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N. 15 - Aprile 2010 - Distribuzione gratuita, a cura della A.S.D. La Pelota www.aslapelota.it 2010 2009 2008 2007 2006 Agenzia di Aprilia TIPOGRAFIA DI LELIO TIPOGRAFIA DI LELIO dal 1957 Sempre vicini Sempre vicini atleti Apriliani atleti Aprilia atleti Apriliani Sponsor ufficiale della A.S.D. LA PELOTA APRILIA • Via Nettunense, 207 - Tel. e Fax 06.92.85.47.57 Mastrangelo e Pavino Riportiamo la tua Volkswagen in perfetta forma. Volkswagen Service ® FACCIAMOLI GIOCARE Scuola di vita Ma cos’è lo Sport per un Bambino? La domanda ce la siamo posta più volte, le risposte, a seconda dell’interlocutore, hanno avuto sfaccettature differenti, ma alla fine si è sempre arrivati alla medesima conclusione: una scuola di vita. Perché lo sport è estetica, ritmo, armonia, istanti fugaci, fantasia, ma anche rigore, solidarietà, sforzo, ordine e disciplina, elementi educativi, culturali, saper vivere e non ultimo salute fisica e mentale. Praticare sport è un modo in più per arricchire la storia di una vita. A nessuno chiediamo di diventare i De Piero, i Gallinari, i Bernardi, i Moelgg o la Federica Pellegrini di domani, ma le “piccole grandi” difficoltà che si incontrano facendo sport ci preparano alla vita, quando la competizione sarà veramente dura e se non si è preparati, i fallimenti saranno ben più gravi, relazionali e sociali. Il bambino che va a calcio, pallacanestro, atletica o nuoto, ad ogni allenamento migliora il comportamento e l’apprendimento precedente. Si supera. Non è poco. Abbattere una barriera è un grandissimo passo. I più piccoli, soprattutto i figli unici, si incontrano e si misurano con coetanei con i quali familiarizzano, imparano ad accettare anche chi, questo è normale, gli è meno simpatico di altri. La tuta e la maglietta iniziano a donare un senso di appartenenza, ciò va oltre la famiglia, è simbolo dello stare insieme. Vi sembra poco? A noi persone di sport no! E ancora, i papà, quando a casa giocano coi propri figli, sono “costretti”a perdere, ma quando si gioca nel campo, si comprende anche che esiste la sconfitta, l’insuccesso. E talvolta la sconfitta può essere numericamente pesante, cocente, eccessiva. Se si è coltivato solo il rifiuto di mettersi alla prova, se l’autostima non è stata allenata e la tolleranza all’insuccesso è scarsa, si vive il “fallimento” non come un incidente momentaneo, ma come la fine di un percorso e potrebbe subentrare la voglia di abbandonare. Collaborare E su questo anche i genitori, che per il proprio figlio vorrebbero il meglio e, se fosse possibile, gli eviterebbero di imbattersi in qualsiasi esperienza negativa, devono collaborare. Come? Lavorando sull’autostima, giocando con i ragazzi, stando con loro, ma lasciando anche gli spazi di autonomia in cui mettersi alla prova senza protezione eccessiva e ulteriori pressioni esterne. Ed è importante che aiutino il figlio a tollerare i momenti difficili, dandogli l’opportunità di trovare la strategia personale per reagire alle situazioni stressanti della quotidianità. Sostenere i figli nel sopportare le delusioni, facendoli guardare con ottimismo alle opportunità future di riscatto e suggerendo una strategia per non sentirsi sopraffatti dagli eventi. E, soprattutto, non pensare al proprio figlio come una propria appendice. Al termine della partita o del gioco organizzato, vittoria e sconfitta devono generare sempre felicità. Per avere atteggiamenti “professionali” c’è tempo. Il bambino deve vivere ogni confronto sportivo con grande serenità, affrontando gli avversari dando sempre il meglio di se stessi, indipendentemente da quanto si è bravi o meno… I bambini hanno poco tempo e spazio per giocare e fare sport. Verità che, purtroppo, non am- mette repliche. È uno dei proble- mi della società di oggi che rende i nostri figli impacciati dentro e fuori dal campo, ma li consacra campioni alla Playstation. Papà e Mamma che lavorano, Nonni, se ci sono, che aiutano, scuola a tempo pieno e poi catechismo o musica o inglese… Certo, tutti almeno un’ora la settimana riescono a fare sport. Ma non ba- sta. Non può bastare. Doveroso studiare ed apprendere. Ma per chi frequenta ancora la Scuola Primaria il gioco è fondamentale. Lo dicono tutti (uomini di cultura, medici, manager) e anche gli allenatori propongono la maggior parte delle loro esercitazio- ni in forma ludica, senza lasciar sottendere quale sia la finalità. iscrizioni sempre aperte info: 329.20.42.165 27 Istruttori a Tua disposizione La Pelota Scuola Calcio

