SOMMARIO - Fondazione dell'avvocatura parmense · 2015-11-07 · 12 Note sul processo...

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SOMMARIO pag. 3 Editoriale: alla vigilia della media conciliazione pag. 4 Attività del Consiglio pag. 5 Aggiornamento albi pag. 6 Variazioni pag. 9 Riforma federale dello Stato ? Adelante … con juicio pag. 12 Note sul processo amministrativo pag. 17 Il futuro della normativa europea in materia di informazioni sui prodotti alimentari ai consumatori pag. 21 Le Fondazioni non riconosciute (della loro soggettività giuridica e della responsabilità degli amministratori) pag. 28 La questione di genere nell’avvocatura pag. 31 Della conversione del contratto di mediazione nullo in contratto di procacciamento di affari pag. 34 Segnali di fumo pag. 39 Giurisprudenza disciplinare pag. 45 Giurisprudenza chiuso in redazione il 16 marzo 2011 Cronache dal Foro Parmense Anno XIX numero 3 – ottobre 2010 Periodico quadrimestrale a cura dell’Ordine degli Avvocati di Parma. Autorizzazione del Tribunale di Parma n.14 del 10 giugno 1992. Direttore responsabile: avv. Giuseppe Negri Comitato di redazione: avv. Nicola Bianchi, avv. Dominga Bubbico, avv. Andrea Conforti, avv. Alberto Magnani, avv. Francesco Mattioli avv. Alessandra Mezzadri, avv. Giuseppe Scotti Hanno collaborato a questo numero: avv. Renzo Botti dott. Pierfrancesco Brunelli avv. Raffaella Calda prof. Edoardo Fregoso avv. Carla Guidi avv. Marcello Mendogni avv. Giacomo Voltattorni ESECUTIVO06.indd 2 18-03-2011 9:10:18

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SOMMARIOpag. 3 Editoriale: alla vigilia

della media conciliazione

pag. 4 Attività del Consiglio

pag. 5 Aggiornamento albi

pag. 6 Variazioni

pag. 9 Riforma federale dello Stato ?

Adelante … con juicio

pag. 12 Note sul processo amministrativo

pag. 17 Il futuro della normativa europea

in materia di informazioni sui

prodotti alimentari ai consumatori

pag. 21 Le Fondazioni non riconosciute

(della loro soggettività giuridica e

della responsabilità degli

amministratori)

pag. 28 La questione di genere

nell’avvocatura

pag. 31 Della conversione del contratto

di mediazione nullo in contratto di

procacciamento di affari

pag. 34 Segnali di fumo

pag. 39 Giurisprudenza disciplinare

pag. 45 Giurisprudenza

chiuso in redazione il 16 marzo 2011

Cronache dal Foro ParmenseAnno XIX numero 3 – ottobre 2010

Periodico quadrimestrale a cura dell’Ordine degli Avvocati di Parma.

Autorizzazione del Tribunale di Parma n.14 del 10 giugno 1992.

Direttore responsabile:avv. Giuseppe Negri

Comitato di redazione:avv. Nicola Bianchi, avv. Dominga Bubbico, avv. Andrea Conforti, avv. Alberto Magnani,avv. Francesco Mattioliavv. Alessandra Mezzadri, avv. Giuseppe Scotti

Hanno collaborato a questo numero:

avv. Renzo Bottidott. Pierfrancesco Brunelliavv. Raffaella Caldaprof. Edoardo Fregosoavv. Carla Guidiavv. Marcello Mendogniavv. Giacomo Voltattorni

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Alla vigilia della media conciliazione

La richiesta, pressoché unanime dell’Avvocatura – CNF, Ordini territoriali, Associazioni professionali – di differimento di un anno dell’entrata in vigore della media-conciliazione ha avuto un parziale accoglimento.

Nella legge di conversione del decreto “Milleproroghe” (L.n. 10/2011) è previsto il rinvio di un anno soltanto per le controversie relative a questioni condominiali e ad incidenti stradali.

Sicchè, dal 20 marzo 2011, la media-conciliazione sarà operativa per le cause in materia di diritti reali, divisioni, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno da responsabilità e da diffamazione a mezzo stampa o con altro mezzo di pub-blicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, le quali non potranno essere iniziate, a pena di improcedibilità, se non dopo l’attivazione della procedura di mediazione.

Prescindendo da qualsiasi valuta-zione sulle ragioni che hanno impe-dito il differimento in toto dell’en-trata in vigore del DLgs n. 28/2010, credo giovi fare il punto della situa-zione riprendendo quanto scrissi, circa un anno fa, nel n. 1 del 2010 di Cronache.

Il Consiglio di Parma ha sottoposto l’anno scorso all’As-semblea degli iscritti il tema della media-conciliazione, con riferimento espresso alla creazione di un organo apposito da parte del Consiglio, deputato alla media-conciliazione.

L’Assemblea, nella seduta del 1° luglio 2010, si è espressa favorevolmente.

Il Presidente del Tribunale, a seguito di nostra richie-sta, ha concesso i locali da utilizzare per il procedimento di media-conciliazione.

Dopodiché, nell’autunno scorso, è stato emanato un decreto ministeriale (il DM n. 180/2010), concernente dispo-sizioni specifiche concernenti l’iscrizione e la tenuta dei regi-stri di mediazione e l’elenco dei mediatori, nonché le inden-nità spettanti agli organismi di mediazione.

Come è ormai noto – ma è bene rimarcarlo – il modello di media-conciliazione, disciplinato dal DLgs n. 28/2010, pre-vede organismi di mediazione pubblici e privati, destinati ad operare sotto la vigilanza del Ministero della giustizia.

Dall’inizio di quest’anno vi è stata un’accelerazione, in vista del 20 marzo, delle attività preparatorie all’entrata in vigore della procedura di media-conciliazione.

Le questioni più importanti riguardano, a tutt’oggi, il fun-zionamento dell’organismo di media-conciliazione, il perso-nale, che necessita – tra l’altro – di idonea formazione e le modalità di funzionamento della procedura.

Alcuni problemi sono stati già risolti in sede regolamen-tare, altri lo saranno strada facendo – dopo il 20 marzo prossimo – non potendosi ora prevedere, se non con larghi

margini di approssimazione, quali potranno essere i numeri delle richieste di mediazione all’Organi-smo dell’Ordine in una situazione di pluralità di offerte provenienti sia dal pubblico che dal privato.

E’ però presumibile che non saranno numeri di poco conto.

Questa, dunque, la situazione che stiamo affrontando in un clima generale di incertezza con la ferma volontà di far partire, pur con le difficoltà organizzative sopra poste in evi-denza, l’Organismo di conciliazione del nostro Ordine.

Tuttavia, restano le criticità di una normativa, che con eccessiva fretta è stata imposta senza tenere conto delle proposte di modifica che, da parte dell’Avvocatura, sono state avanzate a tutti i livelli.

Sono critiche tanto note quanto fondate ed è inutile ripeterle: il tempo dirà se l’introduzione della procedura di mediazione porterà i benefici effetti voluti (sperati) dal legi-slatore o se, viceversa, l’innovazione si tradurrà in un altro (l’ennesimo) esperimento di “esternalizzazione” (con par-ziale privatizzazione), che porterà soltanto (o quasi) ad un ulteriore allungamento dei tempi della giustizia.

Luigi Angiello

editoriale

Nella legge di conversione del decreto “Milleproroghe”( L. n.10/2011) è previsto il rinvio di un anno soltanto per le controversie relative a questioni condominiali e ad incidenti stradali

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ATTIVITA’ DEL CONSIGLIO

AATTIVITA’ DEL CONSIGLIO

Dal 1° dicembre 2010 al 15 marzo 2011 il Consiglio si è riunito 14 volte.

Elenco delle presenze dei Consiglieri alle adunanze:avv. Angiello n. 14avv. Gandini n. 14avv. De Risio n. 14avv. Brianti n. 11avv. Cagna n. 12avv. Calistro n. 12avv. De Sensi n. 12avv. Maggiorelli n. 14avv. Mattioli n. 13avv. Mendogni n. 11avv. Mezzadri n. 13avv. Montanari* n. 6avv. Piombi n. 13avv. Pinardi n. 9avv. Salvini n. 13

* (in carica dall’adunanza dell’8 febbraio 2011, eletta il 2 febbraio 2011 in sostituzione della compianta avv. Patrizia Grossi)

OPINAMENTO PARCELLEDal 1° dicembre 2010 al 15 marzo 2011, l’apposita

commissione consiliare (ovvero il Consiglio) ha opinato n.117 parcelle.

PROCEDIMENTI DISCIPLINARIDal registro dei reclami nei confronti degli iscritti

dal 1° dicembre 2010 al 15 marzo 2011:pervenuti n. 39archiviati n. 12disciplinari aperti n. 2disciplinari celebrati n. 2

RICHIESTE DI AMMISSIONE AL PATROCINIO A SPESE DELLO STATOpervenute n. 74ammesse n. 79non ammesse n. 3pendenti n. 6

ALBO AVVOCATI

ISCRIZIONI

FRANCESCA VIGNALI (21 dicembre 2010)LUCIA SANDRINI (4 gennaio 2011)DAVIDE ZAMBRELLI (4 gennaio 2011)SABRINA ALBERINI (11 gennaio 2011)DEMETRIO AZZARA’ (11 gennaio 2011)FRANCESCA CALDARELLA (11 gennaio 2011)GAETANA RUSSO (11 gennaio 2011)VALENTINA SORAVIA (11 gennaio 2011)ADRIANA CARUSO (18 gennaio 2011)SARA CARNESECCA (18 gennaio 2011)VIVIANA MANTIONE (18 gennaio 2011) per trasferimento dall’Ordine di CataniaCLAUDIA ANNA RITA QUINTO (18 gennaio 2011) per trasferimento dall’Ordine di MateraVALENTINA GASTALDO (25 gennaio 2011)RAFFAELE BUSANI (25 gennaio 2011)DAVIDE AZZALI (25 gennaio 2011)RAMONA LUCCHINI (1° febbraio 2011)MICHELE DE NITTIS (1° febbraio 2011)VERONICA VALENTI (8 febbraio 2011)LAURA FERRARINI (8 febbraio 2011)NICOLETTA CAMPA (8 febbraio 2011)GIULIA VIRDIS (15 febbraio 2011)ALESSANDRO NUCCI (15 febbraio 2011)LUCIO SABADINI DIQUATTRO (15 febbraio 2011)

GIULIO SBERNINI (15 febbraio 2011)BIAGIO CRAPAROTTA (22 febbraio 2011)SALVATORE MASCHIO (1° marzo 2011)elenco speciale degli avvocati addetti agli Uffici LegaliANGELA PALUMBO (8 marzo 2011)VALERIA BLANGIFORTI (8 marzo 2011)ROBERTA ROLLO (15 marzo 2011)ELISA RIGOLIN (15 marzo 2011) per trasferimento dall’Ordine di Ferrara

