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17 uesta settimana il menù è DA NON SALTARE Orfini a pagina 2 Q ICON Toschi a pagina 6 Cosma a pagina9 Rosi a pagina 15 Stati d’animo e di luce RIUNIONE DI FAMIGLIA Il compagno Toto Cutignosky a pagina 4 Ciceroni dei nostri tempi unitevi Joseph Ratzinger parlando di Giovanni Paolo II Il Papa ha una responsabilità unica che gli è stata data dal Signore e che solo il Signore la può ritirare Fra ttutti quelli c'hanno avuto er posto De vicarj de Dio, nun z'è mai visto Un papa rugantino, un papa tosto, Un papa matto, uguale a Papa Sisto. E nun zolo è da dì che dassi er pisto A chïunqu'omo che j'annava accosto, Ma nun la perdonò neppur'a Cristo, E nemmanco lo roppe d'anniscosto. Aringrazziam'Iddio c'adesso er guasto Nun po' ssuccede ppiù che vienghi un fusto D'arimette la chiesa in quel'incrasto. Perché nun ce po' esse tanto presto Un antro papa che je piji er gusto De mettese pe nnome Sisto Sesto. Giuseppe Gioachino Belli 9 aprile 1834 La coltura della cultura Discutendo di pere e Balzac GALLERIE&PLATEE ICON Arte stracciata

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17uesta settimanail menù è

DA NON SALTARE

Orfini a pagina 2

Q

ICON

Toschi a pagina 6

Cosma a pagina9

Rosi a pagina 15

Stati d’animoe di luce

RIUNIONEDI FAMIGLIA

Il compagnoTotoCutignoskya pagina 4

Ciceronidei nostri tempiunitevi

Joseph Ratzingerparlando di Giovanni Paolo II

Il Papa ha una responsabilitàunica che gli è stata datadal Signore e che soloil Signore la può ritirare“

Fra ttutti quelli c'hanno avuto er postoDe vicarj de Dio, nun z'è mai vistoUn papa rugantino, un papa tosto,Un papa matto, uguale a Papa Sisto.

E nun zolo è da dì che dassi er pistoA chïunqu'omo che j'annava accosto,Ma nun la perdonò neppur'a Cristo,E nemmanco lo roppe d'anniscosto.

Aringrazziam'Iddio c'adesso er guastoNun po' ssuccede ppiù che vienghi un fustoD'arimette la chiesa in quel'incrasto.

Perché nun ce po' esse tanto prestoUn antro papa che je piji er gustoDe mettese pe nnome Sisto Sesto.

Giuseppe Gioachino Belli9 aprile 1834

La colturadella cultura

Discutendodi pere e Balzac

GALLERIE&PLATEE

ICON

Artestracciata

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.com sabato 16 febbraio 2013no17 PAG.2

E’noto. I vizi sono, assai piùdelle virtù, duri ad esseresradicati. Questo vale ancheper certi luoghi comuni. Fra

i tanti che hanno conquistato l’Italia,vi è quello per cui la cultura è (sa-rebbe) il nostro petrolio; l’Italia pos-siede (possiederebbe) unapercentuale variabile tra il 50 e il 90per cento del patrimonio culturalemondiale; il mondo tutto invidia (in-vidierebbe) la cultura e il patrimonioculturale italiano. Potremmo dilun-garci a spiegare per quale ragionetutte queste affermazioni sono errate

di Matteo Orfini*[email protected]

DA NON SALTARE

La colturadella cultu

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ura

DA NON SALTARE

o almeno indimostrabili. Ci limi-tiamo a dire che arroccarsi su questedichiarazioni quando si parla di cul-tura è inutile quando non dannoso.Innanzi tutto perché quella imposta-zione del dibattito sulla cultura dimo-stra una fissità ed unacristallizzazione che non può chenuocere al settore, ma anche perchéesse relegano la cultura e la creativitàin una posizione di subalternità, im-produttività e marginalità che ne pre-giudicano ogni sviluppo. Di fatto, appagati dell’invidia del

mondo e da una primazia tutta da di-mostrare, patrimonio e produzioneculturale sono stati abbandonati aloro stessi.Al contrario questi sono settori chehanno bisogno di cura, di attenzione,di lavoro continuo, di manutenzione.Di tutto, insomma, fuorché di com-piacimento e dell’illusione di dete-nere una rendita di posizione. Perchése è vero che il nostro paese ha det-tato per secoli “l’agenda” culturale, èanche vero che oggi è molto più unpaese di circuitazione di prodotti cul-turali concepiti altrove che la scaturi-gine della produzione stessa. L’Italiasta perdendo, in realtà, di anno inanno la capacità di influenzare il di-battito internazionale in materia di ci-nema, teatro, arte contemporanea,produzioni creative. Allo stessotempo anche le eccellenze legate aibeni culturali (il restauro, l’archeolo-gia etc) subiscono i rigori della man-canza di finanziamenti, delladifficoltà di fare ricerca, del ricambiogenerazionale.Che fare? si sarebbe detto in altritempi. Aumentare le risorse, maanche provare a ridistribuirle. Abban-donare la strada facile della reitera-zione di modelli di gestione ormaiesausti (le fondazioni ad ogni costo,il pubblico che fa quello che do-vrebbe fare il privato e viceversa), disistemi di finanziamento che pre-miano le posizioni dominanti piutto-sto che l’innovazione e gliindipendenti, di un’architettura isti-tuzionale che trascura il pubblico e ifruitori, ha dimenticato il problemadel sostegno al consumo e , di conse-guenza, dell’allargamento del mer-cato e dell’indipendenza delleimprese creative e culturali. Perché sela cultura è un diritto è evidente-mente necessario che tutti i cittadinisiano messi nelle condizioni di acce-dervi, di scegliere. Per far questo sideve partire dalle scuole in cui pertroppo tempo si è trascurata la neces-sità di una alfabetizzavzione alla mu-sica, alle immagini, all’arte, allinguaggio teatrale, alla danza. Solovalorizzando questi aspetti si pos-sono formare cittadini in grado di di-stinguere, valutare, scegliere. E d’altrocanto il nostro paese è stretto in un si-stema di rendite di posizione che im-pediscono l’ingresso a nuovi soggettie che tentano di espellere i soggettipiù deboli, che soffocano ogni tenta-

tivo di innovazione,tanto più in tempidi crisi e di contra-zione del sostegnopubblico. Insomma, si deve ri-

dare fiato al settore, rimettere inmoto la macchina o, se preferiamo,smuovere la terra, irrigarla, dare spa-zio nuove colture: ecco la nostra pro-posta per uscire dalla crisi.

*Responsabile cultura del Pd.

Bastacon il petrolioBisognalavorarela terra

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.com sabato 16 febbraio 2013no17 PAG.4

Registrazione del Tribunale di Firenzen. 5894 del 2/10/2012

direttoresimone silianiredazione

sara chiarelloaldo frangioni

rosaclelia ganzerlimichele morrocchiprogetto graficoemiliano bacci

editoreNem Nuovi Eventi Musicali

Viale dei Mille 131, 50131 Firenzecontatti

www.culturacommestibile.comredazione@[email protected]

www.facebook.com/cultura.commestibile

“ “Con la culturanon si mangia

Giulio Tremonti

RIUNIONE DI FAMIGLIA

Ragazzi studiate il latino. Nonperché con la conoscenza dellalingua dei Cesari si apriranno leporte dell’agognato posto fisso,ma perché un giorno possiate es-sere come Giovanna Chirri. E chi

è, di grazia, costei? E’l’autrice dello scoopdi questo inizio2013, la gior-

nalista in-viata in

Vaticano del-l’Ansa che harilanciato le di-missioni del Papatraducendo al volo ilmessaggio di BenedettoXVI pronunciato proprio inlatino. E’ la vendetta degli annidi Ginnasio e di Liceo passati suibanchi tra De Bello e Catilinarie,a “bestemmiare” su accusativi egenitivi: finalmente il latinorumserve a qualcosa e non più perdarsi arie da azzeccagarbugli dastrapazzo o da presidenti di teamcalcistici della Capitale. Vivo stu-pore nelle redazioni nei giornali,titoli celebrativi sull’eroina di gior-nata con il solito giro del mondodella notizia. Che in fin dei contisarebbe che un corrispondente diun quotidiano in un paese stra-niero conosce e parla la linguadel posto.Absit injuria verbis.

