Storia costituzionale. Appunti dalle lezioni (Prima parte...

66
Storia costituzionale. Appunti dalle lezioni (Prima parte) * Paolo Passaglia Indice Introduzione ......................................................................................................................... 2 Prima lezione – Le origini della storia costituzionale unitaria ............................................... 4 Seconda lezione – La forma di Stato nel periodo monarchico-liberale .............................. 19 Terza lezione – La forma di governo nel periodo monarchico-liberale .............................. 38 * Testo inedito.

Transcript of Storia costituzionale. Appunti dalle lezioni (Prima parte...

Storia costituzionale. Appunti dalle lezioni

(Prima parte)*

Paolo Passaglia

Indice

Introduzione.........................................................................................................................2

Prima lezione Le origini della storia costituzionale unitaria...............................................4

Seconda lezione La forma di Stato nel periodo monarchico-liberale ..............................19

Terza lezione La forma di governo nel periodo monarchico-liberale ..............................38

* Testo inedito.

Introduzione

La storia costituzionale italiana, pur nella sua relativa brevit constatabile soprattutto

allorch la si compari con quella di altri Stati europei, quali, ad esempio, Inghilterra o Fran-

cia segnata da una serie di avvenimenti fortemente caratterizzanti, non solo sul piano

istituzionale, ma anche su quello politico, economico e sociale, che suggeriscono la suc-

cessione di fasi diverse, connotate da elementi di pi o meno marcata discontinuit.

Alla luce di tale constatazione, appare opportuno tratteggiare una periodizzazione che,

nella misura in cui non venga ad essa attribuito valore euristico, pu offrire un utile orien-

tamento preliminare.

Per tradizione consolidata (cui non sembra dato derogare, tanto pi in un caso, come il

presente, nel quale la finalit perseguita esclusivamente quella didattica), le fasi della

storia costituzionale italiana sono cos individuate:

1] un primo periodo, denominato monarchico-liberale, copre i decenni che vanno

dallunit (salvo quanto si dir tra breve in ordine allo strutturarsi delle istituzioni) sino

allavvento del regime fascista;

2] segue il periodo corrispondente alla dittatura fascista, il cui dies a quo solitamente

indicato nel 28 ottobre 1922 (data della c.d. marcia su Roma), sebbene sia preferibile

argomentare nel senso dellesistenza di una fattispecie a formazione progressiva, che da

quella data prende avvio;

3] la fine dellesperienza fascista, storicamente datata 25 luglio 1943 (allorch il Gran

Consiglio del Fascismo ebbe sfiduciato Mussolini), apre il c.d. periodo costituzionale

provvisorio (o transitorio);

4] finalmente, lentrata in vigore della Costituzione repubblicana, il 1 gennaio 1948, in-

troduce una fase nuova, nella quale stiamo tuttora vivendo.

La quadripartizione appena accennata non esclude anzi, implica, vista almeno la du-

rata di alcune fasi la possibilit di individuare sottoperiodi, senza che, tuttavia, essi infici-

no una fondamentale unitariet delle esperienze dei quattro segmenti temporali indicati: in

questottica, la trattazione che segue di cui si pubblica la prima parte cercher di ri-

marcare lesistenza di continuit, discontinuit e micro-discontinuit, suggerite

dallevoluzione della forma di Stato e della forma di governo. Tali ultime nozioni oriente-

ranno il metodo della ricerca, tesa ad isolare i caratteri essenziali delluna e dellaltra nelle

singole fasi di cui si compone la storia costituzionale italiana.

3

Prima di entrare in medias res, due ulteriori premesse sono peraltro necessarie. In pri-

mo luogo, una particolare attenzione dovr essere dedicata allorigine dello Stato italiano

ed alliniziale suo assetto istituzionale, al fine di cogliere i rapporti sussistenti tra il Regno

di Sardegna ed il Regno dItalia. In secondo luogo, lo studio storico dellesperienza costi-

tuzionale italiana consiglia di concentrarsi sul passato, trasferendo lesame pi appro-

fondito della fase attuale allesame degli istituti di diritto positivo, auspicabilmente condotto

anche in chiave diacronica.

Prima lezione Le origini della storia costituzionale unitaria

1. La formazione dello Stato italiano

La penisola italiana, nella prima met del XIX secolo, era percorsa da un diffuso anelito

allunificazione dei vari Stati ivi presenti, onde giungere ad una congruenza, personale e

territoriale, tra la Nazione italiana e lo Stato italiano: altrimenti detto, era radicata la volont

di accomunare gli italiani allinterno di un unico Stato, indipendente dalle potenze straniere

egemoni (e segnatamente da quella austriaca).

Nel pensiero politico, questa volont si tradusse in prefigurazioni teoriche

dellunificazione sussumibili in due grandi categorie, luna comprendente i fautori dellunit,

laltra i sostenitori della necessit e/o dellopportunit di una federazione tra gli Stati esi-

stenti.

A teorizzare la formazione di uno Stato unitario fu, innanzi tutto, Mazzini, auspice di

uninsurrezione democratica al termine della quale raggiungere il duplice obiettivo

dellunit e della repubblica. Analogamente, ma con un seguito assai esiguo in termini

numerici, il pensiero socialista-rivoluzionario propugnava una rivoluzione che associasse

allunit un diverso assetto degli equilibri tra le classi (ci che implicava, tra laltro, la ne-

cessit di una rivoluzione promossa direttamente dalle masse lavoratrici ed il connesso ri-

fiuto di una insurrezione di stampo mazziniano, condotta da intellettuali e borghesi).

Alle impostazioni insurrezionali si affianc, ma solo dopo il 1848 (e per le ragioni che

vedremo tra breve), lidea, che risulter vincente, di una unit come frutto di un processo

guidato dallalto, ispirato dal liberalismo moderato sotto legida del Regno di Sardegna.

La difficolt pratica di ipotizzare la creazione di un unico Stato, testimoniata anche dal

tendenziale fallimento dei tentativi di insurrezione che costellarono let della Restaurazio-

ne e che culminarono con gli avvenimenti della Prima guerra di indipendenza (1848-1849),

aliment approcci teorici diversi, accomunati dallidea di creare una federazione tra gli Sta-

ti esistenti. In questo ambito teorico si muovevano il federalismo cattolico, il federalismo

laico ed una impostazione che potremmo definire mutuando il lessico corrente negli studi

di storia dellintegrazione europea come funzionalista. Questultima era propria essen-

zialmente dei teorici del libero scambio, che vedevano un primo passo verso lunificazione

nel superamento di quelle divisioni giuridiche e materiali che si frapponevano tra i diversi

Stati: nella prospettiva di addivenire, in tempi relativamente rapidi, ad una federazione, si

propugnava, quindi, la formazione di un mercato unico delle merci, attraverso

5

leliminazione dei dazi interni (sullesempio dellunione doganale lo Zollverein sviluppa-

tasi a partire dal 1818 tra gli Stati tedeschi), ma anche attraverso lunificazione dei codici di

commercio e del sistema monetario, nonch al precipuo fine di rendere pi agevoli le in-

terazioni tra le comunit la creazione di una rete ferroviaria unificata. A questa imposta-

zione potevano ascriversi anche i nove congressi degli scienziati italiani tenutisi tra il 1839

(a Pisa) ed il 1847.

Attorno agli anni quaranta dellOttocento, si svilupp un federalismo di impronta cattoli-

ca, veicolato dal c.d. neoguelfismo, che vedeva la necessit di affermare un cattolicesi-

mo liberale che favorisse lindipendenza nazionale, anche attraverso riforme interne agli

Stati, tese a rendere possibile una confederazione di Stati posta sotto la guida ideale e,

poi, politica del Papato. Questa fusione di sentimento religioso e sentimento nazionale,

sancita dalla attribuzione al Papa della presidenza della confederazione, che significati-

vamente ribaltava lottica di Machiavelli (per il quale era proprio il Papato a costituire

lostacolo principale allunit italiana), poneva in evidenza la circostanza secondo cui, in un

contesto nel quale la penisola era egemonizzata da una potenza straniera fortemente an-

corata alla religione cattolica, la Chiesa sarebbe stata lunico organismo capace, per auto-

rit morale, di imporsi sullAustria.

Il massimo esponente del pensiero neoguelfo fu Gioberti, il quale immaginava una si-

nergia tra lautorit pontificia e la forza politica del Piemonte sabaudo, destinato ad essere

lo Stato guida della confederazione per la sua superiorit (anche militare) rispetto agli altri.

Gli avvenimenti del 1849, con la fine della Repubblica romana, imporranno, tuttavia, allo

stesso Gioberti una rivisitazione di quanto teorizzato nel suo Del primato morale e civile

degli Italiani (1843).

Se per Gioberti la guida spirituale pontificia avrebbe permesso una confederazione an-

che con la perdurante presenza austriaca nella Lombardia e nel Veneto e restando immu-

tati i confini territoriali dei diversi Stati, il presupposto di coloro che propugnavano un fede-

ralismo in chiave laica era proprio lallontanamento dellAustria dal territorio italiano. La po-

lemica anti-austriaca era per uno dei pochi elementi di comunanza tra le diverse teorie,

sovente molto divergenti: alla visione sabaudo-centrica della federazione di un liberale

moderato come Cesare Balbo, si opponevano pur se con minore successo in seno

allopinione pubblica il federalismo con forti accentuazioni sociali(ste) di Ferrari e la con-

cezione gradualistica, nellottica di una forte autonomia municipale, propria di Cattaneo,

avverso tanto al regime dispotico austriaco quanto a quello ritenuto culturalmente e poli-

ticamente arretrato del Piemonte.

6

La poliedricit di queste impostazioni (qui solo sommariamente evocata, tacendo di

molte altre posizioni pur autorevolmente espresse) venne ricondotta ad unit dalla azione

del Regno di Sardegna, che, sotto la guida del Re Vittorio Emanuele II e di Camillo Benso

Conte di Cavour, riusc ad egemonizzare il panorama politico, convogliando lo sforzo per

lunificazione sotto le insegne sabaude, nella prospettiva di una unit istituzionale di tutta

la penisola, strutturata sui modelli propri del regno subalpino.

La centralit assunta, nel processo di unificazione, dallo Stato sabaudo pone, sul piano

giuridico, il problema fondamentale dei rapporti che sussistono tra questo Stato e quello

che risulter dopo che la penisola sar stata unificata. In altri termini, il giurista chiamato

ad interrogarsi sulla riscontrabilit di una continuit di fondo tra ci che precede e ci che

segue la proclamazione del Regno dItalia ovvero sulla necessit di marcare un discrimen.

