 28

Infiamma ...

Il Padre eterno promette

attraverso questo cuore amoroso,

e accorda molto lieto

quanto a noi occorre:

quando per esso si supplichi

si concede tutto all’istante. 34

Infiamma ...

Questo cuore appassionato

per salire in croce spirando

il padre stava pregando,

poiché l’aveva crocifisso:

cosí ci ha insegnato

il perdono per il nemico. 40

Infiamma ...

A tale eccesso d’amore

il cuore t’ha portato,

che ti sei sacrificato268

per il giusto e il peccatore:

268 In italiano sacramentare ha il primo significato di ‘impartire sacramento’, e non si usa come intransitivopronominale.

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o amorevolissimo Signore,

chi t’ha obbligato a tanto? 46

Infiamma ...

Chi sarà tanto ingrato

da non amare questo cuore,

è certo che sia moro

per il non voler essere grato;

o gli pare quel che ha fatto269

ancora non essere sufficiente? 52

Infiamma ...

O archivio di ricchezza,

mare di ogni contentezza,

dell’inferno sei tormento

e degli angeli bellezza:

concedici purezza

e la grazia confermante. 58

Infiamma ...

Per quel cuore prezioso

di tua madre vergine,

liberaci dal male

e dall’inferno orgoglioso,

e, per esso270, vittorioso

riesca271 chiunque sia in agonia. 64

Infiamma ...

Tutto quanto si è preposto

dall’umile supplicante,

decreta a favore nostro,

cuore di Gesú amante. 68

269 Soggetto sottinteso della proposizione relativa è Gesú: soltanto un ingrato può ritenere insufficiente l’atto d’amoredel Salvatore. 270 S’intende il cuore di Gesú. 271 Il plurale bessant concorda con l’indefinito singolare.

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Antifona.

Sperimentò improperio il mio cuore, e miseria, ed io sopportai che272 nello stesso tempo esso si

contristasse – e ciò non fu – e si consolasse, e tuttavia ne presi conoscenza.

Imparate da me, perché sono mite e umile di cuore. Alleluia.

E troverete pace per le vostre anime. Alleluia.

Preghiamo.

Signore Gesú, che per singolare beneficio ti sei degnato di aprire le ineffabili ricchezze del tuo

cuore alla Chiesa tua sposa, concedi propizio che i nostri cuori si arricchiscano delle grazie celesti,

le quali si diffondono da questa dolcissima fonte, e meritino di essere ristorati; tu, Dio che vivi e

regni nei secoli dei secoli.

1766

(Pubblicato sul numero 19 di NAE)

272 Il costrutto di su(b)stinere con qui e congiuntivo non appartiene al latino classico.

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Appendice VII

Una disposizione del segretario Cossu

Fra le carte della raccolta Laconi, conservate alla Biblioteca Universitaria di Cagliari, sotto la sigla

Ms. LI/36 è presente la copia di una circolare del Segretario Cossu, rivolta alle amministrazioni

locali per sollecitarle a fornire alcuni chiarimenti sulla produzione agricola.

Giuseppe Cossu (1739-1811), cagliaritano, avvocato ed economista, nel 1767 fu nominato

Segretario della giunta istituita per amministrare i Monti frumentarî o granatici, cioè i magazzini di

raccolta del frumento, esistenti negli antichi consorzî agricoli. La circolare che qui riproponiamo è

dell’aprile 1769: l’anno successivo il Cossu ottenne la carica piú elevata di Censore generale.

La lettera è scritta secondo l’italiano dell’epoca, con predilezione per l’ipotassi e i periodi prolissi.

Si segnalano voci antiquate, e parole scritte oggi in diversamente: viglietto è schietto toscanismo,

lemosina, vegnente, Segretaro, ommesso, commune sono arcaismi fonetici, morfologici e grafici. Il

sostantivo fromento può essere considerato un dialettalismo. Le voci verbali avvertino (= avvertano,

congiuntivo presente), deveranno e informaranno erano frequenti nell’italiano antico, cosí come

l’articolo determinativo plurale li per i, soprattutto premesso a date273, e l’omofono li pronome atono

di terza persona singolare, sia maschile, sia femminile. Il sostantivo religioni, che in questo testo

compare al plurale, ha il significato di ‘ordini religiosi’274. Il francesismo quittanza ‘ricevuta,

quietanza’ (< fr. quittance < quitter ‘rinunziare’ < quitte ‘libero (da debiti)’, con successivo

accostamento all’it. quieto), mantiene la forma originaria. Troviamo poi un sorprendente

Prouomini, adattamento della voce d’origine latina probiviri. Anche la grafia ha qualche

particolarità: l’uso frequente della lettera maiuscola per dare maggiore risalto ai sostantivi, e la j

finale nei nomi contratti in -ii. Non mancano i sardismi, che sono anzi vocaboli d’importanza

fondamentale nel contesto e non sono tradotti: Villa, scritto per maggior risalto con la maiuscola

alla pari di altri sostantivi, corrisponde al sardo Bidda ed è da intendere ‘villaggio’; Vidazoni (dal

latino habitatione), che in origine indicava ‘la casa e le terre contigue comprendenti i seminarii, le

vigne e i pascoli del bestiame’, designa ‘le terre ora lavorate, ora sode o novali, secondo le regole

della rotazione’275; tancati viene dal sardo tanca ‘terreno piú o meno ampio, recinto con muretti a

secco o anche siepi, dove pascolano le greggi e il pastore ha il suo ricovero (detto pinnetta)’276.

273 Nello stile amministrativo quest’uso non è comunque ancora scomparso.274 Fu adoperato già da Francesco d’Assisi e Dante Alighieri in tale accezione.275 M.L. WAGNER, Dizionario etimologico sardo, Trois, Cagliari, 1989, vol. I, pag. 203. Entrambe le citazioniriportano passi di autori sardi, rispettivamente E. Besta e P. Porcu/G. Lallai.276 A. GABRIELLI, Grande dizionario illustrato della lingua italiana, a cura di Grazia Gabrielli, Milano, Mondadori,1989, pag. 3938.

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L’interferenza del sardo è la causa di varie forme sbagliate (se non sono errori di stampa):

sciolieranno, avisi, diffetose, estenzione, occazione, e anche convensione (ipercorrettismo)277.

Il testo sardo si presenta come una traduzione dall’italiano, non letterale e spesso molto

semplificata: il suo scopo è di rendere comprensibili anche ai destinatarî esclusivamente sardofoni

le disposizioni impartite. La grafia adoperata si basa sul modello italiano, ma sono evidenti alcuni

tratti spagnoli: il digramma gu per esprimere la velare sonora davanti alle vocali e ed i (siguinti

‘seguono’, piguendu ‘prendendo’), e qu – solo in un caso – per la velare sorda (qui pronome

relativo); la lettera x per rendere la fricativa prepalatale sorda (connoxit ‘conosce’, paxxit ‘pasce’).

Le occlusive intervocaliche e le vocali paragogiche presentano oscillazione nella scrittura: depint,

depinti e deppinti. La i- prostetica è usata spesso: isperdida, istendiriddas ‘stenderle’, ma stasoni

‘stagione’. Il gerundio può assumere il prolungamento in -ru: si hanno, per lo stesso verbo, le due

forme di gerundio spezifichendu e ispezifichenduru. Nel testo sardo, differentemente da quello

italiano, si trovano anche scritture etimologiche: exemplu, existenti. Un calco dall’italiano è la

locuzione preposizionale baxu pena de ‘sotto pena di’. Gli aggettivi propriu e grandu (d’origine

rispettivamente spagnola e italiana), premessi a nomi femminili, sono lasciati invariati: sa propriu

Bidazoni, una grandu diferenzia.

LA REALE GIUNTA DIOCESANA

SOPRA I MONTI GRANATICI DI SASSARI278

Avendo rilevato dalle Tabelle de’ conti del Monte Granatico, che diversamente hanno le

Amministrazioni Locali inteso l’ordine di S.E.279 di relazionarci delle terre, che nel distretto280 di

ciascheduna Villa si coltivano, e di quelle, che potendosi coltivare rimangono incolte;

nell’accompagnare le Tabelle prescritte nel Regolamento al tit. 3. §. 9. abbiamo stimato ordinare,

che nel restituirle aggiungano le Amministrazioni un foglio distinto, che ci riscontri de’ seguenti

chiaramenti281.

Primo: Se la Villa tiene una, ò282 più Vidazoni.

277 Esempî di pronunzia dell’italiano influenzata dal sardo, la quale si riflette nella grafia, coinvolgendo poi parole affinimorfologicamente.278 Nelle note seguenti con L si indica il testo della raccolta Laconi. I fogli sono divisi in due colonne: a sinistra è lalettera in italiano, a destra quella in sardo campidanese. In entrambi i testi, italiano e sardo, sono lasciate vuote alcunerighe per avere sulla stessa linea i capoversi corrispondenti nelle due lingue. La lettera s è solitamente scritta come f, masenza il trattino orizzontale. 279 = Sua Eccellenza. Come si evince dal testo sardo, si tratta del Viceré. 280 L ristretto.281 = chiarimenti.282 = o.

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Che quantità di frumento può seminarsi in ciascuna Vidazone, e se si seminano interpolatamente,

ovvero di seguito, cioè due anni sì, e due, od uno no.

Che quantità accostumasi seminare in ciascuna di queste Vidazoni.

Se le Vidazoni sono proprie delle Ville, ovvero siano in parte, od in tutto in terreni di altra Villa

distrutta, od esistente; specificando in quale quantità, ed indicando come chiamavasi283 allorché

esisteva.

Se l’orzo, ed altri legumi, canape, o lino semininsi nella medesima Vidazoni nelle quali seminasi il

frumento ovvero in quelle terre in cui l’anno andato, od il vegnente si semenzerà il fromento.

Caso che le Vidazoni fossero ristrette, in maniera che non fossero sufficienti a capire la quantità,

che vorrebbe seminarsi, ci riscontreranno se possono ampliarsi o distendersi, e suggeriranno i mezzi

da usarsi, come farebbero se la Villa tiene terreni attigui di altra Villa distrutta, od esistente che

rimangano incolti, specificando la distanza, che vi è della Villa a quelle terra, ed eziandio la

denonziazione284, ed estenzione285 di quei Salti, per poter indi Noi avvanzarne286 il riscontro a S.E.:

domandandole che faccia passare quelle insinuazioni, che stimerà convenevole con quei, a cui

appartengono per la concessione, mediante quella giusta convensione287, che riuscirà di fare con

quelle persone, che per parte della Communità dovessero trattare.

Se nella villa, oltre le Vidazioni, si semini in tancati, Colline, o Montagne e per quanta quantità.

Quanto disti il terreno incolto dalle altre terre coltivate, e quanto della Villa.

Quali siano le Ville confinanti, e la distanza288 di ciascheduna.

Se il commune tiene terre sufficienti, se ve ne siano della Chiese, e Religioni, e di quanta distesa,

come pure se sianvi demaniali, che non siano di dotazioni delle Ville, e di quanto spazio.

Si riscontrerà l’ambito, che ad un di presso possono occupare le Vigne, Orti, e Giardini della Villa.

Se il bestiame destinato all’agricoltura tiene pascolo sufficiente, e se il sito è vicino alla Villa, e

quanto disti, e che spazio lo occupa.

Se il Bestiame della Villa tiene sufficiente luogo per pascolare, o nò, e di che estenzione13 questo

sia.

Ci riscontreranno eziandio di ciò, che in un giorno seminar può un giogo de’ bovi, e quanto un

Zappatore.

283 L chiamava.284 = denominazione.285 = estensione.286 = avanzarne.287 = convenzione.288 L distaza.

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Inoltre quanto si computi quello che in tutta la289 stagione atta al seminamento può seminare un pajo

de Bovi, e quello che può seminare un Zappatore.

Per relazionarci di questo li preveniamo, che debbono prendono prima le opportune notizie,

mediante informativa de’ Prouomini, e visita de’ Censori, poiche290 siamo stati riscontrati, che le più

delle relazioni inviate delle terre incolte, e che si coltivano, sonosi fatte a mente, e senza aver preso

le dovute notizie, di modo che S.E. ha incontrato un notabile divario dagli avisi291, che noi li

abbiamo recati da quelli, che le sono stati rassegnati da Ministri di Giustizia, all’occazione292 di

rimettergli le solite consegne annuali delle granaglie raccolte.

E per maggior chiarezza la risposta sarà articolo per articolo delle dommande293, che veniamo di

fare, prevenendoli, che caso mai queste Informative si riconoscano meno fedeli, o diffetose294,

spediremo a loro spese un Commissario, che transferendosi sovra luogo eseguisca, ciò che eglino

hanno ommesso.

Essendosi già abbastanza provveduto da S.E. per la ricuperazione de’ fondi del Monte col suo Vice

Reggio viglietto di 10. Novembre nel articolo In non poche; per tutto il 15. di Settembre deveranno

inviarsi le Tabelle de’ conti, sotto pena di spedire i Commissarj a spese degli Amministratori

Locali.

Ove mai qualuno295 degl’Individui della Villa si distinguesse in dar qualche copiosa lemosina al

Monte, ce ne raguagleranno296 distintamente, per renderne conto a S.E., che sicuramente lo gradirà.

E informaranno parimenti di ciò che S.E. domandò colla sua circolare de 11. Maggio 1768.297

nell’articolo avvertendo.