CANCELLAZIONI

VALERIA TAFURO (7 dicembre 2010) a domandaEDOARDO LOMBARDI (14 dicembre 2010) a domandaERMINIA RIZZINI (18 gennaio 2011) a domandaGIANLUIGI MICHELINI (25 gennaio 2011) dall’Elenco Speciale degli avvocati addetti agli Uffici Legali, a domanda per incompatibilità MARIA PELUSO (1° febbraio 2011) per trasferimento all’Ordine di BolognaGIUSEPPINA FARINA (8 febbraio 2011) a domandaUGO STANGHELLINI (15 febbraio 2011) a domandaANGELA RIZZO (22 febbraio 2011) per trasferimento all’Ordine di LecceMATTEO PATRIOLI (1° marzo 2011) a domandaCRISTINA POZZI (1° marzo 2011) per trasferimento all’Ordine di Forlì-CesenaMARTA TORELLI (8 marzo 2011) a domanda

AGGIORNAMENTO ALBI

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VARIAZIONI

avv. NICOLA SIMEONE: Parma, piazza Italo Pinazzi 61/A; tel. 0521/775033; telefax 0521/778350; cell. 329/4125253;e-mail [email protected];

avv. MARIA LUCIA TAURINO: cell. 366/6618143; invariati e-mail tel. e telefax;

avv. ROBERTO ALFIERI: Parma, via Cairoli 1; invariati recapiti telefonici e-mail e telefax;

avv. MARINA GHIRETTI: Parma, via San Leonardo 17; invariati tel. e telefax;

avv. FILIPPO LO IACONO: Parma, via San Leonardo 17; invariati tel. e telefax;

avv. VITINA GUARINO: Parma, via Massimo D’Azeglio 26; tel. e telefax 0521/234592; invariati cell. ed e-mail;

avv. ENRICO BORDI: Parma, strada Antonio Cocconcelli 4, invariati e.mail tel. e telefax;

avv. FRANCESCO SAVERIO SUPERTI: Parma, vicolo Mulini 6; tel. 0521/238822-228210; telefax 0521/238866;

avv. EMANUELE CROCI: Parma via d’Azeglio 52; tel. e telefax 0521/1893389 cell. 392/1102828; e-mail invariata;

avv. FABIO MASSIMO CANTARELLI: e-mail [email protected]; invariati tel. e telefax;

avv. SIMONA COSTA: II studio Parma, borgo al Collegio Maria Luigia 22; tel. 0521/467822; telefax 0521/243427;

avv. CHIARA DALL’ASTA: II studio Parma, borgo del Correggio 18; tel. 0521/230026; telefax 0521/228864;

avv. IOANA VERBANCU: e-mail [email protected] e [email protected];

avv. FRANCESCO LOISE: e-mail [email protected];

avv. ELENA REGGIANI: e-mail [email protected];

avv. FRANCESCA ERENDA: Collecchio, strada Pavesi 13; tel. e telefax 0521/804148; e-mail [email protected];

avv. LUCIO DE PALMA: e-mail [email protected];

avv. VALENTINA BOCCHI: II studio Fidenza, piazza

Garibaldi 44; tel. e telefax 0524/83798;

avv. GIUSEPPE BERTANI: e-mail [email protected]

avv. PAOLO OREFICI: Parma, borgo XX marzo 7; tel. 0521/235525; telefax 0521/206958; e-mail [email protected];

avv. MICHELE MEGHA: e-mail [email protected];

avv. ISABELLA MARRAZZO: telefax 0521/293985;

avv. LAURA SANTORO: telefax 0521/200451;

avv. VINCENZO CECERE: telefax 0521/200451;

avv. STEFANO PEZZONI: telefax 0521/951184;

avv. MARIA CRISTINA BALDASSARI: Parma, via I. Affò 4; tel. e telefax invariati; cell. 349/4580159;

avv. BARBARA MARCHETTI: Parma, via I. Affò 4; tel. e telefax invariati;

avv. GIUSEPPE MAMBRIANI: Parma, via Farini 5; tel. 0521/237984; telefax 0521/230760; e-mail [email protected];

avv. CARLO ANDREA RESTANO: Parma, via Rapallo 2/d; tel. 0521/989468; telefax 0521/989331; e-mail [email protected];

avv. ROBERTO GALLO: telefax 0521/1857139;

dott. MASSIMO DE MATTEIS: telefax 0521/1810146; e-mail [email protected];

avv. VALENTINA MIGLIARDI: Parma, via Maestri 4; tel. e telefax 0521/570283; invariati cell. ed e-mail;

avv. SABRINA ORLANDINI: Parma, via Vincenzo Re 42; tel. 0521/336404; telefax 0521/804146; e-mail [email protected];

avv. ANNA ADELE CARAFFINI: e-mail [email protected];

avv. ROBERTA CANTARELLI: tel. e telefax 0521/240159;

avv. FABRIZIO PELIZZONI: Parma, p.le della Macina 3; cell. 338/9284528; telefax 0521/711518; invariato recapito di posta elettronica;

Alla data del 15 marzo 2011 gli iscritti all’albo erano in numero di millecentosessantaquattro.

PRATICANTI AVVOCATIIscritti: n. 7Cancellati: n. 4

PATROCINATORI LEGALIIscritti n. 10Cancellati: n. 1

Nell’ultimo numero di CRONACHE, nonostante il plurimo, attento controllo delle bozze di stampa, il cognome dell’avv. VITINA GUARINO è uscito malamente storpiato. Nello scusarsi con l’interessata, la redazione ripubblica l’intera variazione che la riguardava:

avv. VITINA GUARINOParma, via Massimo D’Azeglio 26tel. e telefax 0521/234592invariati cell. ed e-mail(e cioè rispettivamente:cell. 320/4822131e-mail [email protected])

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deliberazione in materia di formazione continua obbligatoria allegata alla circolare CNF N.2-C del 25 gennaio 2011

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deliberazione CNF:75 crediti formativi nel triennio 2011-2013

comunicazioni

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Consiglio Nazionale ForenseVerbale d’Adunanza

L’anno duemilaundici, il giorno 25 del mese di febbraio, alle ore 9,00, in Roma, presso la sede in via del Governo Vec-chio n. 3, il Consiglio Nazionale Forense si è riunito in seduta amministrativa, previa convocazione spedita a mezzo e-mail a tutti i Consiglieri in data 15 febbraio 2011, con l’intervento dei Signori:

O M I S S I S Assume la Presidenza il Presidente, avv. prof. Guido Alpa. Il Presidente, accertato che i Consiglieri presenti sono in

numero superiore a quello stabilito dall’art. 22 del D.D.L. 23 novembre 1944, n. 382, dichiara valida l’adunanza.

L’ ORDINE DEL GIORNO della seduta odierna com-prende la trattazione dei seguenti argomenti:

O M I S S I S 3. REGOLAMENTO PER LA FORMAZIONE CONTINUA - eventuali modifiche, con particolare riferimento all’am-

montare dei crediti annui obbligatori (relatore il Vice Presidente Perfetti)

O M I S S I S 3. REGOLAMENTO PER LA FORMAZIONE CONTINUA Sul punto, il Consiglio Nazionale Forense, premesso: - che con il 31 dicembre 2010 si è concluso il primo

periodo triennale di applicazione del Regolamento sulla for-mazione permanente approvato dal Consiglio con delibera del 13.7.2007:

- che già prima della fine del triennio era stata ravvisata

la necessità di disporre di dati, anche statistici, relativi alle modalità con cui i Consigli territoriali hanno applicato il rego-lamento, alle eventuali difficoltà incontrate, alle valutazioni date sulle singole disposizioni, con particolare riferimento alla congruità del numero dei crediti formativi;

- che la raccolta dei dati è ancora in corso anche con rife-

rimento alla verifica del numero dei Consigli territoriali che si sono dotati di un proprio regolamento; ma che sin d’ora emerge che, degli oltre cento Consigli che hanno risposto al questionario inviato, solo una piccola minoranza (non più di 25 sugli oltre 104 che hanno risposto) ha dichiarato di trovare adeguato l’ammontare dei crediti da maturare annualmente e poi complessivamente nel triennio; sennonché questo giudi-zio è stato accompagnato dal riconoscimento che una buona parte degli iscritti non ha adempiuto, totalmente o, quanto meno, parzialmente, all’obbligo formativo: il che introduce

elementi di dubbio sulla effettiva portata di tale giudizio; - che la maggioranza dei Consigli territoriali ha, invece,

dichiarato di ritenere eccessivo il carico dei crediti formativi nel numero di 90 complessivi così come stabilito a regime dal Regolamento;

- che occorre tenere conto di queste esigenze e del fatto che – se pure il regolamento ha incontrato indubbio successo perché oramai tutti gli avvocati hanno acquisito consapevolezza della inderogabile necessità di adempiere il dovere formativo - occorre garantire gradualismo in attesa di un maggiore rodaggio delle strutture ordinistiche preposte alla funzione formativa: ciò che potrebbe suggerire di ridurre il monte crediti da conseguire annualmente e nel triennio a venire rispetto a quello stabilito nel numero complessivo di 90 dall’art. 2, co. 3, cit. ;

- che in tal senso è di conforto anche la comparazione con i sistemi di aggiornamento di altri paesi europei;

- che non è necessario disporre l’ultrattività della parte della disciplina transitoria dedicata dall’art. 11 al caso degli avvocati con anzianità di iscrizione all’albo di almeno qua-ranta anni, tenuto conto che la predetta disciplina ha esaurito la sua funzione avendo di per sé garantito il gradualismo di cui si è detto;

DELIBERA: di modificare l’art. 11 del Regolamento per la formazione

continua approvato il 13 luglio 2007 nel seguente modo: Dopo il comma 3 dell’art. 11, è introdotto il seguente

comma 3 bis:

“Nel secondo triennio di valutazione a partire dall’entrata in vigore del presente regolamento, e cioè per il triennio 2011/2013, i crediti formativi da conseguire sono determinati in complessivi settanta-cinque col minimo di quindici crediti in ciascuno dei primi due anni del triennio; dei settantacinque crediti complessivi almeno quindici nel triennio dovranno essere conseguiti in materia di ordinamento forense e/o previdenza e/o deontologia e di questi almeno quattro in ciascuno dei primi due anni del triennio”.

Il Consiglio si riserva di apportare ulteriori modifiche al

regolamento, anche all’esito del completamento della rac-colta delle osservazioni da parte dagli Ordini.