A tal riguardo, sono state avanzate fondamentalmente due tesi, luna detta della fusione

(ANZILLOTTI), laltra, prevalente, della incorporazione-annessione (SANTI ROMANO). Secon-

do la prima, la progressiva riunione dei territori del Regno di Sardegna con quelli degli altri

Stati (o con province degli altri Stati) presenti nella penisola sarebbe stato il risultato di una

fusione tra ordinamenti giuridici diversi tesa a produrre lesistenza di un ordinamento giuri-

dico nuovo ed il contestuale dissolversi di quelli preesistenti. Di contro, la tesi della incor-

porazione (di Stati) annessione (di territori appartenenti ad altri Stati) postula la continui-

t del Regno di Sardegna, che si sarebbe esteso territorialmente a scapito delle altre enti-

t giuridiche sino a coprire (quasi) tutta la penisola (con leccezione, fino al 1866, della

provincia di Mantova e del Veneto, e, fino al 1870, del Lazio), ci che avrebbe reso il Re-

gno dItalia nulla pi che la continuazione, con un nome diverso, dello Stato sabaudo.

Onde prendere posizione sul tema, le indicazioni provenienti dai vari procedimenti di u-

nificazione territoriale del biennio 1859-1860, per quanto significative, non appaiono con-

clusive, principalmente per la loro eterogeneit. Di seguito, se ne fornisce, comunque, una

sintesi.

a) La Lombardia (con lesclusione della provincia di Mantova) venne ceduta dallAustria

(per il tramite della Francia) con il trattato di Zurigo (10 novembre 1859). Il passaggio delle

province dallo Stato asburgico a quello sabaudo non venne subordinato ad alcuna manife-

stazione di volont popolare, essendosi invero, opinabilmente ritenuto valido nei suoi

risultati il plebiscito svoltosi nel 1848, con il quale, per, la volont di far parte del Regno

sabaudo era stata manifestata nel quadro della espressa previsione di una assemblea co-

stituente incaricata di stabilire le basi di un nuovo Stato, di cui la dinastia sabauda avrebbe

7

avuto la corona.

b) Il Granducato di Toscana venne annesso a seguito di un plebiscito indetto, per l11

marzo 1860, da un governo provvisorio; il quesito che si poneva si sostanziava nella di-

chiarazione di volont di unirsi al Regno di Vittorio Emanuele.

c) Del tutto analogo (e pressoch contestuale, essendosi i plebisciti svolti il 12 marzo

1860) fu il procedimento che condusse alla riunione dei territori dei Ducati di Modena e

Parma e delle Legazioni pontificie di Bologna, Ferrara, Forl e Ravenna.

d) Il 21 ottobre 1860 si tennero, sotto il governo provvisorio di Giuseppe Garibaldi, i ple-

bisciti nei territori del Regno delle Due Sicilie. Con essi il popolo si pronunci per lItalia

una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e i suoi legittimi discendenti.

Precedentemente, peraltro, lo stesso governo provvisorio, per decreto, aveva dichiarato

lannessione dei territori al Regno di Sardegna.

e) Finalmente, il 4 novembre 1860, plebisciti il cui quesito era identico a quello redatto

per il Granducato di Toscana e per i territori emiliani vennero tenuti, sotto lautorit dei

commissari del Regno sabaudo, nelle Marche e nellUmbria.

Ora, confrontando i diversi procedimenti seguiti, possono rintracciarsi tanto elementi a

favore della tesi della fusione quanto elementi a favore della tesi opposta: a titolo esempli-

ficativo, possono citarsi, nel primo senso, i quesiti dei plebisciti svoltisi in Lombardia e nel

Regno delle Due Sicilie, mentre, nel secondo senso, gli altri quesiti e, in certi casi, anche

lorganizzazione dei plebisciti direttamente da parte di agenti del Regno di Sardegna.

Per sciogliere dunque lalternativa tra la fusione e lincorporazione-annessione non pos-

sono non prendersi in esame una pluralit di altri fattori.

In favore della tesi della fusione, e della conseguente soluzione di continuit tra Regno

di Sardegna e Regno dItalia, milita certamente la constatazione delle profonde differenze

tra i due riscontrabili in ordine a due degli elementi costitutivi dello Stato, quali il popolo ed

il territorio.

Ad una osservazione pi compiuta, tuttavia, gli argomenti che fanno propendere per la

tesi dellincorporazione-annessione, e dunque per la continuit tra Regno di Sardegna e

Regno dItalia, risultano preponderanti.

Innanzi tutto, la fusione non astrattamente configurabile per tutti i casi di riunione di

territori, bens soltanto per quelli che hanno visto una unione tra due entit statuali (Ducati

di Modena e Parma, Granducato di Toscana, Regno delle Due Sicilie), altrove trattandosi

necessariamente di trasferimenti di frazioni di territorio e di popolazione di uno Stato (Au-

8

stria, nel caso della Lombardia; Stato pontificio, per le Marche e lUmbria) ad un altro (Re-

gno sabaudo).

Anche cos delimitata la sua valenza, la tesi della fusione si scontra con la circostanza

che i plebisciti furono, in ogni caso, atti non di diritto internazionale ma di diritto interno, ri-

conducibili agli Stati destinati ad estinguersi oppure al Regno di Sardegna, che li aveva in-

detti facendo dipendere dal loro esito la continuazione della situazione di fatto venutasi a

creare con loccupazione militare da parte dellesercito sabaudo.

Se i plebisciti furono atti di diritto interno, appare assai problematico far derivare da essi

tutti gli effetti che postula la tesi della fusione: la manifestazione di volont di una popola-

zione, infatti, avrebbe avuto il triplice effetto di far estinguere lo Stato preesistente (ad e-

sempio, il Granducato di Toscana), di far estinguere il Regno di Sardegna, per come esso

era fino al momento del plebiscito, e di creare uno Stato nuovo, risultante dai primi due. In

buona sostanza, si sarebbe attribuito alla volont di una popolazione estranea (sino a quel

momento) al Regno di Sardegna il potere di far dissolvere il Regno di Sardegna, ci che

pare quanto meno difficilmente argomentabile. Aggiungasi che, in tal modo, si sarebbe

in presenza di una successione quasi un tourbillon di Stati nati e morti nel giro di poco

tempo, nellintervallo tra un plebiscito e laltro (giungendosi anche a recensire uno Stato

durato lo spazio di un giorno, tra l11 ed il 12 marzo 1860, data dei plebisciti toscano ed

emiliani).

Oltre che dai problemi che emergono a seguire la tesi opposta, la tesi della continuit

(come conseguenza della incorporazione-annessione) poi suffragata da tutta una serie

di ulteriori elementi formali e sostanziali di non trascurabile rilievo.

Per quanto attiene agli elementi formali, viene in evidenza, in primo luogo, la formula-

zione dei reali decreti emanati al fine di dichiarare, prendendo atto dei plebisciti, lavvenuta

annessione delle province di volta in volta interessate allo Stato sabaudo (da notare , pe-

raltro, che, nei decreti pi recenti, quelli cio relativi al Mezzogiorno, alle Marche ed

allUmbria, si faceva espresso riferimento, a testimonianza dellavvenuta percezione del

successo dellopera di unificazione, allo Stato italiano).

Altro aspetto rilevante per la qualificazione giuridica in termini di continuit la forma

che ha assunto la proclamazione del Regno dItalia. La legge 17 marzo 1861, n. 4671, alla

quale si riconduce tradizionalmente la proclamazione ufficiale del nuovo Regno, si limi-

tava a prevedere, nel suo articolo unico, che Vittorio Emanuele II assume[va] per s e

per i suoi successori il titolo di Re dItalia: la continuit con il Regno di Sardegna qui

dimostrata dalla laconicit di un testo che parrebbe quasi tendere a risolvere lintero pro-

9

cedimento di unificazione nellattribuzione al sovrano sabaudo di un nuovo titolo.

Puramente formale, ma non per questo da trascurare aprioristicamente, nella misura in

cui si inserisce nel contesto appena descritto, la decisione che fu assunta di mantenere

inalterata la numerazione ordinale del Re ed anche quella delle legislature, che fece s che

la prima legislatura del Parlamento post-unitario fosse connotata dal numero ordinale

VIII, a segnare il continuum rispetto alle sette legislature del Parlamento subalpino (dal

1848).

Relativamente agli aspetti di sostanza che indicano uno stretto legame tra ci che pre-

cedette e ci che segu lunificazione istituzionale della penisola pu sottolinearsi la circo-

stanza che, nei rapporti internazionali, rimasero fermi soltanto i trattati stipulati dal Regno

di Sardegna, cadendo invece quelli stipulati dagli altri Stati.

Ad essere veramente dirimente , peraltro, la spiccata continuit normativa tra il Regno

subalpino ed il Regno italiano, prodotto di una generale estensione del complesso del dirit-

to positivo piemontese allintera penisola, simbolizzato dalla estensione a tutta la penisola

della vigenza dello Statuto albertino (su cui, v. infra) e veicolato, altres, dalla legge 20

marzo 1865, n. 2248, sullunificazione amministrativa del Regno, comprensiva di sei alle-

gati, concernenti, rispettivamente, la legge comunale e provinciale, quella di pubblica sicu-

rezza, quella sulla sanit pubblica, quella sul Consiglio di Stato, quella sul contenzioso

amministrativo e quella sui lavori pubblici. Linsieme di queste normative (e di altre, prece-

denti e successive), per quanto esse potessero apparire parzialmente nuove, si caratteriz-

zava per il forte legame con il diritto piemontese (non a caso significativamente innovato

nel 1859, nella prospettiva dellampliamento della sua sfera territoriale).

Non dunque casuale che, per argomentare sul piano teorico la tesi

dellincorporazione-annessione, chi come MORTATI ha preso spunto da questa conti-

nuit normativa, ha potuto constatare il mancato mutamento della c.d. costituzione mate-

riale, testimoniato dal fatto che lestensione al resto della penisola del complesso nor-

mativo vigente in Piemonte fu espressione del predominio delle forze accentrate intorno

alla monarchia, che riusc a frustrare laspirazione di quelle lites le quali, sotto la guida

spirituale di Mazzini, tendevano a realizzare un ordinamento del tutto diverso che si ade-

guasse alle nuove esigenze.

2. Lantefatto istituzionale: lo Statuto albertino

La conclusione cui si giunti in tema di continuit della costituzione materiale tra il Re-

10

gno di Sardegna ed il Regno dItalia rende indefettibile, ogniqualvolta si vadano ad analiz-

zare le istituzioni post-unitarie, un flashback che consenta di tratteggiare la struttura delle

istituzioni subalpine, destinate a divenire le prime dellItalia unita.