Siccome debbono pagarsi i libri, e di più cose avvanzate298 per quella Amministrazione Locale non

essendovi fondo di danaro venderanno tanto grano quanto sia necessario per avere la somma di ...299

che è quella che si è calculato dover per quest’anno contribuire quel Monte, e questa somma

nell’inviare le Tabelle de’ conti, la faranno prevenire nelle mani del qui sottoscritto Segretaro,

facendosi far quittanza.

289 L le.290 = poiché.291 = avvisi.292 = occasione.293 = domande.294 = difettose.295 = qualcuno. Vista anche la traduzione in sardo con calincunu dovrebbe essere un errore di stampa, piuttosto che uncomposto di qual e uno, non attestato in italiano. 296 = ragguaglieranno.297 I numeri sono sempre seguiti da un punto.298 = avanzate.299 L ha uno spazio vuoto.

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Otto giorni doppo300 il ricevimento della presente vogliamo essere riscontrati di aver ricevute, ed

essere già al fatto del contenuto, e caso mai incontrassero alcuna dificoltà301 ce la rassegneranno

che302 la sciolieremo303.

Coll’istessa opportunità ci raguaglieranno24, se tengono archiviati i Regolamenti di S.E. de’ 10.

Settembre 1767. le circolari stampate delli 11. Maggio, e 10. Novembre scorso anno, e se presso i

Censori rimangono le istruzioni emanate in tempo di S.E. il Signor Conte Tana.

Questa nostra lettera si conserverà unitamente alle altre sì di S.E., come nostre, avvertendoli, che se

mai nell’ordinare alcuna visita delle scritture del Monte, venissimo riscontrati di non trovarsi li

nostri ordini, a spese degli attuali Aministratori304 faremmo provvedere de’ nostri Registri le copie:

avvertino pertanto di tenere come è di loro dovere geloso conto delle Scritture.

Cagliari li 30. Aprile 1769.

PER DETTA REALE GIUNTA DIOCESANA.

C O S S U.

Po cantu in vista de is Tabellas de is contus de is Montis granaticus, claramenti si connoxit ch’is

Amministradoris Localis non funt istetius a su cabudu de s’ordini c’at donau su Visurrei, po chi

giuntamenti cun is Tabellas chi siddis dimandat in su tit. 3. §. 9. de su Regulamentu essinti fattu

relazioni de is terras, chi in su distrittu de sa bidda s’aranta, e de is chi non s’aranta, po no essiri

sboscadas; Eus pensau cummandai a is Amministradoris Localis, chi a su propriu tempus di

arremitiri cussas Tabellas, imbinti ancora in ddunu foliu aparti relazioni de is notizias chi siguinti.

1. Cantus Bidazonis tenit sa Bidda.

2. Cantu trigu si podit arai in ddonnia Bidazoni: e si s’aranta un’annu si, e un’annu no: o si s’aranta

de siguiu dus annus si, e dus, o unu, no.

3. Cantu s’acostumat arai in dognia Bidazoni.

4. Si cussas Bidazonis funti proprias de sa bidda: o vero s’in totu, o in parti sunti sartus di atera

bidda305 isperdida, o chi ancora est in pei: ispezifichenduru sa cantidadi de is terras de aturu sartu, e

su nomini de cussa bidda isperdida o existenti.

300 = dopo.301 = difficoltà.302 = ché.303 = scioglieremo.304 = Amministratori.305 L bida.

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5. Si s’Orgiu, Leguminis, Linu, Canniu s’aranta in sa propriu Bidazoni paris cun su trigu: o si s’arat

in cuddas terras, aundi s’annu nantis, o s’annu ’nfattu s’at arai su trigu.

6. Po su casu ch’is bidazonis sianta tanti curzas, chi non ci capat sa cantidadi de su trigu, chi sa

Comunidadi aiada boliri arai; depint is Amministradoris Localis informai su mediu chi s’at a podiri

pigai po istendiriddas prus; po exemplu si sa bidda es lacanas a pari cun calincuna atara isperdida, o

cun boscu de atara bidda chi esti ancora in pei: spezifichendu su tretu chi ’ncesti de bidda a cussus

territorius; sa denominazioni, e istenzioni de cußus306 sartus allenus: po chi tenta cussa notizia,

sidd’apporgiat a su Visurrei, e siddi preghit, chi ’nddi fazat fueddu cun cuddus a chini tocat, po ’ndi

lograi sa conzessioni cunddunu agiustu arrexonabili cun is Sindigus, o ataras personas chi depinti

cuntratai a nomini de Communidadi.

7. Si s’arat foras de Bidazoni, in cungiaus307, ortus, o foras de sartu: isplichendu sa cantidadi.

8. Ita tretu ’nciat de is terras chi s’aranta, a su boscu: e de custu a bidda.

9. Cant’ailargu funti is biddas de su circuitu, e calis funti custas.

10. Si sa Communidadi tenit terras bastantis: e cantus terras inciat de is Cresias, Arreligionis, e de

Manialis308, chi non sianta doda de sa bidda.

11. Ita tretu piganta is Bingias, Ortus,e Giardinus de sa bidda.

12. Ita tretu pigat su sartu aundi paxxit su bestiamini destinau po arai: si cussu sartu ’dda abbastat, e

cantu ailargu es de bidda cussu sartu.

13. Si s’aturu bestiamini tenit logu bastanti po paxxiri: e cantu mannu est su paberili.

14. Cantu podit arai in dduna dì unu Giù, e cantu unu marradori.

15. Cantu si computada chi arat unu giù, e cantu unu marradori in totu sa stasoni bona po arai.

Preveneus però a is Amministradoris Localis, chi po arregoliri totus custas notizias si deppint

informai de Proominis, e visita de Censoris: poita est certu, chi is relazionis chi si funti imbiadas de

is terras chi s’aranta, si funti fattas de memoria, po non si boliri pigai su traballu de fairi is depidus

averiguazionis, de modu chi Su Visurrei at notau una grandu diferenzia intr’is relazionis de is

Montis, e is consignas annualis, ch’is Ministrus de Giustizia idd’ant imbiau309 de su trigu aregortu.

E po prus claridadi; s’arrespusta si depit fai articulu po articulu, de cantu si preguntat: prevenenduru

chi si sa relazioni non bengiessit cumplida, o veridica; s’at dispaciai unu Commissariu a gastus de is

Amministradoris Localis po suppliri su defettu.

No podendu serbiri de retardu sa coberanza de su fundu de su Monti, po essiri bastantis is

providenzias ch’at donau Su Visurrei in sa Litera sua de 10. de Dogniassantu in s’articulu chi

commenzat, In non poche, depinti is Amministradoris Localis arremitiri is Tabellas de is contus po

306 = cussus.307 L cungaus.308 = demanialis.309 L imbiai.

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totu sa dì 15. de Meseladamini senza prus dilazioni: baxu pena de si dispaciai Commissariu a gastus

de is Amministradoris localis.

In su casu chi calincunu de Bidda appat fattu donazioni, o limosina a su Monti; nosi deppinti

informai ancora de cussu cun distincioni, po ’nddi donai contu a Su Visurrei, chi certamenti ddat

alabai.

Nos ant’a informai ancora de totu su chi Su Visurrei cumandat in sa Litera sua sirculari de 11. de

Mayu 1768. in s’articulu chi cumanzat avvertendo.

Dependurusi pagai is liburus, e de prus cosas chi si funti ’mbiadas po is Amministradoris Localis;

no sendurinci fundu de dinai, ant’a bendiri tanti trigu cant’abbastada po fai sa suma de ... qui si es

fattu su contu chi po occannu deppit pagai cussu Monti: e custa partida, a tempus de imbiai is

contus; dd’ant a fai tenni is manus a su Secretariu, chi innoi si firmat: piguendu de custu s’arrecida.

Ottu dis depusindis de ai310 arreciu custa litera, bolleus ixiri si ddanti tenta, isplichendu si

intendint’is Amministradoris su chi cuntenidi, o calis funti is difficultadis, chi nc’agatanta po siddas

fai intendiri.

A su propriu tempus nosi deppint informai si tenint in s’arcivu su Regulamentu de 10. de

Meseladamini 1767. e is circularis de 11. Maiu, e 10. Donniassantu de s’annu 1768.: e si in poderi

de is Censoris funti is Instruzionis chi su Escellmu.311 Signor Conti Tana aiat mandau publicai.

Custa litera nosta s’at a cunservai paris cun is ataras de Su Visurrei e ataras nostas: avertenduru a is

Amministradoris Localis, chi s’in s’ocasioni de visita chi podeus cummandai de is arcivus, si

agatessit sa farta de calincunu312 de is ordinis nostus ò de totus; eus a providiri de is copias, a gastus

insoru: e po cußu ant’a teniri su depidu cuidadu e zelu chi funti obligadus de cussas iscritturas.

(Pubblicato sul numero 11 di NAE)

310 L deai.311 = Escellentissimu.312 L calicunu.

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Appendice VIII

Una parafrasi ottocentesca del Salmo cinquantesimo

Tra le carte della raccolta Laconi, conservata nella Biblioteca Universitaria di Cagliari, c’è una

copia della parafrasi in sardo campidanese del Salmo cinquantesimo, curata dalla Confraternita di

Santa Restituta. L’opera era stata pubblicata dalla stamperia civica di Carlo Timon nel 1823, come

dice il testo, in basso nella prima pagina: Caralis 1823 / In sa Stamp<eria> civica de CARLUS

TIMON / Cun permissioni. Il termine ‘parafrasi’ è inteso non solo e non tanto come esposizione del

testo latino, per mezzo di parole diverse, quanto come libera riflessione e meditazione dei varî passi

del salmo.

La parafrasi è in ottave: i 144 versi endecasillabi complessivi sono ripartiti in 18 strofe, ciascuna

delle quali ha lo schema metrico ABABABCC e prende il nome dall’inizio di un verso del salmo in

latino. Ogni ottava è preceduta dalla citazione del corrispondente inizio di versetto biblico in latino.

L’opera, stilisticamente ben curata e di discreto valore letterario, è un buon esempio di campidanese

illustre del primo Ottocento, e offre elementi utili per la storia della lingua. La grafia segue

decisamente il modello italiano, e di spagnolo resta un solo tratto, la lettera x che, in concorrenza

con sce/sci, indica la fricativa palatoalveolare sorda: a sciu e conosci’ ‘conoscere’ si

contrappongono conoxiu, in cui la -i- è inutile simbolo grafico in analogia con lo stesso trigramma

italiano sci-, ed exemplu (qui il grafema non pare avere valore etimologico); la x è usata anche per

la corrispondente consonante sonora, inesistente nel sistema fonologico italiano (rexoni,

cumplaxeis). Per l’affricata dentale sorda si usa solo z: zerriau, pozza ‘che io possa’. La vocale e in

iato può passare a i (di essiri, i heis a essiri). Le consonanti intervocaliche dalla pronunzia intensa

sono quasi sempre scritte doppie. Sono segnati gli accenti per indicare il timbro delle vocali e ed o.

L’infinito apocopato è segnato con l’apostrofo. Un’incertezza grafica si riscontra al verso 70: non

de ddu pighéis, con de che sta per relativo di luogo nde/ndi. Nelle forme del verbo ‘avere’ compare

h- etimologica, ed il pronome relativo è scritto su quali.

Numerosi sono i fatti interessanti di morfologia. I pronomi enclitici, uniti all’imperativo dei verbi,

prendono sempre l’accento (castiaimí, agatendumí); il pronome di II persona plurale si presenta

nelle diverse forme bosu (tonico), os(í) e si (atoni). Il congiuntivo imperfetto ha desinenza -essi

(fessi). Il gerundio esce in -endu (sighuendu, cantendu), in un caso allungato in -ru (essenduru). Il

participio passato solitamente esce in -au/-ada e –iu/-ia (incadenau, obbligau, beníu, dividíu), ma

quello di seconda coniugazione per motivi metrici può mantenere -d-: seu stetid’obbligau. Si nota

l’assenza del perfetto, sostituito nelle sue funzioni dal trapassato prossimo (idd’hestis revelau ‘lo

rivelaste’).

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Per quanto riguarda la sintassi, la congiunzione concessiva mancai richiede il verbo al modo

congiuntivo (mancai dignu non sia), il quale modo è usato nelle proposizioni finali (osí pregu, chi

innantis mi limpiéis) e temporali (innantis chi deu torri). Esempî di stile letterario sono il pronome

relativo su quali e il frequente uso della forma passiva. Un tipico costrutto implicito sardo si ritrova

al v. 60: su quali pregu a bosu a mi donai. Un evidente italianismo sintattico, a parte l’aggettivo –

anche possessivo – spesso preposto al nome, è la locuzione avverbiale de su tottu ‘del tutto’.

Sul piano lessicale, l’aggettivo femminile esenta è una forma antiquata del moderno esente, e

riprende il latino exemptus. Gli italianismi sono numerosi e lampanti: oltraggiai, impegnau,

rinforzau e altri; rimane però una significativa porzione di lessico d’origine iberica: alabau,

bondadi, Magestadi ecc.

La punteggiatura del testo sardo è lasciata quasi sempre invariata, a testimonianza delle abitudini

grafiche del tempo. La traduzione è fatta in endecasillabi, e rispetta, fin dove è possibile, lo schema

metrico dell’ignoto autore. Per rispetto della fonologia sarda, gli accenti acuti sulle i sono da noi

mutati in gravi, mentre gli accenti sulle vocali e ed o sono mutati allorché non rispettano la natura

chiusa o aperta del fonema espresso.