O M I S S I S

IL CONSIGLIERE SEGRETARIO f.to Avv. Andrea Mascherin IL PRESIDENTEf.to Avv. Prof. Guido Alpa

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Edoardo Fregoso

Dal punto di vista della storia delle costituzioni, che è il mio campo di ricerca, un ordinamento giuridico federale non è né più efficiente od efficace, ma neanche meno, del suo contraltare unitario o della via intermedia costituita dallo Stato regionale o delle autonomie. Per ordinamento giuridico federale intendiamo quella particolare forma di Stato che in tedesco viene identificata dalla parola composta Bundesstaat, vista in contrapposizione alla confederazione che è invece identificata dal termine, sempre composto, Staatenbund. I due termini giuridici tedeschi hanno il pregio di porre ica-sticamente, nella loro composizione, l’accento sulla preva-lenza giuridica dell’Unione sui singoli Stati o viceversa. Per cui nel Bundesstaat il Bund, l’Unione, “viene prima” quindi predomina sui singoli Stati mentre nello Staatenbund gli Stati (al plurale) prevalgono sull’Unione. Per appro-fondire un minimo l’analisi della dif-ferenza tra le due forme di unione, si possono riportare, a titolo di esem-pio, il preambolo della Costituzione U.S.A.: «We the People of the United States [...] do ordain and establish this Constitution [...] » e quello della Costituzione definitiva dei Confeder-ate States of America, del 1861, che recitava «We, the people of the Confederate States, each state acting in its sovereign and independent character [...] do ordain and establish this Constitution [...]». Dalla loro comparazione si nota che nella struttura federale si riscontrano due elementi alla base della costituzione: il popolo e gli Stati Uniti, mentre nella struttura confederata vi si affianca un terzo elemento: i singoli Stati, questi agiscono nella loro qualità di soggetti di diritto inter-nazionale pleno iure.

La forma confederata è piuttosto risalente e può essere scorta, ad esempio, nel mondo greco classico, in formazioni come la Lega Delio-Attica, V a.C., che veniva definita sia Συμμαχία (summachìa), dove lo scopo della Confedera-zione è leggibile, etimologicamente, come quello di combat-tere insieme, cioé: una lega militare, sia come Ἀμφικτιονία (amfizionìa) che indica una lega di vicini, normalmente colle-gata ad un santuario comune. La Confederazione può quindi essere una unione momentanea finalizzata ad uno scopo e quindi destinata a sciogliersi, cosa che non dovrebbe riscon-trarsi nelle federazioni.

Storicamente una federazione nasce, di regola, dall’unione di almeno due entità sovrane; prima di arrivare alla forma di stato federata può esservi, o meno, un passaggio intermedio costituito da una confederazione. Questo è il caso degli Stati Uniti che nascono prima come 13 Stati indipendenti che si danno una prima costituzione confederata: gli Articles of Confederation nel 1777, la successiva carta federale, l’attuale costituzione è del 1787. Tuttavia la Costituzione del 1787 entrerà in vigore solo il 21 giugno 1788, quando il nono Stato, il New Hampshire, la ratificò secondo il procedimento tipico dei trattati internazionali; il Rhode Island, ultimo, attenderà il 1790 per ratificarla.

A partire dal XIX secolo si è anche avuto il caso di fede-razioni che nascono da Stati unitari, tra gli altri il Brasile che, caduto l’Impero, nel 1889 ed abrogata la Costituzione del

1824, con la carta del 1891 diventa una Repubblica federale (articolo 1, cost. 1891). Più recentemente è il caso del Regno del Belgio che con le riforme del 1993-94 si è trasfor-mato in uno Stato federale (articolo 1, cost. 1994) e dell’Etiopia (art. 1, cost. 1994). In questi due casi le entità federate sono state ritagliate seguendo i confini linguistici, e nel caso dell’Etiopia anche etnici (cfr.:

il preambolo della costituzione stessa), che già erano ricom-presi all’interno dei due Stati nella loro forma unitaria. Più raro il caso di Federazioni che evolvono in Stato unitario, un esempio classico sono i Paesi Bassi. Questi nascono nel XVI secolo come Federazione delle Provincie Unite ma perdono il loro carattere marcatamente federale a far data dal XIX secolo.

In sé e per sé un ordinamento giuridico federale non è garanzia di libertà, né individuale né economica, l’U.R.S.S., nella grafia originale cirillica С.С.С.Р. (S.S.S.R) la prima esse sta per Soyuz, cioé Unione, rimase fino al suo ultimo respiro una federazione esattamente come la Jugoslavia e come la Cecoslovacchia. Il caso dell’Unione Sovietica è interessante, in quanto essa era, sotto certi aspetti, una strut-tura confederata: infatti le Repubblice Socialiste Sovietiche di Ucraina e Bielorussia avevano un loro autonomo seggio all’ONU, come Stati sovrani, ma erano anche unità costitu-tive dell’URSS, mentre una terza di queste unità, la Repub-blica Socialista Federativa Sovietica di Russia era, a sua volta una federazione. La Cecoslovacchia socialista è un altro caso

Riforma federale dello Stato?Adelante... con juicio

un ordinamento giuridico federale non è né più efficiente od efficace, ma neanche meno, del suo contraltare unitario o della via intermedia costituitadallo Stato regionale o delle autonomie

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di trasformazione in federazione; la vecchia repubblica pre-bellica aveva avuto un’ottima costituzione, datata 1920, che però disegnava uno Stato blandamente centralizzato, nel 1948 e nel 1960 due successive costituzioni marcarono la transi-zione dello Stato verso la forma socialista; tuttavia, nel 1969, 58 articoli della carta del 1968 furono emendati per creare un nuovo Stato federale.

Nell’ultimo quarto del secolo scorso, tuttavia, è il modello Stato Unitario che sembra essere messo in discus-sione nell’Europa Occidentale. La Spagna con la costituzione del 1978 crea uno Stato delle autonomie ( art.137), prendendo in ciò spunto dalla Costituzione della II Repubblica Spagnola del 1931 (artt. da 8 a 22). La Francia, colei che ha inventato il napoleonico Stato dei prefetti, si è trasformata con la cre-azione di 22 regioni metropolitane, in uno Stato unitario ma decentralizzato, le regioni non hanno potere legislativo ma regolamentare. Il Regno Unito, negli anni ’90, ha resuscitato, con la devolution, un Parlamento scozzese – l’unico a fre-giarsi del titolo Parliament - che si era estinto nel 1707, dopo l’Act of Union; ha restaurato una North Ireland Assembly ed infine creato una curiosa, storicamente parlando, National Assembly for Wales. L’unica regione che non ha un proprio parlamento od assemblea, paradossalmente è proprio l’In-ghilterra propriamente detta. Nessuno di questi Stati si è però federalizzato ma ha scelto la strada della regionalizzazione, più o meno autonoma.

Nel 1861, però, il modello costituzionale in crisi ed i nostri padri fondatori lo sapevano bene, era quello federale. La Confederazione Elvetica aveva appena combattuto, nel 1847, la breve Sonderbundskrieg (guerra della Lega d’Ec-cezione), che aveva spazzato via la vecchia struttura costi-tuzionale e portato alla carta del 1848, in cui i poteri can-tonali erano stati radicalmente ridotti, pur nei limiti di una nuova organizzazione federale. Il 1861 è anche l’anno in cui i cannoni sparano su fort Sumter, mettendo fine ad una pro-fonda crisi costituzionale, apertasi con l’elezione di Lincoln nel 1860 ma iniziando una sanguinosa guerra di secessione. Gli stessi Stati Uniti avevano più volte corso il rischio di una secessione prima di tale data. Una di queste crisi ebbe inizio con l’approvazione dei cosiddetti Alien and Sediction acts, nel 1798, da parte del Congresso Federale. Queste quattro leggi federali comportarono, come reazione, la Kentucky’s resolution, del 1798, e la Virginia’s resolution, dell’anno suc-cessivo, con cui i Legislativi dei due Stati federati annulla-rono, sul loro territorio, le leggi federali, in quanto in contra-sto con le costituzioni statali. La situazione si rasserenò con l’elezione di Jefferson, alle presidenziali del 1800 e le norme, mai abrogate, furono disapplicate.

Ma non finisce qui; la República Federal de Centroa-mérica, istituita nel 1823, cessa di esistere nel sangue di una guerra civile tra il 1838 ed il 1840. Stessa cosa accadde alla Bolivariana República de Gran Colombia, divenuta uno Stato federale con la costituzione di Cucúta del 1822, si dissolse

dopo una serie estenuante di lotte civili nel 1831. Ad ulteriore conferma della tendenza di un’epoca, nel 1864, la Repubblica Messicana, che secondo la costituzione del 1857 era fede-rale, sarà trasformata nel breve Secondo Impero Messicano. Il Regno di Sardegna aveva regolari contatti diplomatici con queste realtà, quindi i maggiori politici sardi prima, italiani, poi, Cavour soprattutto, sapevano benissimo quello che acca-deva in giro per il mondo.

Vi era inoltre un secondo motivo per sconsigliare la forma federale per la nuova Italia. Se guardiamo la situazione del 1859 notiamo che questa ipotetica federazione avrebbe dovuto comprendere: una provincia dell’Impero d’Austria, quindi l’Imperatore d’Austria; un ducato, Modena ed un Granducato, Toscana, i cui regnanti erano rami cadetti degli Asburgo, ripettivamente gli Asburgo-Este e gli Asburgo Lorena e che riconoscevano come capofamiglia l’Imperatore d’Austria. Questo significava che, in caso di problemi succes-sori l’arbitro era il capofamiglia. Inoltre vi erano un secondo Ducato, Parma ed un Regno, quello delle Due Sicilie, che riconoscevano come capofamiglia il sovrano di Spagna, della casa di Borbone, con gli stessi problemi. Infine lo Stato Pon-tificio, il cui conclave era ancora sottoposto al veto informale della Spagna, della Francia e dell’Austria.