LE SORELLE MARX

Ciceroni dei nostritempi unitevi

I CUGINI ENGELS

Il compagnoToto CotugnoskyPensavamosinceramenteche, dopoCelentano

Morandi ePupo che parlavano di sistemi e ga-ranzie costituzionali, niente diquello che accade sul palco del-l’Ariston durante il festival di San-remo ci avrebbe potuto stupire. Cisbagliavamo naturalmente. Infattivedere Toto Cotugno martedì serasu quel palco era di per sé qualcosache potremmo definire una made-leine proustiana andata a male mail vederlo cantare con il coro dellagloriosa armata rossa, beh ha deci-samente colpito la nostra coscienzadi classe.Ad un certo punto ha pure dettoche aveva nostalgia dell’UnioneSovietica e ha cantato in russo. Macome, ci siam detti, Toto Cutugno,che negli anni della prima repub-blica arrivava sempre secondo per-

ché quello era il piazzamento chetoccava al PSI, un nostalgico delsocialismo reale? Abbiamo avuto per un attimo ilterrore che i nostri nipoti potesseroandare in giro con una magliettacon sopra stampata la faccia diToto Cotugno al posto di quella delChe; poi c’è tornata in mente unadelle poesie de Kipli che recitavatanti anni fa Corrado Guzzanti: Per anni abbiamo basato la nostraazione politicasull'ideologia comunista,per anni i fatti e le idee che emerge-vanodal blocco sovieticohanno determinato le nostre sceltein questo paese.Il comunismo ci ha mostrato lastradaper mettere insieme la nostra gente,il nostro elettorato...Ora tutto è crollato, il comunismonon esiste più!Resta solo una vaga voglia di sini-strache barcolla sulle gambe della sto-ria.Ebbene amici, cerchiamo di dimen-ticaree ricominciare da capo!Cerchiamo di andare avanti dasoli,ricostruiamo la nostra identitàcon la forza di proporre cose nuoveed argomenti nuovi!Niente più comunismo!Ebbene sia! Saremo soli, e ai nostrielettoridovremo mostrare qualcos'altro...Ma so bene che sarà difficile scac-ciare le ombre nereche gravano sul nostro futuro...anch'io ho paura amici,cosa faremo adesso?Dove andremo?Guardiamoci negli occhi cari colle-ghi.Senza più comunismoa che cosa serviamo noi democri-stiani?

Il libro di C.Boulogne e Lee Wonder ci ha fatto subito venire a mente “2666” dello scrit-tore cileno Roberto Bolaño (ed. Adelphi) e la mano mummificata del pittore EdwinJohns, ma non c’è nessuna somiglianza. Ci siamo poi ricordati delle tesi del ricercatoreneo-zelandese Abel Chatman, il quale afferma che lo sviluppo della pinza tra il pollicee le altre dita (alla base dell’evoluzione umana) sia nata proprio grazie all’esigenzadella “tastata” fra i due sessi; anche se altri studiosi affermano che l’uso della “palpata”sui mezzi di pubblico trasporto nasce con la scoperta della ruota, ed è giunta fino anoi, senza interruzione, dal carro a ruota piena all’Alta Velocità. Ma siccome nella co-pertina si legge che il testo si accompagna a disegni fatti con la mano sinistra, abbiamopensato che si poteva trattare di un saggio sugli artisti mancini, primo fra tutti Leo-nardo, o di coloro, come Gustav Klimt che, pur essendo destri, tracciano segni con lasinistra per contorcere il loro stile. Come terza possibilità, credevamo che il nostro libropotesse essere una ricerca sulla necromanzia con particolare riguardo all’uso di arti dicadaveri per la magia nera dal Libro egizio dei Morti alla mano della Famiglia Ad-dams. Vi possiamo assicurare che nessuna di queste ipotesi si avvicina lontanamenteal contenuto del volume. Questo libro vi sorprenderà dall’inizio alla fine, ma non viaspettate che ve lo raccontiamo: leggetevelo!

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.com sabato 16 febbraio 2013no17 PAG.5POLVERE DI MUSEI

“Addirittura il book-shop?!” ci siamo detti,non senza stupore, en-trando nel locale bigliet-

teria del Museo di Storia Naturale diFirenze, sezione di Antropologia e Etno-logia (via del Proconsolo,12). Perquanto dotato di merchandising un po’banale e commerciale di matrice etnica,non era affatto scontato che un museouniversitario scientifico si dotasse di unsì moderno “servizio aggiuntivo”. Cisiamo sentiti incoraggiati: forse eravamoprevenuti e non avremmo trovato un tra-dizionale e stantio museo “musealizzato”.Ma lo scoraggiante e tetro scalone cheintroduce al percorso di visita ha subitofreddato i nostri entusiasmi. Per non diredel vero e proprio Principe del museo:la Teca! Tutto vi è rigidamente conser-vato e con una intensità concentrativatale da sfidare le leggi della fisica (che vo-gliono che un corpo non possa occuparelo stesso spazio in cui ve n’è un altro). Mac’è teca e teca e queste sono fra le più ve-tuste che si possano immaginare: veri epropri armadi vetrati con infissi di legnoche tagliano, rendono difficoltosa e par-ziale la vista dei pur interessantissimi og-getti che conservano. Il nostro reportagefotografico dà solo una pallida idea delloscempio visivo che il visitatore subisce.Ad esso contribuisce non poco la qualitàdell’illuminazione (quella a led è ancoraun futuribile in questo regresso Ottocen-tesco), ma soprattutto l’altro protagoni-sta indiscusso del museo: la Didascalia!Poche, antiche e difformi, soprattuttoben nascoste e inutili ai più perché inabilia raccontare e spiegare il museo. Chepure avrebbe potenzialità straordinarie.Spiegare il valore non solo scientifico madi conservazione e attivazione della me-moria che Paolo Mantegazza, evocato al-l’inizio del percorso museale come ilVate dell’antropologia, rappresentaavrebbe potuto rendere più comprensi-bile e affascinante l’intero museo... ma sidà per scontato che tutti i visitatori sap-piano già tutto quanto c’è da sapere sul-l’Antropologia e l’Etnologia. Il museo è,in realtà, una miniera di potenziale fasci-nazione, devastato però da un allesti-mento arcaico, da una concezionepuramente conservazionista degli og-getti (che perciò risultano muti e incom-prensibili), da un’autoreferenzialità diluoghi e cose che non riescono ad inte-ragire con i visitatori (pochi, e non c’è dastupirsene). Ma quante storie potrebberaccontare il museo! Basti pensare ai di-versi giochi che sono messi in affollateteche provenienti da diverse parti delmondo e da diverse età, dal Ghevetàabis-sino alla dama degli eschimesi, fino agliscacchi eritrei: potrebbero essere og-getto di laboratori per i ragazzi, riprodu-zioni, percorsi speciali. Come anche glistrumenti musicali, confusi a pettini elance di ogni genere, rappresentano unastoria a sé che attende di essere raccon-tata: ma il magnifico tamburo “a fessura”,uno xilofono ante litteramdi straordina-ria fattura ed evocativa funzione è segatoin due dall’infisso in legno e relegato in

di Barbara Setti e Simone Siliani

un angolo di una teca che per affolla-mento assomiglia alla metropolitana diTokyo. Gli Ainu di Hokkaido, gli Ostiac-chi, gli abitanti delle isole di Nias, En-gano, Sipora, Sumatra e mille altri ignotiai più popoli e aree del mondo, che puresono rappresentati da un florilegio di og-gettistica di pregio, chi li racconta? Qualeè la loro storia, la loro evoluzione? Dovesono, se ci sono, ora? Perché ce ne inte-ressiamo in questo preciso museo? Per-ché conserviamo le loro tracce? Perchéè importante per gli uomini occidentalidi oggi conoscerne la storia? Tutto ciòsembra non riguardi questo museo, chese ne sta lì, immobile, imperturbabile, si-lenzioso e lontano. Vi restano alcuni la-sciti di mostre che hanno tentato

meritoriamente di far parlare e dialogarecon i prigionieri delle teche, come quellabella di Fosco Maraini; ma questi lacertistridono alla fine che la vetustità dell’im-pianto complessivo del museo. Ad esem-pio: “la diversità è un valore” cerca dispiegarci un pannello con molte ma-schere facciali dei diversi tipi umani pre-senti sul pianeta e sei invitato aconfrontarti con esse attraverso deglispecchi (deformanti: ma perché poi?)che però sono troppo alti per i bambinisotto il metro e settanta. Ma a chi parla oa chi vuol parlare questo museo? Con ri-cerche meticolose nei microscopici car-tellini, si arriva a comprendere che ilGranduca di Toscana Pietro Leopoldoaveva passione per gli oggetti esotici eper questo abbiamo qui materiali prove-nienti dal 3° viaggio di Cook in Australiae Melanesia: ma questo da solo potevafare il racconto del museo! Come quellodella impresa coloniale italiana in Soma-lia, Eritrea, Abissinia che qui lascia tracceantropologiche interessanti ma che nonviene in nessun modo contestualizzata,come se la storia moderna fosse materiaaltra, che qui – nel tempio dell’antropo-logia e dell’etnologia – non interessa. Mal’uomo di oggi che dovesse visitare ilmuseo (eravamo, non a caso, gli unicidue) è un uomo intero che per ritenerequalcosa di ciò che vede dovrebbe di-sporre di un po’ di informazioni, presen-tate in modo comprensibile e attraente,del contesto oltre che dei singoli oggetti.E non si dica che mancano i soldi perchéper rifare didascalie, cartellini e un po’ dipannelli non ci vuole una fortuna, bensìun punto di vista diverso del museo e unpo’ di iniziativa, buona volontà, un com-puter e una buona stampante. Quindipoca tecnologia e qualche idea. A pro-posito, magari accendere i video piatti edi buona qualità realizzati con i finanzia-menti europei della Regione Toscana?Potrebbe essere una buona idea. In-somma, nel Museo di Antropologia e Et-nologia ci sarebbero oggetti straordinariche vorrebbero parlare, raccontarsi, affa-scinare i giovani e gli adulti, vivere: libe-riamoli dalle mortificanti teche! Dateloro una possibilità: potrebbero financheattrarre dei visitatori (che pagano co-munque un biglietto di 6 euro).Voto: 5 (di incoraggiamento... ma chi?)