In una indagine siffatta, valido punto di partenza pu essere quello della promulgazione

dello Statuto concesso dal Re Carlo Alberto ai regnicoli sardi il 4 marzo 1848, e destinato

a reggere lo Stato italiano almeno per tutto il periodo monarchico-liberale (sulla perdurante

validit dello Statuto in epoca fascista, v. infra).

Per cogliere appieno la natura di questa carta costituzionale, conviene esaminare parti-

tamente il contesto nel quale essa venne redatta e le sue caratteristiche formali.

2.1. Quando londata rivoluzionaria del 1847-1848 scosse lEuropa continentale, il Re-

gno di Sardegna era ben lungi dal potersi considerare come uno Stato politicamente e so-

cialmente avanzato. Il regnante, Carlo Alberto, una volta salito al trono nel 1831, aveva a-

biurato le giovanili simpatie liberali (che lo avevano condotto ad appoggiare, durante i

moti del 1821, i militari rivoltosi) in favore della conservazione di istituzioni monarchiche

largamente ispirate al modello assolustico di Ancien rgime.

Sul finire del 1847, tuttavia, la penisola italiana veniva percorsa da aliti riformistici (so-

prattutto nello Stato pontificio, dopo lavvento al soglio di Pio IX, e nel Granducato di To-

scana), riverberatisi, allinterno del Regno di Sardegna, in dimostrazioni e moti di piazza,

che, tra il settembre e lottobre, si verificarono a Genova ed a Torino, e che indussero il

monarca sabaudo a licenziare i pi reazionari tra i suoi ministri ed a concedere alcune, pur

timide riforme (annunciate il 30 ottobre e consistenti, tra laltro, nellabolizione di alcuni tri-

bunali straordinari, nellintroduzione di una limitata libert di stampa e nel passaggio della

polizia, gi incardinata nel Ministero della guerra, al Ministero degli interni).

Con il 1848, e la deflagrazione di una ondata rivoluzionaria che finir per coinvolgere

lintero continente, le riforme albertine si appalesarono insufficienti a soddisfare una opi-

nione pubblica profondamente colpita dal proclama del 29 gennaio con il quale il sovrano

di un regno notoriamente arretrato sul piano politico, quale quello delle Due Sicilie, promi-

se la concessione di una Costituzione, poi effettivamente promulgata il 12 febbraio, sulla

base del modello rappresentato dalla costituzione francese del 1830 (la Costituzione c.d.

orleanista).

La decisione del Re di Napoli ebbe vasta eco negli Stati della penisola, tanto che, nel

giro di poche settimane, costituzioni vennero concesse anche nel Granducato di Toscana

11

(17 febbraio) e nello Stato pontificio (14 marzo).

in questo contesto che, su pressione dellopinione pubblica, il Re di Sardegna si apr

alle istanze riformatrici. Qualche giorno dopo il proclama del Re di Napoli, Carlo Alberto

convoc (3 febbraio) un Consiglio di conferenza (lorgano corrispondente, in larga misu-

ra, a quello che verr poi denominato Consiglio dei ministri), in cui discutere della conces-

sione di una costituzione.

Quale fosse latteggiamento della monarchia e dei ministri e quali fossero le intenzioni

che li animavano ben rappresentato dalla frase con cui il Ministro dellinterno, Borelli, ar-

goment la propria posizione (peraltro condivisa da tutti i colleghi) in merito alla promulga-

zione di una costituzione: bisogna concederla, non farsela imporre; dettare le condizioni,

non riceverle [T.d.A.]. In buona sostanza, tutti i ministri di Carlo Alberto, professandosi

ostili, in astratto, ad ogni limitazione dellautorit regia, si pronunciarono nondimeno a fa-

vore della costituzione, ch essa veniva percepita alla stregua di un male minore, se

non addirittura come un passo ineluttabile (dir, ancora, Borelli: la costituzione un male

[]. Ma questo inconveniente sarebbe meno grande dellaltro. dunque meglio [] adot-

tare un rimedio che sar forse una sventura, che cadere in un male pi grande. [] questo

rimedio una costituzione [T.d.A.]).

Allesito della riunione del 3 febbraio consegu una nuova convocazione del Consiglio di

conferenza, allargato ad una decina di personalit di diverse tendenze, per il 7 febbraio.

La discussione allora svoltasi si concluse con una conferma degli intendimenti gi espressi

e con la decisione di emanare un proclama reale che, unitamente allannuncio della

concessione della costituzione, enucleasse quelli che ne sarebbero stati i caratteri fonda-

mentali.

Il giorno seguente, venne pubblicato un proclama con il quale Carlo Alberto dichiarava

di voler concedere un compiuto sistema di governo rappresentativo, che si fondasse su

una serie di principi contestualmente enunciati in quattordici articoli. Tra i cardini del nuovo

sistema si segnalavano, in particolare: il riconoscimento della religione cattolica come reli-

gione ufficiale dello Stato (gli altri culti essendo tollerati, conformemente a previsioni le-

gislative); lirresponsabilit del Re, il quale sarebbe comunque rimasto lunico titolare del

potere esecutivo; lattribuzione del potere legislativo al Re ed a due camere, di cui una e-

lettiva e laltra di nomina regia; lesercizio della giurisdizione, nel nome del Re, da parte di

giudici inamovibili; la garanzia della libert personale; la libert di stampa (salva la previ-

sione di leggi repressive).

Cos tracciati gli assi cartesiani del testo costituzionale che doveva essere redatto, il

12

Consiglio di conferenza in composizione integrata si riun nuovamente il 10 febbraio e, do-

po sole cinque sedute, present al sovrano uno Statuto, promulgato il 4 marzo e pubbli-

cato in duplice lingua (in italiano a Torino, in francese lingua in cui le sedute del Consi-

glio di conferenza si svolsero a Chambry, in Savoia).

Le vicende che seguirono, con la radicalizzazione dellondata rivoluzionaria, videro le i-

niziali vittorie dei liberali successivamente annichilite dal ritorno delle forze moderate e re-

azionarie, s che tutte le costituzioni quarantottesche erano, alla fine del 1849, solo un ri-

cordo. Tutte, tranne una: lo Statuto del Regno di Sardegna era, infatti, sopravvissuto alla

disastrosa guerra tra Piemonte ed Austria. Da quel momento, lo stato sabaudo rest

lunica entit politica italiana nella quale non fosse stato restaurato un regime di stampo

prettamente reazionario; su di esso, dunque, si concentrarono come si accennato le

speranze di molti fautori dellunificazione.

2.2. Il frangente in cui lo Statuto venne redatto caratterizz fortemente il testo, per ci

che attiene sia al suo significato storico-politico originario che ai suoi aspetti formali, oltre

che, ovviamente, ai contenuti in esso trasfusi.

Tralasciando, per il momento, lanalisi dei contenuti, pare di poter dire che il contesto in

cui la carta vide la luce e larrire-pense dei redattori costituiscono una efficace chiave di

lettura per spiegare, quanto meno con buona approssimazione, (a) la denominazione che

alla carta venne data, (b) la scelta dei modelli di riferimento, ma anche (c) il tipo di costitu-

zione che ne risult.

(a) Alla luce dellevoluzione del diritto costituzionale posteriore alle rivoluzioni francese

ed americana, il nomen Statuto fondamentale del Regno suona anacronistico, se vero

che le carte fondamentali dei regimi ottocenteschi si definiscono tutte (o quasi) costitu-

zione.

La diversa denominazione fu scelta essenzialmente per la sua alienit da ogni afflato ri-

voluzionario, generalmente veicolato, nellet della Restaurazione, dalla lotta per la costi-

tuzione che animava la nascente classe borghese italiana ed europea. Lutilizzo di una

sorta di vox media si coniugava dunque assai meglio, rispetto a denominazioni politica-

mente pi impegnative, con lintenzione di tenersi ben distanti da un sovvertimento

dellesistente ( indubbio, lo si visto, che si volesse concedere quanto necessario, ma

pur sempre il meno possibile).

Lindividuazione in concreto della vox media da utilizzare fu suggerita dalla necessit di

13

proporre un nome che avesse comunque una qualche valenza evocativa: in tal senso, lo

Statuto appariva particolarmente adatto in ragione del suo richiamare lesperienza co-

munale del Basso Medioevo, idealizzata ad un tempo come simbolo della lotta contro

lautocrazia imperiale e come espressione di una et gloriosa per la penisola italiana.

(b) In ordine ai modelli cui il Consiglio di conferenza si rifece nel redigere la carta alber-

tina, ampiamente attestata la forte influenza che sui redattori dello Statuto esercitarono

le carte costituzionali francesi del 1814 e del 1830. La prima, in particolare, rappresentava

il ritorno ad una monarchia limitata dopo il periodo rivoluzionario, nel quadro di una Re-

staurazione che, da moderata, sarebbe divenuta, ma solo con il tempo (specie con

lascesa al trono di Carlo X, nel 1824), apertamente reazionaria. La Costituzione orleani-

sta, nel 1830, rappresentava un aggiornamento a tratti, una riproposizione della carta

precedente, modificata essenzialmente nella base di legittimazione (la sovranit popolare

sostituiva la legittimazione dinastica del potere), pi che nella struttura delle istituzioni.

Lo Statuto albertino fu modellato, in buona parte, su questi esempi (in taluni casi anche

attraverso una mera traduzione delle disposizioni), rivisitati per in chiave pi tradizionale

e conservatrice, come dimostrava, tra laltro, lordine degli argomenti trattati: ad esempio,

le carte del 1814 e del 1830 si aprivano con un breve elenco dei diritti dei francesi (lart. 1

sanciva il principio di eguaglianza formale), mentre lo Statuto sanciva, allart. 1, il carattere

confessionale dello Stato, per poi soffermarsi lungamente sulla figura del Re e ma in

modo pi sbrigativo e solo dallart. 24 sui diritti degli individui.

La preponderanza dellinfluenza delle carte francesi non venne intaccata che molto par-

zialmente dalla Costituzione belga del 1831, ritenuta troppo avanzata dai redattori dello

Statuto. Pressoch nessuna eco ebbe, invece, la tradizione costituzionale britannica, solo

sommariamente (ed in modo approssimativo) conosciuta, mentre del tutto ignorata fu la

Costituzione americana.

In definitiva, lo Statuto albertino si poneva in linea di stretta continuit con la Restaura-

zione francese e, paradossalmente, lo faceva proprio negli stessi giorni in cui, con

linsurrezione parigina del 22 febbraio 1848, la monarchia orleanista crollava e si instaura-

va una repubblica che, dopo un periodo di assestamento, si sarebbe dotata, il 4 novem-

bre, di una costituzione affatto nuova.