A niente serve, poi, paragonare la situazione ed evoluzione costituzionale italiana, post unificazione, a quella coeva tede-sca, traendone conclusioni perlomeno fuorvianti. Il Deutsche Bundesakte del 1815 aveva disegnato una federazione tede-sca in cui i legami giuridici tra gli Stati erano molto laschi ed in cui primeggiava l’Impero d’Austria, contrastato dalla Prus-sia. Nel 1866 la Prussia elimina l’Austria dal teatro tedesco, si annette: Hannover, Nassau, Hesse-Kassel, Frankfurt e fonda con gli Stati tedeschi settentrionali il Norddeutscher Bund che si evolverà nel 1870 nel II Reich. La differenza col caso ita-liano è nei dettagli; al momento della proclamazione dell’Im-pero, nella Sala degli Specchi di Versailles, quasi tutti gli Stati tedeschi avevano una costituzione, in Italia solo il Regno di Sardegna aveva mantenuto lo Statuto del 1848. Questo vuol dire, per la Germania, una classe dirigente elettiva abituata a risolvere e dirigere i problemi locali. La Prussia non può permettersi il lusso di perdere questi tedeschi azzerando le loro autonomie. In secondo luogo, nel 1870, gli Stati tede-schi meridionali combattono con la Prussia contro il perce-pito nemico straniero, non rimangono neutrali come faranno quelli italiani. Nel 1866 la Prussia aveva eliminato Hanno-ver e Nassau, annettendoseli, perché il primo era collegato dinasticamente alla Gran Bretagna, il secondo ai Paesi Bassi. Infine la Gesetz Betreffend die Verfassung des Deutschen Reiches (Legge concernente la Costituzione dell’Impero ger-manico), del 1871, disegna una federazione solo apparente. Per quanto infatti gli Stati mantengano una loro autonomia interna, chi comandava veramente era la Prussia: il suo sovrano era automaticamente, non più elettivamente come nel Sacro Romano Impero, il I Reich, imperatore tedesco; il

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cancelliere del Reich è cancelliere prussiano, infine la Prussia con i suoi 17 voti su 58, art. 6 cost. 1871, nel Reichsrat (il Consiglio degli Stati, nel parlamento bicamerale) era l’arbitra di tutta la legislazione. La federazione era poi modellata su una monarchia costituzionale, a differenza dell’Italia che era una monarchia parlamentare, per cui il Cancelliere Federale tedesco non era vincolato alla fiducia del Reichstag ma solo a quella del Kaiser; solamente nell’ottobre del 1918 due leggi costituzionali, la RGBl. S. 1273 e la RGBl. S. 1274, trasfor-meranno l’Impero in un sistema parlamentare.

C’è poi da ricordare che, verso la fine del XIX secolo, anche in Italia si comincia a dibattere sulla regionalizzazione dello Stato, in un vocabolario etimologico italiano, del 1889, la voce regionalismo descrive: « [...] l’opinione politica che vorrebbe l’Italia amministrata per Regioni [...]»1. La vera fine di qualsiasi progetto di regionalizzazione non è tanto l’Unità d’Italia, il Regno avrebbe potuto svilupparsi in uno Stato regionale, proprio come si era già sviluppato in parlamentare, quanto piuttosto l’avvento del Fascismo e della sua idea di Stato Totalitario.

Una federazione, in linea di massima, nasce da precedenti entità sovrane; si pone il problema, nel caso dell’Italia odierna e di una sua federalizzazione, non fiscale argomento che non interessa in questo scritto, quali possano essere queste entità sovrane. Se la risposta fosse le attuali regioni, si dovrebbero valutare e risolvere una serie di complicazioni sia storiche sia giuridiche. La prima è che le regioni sono state inventate dalla Costituente; i loro confini sono stati tracciati dall’alto, seguendo come modello, ma assolutamente non vincolante, la divisione augustea dell’Italia. Per dare un’idea la Lombar-dia geografica era più ampia della Lombardia attuale e fino al XIX secolo ricomprendeva quella che attualmente è l’Emi-lia Romagna, ma una Lombardia sovrana non è mai esistita. Nel 1859 erano Sovrani: il Regno di Sardegna, il Ducato di Parma, quello di Modena, il Granducato di Toscana, lo Stato Pontificio ed il Regno delle Due Sicilie, oltre alla Repubblica di San Marino. Dopo la sovranità è passata al Regno d’Ita-lia e quindi alla Repubblica. Quindi su quali entità costruire una Italia federale, quali ne sarebbero le parti costitutive? C’è inoltre il disposto dell’articolo 1 della costituzione, per cui è sovrano il popolo, non la Repubblica. Questa, quindi, par-rebbe di capire, non può, di per sé, cedere sovranità in una ipotetica suddivisione federale; non esiste in pratica uno spe-culare interno dell’articolo 11 che accetta limitazioni esterne – si badi bene, non cessioni - di sovranità. A titolo di compa-razione l’articolo 33 della Costituzione Belga prevede:«Tous les pouvoirs émanent de la Nation», in maniera più sfumata, rispetto all’Italia, qui si dice che i poteri provengono dalla Nazione e quindi in essa trovano la propria legittimità. Il

1 Francesco Zambaldi, Vocabolario etimologico italiano, S. Lapi, Città di Castello, 1889, p. 1054.

Regno del Belgio, attualmente senza un governo da più di duecento giorni, ha creato delle entità federate, appoggian-dosi su notevoli ed effettivi cleavages linguistici. Il risultato è stato un intricato incubo costituzionale, per cui il Belgio è un État fédéral (art. 1), che si divide in tre Comunità, ai sensi dell’articolo 2: la Communauté française, la Communauté flamande e la Communauté germanophone, tre regioni, che per l’articolo 3 sono: la Région wallonne, la Région flamande e la Région bruxelloise ed infine quattro regioni linguistiche, artcolo 4: la région de langue française, la région de langue néerlandaise, la région bilingue de Bruxelles-Capitale e la région de langue allemande.

Come si è scritto in apertura una costituzione federale non è, per sua natura, né migliore né peggiore di una costituzione unitaria: la storia del costituzionalismo questo ci dice, pos-sono essere entrambe soluzioni efficenti ed efficaci. Ma ci dice anche un’altra verità fondamentale: la riuscita o il fal-limento di una costituzione dipendono dalla classe politica. Una buona classe politica può far funzionare una cattiva costituzione, una pessima classe politica può far fallire anche la migliore delle carte.

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Puntuale come un condono edilizio giunge a periodicità costante un intervento sul processo amministrativo che, sotto le spoglie di una codificazione, incide soprattutto sugli aspetti tecnico- processuali.

Il processo amministrativo ora disciplinato dal decreto legislativo 2 luglio 2010 n.104 è chiamato a regolare un rap-porto fra parti, interessi e poteri che non sempre risulta equilibrato: il punto di vista di queste note è ovviamente quello di un avvocato e privilegia gli aspetti che maggior-mente caratterizzano l’esercizio della professione forense in ambito amministrativo.

Non è una riforma, insomma, ma non è nemmeno una semplice codificazione, intesa come riunione delle norme e delle fonti che disciplinano una determinata materia.

Si tratta, piuttosto, di una rimodulazione delle regole pro-cessuali che doveva essere codificata sia per dare espressione normativa a istituti e principi che già la giurisprudenza aveva individuato e applicato, sia per incidere su aspetti spazio tem-porali (la competenza territoriale, i termini processuali) che probabilmente, a giudizio del legislatore, esigevano una ride-finizione compiuta e organica.

D’altra parte, anche il legislatore del processo ammini-strativo, come quello che si è occupato di altri ambiti, rin-corre la realtà, si fa orientare dalla giurisprudenza e acquisi-sce gli strumenti che i giudici hanno identificato svolgendo un’attività di adeguamento alla realtà sociale e agli interessi definiti dal processo, rispetto alla quale l’attività normativa risulta quasi per definizione in ritardo.

Il limitato scopo di fornire alcune notazioni preliminari al testo del nuovo codice, con riferimento soprattutto al pro-cesso di primo grado e alle disposizioni generali (si potrà poi pensare di completare – senza pretese di esaustività – queste note con i riti speciali e le impugnazioni), consente di raggruppare gli istituti di maggiore rilievo intorno ad alcuni nuclei tematici.

Il tempo (i termini; il giudizio cautelare)

Il nuovo codice amministrativo effettua una rimodula-zione dei tempi del processo, senza per questo modificare in misura sensibile la struttura della vicenda processuale.

La ridefinizione dei termini costituisce senza dubbio una delle principali conseguenze pratiche a fronte delle quali l’av-vocato è chiamato a modificare il proprio comportamento.

Mentre per il ricorso nulla è cambiato, l’art.73 consente alle parti di produrre documenti fino a quaranta giorni prima dell’udienza di discussione, offrendo inoltre la possibilità di depositare memorie fino a trenta giorni prima e documenti fino a venti giorni prima della medesima udienza di discus-sione.

Rispetto alla disciplina precedente, che prevedeva la pos-

sibilità di depositare documenti fino a venti giorni prima e memorie fino a dieci giorni prima dell’udienza di discussione, l’attuale art.73 vuole consentire a tutte le parti l’esercizio di un pieno e completo diritto di difesa. Sotto questo profilo, appare come una misura alquanto meritoria: in precedenza capitava spesso che il ricorrente – non avendo presentato una domanda cautelare - venisse posto a conoscenza delle difese dell’amministrazioni, e delle relative argomentazioni, solamente dieci giorni prima dell’udienza di discussione, senza alcuna possibilità di replicare, se non oralmente durante l’udienza pubblica.

Repliche solo orali che, com’è evidente, quasi mai risul-tavano particolarmente efficaci, anche perché nel processo amministrativo non viene effettuata una verbalizzazione pun-tuale dello svolgimento delle udienze e di quanto dichiarato dai difensori.

A volte si utilizzava uno strumento che tentava di aggi-rare questo inconveniente, proponendo una domanda inci-dentale di sospensione del provvedimento impugnato anche quando non vi era una stretta necessità, al fine di costringere l’amministrazione a difendersi ed a proporre le proprie argo-mentazioni; era poi possibile rinunciare all’istanza cautelare senza alcuna conseguenza quanto alle spese, per affrontare poi con una maggiore conoscenza delle posizioni di contro-parte l’udienza di merito.

L’introduzione dei nuovi termini, però, rende non solo superfluo l’utilizzo di questo “stratagemma”, ma ha anche il pregio di equilibrare le posizioni del ricorrente e del resi-stente, fornendo ad entrambe le medesime possibilità di difesa.

L’art.55, V comma, prevede poi, in funzione equilibratrice dei diritti di difesa delle parti, che la domanda cautelare venga discussa nella prima camera di consiglio successiva al perfezionamento per tutti i destinatari della notificazione e decorsi almeno dieci giorni dal deposito del ricorso.

L’intento è evidente: consentire alle parti resistenti e con-trointeressate di disporre del tempo necessario per difen-dersi adeguatamente, cosa che a volte risultava difficoltosa quando l’udienza in camera di consiglio era individuata nella prima utile decorsi dieci giorni dalla notificazione del ricorso contenente l’istanza cautelare.

A tale migliore opportunità per le amministrazioni fa riscontro la necessità di garantire al ricorrente la possibilità di prendere posizione in maniera adeguata rispetto alle argo-mentazioni difensive e alle produzioni dell’amministrazione nell’udienza collegiale in cui si discute della domanda caute-lare: lo stesso art.55, V comma prevede che le parti possano depositare memorie e documenti fino a due giorni liberi prima della camera di consiglio. Ciò non esclude che le parti possano costituirsi direttamente nella camera di consiglio e discutere oralmente la domanda cautelare.

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Le parti intimate si devono costituire, ai sensi dell’art.46, entro 60 giorni dalla notificazione del ricorso: non pare comunque si possa far discendere alcuna decadenza dal man-cato rispetto del termine, sia in quanto tale misura non è espressamente prevista, sia perché il diritto di difesa deve comunque essere garantito. D’altra parte, nessuno svan-taggio potrebbe discendere per la parte ricorrente dalla costituzione delle parti intimate oltre il termine di legge: queste infatti dovrebbero comunque produrre i documenti e presentare le proprie difese e repliche nei termini previsti dall’art.73, I comma.