La sigla T nelle note a piè di pagina indica la suddetta edizione ottocentesca di Timon.

PARAFRASI

DE SU SALMU CINQUANTESIMU

DE SU

R. B. D. E. L. C.

PRESENTADA

DE SA GERMENDADI

DE S. RESTITUTA

IN IS ISTAZIONIS

DE CENABARA SANTA A MENGIANU

5.

Miserere mei Deus

Misericordia, e piedadi, o Signori,

Segundu s’infinita osta bondadi,

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De custu indignu, e vili peccadori,

Chi maliziosamenti offendiu os hadi;

Mancai dignu non sia de s’ostu amori

Castiaimí cun ogus de piedadi,

Is culpas mias si pregu, chi sburréis,

Gia’ chi a is peis bostus umiliau mi biéis. 8

Quoniam iniquitatem meam

Non serbit chi m’occulti su peccau,

Chi claramenti ananti mi ddu bíu,

Chi po m’essi’ cun issu incadenau

Mi seu de Bosu in tottu dividíu;

Est solu a Bosu a chini hapu aggraviau

Chi a custu stadu finas seu beníu

De appettigai cun grandu disonori

Is leis bostas sagradas, o Signori. 16

6.

Ut justificeris

Giustamenti cun megus seis airau

Ddu conoxiu, o Signori, e seu cumbintu;

E si fessi a Giudiziu imòi zerriau

De Bosu, cun rexoni hem’essi’ bintu,

Chi tanti a os’oltraggiai mi seu impegnau,

Cantu prus osí seis cun mei distintu;

Conoxiu, chi merexiu zertamenti

D’essiri castigau severamenti. 24

Ecce enim in iniquitatibus

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Est beru ddu cunfessu hapu peccau,

Os hap’offendiu maliziosamenti;

Ma si appenas chi in su mundu seu intrau

Senza conosci’ culpa po nienti

Po Babbu miu seu stetid’obbligau

A nasci’ cun s’infamia zertamenti,

E m’hat generau Mamma tali, e quali

Cun cussu peccau vili originali. 32

7.

Ecce enim veritatem dilexisti

Eppuru in d’unu tempus, o Signori

Amastis tanti custu coru miu

Cun d’unu veru e cordiali amori,

Chi dd’hestis de tesorus arricchiu,

Is occultus secretus po favori

Idd’hestis revelau po su chi sciu:

Imòi privu dd’incontru de su tottu

De grazias, e de Bosu non conottu. 40

Asperges me hyssopo

Chi m’aspergiais, Signori osi ddu pregu

Cun su misticu Isopu, e seu mundau,

E si Bosu bolèis, hap’essi’ luegu

Prus biancu de sa nií zertu torrau.

Custu spiritu debili os’intregu

Po essi’ de Bosu in tottu rinforzau;

E ancora custu flaccu corpus miu

Siat agili, gagliardu, e incoraggíu. 48

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8.

Averte faciem meam

Ma, Signori, po imòi non mi miréis,

Chi m’agattu de culpas aggraviau,

Osí pregu, chi innantis mi limpiéis

S’ingratu coru miu de su peccau,

Iscíu, chi prus de mei ddu conoscéis,

Cho os’hadi cun frequenzia abbandonau,

E si no est313 limpiu de s’iniquidadi

De ddu mirai nò est dignu cun piedadi. 56

Cor mundum crea in me Deus

Custu coru chi portu ingratu, e impuru

Mi ddu podeis, Signori, reformai

Cun d’un’aturu coru limpiu, e puru

Su quali pregu a Bosu a mi donai,

Po podi’ cun affettu prus seguru

Sa Magestadi Bosta venerai;

E su spiritu miu debilitau

Chi siat de Bosu ancora renovau. 64

9.

Ne proijcias me a facie tua

Gia’ chi mi seu, Signori a is peis postrau

Osí pregu, chi no mi’nci boghéis;

Beru est, chi gravementi hapu peccau.

313 T est’

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Ma repentíu de coru giai mi biéis,

E su Divinu Spiritu oltraggiau

De mei, Signori, non de ddu pighéis,

Chi agatendumí privu de sa grazia

Torru de bell’e314 nou arrui in disgrazia. 72

Redde mihi laetitiam

Cudda bell’allerghía, chi deu tenía,

Innantis de os offendiri, o Signori,

Osí pregu, chi mi siat restituía,

Po si serbiri imòi cun prus fervori,

E cunfirmai cust’anima mia

Cun d’unu spiritu veru de amori,

Po chi amend’osi deu sinzeramenti,

Osi pozza gosai seguramenti. 80

10.

Docebo iniquos vias tuas

E cun su bonu exemplu hap’a imparai

A is prus impius, perversus peccadoris,

Cuddus chi femu deu prevaricai

Cun is abbominabilis erroris,

Po podi’ prontamenti abbandonai

Di essiri de sa lei persecutoris,

Sighendu solamenti sa virtudi

Chi est su veru camminu de saludi. 88

Libera me de sanguinibus

314 T bell’è.

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Ma chi sia però innantis liberau

De sa predominanti mia passioni,

Chi est sa chi m’hat su coru incadenau,

E m’hat redusiu in custa situazioni,

I heis a essiri depustis alabau

De mei, Signori, cun venerazioni,

Cantendu cun cuntentu, ed allerghía,

Is glorias bostas cun sa lingua mia. 96

11.

Domine labia mea aperies

Ma innantis, chi deu torri a os alabai,

Aberei Bosu custa bucca mia

Po podi’ novamenti articulai

Is laudis bostas cun summ’allerghía

Po ddas podir’ancoras annunziai

A genti disconnotta, e presumía

Po essiri de issas puru venerau

Abbandonendu in tottu su peccau. 104

Quoniam si voluisses

Bosu, Segnori, sciu chi non boléis315

Atturus sacrifizius a osi fai,

Ma sciu chi prus prestu pretendéis

Anima, vida, e coru a osi intregai:

De is olocaustus non si cumplaxéis

Po chi nò abbastant a osí satisfai;

Boléis su sacrifiziu solamenti

De sa mia voluntadi prontamenti. 112

315 T sciu, chi non bolèis.

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12.

Sacrificium Deo spiritus contribulatus

Custu solu boléis, Signori miu,

Chi a Bosu tottu sia sacrificau

De s’amori miu propriu dividíu

Po essiri solu a Bosu uniformau;

Ma unu coru umiliau, e repentíu

De os hai cun culpas gravis oltraggiau

Creu, chi non dd’heis, Signori, a disprezziai

Gia’ chi promittit de mai prus peccai. 120

Benigne fac Domine

Po is peccaus mius, Signori, non lasséis

D’essi’ de Bosu Sion beneficada,

No abbarrit prus comenti dda tenéis

De su tottu de Bosu abbandonada;

Osí pregu, chi ancora edifichéis

Sa noa Gerusalemme disigiada,

E chi tengat sa Bosta protezioni

Po essiri esenta de persecuzioni. 128

13.

Tunc acceptabis sacrificium justitiae

E inzaras, o Signori, heis azzettai

Tott’is offertas mias benignamenti,

Tott’is operas bonas chi hat a fai

189

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Su Populu d’Israeli penitenti,

Po podiri de su tottu applacai

Cussa Giustizia Bosta Onnipotenti,

Chi essenduru aici tottus repentíus

Heus a essiri salvaus tott’uníus. 136

Gloria patri etc.

Su Babu eternu siat glorificau,

E su Verbu umanau Salvadori,

E siat ancora de nosu alabau

Su spiritu Divinu cun fervori;

Comenti in su prinzipiu esti istau,

Sempiri aici had’essi’ senz’errori,

Chi differenti essi’ non podiat

Po is seculus de is Seculus, aici316 siat. 144

Parafrasi del Salmo cinquantesimo del Beato Re Davide,

presentata dalla Confraternita di Santa Restituta

nelle stazioni mattutine del Venerdí santo

5.

Abbi pietà di me, o Dio

Misericordia e pietà317, o Signore,

per la vostra illimitata bontà,

per questo indegno e vile peccatore,

che maliziosamente offeso vi ha;

benché degno non sia del vostro amore,

316 T Aici.317 Sottinteso ‘io vi chiedo’.

190

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guardatemi con occhî di pietà:

le mie colpe vi prego che togliate,

ché ai vostri piedi umile mi mirate. 8

Poiché la mia iniquità

Non serve ch’io mi celi il peccato,

ché chiaramente innanzi me lo vedo:

per essermi con esso incatenato

mi sono da voi in tutto diviso;

siete soltanto voi che io ho offeso:

se a questo stato infine sono giunto,

di calpestar con grande disonore

le leggi vostre sacre, o Signore. 16

6.

Affinché tu appaia giusto

Giustamente con me siete adirato:

riconosco, Signore, e son convinto;

e se fossi a giudizio ora chiamato

da Voi, con ragione sarei vinto,

ché tanto ad oltraggiarvi ho lavorato,

quanto piú voi m’avete favorito.

So che merito indubitabilmente

d’esser castigato severamente. 24

Ecco: nella colpa

È vero, lo confesso, ho peccato,

vi ho ingiuriato maliziosamente;

ma essendo io nel mondo appena entrato,

191

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senza conoscere colpa per niente,

per mio padre sono stato obbligato

a nascer con infamia certamente,

e generommi mamma, tale e quale

con quel vile peccato originale. 32

7.

Ecco: sincerità tu vuoi

Eppure in altro tempo, o Signore,

tanto amavate questo cuore mio

con un sincero e cordïale amore,

che di tesori voi l’arricchiste,

e i nascosti segreti per favore

rivelaste secondo quel che so:

ora lo trovo privato del tutto

di grazie, e da voi non conosciuto. 40

Purificami con l’issopo

Che m’aspergiate, Signore, vi prego,

con il mistico issopo, e son mondato :

se volete, diverrò prestamente

piú bianco della neve certamente.

Questo spirito debole v’affido,

che sia da voi in tutto rinforzato,

ed anche questo mio corpo fiacco

agil, gagliardo sia e rianimato. 48

8.

192

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Distogli lo sguardo

Ma, Signore, adesso non mi guardate,

ché mi trovo di colpe oltraggiato:

vi prego che dapprima mi laviate

l’ingrato cuore mio dal peccato;

so che voi piú di me lo conoscete,

vi ha frequentemente abbandonato:

se non è immune dall’iniquità

non merita esser visto con pietà. 56

Un cuore puro crea in me, o Dio

Questo cuore che porto ingrato e impuro

mi potete, Signore, riformare

con altro cuore trasparente e puro,

il quale prego Voi di donarmi,

per poter, con affetto piú sicuro,

la Maestade Vostra venerare;

ed il mio spirito debilitato

sia da Voi ancora rinnovato. 64

9.

Non respingermi dalla tua presenza

Giacché mi sono ai vostri pie’ prostrato,

prego, Signore, non mi allontanate;

vero è che gravemente ho peccato.

Ma pentito di cuor già mi vedete,

ed il divino spirito oltraggiato

da me318, Signore, non me lo negate,

318 Funge da complemento d’agente e si lega all’oltraggiau del v. 69.

193

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ché, trovandomi privo della grazia,

non torni io a cadere in disgrazia. 72

Rendimi la gioia

Quella bella allegria che ho fruita

prima che v’offendeste, o Signore,

vi prego che mi sia restituita

per servirvi ora con piú fervore,

e confermare quest’anima mia

con uno spirito vero d’amore,

perché amandovi io sinceramente

possa godere voi sicuramente. 80

10.

Insegnerò agli iniqui le tue vie

E con il buon esempio ho da insegnare319

ai piú empî, perversi peccatori,

quali ero io nel prevaricare

coi miei abominevoli errori,

per poter prontamente abbandonare

l’esser di legge essi320 i persecutori,

e seguan solamente la virtute

la quale è vera via di salute. 88

Liberami dal sangue

Che io sia però prima liberato

dalla predominante mia passione,

quella che ha il mio cuore incatenato

319 Il verbo è usato in senso assoluto.320 Funge da soggetto dell’infinitiva.

194

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e m’ha ridotto in questa situazione:

allor sarete di nuovo adorato

da me, Signore, con venerazione,

e canterò con gioia ed allegria

le vostre glorie con la lingua mia. 96

11.

Aprirai le mie labbra, o Signore

Ma prima ch’io torni ad adorarvi,

aprite voi questa bocca mia,

perch’io possa novamente dirvi

le vostre lodi con somma allegria,

e per poter ancora annunzïarle

a gente sconosciuta e presuntuosa,

e siate anche da essa venerato,

con l’abbandono intero del peccato. 104

Poiché non gradisci

Voi, o Signore, so che non volete

altri sacrifizî per voi compiuti,

ma so che voi piuttosto pretendete

anima, vita e cuore a voi affidati:

degli olocausti non vi compiacete,

poiché non bastano a soddisfarvi;

volete il sacrifizio solamente

della mia volontade rapidamente. 112

12.