(c) Dallaver seguito un modello che si era appena rivelato vecchio, e dallaverlo fatto,

oltretutto, limandone alcuni degli aspetti pi progressisti, risult un tipo di legge fondamen-

tale che, per i caratteri suoi propri, si inseriva a pieno titolo nellalveo delle costituzioni sino

ad allora esistenti. In particolare, lo Statuto albertino, alla stessa stregua della maggior

14

parte delle carte del primo Ottocento, poteva definirsi come una costituzione (i) ottriata, (ii)

bilancio, (iii) flessibile e (iv) breve.

i) stato sin qui evidenziato come lo Statuto fosse stato promulgato su iniziativa del Re

di Sardegna e dei suoi consiglieri, sul presupposto dellassoluta libert, sul piano giuridico,

in merito allan della promulgazione. Il preambolo della Carta era, in tal senso, inequivoca-

bile, l dove Carlo Alberto affermava: con lealt di Re e con affetto di padre Noi veniamo

oggi a compiere quanto avevamo annunziato ai nostri amatissimi Sudditi, col Nostro pro-

clama dell8 dellultimo scorso febbraio []. [] di Nostra certa scienza, Regia Autorit,

avuto il parere del Nostro Consiglio, abbiamo ordinato ed ordiniamo in forza di Statuto e

Legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della Monarchia, quanto segue [].

Una lettura superficiale di questi passi del preambolo rende palese il carattere ottriato

(da octroyer, concedere) dello Statuto: era il monarca, sino a quel momento assoluto,

che decideva di concedere la costituzione, utilizzando per lultima volta la formula tra-

dizionale degli atti sovrani (di Nostra certa scienza, Regia Autorit). La partecipazione

popolare era del tutto assente dal procedimento di formazione; era ignorata dal preambolo

ogni pressione proveniente dallesterno del palazzo reale; ogni possibile sollecitazione di-

versa dal moto spontaneo del sovrano, per il fatto stesso di essere taciuta, era confinata al

piano degli antefatti giuridicamente irrilevanti di natura politica e sociale.

Ad una analisi pi attenta, tuttavia, il preambolo suggerisce lopportunit di scindere il

piano formale da quello sostanziale. Se, infatti, formalmente la constatazione che si tratti

di una costituzione ottriata inoppugnabile, sul piano sostanziale non deve essere sotto-

valutato il riferimento allacquisizione del parere del Consiglio di conferenza n quello al

proclama reale di un mese prima. Entrambi questi elementi richiamavano una sorta di im-

plicito patto tra il sovrano, da un lato, e, dallaltro, la classe dirigente ed il popolo tutto, un

patto costituzionale con cui il Re andava incontro alle richieste liberali (incentrate

sullintroduzione di un governo rappresentativo, non a caso enfatizzata nel proclama

dell8 febbraio), affinch i beneficiari della concessione rinunciassero alla mobilitazione di

piazza e finanche al sovvertimento dellordine costituito (in tal senso, le parole di Borelli ci-

tate in precedenza sono quanto mai significative).

In definitiva, la qualificazione dello Statuto fondamentale del Regno duplice: formal-

mente ottriata, sostanzialmente pattizia (o, forse meglio, cripto-pattizia).

ii) I termini del citato patto costituzionale rendono palese la configurabilit dello Statuto

alla stregua di una costituzione-bilancio, una costituzione, cio, che non si propone un

programma di innovazione della societ e delle istituzioni che si estenda nel futuro, ma

15

che, viceversa, tende a fare il punto sulla situazione presente, per come essa si venuta

configurando, in funzione di una sua conservazione e di una sua razionalizzazione.

La monarchia sabauda, conscia dellimpossibilit di mantenere istituzioni ereditate

dallAncien rgime, cedette (per quanto fosse indispensabile) alle pressioni liberali, rialli-

neando in tal modo le istituzioni alla societ. Il fine dichiarato era, ovviamente, quello di

consolidare lo status quo, lungi restando lidea di proseguire nel solco appena tracciato.

Levoluzione, per certi versi profonda, che il sistema conoscer sar resa possibile da

una diversa interpretazione dello Statuto propugnata, negli anni a venire, da (buona) parte

del ceto politico; per Carlo Alberto, e per i suoi consiglieri, la costituzione concessa doveva

essere come si sottolineava nel preambolo perpetua ed irrevocabile.

iii) Lorigine e le finalit dello Statuto ebbero profonde ripercussioni anche sulla colloca-

zione della carta costituzionale nel sistema.

Per tradizione consolidata, lo Statuto albertino definito come una costituzione flessibi-

le (anzi, come un esempio tipico di costituzione flessibile), alluopo potendosi addurre sia

lassenza di un procedimento di revisione costituzionale, sia e soprattutto lampio ricor-

so, gi nei primi mesi della sua vigenza, a modificazioni tacite e, sia pure in minor misura,

esplicite da parte di fonti legislative ordinarie.

Tra le modificazioni tacite, si segnalano, per solito, la profonda modifica dellassetto del-

la forma di governo e la perdurante vigenza della carta anche dopo il mutamento della

forma di Stato durante il ventennio fascista (su entrambi i temi, v. infra).

Tra le modificazioni esplicite possono distinguersi quelle che hanno avuto leffetto di e-

spressamente derogare pro futuro a disposizioni costituzionali da quelle che si sono so-

vrapposte alle medesime disposizioni, giungendo in qualche caso a svuotarle di significa-

to.

Nel primo senso, pu citarsi il proclama di Carlo Alberto del 23 marzo 1848 con cui,

meno di tre settimane dopo la promulgazione dello Statuto, si ordinava che le truppe im-

pegnate nella guerra contro lAustria sostituissero la bandiera dello Stato di cui allart. 77

con quella tricolore. Qualche giorno pi tardi, il regio decreto 11 aprile 1848 imponeva di

issare la nuova bandiera su tutte le navi militari e mercantili.

Tra le sovrapposizioni normative, invece, possono citarsi, per un verso, tutte quelle leg-

gi che, di volta in volta, ampliarono o restrinsero i margini di libert statutariamente ricono-

sciuti agli individui, e, per laltro, la successione di leggi che piegarono la natura confes-

sionale dello Stato ai canoni liberali dal Cavour sintetizzati nel motto libera Chiesa in libe-

16

ro Stato.

Gli argomenti, che parrebbero univocamente diretti a suffragare la tesi della flessibilit

dello Statuto, sono stati recentemente contestati da chi (come PACE) ha evidenziato che,

in realt, lo Statuto era nato come rigido (anzi, iper-rigido) e che flessibile lo era poi diven-

tato.

In favore della tesi della originaria rigidit della carta sarda militerebbero, per un verso,

laffermazione della sua perpetuit e della sua irrevocabilit e, per laltro, lassenza di ogni

previsione in merito al procedimento di revisione costituzionale, dalla quale dovrebbe de-

sumersi, non gi la modificabilit con semplice legge ordinaria, bens la radicale immodifi-

cabilit delle disposizioni statutarie. Ponendosi in questottica, il carattere flessibile dello

Statuto sarebbe il frutto del mutare della situazione socio-politica, tale da provocare un

precoce invecchiamento di un testo che, per parte sua (in ragione di quanto sopra accen-

nato relativamente ai suoi modelli), gi era nato un po attempato.

La tesi ora menzionata, condivisibile nellanalisi del procedimento che ha condotto ad

una perdita di autorit dello Statuto sul piano politico, non lo altrettanto, almeno cos pa-

re, nel suo presupposto di partenza. Se liper-rigidit corrispondeva certamente alle inten-

zioni del sovrano, essa non era stata tuttavia pienamente tradotta in termini normativi (a tal

riguardo, potrebbe magari impiegarsi la constatazione, da GIANNINI formulata ad altro pro-

posito, secondo cui la carta non [era] un capolavoro di tecnica giuridica).

Per quanto attiene alla definizione dello Statuto come Legge fondamentale perpetua

ed irrevocabile della Monarchia, a prescindere dalla problematica attribuzione di effetti

giuridici ad una affermazione contenuta non nellarticolato ma nel preambolo, pu sottoli-

nearsi come la posposizione del genitivo (della Monarchia) allaggettivazione (perpetua

ed irrevocabile) suggerisse una lettura dellinciso in chiave non oggettiva, ma soggettiva.

Altrimenti detto, la perpetuit e lirrevocabilit non erano da riferirsi allo Statuto, quanto

piuttosto allatto di concessione del sovrano: lo Statuto parrebbe, cio, essere stato una

concessione che Carlo Alberto avrebbe fatto ai suoi sudditi, una concessione vincolante

per s e per i suoi successori, una concessione che avrebbe sigillato limplicito patto costi-

tuzionale con le forze liberali. Nel preambolo, dunque, nulla veniva detto in ordine al pote-

re di queste ultime di modificare lo Statuto; si diceva soltanto che il sovrano assoluto si au-

to-limitava pro futuro, impegnandosi di fronte al popolo a non revocare formalmente o

per facta concludentia la carta costituzionale, ci che invece sarebbe stato fatto, di l a

poco, da tutti gli altri sovrani della penisola italiana, sullesempio del Re di Napoli (che gi

il 15 maggio 1848 aveva inaugurato la svolta reazionaria).

17

Ad analoghi esiti conduce lassenza di un procedimento aggravato di revisione costitu-

zionale. Lungi dal significare un implicito divieto di ogni revisione (peraltro prontamente

smentito, come detto, dallo stesso Carlo Alberto), tale assenza doveva essere contestua-

lizzata alla luce dello stato della dottrina costituzionalistica ottocentesca, ancora fortemen-

te ancorata almeno in Europa al dogma dellonnipotenza del legislatore, con il che, l

dove un procedimento ad hoc facesse difetto, non poteva che applicarsi la regola generale

che vedeva nella legge un atto idoneo a recare qualunque contenuto, con la conseguenza

di far rifluire il procedimento di revisione costituzionale nellalveo del procedimento legisla-

tivo ordinario. Prova ne sia il fatto che quei costituenti europei che, in quegli anni, intesero

redigere una costituzione rigida (come quella belga) ebbero cura di esplicitarlo attraverso

la previsione di un procedimento che rendesse la revisione pi ardua rispetto

allapprovazione di una qualunque altra legge. Negli altri casi (come, ad esempio, in Fran-

cia), la legge rest sovrana.

In questottica, la definizione dello Statuto albertino come legge fondamentale, pure

contenuta nel preambolo, doveva essere letta ponendo lenfasi non sullaggettivo (onde

argomentare la sua diversit rispetto alle altre leggi), ma sul sostantivo (onde accomunarlo

agli altri atti di rango legislativo). La fondamentalit, semmai, si tradurr in una maggiore

autorit (rectius, autorevolezza) meta-giuridica rispetto alle altre leggi, la quale fece s che,

nel corso dei decenni, lo Statuto venisse sovente invocato per opporsi o per sostenere de-

terminate posizioni e determinate leggi, ma ci sempre nella dialettica politica e mai (o

quasi: v. infra) nelle sedi propriamente giudiziarie.