In generale, i termini paiono rimodulati in senso forte-mente acceleratorio, se non dei tempi della giustizia, quanto meno delle attività processuali assegnate alle parti: e non è affatto scontato che questo secondo aspetto possa risultare funzionale al miglioramento del primo.

Gli istituti della tutela cautelare paiono ampliati e ridefi-niti in relazione al problema “tempo”: oltre alle misure caute-lari collegiali, disciplinate dall’art.55, funzionali ad evitare che il ricorrente possa subire un pregiudizio grave ed irrepara-bile “durante il tempo necessario a giungere alla decisione sul ricorso”, sono confermate dall’art.56 le misure cautelari monocratiche, assunte con decreto presidenziale, giustificate dal situazioni di “estrema gravità ed urgenza” tali da “non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio”. In quest’ultimo caso il ricorrente chiederà misure cautelari provvisorie, con ricorso o istanza notificati alle controparti, misure suscettibili poi di nuova valutazione nella prima udienza utile in camera di consiglio.

Siamo stati abituati a ritenere che il termine “estremo” segni un limite, ma non è così per il legi-slatore: l’art.61 individua anche situazioni di “eccezionale gravità e urgenza”, tali da “non consentire neppure la previa notificazione del ricorso e la domanda di misure cau-telari provvisorie con decreto pre-sidenziale”.

Si prevede, in sostanza, una terza fattispecie, caratterizzata dal fatto che non vi sono neppure i tempi per redigere un ricorso: l’istanza dell’art.61 si differenzia infatti proprio sotto questo aspetto dalla richiesta di misure cautelari monocrati-che prevista dall’art.56, dovendo essere proposta addirittura prima della notificazione del ricorso.

Dobbiamo presupporre che il legislatore, nell’introdurre questo nuovo istituto, abbia inteso tutelare necessità effettive e ad una carenza di strumenti tecnici adeguati a rispondere a tali necessità.

La nuova misura “eccezionale” però pone qualche inter-rogativo: la decisione del Giudice esula dai tradizionali (e necessari) ambiti di valutazione del fumus boni juris e del pregiudizio grave e irreparabile oppure deve attenersi a tali parametri, sia pure nella prospettiva di affrontare circostanze di eccezionale gravità e urgenza?

Nel secondo caso l’istanza dovrà in ogni caso contenere una prospettazione dei vizi di legittimità relativi ai provve-dimenti considerati, al fine di consentire al Giudice di veri-ficarne una parvenza di fondatezza, e allora non si vede per quale motivo non imporre al ricorrente di presentare il ricorso, per quanto succinto, al fine di ottenere un decreto presidenziale ex art.56: tantopiù che vi saranno poi tutti i tempi necessari per svilupparne le argomentazioni e pro-porre nuovi motivi entro i termini di decadenza anche prima della necessaria udienza di discussione in camera di consiglio, finalizzata alla conferma o meno della misura cautelare mono-cratica. L’istanza prevista dall’art.61, inoltre, deve comunque essere notificata alla controparte, anche a mezzo fax, anche se il Presidente può provvedere a prescindere dalla verifica del perfezionamento delle notificazioni.

Una valutazione che prescinda dal riscontro di una par-venza di fondatezza dei motivi che inducono il futuro ricor-rente ad agire in giudizio, e che si riferisca solamente al parametro della eccezionale gravità e urgenza, imporrebbe al Giudice di svolgere una funzione che avrebbe poco di giu-risdizionale e molto di amministrativo, incidendo sull’attività amministrativa sulla cui legittimità non può (ancora) espri-mere un giudizio e sostituendosi in concreto all’amministra-zione nella valutazione discrezionale degli interessi pubblici e privati in considerazione e del miglior modo per perseguire l’interesse pubblico.

Non pare che il legislatore abbia voluto valicare il limite che distingue la giurisdizione dall’amministrazione: ma allora

il rischio di una misura tanto imme-diata è che ci si trovi di fronte ad un giudizio, più che tempestivo, affret-tato.

Una serrata sequenza di ter-mini e adempimenti caratterizza le misure cautelari anteriori alla causa disciplinate dall’art.61 (notifica del decreto entro cinque giorni; noti-fica del ricorso con domanda cau-telare entro quindici giorni; possi-bilità di revoca su istanza “di parte

previamente notificata”); non vi è dubbio che l’istanza di revoca della misura cautelare, presentata dai destinatari della stessa, sia suscettibile di instaurare un contraddittorio ante causam anche di una certa complessità, che pare davvero poco opportuno affidare ad una fase alla quale è estraneo un pieno e completo contraddittorio.

Infine, con ogni probabilità le fattispecie per le quali si può rendere necessaria una misura cautelare come quella prevista dall’art.61 sono anche quelle in cui sono in gioco interessi “eccezionali”, vale a dire quelle più complesse e in cui il Giudice amministrativo si caratterizza maggiormente come Giudice dei grandi interessi: a maggior ragione, però, si dovrebbe ritenere che quanto maggiori siano la complessità e la rilevanza degli interessi, tanto più necessaria dovrebbe risultare la riconduzione della loro trattazione nell’ambito del processo e del contraddittorio, con le garanzie dallo

In generale, i termini paiono rimo- dulati in senso fortemente accelera-torio, se non dei tempi della giustizia, quanto meno delle attività processuali assegnate alle parti: e non è affatto scontato che questo secondo aspetto possa risultare funzionale al migliora-mento del primo

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stesso previste.Non pare irragionevole anche la previsione dell’art.62, con

la decurtazione dei termini per la proposizione dell’appello nei confronti dell’ordinanza che ha deciso la fase cautelare, ridotti a 30 giorni dalla notificazione o 60 giorni dal depo-sito: se vi è effettivamente un’esigenza cautelare si giustifica anche l’assegnazione di termini coerenti con il pregiudizio grave e irreparabile che può discendere dal provvedimento impugnato.

L’art.55, X comma, prevede infine che il Giudice “se ritiene che le esigenze del ricorrente siano apprezzabili favorevol-mente e tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio nel merito, fissa con ordinanza collegiale la data di discussione del ricorso nel merito”. Si tratta di una dispo-sizione che apparentemente sottrae alla parte ricorrente la disponibilità del fattore “tempo”, fornendo al Giudice un ulteriore strumento per definire la tempistica del processo e, con esso, l’assetto degli interessi considerati.

Si potrebbe evincere da tale disposizione che nei casi in cui sia riscontrata la presenza del fumus boni juris, ma non quella del periculum, il Giudice non si limiterà a respin-gere l’istanza cautelare per carenza di uno dei presupposti, ma fisserà direttamente l’udienza di merito. In sostanza, si riscontra un “pre – giudizio” che ha il pregio di chiarire fin dall’inizio della controversia quale possa essere con ogni probabilità l’orientamento dell’organo giudi-cante, eliminando quella forma di ambiguità (pur sempre possibile, in quanto non pare si escluda la pos-sibilità di respingere l’istanza cau-telare con la semplice motivazione che “manca il periculum”) che induceva le parti ad attendere la sentenza, perché effettivamente la carenza di uno dei due presupposti non significa necessariamente che l’altro risulti sussistente.

Gli strumenti che possono incidere sul tempo del pro-cesso amministrativo sono stati inoltre ampliati, in modo da consentire un adattamento dello strumento processuale alle varie esigenze e fattispecie sottoposte all’esame del Giudice: così l’art.53 prevede che il Presidente del TAR su istanza di parte possa abbreviare “i termini previsti dal presente codice per la fissazione di udienze o di camere di consiglio”, con riduzione proporzionale dei termini per le difese della rela-tiva fase.

Si tratta di un istituto la cui utilità appare discutibile, soprattutto se riferito alla fase cautelare che prevede già la possibilità di richiedere il decreto presidenziale provvisorio e il decreto ante causam, ma che in qualche modo rappre-senta un carattere tipico del processo amministrativo così come plasmato dal d.lgs.104/2010: la potestà del Giudice di adattare, secondo una propria valutazione amplissimamente discrezionale, il tempo del processo alle esigenze e agli inte-ressi che vengono prospettati dalle parti.

Il luogo (la competenza)

Il codice del processo amministrativo ha modificato in maniera molto sensibile le disposizioni sulla competenza.

L’art.13 afferma, con una certa petulanza, che la compe-tenza territoriale è inderogabile, vale a dire esattamente l’op-posto di quanto precedentemente previsto, ed è identificata nella sede del TAR competente territorialmente, nella cui cir-coscrizione sia collocata la sede dell’amministrazione che ha emanato l’atto impugnato o stipulato l’accordo contestato o tenuto il comportamento illegittimo.

Il difetto di competenza, sia funzionale sia territoriale, è rilevabile anche d’ufficio (art.15).

Durante il giudizio di primo grado la parte che eccepisce l’incompetenza in qualsiasi momento può proporre istanza di regolamento di competenza al Consiglio di Stato, che decide con ordinanza e vincola la prosecuzione del giudizio alla rias-sunzione, entro 30 giorni dalla notificazione o 60 dal depo-sito dell’ordinanza stessa, avanti al Giudice designato come competente.

Ma i problemi maggiori sorgono quando con il ricorso venga presentata una domanda cautelare. Le motivazioni che hanno ispirato il legislatore sono evidenti: la derogabi-

lità della competenza territoriale consentiva al ricorrente di sce-gliersi il Giudice presso il quale discutere almeno la fase caute-lare, proponendo il ricorso in una sede di TAR non competente, ma presumibilmente più favorevole di quella “naturale”. L’organo di giustizia amministrativa decideva sull’istanza cautelare anche in pre-senza di un’eccezione di incom-petenza territoriale sollevata

dall’amministrazione; a questo punto il ricorrente, che aveva ottenuto il provvedimento cautelare favorevole, poteva ade-rire all’eccezione di incompetenza territoriale e riassumere il giudizio presso la sede di TAR riconosciuta competente, ma con il notevole vantaggio di avere già ottenuto “la sospen-siva” (ancora più efficiente risultava lo stratagemma, ovvia-mente, se nessuna eccezione di incompetenza veniva tempe-stivamente sollevata dalle amministrazioni resistenti).

In questo modo i dilatatissimi tempi per giungere alla deci-sione nel merito avvantaggiavano il ricorrente, che poteva giovarsi nel frattempo del provvedimento favorevole.

Le disposizioni del codice sono volte a scoraggiare la ricerca del TAR favorevole, ma introducono un regime assai complicato e rigido: non si vuole pensare male, ma chi voglia utilizzare il nuovo regime delle competenze inderogabili per procrastinare una temuta decisione in sede cautelare avrà tutto l’agio per farlo.