195

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Il sacrificio a Dio è uno spirito contrito

Questo solo volete, Signor mio,

che a voi tutto sia sacrificato,

dall’amor mio proprio separato

per esser solo a voi uniformato;

però un cuore pentito ed umiliato

d’avervi con gravi colpe oltraggiato,

credo, Signor, non sarà disprezzato,

giacché promette non far piú peccato. 120

Nella tua benevolenza sii propizio, o Signore

Per i peccati miei non lasciate,

Signor, che sia Siòn beneficata

e piú non resti come la tenete,

da voi completamente abbandonata;

vi prego che inoltre edifichiate

la nuova Gerusalemme bramata,

che fruisca la vostra protezione,

essendo esente da persecuzione. 128

13.

Allora gradirai i sacrifici legittimi

E allora, o Signore, accetterete

tutte le offerte mie benignamente,

tutte le opere buone che farà

il popol d’Israele penitente,

affinché possa tutta esser placata

codesta Giustizïa Onnipotente,

perché, essendo cosí tutti pentiti,

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siamo salvati noi tutti uniti. 136

Gloria al padre ecc.

Il Padre eterno sia glorificato

e il Verbo umanato Salvatore,

e sia da noi anche venerato

lo spirito divino con fervore;

come nel suo principio già è stato,

cosí sempre sarà senza errore,

poiché diverso non sarebbe stato

nei secoli dei secoli, e sia. 144

(Pubblicato sul numero 20 di NAE)

197

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Appendice IX

Fastiju e S’Arruga dereta

Nei Mutettus cagliaritani raccolti da Raffa Garzia (Cagliari, EDES, 1977, ristampa dell’edizione

del 1917), compaiono, accompagnati dalla traduzione in italiano, due testi raccolti da Luigi

Pompejano, trascritti con la stessa grafia fonetica dei mottetti, difficilmente leggibile per gli

inesperti. Sono scenette di vita quotidiana nella Cagliari degli ultimi anni dell’Ottocento: le

propongo con la grafia già indicata nell’introduzione, e vòlgo in campidanese anche le didascalie,

oltre ad adattare l’interpunzione al testo. Si può rilevare, tra l’altro, che anche nella lingua corrente

il periodo ipotetico della possibilità è espresso con il congiuntivo imperfetto nella protasi ed il

condizionale presente nell’apodosi: Si Arritixedha pighessit su fillu’e gopai Jusèpi iat a bivi mellus

de una sinniora; ciò smentisce chi afferma che nel parlato si usi soltanto l’indicativo nelle due

proposizioni.

Fastiju

Aposentu a su primu susu, in dòmu’e panetera. Unu guardarobba. Dòxi cadiras. Una mesa. Una

màchina’e cosiri. Unu Santu Jusèpi’e cera ind un’arrencòni, cund una lampadina. In sa genna unu

corru contra s’oguliau.

Tziu: ¿Ita ses fèndi, pibiruda? Ti dh’apu nau jai duas bortas de ti nd’intrai de sa fentana.

Arrita: ¿Ma scit chi est curiosu? Dèu no sèu beça po aturai fichia aintru’e s’aposentu.

Tziu: ¡Comènti’e chi no nci siat faina’e fai in dòmu!

Arrita: ¿E ita faina dèpu fai? Ja mi sèu scuartarada bastantemènti denantarisèru cun sa lissia.

Tziu: ¡Fai sa mija!

Mama: Lassadha, Arrafièli. Po imòi chi est bagadia no fait nudha su s’afaçai.

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Tziu (murrungèndi): Bagadia ... bagadia ... in is tèmpus mius is bagadias no aturànt totu sa di

comènti’e is cruculèus.

Mama: ¡Bah! A su tempus nostu is óminis beniant a si pregai fintzas a pèis; imòi, po ndi coberai

unu, nci ’olint bint’annus de fentana.

Sòrri prus manna’e Arrita: A is bortas ancora trinta (suspirat).

Tziu: ¿E chi no dh’apu biu – ¿no? – cussa faci’e macu chi est fèndi s’ogu trotu a Arritixedha?

Arrita: ¡Faulançu tziu! ¡Faulançu tziu! Dèu no càstiu a nisçunus.

Tziu (primau): ¿Aici naras faulançu a tziu tuu? (est po si pesai).

Mama (ponendisí in mesu): ¡Lassadha! Ja scis chi si s’inchietat dhi pigant is convurtziònis. Pòdit

èssi chi tui apas bistu mali.

Tziu: ¡Tzurpa ses tui! Portat castorru, portat.

Mama (spantada): ¿Castorru? ¿Castorru? (Ai Arrita) ¿Aici ses fastigèndi cun gènti a castorru?

Arrita (princhièndi): ¡No est berus! ¡No est berus! ¡Faulançu, faulançu!

Tziu: ¿Faulançu a tziu tuu? (ghetat unu spumadòri chi fèrrit una tassa e dh’arrogat).

Mama: ¡E ita! ¡Sa tassa bona!

Sòrri: ¡Sa tassa de is visitas!

Tziu: E si no bastat cussu ... pigu sa tzirónnia puru.

Arrita: ¡No nç’aturu prus, no nç’aturu prus in custa dòmu!

Tziu: ¡Faidí monja’e su spidali!

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Mama: Citidí, Arrita, tziu tuu tènit arrexòni: nòsu no seus genti’e castorru.

Arrita: No sciu poita.

Sòrri: No sciu poita.

Arrita: ¿Aici gomai Bonariedha no s’est coyada cund unu sinniòri?

Sòrri: E sentza’e doda.

Arrita: E sentza’e doda.

Tziu: Bosatras ja dha teneis sa doda (fait cun su didu mannu unu sinnu craru).

Mama (si pònit in mesu): Po cussu e tanti, is pipias tènint arrexòni. A fillas mias no dhas ant a pigai

spullincas. (Obèrrit su guardarobba) Castia: ses camisas, ses mudandas, dòxi mijas, fardetedhas po

dòmu e po bissiri ...

Tziu: E totu custas chistiònis po cussa faci’e macu chi passat in s’arruga.

Arrita: No est faci’e macu, est impiegau.

Mama (spantada): ¿Impiegau? ¿Impiegau?

Sòrri: Impiegau de su guvernu.

Mama (maravilliada): ¿Impiegau de su guvernu? ¡E intzandus castiadhu, castiadhu, filla mia!

Arrita: Pigat prus de ses francus a sa di.

Mama: ¡Ahi, Santu Jusèpi bellu! Si filla mia tènit cussa sòrti t’ap’a tènni sa mariposa sèmpri alluta.

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Tziu: ¡Fillas macas e mama maca! Si Arritixedha pighessit su fillu’e gopai Jusèpi iat a bivi mellus

de una sinniora.

Arrita: Dèu fusteri no ndi ’òllu.

Tziu: ¿E ita, babbu tuu fiat deputau? ¿No fiat piscadòri, no?

Mama (strèxit una làgrima): ¡A sçàbbiga! ¡Si biviat issu! (suspirat).

Tziu (ascurtèndi unu sulitu chi bènit de s’ arruga): ¿It’est custu sulitu?

Sòrri pitica: Cussu sinniòri candu passat fait sèmpri su sulitu.

Tziu: ¡Tui puru dhu connòscis! ¡Tui puru dhu connòscis!

Sorrixedha: Si, e m’at chistionau puru.

Totus: ¿E it’at nau? ¿E it’at nau?

Sorrixedha: M’at nau: “È in casa la tua padroncina?”

Tziu: Dh’at pigada po sa serbidora.

Mama (umilliada): Dh’at pigada po sa serbidora.

Tziu: ¿E atru t’at nau?

Sorrixedha: M’at donau unu sodhu e m’apu pigau cíxiri.

Mama: ¿E tui ... ita dh’as nau?

Sòrri: ¿E tui ... ita dh’as nau?

Sorrixedha: Chi Arritixedha fiat sçacuèndi in terra.

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Arrita: Ah, faci’e sola (dha sighit arrennegada).

Mama: La’, Arrita, po imòi castiadhu sceti de sa birdiera.

(Arrita intèndit torra su sulitu, bandat a sa fentana e s’afaçat fichèndi sa conca aundi mancat

un’imbirdi)

Mama (a su tziu): Arrafièli, lassadha: po castiai e fuedhai de sa fentana no nc’est mali.

Arrita (torrèndi atropelliada): ¿Mama, comènti fatzu a dh’arrespundi, chi m’est chistionèndi in

intalianu?

Mama: ¿E no dhu connòscis s’intalianu?

Arrita: Ap’a sballiai ...

Mama: No fait nudha. Narasidhu chi no t’intèndis de intalianu, ma chi scis fai bèni su fatu’e dòmu.

Arrita (s’est incarada torra, e fuedhat faci a s’arruga): Sissignore ...

Tziu: Mariuça, portamí su butilliòni e una tassa.

(Sa sòrri sètzit a sa màchina’e cosiri, sa mama sètzit a palas’e Arrita e ascurtat).

Arrita (sèmpiri fuedhèndi faci a s’arruga): Sissignore...

Mama: No scis nai atru che “sissignore”.

Arrita (comènti’e suba): Sissignore...

Mama: Si mi pòngu dèu chistiònu mellus de tui.

Tziu (bufèndi de sighida): Domandadhi cantu pigat a sa di.

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Mama (fuedhèndi a pagu): Naradhi chi tui no pòdis aturai a sa fentana ... chi si <ti> ’olit ti

domandit ...

Arrita: Sissignore ...

Mama: ¡Maladitu’e “sissignore”!

Arrita (intrèndi): Si nd’est andau.

Mama: ¿E it’at nau?

Arrita: Arrivederci a cras.

Mama (prexada meda): ¡Bèni! Po su printzípiu no nc’est mali ... bastat chi acuitit. Dh’apu castiau

de aiségus, mi parit chi est unu sinniòri bonu. (Andèndi faci a sa stàtua) Santu Jusèpi bellu, cras

t’alluu sa mariposa.

Sòrri (ai Arrita): Cussu est pertzona chi si ti pigat ti portat a bivi in sa Costa.

Tziu (chi at bufau bèni): E ti pigat cincu bistiris de seda.

Sòrri: Si arrennèscit custu, bendeus is domixedhas de Cartuçu.

Tziu (scallentau): E bandu dèu puru a sa Costa.

Sòrri: E besseus a capedhu.

Sorrixedha: Papaus bèni ...

Tziu: Tàculas dúnnia di ...

Sorrixedha: E pabassinas ...

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Tziu: E maçòni fiurratzu ...

Sòrri: E pudhas ...

Una bòxi de s’arruga: Biancu’e cóçulaaaaa ... Biancu’e cóçulaaaaa ...

Mama (pesendisí, a sa pitica): Tzérria cussu’e sa cóçula.

(Pubblicato su La vita cagliaritana, anno I, n. 33, 1900)

*****

S’arruga dereta

S’Arruga dereta (Arruga’e Santa Margarita). Butegas de binu e domixedhas a s’una e a s’àtera ala.

Imperdau sderrutu in mesu, cund un’arriixedhu murenu fraghèndi. Pannus’e assoliai de totu is

formas e totu is colòris. Gomais, piçochèdhus e canis. Funt is nòi a menjanu.

Nuntziata (a sa genna): ¿Gomai Teresa, it’est custu fragu?

Teresa (in su liminarju probianu): ¿E no dhas eis bistas cussas duas chi funt passadas?

Nuntziata: ¡Ita cosa scandalosa! ¿E ita fragu est ?

Tzia Bàrbara (de una fentanedha a su basçu): Mi parit chi dhi nant “múschiu”.

Nuntziata: Candu bivèmu in s’Arruga’e Gesus, de cust’arratza’e gènti no ndi bièmu mai (fait sa

gruxi).

Bàrbara: Gràtzias a Deus nòsu seus pòberas ma onoradas.

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Nuntziata: ¿E nòsu?

Teresa: ¿E nòsu?

Gopai Fidèli: ¿Cosa bona teneis a prandi, gomai Nuntziata?

Nuntziata: Ghisau e unu pagu de tríllias.

Fidèli: ¡Maridu bostu ja si tratat bèni!

Fillu piticu’e Nuntziata: ¡Mama, mama, Arrimundicu est ghetèndi totu su fasolu’e prandi!

(Nuntziata currit aintru).

Fidèli: ¿Fasolu? Nat chi teniat ghisau.

Teresa (arrièndi): ¡Ghisau de fasolu!

Bàrbara: Custa gomai Nuntziata no mi parit arrobba bona.

Teresa: Mancu a mèi. Mi parit tropu braghera.

Nuntziata (torrèndi): ¡Candu bivèmu in s’arruga’e Gesus ... cussa ja fiat dòmu! Nci tenèmu tres

aposèntus e sa sala.

Maridu’e Teresa (di aintru): ¡Teresa! ¡Teresa! ¿Mi dhas acabbas is chistiònis? ¿Aund’as postu

s’ampudha? (Teresa bandat).

Nuntziata: ¡It’arratza’e maridu!

Bàrbara: Maridu e mullèri ... unu peus de s’atra.

Nuntziata: ¿Issa puru?

Bàrbara: S’at comporau unu mucadòri’e seda de duus francus.

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Nuntziata: E fortzis no at a tènni pani po papai.

Fidèli: ¡No seis sentza’e lingua, no!

Bàrbara: Custu no est fuedhai mali: est nai sa beridadi. ¿E no est beru chi issu bufat meda? ¿E

s’atra di no dh’at arropada? Maridu miu, chi tènit cincuant’annus, cand’est cun mèi parit unu

pipiedhu: imòi sèu beça, e issu est sèmpri basendimí, sèmpri basendimí. Allodhu, allodhu, chi m’est

tzerrièndi. Bèngu, bèngu (bandat aintru).