Questa ricostruzione, daltra parte, quella che, meglio delle altre, sembra coniugare il

carattere della irrevocabilit ex parte principis dello Statuto con la natura cripto-pattizia

dello stesso. Sul presupposto della modificabilit da parte del legislatore, infatti, il Re si sa-

rebbe, s, privato della possibilit di tornare indietro, ma si sarebbe al contempo salva-

guardato dal vedersi imporre riforme ulteriormente progressiste, se vero che,

nellimpianto statutario (poi parzialmente superato nella prassi), il potere legislativo doveva

essere esercitato congiuntamente dalle due camere (con lapprovazione delle leggi) e dal

Re (con la sanzione e la promulgazione): il patto costituzionale era dunque garantito

dallequilibrio tra i due contraenti.

iv) Sul piano strutturale, lo Statuto fondamentale del Regno di Sardegna da annove-

rarsi tra le costituzioni brevi, tipiche del XIX secolo. Nel caso dello Statuto, in particolare, la

brevit si apprezzava sotto un duplice punto di vista.

Per un verso, larticolato si concentrava essenzialmente sullassetto istituzionale, limi-

18

tandosi ad un sintetico e lacunoso catalogo di diritti di libert (collocato nel titolo Dei diritti

e dei doveri dei cittadini: articoli 24-32). Il numero di articoli, relativamente ridotto (ottan-

taquattro, di cui tre disposizioni transitorie) era dunque specchio della distanza rispetto alle

costituzioni novecentesche, la cui lunghezza sar generalmente manifestazione di una pi

compiuta enucleazione dellinsieme dei diritti e dei doveri degli individui.

Per altro verso, la brevit poteva essere intesa nel senso che la sintetica formulazione

di molte disposizioni rese le medesime tanto laconiche da fornire nulla pi che una cornice

assolutamente minimale allinterno della quale lattivit dei pubblici poteri avrebbe dovuto

svolgersi. In tal senso, ben pu dirsi che lo Statuto albertino, sorvolando su taluni aspetti

anche essenziali, si mostr lacunoso e, recando non poche formulazioni generiche, si

mostr elastico nei suoi contenuti. Entrambe queste caratteristiche agevoleranno una

costante opera di interpretazione e di reinterpretazione cui la carta sar sin da subito sog-

getta.

In parallelo con la sua flessibilit, lo Statuto vide le sue disposizioni, formalmente immu-

tate per decenni, divenire norme sempre pi orientate in senso evolutivo. Ci contribu in

modo decisivo alla sopravvivenza della carta albertina, sancendone, quanto meno sino

allavvento del fascismo, la capacit di adattarsi alle mutevoli esigenze storiche che se-

gnarono i primi decenni dellItalia post-unitaria. Incapaci di orientare in modo rigido la

prassi costituzionale, le disposizioni redatte nel 1848 la assecondarono, fino al momento

in cui risultarono, di fatto, definitivamente superate.

Seconda lezione La forma di Stato nel periodo monarchico-liberale

Per fornire un inquadramento generale della forma di Stato propria del Regno italiano

nei decenni successivi allunit, possono essere individuati alcuni criteri di riferimento, on-

de analizzare partitamente la natura delle istituzioni e dei rapporti tra queste e la societ

civile alla luce delle forme di esercizio della sovranit, delle modalit di tutela dellinteresse

generale nei rapporti economici e sociali, dellapplicazione del principio pluralistico in chia-

ve territoriale e della tutela giuridica apprestata alle situazioni giuridiche soggettive.

In relazione ai quattro criteri appena enucleati, il Regno dItalia pu essere definito, ri-

spettivamente, come uno Stato [A] elitario a tendenza democratico-rappresentativa, [B] li-

berale, [C] unitario e [D] di diritto.

[A] Uno Stato elitario a tendenza democratico-rappresentativa. La storia del periodo

monarchico-liberale pu essere utilmente esaminata in base alla tensione tra la conserva-

zione dei postulati tradizionali della sovranit e lintroduzione di forme pi o meno avanza-

te di legittimazione del potere: fu, in effetti, costante il confronto talvolta ai fini di una

composizione, talaltra ai fini di una contrapposizione tra la sovranit di matrice dinastica,

traslitteratasi nella egemonia di una ristretta cerchia di impronta oligarchica, e la sovranit

popolare. Questo confronto rimase, nel corso dei decenni, fondamentalmente irrisolto,

sebbene il principio democratico (con la connessa sovranit dal basso) fosse andato

acquisendo un peso ed uno spazio crescenti.

In ragione di questa considerazione liminare, pu dirsi che, per quanto il principio de-

mocratico non sia mai giunto ad una definitiva affermazione sul piano effettuale (da ci la

possibile definizione di Stato a-democratico), esso ha segnato una linea di tendenza

ben rintracciabile, almeno nel lungo periodo (da ci, forse, la possibilit di aggiungere qua-

le definizione secondaria quella di Stato tendenzialmente democratico).

Il riferimento al concetto di tendenza appare particolarmente adeguato, nella misura

in cui pu essere declinato, ad un tempo, come una propensione verso e come un

mancato raggiungimento di un obiettivo, e pu perci riassumere sia la dinamica in ba-

se alla quale listanza democratica divenne progressivamente preponderante rispetto ad

un impianto istituzionale (e ad un anelito mai sopito) di segno opposto sia lassenza di una

compiuta affermazione della sovranit popolare come fonte di legittimazione dellazione

dei pubblici poteri.

20

Senza pretesa di completezza, possono qui prendersi in considerazione due processi

connessi, entrambi convergenti nel senso sopra indicato: (1) lestensione del diritto di suf-

fragio, da un lato, e (2) la rilevante crescita, negli equilibri della forma di governo, degli or-

gani riconducibili alla volont popolare. Limportanza di questi due processi giustifica, al-

meno cos pare, il riferimento, nella definizione proposta, alla rappresentativit: nella pres-

soch totale assenza di strumenti partecipativi e, men che meno, di democrazia diretta (lo

svolgimento dei plebisciti di annessione, per la loro eccezionalit, non tale da inficiare

questa affermazione), il principio democratico fu veicolato esclusivamente nella forma del-

la rappresentanza, giocandosi dunque essenzialmente in termini di capacit elettorale e di

incidenza della selezione degli eletti sulla vita delle istituzioni.

1) stato gi ripetutamente sottolineato come lo Statuto albertino fosse nato con la

precipua finalit di conservazione nei limiti del possibile degli istituti tradizionali, nel

quadro di un allargamento assai temperato della partecipazione alla cosa pubblica, la qua-

le, da monopolio della Corona e dellaristocrazia, veniva ad aprirsi anche alle classi diri-

genti borghesi, sostituendo in tal modo uno Stato assoluto di Ancien rgime con uno Stato

a matrice (fortemente) elitaria. A questa prima apertura ne sarebbero seguite altre, in pa-

rallelo con i mutamenti indotti, dapprima, dallestensione territoriale del Regno di Sardegna

(che comport la necessit di integrare le lites dei territori via via entrati a far parte dello

Stato) e, poi, dalla ridefinizione degli assetti sociali che a partire dalla fine del XIX secolo

fece emergere come soggetti politici autonomi da integrare nelle istituzioni per garanti-

re ad esse la sopravvivenza le classi operaia e contadina, secondo modalit tali da as-

sociare queste ultime a politiche comunque guidate dallalto.

Una tale dinamica trova una significativa testimonianza nellestensione del diritto di elet-

torato attivo e passivo per la Camera dei deputati (una estensione analoga, sebbene ope-

rata in tempi diversi, si ebbe anche per gli organi elettivi di comuni e province). Sul punto,

lo Statuto albertino si mostrava quanto mai elastico, allart. 39 prevedendo che la Ca-

mera Elettiva [era] composta di Deputati scelti dai Collegi Elettorali conformemente alla

Legge, e rinviando cos integralmente a fonti successive lintera materia elettorale.

Astrattamente, qualunque soluzione poteva essere adottata: anche quelle sperimentate

dai governi rivoluzionari del 1848, i quali, a Milano come a Venezia, in Toscana come a

Roma, avevano introdotto il suffragio universale maschile. La soluzione fu seguita, nel ca-

so del Regno di Sardegna e, poi, del Regno dItalia, soltanto in occasione dei plebisciti che

scandirono il processo di unificazione della penisola: ci, evidentemente, al fine di meglio

esplicitare il sostegno popolare a questo processo. Per le elezioni politiche, per, il suffra-

21

gio universale venne escluso ab initio e per lungo tempo in conseguenza di una diffi-

denza, assai diffusa nel notabilato, nei confronti delle masse, derivante dal pregiudizio in

ordine alla corruttibilit del povero e dellignorante, ma anche dal timore di veder

messo a repentaglio lordine costituito, sia creando uno Stato che superasse, in chiave

progressista, la visione della classe dirigente, sia affidando le istituzioni alla preponderan-

za numerica di una massa ritenuta (sia nella componente maschile che, ed in maggior mi-

sura, in quella femminile) troppo facilmente strumentalizzabile ad opera delle forze clerico-

reazionarie in funzione anti-risorgimentale.

La scelta del sistema censitario venne sancita con il regio decreto 17 marzo 1848, n.

680, il quale deline una composizione del corpo elettorale che rest giuridicamente quasi

inalterata anche dopo lavvenuta unificazione. I diritti politici venivano riconosciuti ai ma-

schi che avessero compiuto i venticinque anni, che fossero alfabetizzati e che fossero as-

soggettati ad una imposta diretta annua pari alla ragguardevole cifra di quaranta lire. La

somma era dimezzata per tutta una serie di categorie, individuate su base territoriale (gli

abitanti della Liguria, di Nizza e della Savoia), culturale (i laureati) o professionale (i notai,

gli avvocati, i direttori di stabilimenti industriali di medio-grandi dimensioni, i capitani marit-

timi, determinati impiegati civili a riposo, etc.). Il censo era escluso dai requisiti legittimanti

lesercizio dei diritti politici per alcune altre categorie, in gran parte riconducibili alle lites

culturali (i membri di alcune accademie, i docenti di scuole regie e di universit), militari (gli

ufficiali di rango superiore) o professionali (i membri delle Camere di commercio).