Quando si propone la domanda cautelare l’eccezione di incompetenza territoriale può essere avanzata dalle parti resistenti e controinteressate, oppure, come già detto, può

Le disposizioni del codice sono volte a scoraggiare la ricerca del TAR favorevole, ma introducono un regime assai complicato e rigido: non si vuole pensare male, ma chi voglia utilizzare il nuovo regime delle competenze inderogabili per procrastinare una temuta decisione in sede cautelare avrà tutto l’agio per farlo

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essere sollevata d’ufficio dal Giudice.Questi ha due possibilità: richiede il regolamento di com-

petenza al Consiglio di Stato indicando il tribunale compe-tente (art.15, V comma), oppure decide con ordinanza sulla propria incompetenza, indicando il tribunale competente, presso il quale il giudizio dovrà essere riassunto entro 30 giorni.

Nel frattempo, nessuno decide la domanda cautelare.L’ordinanza prevista dall’art.15 è impugnabile entro 30

giorni dalla notificazione o 60 dal deposito. Il ricorrente, nel frattempo, se ha necessità di una decisione di natura caute-lare (e non si vede perché non dovrebbe, posto che ha già presentato un ricorso corredato da “sospensiva”) può solo proporre “l’istanza cautelare” (art.16, IV comma) al Giudice indicato come competente dal TAR adito.

La macchinosità del sistema è evidente e del tutto incon-grua rispetto a qualsiasi esigenza cautelare, anche ordinaria: in caso di disaccordo sulla competenza territoriale si dovranno attendere i tempi del Consiglio di Stato, che per quanto brevi non paiono certo compatibili con l’immediatezza che dovrebbe caratterizzare la tutela cautelare.

Il ricorrente può ottenere un provvedimento cautelare solo ed esclusivamente se aderisce a quanto già indicato dal Giudice e perciò viene posto di fronte ad una scelta che gli dovrebbe essere risparmiata: privilegiare l’esigenza di otte-nere un provvedimento cautelare, sia pure avanti a un Giudice – indicato dal TAR - che non si ritiene competente, oppure attendere la definitiva individuazione del Giudice competente da parte del Consiglio di Stato, con la conseguenza pressoché inevitabile che a distanza di alcuni mesi appaia ben difficile dimostrare la persistenza di un interesse alla tutela cautelare; senza trascurare il rischio che il provvedimento impugnato nel frattempo venga attuato, rendendo spesso davvero irre-parabile il danno, se non con misure risarcitorie che possono non essere del tutto soddisfacenti.

Il procedimento prescelto dal legislatore appare ancora più problematico quando il ricorrente richieda non un’or-dinanza cautelare collegiale, bensì un decreto presidenziale provvisorio nel caso in cui vi siano ragioni di estrema urgenza: è facile pensare che la tutela di tali ragioni venga vanificata da eccezioni di incompetenza territoriale o funzionale che impe-discono al Giudice di assumere decisioni in sede cautelare, a meno che non si ritenga che solo il Collegio possa definire ai sensi degli artt.15 e 16 l’eccezione di incompetenza propo-sta dal resistente, consentendo in ogni caso l’emanazione di decreti presidenziali provvisori.

Infine, non vi è dubbio che certe procedure amministra-tive e i relativi provvedimenti possano essere ricondotti al criterio previsto dall’art.13 (la sede dell’amministrazione) solo con grande difficoltà e a prezzo di un “tradimento” del criterio stesso.

Alcuni giorni or sono il Consiglio di Stato, nel decidere una questione di competenza territoriale relativa ad una complessa procedura ad evidenza pubblica, ha compiuto un palese riferimento al criterio dell’ambito di efficacia dell’atto, piuttosto che a quello della sede dell’amministrazione, affer-

mando la sussistenza della “competenza del T.A.R. locale a giudicare sulle controversie aventi a oggetto atti della pro-cedura di evidenza pubblica relativi ad appalti o affidamenti che devono eseguirsi nel territorio di una Regione, risultando indifferente che vengano impugnati bandi nazionali o altri atti generali interni alla procedura ancorché emessi da organi centrali dello Stato, ovvero che la gara si sia svolta a Roma” (Consiglio di Stato, sez.IV, 16 febbraio 2011 n.1018). La deci-sione ora riportata fa riferimento ad una giurisprudenza senz’altro prevalente, ma formatasi nell’ambito di regole sulla competenza territoriale differenti da quelle attuali.

In ogni caso, l’esigenza di una corretta individuazione del Giudice appare eccessivamente prevalente rispetto ad altre necessità alle quali il processo amministrativo è chiamato a rispondere.

Il modo (l’istruttoria)

Il progressivo avvicinamento del processo amministrativo al processo civile aveva già condotto ad un ampliamento dei mezzi istruttori, con il riconoscimento della possibilità di richiedere vere e proprie consulenze tecniche, e non sola-mente verificazioni demandate alla medesima amministra-zione che aveva emanato il provvedimento impugnato.

Ora gli strumenti a disposizione delle parti vengono ulte-riormente ampliati: l’art.63, III comma prevede la possibilità di assumere prove testimoniali in forma scritta.

Lo stesso art.63 pare limitare l’utilizzabilità della con-sulenza tecnica, instaurando una specie di preferenza per la verificazione: il Giudice può disporre la consulenza tecnica solo “se indispensabile”, e pertanto se ritiene che la verifica-zione non possa fornire gli accertamenti e i dati necessari ad istruire il processo.

Ma l’elemento maggiormente rilevante della nuova istrut-toria è costituito dal rapporto, apparentemente non sem-plice, fra il principio dispositivo tipico del processo civile e il principio acquisitivo che caratterizzava in passato il processo amministrativo.

Alcune disposizioni consentono di precisare, per quanto possibile, i profili problematici dell’istruttoria.

L’art.54 prevede che la presentazione tardiva di memorie o documenti in vista dell’udienza di merito possa comunque essere autorizzata dal collegio quando la produzione nei ter-mini risulti estremamente difficile; l’art. 63, I comma prevede che il Giudice possa richiedere alle parti chiarimenti o docu-menti; l’art. 64 consente che d’ufficio possano essere acquisiti informazioni o documenti nella disponibilità dell’amministra-zione; l’art.104 consente la produzione di nuovi documenti e l’ammissione di nuovi mezzi di prova in appello, qualora il Collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa.

Il potere acquisitivo del Giudice pare essere molto ampio ma deve essere coordinato con il principio affer-mato dall’art.64, secondo il quale spetta alle parti fornire gli elementi di prova relativi ai fatti posti a fondamento della

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domanda.La più recente giurisprudenza ha proposto una lettura delle

disposizioni ora richiamate accentuando la natura dispositiva delle prove: “il tema probatorio nel giudizio amministrativo è ora essenzialmente assegnato alle parti, sicché il giudice non deve supplire con propri poteri istruttori ad incombenti cui la parte può diligentemente provvedere anche apprestando tutti i rimedi ordinamentali che la legge predispone (…).

L’istruttoria ufficiosa subentra dunque quando il giudi-cante ritenga di dover attivare i suoi poteri d’ufficio al (supe-riore) fine di decidere, solo dopo però (ripetesi) che le parti abbiano delineato (recte: provato) il tema del contendere”.(T.A.R. Campania – Napoli, sez.VIII, 1° dicembre 2010 n. 26440).

In sostanza: la parte deve presentare tutte le prove sulle quali si fondano le domande proposte, se del caso utilizzando anche gli istituti che consentono l’accesso ai documenti amministrativi ed il relativo ricorso in caso di diniego o di inutile decorso del termine di 30 giorni; solo quando la parte ha inutilmente esperito tutti i rimedi il Giudice può interve-nire e ordinare l’acquisizione di documenti.

Una lettura tanto monolitica del principio desta però più di una perplessità: in primo luogo, perché lo stesso art.64, III comma prevede espressamente che il Giudice ordini anche d’ufficio l’acquisizione di documenti e informazioni in pos-sesso dell’amministrazione; in secondo luogo, perché l’art.46, II comma impone all’amministrazione di depositare in giudi-zio i provvedimenti impugnati e tutti gli atti e documenti in base ai quali è stato emanato l’atto impugnato, oltre a “quelli in esso citati e quelli che l’amministrazione ritiene utili al giu-dizio”.

Imporre alla parte ricorrente l’esperimento di tutti i mezzi previsti dall’ordinamento al fine di acquisire i docu-menti da produrre appare un po’ eccessivo, quando la stessa amministrazione è onerata della produzione di tutta la docu-mentazione – anche preparatoria e istruttoria – relativa al provvedimento impugnato. Il risultato di un’affermazione tanto drastica del principio dispositivo consisterebbe nell’at-tribuzione di un notevole vantaggio all’amministrazione, che avrebbe tutto l’interesse a negare pretestuosamente l’ac-cesso agli atti, se non altro a fini meramente dilatori o per impedire che venga effettuata una formulazione integrale dei motivi di ricorso, quanto meno in vista della discussione dell’istanza cautelare.

Altro aspetto fondamentale della nuova disciplina dell’istruttoria riguarda l’onere della prova.

L’art.64, II comma riprende una formulazione tipica del processo civile, per affermare che il Giudice “deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti non specificamente contestati dalle parti costi-tuite”.

All’onere della prova fa da riscontro l’onere di contesta-zione, che impone alle parti resistenti e controinteressate di assumere posizione in maniera specifica rispetto ai vizi di legittimità prospettati dal ricorrente.

Non pare comunque che tale disposizione possa modifi-

care o rendere più gravosa l’attività difensiva dispiegata dalle parti, che già ora usano riferirsi nelle memorie difensive ai singoli motivi rappresentati da parte ricorrente.

Sarà però necessario porre maggiore attenzione ai fatti enunciati dalla controparte e curarsi di contestare specifica-mente quelli posti a fondamento delle domande proposte.

Un’ultima notazione riguarda il contenuto del ricorso.Il nuovo processo amministrativo esige una grande accu-

ratezza nell’esposizione dei fatti, anche in relazione agli oneri probatori che incombono su parte ricorrente.

Non si comprende però come l’art.40 possa imporre “l’esposizione sommaria dei fatti”.

Non vi è dubbio che molti ritengano che nel processo amministrativo le parti scrivano troppo; ma prevedere che l’esposizione dei fatti sia sommaria appare davvero una limi-tazione della quale potrebbe fare le spese la parte che ha ottemperato alla disposizione di legge, a maggior ragione con riferimento alla posizione del ricorrente, che normalmente è ossessionato dalla completezza dell’esposizione (quanto meno dei motivi di ricorso).

Tale disposizione probabilmente è da collegare al pre-cetto generale contenuto nell’art.3, comma II (“Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”), che vor-rebbe ridefinire le modalità con le quali vengono predisposti gli atti giudiziari.

Il Presidente del Consiglio di Stato ha ritenuto di specifi-care il significato di tale disposizione, ritenendola una espres-sione del principio di economicità e individuando in 20 – 25 pagine la lunghezza massima degli atti, salvo particolari situa-zioni (comunicazione del 20 dicembre 2010).