Teresa (torrèndi a cumparri in su liminarju): ¿E tzia Bàrbara, aund’est andada?

Nuntziata: ¿Nerimí, gomai Teresa, it’arrobba est custa tzia Barbaredha? ¿De ita bivit?

Teresa: In dòmu sua no nci sèu stétia mai; issa bivit a is palas de is fillas.

Nuntziata: ¿Cussas chi funt in fràbbica?

Teresa: ¡Bellas chichias!

Nuntziata: Totu prenas de ...

Teresa: Fastijant cun totus (s’intèndit arremóriu’e surra di aintru’e dòmu’e tzia Bàrbara).

Nuntziata: ¿E it’est? (s’apróbiat a sa genna).

Fidèli (càstiat de sa genna oberricunja): Su maridu dh’at donau una pariga’e bucicònis.

Nuntziata: ¿A tzia Barbaredha?

Teresa: ¡Aici dh’at scallentada!

Bàrbara (torrat a cumparri): ¡Ita macu cuss’Arrafièli! Est coment’unu pipíu: sèmpri basendimí,

sèmpri basendimí.

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Teresa: Castiai chi seis totu scrabionada.

Bàrbara: Poita dèu no dh’’olèmu basai, issu m’at pigau a is pilus. ¡Ita macu!

Unu póburu: ¡Una santa limósina po s’amòri’e Déus! ¡Su póburu tzurpu!

Nuntziata: ¡Piga! (donat una muneda).

Póburu: ¡Unu sodhu malu! ¡Siat po s’amòri’e Deus!

Nuntziata: ¡Aici no ses tzurpu!

Teresa: ¡Açotau!

Una bòxi: ¡Lati po callai! ¡Lati po callai!

Póburu: ¡Una santa limósina po s’amòri’e Deus!

Totus: A perdonai.

Marras: ¡Tres arrialis! ¡Tres arrialis! ¡Cinque centesimi, signori ... sa cantzòni de sa bagadia chi

s’est fuia cun s’istudianti!

Totus (comporant): ¡A innòi, a innòi! ¡Porta!

Póburu: ¡Una santa limósina po s’amòri’e Deus!

Duus piscadòris bituleris: ¡A scarada! ¡A scarada s’anguidha! ¡A scarada !

Gomai Arrita (scovèndi denanti’e genna sua): Est pudésça cuss’anguidha.

Piscadòris: Pudésça ses tui.

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Nuntziata: ¡Nerit, gomai Arrita, càstît de no nd’arrembulai totu s’àliga a innòi!

Arrita: Dèu fatzu su chi ’òllu.

Nuntziata: Su chi ’òlis dhu fais in dòmu tua.

Arrita: ¡E baidindi!

Nuntziata: ¡Baidindi tui! ¡S’aliga tenididh’in dòmu! ¡Ahi, Gesugristu miu, cantu sèu pentia de mi

nd’èssi bissia de s’Arruga’e Gesus!

Arrita: ¡E citidí, chi dh’as lassau prus de tres mèsis a pagai a su mèri’e sa dòmu!

Nuntziata: ¿Dèu?

Arrita: Tui (totu is féminas s’apillant).

Nuntziata: ¡Ahi, Gesugristu miu, ita fàula!

Arrita: ¡Faulança ses tui! ¿E ita no ti connòsçu, no?

Nuntziata: ¿Tui connòscis a mèi? ¿Tui connòscis a mèi?

Arrita: ¡A tui, a tui! Babbu tuu fiat sabbateri ind unu portòni, tzia tua bèndit pàrdulas, mama tua

fait cumandus, fradi tuu est bagamundu.

Nuntziata: ¡E la’ chi dh’’òlit, la’!

Arrita: ¡Dèu fragus malus no ndi tèngu!

Nuntziata: ¡Atura! ¡Atura! (intrat e torrat cun sa scova).

Arrita: ¿A chini? ¿A mèi? (si batint cun is iscovas e fèrrint a unu piçocu passèndi cund una

màriga’e àcua. Sa màriga s’arrogat).

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Piçocu: ¡Ahi, sa marighedha mia! ¡Ahi, sa marighedha mia!

Una fémina: ¡Agitóriu! ¡Agitóriu!

Una bòxi: ¡Sa guàrdia! ¡Sa guàrdia!

Sa guàrdia (cun su libburedhu): Chi ha rotto sa màriga?

Arrita: ¡’Scurtit a mèi!

Nuntziata: ¡Lessit chistionai a mèi!

Bàrbara: Bengat a innòi.

Teresa: Si dhu nau dèu.

Sa guardia: Silenzio! Rispettate la legge! Chi ha rotto custa marighedha?

Totus: Dèu no dhu sciu. Dèu no apu bistu nudha.

Sa guardia (scrièndi): ¿Ita ti nant a tui?

Nuntziata: Nunziata Puddu.

Sa guardia: ¿E a tui?

Arrita: Rita Pibiri.

Sa guardia: Va bene; a suo tempo sarete chiamate! (si ndi andat magestosamènti).

Duus columbus (s’apróbiant s’unu a Nuntziata, s’atru a Arrita, a bòxi basça): ¡Si tènis abbisonju

de abogau in pretura, nci sèu dèu!

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(Pubblicato su La vita cagliaritana, anno I, n. 35, 1900)

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Appendice X

Il perfetto nella storia della lingua sarda campidanese

Nel sardo medievale il perfetto, derivato dall’omonimo tempo del sistema verbale latino, era

regolarmente adoperato, e mostrava forme molto vicine a quelle latine: -avi, -asti, -avit, -avimus,

-astis, -arun per la coniugazione in -are; -ivi, -isti, -ivit, -ivimus, [-istis], -irun per la coniugazione in

-ere e -ire. In testi piú recenti si trovano anche le forme -ai (contratto in -â) e -ait (-ât) per la prima

coniugazione, -ii (-î) e -iit per la seconda coniugazione321.

Il perfetto si conservò anche nei due rami in cui si suddivise la lingua medievale, ovverosia il

logudorese, piú vicino al sardo antico, ed il campidanese.

In campidanese esso fu usato nel Seicento e nel Settecento, e si estinse nella seconda metà del

XVIII secolo stesso: tra gli scrittori dell’Ottocento, infatti, nessuno piú lo adoperò. I documenti

letterarî in cui è attestato il perfetto, che, come il cosiddetto passato remoto italiano, esprimeva

aspetto perfettivo, cioè azione compiuta nel passato senza conseguenze sul presente322, sono: il

Libro de Comedias (1688) di frate Antonio María da Esterzili (1644/1645-1727); il brevissimo

catechismo Sa dotrina Christiana a sa lingua sardisca (1695) di autore ignoto; il Novenariu cun

platicas a su amantissimu coru de Jesus (composto tra il 1726 ed il 1762) di padre Juan María

Contu (morto appunto nel 1762); il Catezismu tradotto in campidanese nel 1777, su ordine di don

Francesco Maria Corongiu, dal catechismo di Michele Casati; il poema didascalico De su tesoru de

sa Sardigna (1779) di don Antonio Purqueddu (1743-1810).

Il perfetto presenta due tipi di paradigma, testimoniati il primo nel Seicento, il secondo nel

Settecento. Il tipo piú antico distingue una coniugazione in -ari e una in '-iri/-íri. La IV persona

però – si noti bene – è tratta dall’opera settecentesca di Contu, poiché in AM compare il solo

stetisistus.

Primo tipo: desinenze delle due coniugazioni

-ari ˈ-iri e -íri

I -ei -esi -isi

II -esti -isisti, -isti

III -ét -esit -isit

321 Vedasi M.L. Wagner, La lingua sarda. Storia, spirito e forma, Tübingen e Basel, Francke Verlag, 1951, terzaedizione 1993, pag. 335 e seguenti. La forma [-istis] non è citata nella suddetta opera del linguista tedesco.322 Il cosiddetto passato prossimo serve invece per esprimere un’azione d’aspetto risultativo, ovverosia compiuta nelpassato ma con conseguenze sul presente.

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IV -estus -isistus, -istus

V -estis -isistis, -istis

VI -ént -esint -isint

La coniugazione in -ari, come si può notare, a sua volta possiede due modelli: sigmatico e

asigmatico. Ciò riguarda invero la I, III e VI persona, giacché nelle altre persone -s- è comunque

presente per ragioni etimologiche (lat. -isti alla II, -istis alla V) e si ha dunque una sola possibile

terminazione; la IV persona è formata a partire dalla V, incrociata con l’originaria desinenza lat.

-imus. La vocale epitetica di III e VI persona, come si deduce dalle grafie usate dagli autori, è

sempre -i: /ˈeði/, /ˈeɲti/. La -e- della desinenza è dovuta probabilmente all’influsso di verbi quali

dari < lat. dare, che presentava raddoppiamento e variazione di timbro vocalico nel perf. dedi; altri

hanno pensato ad un’evoluzione -ai > -ei dal sardo medievale. Per quanto riguarda il timbro di tale

vocale alla IV e V persona, bisogna pensare che essa sia chiusa, come la metafonesi richiede, e non

aperta; la vocale è invece aperta nell’imperfetto indicativo perché in quest’ultimo tempo la -e- era

già aperta di natura e divenne tonica, ad esempio in perdebamus > *perdeàmus > perdèmus

‘perdevamo’, a causa della sincope dovuta all’analogia coi verbi in -āri, in cui il quadrisillabo

originario è contratto in trisillabo dopo il dileguamento e la caduta dell’occlusiva sonora

intervocalica: cantabamus > cantàmus ‘cantavamo’.

La coniugazione in ˈ-iri e -íri ha sempre perfetto sigmatico. Le forme di II, V e VI persona

presentano una variante sincopata.

Ecco dunque, a mo’ d’esempio, i paradigmi dei verbi andari e arrúiri:

-ari ˈ-iri e -íri

I andei andesi arruisi

II andesti arruisisti, arruisti

III andét andesit arruisit

IV andestus arruisistus, arruistus

V andestis arruisistis, arruistis

VI andént andesint arruisint

I verbi che presentano particolarità rilevanti, attestati soprattutto in frate Antonio María da Esterzili,

sono i seguenti:

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àiri ‘avere’, che è usato sia come transitivo, sia come ausiliare, e per tale ragione presenta due

coniugazioni distinte: apisi, apisti, apisit, apistus, apistis, apisint (le persone II, IV e V sono sempre

sincopate) con valore transitivo; I ai, II esti, III ait o et-i, VI ent-i con valore di ausiliare (non sono

attestate le persone IV e V);

dari ‘dare’, che presenta una coniugazione derivata dal lat. dedi: dei, desti, det, destus, destis, dent;

accanto ad essa compare anche, alla prima persona, il tipo gei, dovuto a palatalizzazione;

narri ‘dire’, che ha due coniugazioni: una ha -r- scempia narei, naresti, narét, narestus, narestis,

narént; l’altra presenta sincope: nei, nesti, net ecc.;

(i)stari ‘stare’ (è frequente i- prostetica) ha come paradigma principale stetisi, stetisisti, stetisit,

stetisistus, stetisistis, stetisint, senza nessuna forma sincopata; paradigma secondario, di uguale

significato ed uso, mostra (i)stei, (i)stesti ecc. Il verbo (i)stari supplisce alla mancanza del perfetto

di èssiri (il perfetto fui, fuisti, fuit ecc. ha assunto valore d’imperfetto dopo la scomparsa di eram in

sardo), ed è usato sia nel predicato nominale, sia come ausiliare nella forma passiva dei verbi;

biri ‘vedere’ ha il perf. bissisi, che sembra modellato in analogia col verbo essiri ‘uscire’ ed è usato

soltanto nel Libro de comedias;

beniri ‘venire’ ha bengisi, bengisisti ecc.; mòrriri ‘morire’ ha morgisi ecc.; tènniri ‘tenere, avere’

ha tengisi: tutti questi perfetti sono costruiti sulla base della I persona dell’indicativo presente,

rispettivamente bènju, mòrju, tènju;

fàiri ‘fare’ ha fatzisi, e analogamente pòdiri ‘potere’ ha potzisi: anche in questo caso il perfetto è

costruito sulla base del presente.

Nelle sue sacre rappresentazioni, frate Antonio María da Esterzili per la coniugazione in -ari usa

una sola volta il modello in -esi e per il resto sceglie sempre il perfetto asigmatico, mentre per ˈ-iri e

-íri adopera tanto le forme lunghe quanto quelle sincopate, con leggera preferenza per le lunghe.

In Sa doctrina Christiana si trova un passo che presenta una serie di perfetti: arcedi ... nascesidi ...

caledi ... boguedi ... resuscitedi; in esso sono presenti anche le voci recipidi e ascendidi, usate

verosimilmente con valore di prefetto ma morfologicamente forme di presente. Si nota dunque che

per -ari è ancora preferito il perfetto asigmatico, mentre il modello in -esi si è esteso alla

coniugazione in ˈ-iri e -íri: ciò indica una tendenza che nel Settecento si sarebbe manifestata

compiutamente.