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FACCIAMOLIGIOCARE

Scuola di vitaMa cos’è lo Sport per un Bambino? La domanda ce la siamo posta più volte, le risposte, a seconda dell’interlocutore, hanno avuto sfaccettature diff erenti, ma alla fi ne si è sempre arrivati alla medesima conclusione: una scuola di vita.Perché lo sport è estetica, ritmo, armonia, istanti fugaci, fantasia, ma anche rigore, solidarietà, sforzo, ordine e disciplina, elementi educativi, culturali, saper vivere e non ultimo salute fi sica e mentale. Praticare sport è un modo in più per arricchire la storia di una vita. A nessuno chiediamo di diventare i De Piero, i Gallinari, i Bernardi, i Moelgg o la Federica Pellegrini di domani, ma le “piccole grandi” diffi coltà che si incontrano facendo sport ci preparano alla vita, quando la competizione sarà veramente dura e se non si è preparati, i fallimenti saranno ben più gravi, relazionali e sociali.Il bambino che va a calcio, pallacanestro, atletica o nuoto, ad ogni allenamento migliora il comportamento e l’apprendimento precedente. Si supera. Non è poco. Abbattere una barriera è un grandissimo passo. I più piccoli, soprattutto i fi gli unici, si incontrano e si misurano con coetanei con i quali familiarizzano, imparano ad accettare anche chi, questo è normale, gli è meno simpatico di altri. La tuta e la maglietta iniziano a donare un senso di appartenenza, ciò va oltre la famiglia, è simbolo dello stare insieme. Vi sembra poco? A noi persone di sport no! E ancora, i papà, quando a casa giocano coi propri fi gli, sono “costretti”a perdere, ma quando si gioca nel campo, si comprende anche che esiste la sconfi tta, l’insuccesso. E talvolta la sconfi tta può essere numericamente

pesante, cocente, eccessiva. Se si è coltivato solo il rifi uto di mettersi alla prova, se l’autostima non è stata allenata e la tolleranza all’insuccesso è scarsa, si vive il “fallimento” non come un incidente momentaneo, ma come la fi ne di un percorso e potrebbe subentrare

la voglia di abbandonare.

CollaborareE su questo anche i genitori, che per il proprio fi glio

vorrebbero il meglio e, se fosse possibile, gli eviterebbero di imbattersi in qualsiasi esperienza negativa, devono collaborare. Come? Lavorando sull’autostima, giocando

con i ragazzi, stando con loro, ma lasciando anche gli spazi di autonomia in cui mettersi alla prova senza protezione eccessiva e ulteriori pressioni esterne. Ed è importante che aiutino il fi glio a tollerare i momenti diffi cili, dandogli

l’opportunità di trovare la strategia personale per reagire alle situazioni stressanti della quotidianità. Sostenere i fi gli nel sopportare le delusioni, facendoli guardare con ottimismo alle opportunità future di riscatto e suggerendo una strategia per non sentirsi sopraff atti dagli eventi. E, soprattutto, non pensare al proprio fi glio come una propria appendice.Al termine della partita o del gioco organizzato, vittoria e sconfi tta devono generare sempre felicità. Per avere atteggiamenti “professionali” c’è tempo. Il bambino deve vivere ogni confronto sportivo con grande serenità,

aff rontando gli avversari dando sempre il meglio di se stessi, indipendentemente da quanto si è bravi o meno…