Una volta raggiunta lunit, la legge 17 dicembre 1860, n. 4513, estese a tutto il territo-

rio nazionale le previsioni contenute nel decreto del 1848 (emendato nel 1859, ma solo su

aspetti di dettaglio), con il risultato che la gi esigua percentuale di elettori rispetto alla po-

polazione si assottigli ulteriormente (in ragione della maggiore arretratezza economica di

alcune parti della penisola rispetto al Piemonte), attestandosi attorno al 2%.

Negli anni settanta, la Sinistra, ancora allopposizione, pose con forza la questione

dellallargamento del suffragio, proponendo di agire su due dei tre requisiti fondamentali,

vale a dire abbassando let minima da venticinque a ventuno anni (corrispondente alla

maggiore et civile) ed eliminando drasticamente il requisito censuale.

Giunta al governo nel 1876, la Sinistra impieg per sei anni per approvare una riforma

elettorale che corrispondesse, sia pure solo parzialmente, ai propri intendimenti iniziali. La

legge 22 gennaio 1882, n. 593, abbass, in effetti, il limite anagrafico per lelettorato attivo

a ventuno anni; il requisito censuale, tuttavia, venne eliminato solo per coloro che sapes-

sero leggere e scrivere (lalfabetizzazione divenendo, in tal modo, un requisito alternati-

22

vo a quello censuale) e per alcune categorie ulteriori rispetto a quelle per le quali gi era

escluso, mentre, per la generalit degli individui, venne soltanto dimezzato (limposta an-

nua da corrispondere venne fissata a poco meno di venti lire). Con questa riforma (c.d.

Zanardelli, dal nome del proponente), la consistenza del corpo elettorale risultava triplica-

ta; lallargamento non era comunque tale da poter evocare, neppure da lontano, il suffra-

gio universale (maschile), se vero che gli aventi diritto al voto si aggirarono, dal 1882 in

poi, attorno al 7% del totale della popolazione.

La crescita di una classe operaia ed il ruolo politico assunto dai partiti espressione dei

ceti subalterni rese improrogabile la necessit di dare una adeguata rappresentanza a

questi nuovi soggetti. Fu il quarto Governo Giolitti a far approvare la legge 30 giugno 1912,

n. 665, con cui agli aventi diritto ai termini della legge del 1882 si aggiunsero tutti coloro

che anche analfabeti ed anche privi dei requisiti censuali avessero gi prestato servi-

zio militare e tutti coloro che avessero superato il trentesimo anno di et (prescindendo da

ulteriori condizioni). Da allargato, il suffragio divenne quasi universale (pur se ancora uni-

camente maschile), andando a coprire quasi un quarto dellintera popolazione.

Il testo unico 2 settembre 1919, n. 1495, sanc la definitiva affermazione del diritto di vo-

to a tutti i maschi maggiorenni, allargando cos ulteriormente le basi di legittimazione delle

istituzioni (per il suffragio femminile si dovr, tuttavia, attendere sino alle elezioni ammini-

strative del 1945).

Allestensione del diritto di elettorato attivo non corrisposero evoluzioni di particolare ri-

lievo relativamente al diritto di elettorato passivo. Lart. 40 dello Statuto albertino stabiliva

che nessun Deputato [poteva] essere ammesso alla Camera se non [era] suddito del Re,

non [aveva] compiuta let di trentanni, non gode[va] i diritti civili e politici, e non riuni[va]

in s gli altri requisiti voluti dalla legge. Oltre allabbassamento della soglia anagrafica a

venticinque anni, linnovazione pi importante, quanto meno sul piano politico, si ebbe con

la citata legge n. 665 del 1912, la quale, insieme con lestensione dellelettorato attivo, in-

trodusse una indennit a titolo di rimborso spese (e la franchigia ferroviaria) a beneficio

degli eletti, garantendo in tal modo, attraverso un aggiramento sul piano formale

dellespresso divieto di corrispondere una retribuzione ai parlamentari (art. 50 dello Statu-

to), lingresso in Parlamento anche a deputati che non fossero benestanti.

2) Parallelamente allestensione dei diritti politici, le istituzioni andarono strutturandosi

secondo moduli tali da attribuire un ruolo vieppi influente a quegli organi che, per il loro

essere elettivi, si ponevano come interpreti della volont popolare: la Camera dei deputati,

ovviamente, ma anche, in qualche misura, il Governo, che traeva (recte, poteva trarre) la

23

propria legittimazione dal sostegno della maggioranza dei deputati.

Rinviando a quanto verr pi diffusamente argomentato in relazione alla forma di go-

verno, ci che in questa sede rileva come, se per lo Statuto albertino pochi dubbi pote-

vano nutrirsi in merito alla titolarit formale della sovranit in capo al monarca, gi con al-

cuni atti (e, pi ancora, con la prassi instauratasi) la teoria legittimista (e trascendente) ab-

bia subito contaminazioni non trascurabili, non solo ad opera dellidea elitaria della riserva

di esercizio del pubblico potere a beneficio della sanior pars (in tal senso, valga quanto

detto con riguardo alle resistenze opposte allestensione del suffragio), ma anche e pi

incisivamente, sul piano teorico ad opera del principio della sovranit popolare (o, se-

condo la definizione allora corrente, della sovranit della Nazione).

Di tutte le manifestazioni di questa contaminazione, pu assurgere a paradigma quella

contenuta nellarticolo unico della legge 21 aprile 1861, n. 1, che stabil la formula con cui

dovevano essere intestati tutti gli atti in nome del Re dItalia, prevedendo che al nome del

Re seguisse la definizione seguente: per grazia di Dio e per volont della Nazione Re

dItalia.

Il contemporaneo riferimento a due diversi titoli di legittimazione del sovrano, che sino a

quel momento si era sempre basata sulla trascendenza (lintestazione dello Statuto del

1848 cos recitava: Carlo Alberto, per la Grazia di Dio Re di Sardegna, di Cipro e di Ge-

rusalemme, []), dimostra che una qualche attenzione al volere dei sudditi venne tributa-

ta sin dallinizio del Regno dItalia. Unattenzione che, nel 1861, non era altro che formale,

ma che, in seguito, acquis tuttaltro rilievo, man mano che la posizione del Re si faceva

pi defilata nel quadro istituzionale, lasciando il campo alla preminenza del circuito Gover-

no camera elettiva.

Lelasticit dello Statuto non fece ostacolo ad una sua lettura in chiave progressiva, alla

stregua cio di un diaframma verso il passato ma non verso il futuro: con obiettivi e con

toni anche molto diversi, da Cavour a Zanardelli, da Giolitti a Turati, numerosi furono gli

statisti che lessero le disposizioni costituzionali come aperte ad una evoluzione in senso

liberale (i primi tre) o anche democratico (il quarto e, forse, anche in parte il terzo), rigido

essendo soltanto limpedimento a tornare ad una struttura istituzionale di Ancien rgime.

Non mancarono, vero, interpretazioni conservatrici, che tesero a propugnare una rigo-

rosa attinenza alla lettera delle disposizioni, magari anche attraverso un ritorno allo Sta-

tuto che avesse ragione delle interpretazioni devianti sedimentatesi (emblematico

larticolo di Sonnino, datato 1897, dal titolo Torniamo allo Statuto). E le interpretazioni con-

servatrici e finanche reazionarie ebbero anche momenti di successo (si pensi allet cri-

24

spina o alla c.d. crisi di fine secolo). Ad una visione generale del periodo, tuttavia, non

pu sfuggire una tendenziale progressiva accentuazione delle tesi di segno opposto.

[B] Uno Stato liberale. La definizione della forma di Stato del Regno dItalia nei de-

cenni successivi allunit appare pressoch scontata, allorquando si ponga mente alla de-

nominazione di fase monarchico-liberale che del periodo propria per convenzione dot-

trinale.

Ad una osservazione pi approfondita, tuttavia, la natura di Stato liberale del Regno non

manca di creare qualche difficolt, e rende comunque necessaria qualche precisazione,

concernente principalmente laccezione nella quale laggettivo liberale venga impiegata.

Se, infatti, esso fa riferimento alla filosofia cui si rifacevano le lites politiche, poche sono

le obiezioni che allimpiego del termine possono opporsi, se non forse quella ai presenti

fini, di scarso rilievo di una non costante coincidenza fra la teoria e la prassi. Meno paci-

fica lattribuzione al liberalismo di una accezione prettamente giuridica: ci, innanzi tutto,

per (1) il non compiuto recepimento di questa ideologia nellarticolato statutario, ma anche

per (2) il forte dinamismo che ha caratterizzato la storia costituzionale e che ha visto un

prevalere tendenziale delle idee liberali rispetto ad altre (senza per che queste ultime ve-

nissero specie in taluni momenti neglette), nonch per (3) il problematico rapportarsi

dello Stato italiano alla Chiesa cattolica ed al fenomeno religioso in generale.

1) Lo Statuto albertino presentava un catalogo di diritti e di doveri che segnava, in linea

generale, un indubbio avvicinamento ai postulati dello Stato liberale. Vi si riconoscevano,

infatti, i principali diritti civili (la garanzia della libert individuale, art. 26; linviolabilit del

domicilio, art. 27; la libert di stampa, art. 28; linviolabilit della propriet, art. 29; la legali-

t dei tributi, art. 30; la garanzia del debito pubblico, art. 31; il diritto di riunione, art. 32), ol-

tre ai diritti politici basilari (il diritto di voto, art. 39; il diritto di elettorato passivo, art. 40; il

diritto di petizione, art. 58). Si sanciva il principio di eguaglianza formale (art. 24) e, paral-

lelamente, il principio di proporzionalit delle imposte (art. 25). Tra i doveri costituzionali, al

fianco della soggezione alla tassazione, si poneva lobbligo di leva, la cui disciplina era pe-

raltro integralmente rimessa alla legge (art. 75).

Nellelenco appena fornito spicca lassenza di alcuni tipici diritti di libert, come, ad e-

sempio, la libert di manifestazione del pensiero ed il diritto di associazione (questultimo

in ossequio, presumibilmente, alla diffidenza, tipicamente liberale, nei confronti dei corpi

intermedi tra il cittadino e lo Stato). Al di l di queste lacune, peraltro generalmente col-

mabili, e colmate, in via interpretativa (entrambi i diritti indicati vennero ritenuti implicita-

25

mente garantiti, rispettivamente, dallart. 28, concernente la libert di stampa, e dallart. 32,

sulla libert di riunione), da evidenziare era lassenza di ogni riferimento a diritti sociali, a

dimostrazione della rigorosa aderenza ai paradigmi politico-costituzionali dellOttocento.