Secondo tipo: desinenze della coniugazione comune

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I -esi

II -esti

III -esit

IV -estus

V -estis

VI -esint

Questo modello fu usato nel XVIII secolo fino alla scomparsa del perfetto stesso. Contu e

Purqueddu usano soltanto il perfetto in -esi, e si hanno dunque desi da dari (ancora impiegato, ma

già donari aveva assunto il significato di ‘dare’), fatzesi, naresi, biesi da biri ‘vedere’, bolesi da

bòlliri ‘volere’. Il perfetto ponghesi è usato dal solo Purqueddu.

È da rilevare che le parlate logudoresi settentrionali, le uniche in Sardegna nelle quali ancora è vivo

il perfetto, si servono della medesima terminazione in -esi, alla quale sporadicamente fa

concorrenza il tipo in -ei di uguale significato323: poiché tale -e- oggi suona chiusa, v’è una ragione

in piú per ritenere chiusa anche la -e- del perfetto campidanese.

Sulla base delle opere letterarie, si può quindi ricapitolare la storia del perfetto nella lingua sarda

campidanese: dapprima esso mostrò due coniugazioni distinte in -ari e '-iri/-íri, parimenti agli altri

tempi semplici del modo indicativo; in seguito si giunse all’uniformazione in un unico modello di

coniugazione; poi il perfetto uscí dall’uso e infine scomparve.

(Pubblicato sul numero 22 di NAE)

323 Wagner, opera citata, pag. 337.

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Appendice XI

L’uso dei modi indefiniti in sardo campidanese

Il gerundio nella lingua della Sardegna meridionale presenta omologazione in -ènd- (sempre con e

aperta) fra le tre coniugazioni, ma duplice uscita in -u e -i: cantèndi/cantèndu, perdèndi/perdèndu,

dromèndi/dromèndu. Sono attestate anche forme ampliate in -èndiri/-ènduru324.

In sardo campidanese moderno il gerundio si usa in tre situazioni, le prime due delle quali sono piú

diffuse della terza.

1) per esprimere, in composizione con l’ausiliare ‘essere’, il presente e il passato progressivi

all’indicativo. Esempî: sèu nadèndi, fèmu currèndi, fèstis tzerrièndi. Si noti che l’ausiliare genuino

è èssi, non stai, il quale ultimo fu adoperato in passato per influsso iberico, e si è ripresentato nel

Novecento, in espressioni come su pipiu stat prangèndi (soprattutto alla III persona singolare): tali

costrutti oggi vanno visti come italianismi. Meno diffuso è il corrispondente impiego al

congiuntivo: sia cantèndi, siast cantèndi (presente); fessi cantèndi, fessis cantèndi (passato).

2) con il valore di participio congiunto, per indicare azione d’aspetto durativo o progressivo325, già

evidente nel semplice sintagma àcua budhèndi “acqua bollente”. In questo caso il gerundio è

sempre collocato dopo l’elemento cui si riferisce, il quale è espresso e mai sottinteso; quale sia

l’elemento della proposizione reggente cui il gerundio si leghi, dipende dal costrutto richiesto dal

verbo della reggente stessa.

Se il verbo della reggente è transitivo, il gerundio si congiunge di preferenza con l’oggetto diretto,

ma talvolta anche l’oggetto indiretto (complemento di termine), e varî altri complementi:

5. t’apu biu passèndi acanta’e su palàtziu miu “ti ho visto passare (mentre passavi) vicino al

mio palazzo”; su messayu at cassau a Stèvini furèndi melòni “il contadino ha visto Stefano

che rubava meloni”. Qui il gerundio è legato all’oggetto. Si noti che nella prima frase il

gerundio non è posto subito dopo l’oggetto soltanto perché ti è pronome atono: poiché la

frase è transitiva, il gerundio non si lega di sicuro col soggetto; quando è adoperato lo stesso

pronome personale in forma tonica, si ha apu biu a tui passèndi acanta’è su palàtziu miu

“ho visto te passare ...”;

324 Nel Libro de comedias (1688), frate Antonio María da Esterzili usò saltuariamente anche la terminazione in -andu.325 Per ‘durativo’ e ‘progressivo’ indico quei due diversi valori aspettuali imperfettivi dell’azione, in base ai qualil’italiano faccio e l’inglese I do si contrappongono alle forme composte sto facendo e I am doing.

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6. ant ghetau perdas a sa guàrdia artzièndi is iscalas “hanno tirato pietre al vigile mentre

saliva le scale”; sa monja at donau limósina a una fémina caminèndi scurtza “la monaca

fece l’elemosina a una donna che camminava scalza”. In queste frasi il gerundio concorda

con l’oggetto indiretto. Si può avere anche la dislocazione dell’oggetto indiretto a sinistra,

perciò la frase diviene a una fémina caminèndi scurtza sa monja dh’at donau limósina.

7. apu fatu totu su biaxi cun filla mia cantèndi de sighiu “ho fatto tutto il viaggio con mia figlia

che cantava ininterrottamente”. Qui il gerundio è legato al complemento di compagnia.

Se il verbo della reggente è intransitivo, il gerundio si congiunge di norma col soggetto, ma anche

con altri elementi della frase, dopo i quali è immediatamente collocato:

aintru’e sa crésia dhoi fiant duas sennoras beças arresèndi “dentro la chiesa c’erano due

signore anziane che recitavano il rosario”; mi praxit cudhu callelledhu scoitèndi “mi piace

quel cagnolino che sta scodinzolando”; a s’umbra’e cudha mata funt sétzius piçòcus

joghèndi a cartas “all’ombra di quell’albero sono seduti ragazzi che giocano a carte”. Qui il

gerundio è legato al soggetto. Si può avere anche l’omissione del verbo ‘essere’: bosatrus a

su mari spassiendisí, dèu bocendimí a berrinai “voi al mare a divertirvi, io invece ad

ammazzarmi lavorando col trapano”;

funt lómpius a su spidali cun su malàidu chescendisí po totu s’arruga “sono giunti

all’ospedale col malato che si lamentava per tutta la strada”. Qui il gerundio è legato al

sostantivo di un sintagma preposizionale, con tipica funzione di complemento indiretto;

chistionamu a una piçoca ascurtèndi música “parlavo a una ragazza che stava ascoltando

musica”. Qui si ha il gerundio legato all’oggetto indiretto.

Nelle ultime due frasi proposte sarebbe errato legare il gerundio al soggetto vista la sua

collocazione, ma poiché, essendo il verbo principale intransitivo e potendosi dunque legare un

gerundio al soggetto, un margine d’ambiguità sussiste, e questo costrutto inoltre si avvicina a quelli

citati nel successivo tipo 3), è possibile udire la proposizione subordinata per mezzo del relativo:

apu chistionau a una piçoca chi fiat ascurtèndi música. Se invece si volesse legare il gerundio al

soggetto, si avrebbe: a una piçoca dh’apu chistionau ascurtèndi música (il soggetto in verità è

sottinteso, ma la persona verbale ne assolve le funzioni); poiché però in questo costrutto si ha anche

la messa in evidenza del complemento di termine per mezzo della sua dislocazione a sinistra,

prevale fèmu ascurtèndi música e apu chistionau a una piçoca.

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Si ha anche il caso in cui il gerundio esprima un’azione subita e non compiuta dal nome con il quale

esso è congiunto: dh’apu biu atripendidhu totus “l’ho visto mentre tutti lo picchiavano”,

letteralmente “l’ho visto picchiandolo tutti”. Ciò di deve all’idiosincrasia che il campidanese mostra

per la forma passiva e per il complemento d’agente.

Non è dato il caso che si abbiano due o piú diversi gerundî, concordanti con altrettanti diversi

elementi della frase.

In tutte le frasi suddette non vi sono pause tra l’elemento della reggente cui il gerundio è legato, e il

gerundio stesso: la subordinata deve essere ritenuta una proposizione relativa determinativa.

Come si vede, in tutti casi il costrutto 2) può essere vòlto nel numero 1), mediante l’uso o del

pronome relativo con l’impiego di un tempo verbale d’aspetto durativo, o dell’indicativo

presente/passato progressivo. Si noti anche che il gerundio col valore suddetto non è usato solanto

in dipendenza da verbi di percezione, ma presenta un impiego piú vasto. Il consueto uso del

gerundio con la funzione suddetta determina i tipici costrutti dell’italiano regionale, nei quali al

gerundio italiano si dà il valore del gerundio sardo: *l’ho sentito cantando, *vi abbiamo visto

correndo eccetera.

3) con valore strumentale-modale-causale, secondo ciò che in analisi logica è chiamato

complemento di mezzo, modo o causa. In quest’uso, caratteristico di un nome verbale326, il gerundio

segue di solito il soggetto della frase: ita est sa vida si dh’imparu dèu trabballèndi totu sa dî “che

cos’è la vita glie l’insegno io lavorando tutto il giorno”; imparais joghèndi “imparate giocando”,

cioè “per mezzo del gioco”. Se si volge questo gerundio in un costrutto esplicito, si osserva

un’azione di tipo durativo, come nell’ultimo esempio, trasformabile in bosatrus jogais e aici

imparais “voi giocate e cosí imparate”. Come si vede, in questi casi il gerundio, giacché ha valore

di nome verbale, si lega sempre al soggetto, anche quando la frase è transitiva.

È possibile anche collocare questo gerundio prima del verbo principale: bufèndi binu meda s’at

addanniau sa saludi “Bevendo troppo vino (ossia “col bere troppo vino”) si è rovinato la salute”,

vòlto in sintagma nominale, il gerundio qui dà po mòri’e su binu bufau s’at addanniau sa saludi, o

anche po su binu bufau ...

326 In latino il gerundio era un sostantivo usato ai casi diversi dal nominativo.

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Si usa poi il gerundio di ‘essere’, sèndi, in locuzione con de, per esprimere il concetto “dall’età di,

dal tempo di”: si connòsci de sèndi pipius327 “conoscersi dall’età della fanciullezza”, trabballai de

sèndi piticu “lavorare sin da giovane”.

Non si ha un valore modale identico a quello proprio del gerundio italiano, il quale indica un’azione

che si svolge in rapporto ad un’altra328, espressa nella proposizione reggente da un verbo di modo

finito: il gerundio sardo campidanese, cosí come il participio, non ha mai la funzione di introdurre

proposizioni subordinate. Sono dunque da ritenere costrutti letterarî, modellati sull’italiano e

assolutamente estranei alla lingua viva, periodi come questi: *bièndi chi fiast scidu, t’apu betiu su

smurzu a letu “vedendo ch’eri sveglio, t’ho portato la colazione a letto”; *cuntziderèndi chi seus

stracus, andaus a dromiri “considerando che siamo stanchi, andiamo a dormire”.

Anche quando il gerundio italiano ha valore narrativo, temporale, concessivo o condizionale, il suo

uso corrispondente in campidanese è presente nella sola lingua scritta come forma dotta: Lepori329

propone a questo proposito un esempio poco convincente quale *limpièndi is patatas mi sèu segau

unu didu “nel pulire le patate mi sono tagliato un dito”. Questo periodo mostra un valore narrativo e

temporale molto vicino al gerundio italiano, e, allo stesso tempo, il verbo della principale è

transitivo: non è perciò tipico della lingua viva, che invece meglio dice fèmu limpièndi is patatas e

mi sèu segau unu didu, mentre tollera limpièndi is patatas is manus pigant fragu malu “col pulire le

patate le mani prendono cattivo odore”, frase nella quale il valore nominale causale è chiaro (= cun

sa limpiadura de is patatas ...).

Insomma si può dire che, nella lingua campidanese viva, l’uso del gerundio presenta o un

prevalente valore aspettuale (progressivo o durativo), o un meno frequente valore nominale

(modale-strumentale-causale); il suo impiego in altre circostanze è da ritenere un cultismo.

Da notare è ancora che il gerundio, unito a pronomi personali atoni, richiede di norma la posizione

enclitica del pronome: sa língua nosta seus defentzendidha “la nostra lingua la stiamo difendendo”;

sèu castiendidí “ti sto guardando”; è presente però anche la collocazione proclitica, dovuta forse

anche all’influsso moderno italiano, ma già spiegabile a partire da fatti sintattici come la

dislocazione a sinistra, ch’esige il pronome pleonastico: a tui ti sèu castièndi “te ti sto guardando”.

Non esiste il gerundio passato, com’è logico in base alle considerazioni fatte, e per le stesse ragioni

non possono essere in usi i gerundî di verbi quali ai (ormai impiegato solo come ausiliare: èndi si

327 Esempio di Antonio Lepori, Gramàtiga sarda po is campidanesus, Edizioni C.R., 2001, pagina 51.328 Spesso in linguistica generale e tipologica il gerundio è detto ‘converbio’.329 Opera citata, pag. 216.

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trova nelle opere letterarie), èssi (sèndi forma congiunzione con chi: sèndi chi ‘essendo che’), bòlli

(il gerundio bolèndi è del verbo bolai ‘volare’).

*****

Il participio passato esprime diatesi passiva nei verbi transitivi, attiva nei verbi di moto. Il suo

impiego piú frequente lo vede grammaticalizzato nelle forme analitiche d’indicativo (passato

prossimo, trapassato prossimo, futuro anteriore) e congiuntivo (passato e trapassato)

Il participio è usato come complemento predicativo del soggetto: issu parrit stimau de totus “egli

sembra amato da tutti”. Questo è uno dei rari casi in cui si usa la forma passiva con l’espressione

del soggetto d’azione (complemento d’agente).