Chi si trova ad affrontare il giudizio amministrativo, soprattutto dalla parte ricorrente, spesso percepisce mag-giormente, come detto, l’esigenza di completezza, a costo di esplorare anche i vizi di legittimità il cui accoglimento risulti meno probabile. Il ricorso infatti deve essere fatto per “tenere” sia nel giudizio di primo grado che nel giudizio d’appello e non è raro il caso in cui un motivo anche solo brevemente enunciato in primo grado, perché non ritenuto particolarmente rilevante, venga invece posto a fondamento di una decisione favorevole in sede di appello.

Non si vorrebbe, insomma, che il richiamo alla sinteticità costituisse un invito alla autolimitazione e alla scelta, fra i tanti, dei soli percorsi che appaiono – nella visione stretta-mente soggettiva e spesso non coincidente con quella del Giudice – maggiormente suscettibili di accoglimento.

Certamente il nuovo processo amministrativo da una parte ha “sistemato” istituti e questioni che già erano stati proposti (e spesso risolti e definiti) dalla giurisprudenza; dall’altra solo l’esperienza e l’uso potranno chiarire i dubbi e le incertezze che necessariamente una disciplina in parte nuova porta con sé.

Marcello Mendogni

processo amministrativo

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Le Istituzioni europee, dal 2008, stanno concentrando i propri sforzi su una Proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio avente per oggetto la fornitura di informazioni sui prodotti alimentari ai consumatori.

Il progetto di regolamento intende aggiornare le norme dell’Unione europea applicabili all’etichettatura dei prodotti alimentari, fondendo in un unico testo normativo, diretta-mente applicabile in ciascun Stato membro, le direttive utili all’etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodotti ali-mentari, in genere, nonché quelle relative all’etichettatura nutrizionale. Ciò venendo, così, ad abrogare le norme ora vigenti (1).

ETICHETTATURA: PRESENTAZIONE E PUBBLICITA’

In materia di etichettatura, presentazione e pubblicità, il testo normativo si ripropone diversi obiettivi. In particolare, si intende richiamare l’attenzione del lettore sui temi più rile-vanti trattati ed identificabili nella responsabilità dell’opera-tore, vademecum sulla presentazione delle indicazioni obbli-gatorie, nonchè data limite di consumo e alimenti a rischio e per ultimo ma non da ultimo la disciplina dei prodotti non confezionati.

Responsabilita’ L’art. 8, individua il soggetto responsabile dell’informa-

zione (c.d. “operatore del settore alimentare responsabile dell’informazione”): si tratta dell’operatore con il cui nome o ragione sociale viene commercializzato il prodotto, oppure, a seconda dei casi, coincide con l’importatore nel territorio europeo. L’operatore dovrà assicurare la presenza e l’esat-tezza delle informazioni. La norma prosegue prevedendo che gli operatori del settore alimentare che non hanno alcuna influenza sulle informazioni presenti in etichetta, ma che conoscono o presumono la non conformità di queste, non devono fornire il prodotto.

Inoltre si precisa, anche, che le informazioni su un pro-dotto non potranno essere oggetto di modifica qualora questa possa indurre in errore i consumatori o ridurre il livello di protezione degli stessi. Nel caso in cui, invece, l’ope-ratore apporti tali eventuali modifiche, egli ne sarà completa-mente responsabile.

1 Direttiva 2000/13/CE e Direttiva 90/496/CE

Vi è un obbligo generale in capo agli operatori del settore alimentare di garantire e verificare la conformità delle infor-mazioni presenti.

Gli operatori, infine, devono garantire e vigilare affinché a qualsiasi livello di commercializzazione, l’operatore succes-sivo che riceve l’alimento sia in grado di avere e gestire tutte le informazioni necessarie.

Grandezza delle indicazioni obbligatorie.Un’importante novità è data dall’introduzione di una

norma ad hoc sulla c.d. leggibilità (legibility).Le informazioni obbligatorie devono, infatti, avere sempre

una sicura visibilità, devono essere in particolar modo facil-mente leggibili ed eventualmente indelebili. Il consumatore, infatti, non deve incorrere nel rischio di non poter consultare tali informazioni, per cui esse non possono risultare nascoste oppure oscurate da altre.

L’art. 14 prevede che le informazioni obbligatorie siano stampate in caratteri la cui parte mediana (altezza della X) sia pari o superiore a 1,2 mm, e in modo da garantire un contra-sto visibile tra lo sfondo e i caratteri stampati.

Per gli imballaggi la cui superficie maggiore misura meno di 60 cm2, la dimensione minima prevista è identificata in 0,9 mm.

Omissioni di indicazioni obbligatorieL’art. 17 disciplina le situazioni in cui la lista degli ingre-

dienti e la dichiarazione nutrizionale, indicazioni che devono essere apposte obbligatoriamente in etichetta, possono essere omesse.

L’esenzione riguarderebbe specificamente: a) i vini di cui all’allegato XI ter del Reg.CE 1234/2007 b) i prodotti di cui al Reg.CE 1601/91, ossia i vini aro-

matizzati, le bevande aromatizzate a base di vino, i cocktail aromatizzati di prodotti vitivinicoli.

c) le bevande analoghe a quelle di cui alle lettere a) e b) con contenuto alcolico superiore all’1,2% in volume ottenute dalla fermentazione di frutta o ortaggi;

d) l’idromele;e) tutti i tipi di birra;f) le bevande spiritose quali definite all’articolo 2, para-

grafo 1, del Reg.CE 110/2008.

Data limite di consumo e alimenti a rischioNell’ambito della disciplina del termine minimo di con-

sumo e della data limite di consumo viene inserita una pre-

IL FUTURO DELLA NORMATIVA EUROPEA IN MATERIA DI INFORMAZIONI SUI PRODOTTI

ALIMENTARI AI CONSUMATORI

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cisazione che appare rilevante soprattutto ai fini della tutela della salute dei consumatori.

Per gli alimenti molto deperibili dal punto di vista micro-biologico, e che dopo un breve periodo possono costituire un pericolo immediato per la salute, il termine minimo di consumo viene sostituito con l’indicazione di una data limite di consumo, vale a dire con una data di scadenza. Tale dicitura dovrebbe, infatti permettere di prevenire la circolazione di alimenti a rischio in quanto dannoso per la salute o inadatti al consumo umano.

Un prodotto alimentare, infatti, successivamente alla data limite di consumo è considerato a rischio ai sensi dell’art. 14, paragrafi da 2 a 5 del Reg.CE 178/2002. Dato rilevante, soprattutto, nella più ampia ottica del sistema di allerta rapido disciplinato dal medesimo Regolamento CE 178/2002.

Indicazione di origineIl Regolamento si ripropone di puntualizzare e di distin-

guere il luogo di provenienza dal paese di origine. Il primo, ossia il luogo di provenienza, è il luogo da cui

proviene l’alimento, luogo che non deve confondersi con il luogo di origine che corrisponde invece all’origine come definita dal codice doganale. Secondo quest’ultima norma, il paese d’origine corri-sponde al paese dove le merci sono state interamente ottenute, ovvero, in caso di merci alla cui pro-duzione hanno partecipato diversi paesi, al paese ove è avvenuta l’ul-tima trasformazione sostanziale.

L’art. 25 bis, prevede un obbligo di indicazione in etichetta del paese d’origine o del luogo di provenienza:

a) nel caso in cui l’omissione di questa indicazione possa indurre in errore il consumatore in merito al paese d’ori-gine o al luogo di provenienza reali del prodotto alimentare, in particolare se le informazioni che accompagnano il pro-dotto alimentare o contenute nell’etichetta nel loro insieme potrebbero altrimenti far pensare che l’alimento ha un diffe-rente paese d’origine o luogo di provenienza;

b) per le carni dei codici NC elencati all’allegato IX bis, ossia le carni di animali della specie suina, fresche, refrigerate o congelate; le carni di animali delle specie ovina o caprina fresche, refrigerate o congelate e le carni fresche, refrigerate o congelate, di volativi del codice NC 0105.

Inoltre, è previsto che nei casi in cui il paese d’origine o il luogo di provenienza di un prodotto alimentare sia indicato ma non corrisponda a quello del suo o dei suoi ingredienti primari, dove per ingrediente primario si intende l’ingre-diente il cui contenuto è più del 50% dell’alimento o che è

associato abitualmente alla denominazione dell’alimento, si dovrà provvedere all’indicazione anche del paese d’origine o il luogo di provenienza di tale/i ingrediente/i. In alternativa si dovrà precisare che il paese d’origine o il luogo di prove-nienza dell’ingrediente o degli ingredienti primari è diverso da quello del prodotto alimentare.

In riferimento all’indicazione di origine, la Commissione rivaluterà, in un arco temporale predefinito, gli alimenti a cui eventualmente estendere l’obbligo di indicazione del luogo di origine o di provenienza, ciò prendendo, in particolare in in esame tale obbligo per alimenti quali:

a) i tipi di carni diverse da quelle già considerate dal sopra citato art. 25bis lett. b);

b) il latte;c) il latte usato quale ingrediente di prodotti lattiero-

caseari;d) le carni usate quali ingrediente;e) i prodotti alimentari non trasformati;f) i prodotti a base di un unico ingrediente;g) gli ingredienti che rappresentano più del 50% di un

alimento. Alla Commissione, quindi, verrà

demandato il compito di redigere un’attenta e approfondita rela-zione basata, come espressamente detto dalla norma, sull’esigenza dei consumatori di essere informati, sulla fattibilità dell’introduzione di tale obbligo, sull’analisi dei costi e benefici.

Gli operatori del settore sono particolarmente interessati a questa innovazione introdotta dal

Regolamento. Ciò soprattutto, in quanto, al momento solo il settore delle carni è sottoposto all’obbligo dell’indicazione obbligatoria dell’origine.

Prodotti non precofenzionatiL’art. 41 prevede che sui prodotti offerti in vendita al

consumatore finale senza preimballaggio, oppure ai prodotti imballati nei luoghi di vendita su richiesta del consumatore o preimballati per la vendita diretta sia obbligatorio segnalare la presenza di allergeni o ingredienti a cui si possa essere intol-leranti, mentre le altre indicazioni, solitamente obbligatorie, possono essere omesse, ciò fatto salvo eventuali ulteriori indicazioni apportate da singole normative nazionali.

ETICHETTATURA NUTRIZIONALE

In materia di etichettatura nutrizionale il Regolamento si ripropone:

Obbligatorietà della dichiarazione nutrizionale

il progetto di regolamento intende aggiornare le norme dell’Unione europea applicabili all’etichettatura dei prodotti alimentari, fondendo in un unico testo normativo, direttamente applicabile in ciascun Stato membro, le direttive utili all’etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodottialimentari, in genere, nonché quelle relative all’etichettatura nutrizionale

prodotti alimentari

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La dichiarazione nutrizionale deve, obbligatoriamente, riportare: il valore energetico, la quantità di grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, zuccheri, proteine e sale.