Un museosottoteca

Museodi Storia Naturaledi Firenze

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.com sabato 16 febbraio 2013no17 PAG.6

Giorgio Distefano nato a Ragusasi trasferisce nel 1991 a Firenze.Qui studia e si diploma in sce-nografia all’Accademia di Belle

Arti.Il teatro. Questo il punto di partenza delsuo percorso artistico, durante il qualeDistefano lavora come scenografo e co-stumista esercitandosi a pensare lo spa-zio attraverso l’immaginazione. Dunque il teatro, ma anche la pittura.Distefano è sì scenografo di giorno, maanche pittore di notte. Identità non ri-velata per molti anni, che trova tuttaviaincoraggiamento nell’amico pittore,Luca di Castri. Distefano lavora principalmente a tem-pera e a olio, su tela o su tavola. Parte delprocesso creativo è anche la prepara-zione del supporto sul quale egli andràa intervenire, e non stupisce da parte diuno scenografo. La tela, al pari dellaquinta teatrale, non può essere intesacome un contenitore vuoto da riempire,ma come parte integrante della compo-sizione, necessita, dunque, di essere pa-zientemente preparata per accogliere ilproprio spettacolo. I soggetti. Così siracconta Distefano: “la mia pittura in-daga la rappresentazione di stati di luce”,è votata a quei momenti di passaggio edi dialogo, tra uomo e natura, nei qualici troviamo a cogliere in una luce inde-cisa, al crepuscolo, la rievocazione di unricordo, nell’accecante sole di mezzo-giorno, magari troneggiante su unacosta sicula, un senso di soddisfazionee di raggiunta serenità, e in un timidoraggio, nel cielo terso di un mattino in-vernale, una piacevole malinconia. Ilpaesaggio e la veduta urbana sono dun-que i soggetti privilegiati, dei quali l’ar-tista realizza il ritratto, spessoprivandolo della figura umana – comenel caso delle cinque opere esposte – ar-rivando alla completa fusione tra pae-saggio, geometrie, architettura e luce.Ma arriviamo a Tailoring. Il contattoquotidiano e la familiarità acquisita dapiccoli, con alcuni oggetti presenti neiluoghi del nostro vissuto, giustificano echiariscono la particolarità di questoprogetto, da cui sono nate molte opere.La nonna e la madre dell’artista lavo-rano come sarte a casa, riempiendo l’in-torno della sua infanzia con strumentidel mestiere quali fili, metri, provini, maanche cartamodelli. Ed ecco il perchédella scelta di quest’ultimo come sup-porto, ma non solo. La griglia, a essosottesa, nasconde indicazioni precise, èin grado di direzionare il processo crea-tivo, affascinando il bambino in ungioco nel quale il rispetto della regola, ilrispetto rivolto all’autorevolezza dellalinea, consente di realizzare la magia, equindi di raggiungere, e confezionare, ilrisultato sperato. Il creare si trasforma,dunque, in una “caccia” alla ricerca dellalinea del progetto che indirizzi Diste-fano nella costruzione della forma. Performalizzare l’opera, è quindi necessarioche egli rispetti un percorso geometricopreesistente alla sua stessa mano, e unavolta individuato, tra i tanti possibili

sentieri della mappatura del supporto,lo incoraggi a emergere e a tradursi inopera d’arte.I cinque lavori esposti sonodunque opere dalla natura “generosa”,votati signorilmente al rispetto per unaforma latente, che, silenziosa nello spa-zio, ha atteso pazientemente di essere ri-velata.

di Caterina [email protected]

ICON

Riflessioni contrarie sull'Arno, tec-nica mista su carta, cm.100x80, 2013A sinistra I sepolcri del sole, temperasu carta, cm.57x85, 2012

Giorgio Distefanoalla Galleria CO2 di Firenzefino al 28 febbraio

Stati d’animo e di luce

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anni

insieme

riaffermare il rapporto fra le arti). Intanto si approfondiva l’amicizia congrandi compositori che hanno dedicatointere composizioni al Contempoar-tensemble, come Maxwell Davies, conle cui musiche si sono incisi ben treCD. Da molti anni il complesso è in cartel-

lone al Maggio Fiorentino, con musi-che di Cage e di compositori nuovi fatticonoscere con prime esecuzioni dalContempoartensemble. Ultimamente il gruppo, diretto dal vio-linista Duccio Ceccanti, si è esibito inuna performance d’eccellenza con ilcompositore e visual artist franceseJean-Baptiste Barriere.Il Contempoartensemble ha messo leali e spesso è impegnato in tournée in-ternazionali. Speriamo che non volitroppo lontano dimenticando la cittàd’origine, così povera di vere esperienzeinnovative.Comunque, se Maometto non va allamontagna, la montagna andrà da Mao-

metto, l’ultimo concerto, fortunata-mente, l’ha dimostrato: il 4 febbraio aPalazzo Medici-Riccardi, con Azerbai-jan visual Project ,“Il Fiore del Fuoco”,la musica di Baku è venuta a farsi suo-nare a Firenze dal Contempoartensem-ble, Vittorio CeccantiDirettore, grande pubblico.

CCUO

.com sabato 16 febbraio 2013no17 PAG.7SU DI TONO

Con il concerto del 18 febbraio2013, nella sala Magliabechianadella Biblioteca degli Uffizi, sichiude la X Edizione del Con-

tempoArteFestival organizzata dalContempoartensemble, fondato daMauro Ceccanti venti anni fa, con uninteressante programma di musiche diFabio Vacchi, su testo di Dacia Maraini.Se questa è la conclusione di un ven-tennio straordinario per invenzione,competenza e coraggio del suo fonda-tore, ci dobbiamo aspettare un futurodi maggiori novità e successo con la di-rezione congiunta del suo ideatoreMauro e dei figli Vittorio e Duccio,concertisti conosciuti internazional-mente. Ripercorro l’intera vicenda di questocomplesso, non certo di facile ascolto ediffusione -diciamo pure elitario- e delsuo fondatore. Livornese, con ascendenze rumene daparte di madre, a sua volta musicista,Mauro Ceccanti, fin da studente alConservatorio Cherubini di Firenze,aveva manifestato interesse per la ri-cerca di una musica “nuova” - comesempre ha amato chiamarla-cioè con-temporanea o meglio in progress, comeè tutto quello che appartiene all’oggi. Divenuto violinista, mentre lavoravacon i Solisti Veneti, iniziò a sperimen-tare qualcosa di diverso, in duo con ilpianista Giancarlo Cardini, suonandoautori quali Webern, Dallapiccola oChristian Wolf, raccogliendo sonore fi-schiate dal pubblico che non capivaquella musica e alcune performance, adir poco originali, alla maniera delgruppo Fluxus, di uno dei due musici-sti, Ma musicisti di grande apertura cultu-rale come Roberto Lupi e Dallapiccolali incoraggiarono. Mauro raccolse lasfida e così, mentre era primo violinoal Comunale di Firenze, negli anni diRiccardo Muti (1970-81), continuò ainteressarsi di musica “nuova”. Nellostesso tempo fu coinvolto da Piero Fa-rulli nella fondazione della Scuola diMusica di Fiesole, dove fu l’organizza-tore della “Orchestra dei Ragazzi” edella “Galilei”.Ma i tempi erano ormai più che maturiper Ceccanti che nella primavera del1992 con Berio alla consolle e musichedi Sciarrino, Bussotti, Berio e Xenakistenne il primo concerto di musica“nuova”. Grande consenso di specialistie di pubblico ‘di nicchia’. Il primo CD,con le avanguardistiche musiche diquesto concerto, si trova oggi nella col-lezione del MOMA di New York,anche per la illustrazione della coper-tina realizzata da Sol LeWitt.In tutto questo ventennio i più impor-tanti concerti del complesso hannoavuto CD illustrati da noti artistiquali,Gerhard Richter per Steve Reichee Folon per il “Pierrot lunaire” di Scho-enberg eseguito nella Sala Bianca diPalazzo Pitti ( luoghi d’arte e Musei,Pecci di Prato , Marini di Firenze, sonosempre stati preferiti dal Maestro, per

di Annamaria [email protected]

Buon compleannoContempoartensemble

20

di Emiliano [email protected]

Internet si sa non permette l’oblio: inqualche meandro della rete resta si ri-trova sempre tutto. Dalle foto com-promettenti da ubriaco a capodannoai comunicati stampa scritti con ipiedi da esperti di comunicazioni sudettatura di esperti di marketing.Quindi recuperiamo e forniamoun’esegesi del capolavoro contempo-raneo partorito dall’Ataf per spiegarel’aumento del biglietto via sms (au-mento poi non attivato per la solita al-zata di scudi e rimpalli tra comuni,provincee, aziende e regioni). Partenza naturalmente trionfale:

primi in Italia, successo e grande ri-scontro, servizio innovativo. Poi sipassa alla lotta all’evasione (nel casocontro viaggiatori a sbafo) attuata eli-minando “le barriere di spazio etempo” come nei miglior racconti

usciti dalla penna di un Asimov o diun Dick. Da queste premesse non può che sca-turire che un’unica conclusione: il bi-glietto via sms è confermato. Peròcosterà di più. Ma non vi preoccupategentili utenti, ci tengono a sottoli-neare dall’Ataf, sarà sempre più com-petitivo di comprare il ticket a bordodove costa due euro dovendo pagareil secondo lavoro dell’autista che ab-bandona il volante per trasformarsi inbigliettaio. Qui sta la genialità del marketing: c’èsempre qualcosa che costa di più