I bambini hanno poco tempo e spazio per giocare e fare sport. Verità che, purtroppo, non am-mette repliche. È uno dei proble-mi della società di oggi che rende i nostri fi gli impacciati dentro e fuori dal campo, ma li consacra campioni alla Playstation. Papà e Mamma che lavorano, Nonni, se ci sono, che aiutano, scuola a tempo pieno e poi catechismo o musica o inglese… Certo,

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penned’autoreNel giugno 2000,Alessandro Baricco pubblicò questa splendida rivisitazio-ne di Italia Germania 4-3, una partita ancora oggi so-spesa tra sogno e realtà...

Quando Schnellinger insaccò, un minuto e quaran-ta secondi dopo lo scadere del tempo regolamen-tare, io avevo dodici anni. In una famiglia come

la mia ciò signifi cava che ero a letto, a dormire, già da un bel po’. Allo stadio Azteca stavano facendo la storia, e io dormi-vo. Era giugno, il mese in cui ti spedivano dai nonni, al mare, a farti di biglie e di focaccia.Mi immagino mio nonno, solo, davanti alla tivu, fulmina-to, come Albertosi, dalla palettata di Schnellinger. Do-vette succedergli qualcosa dentro, in quell’istante: forse il complesso di colpa per avermi negato per sempre quell’emozione; forse, più semplicemente, pensò che era troppo solo per sopportare tutto quello. Insomma: si alzò e venne a svegliarmi.L’unica altra volta in cui qualcuno era venuto a svegliarmi nel pieno della notte per portar-mi davanti a un televisore era poi successo che un uomo aveva messo un piede sulla luna.Quindi, quando mi sedetti sul divano, sapevo esattamente che non avrei più dimenticato. Messico, giugno 1970, semifi nale dei mon-diali, Italia - Germania. Per la mia generazio-ne, quella è LA partita: è per la gran parte di noi è una emozione in pigiama e vestaglia, piedi freddi in cerca di pantofole, gusto di sonno in bocca e occhi stropicciati. Quel che di più simile c’è a un sogno.Lì per lì, la prima cosa che mi rapì fu una stupidata: c’era in campo Poletti. Poletti era l’unico giocatore del Toro che riuscisse a mettere la maglia della nazionale, giusto ogni tanto, quando qualcuno si faceva male.Giocava maluccio, aveva un nome da impiegato e face-va il terzino, cioè niente di poetico: però era del Toro, e per me era come se scendesse in campo mio padre. Lì, all’Azteca, mio padre era entrato per sostituire Rosato (un grandissimo, tra parentesi). Passai i primi minuti a cercarlo anche quando era fuori dall’azione, purché fos-

se dentro il televisore. Così lo vidi benissimo quando si mise a pasticciare orrendamente davanti ad Albertosi, al 94: la palla se ne rimase lì in mezzo, a due passi dalla porta, come un bambino dimenticato al supermercato: per Müller fu uno scherzo metterla dentro, anche perché era Müller, cioè un tipo umano che poi avrei incontrato infi nite volte, cioè quello che sta in agguato e poi ti frega, quello che non lo vedi mai se non nel preciso istante in cui ti sta fregando, quello che la natura si è inventata per riequilibrare il mondo dopo aver inventato i Poletti. Colpetto rapinoso, e 2 a 1 per i crucchi.A quel punto la partita era fi nita. Riva respirava come