Anche in ordine ai diritti riconosciuti, tuttavia, deve riconoscersi come le affermazioni

statutarie presentassero un alto grado di laconicit, associata a generici rinvii alla discipli-

na legislativa e, talora, alla previsione di limiti potenzialmente assai estesi. Con ci si ri-

proponeva la tematica dellelasticit propria delle disposizioni statutarie, giustificando ex

ante il dinamismo che, in tema di diritti, sar proprio di tutto il periodo monarchico. Cos,

ad esempio, il principio di eguaglianza era costruito in modo tale da legittimare il legislato-

re a porre le pi ampie deroghe (tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono

ammessibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi: art. 24,

secondo comma), come testimoniava, solo per citare un caso, la condizione femminile.

Del pari, linviolabilit della libert personale e del domicilio rischiava di essere vanificata

dai limiti che la legge era abilitata a prescrivere (articoli 26, secondo comma, e 27). Anco-

ra, la libert di riunione era riconosciuta solo per le adunanze pacifiche e senzarmi (art.

32, primo comma) ed era radicalmente esclusa per le adunanze in luoghi pubblici od a-

perti al pubblico, i quali riman[evano] intieramente soggetti alle leggi di polizia (art. 32,

secondo comma).

2) Sulla scorta di previsioni costituzionali di tal fatta, non mancarono provvedimenti legi-

slativi (od anche, contra statutum, amministrativi) volti a limitare considerevolmente il rag-

gio di operativit dei diritti riconosciuti. Ci si verific soprattutto durante i periodi ecce-

zionali, nei quali vennero sovente attribuiti al Governo i c.d. pieni poteri (v. infra) al fine

di fronteggiare crisi interne (dal brigantaggio ad ondate di protesta popolare) o guerre.

Considerando che, almeno fino al 1870, il Regno di Sardegna e, poi, dItalia dovette af-

frontare le guerre di indipendenza, e, negli intervalli tra luna e laltra, varie crisi internazio-

nali (si pensi alla guerra di Crimea, ma soprattutto agli attriti con la Francia di Napoleone

III derivanti dalle spedizioni garibaldine contro lo Stato pontificio), si ha la misura del mar-

gine di compressione che i diritti individuali potessero subire su tutto il territorio nazionale

o su una parte di esso. Analogamente, forti limitazioni saranno imposte, pi tardi, dalla

partecipazione alla Prima guerra mondiale.

A periodi segnati da una certa vena progressista si sono dunque alternati periodi di

ripiegamento, tali da revocare in dubbio le acquisizioni raggiunte; in taluni casi, nel volgere

di qualche tempo, si assistette allapprovazione di provvedimenti di significato politico op-

posto: ad esempio, ad una conquista di civilt come il codice penale Zanardelli (1889), che

26

elimin dallordinamento la pena di morte, fece seguito un testo unico delle leggi di pubbli-

ca sicurezza fortemente repressivo della libert di stampa e di quella di riunione.

Senza diffondersi su questi aspetti, onde dimostrare la caducit delle conquiste liberali

pu essere sufficiente porre mente alla dinamica legislativa della seconda met degli anni

novanta dellOttocento: dalla repressione dei Fasci siciliani, ordinata dal Governo Crispi ed

agevolata dalla proclamazione dello stato di assedio, fino alla crisi di fine secolo, in cui

le repressioni ordinate dal Governo di Rudin, prima (a Milano, nel maggio 1898, le truppe

comandate dal generale Bava Beccaris fecero ottanta morti e pi di quattrocento feriti tra i

manifestanti), e dal Governo Pelloux, poi. Sul piano parlamentare, di particolare rilievo fu-

rono i disegni di legge che il Governo di Rudin present contemporaneamente alla re-

pressione dei moti di piazza: in essi si prevedevano, tra laltro, lo scioglimento di associa-

zioni ed il divieto di ricostituire associazioni disciolte, la militarizzazione dei ferrovieri e dei

postelegrafonici, la possibilit di censurare preventivamente i giornali e di sospenderne la

pubblicazione sino a sei mesi. Di fronte allopposizione della Camera dei deputati, il Go-

verno non riusc a far approvare questi provvedimenti, rassegnando pertanto le dimissioni.

Il successivo Governo Pelloux, ripresent modificati in senso maggiormente repressivo

i medesimi disegni di legge; allostruzionismo opposto, per la prima volta nel Parlamento

italiano, dai banchi della Sinistra e dellEstrema (sinistra), il Governo reag trasfondendo il

contenuto di parte dei disegni di legge nel regio decreto 22 giugno 1899, n. 227. La batta-

glia parlamentare si concentr allora sulla conversione di questi decreti, che non venne da

Pelloux ottenuta neppure attraverso la modifica del regolamento della Camera dei deputa-

ti. La crisi che ne deriv port, nel giugno 1900, a nuove elezioni, dalle quali la compagine

governativa usc sconfitta.

Le elezioni chiusero simbolicamente la crisi di fine secolo, aprendo una fase affatto

diversa, corrispondente alla c.d. et giolittiana, in cui, per un verso, si ripristinarono le

libert statutarie (pu constatarsi, per incidens, come linsistito richiamo allo Statuto, da

parte dellopposizione al Governo Pelloux, dimostrasse lautorit meta-giuridica che la car-

ta albertina ancora conservava) e, per laltro, si diede luogo ad una serie di innovazioni le-

gislative tese ad introdurre regimi giuridici di protezione per i lavoratori e, in generale, per

le classi meno abbienti, approfittando della felice congiuntura economica.

La legislazione sociale del Governo Zanardelli-Giolitti (1901-1902) disegn un quadro

che, lungi dal poter essere accostato a quello di un moderno Stato sociale, mostrava una

spiccata attenzione per il miglioramento delle condizioni di lavoro operaie e contadine, per

la tutela in caso di infortuni sul lavoro, per lassicurazione contro linvalidit e la vecchiaia,

27

per il lavoro femminile e minorile, per ledilizia popolare. A questa prima fase riformistica

fecero seguito, nel corso dei successivi dieci anni, il miglioramento del trattamento salaria-

le e pensionistico per gli impiegati, per i maestri elementari, per i pescatori. Contempora-

neamente, venne impostata una politica di industrializzazione, diretta a favorire lo sviluppo

delle aree economicamente depresse (il Mezzogiorno, in primis) e si procedette alla na-

zionalizzazione delle ferrovie.

Alle venature sociali dei governi Giolitti si associ una impostazione autenticamente

liberale relativamente allattitudine di fronte alle proteste popolari: contrariamente a quanto

accaduto in precedenza, il Governo mantenne una tendenziale neutralit nei conflitti tra

lavoratori e proprietari industriali ed agricoli; lo sciopero venne tollerato, cos come il di-

ritto di associazione e quello di riunione non furono pi oggetto di limitazioni legislative n,

per solito, di repressioni fattuali. I frequenti scioglimenti dei nascenti partiti e sindacati, che

avevano caratterizzato la fine del XIX secolo, vennero sostituiti da un riconoscimento de

facto del rilievo politico del Partito socialista (oltre che di altri partiti, di matrice non classi-

sta, come il Partito repubblicano) e delle organizzazioni di tipo sindacale, alla cui azione i

lavoratori affidavano la propria tutela.

Alle soglie della Prima guerra mondiale, il Regno dItalia pareva dunque giunto, dopo vi-

stose oscillazioni, a potersi definire a pieno titolo come uno Stato liberale. La guerra, con i

sacrifici imposti su questo piano, interromper questa esperienza, la quale, maturata tardi-

vamente, non aveva ancora avuto modo di consolidarsi sul piano culturale. Gli eventi suc-

cedutisi negli anni immediatamente seguenti al conflitto lo dimostreranno drammaticamen-

te.

3) Il dinamismo della prassi (quanto meno di quella inveratasi sino alla Grande guerra)

consent di superare finanche le disposizioni dello Statuto dettate in stridente contrasto

con i principi di uno Stato liberale. Lesempio pi lampante certamente quello dellart. 1,

ai sensi del quale, come accennato, il Regno di Sardegna si configurava come uno Stato

confessionale (la Religione Cattolica, Apostolica e Romana la sola Religione dello Sta-

to: primo comma), tale da discriminare i culti diversi dalla religione cattolica, meramente

tollerati conformemente alle Leggi (secondo comma). A suffragare questa scelta, si po-

nevano anche lart. 28, secondo comma, che subordinava la stampa di bibbie, catechismi,

libri liturgici e di preghiere al preventivo permesso del vescovo, e lart. 33, n. 1, che poneva

gli arcivescovi ed i vescovi tra le categorie di designabili al laticlavio.

Ancor prima dellunit dItalia, linsieme di queste disposizioni venne profondamente ri-

visitato, alla luce di tutta una serie di atti normativi, volti, da un lato, a parificare i non-

28

cattolici ai cattolici, relativamente al godimento dei diritti civili e politici e, dallaltro, a sepa-

rare la dimensione religiosa da quella pubblica, attraverso le c.d. leggi Siccardi (la legge 9

aprile 1850, n. 1013, che eliminava il diritto di asilo religioso ed il privilegio del foro per gli

ecclesiastici; la legge 5 giugno 1850, n. 1037, che imponeva una autorizzazione ammini-

strativa per tutti gli atti di acquisto dei corpi morali, civili o ecclesiastici) ed altre leggi suc-

cessive (la legge 23 maggio 1851, n. 1184, che aboliva ogni immunit fiscale dei beni ec-

clesiastici; la legge 29 maggio 1855, n. 878, che sopprimeva le corporazioni religiose prive

di utilit sociale).

Questi provvedimenti culminarono con la legge 13 maggio 1871, n. 214, c.d. delle gua-

rentigie, che, dopo la conquista di Roma, consolid la situazione di fatto, riconoscendo al

Pontefice una serie di prerogative connesse alla sua qualit di capo di uno Stato estero e

improntando sia pure in modo non sempre efficace i rapporti tra lo Stato italiano e la

Chiesa cattolica al modello separatista (si noti che la legge pareva aver abrogato tacita-

mente anche lart. 28, secondo comma, dello Statuto albertino).

Pi ancora delle discipline legislative, a favorire una scissione tra la sfera pubblica (rec-

tius, politica) e quella religiosa fu per latteggiamento tenuto dalla curia romana in conse-

guenza, dapprima, dellunit dItalia e del ridimensionamento entro i confini del Lazio del

potere temporale del Pontefice e, poi, del suo tendenziale annichilimento (eccezion fatta

per lesiguo territorio dello Stato del Vaticano) dopo il 1870.

Era del 1864 la condanna di Papa Pio IX del liberalismo, stigmatizzato attraverso

lelenco di errori enucleato nel Sillabo (in appendice allenciclica Quarta Cura) ed era di

dieci anni successivo il non expedit, cio la bolla papale con cui si faceva divieto per i cat-

tolici sudditi del Regno dItalia di partecipare alle elezioni del Parlamento.