Lo si trova anche per esprimere subordinazione temporale in costrutti ellittici, quali pustis curtu

un’ora, at dépiu atobiai s’amigu “dopo aver córso per un’ora, dovette incontrare l’amico” Qui,

privo dell’infinito o della forma finita del verbo ausiliare (pustis èssi curtu o pustis ch’iat curtu),

equivale ad un sostantivo verbale. Se il verbo usato invece è transitivo, il participio concorda col

sostantivo

Il participio può trovarsi in proposizioni relative determinative: ¡allodhu s’ómini lómpiu anca’è

nòsu s’atra di! “ecco l’uomo giunto da noi l’altro giorno”.

Il participio non si usa invece con funzione subordinante in proposizioni relative appositive, di

valore temporale o causale: *su studianti, calau de su trenu, s’est scarésçu una balija; *ofentzau po

s’arrefudu, issu no at saludau prus.

Nella lingua viva non esiste neanche il participio assoluto, corrispondente all’ablativo assoluto

latino: *fatas custas cosas, mi ndi sèu andau. Si tratta di un italianismo sintattico, in luogo del

genuino apu fatu custas cosas e mi ndi sèu andau, ovvero pustis fatas custas cosas ....

Il participio presente in quanto forma verbale non esiste: come cultismo può essere ricavato dal

verbo e adoperato come aggettivo o sostantivo.

*****

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L’infinito è impiegato frequentemente nella subordinazione, e consente di cogliere la predilezione

del campidanese per i costrutti impliciti. Quel che v’ha di piú caratteristico in questo tipo sintattico

è la proposizione infinitiva con soggetto diverso da quello della reggente: tale costrutto implicito è

usato in proposizioni finali, esclusive, temporali di anteriorità e posteriorità, ed oggettive, le quali

ultime siano introdotte dai verbi di volontà, timore, desiderio, comando, richiesta, permesso e

impedimento.

Proposizioni finali. Esempî, tutti con la congiunzione subordinante po:

apu chistionau aici po ascurtai totus “ho parlato cosí perché ascoltassero tutti”; tòrru a dhu

nai po bòsi nd’arregordai “torno a dirlo perché ve ne ricordiate”. Qui il verbo della finale è

intransitivo, e si noti che nel secondo periodo la presenza del pronome complemento

proclitico rende inutile l’espressione del soggetto;

chistiònu po sciri sa beridadi sa gènti “parlo affinché la gente sappia la verità”. Qui il verbo

della finale è transitivo, cosicché l’ordine delle parole richiesto dal sintagma verbale è

necessariamente è V-O-S (verbo-oggetto-soggetto);

apu chistionau aici po dh’arreconnòsci totus a igudhu “ho parlato cosí affinché quegli lo

riconoscessero tutti”, o meglio “ho parlato cosí affinché quegli fosse riconosciuto da tutti”.

Qui si ha la cosiddetta dislocazione a sinistra del pronome atono, ch’è poi ripreso in forma

tonica: si ha dunque O(clitico)-V-S-O;

apu tzerriau po dh’arrocai a su cuadhu “ho gridato perché il cavallo fosse fermato”. Qui si

ha un costrutto simile al precedente, ma il soggetto è indefinito, perciò O(clitico)-V-O;

un’altra prova dell’avversione che il campidanese palesa nei confronti della forma passiva.

t’apu contau custu fatu po cumprèndi sa beridadi “ti ho raccontato questo avvenimento

perché tu capisca la verità”. Qui, visto il senso della frase, è chiaro che il soggetto del

comprendere è tui, già presente nella reggente come complemento, e non dèu: non è perciò

indispensabile l’espressione del soggetto.

Il costrutto esplicito, soprattutto nei testi scritti, non è raro, ma ad apu chistionau po chi

ascurtessint totus si preferisce sempre la variante implicita.

Proposizioni esclusive. Basti citare questa: eus imbiau sa lítera chentza’e sciri nudha sòrri nosta

“abbiamo inviato la lettera senza che nostra sorella sapesse niente”. Dopo la locuzione congiuntiva

chentza de si ha anche qui l’ordine V-O-S. Per questo genere di proposizione la forma esplicita non

c’è, ma si può ricorrere alla coordinazione: eus imbiau sa lítera, ma sòrri nosta no sciriat nudha.

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Proposizioni oggettive. Si distingue in base al verbo della reggente:

verbi di volontà: boleus a lograi cussu trabballu bòsu e totu “vogliamo che siate proprio voi

ad ottenere codesto lavoro”; sa mama no bòllit a bufai bévidas medas fillu suu “la madre

non vuole che suo figlio beva molte bibite”;

verbi di timore: timu a s’atzicai sa pipia si intèndit custu contu “temo che la bambina si

spaventi se sente questa storia”;

verbi di desiderio o speranza: spèru a pòdi bivi mellus sa gènti’e cudha comarca “spero che

possa vivere meglio la gente di quella contrada possa vivere meglio”;

verbi di comando: su duxi iat cumandau a si pònni in filera is sordaus “il comandante

ordinò che i soldati si disponessero in fila”;

verbi di richiesta: dimandu a abetai innòi dónnia babu e mama “chiedo che ogni genitore

aspetti qui”;

verbi di permesso: no apu permítiu a umperai su carru miu nèmus “non ho consentito che

nessuno si servisse del mio carro”;

verbi d’impedimento: sa lèi chitat a bèndi drogas chinisisiat “la legge vieta che si vendano

droghe da parte di chicchessia”, oppure is guàrdias proibbint a passai innias is màchinas “i

vigili impediscono che le automobili passino là”.

Riguardo al costrutto e all’ordine delle parole, valgono le medesime osservazioni fatte per i casi

precedenti.

Con i verbi di desiderio però il costrutto esplicito è molto frequente: spèru chi ti potzas acatai de sa

trobedha ‘spero che possa accorgerti dell’imbroglio’; come si vede, il modo richiesto nella

subordinata è il congiuntivo. Se il soggetto della subordinata è il medesimo della reggente, si ha di

solito la congiunzione de anziché a: spèru de sanai chitzi “spero di guarire presto”.

Proposizioni temporali. Soprattutto per l’anteriorità si ha il costrutto infinitivo: dèu mi scidu

innanti’e cantai su cabòni “io mi sveglio prima che il gallo canti”. Meno usato esso è per la

posteriorità: apusti’e si coyai fillu miu apu a torrai a terramanna “dopo che mio figlio si sarà

sposato tornerò in continente”.

Anche in proposizioni soggettive, inoltre, si possono incontrare costrutti impliciti: abbisonjat a no

pròi po intrai in mari “bisogna che non piova per entrare in mare”; abbisonjat a spaçai is fainas

nostas “bisogna che terminiamo i nostri esercizî”. Nella seconda frase l’aggettivo possessivo

consente l’omissione del soggetto, non essendovi pericolo di fraintendimento.

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I costrutti impliciti sopra riportati possono apparire difficili da interpretare, e sono in effetti causa di

gravi errori nell’italiano regionale; essi però sono regolati in maniera rigorosa, sia perché la

disposizione sintattica non è lasciata al caso, sia perché, oltre ai tratti soprassegmentali richiesti

all’uopo, l’uso della preposizione a davanti all’oggetto di persona (e di animale, come si è visto da

un esempio) elimina i dubbî su quale sia il soggetto.

Vediamo un ultimo caso:

em’a bòlli a connòsci a Pàulu, Màriu (con pausa prima di Màriu) “vorrei che Mario conoscesse

Paolo” (la virgola qui è indispensabile, anche perché non si interpreti Pàulu Màriu quale nome

unico). Costrutto V-O-S nell’infinitiva;

em’a bòlli a dhu connòsci Màriu, a Pàulu (con pausa prima di a Pàulu) “vorrei che Paolo fosse

conosciuto da Mario” e, piú colloquiale, “vorrei che Paolo lo conoscesse Mario”. Costrutto

O(clitico)-V-S-O.

Si può anche fare ricorso all’esplicita, ch’è meno usata: em’a bòlli chi Màriu connoscessit a Pàulu,

ovvero em’a bòlli chi Màriu dhu connoscessit a Pàulu (con pausa prima di a Pàulu).

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Appendice XII

Dedicata a Romagnino e Beccaria

Secondo lo scrittore Antonio Romagnino (cito a memoria, il senso è questo) “Il sardo è la lingua

del focolare, idoneo all’uso domestico e all’espressione dei sentimenti vivi, ma inadatto ad un

impiego in campo giuridico e scientifico”. Tali considerazioni mi dispiacquero assai, e mi paiono

ricalcare le già riportate opinioni di Gian Luigi Beccaria, in particolare la sua citazione del poeta

Baldini: “«In dialetto - diceva il grande poeta dialettale Raffaello Baldini - si può parlare con Dio,

non si può parlare di Dio». Non credo che in dialetto si stampino studi o si facciano dibattiti di

teologia”. Proprio la teologia è argomento di un libro che sto traducendo dall’arabo e che, per

quanto mi risulta, dovrebbe essere la prima opera di teologia islamica in campidanese: a

conclusione di questo volume propongo dunque, anche a chi nutra convinzioni del tipo di quelle

sopra esposte, il capitolo L’unicità di Dio da Questa è la nostra dottrina330 di Šayh Abū

Muh ammad cĀs im al-Maqdisī (Iddio lo preservi). Chiunque legga, a mio parere, può verificare se

in campidanese l’espressione anche di un solo concetto sia piú difficoltosa che in italiano, francese,

inglese o russo (queste ultime tre sono le lingue di cui è disponibile la versione dall’arabo): anche in

campidanese si può esprimere qualsiasi idea: basta volerlo ed esserne capaci.

Forse Beccaria e Romagnino non sanno che la letteratura campidanese già ha trattato temi teologici:

dai primi autori è passato però molto tempo, perciò provo a dare un piccolo contributo in questo

campo.

*****

Sa Singularidadi’e Deus

De sa Singularidadi’e Deus naraus chi Deus est Unu cheni’e sotzu perunu, ne in sa Sennoria Sua, ne

in sa Deidadi Sua, ne in is Lóminis e Calidadis Suas.

Duncas no dhoi at criadòri perunu diferènti de Issu, ne sennòri perunu in prus’e Issu, ne atendidòri,

ne urrèi, ne aministradòri’e cust’esisténtzia in prus’e Issu. Nòsu afirmaus chi Deus est Unu in is

obras Suas, cumènti afirmaus chi est Unu in is obras nostas puru.

330 Titolo originale Hādihi caqīdatunā; la versione inglese s’intitola This is our ‘Aqīdah, quella francese Ceci est notre‘Aquida, quella russa это наша идеология.

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Afirmaus chi est Unu in is adoramèntus nòstus, in is tentas e boluntadis nostas, ca no dhoi at nèmus

adorau in prus’e Issu (grória tenjat), duncas nòsu testimonjaus chi no dhoi at deidadi in prus’e Issu,

su Poderosu e Sàbiu cun onestadi e justesa, a sa própiu manera chi Deus dh’at testimonjau po Sèi e

totu, e dh’ant testimonjau is Ànjulus e is arricus de sabiesa puru. Naraus aici e seus firmus in su chi

afirmat custu fuedhu primorosu, po lassai s’adoramentu a Deus Solu, e a sa própiu manera puru in

is bisònjus, dèpiris e derètus chi cussu fuedhu bòllit; naraus aici e dennegaus su chi cussu fuedhu

dhu dennegat intra’e is ispétzias de assotziamentu, siat is arrexònis siat is cuntzighéntzias.

Nòsu teneus fidi chi Deus at criau sa criatziòni cun s’imperòu’e s’adoramentu de Issu sceti, cumènti

at nau s’Artíssimu:

No apu criau a is ispiritus e a is óminis si no po m’adorai (Coranu: LI, 56).

E impunnaus a sa Singularidadi Sua (grória tenjat) po dónnia ginia’e adoramentu, cumènti funt sa

sterrinadura, s’incruada, sa promissa, sa caminada a ingíriu331, su sagrifítziu, su sgangamentu, sa

pregària, sa faidura’e lèis e atru.

Nara: “In beridadi sa pregadoria mia e su sagrifítziu miu, sa vida mia e sa mòrti mia funt de

Deus Sennòri de is mundus. No tènnit sòtzus. Custu m’est cumandau e dèu sèu su primu de is

mussurmanus” (Coranu: VI, 162-163).

Su cumandu’e su Sennòri (grória tenjat) incruit is duus cumandus, segundu s’univertzu e segundu

sa lèi. Aici Issu Solu (grória tenjat) tènnit su podèri univertzali’e sa preneta, ei est su Dirigidòri chi

judigat s’esisténtzia cun su chi bòllit, segundu su chi dimandat sa sabiesa Sua: a sa própiu manera

nòsu afirmaus sa Singularidadi Sua (grória tenjat) in su judítziu Suu segundu lèi, e duncas no

assotziaus a nèmus in su judítziu Suu e no assotziaus a nèmus in s’adoramentu Suu.

¿A no funt Suus sa criatziòni e su cumandu? ¡Beneitu siat Deus Sennòri de is mundus! (Coranu:

VII, 54).

De cussu ndi bènnit chi s’acussentiu est su chi Deus at acussentiu, e su proibbiu est su chi Deus at

proibbiu:

... Su judítziu est de Deus sceti diadèrus. Issu bos at cumandau ai adorai a Issu sceti ... (Coranu:

XII, 40).