se avesse avuto l’enfi sema, Boninsegna insultava tutti quelli che gli passavano a tiro, e Domenghini sciabolava dei cross talmente surreali che per ritrovare la palla do-vevano ricorrere ai cani da tartufo. Ontologicamente, la partita era fi nita. Martellini lo fece capire, con la morte nel cuore e nella voce, a tutti i nonni di Italia, e quindi anche al mio: che disse: a nanna. Mi salvò Burgnich. Cosa ci facesse lui in mezzo all’area avversaria, al 98, è cosa che un giorno gli vorrei chiedere. Probabilmente si era perso. Sparò il suo ferro da stiro su una palla ignobilmente pa-

sticciata da Vogts (Poletten), e insaccò, incredibilmen-te, regalando a quella partita un eleganza geometrica sovrannaturale, 2 a 2, i centravanti ad aprire la ferita e i terzini a suturarla, Boninsegna-Schnellinger, Müller- Bur-gnich, in una splendida metafora di quello che il calcio è, lo scontro tra gente che cerca di far accadere cose, gli attaccanti, e gente che cerca di impedire che cose accadano, i difensori. A ripensarci, era tutto così perfetto che avrebbero dovuto mollarla lì, tornare a casa e non giocare a calcio mai più.

Il 3 a 2 fu calcio vero, di quello che non ha bisogno del Poletti di turno per arrivare al goal. Apertura di Rivera sulla sinistra, non un centimetro troppo lunga, non un centi-metro troppo corta, fughetta di Domenghi-ni sull’ala, cross non surreale al centro, e palla a Riva: stop, fi nta, saluti vivissimi al difensore tedesco, palla sul sinistro, colpo di biliardo sul paletto lontano, rete. Più che un’azione, un’equazione. Dove quei tre abbiano trovato la lucidità di risolverla con quella perfezione dopo 104 minuti di batta-glia è cosa che un giorno vorrei chiedergli. Era calcio ridotto alle sue linee più pure ed essenziali. I tedeschi non ci capirono nien-te. Intervistati, avrebbero potuto dire quello che Glenn Gould diceva del rock: “non rie-

sco a capire le cose così semplici”.

Da lì in poi è confusione. Non ricordo più nulla, intorno a me, e questo signifi ca che doveva esserci un gran casino, dentro e fuori casa. E’ strano che io non abbia nemmeno un’immagine in testa di mio nonno che schiz-za fuori dalla poltrona e, che so, dà di matto sul balcone insultando la gente con cui, dall’8 settembre del ‘45, aveva qualche conto in sospeso. Niente del genere. Mi spiace, anche, perché terrei con me volentieri un’imma-gine di lui felice, incontrovertibilmente felice, lui che era

Le Grandi squadre del passatoITALIA-GERMANIA 4-3

La Partita lunga 40 anni“...per la gran parte di noi è una emozione in pigiama e vestaglia, piedi freddi in cerca di pantofole, gusto di sonno in bocca e occhi stropicciati. Quel che di più simile c’è a un sogno...

un uomo così pudico nelle sue gioie.Eppure tutto, nella memoria, risulta ingoiato da due sin-gole immagini, che hanno cancellato tutto il resto, come due fl ash accecanti che hanno spento tutto, intorno. E in tutt’e due c’è Rivera.

La prima è lui abbracciato al palo, un istante dopo aver fatto passare un pallone pizzicato dalla testa di Müller e spedito proprio dove c’era lui, sulla linea di porta, lì esattamente per fare quello che però, all’ultimo, non era riuscito a fare, e cioè interporre un qualsiasi arto o lom-bo tra pallone e rete, gesto per cui non era necessaria nessuna classe, nessun talento, ma giusto la semplice volontà di farlo, la determinazione di trasformarsi in cor-po solido, l’ottuso istinto alla permanenza che hanno le cose tutte, tutte tranne Rivera su quella linea di porta, dove vede passare il pallone e guardarlo è tutto, il resto è un palo abbracciato comicamente e un Albertosi che ti grida dietro domande senza risposta.