IL FIGLIOLO DEL PEROZZI

Un bus carico di marketing

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.com sabato 16 febbraio 2013no17 PAG.8

Banco ottico sulla spalla, a piedisu un cavalcavia della periferiamilanese, voce morbida eseria, pacata. Se ne è andato,

dopo una malattia che non lo ha mol-lato nell'ultimo anno e mezzo. Il suosguardo su Milano era diventato losguardo dei tanti che lo hanno apprez-zato e amato, Gabriele Basilico avevaesposto in strada le sue foto, da poco,nella sua città, in occasione del re-stauro ultimato di Piazza Gae Aulenti,Porta Nuova: “La città che sale”, svi-luppata assieme a Marco Garofalo, adocumento dei progetti edilizi svilup-pati nell'aerea, con una fotocronacadel nuovo paesaggio urbano. Il suostile: quello di un uomo che ha dedi-cato il proprio amore a quelle areedella città create senza passione per-ché solo destinate ad essere zone pro-duttive. Gabriele Basilico si era invecefermato a guardare questi spazi in unlontano inverno del 1978 e se ne erainnamorato, con dolcezza. Qualcheanno fa Lo schermo dell'arte ci avevamostrato, a Firenze, in anteprima unfilm, di Giampiero D'angeli, su Basi-lico. D'Angeli ha ritratto poi in docu-mentari monografici altri quattrograndi maestri della fotografia: GianniBerengo Gardin, Franco Fontana,Mimmo Jodice, Ferdinando Scianna.Non era partito a caso da Gabriele Ba-silico che con il suo stile ha contri-buito ad una trasformazionenell'approccio all'urbanistica ed unaattenzione maggiore alle aree periferi-che. La notorietà l'ha raggiunta nel1982 con il reportage sulle aree indu-striali milanesi intitolato: Ritratti difabbriche. Un lavoro che lo fa cono-scere e che fa sì che il governo franceselo chiamasse nel gruppo di fotografiimpegnati nella Mission Photographi-que de la DATAR a documentare letrasformazione del paesaggio transal-pino. Nelle sue immagini si sente il si-lenzio di uno spazio de-umanizzato.La luce è sempre pulita tanto che ha iltempo di disegnare sulla carta un pae-saggio lieve. La dolcezza con cui si dà,si è dato, il tempo per poter vedere, os-servare, conoscere e capire questi luo-ghi è fatta di comprensione e rispettotali da poter provare un'empatia con lospazio. E' così che non c'è niente di piùumano che quelle fabbriche abbando-nate, di quegli enormi porti di mare,che quei palazzi devastati dalle bombee dalle mitragliatrici di Beirut. Per quellavoro fu chiamato assieme ad altri seifotografi per documentare lo statodella città: la scrittrice DominiqueEddè voleva che fossero occhi espertie d'amore per le città a riprendere lacapitale libanese orrendamente vio-lentata dalla guerra civile. Nacque cosìBeirut 1991 e poi un secondo viaggionel 2003 su mandato della Fonda-zione Hariri (ricorre in questi giornil'ottavo anniversario dell'assassinio diRafiq Al Hariri). Se ne è andato via an-cora troppo presto, il suo sguardo sa-rebbe stato ancora molto utile alla sua

Marcello Venturitra i cavatori di marmo

di Isabella Mancinisoloconlamiatesta.wordpress.com

di Franco [email protected]

Marcello Venturi, narratore nato inVersilia nel 1925 e scomparso nel2008, autore, fra l’altro, del romanzo“Bandiera bianca a Cefalonia”, nel1958 fu spedito a fare scuola a Ca-priglia, sulle Apuane, com’egli scrive, “subito sotto il cielo tra cave dimarmo e roccioni a strapiombo”; elì condivise una stagione con i cava-tori di marmo, anarchici, ostili adogni forma di autoritarismo, chepraticavano una vita vera e sem-plice. A sera l’osteria in cui era alloggiatosi riempiva di minatori che, fra unapartita a carte e l’altra, fra un bic-chiere e l’altro, professavano e pro-pugnavano le loro idee ad alta voce

LUCE CATTURATA

SPIRITI DI MATERIA

coinvolgendolo come uno di loro.Non è che Venturi si facesse convin-cere.“Siete dei sentimentali, dei romantici”diceva loro, ma intanto si era fatto av-vincere dalla nuda grandezza del pae-saggio nel quale l’uomo si esprimevaper gesti estremi mettendo anche a ri-schio la propria vita.E poi lo vinceva il “sapore” del quoti-diano:“Qualcuno portava castagne, chemettevamo sulla lamiera della stufa;quando erano bene abbrustolite lemangiavamo, si beveva vinello di col-lina”.Un clima che in Venturi, affacciatoalla finestra da cui vedeva luci lontaneche gli facevano immaginare il bruli-care della vita, metteva malinconia,

ma intanto non oscurava l’arcaicagrandiosità di quel mondo, comeemerge da queste righe, ancora tratteda “Gli anni e gli inganni, Feltrinelli,Milano, 1965”.“La primavera mise tutta la monta-gna in movimento. A Lucca non men’ero mai accorto di quanto movi-mento questa stagione portasse consé. Adesso, al pomeriggio, facevo lun-ghe camminate; mi spingevo fino allecave, dove, seduto in disparte, aspet-tavo la varata di un blocco. Qualcuno del miei scolari che miaveva visto andar per i boschi da solo,mi s’era messo alle calcagne. Così neavevo sempre dietro tre o quattro e avolte anche più. A volte anche lascuola al completo.“Fanno i buchi per le mine”, mi spie-gavano indicando il tecchiale. Il tec-chialo era l’uomo che si calava sullaparete della cava, attaccato alla cordacome un grosso ragno, per scavare ifornelli della dinamite. Terminati ifornelli, un cavatore dava fiato alcorno, il cui suono di allarme volavadi vetta in vetta, di vallata in vallata.Seguivano lo scoppio e il vento; ilmonte tremava e, dispersosi il fumo, ilblocco del marmo si staccava dallaparete scivolando in mezzo alle sca-glie.Con l’arrivo della primavera all’osteriai cavatori si erano fatti più radi, la sera; il sabato, la stanzetta affumicatadella signora Nena si riempiva comenelle nottate d’inverno; solo cheadesso la stufa di ghisa stava spenta inun canto, e la porta la tenevano apertasulla piazza perché entrasse ariabuona. Si giocava alle carte scola-vamo fiaschi di vino.”

Addio Basilico

Il manifesto della mostra del 2009 allaFondazione Mertz di Gabriele Basi-licoE la città

tornò invisibilecittà, Milano, che proprio ora sta attra-versando un periodo di forte trasfor-mazione. Che la terra ti sia lieve comela luce delle tuo foto è stata indulgentesu quelle brutte bellezze industriali dicui ci hai tanto parlato.

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Red Bartlett, Decana del Comizio,Abate Fétel, Conference, Kaiser o Im-peratore Alessandro o Butirra, PassaCrassana, Guyot, Coscia.Varietà e cultivar che si trovano attual-mente in commercio per nostra deliziae godimento, e che racchiudono nell’ar-monica musicalità dei loro nomi tuttala gotica eleganza delle loro forme, siacome guglie pendenti dai rami sia pre-senti in un turrito fiabesco paniere.