Duncas in beridadi no dhoi at faidòri’è lèis in prus’e Issu (grória tenjat s’Artíssimu), e nòsu seus

allènus de calisiollat legisladòri a foras’e Issu, dhu strunçaus e dhu scomunigaus, e no disijaus a

331 Sa chi si fait in su Peregrinaxi a Meca.

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Sennòri perunu diferènti de Issu; in prus’e Issu no pigaus a nèmus che Abbogau, e no circaus

nemancu arrelijòni nisçuna diferènti de s’Islami. Po igustu, totu is chi pigant unu detzidòri o unu

faidòri’è lèis a foras’e Issu, e sighint e cuncordant in sa faidura’e lèis cun chini destruit sa de Deus,

totu cussus ant a pigai unu sennòri diferènti de Deus, e ant a circai un’arrelijòni diferènti de

s’Islami.

S’Artíssimu at nau:

... èllus is dimónius ispirant a is amigus intzòru su certu cun bosatrus. Si dhis obbedesséssidis,

eis èssi assotziadòris (Coranu: VI, 121).

S’Artíssimu at nau:

Ant pigau a is arrabbinus intzòru, a is mònjus intzòru e a su Messias fillu’e Maria che sennòris

sarvu Deus ... (Coranu: IX, 31).

A sa própiu manera nòsu afirmaus sa Singularidadi Sua (grória tenjat) in is lóminis e calidadis.

Duncas no dhoi at nèmus chi tènnit is lóminis suus, chi ballit a pari, nèmus simbillanti, paris o

aguali.

Nara: «Issu est Deus su Síngulu, Deus su Firmíssimu. No at ingendrau e no est ingendrau, e

che Issu no est mancunu» (Coranu: CXII, 1-4).

Issu (grória tenjat) S’at fatu Síngulu po mesu’e is calidadis de magestadi e perfetziòni, chi cun

igussas S’at descritu in su Líbburu Suu o su Profeta Suu (beneixadidhu Deus e donghididhi paxi)

Dh’at descritu in su Costumu suu. Duncas nòsu no descrieus criadura peruna Sua cun calincuna de

is calidadis Suas, e dai is lóminis Suus no bogaus is lóminis po nèmus; a Issu (grória tenjat) no

Dh’imponeus cumparàntzia peruna e no Dhu feus assimbillai a nudha de sa criatziòni, e no beneus

erèjus in is calidadis de su Sennòri nostu (grória a Issu).

Intamus nòsu teneus fidi in su chi Issu at descritu de Sèi e totu, e in su modu chi su Missu Suu (a

issu sa pregadoria e sa paxi) Dh’at descritu, cun bisura’e beridadi e no cun cobertantza, chèni’e

malògrus e strociduras, e chèni’e assétius e afiguramèntus puru.

... Sua est sa cumparàntzia prus arta in is cèlus e in sa terra. Issu est su Primorosu e Sàbiu

(Coranu: XXX, 27).

Nòsu no dennegaus nudha de Issu, de su chi Issu (grória tenjat) s’est descritu. No troceus unu

fuedhu de su postu suu, e no seus cun chini interpetrat po mesu’e pentzamèntus suus, o bisat cun

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pantasia, po mesu’e su printzípiu’e s’esentamentu332 che arretzallu. Nèmus s’at sarbau cun

s’arrelijòni sua, si no chini s’at assuermau a Deus su Poderosu e Magestosu e a su Missu Suu (a issu

sa pregadoria e sa paxi), e at arremandau sa sciéntzia de su chi disintèndit a chini dha connòscit. In

s’Islami su fundóriu no est firmu po nèmus si no candu s’amostant s’assuermamentu e

s’assugetamentu a Deus, duncas chinisisiat chi pretendat sa sciéntzia’e su chi dh’est interdixu, e chi

no siat prexau de s’assuermai a su chi cumprèndit, intzandus is pretesas suas ant a pesai una gortina

intra’e issu e sa fidi berdadera e sa Singularidadi pura.

Teneus fidi chi Deus at calau su Líbburu Suu in fuèdhus aràbigus crarus, duncas intregaus a Deus

no sa sciéntzia’e su sintidu de is calidadis, ma sa de is modalidadis sceti, e naraus:

Nòsu teneus fidi: totu ndi bènnit de su Sennòri nostu (Coranu: III, 7).

E denanti’e Deus seus allènus de su printzípiu’e su lassamentu de is jamistas333, e a su printzípiu’e

s’afiguramentu de is musçabbiistas334: no nos incruaus ne a igussus ne a igudhus, e aturaus

strentaxus in mesu cumènti at bófiu su Sennòri nostu, e abarraus firmus intra’e sa dennega e

s’afirmadura. Issu (grória tenjat) at nau:

Nudha est símbillanti a Issu. Issu est Su chi ascurtat e spriculat (Coranu: XLII, 11).

Aici chini no si càstiat de su lassamentu e de s’assimbillamentu Suu, at a fadhiri e no at a spainai su

printzípiu’e s’esentamentu.

In custa banda’e s’arrelijòni, cumènti in totu is atras, nòsu seus aundi fiant is Antipassaus Pius

nòstus’e sa Gènti de su Costumu e de sa Comunidadi.

De cussu est parti su chi nòsi nd’at torrau sceda Deus in su Líbburu Suu, e su chi est arrelatau de

sighida dai su Missu Suu335 (a issu sa pregadoria e sa paxi), est a nai chi Issu est apitzu’e is cèlus

Suus, Pesau in su Sóliu Suu, aici cumènti narat s’Artíssimu:

¿A segurus seis ca Su Chi est me in su celu no bòsi fatzat spentumai in sa terra candu trèmit?

(Coranu: LXVII, 16).

E cumènti est arrelatau in su diçu’e sa scraa, candu su Profeta (a issu sa pregadoria e sa paxi) dh’iat

pregontau: “¿Aui est Deus?”, e issa iat arrespustu: “Me in is cèlus”. Intzandus dh’iat pregontau:

332 Cun su fuedhu aràbigu tanzīh s’indidat chi Deus est Esentu de farta calisiollat, ca est su Primòri berdaderu.333 Is de sa Jahmiyya funt nomenaus cumènti’e negadòris de is calidadis’e Deus. 334 Is de sa Mušabbiha funt is chi stabbilèssint una simbillàntzia intra’e Deus e is criaduras Suas.335 Est a nai cun cadenas de trasmitidura seguras.

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“¿Chini sèu dèu?”, e issa iat arrespustu: “Tui ses su Missu’e Deus”. Issu iat nau: “Afranchidha,

est fièli diadèrus”.

Custa est sa beridadi chi po nòsu no dhoi at intzertesa. Cumènti iant fatu is Antipassaus Pius

nòstus, aici dh’allogaus de is cungeturas frassas, po assempru a pentzai chi su celu Dh’umbrit o Dhu

smènguit, mentras cussu est frassu. Fèmus amarollaus a arregordai custu, a dhu dennegai e a dhu

stesiai de Deus, e si is antipassaus nòstus no dh’arrefudànt cun sintzillesa, sa Gènti’e is Annoaduras

cun is bisònjus de frassesa suus iat strobbau a sa Gènti’e su Costumu.

S’Artíssimu at nau:

Su Sóliu Suu incruit is cèlus e sa terra (Coranu: II, 255).

E Issu (grória tenjat) at nau:

Deus poderat is cèlus e sa terra po no sparèssi cussus (Coranu: XXXV, 41);

… Issu poderat su celu po no sderrocai in sa terra chèni’e su permissu Suu (Coranu: XXII, 65);

Ei est parti’e is prodijus Suus chi su celu e sa terra s’arrèint po cumandu Suu (Coranu: XXX,

25).

Nòsu teneus fidi chi Issu (grória tenjat) s’est pesau in su Sóliu Suu, cumènti at nau s’Artíssimu:

Su Piadosu s’est pesau in su Sóliu (Coranu: XX, 5).

No interpetraus sa pesada cun su sintidu de “conchista”, imbeças s’Artíssimu at calau su Coranu

cun igustus sintidus in sa língua de is Àrabus. No feus assimbillai cussa pesada a sa pesada’e

calincuna cosa de sa criatziòni Sua, ma naraus cumènti at nau donnu Mālik: “Sa pesada est

connota, e sa fidi in custa est pretzisa. Cumènti est s’innorat, e sa pregonta assuba’e cussu est

un’annoadura”.

In custa manera e totu nòsu aproaus is atras calidadis Suas e is atras atziònis Suas (grória a Issu

s’Artíssimu), cumènti’e sa calada, sa bénnida e s’atru chi Issu (grória tenjat) nòsi nd’at torrau sceda

in su Líbburu Suu, o chi funt cunfirmadas in su Costumu berdaderu.

Imparis cun sa pesada Sua a su Sóliu e cun s’artesa Sua apitzu’e is cèlus, nòsu teneus fidi chi Issu

(grória tenjat) est Probianu a is serbidòris Suus, cumènti at nau Issu e totu (grória tenjat):

¡Candu is serbidòris Mius ti pregontant de Mèi, Dèu sèu Probianu diadèrus! (Coranu: II, 186).

E su diçu chi dhoi at cuncórdiu: “¡O óminis! Candu pregais me in bòsu e totu, no tzerriais

diadèrus a calincunu chi siat surdu o ausènti. Nossada, tzerriais a Calincunu Ch’intèndit totu

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e Chi bît totu. Èllus, Su Chi Dhu tzerriais bos est prus Probianu chi su tzugu’e s’animali’e

cuadhigai bostu”.

Issu est cun is serbidòris Suus aundisiollat chi siant, e scît su chi faint, cumènti at nau s’Artíssimu:

Issu est cun bosatrus aundisiollat chi siais. Deus spriculat su chi feis (Coranu: LVII, 4).

No cumprendeus su fuedhu Suu macakum (“est cun bosatrus”) cun sa boluntadi’e is discreèntis, chi

po cussus Issu s’est amesturau cun is serbidòris Suus, o s’est tramudau ind una parti’e cussa, o s’est

uniu cun igussa, o atras cosas chi funt creéntzias de su negamentu e de su straviamentu. Nossada,

seus allènus a totu custu denanti’e Deus.

E Issu (grória tenjat) cun is Serbidòris fièlis Suus tènnit un’atra prossimidadi spetziali, chi no est sa

bixinàntzia comuna, ma sa bixinàntzia de ajudu, de arrenéscida e de schítiu336, cumènti at nau

s’Artíssimu:

Deus est diadèrus cun is chi Dhu timint e cun is chi funt caridadòsus (Coranu: XVI, 128).

Duncas Issu (grória tenjat), imparis cun sa pesada a su Sóliu e cun s’artesa Sua apitzu’e is cèlus, est

cun is serbidòris Suus aundisiollat chi siant e scît su chi faint; Issu est Probianu a chini Dhu pregat,

est cun is serbidòris fièlis Suus, dhus amparat, dhus ajudat e dhus atèndit; sa bixinàntzia e sa

prossimidadi Sua no dennegant sa pesada e s’artziada Suas, ca nudha est simbillanti a Issu in is

calidadis Suas (grória tenjat). Issu est Artziau in sa bixinàntzia Sua, e Probianu in s’artesa Sua.

Intra’e is frutus de cussa Singularidadi spantosa, dhoi at su deretu’e Deus assuba’e is serbidòris

Suus:

Sa bonasòrti’e s’unista337 in Deus sceti est su Paraisu’e su Sennòri suu e sa sarbesa de su

Fogu, cumènti si bît in su diçu’e Mucād bin Jabal (cumpraxadasí Deus de issu).

De cussu fait parti su spantu e su bàntidu’e su Sennòri po mesu’e sa connoscéntzia’e is

calidadis Suas de perfetziòni e magestadi, e in prus su de torrai grória a Issu e s’esentamentu

puresa dai dónnia simbillàntzia o figuramentu.

A sa própiu manera ndi fait parti s’arreconnoscimentu chi est scimpru chini si pigat unu pari

Suu chèni’e Issu, e si dh’assótziat in s’adoramentu, in su judítziu o in sa faidura’e lèis.

336 Est a nai su sdepidamentu’e su serbidòri cun su Sennòri suu.337 In aràbigu muwah h id : bòllit nai ‘su chi crèit in s’Unu’, est a nai ‘su chi afirmat sa Singularidadi’e Deus’; su fuedhuscípiu aregu prus umperau po dhu tradusi est ‘monoteista’.

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E ndi est parti puru su sçusçu e s’arruina de chini a Deus Dh’at assotziau a sèi e totu ind unu

de cussas cosas, mancai no si siat assotziau in sa criatziòni, e no tenjat mota peruna in su

podèri, in sa providéntzia e in s’aministramentu.

De sighida’e cussu, su còru e s’anima si scàpiant de dónnia tzerachia a is cosas criadas.

E de cussu ndi bènnit tambèni sa firmesa’e su serbidòri in sa vida de custu mundu e de

s’atru, duncas chini est imbitzau a adorai a sòtzus arrevèsçus, e dhus pregat e sperdítziat sa

paura e sa spera sua intra’e cussus, no est che chini at afirmau sa Singularidadi’e su Sennòri

suu (grória a Issu) e at impunnau a Issu sa timoria, sa spera, sa tenta, sa boluntadi e

s’adoramentu suu.

¡O Deus, o Abbogau de s’Islami e de sa Gènti sua, cunfirmanosí in sa Singularidadi Tua fintzas chi

T’eus a atobiai!

(pigau de Nòsu creeus in custu)

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