La seconda è l’icona massima di quell’Italia-Ger-mania. Rivera, ancora lui, completamente solo a centro area, riceve un assist dalla sinistra (Bonin-segna) e tira in porta al volo, di piatto destro. Ma-ier, il portiere tedesco, un mattocchio che sapeva il fatto suo, è attaccato al palo destro dov’ era andato a chiudere su Bonimba: si aspettava il so-lito centravanti che sfonda e poi tiracchia appena vede lo spiraglio; Boninsegna era in effetti il più classico dei centravanti; una sola cosa era logico che facesse: tirare. E invece con l’orecchio aveva visto Rivera, là, olimpico e apollineo, in una radura di magica solitudine nel cuore dell’area: illogica rasoiata in quel punto, palla nella radura, e Ma-ier fuori posizione, fatto fuori da un’inopinata incursione della fantasia nel tessuto di un teorema che credeva di conoscere a memoria.Rivera e Maier. Tutta la porta spalancata, vuota. Maier lo sa e alla cieca abbandona il palo e si scaraventa a co-prire tutto quello che può di quel vuoto. Rivera potrebbe affi dare al caso la pratica, scaricando sul pallone la po-tenza approssimativa del collo del piede, e vada come vada. Invece sceglie la razionalità.Apre la caviglia (ho visto donne aprire ventagli senza

nemmeno sfi orare quella eleganza), e opta per il colpo di interno, scientifi co, geometrico, magari meno poten-te, ma nato per essere esatto: ha un’idea, e per quella idea non gli serve potenza, gli serve esattezza. E’ un’idea fuori dalla portata di un portiere colto fuori posizione e provvisoriamente consumato dallo sforzo animalesco di rientrare nella propria tana prima che arrivi il nemico.E’ un’idea perfi da e geniale: fregare l’animale in contro-piede andando a infi lare il pallone non nel grande vuoto che sta davanti all’animale, ma nel piccolo vuoto che gli sta dietro: l’unico punto in cui, fi sicamente, gli è impos-sibile arrivare. In pratica si trattava di tirare addosso a Maier, fi duciosi nel fatto che lui, nel frattempo, sarebbe fi nito altrove. Rivera lo fece. Il pallone passò a quattro dita da Maier: ma erano come chilometri.Goal. IL goal. Una buona parte dei maschi italiani del-la mia generazione conserva la memoria fi sica di quel tocco riveriano appiccicato all’interno del proprio piede

destro. Non scherzo. Noi abbiamo sentito quel pallone, non smetteremo più di sentirlo, ne conosciamo i più inti-mi riverberi, ne conosciamo perfettamente il rumore.E ogni volta che colpiamo di interno destro, è a quel col-po che alludiamo, e non importa se è una spiaggia, e il pallone è quello molliccio sfuggito a qualche stupido giocatore di beach-volley, e in braccio hai un frugolo che pesa dieci chili, e in faccia la faccia di uno che l’ultimo cross dal fondo l’ ha fatto un secolo fa: non importa: peso sulla sinistra, apertura della caviglia, tac, interno

destro: rispetto, bambini, quello è un colpo che è iniziato tanti anni fa, in una notte di giugno, pigiami e zanzare.

Perché poi tutto questo, chi lo sa. Voglio dire: per quanto bella, era poi solo una partita. Cosa è successo perché dovessimo mitizzarla così? A dire il vero non l’ho mai veramente capito.Mi vengono in mente solo due spiegazioni. Avevamo l’età giusta. Tutto lì. Avevamo l’età in cui le cose sono indimenticabili. E poi: quella sera, quella partita, l’abbia-mo vinta.Sembra una stupidata, ma sapete qual è la cosa più assurda di tutta questa faccenda? Che se voi citate a un tedesco quella partita, magari con un’ aria un po’ com-plice, come a condividere un ricordo pazzesco e perfi no intimo, beh, quello quasi non se la ricorda, quella partita. Cioè, se la ricorda, ma non gli è mai passato per la testa che fosse qualcosa di più di una partita.