CCUO

.com sabato 16 febbraio 2013no17 PAG.9GALLERIA&PLATEE

La matematica crea dei sistemi ordi-natori ed è strumento dellascienza, ma dato un cesto di frutta,al massimo potrà fornirci l’elenco

delle varietà di cui è composto. Non cidirà se questo cesto sia reale o dipinto ofotografato, se sia una “vanitas” fiam-minga o se venga messo in vendita adun mercato.Certamente guardando in maniera pro-fonda, facendo confluire nello sguardole nostre facoltà possiamo ricavaremolte informazioni, ad esempio collo-care questo cesto cronologicamente ri-spetto ai tempi di maturazione.Se è anteriore alla globalizzazione, doveuna banana non poteva prendere unaereo per trovarsi accanto ad una pesca,possiamo capire che questo contienesolo frutta di una stagione precisa. An-cora del nostro cesto, se presente nel di-pinto di un pittore di corte, possiamoimmaginare che innumerevoli giardi-nieri, nel corso degli anni, raccogliendol’esperienza di botanici, viaggiatori, av-venturieri che hanno attraversato acosto di grandi pericoli i vasti territoridel mondo, per desiderio di un principeo per compiacerlo, riportandone semi etalee, piante in vaso e bulbi, avessero di-sposto affinché tali viventi materiali fos-sero acclimatati nelle serre reali perservire da esotici nutrimenti o da stupe-facenti meraviglie.Con un’analisi iconografica e stilisticasistemeremo il dipinto nel suo secolo diappartenenza e attraverso le possibilinotazioni etniche o vernacolari lo ricon-durremo ad una precisa area geografica.Possiamo ancora, tornando alla pera,constatare che questa sia più elegante diuna mela (non chiedetemi perché) eche dispone di una forma archetipicasua propria, ovvero quella della pera,dando il proprio nome a tutto quelloche le assomigli e non viceversa: unatesta, dei seni, un alambicco, un stru-mento di tortura.La pera inoltre rimanda ad una precisamaniera di essere mangiata, la mela la sipuò cogliere o prendere da un cartoccioe mordere lì per lì mentre la pera la simangia su di una tavola con la tovagliaimmacolata, su di un piattino da fruttae con le sue posatine.Il barone di Charlus, personaggio prou-stiano, nell’elegante ristorante Rivebelle,chiede per dessert una pera, ma nonuna pera qualsiasi, bensì una Bon Chré-tien, varietà celebrata da Moliere. Que-sta pera non si trova, il barone farichiesta di altre qualità, la LouiseBonne d’Avrances, la Doyennée des Co-mices (sulla quale la duchessa di Cler-mont-Tonnerre ha scritto una “paginadeliziosa”), la Triomphe de Jodoigne, laVirginie Dallet, la Passe-Colmar, la Du-chessa d’Angouleme, no no, lasciate per-dere, in questo periodo non è ancoragiunta a giusta maturazione. I camerieriimpazziscono, ma Charlus implacabiledichiara che non è necessario essere unbotanico per ordinare una pera, bastaconoscere Balzac. Ancora nomi di pere: William, Max

di Claudio [email protected]

Seconda di quattro dissertazioni estetiche

Per conoscerele pere occorreleggere Balzac

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.com sabato 16 febbraio 2013no17 PAG.10LUCE CATTURATA

Sandro Bini - I Confini della Città - San Bartolo e Santa Maria a Cintoia, Firenze 2004

di Sandro Biniwww.deaphoto.it

I confini della cittàUn racconto per immagini

dalla periferia fiorentina (2001-2013)

di Barbara, cuoca di Pane e [email protected] I vecchi mandarini

MENÙ

Quando il mandarino fece la sua com-parsa nel Mediterraneo, lo si chiamòcon questo nome a causa della sua ori-gine che si supponeva cinese, e siccometutti sapevano che in Cina le massimeautorità erano appunto i “mandarini”,sembrò ovvio dare lo stesso nome aquesti nuovi frutti altrettanto nobili.Questo scherzoso appellativo non tardòa diventare il suo nome ufficiale. Una ri-costruzione che può avere del fascinoma lascia gioiosamente perplessi.Quello che invece è da ricordare sono imandarini che, come classico frutto in-vernale, finivano anche come addobbisull'albero natalizio. Tempi di un Italiapiù povera ma forse più “umana”. Parti-colarmente da Sicilia e Calabria ci arrivaquesto oro arancione, con meno vita-mine dell'arancia e molto più zuccheroma, ha proprietà antitumorali. Proteggeil cuore, la buccia è un buon antiossi-dante; la polpa contiene Vitamina P econtrasta la ritenzione idrica, favoriscela diuresi; contiene anche calcio, potas-sio e fibre, indispensabili per le ossa, re-

grandi e poi si cerca di togliere più fila-menti bianchi possibili ai mandarini an-cora interi. Si dividono spicchio perspicchio e sempre spicchio per spicchio,si toglie la loro membrana e i semi.Conviene fare questa operazione sopraun vassoio per recuperare, una volta fi-nito, tutto il succo che verrà pesato in-sieme a tutta la polpa. Con qualchepezzo dei più grossi delle scorze (per unchilo di polpa ne ho messe l'equivalente

di 3 mandarini), dopo averle bollite per3 volte cambiando l'acqua e aver tolto ilbianco ormai morbido, grattandolo viacon un coltello, ho fatto delle striscio-line finissime e poi ancora a coltello,come un battuto, che ho unito allapolpa e al succo. A questo punto sonoarrivata ad 1 kg,350. Messo il tutto inuna pentola sul fuoco con una melagrattata, 350 gr di zucchero e una bustadi fruttapeck 3/1. Ho aggiunto la melaperché il composto era molto succoso esiccome una busta basta per 1 kg difrutta, non ho voluto aggiungerne altra.Si fa andare a fuoco alto mescolandoogni tanto e appena spicca il bollore, siconta 3 minuti e si spenge. Nella pen-tola accanto, ci sono barattoli e coperchi(bolliti per 10 minuti), scolate bene eriempite fino all'orlo, tappate e tenete atesta in giù finché non siano freddi.Controllate la tenuta del sottovuoto (itappi devono avere una specie di avval-lamento centrale ad indicare la man-canza di aria) e ricordate di usarla conparsimonia. Se avrete intenzione difarne dono ad amici fidati vi dico subitoche con questo peso ne vengan solo 6barattolini.

gola la pressione arteriosa ed ancora ilbromo, con le sue proprietà calmanti erilassanti. Insomma diciamo che si famangiare!. Eccomi allora pronta per laloro marmellata; questo si che è un “la-vorino niente male”. Si tratta di procu-rarsi mandarini più naturali possibili enon trattati. Li ho tenuti nell'acqua per24 ore, avendo cura di bucherellare lescorze. Si sbucciano cercando di averedelle porzioni di buccia di abbastanza

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Gli addii

di Susan

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PUÒ ACCADERE

KINO&VIDEO

Sulla mia terra, semplicemente ciòche sono mi aiuterà a vivere. Co-mincia con questa citazione da“Altri Libertini” di Pier Vittorio

Tondelli il film “I giorni della vendem-mia”, opera prima di Marco Righi, un ra-gazzo di 26 anni. Subito dopo si vede,attaccato ad una parete, un crocifisso esi sente un paternostro recitato in coro.Nella stanza ci sono 4 persone seduteintorno ad un tavolo. Una di loro, un si-gnore, legge di nascosto l’Unità il cui ti-tolone “ADDIO” è dedicato al funeraledi Berlinguer. Sullo sfondo si vedono legambe di un ragazzino che passa velo-cemente ed entra nella sua stanza senzacurarsi dei presenti. Una signora (lamadre) si scusa per la sua sfacciatagginee guarda storto il signore dell’Unità (ilmarito). La scena si sposta nella stanzadel ragazzo di cui, ora si vede la faccia.Partono i titoli di testa. Il film promettebene perché in pochissimi minuti ci facon semplicità capire che quella chestiamo vedendo è una vera storia e nonun cincischio sulla personale visione delmondo di un regista esordiente. Unastoria dove, fin dall’inizio, i personaggisono ben delineati. E se è vero, come èvero, che il buongiorno si vede dal mat-tino, è altrettanto vero che il buon filmsi vede dalla prima scena, e questo man-tiene le promesse. Il protagonista è unragazzo con una madre molto cattolicaed un padre comunistissimo che non siè ancora ripreso dalla morte di Berlin-guer. Siamo nel settembre del 1984. Ar-riva per vendemmiare una bella ragazza.Il ragazzo e la ragazza imparano a cono-scersi tra un grappolo e l’altro. I dialoghisono scarni e precisi, lo scandire deltempo, sempre uguale, viene suggeritodalla ripetizione di alcuni gesti semplici,i personaggi (anche quelli all’apparenzameno importanti) hanno un loro sensoe soprattutto i due giovani sono lontanianni luce dagli stereotipi giovanilisticidescritti in tanti film di successo. E’ unfilm fortemente ancorato all’ Emilia,terra del regista, usa a momenti il dia-letto e fa coesistere personaggi che sem-brano usciti dalla penna di G.Guareschi, gli adulti, con altri più gio-vani e moderni come usciti da quella diPier Vittorio Tondelli. Interessante lascelta del periodo storico, gli anni set-tanta sono stati un decennio tragico eintenso che per concludere il suo corsoha dovuto debordare un po’ nel decen-nio successivo. Nel 1984 con i funeralidi Enrico Berlinguer si celebra forseanche la fine di un Italia che non torneràpiù. Il cinema italiano non vive ormai datempo giorni di vendemmia. Ci prova ecapita a volte che il pubblico superi ladiffidenza e il timore di entrare in un ci-nema dove proiettano un film italianoprivo di attori e nomi conosciuti. Intanti l’hanno fattoquando è stato proiet-tato al cinema Castello questo film allapresenza della giovane e coraggiosa pro-duttrice Simona Malagoli, che ha rac-contato, fra l’altro, che tutti quelli chehanno lavorato al film erano ragazzi natidopo il 1980.

di Giovanni [email protected]

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di Duccio [email protected]