Nei primi decenni post-unitari, lo Stato dovr dunque affrontare lelemento doppiamente

destabilizzante di una Chiesa chiusa ad ogni dialogo e di una componente politica clerico-

reazionaria minoritaria ma non trascurabile quanto a forza e seguito volta a rimettere in

gioco le scelte a suo tempo operate per uno Stato laico ed una politica che non fosse as-

servita alle gerarchie ecclesiastiche.

Sar soltanto sul finire dellOttocento che la Chiesa ammorbidir la propria posizione

(anche allo scopo di arginare il seguito del nascente Partito socialista), fino a revocare,

con Papa Pio X, in occasione delle elezioni politiche del 1904, il non expedit, passando

cos da un atteggiamento di pregiudiziale rifiuto (n eletti n elettori) ad uno di cauta ac-

cettazione delle istituzioni italiane (cattolici deputati s, deputati cattolici no).

29

Si dovr attendere, tuttavia, il c.d. patto Gentiloni (1913) per constatare lassunzione,

da parte dei cattolici, di un esplicito ruolo nel circuito parlamentare: impegnandosi a far

convergere i voti degli elettori cattolici sui candidati liberali, la Chiesa (ch il patto venne

con ogni probabilit autorizzato dal Pontefice) riceveva in contropartita limpegno degli e-

letti a perseguire una politica che si conformasse al volere della curia (ad esempio, attra-

verso la garanzia dellinsegnamento religioso nelle scuole, la tutela delle congregazioni re-

ligiose, etc.).

Parallelamente, i cattolici rafforzavano la propria presenza in Parlamento, prima che

questa, dopo la Prima guerra mondiale, venisse ad essere massiccia e, soprattutto, incar-

dinata nellappartenenza al Partito popolare, nel frattempo fondato.

La questione romana si avviava in tal modo allepilogo, sancito definitivamente con i

Patti Lateranensi del 1929.

[C] Uno Stato unitario. Una caratteristica incontestabile della forma di Stato nel perio-

do monarchico-liberale quella relativa alla tendenziale concentrazione nella capitale (To-

rino; dal 1864, Firenze; dal 1871, Roma) del potere politico: sebbene esistessero istituzioni

periferiche, quali province e comuni, queste venivano configurate non tanto come enti

autonomi, quanto semmai come gangli dellamministrazione statale a livello locale, vale a

dire come apparati di semplice decentramento amministrativo.

Nello stabilire, allart. 74, che le istituzioni Comunali e Provinciali, e la circoscrizione

dei Comuni e delle Province [erano] regolate dalla legge, lo Statuto albertino apprestava

la duplice garanzia del riconoscimento costituzionale dellesistenza degli enti locali e della

riserva di legge per la disciplina della loro struttura, del loro funzionamento e dei loro pote-

ri. Al di l del rispetto di queste garanzie, tuttavia, il legislatore godeva di un amplissimo

margine di manovra nel disegnare larticolazione territoriale del potere.

Nel periodo intercorrente tra lunit e la fine dellOttocento, il tema del decentramento fu

oggetto di frequenti dibattiti ed anche di un buon numero di interventi normativi, tutti frutto

di un confronto tra lanima centralista e quella autonomista che convivevano nella

classe politica italiana. Sin da subito, a prevalere fu la prima, corroborata comera dalla

tradizione giuridica, ma anche da preoccupazioni di ordine politico.

Sul piano giuridico, non era da trascurare la circostanza che la colonizzazione ammi-

nistrativa veicolata dalle truppe napoleoniche allinizio del secolo avesse prodotto una

tendenziale aderenza di gran parte degli Stati preunitari al modello francese, basato su un

30

marcato accentramento del potere decisionale, associato ad una capillarizzazione delle

strutture locali in chiave rappresentativa delle singole comunit (municipali, in primis), ma

soprattutto in chiave esecutiva delle decisioni provenienti dallalto. Il Regno di Sarde-

gna, in particolare, si strutturava in larga misura sulla base di questi canoni: la sopra ricor-

data continuit in termini di costituzione materiale tra Stato subalpino e Regno dItalia

pu dunque dar conto anche dellestensione a tutta la penisola del modello napoleonico.

A ci non si addivenne, per, in virt di una pura inerzia progettuale. La scelta del mo-

dello di Stato accentrato rispose, infatti, alle preoccupazioni politiche di alimentare

lautorit dello Stato appena formatosi, potenzialmente minata, o comunque limata,

dallattribuzione di ampi poteri ad enti periferici. Parimenti rilevante fu poi lidea che soltan-

to attraverso un processo guidato dal centro (rectius, dallalto) potesse effettivamente

prodursi lo sviluppo di una societ che, per larghi strati ed in vasti territori, appariva ancora

profondamente arretrata.

Alla luce di queste considerazioni non stupisce che tutti i progetti volti a ridisegnare

lamministrazione pubblica mediante una regionalizzazione (funzionale, tra laltro, a con-

servare uno status privilegiato per quelle citt che erano state le capitali degli Stati preuni-

tari), presentati negli anni immediatamente successivi allunificazione, siano decaduti (tra

questi devono ricordarsi, quanto meno, i due disegni di legge presentati da Cavour e da

Minghetti, nel marzo 1861, e fatti ritirare, dopo la morte del primo, dal suo successore, Ri-

casoli). Lallegato A della legge 20 marzo 1865, n. 2248, sullunificazione amministrativa

del Regno, giunse poi a sanzionare definitivamente lopzione centralistica, attraverso

lestensione del modello piemontese di ordinamento comunale e provinciale.

La tematica del decentramento torn ad essere oggetto di dibattiti soprattutto a partire

dalla seconda met degli anni ottanta dellOttocento. Si vennero a confrontare, allora, due

concezioni del decentramento che, accomunate dallidea di avvicinare gli individui alle isti-

tuzioni, rafforzando lelemento rappresentativo, divergevano radicalmente sul piano dei

raccordi da introdurre tra il centro e la periferia.

Nella visione della Sinistra storica, allo sviluppo delle istanze partecipative e rappresen-

tative in sede locale, doveva coniugarsi un efficace regime dei controlli, onde assicurare la

perdurante tutela governativa sugli enti locali. Ne era testimonianza la legge crispina di ri-

forma dellordinamento comunale e provinciale (legge 30 dicembre 1888, n. 5865), la qua-

le, da un lato, attribuiva a nuove categorie di individui il diritto di voto alle elezioni ammini-

strative e stabiliva lelettivit dei sindaci dei comuni maggiori e dei presidenti delle provin-

ce, ma, dallaltro, potenziava i meccanismi di controllo, principalmente grazie allistituzione

31

delle giunte provinciali amministrative, presiedute dai prefetti, competenti a conoscere dei

ricorsi promossi dai privati avverso qualunque atto degli enti locali (legge 1 maggio 1890).

Un diverso orientamento era manifestato in seno alla Destra: il recupero di poteri per gli

enti locali che veniva propugnato mirava, infatti, ad una traslazione dellesercizio di parte

delle funzioni di interesse generale dalle istituzioni politiche alla societ civile, nella pro-

spettiva di un consolidamento degli assetti sociali tradizionali, minacciati dalla crescita del-

le forze popolari. A questo disegno di fondo rispondeva, ad esempio, la legge 29 luglio

1896, fatta approvare dal Governo di Rudin, la quale introduceva il principio dellelettivit

dei sindaci di tutti i comuni: la sostituzione di funzionari amministrativi provenienti dal pote-

re centrale con persone espressione della comunit locale, se nei comuni pi grandi aveva

leffetto di valorizzare lelemento partecipativo, nei comuni di pi modeste dimensioni (e

soprattutto nei comuni rurali) garantiva alle lites alto-borghesi ed ai proprietari terrieri di

coagulare intorno a s le istanze pi conservatrici e, al contempo, di veder assai meglio

garantito lo status quo.

Questo intervento legislativo, come del resto i precedenti, non produsse, comunque, al-

tro che un assestamento della forma di Stato, che rimase ben ancorata, anche nel prosie-

guo, al modello centralista.

[D] Uno Stato di diritto. Per quanto attiene al grado ed alle forme di tutela delle situa-

zioni giuridiche soggettive, lo Stato italiano, durante il periodo monarchico-liberale, pu

essere definito come uno Stato di diritto, con tale nozione facendosi riferimento ad una or-

ganizzazione statuale in cui lazione dei pubblici poteri soggetta (non pi allarbitrio del

monarca, ma) alle norme giuridiche, ricavate principalmente dal diritto positivo, e dalla

legge in particolare (principio di legalit).

Laffermazione del principio di legalit, testimoniata in primis dal cospicuo numero di ri-

serve di legge contenute nello Statuto albertino ed enfatizzata dalla natura flessibile della

carta costituzionale, ebbe profonde ripercussioni, non solo su (1) la struttura del sistema

delle fonti del diritto, ma anche su (2) la concreta applicazione del principio di separazione

dei poteri, ponendosi, ad un tempo, come (3) il fondamento ed il limite intrinseco delle ga-

ranzie apprestate ai diritti individuali.

1) In ossequio alle teorie giuspositivistiche largamente prevalenti nellOttocento, la fun-

zione normativa venne ad essere quasi integralmente riconducibile allopera degli organi

politici, residuando uno spazio assai circoscritto per altre forme di produzione, la consue-

32

tudine in special modo. Pressoch nullo fu poi il ruolo del diritto giurisprudenziale, gi tra-

volto dalla polemica dei rvolutionnaires francesi del 1789 contro gli organi giudiziari tuto-

ri dellAncien rgime (i Parlements).

La tendenziale omogeneit delle fonti di produzioni rese il sistema delle fonti piuttosto

semplice: nella struttura gerarchica del sistema potevano individuarsi essenzialmente tre

livelli, corrispondenti, rispettivamente, alle fonti primarie, secondarie e terziarie (si noti che

questa terminologia rimasta in uso ed ha continuato a connotare le medesime fonti an-

che al mutare del sistema).

La fonte primaria per antonomasia era la legge parlamentare, la quale, in un regime di

costituzione flessibile (v. supra), veniva ad essere priva di limiti materiali, potendo disporre

in deroga anche rispetto alle disposizioni statutarie.

Il potere, astrattamente illimitato, del Parlamento era, peraltro, grandemente circoscritto,

di fatto, in conseguenza dellinterpretazione invalsa del principio di legalit, inteso non in

senso sostanziale, bens in senso puramente formale: il legislatore non era dunque chia-

mato a disciplinare lintegralit di una determinata materia (con la conseguente esclusione

di altri poteri normativi e/o di ampi margini di discrezionalit per lamministrazione), ma

s