Anzi, hanno sempre un po’ l’aria di considerarla una partita stramba, folklorostica, neanche tanto seria. Non è un mito, per loro. Non è un luogo della memoria. Non è vita diventata Storia. E’ una partita.Tutt’al più ti citano Beckenbauer che gioca i sup-plementari con la spalla fasciata e il braccio bloc-cato sul petto. Come sarebbe a dire? Tu parli di una cena pazzesca e loro ti citano le patate lesse? Non scherziamo.Tanto quello giocava rigido come una scopa anche se non lo fasciavano, sempre lì a colpire d’esterno, il fi ghetto, chiedigli un po’ notizie di De Sisti, neanche l’ha visto, per tutta la partita, te lo dico io, ma vattela a rivedere poi ne riparliamo,

altro che Beckenbauer, vattela a rivedere, tac, interno destro, altro che esterno, comunque per me quella par-tita abbiamo incominciato a vincerla al 91, credi a me, no, che c’entra Schnellinger, dico al 91, adesso tu non te lo ricorderai, ma è lì che si è deciso tutto, cambio dalla panchina, fuori Rosato, dentro Poletti, ti dico che lì la partita è girata, ascolta me, vattela a rivedere se non ci credi... Prego?Ma guarda te, questo non sa nemmeno chi è Poletti…

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…”Se ti fai vedere dai com-pagni ricevi più palloni, se non li perdi, te li danno più volentieri”.È però un grande rischio se hai di fronte un avversario abile ad intercettare o una squa-dra che esprime un pressing organizzato. Io, comunque continuo a farmi vedere perché questo fa parte delle mie capaci-tà, e quindi non significa correre un rischio, ma adempiere un obbligo nei confronti dei compagni.Domanda: che consiglio daresti ai ragazzi che oggi stanno crescendo nei settori gio-vanili? La prima domanda che faccio ad un ra-gazzo è: perché sei qui? Perché lo deside-rano i tuoi genitori, perché non pensi che ci sia altro nella vita o perché pensi di avere abbastanza talento per farcela?Il talento lo ricevi, chi più chi meno, ma poi

va sviluppato col lavoro. Ai massimi livelli arriva chi ha talento lavorando, chi ne ha meno, lavorando tanto, e chi ha un talento spaventoso, senza lavorare. In ogni caso, le doti per esprimersi ai massi-mi livelli sono più nella testa che nei piedi. Il talento oggi non basta, ti può portare in alto, ma non è sufficiente per restarci. Per un’età che arriva ai 12/14 anni, ci sono ben pochi ragazzi che lasciano presagire un futuro nel calcio, e sempre a patto che non si perdano strada facendo. Ho visto troppi talenti non arrivare, dopo che aveva-no smesso di studiare e sviluppare interessi. Perché, come dico sempre, il calcio fa par-te della vita. Quindi dico loro: divertitevi, continuate a studiare e coltivare voi stessi, perché que-sto sarà importante anche se sarete fra i pochissimi che arriveranno nel calcio. Oggi infatti devi anche saper comunicare e prima capisci dove sei e meglio è, e senza cultura...”