LETTERE&LETTERATI

Nel 1996 negli Stati Uniti usciva untesto di uno scrittore destinato a diven-tare un mito della generazione dei tren-tenni di oggi: Chuck Palanhiuk. Quelromanzo si intitolava “Fight Club”; ilsuo autore lo aveva scritto in un mo-mento della sua vita in cui lavorava perotto ore al giorno in una fabbrica di au-tomobili. Passava la giornata distesosotto le vetture ad avvitare alberi di tra-smissione “a due passi dai forni dellaverniciatura”. Il grande Sogno Ameri-cano infatti aveva costretto Palanhiuk alavorare in una fabbrica perché non riu-sciva a trovare un posto come giornali-sta a Portland, Oregon, la sua città.Palanhiuk, appena uscito dal lavoro, fini-sce tutte le sere ad ubriacarsi nei roa-dhouse alla periferia della città,sognando un futuro diverso, distruttodalla stanchezza, cessa quasi del tutto discrivere e per smettere di bere prova afare volontariato nei gruppi di ascoltoper malati terminali,solo per dare unsenso ad un esistenza che sembravaormai arrivata al capolinea. L’Eroe ame-

ricano è sconfitto, èun’esistenza di squal-lore e povertà, unaperiferia della mentenella quale anche lostesso Raymond Car-ver stava cadendo. Macome in ogni bel ro-manzo americano, ungiorno spunta dalnulla un volantino,un’ancora di salvezza,un’illuminazione.L’ancora ha il volto diun uomo - Tom Span-bauer - che durante lanotte insegna a

gruppi di lavoratori “scrittura creativa”nella cucina della sua casa. Ancora unavolta Planhiuk si ritrova in un gruppo diauto-aiuto, in un cerchio di persone chedopo il lavoro finiscono in una stanzaper parlarsi e per cercare di dimenticarela tragedia della vita quotidiana di lavo-ratori schiavi delle catene di montaggio.Però siamo negli States, la patria deicolpi di scena, delle rimonte, la patriadegli eroi che non soccombono al de-stino crudele che è stato loro imposto

dal fato. L’Eroe americano riesce in unattimo a ribaltare la sua esistenza, dinuovo. Lo scrittore ormai dato permorto rinasce grazie al toccasana dellascrittura creativa. Dopo la catena dimontaggio, la notte, Palanhiuk riesce oraa scrivere le bozze di “Fight Club”, il suoprimo romanzo che gli darà celebrità,danaro e anche un posto a Hollywood.In esso parla di tutti gli incontri notturnie delle persone che ha conosciuto real-mente nei gruppi di auto-aiuto. Violenti,marginali, alcolizzati, esistenze di falli-mento alla periferia boschiva di Por-tland. Leggete dopo “Fight Club”, unsaggio autobiografico di Palanhiuk chesi intitola “La scimmia pensa, la scimmiafa”. Comincia come un film. Ma è tuttoreale, è vita vera. Esterno - Giorno - Ca-mera di albergo. Los Angeles - Califor-nia. Ora vediamo il nostro Eroeamericano in una piscina di Hollywood,con il cranio ustionato da un dopobarbadi lusso ed un Cocktail Martini in mano,attende di incontrare il produttore cheha acquistato i diritti di “Fight Club”.Leggete tutto questo autore che rac-conta il lato oscuro del Sogno a stelle estrisce.

FAVOLA DELLE PAROLE

Per lo studioso francese Jean-LucMarion, “la gratuità e ildono non sono un caso parti-colare dello scambio”. Il dono

non presuppone il ritorno perché èfatto presupponendo una perdita. Aldono non è connaturato il calcolo delritorno perché ciò che ad esso si ac-compagna - crescita o perdita - lo ec-cede sempre.Vale la pena considerare più attenta-mente due aspetti che Marion men-ziona e cioè la “perdita” e “ciò cheaccompagna” perché da questi dueaspetti vengono due parole che, lin-guisticamente sono costruite sul“dono”, ma concettualmente, tirandole somme dalla teoria di Marion, loprecedono: rispettivamente “per-dono” e “condono”. Entrambe, comemostrano i prefissi, esprimono unalogica dell’eccedenza: nel senso cheil dono eccede l’oggetto o l’atto do-nato. “Condono” sembra persino ec-cedere la logica binaria dellareciprocità a favore del più ampioconcetto di comunità. “Perdono”,oltre che “iper-dono”, etimologica-mente potrebbe essere anche il risul-tato dell’unione tra “per-dere” e“donare”. Ma se ciò è vero e se cioè ildono, come vuole Marion, non è uncaso dello scambio, allora esso è es-senzialmente “perdono”. In altre pa-role, il dono può essere pensato al difuori della logica della scambio chenon gli apparterrebbe soltanto se inesso si individua, quale propulsoreoriginario, il “perdono”. Mettere inconto la perdita perché solo attra-verso questa si può generare unavanzo senza ritorno rompe la logicadella reciprocità. Generare un avanzo

di Marco [email protected]

presupponendo la perdita è una sortadi miracolo.Il dono inteso come perdono è tutta-via una sorta di tabù per il capitali-smo e come tale diventa il caproespiatorio da sacrificare, da riportarealla logica mercantile per confermarel’apparente naturalità dello scambio.In Italia, con l’inflazione e la fre-quenza dei condoni – fiscale, edilizio,ora anche “tombale” – si è trovato unmodo tutto particolare e efficacis-simo di prevenire la gratuità e ritra-sformare in scambio (e in voto discambio) il dono e con esso la spe-ranza, tutta calcolata, di credere chealla fine un ennesimo miracolo (ita-liano) accadrà.

Un eroemadein Usa

Dono,perdonoe condono(tombale)

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.com sabato 16 febbraio 2013no17 PAG.13NUVOLETTE

www.martinistudio.euLe storie di Pam

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.com sabato 16 febbraio 2013no17 PAG.14ICON

Mese della Memoria, giornodella Memoria, Casa dellaMemoria, “per raccontare,conoscere e condividere la

memoria e la storia del ‘900 e di Roma”.Dal 18 Gennaio al 1 Marzo in questaCasa, due passi da Regina Coeli, si po-tranno ammirare 30 disegni, alcuni ine-diti, di Carlo Levi. Molto noto comescrittore, Levi fu pittore da sempre e benprima di scrivere. Medico, democratico,impegnato politicamente, fu inviato daifascisti al confino ad Aliano, paesetto ar-roccato in cima a un dirupo in Lucania,da quella esperienza umana il capolavoro“Cristo si è fermato ad Eboli”. In vecchiaia,colpito da una malattia retinica, fu operatodue volte agli occhi e rimase per diversotempo più o meno cieco. Linuccia Saba,figlia di Umberto e sua compagna, ebbemodo di raccontare di come lo intristisseil buio e la squallida stanzuccia dell’ospe-dale, poi, una sera, ricorreva il comple-anno del bambino cui aveva promesso diregalare ogni anno una rosa disegnata,prese un foglio e un lapis e disegnò unarosa, scrisse “ogni rosa è nera quando èsera”. Da quel momento in poi come fossesparita la malattia, non più tristezza,niente più cecità. Disegnava, cercava den-tro di sè il ricordo dei volti amici, del suo,delle cose e le disegnava, dapprima inbianco e nero poi anche a colori. Scrivevapure, usava una tavoletta in cui un reticolodefiniva delle caselle al cui interno posi-zionava lettere e parole, chiamò questooggetto il “Quaderno a cancelli” e fu que-sto il titolo del libro che raccoglieva pen-sieri e scritti di quel periodo pubblicato daEinaudi nel 1979 e di cui, al Vernissage ro-mano, è stata chiesta a gran voce la ri-stampa. Un precedente curiosoraccontato niente meno che da Pablo Ne-ruda sembra prefigurare questa inusitatacapacità pittorica al buio, una sera mentreera in posa per un ritratto :«Sprofondainell’ oscurità-scrisse- ma egli continuavaa dipingermi. Il silenzio finì per divorarmi,però egli seguitava forse a dipingere il mioscheletro. Perché i casi erano due: o le mieossa erano fosforescenti o Carlo Levi eraun gufo, aveva gli occhi scrutatori dell’ uc-cello della notte». Torniamo a Roma, allamostra, i disegni esposti, alcuni dei qualiaccompagnati da scritti autografi di Levi,appartengono alla collezione privata diAntonio Milicia, personaggio che po-trebbe essere uscito direttamente dalle pa-gine del Cristo, di origini siciliane,emigrato in Germania, conobbe Levi aZurigo, ha conservato per anni questi di-segni che erano stati dati per persi. Fraquelli in mostra un Autoritratto, un ri-tratto dell’amata Linuccia e uno che ri-propone la famosa rappresentazione degliamanti, due volti che si fondono. Segnileggeri, come tremanti, liberati dalla guidadella vista, attingono direttamente a emo-zioni interiorizzate e sedimentate nel-l’anima dell’artista, immagini comeritrovate, provenienti da un tempo e unmondo, sia pure temporaneamente, per-duti.Un grazie speciale per l’idea a Italo Patta-rini

di Cristina [email protected]

di Paolo [email protected]