Un giocatore si dice in posizione di fuorigioco quando - al momento in cui un compagno gioca il pallone - egli si trova al di là della linea dell’ultimo difensore. Se il giocatore che deve ricevere il pallone in quel momento e oltre l’ultimo giocatore della squadra in difesa al momento del passaggio, la posizione è considerata irregolare, o, in fuorigioco.L’attaccante blu sulla sinistra è in posizione di fuorigioco, perché si trova al di là della palla e dell’ultimo difensore (indicato dalla linea tratteggia-ta). Se il destinatario della palla è lui, scatta anche l’infrazione di fuori-gioco.Lo stazionare in posizione di fuorigioco non costituisce in sé un’infrazione. La posizione di fuorigioco di un giocatore viene punita solo nel momento in cui un compagno di squadra esegue un passaggio (anche in manie-ra fortuita) verso l’uomo in fuorigioco e questo entra in contatto con il pallone, oppure, pur non essendo il destinatario, influenza un avversario o trae vantaggio dalla propria po-sizione. In passato il regolamento era meno permissivo e puniva il fuorigioco indipendentemente dall’uomo al quale fosse diretto il passaggio, salvo prevedere in alcuni casi il fuorigioco passivo o non punibile.

A parte la citata eccezione dei due avversari, altre eccezioni sono:• il giocatore che si trova nella

propria metà del terreno di gio-co non si trova in alcun caso in posizione di fuorigioco.

• il giocatore che riceve diretta-mente il pallone su calcio di rinvio, su rimessa laterale o su calcio d’angolo non commet-te infrazione di fuorigioco.

Disposizioni arbitrali intorno alla valutazionedel fuorigioco La valutazione della esatta posizione degli uomini in campo e di quale parte del corpo debba essere presa in considerazione per determinarla è stato oggetto di diverse discussioni. Attualmente le disposizioni preve-dono che una qualsiasi parte del corpo, ad eccezione delle braccia e delle mani, che si trovi oltre la linea immaginaria costituita dal penultimo giocatore sia sufficiente a far considerare un giocatore in posizione di

fuorigioco (non occorre più che passi la famosa “luce” fra i due corpi, come prevedeva la regola in uso nella stagione calcistica 2004/2005). È da osservare altresì la difficoltà per un essere umano nell’applicazione di queste ultime disposizioni, e come spesso esse trovino spazio di dibattito solamente di fronte a riprese televisive rallentate.

La storia della regola Il fuorigioco fu codificato nel 1863 al momento della stesura del primo regolamento ufficiale della storia del calcio. Inizialmente si prevedeva che fra il giocatore che riceveva un passaggio e la porta avversaria vi fossero perlomeno 4 giocatori (cioè tre difensori e il portiere). L’origine della regola sta nel fatto che si voleva evitare che uno o più attaccanti attaccassero da tergo il difensore che giocava la palla. Nel 1866 il fuo-rigioco passò da 4 a 3 uomini e dal 1907 si iniziò a sanzionare questa

infrazione solo se il giocatore si trovava nella metà campo av-versaria. Ancor oggi un giocato-re non può essere considerato in fuorigioco se è nella propria metà campo.La modifica che più ha in-fluenzato la storia del calcio è senz’altro quella del 1926, con la quale si passò dal fuorigio-co a 3 a quello a 2 giocatori. Questa variazione, volta ad au-mentare la spettacolarità del gioco, sortì gli effetti desiderati e il numero di reti aumentò de-cisamente. Questa rivoluzione regolamentare ne determinò un’altra dal punto di vista tatti-co: l’esigenza di rafforzare la di-fesa spinse Herbert Chapman,

allenatore dell’Arsenal, a inventare un nuovo modulo di gioco che gli permise di guidare la squadra londinese a vincere due titoli nazionali. Il WM (o Chapman system), come venne battezzato, andò a sostituire la piramide (tattica sino ad allora universalmente diffusa) e ben presto sopravanzò anche il W, diffusi nello stesso periodo in Italia e Austria ad opera degli allenatori Vittorio Pozzo e Hugo Meisl. La più geniale trovata del sistema sta nell’arretramento del centromediano, che perdeva i suoi compiti di rilancio dell’azione, a marcare il centravanti avversario, per controbilanciare lo svantaggio numerico in fase difensiva.

I pensieri di un Campione: IL FUORIGIOCOCLARENCE SEEDORF

L’angolo delle Regole..

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Pochissimi tra loro saranno dei campioni. Il nostro

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