IN CIELO&IN TERRA

Sulla prima pagina – bianca – di “Lucedel Mondo” (libro-intervista di PeterSeewald con Papa Benedetto XVI) hoscritto a lapis: “24 aprile. Finito di leggereil giorno di Pasqua 2011: un bellissimoviaggio dentro una grande spiritualità,dolcezza, sapienza e umiltà.” Si è già detto e scritto molto dopo unsolo giorno dall’annuncio delle dimis-sioni. E molto di più si dirà e si scriveràda qui al prossimo 28 febbraio e dipoi. Mi limiterò, in proposito, a fissare alcunisentimenti e riflessioni, personalissimi.La prima istintiva reazione quando ieri,intorno alle una ho ascoltato la notizia, èstata di felicità e di compiacimento; nes-suna sorpresa, solo felicità: mi si propo-neva al cuore ciò che avevo già intuito emetabolizzato nel tempo, la grandezza diquesto Pontefice. Che ha scritto – stascrivendo, oggi vieppiù - una pagina ine-dita nella storia della Chiesa con la natu-ralezza del viandante, del pellegrinoispirato da un profondo spirito di servi-zio e da un non comune senso di respon-sabilità. Che, al momento giusto, sadecidere anche di farsi da parte, con pa-role dette a bassa voce, senza enfasi al-cuna ed in lingua latina, come adammantare una decisione altrimentisconcertante della tranquillità di una lo-gica ferrea e, per così dire, essenziale;come a rassicurare preventivamente glianimi. Che bella e quanto folgorantequesta non-novità!Le dimissioni certamente sono (e nonpotevano, dato l’uomo, che essere) fruttodi una scelta lungamente meditata, sof-ferta – come ci conferma il fratello Georg–, il prodotto naturale di quella raziona-

lità, di quella misura, di quel logos, checostituiscono l’essenza del messaggio edella fede di questo servo di Cristo. Nonun papa vibrante e passionale, come ilpredecessore, bensì un raffinato studioso,un teologo di immensa dottrina, maiperò distaccato o avulso, sempre parte-cipe della umana sofferenza e per questo,altresì, dolce e umile – come mi appun-tavo quasi due anni fa.

Massimo Cacciari, filosofo di elevato li-gnaggio e acuto commentatore (in Italiauno dei pochi, mi pare, che possa esibireuna specchiata onestà intellettuale) hanon casualmente proposto, per l’occa-sione, il concetto di esempio. E’ banale ri-ferirlo agli screditati componenti dellanostra classe dirigente, opportuno emeno scontato misurarlo, ciascuno, sullapropria esistenza: riconoscendosi adogni passo - anche il più audace e vin-cente - come soggetti estremamente fra-gili, sempre sul ciglio del burrone epertanto con il dovere della consapevo-lezza e della vigilanza.Non nascondo che dopo la “felicità” della

citata conferma mi è sopraggiunta, comein un contrappasso, una infinita malinco-nia. Il pensiero che con il pontificato diBenedetto XVI è come se si chiudesseuna stagione della mia/nostra esistenza(un papato può ben prestarsi a ‘scandire’una fase della vita o no?) e che il futuro ètanto di più oggi un’incognita - non soloper la Chiesa ma anche per ciascuno dinoi. Da affrontare auspicabilmente con

fiducia ma senza nascondersi le diffi-coltà, i pericoli, le sfide. Il lascito più importante di Joseph Rat-zinger sarà forse, per me, quella sua inef-fabile congiunzione di sapienza e disemplicità. L’attitudine a fare di ognigiorno un percorso inedito lungo sentieritanto ardui quanto esaltanti: quelli dellospirito. L’insegnamento che tale percorsoè desiderabile, accessibile ad ognuno dinoi. vMi piace, citando i versi struggentidi Vincenzo Cardarelli, salutare PapaRatzinger come “un vecchio sole otto-brino che splende sulle vigne saccheg-giate”. Luce potente ma discreta sul sensodel nostro viaggio esistenziale.

Guardando la Luce di Benedetto XVI

Ogni rosa è neraquando è sera

A Romai disegniinediti

di Carlo Levi

Foto di Maurizio Berlincioni

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.com sabato 16 febbraio 2013no17 PAG.15ICON

di Angela [email protected]

Trasparenze di Andrea Oranisono “stracci” semplicementepanni per pulire che l’artista hatrasformato in altro. Traspa-

renze perché fanno intravedere la me-tamorfosi di un banale oggetto. Sonostracci, bagnati, strizzati, allargati,Orani tira ogni straccio, quasi fosseun impasto, il panno si strappa, sibuca, forma anelli, se il “disegno” glipiace asciuga il panno steso su un ta-volo e lo dipinge di nero poi lo fissasu una base di legno a sfondo mono-cromatico. Usa solo colori primari perle sue opere, rosso, bianco, blu, neronon ci sono vie di mezzo o combina-zioni Blu, 2012 – Giallo, 2012 – Rosso,2012. In galleria ci troviamo di frontea colate laviche, dove la lava incande-scente rossa e la lava raffreddata nerasi sovrappongono e si mischiano performare scie, croste, catrami Lava,2012. Andrea Orani è architetto e il-lustratore, in questeopere esposte si percepi-sce la sua formazione ar-tistica ma soprattutto lasua voglia e capacità dimettersi continuamentein discussione e di speri-mentare l’uso di materialipoveri come gli stracci oil polistirolo. I suoi colori,i materiali che Andreautilizza, lo spazio trovatodi là dello straccio sonorichiami e omaggi ad Al-berto Burri, Joan Mirò eLucio Fontana. Spesso lasua sperimentazione èdovuta “al caso” e attra-verso queste opere com-prendiamo l’apertura,l’entusiasmo e la curiositàche Andrea prova verso ilquotidiano; si guarda in-torno come se volessecaptare ogni stimoloesterno, pronto ad acco-gliere in sé qualsiasi pos-sibilità di esperienza etrasfigurazione, in questo stanno lesue Trasparenze. La decontestualizzazione lo porta ausare materiali di uso quotidianocome materia pittorica, Orani mani-pola gli stracci, li legge come fosserofondi di caffè, ci trova un futuro, unaconnotazione, ci scorge una caratteri-stica al di fuori del loro uso comune.Gli stacci usati per pulire diventanotrasparenze, crateri lunari, paesaggi eavvistamenti di altro attraverso la fe-rita inflitta, il buco diventa un can-nocchiale per vedere il futuro, perandare oltre allo spazio creato. Lefibre dello straccio si allagano, si di-stendono, cambiano significato, di-ventano materia malleabile eincoerente lui stesso diventa straccioche si satura, si strizza e libera segnisulla superficie pittorica. AndreaOrani è Trasparenze, mostra che pos-siamo visitare alla Galleria Immagina-ria di Firenze fino al 27 febbraio 2013.

Le Trasparenzedi Andrea Oranialla GalleriaImmaginariadi Firenze

Arte

Rosso, 2012

stracciata

Blu, 2012

Giallo, 2012

Lava, 2012

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.com sabato 16 febbraio 2013no17 PAG.16LETTERE&LETTERATI

Ti rendi conto che la tua famiglia di ap-partenenza è fatta dalle persone che daquella che noi chiamiamo indignazione

hanno fatto un salto dicendo: questa cosami interessa!Io sono un uomo, diceva

il filosofo, e tutto ciò che è umano mi inte-ressa. Questa famiglia anche se è lontana,tu però sai che nel mondo esiste, c’è, ed èuna costatazione. Io di natura sono un

pessimista, ma il fatto che ci sia è perlomeno sufficiente.

Antonio Tabucchi

Una serata dedicata all’incontro,all’impegno e al raccontare rac-contandosi, quella che si è svoltal’11 febbraio scorso al Teatro

Puccini. Fuori tempo da lupi ma in salacalore, scambio e dialogo. Questa la pre-sentazione del progetto, libro più dvd,Uno strano amore, Nuovi compagni diviaggio, realizzato da Edizioni Piagge acura di Umberto Benedetti, Stefano DeMartin e Francesco Ritondale. Tutto comincia il 5 febbraio 2010quando al Cinema Odeon viene presen-tato Compagni di viaggio. In direzioneostinata e contraria, documentario cheraccoglie gli interventi di Don LuigiVerdi, Don Alessandro Santoro e DonAndrea Bigalli. Tre anni dopo i nuovicompagni di viaggio sono sei e si chia-mano Gian Carlo Caselli, Lella Costa,Maurizio Maggiani, Sergio Givone, ClaraSereni e Antonio Tabucchi. La cultura, lospettacolo, la giustizia, sguardi diversi chearricchiscono, completano e pongononuovi quesiti ma con gli stessi obiettivi ele stesse emozioni. Un incontro, nelle parole tratte dalla pre-fazione al volume di Don Antonio San-toro, che nasce dal “bisogno umano direstare umani”, che si è riversato sullacarta e chi se è proiettato in immagini. È dalle loro case che i protagonisti par-lano e si raccontano. Cambiare il propriopunto di vista, e fare la rivoluzione ca-pendo che il mondo non inizia e finiscecol proprio ombelico, senza paura esenza avarizia di sé, le considerazioni chepartono da Lella Costa e che rimbalzanonella testimonianza del coraggio e delladedizione di Don Pino Puglisi data dalmagistrato Gian Carlo Caselli. La re-sponsabilità collettiva civile di cui parlail Professor Sergio Givone e la difficoltàdi andare insieme in direzione ostinata econtraria senza adattarsi nelle splendidariflessione di Clara Sereni. Perché poi di-rezione contraria? È la domanda che sipone Maurizio Maggianti arrivando allaprofonda riflessione sulla guerra e la sof-ferenza fatta da Antonio Tabucchi nelsuo intervento registrato pochi mesiprima della sua scomparsa.“L’ignoranza e l’analfabetismo gestiticome bene di consumo” su questa frasedi Maurizio Maggianti che si concentrala riflessione di Don Alessandro Santoroin chiusura di serata: “Spesso si parla dinemici da combattere, di demoni dasconfiggere. L’ignoranza è il maggiore diquesti avversari. È trasversale a tante sto-rie e situazioni, così come al dolore chenon riesce a farsi tenerezza”.Edizioni Piagge nasce 4 anni fa con lo

di Caterina [email protected]

ODORE DI LIBRI

Qualcosa di nuovo si muove in Toscananel campo della sperimentazione arti-stica. Ritorna lo spirito pionieristico dichi tenta di inventare senza reinventarsie la ricerca assume la forma di una casaeditrice virtuale che si occupa esclusiva-mente di libri d’artista. Ma non è scon-tato e neppure doveroso che tuttisappiano di cosa si tratta, dunque nonfarà male ricordare che i libri d’artistasono libri, o oggetti a forma di libro,sulla cui configurazione l’artista haavuto un’elevata capacità di controllo. Illibro in se stesso, dunque, è consideratocome opera d’arte e i precedenti sono il-lustri: da Marinetti a Blake, da Deborda Fluxus, tanto per citarne alcuni. Lamostra, presso la galleria Gennai di Pisa(fino al 2 marzo), è curata da SilvanaVassallo e si rivela anticonvenzionale findal titolo: It’s so a-typ(o)ical. Il libro d’ar-tista nell’era della riproduzione digitale.Ho chiesto agli autori esposti di par-

larmi delle loro opere.Giacomo Verde presenta Multi book-Video frames book of artist/Tavola Ita-liana 2001/2011, un’opera compostada un cofanetto e da tre libri realizzation-line. Nel cofanetto, le immagini

It’s so a-typ(o)ical

Uno strano amore,nuovicompagnidi viaggio

stampate su fogli trasparenti si confon-dono sovrapponendosi: solo estraen-dole una ad una se ne può cogliere ilsenso. “Sono immagini ottenute dal mi-xaggio di un video proiettato su una ta-vola apparecchiata e mandata infrantumi du-rante una azioneperformativa”,spiega l’artistaraccontandocome il suoscopo sia quellodi ricreare sim-bolicamente lamemoria emo-tiva e politicadegli ultimi annidi storia italiana.“In Italia, le in-formazioni tra-smesse daitelegiornali durante l’ora di pranzo, o dicena, si proiettano metaforicamente suquello che si mangia. Fuori dall’ansiadel tempo televisivo – commenta Verde

– ho isolato al-cune immaginiperché attra-verso la formadel libro si po-tessero leggerein modo com-piuto”. Il pro-getto contemplaanche tre volu-metti cartacei,anch’essi realiz-zati on-line. Letre tipologie dilibro incarnanotre modalità difruizione e me-

moria: un normale catalogo di imma-gini, un ricettario i cui piatti siaccoppiano ai momenti storici rappre-sentati e infine un Photo Book dove èpossibile aggiungere le proprie foto. UnQRcode posto nell’ultima pagina di

ogni libro permette di scaricare il video“Forchetta e Martello”, da cui tuttonasce.Luca Leggero & Luca Giorgi raccon-tano così l’opera L’arte delle mine, che in-tegra il progetto del libro con l’aspetto

performativo. “E’ un libro, una perfor-mance, una serie di istruzioni – diceLuca Leggero – per chi ha poco tempo.Tu prendi delle mine da disegno manon disegnare: attaccale alla corrente(fai attenzione). Vedrai quanti bei dise-gni che vengono fuori”. L’arte dellemine sono una serie di libri realizzaticon una tecnica inusuale: delle mine dadisegno collegate per qualche secondoalla corrente elettrica prendono fuoco ebruciano dei fogli di carta. “In mostra sivedranno i libri – continua l’autore –ma a noi interessa rendere visibili anchei materiali e il procedimento che portaal prodotto finito. Sarà una specie di tu-torial per permettere ai visitatori di ri-petere l’esperienza a casa”. I libri sonoinfatti corredati da un Dvd contenenteun video esplicativo ispirato all’esteticadei filmati fai-da-te di Youtube che saràvisibile anche in mostra.A destra Giacomo Verde – Multibook-Video frames book ofartist/Tavola Italiana 2001/2011, asinistra Luca Leggero & Luca Giorgi– L’arte delle mine

di Ilaria [email protected]

scopo di raccontare storie di vita vera at-traverso un’attività autogestita e autofi-nanziata per sostenere i progetti direinserimento che coinvolgono le per-sone affidate alla Comunità delle Piagge.

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.com sabato 16 febbraio 2013no17 PAG.17ANGOLO PROUSTIANO

di Leandro [email protected]

Quali sono stati i rapporti diProust con Firenze? Influenzatoda un’erronea associazione diidee tra Firenze, fiori e polline,

Proust s’era convinto che Firenze sa-rebbe stata fatale alla sua febbre da fieno.E così il Ponte Vecchio, “ingombro digiunchiglie, di narcisi e d’anemoni”, ri-mase per sempre solo una visione per ilNarratore della Recherche. Nella realtàProust visitò l’Italia ma non scese al disotto dell’Appennino. Visitò Venezia,andò in gondola e sostò al caffè Quadriin piazza San Marco. Poi si recò anche aPadova dove vide gli affreschi di Giottonella cappella degli Scrovegni, ma do-vette rinunciare a scendere fino a Fi-renze.Eppure il viaggio a Firenze l’aveva nonsolo desiderato ma anche preparato,cosa ben comprensibile se leggiamoquello che ha scritto sugli affreschi di Be-nozzo Gozzoli in palazzo Medici Ric-cardi, e se pensiamo alle meravigliosefantasie che gli suscitarono quei quadriincantevoli.Ma chissà perché a un certo puntoProust si convinse che le spore dei fiori,che egli credeva , forse a causa del nomedella città ispirato ai fiori, fossero onni-presenti in Firenze, potessero danneg-giare la sua asma.

Un anno, avvicinandosi la Pasqua, unsogno aveva cominciato ad insinuarsinella sua ardente fantasia. I genitorifanno balenare al giovane Marcel la spe-ranza di un viaggio in Italia, e così ainomi familiari delle città del nord Eu-ropa se ne sostituiscono altri più lontanima ancor più ricchi di seduzione e la pri-mavera iridata che egli immagina rico-prire “di gigli e di anemoni i prati diFiesole e abbagliare Firenze con fondalid’oro simili a quelli dell’Angelico “, attu-tisce il desiderio della primavera ancorabrinosa e fredda della costa normanna edelle ondate del mare del Nord così alteda arrivare a lambire chiese erte e scabrecome scogli.Proust non vide mai Firenze ma se la im-maginò. Come? La pensò come miraco-losamente profumata e simile ad unacorolla, poiché la sua cattedrale si chia-mava Santa Maria del Fiore e lei stessaera “la città dei gigli”. Questa Firenze so-gnata, era idealizzata nell’aspettativacome “scaturita dalla fecondazione, adopera di certi profumi primaverili, diquello che a lui sembrava, nella sua es-senza, il genio di Giotto”. E nei suoi sogniprendeva un duplice aspetto , quello diun affresco in cui appariva aureolata “dauna cortina di sole mattutino, nebbioso,obliquo e progressivo”, e quello più ter-reno e realistico, legato ai piaceri di unavita intatta e pura, nella quale egli si sa-rebbe immerso, gustando frutta e vinodel Chianti, e affrettandosi verso il PonteVecchio, attratto dal profumo di giunchi-glie e anemoni: desideri semplici di pia-ceri materiali, di una vita non ancorasperimentata ma pur sempre riconduci-bili, nella sua esaltazione adolescenziale,alla suggestione di certe scene intravistenelle pitture dei primitivi toscani.

Il giglio di Firenze

Proustche spaventò

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Cupertino, California 1972

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.com sabato 16 febbraio 2013no17 PAG.18L’ULTIMA IMMAGINE

Una delle cose che mi hapiù sconvolto nei primitempi del mio soggiornocaliforniano è stata lacura maniacale con cuitutti, o quasi tutti i mieinuovi vicini di casa, si de-dicavano alla gestione deipropri “front and backlawns”, quegli incredibilitappeti verdi con l'erbettasempre tagliata alla giustamisura (né un millimetroin più né un millimetroin meno) che sino a quelmomento ricordavo diaver visto soltanto neifilm che ci arrivavano daoltre oceano. La cosa miha subito affascinato, mail “secondo” contortopensiero che mi è venutosubito alla mente è cheuna buona percentuale diquesti signori dal polliceverde e dal cuore gentileerano, o potevano co-munque essere, i tran-quilli genitori di tanti diquei “boys” che in quellostesso istante stavano de-foliando con cura certo-sina e senza troppiproblemi, la maggiorparte delle risaie e delleforeste vietnamite. Un at-timo di smarrimento fu-gace e poi il rientronell'ordine delle cose e ilpositivo apprezzamentoper la pacifica, apparentetranquillità, di cui stavogodendo in que-sta mia nuovacondizioneamericana.

Dall’archivio di M

aurizio Be

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