Questo obbligo, però, non si applica ai prodotti per i quali è espressamente prevista l’esenzione dall’indicazione della tabella nutrizionale nell’Allegato IV, e che sono:

1. i prodotti non trasformati che comprendono un solo ingrediente o una sola categoria di ingredienti;

2. i prodotti trasformati che sono stati sottoposti uni-camente a maturazione e che comprendono un solo ingre-diente o una sola categoria di ingredienti;

3. le acque destinate al consumo umano, comprese quelle che contengono come soli ingredienti aggiunti anidride car-bonica e/o aromi;

4. le piante aromatiche, le spezie o le loro miscele;5. il sale e i succedanei del sale;6. gli edulcoranti da tavola;7. i prodotti coperti dalla Direttiva 1999/4/CE, relativa agli

estratti di caffè e agli estratti di cicoria, i chicchi di caffè interi o macinati e i chicchi di caffè decaffeinati interi o macinati;

8. le infusioni a base di erbe e di frutta, i tè, tè decaffeinati, tè istantanei o solubili o estratti di tè, tè istantanei o solu-bili o estratti di tè decaffeinati, senza altri ingredienti aggiunti tranne aromi che non modificano il valore nutrizionale del tè;

9. gli aceti di fermentazione e i loro succedanei, compresi quelli i cui soli ingredienti aggiunti sono aromi;

10. gli aromi;11. gli additivi alimentari;12. i coadiuvanti tecnologici;13. gli enzimi alimentari;14. la gelatina;15. i composti di gelificazione per marmellate;16. i lieviti;17. le gomme da masticare;18. i prodotti alimentari confezionati in imballaggi o con-

tenitori la cui superficie maggiore misura meno di 25 cm2;19. i prodotti alimentari forniti direttamente dal fabbri-

cante di piccole quantità di prodotti al consumatore finale o a strutture locali di vendita al dettaglio che forniscono diret-tamente il consumatore finale.

La dichiarazione nutrizionale non è richiesta anche per quei prodotti elencati nel paragrafo 4 dell’art. 17 (per i quali, come sopra detto, non è neppure obbligatoria la lista degli ingredienti):

a) i vini di cui all’allegato XI ter del Reg.CE 1234/2007 b) i prodotti di cui al Reg.CE 1601/91, ossia i vini aro-

matizzati, le bevande aromatizzate a base di vino, i cocktail aromatizzati di prodotti vitivinicoli.

c) le bevande analoghe a quelle di cui alle lettere a) e b) con contenuto alcolico superiore all’1,2% in volume ottenute dalla fermentazione di frutta o ortaggi;

d) l’idromele;e) tutti i tipi di birra; ef) le bevande spiritose quali definite all’articolo 2, para-

grafo 1, del Reg.CE 110/2008.

Nella dichiarazione nutrizionale il valore energetico e la quantità delle sostanze nutritive devono essere espressi per 100g o 100ml. L’indicazione deve essere facilmente ricono-scibile dal consumatore a condizione che siano quantificate in etichetta la porzione o l’unità utilizzate e sia indicato il numero di porzioni o unità contenute nell’imballaggio.

Forme di espressione e presentazioni complementari per la dichiarazione nutrizionale (es. Il semaforo)

L’art. 34 bis disciplina le “Forme di espressione e presenta-zione complementari” e consente che il valore energetico e le quantità di sostanze nutritive siano indicati con altre forme di espressione, per esempio usando grafici o simboli oltre a parole o numeri purché siano rispettati certi e chiari requisiti essenziali:

a) non devono indurre in errore il consumatore;b) devono essere volti a facilitare la comprensione, da

parte del consumatore, del contributo o dell’importanza del prodotto alimentare ai fini dell’apporto energetico e nutri-tivo di una dieta;

c) devono essere sostenuti e accompagnati da elementi che dimostrano che il consumatore medio comprende tali forme di espressione o presentazione;

d) nel caso di altre forme di espressione, devono basarsi su assunzioni di riferimento armonizzate oppure, in man-canza di tali valori, su pareri scientifici generalmente accettati riguardanti l’assunzione di elementi energetici o nutritivi.

La norma prevede, altresì, che gli Stati sostengano e che, soprattutto, monitorino in maniera appropriata questo impiego.

Al fine di provvedere a controlli adeguati gli Stati potranno richiedere agli operatori del settore alimentare di notificare all’autorità competente l’uso di una forma di espressione o presentazione supplementare e di fornire loro le pertinenti giustificazioni concernenti il soddisfacimento dei requisiti essenziali.

ULTERIORI INFORMAZIONI

Appare opportuno richiamare alcune delle altre modifi-che apportate dal testo della Proposta.

Qualora le informazioni obbligatorie, disciplinate dagli artt. 9 e 10, siano impiegate su base volontaria, devono essere conformi a quanto disposto dal Regolamento e in via gene-rale devono soddisfare i seguenti requisiti:

(i) non devono indurre in errore il consumatore.(ii) non devono essere né ambigue né confusorie(iii) se del caso, devono essere basate su dati scientifici.

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Nell’allegato III, relativo ai “prodotti alimentari la cui etichet-tatura deve comprendere una o più indicazioni obbligatorie com-plementari”, si specifica che per i prodotti alimentari ai quali la caffeina è aggiunta a fini nutrizionali o fisiologici è prevista la precisazione della dicitura “caffeina aggiunta. Non raccoman-dato per i bambini e durante la gravidanza”, con l’indicazione del tenore di caffeina.

CONSIDERAZIONI FINALI

I principi qui innanzi individuati sono contenuti nel testo del Regolamento che allo stato è ancora da considerarsi come una bozza ed in quanto tale in continua fase di lavora-zione e, pertanto, è passibile ancora di modifica.

Inoltre, occorre evidenziare che l’iter legislativo prevede allo stato un rinvio del testo al Parlamento europeo perché lo esamini in seconda lettura: se in questa seconda fase il Par-lamento approverà la posizione comune del Consiglio l’atto potrà dirsi adottato. In caso contrario, qualora il Parlamento emanasse a maggioranza assoluta ulteriori emendamenti al testo del Consiglio, l’atto tornerà alla Commissione che dovrà emettere un proprio parere. Si attende tale momento con grande interesse, soprattutto se si considera che fin dall’inizio il Parla-mento, come anche alcune categorie di produttori, hanno manifestato dis-senso e contrarietà su diversi temi di primaria importanza trattati nel testo del “Regolamento”.

Il Regolamento certo rivolu-zionerà la disciplina della materia, razionalizzando l’attuale normativa vigente, ciò agevolandone il rispetto e aumentandone la chia-rezza per le parti interessate, modernizzandola allo scopo di tenere conto dei nuovi sviluppi nel settore delle informazioni sui prodotti alimentari. In particolare ritengo che il Rego-lamento avrà un impatto concreto non solo sui produttori di prodotti alimentari multinazionali, ma anche sulle piccole e medie realtà imprenditoriali tipiche della nostra regione. In etichetta sarà necessario evidenziare l’origine, nonché la provenienza dei prodotti, facendo, quindi, riferimento alle diverse fasi della produzione. La “tracciabilità” fino ad oggi resa obbligatoria solo per alcuni generi, quali la carne bovina, gli ortaggi e la frutta, verrà ora estesa a tutti i prodotti freschi e confezionati, includendo quindi anche la carne suina per esempio, carne già soggetta ad una selezione di qualità nella nostra regione ai fini della produzione e commercializzazione dei nostri prodotti tipici. Molto probabilmente tali indicazioni porteranno ad una maggiore trasparenza e a dare un valore aggiunto anche alla nostra produzione locale che è già oggetto di qualificazioni e selezioni severe e oggetto di criteri distin-tivi dell’alta qualità sull’origine delle materie prime trattate e trasformate. Attraverso questo nuovo strumento normativo,

di portata internazionale, saranno sempre più garantiti i con-trolli di sicurezza scoraggiando la diffusione di cibi di scarsa qualità, nonché le sempre più frequenti frodi alimentari legate all’importazione di materie prime di dubbia provenienza2. La normativa verrà, comunque, a tutelare in particolare coloro che sono i destinatari finali dei prodotti acquistati, vale a dire i consumatori, unici veri interessati ad identificare e a fare un uso adeguato di un alimento. Questo dando, in particolare regole predefinite anche per esempio nel settore della distri-buzione dei prodotti attraverso luoghi non tipici della grande distribuzione, ma che vedono coinvolti anche i nostri botte-gai di provincia. Infatti con l’art. 41 il Regolamento intende dare rigore alla disciplina della vendita immediata attraverso la vendita dei prodotti non preconfezionati al banco. D’ora in poi anche i nostri “affettati”, ma anche il nostro caro par-migiano, scelti dal consumatore al momento dell’acquisto e imballati direttamente dal negoziante vengono regolamentati dalla nuova normativa europea e dovranno essere soggetti ad una maggiore trasparenza. Il piccolo imprenditore dovrà, molto probabilmente dare indicazioni chiare e leggibili al cliente dell’esistenza di eventuali allergeni. Teoricamente le altre indicazioni considerate dal Regolamento come obbliga-

torie potranno essere omesse, salvo eventuali indicazioni riconosciute come tali dalla normativa nazionale. Sul punto si precisa che ad oggi il Decreto Legislativo 109/1992, all’art. 16 prevede già un elenco rigoroso ed obbligatorio a cui i dettaglianti devono già attenersi, circostanza che invece non trova applicazione in molti altri paesi dell’Unione euro-

pea. Certamente tale rigore altro non fa che confermare che sul cibo in Italia non si scherza! In conclusione comunque si può ritenere che i consumatori informati adeguatamente potranno, quindi, in questo modo, propendere ad effettuare scelte adeguate alle esigenze dietetiche più adatte alle pro-prie caratteristiche ed esigenze personali.

Raffaella Calda

2 Si prenda in esame per esempio i casi di sequestri di prodotti ali-mentari provenienti da paesi terzi e prodotti falsando e imitando, anche attraverso una immagine somigliante e/o di marchi e altri elementi identificativi in uso nel marketing, prodotti tuttavia con ingredienti certamente non in linea con le tecniche di trasformazione in uso local-mente o utilizzando materie prime di scarsa qualità e comunque non in linea con i criteri imposti per esempio dai Consorzi medesimi. Il nostro Consorzio del Prosciutto di Parma docet.

il Regolamento avrà un impatto concreto non solo sui produttori di prodotti alimentari multinazionali, ma anche sulle piccole e medie realtà imprenditoriali tipiche della nostra regione

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L’intendimento del presente studio è quello di fornire una rassegna degli orientamenti che nel tempo si sono succeduti in argomento fino a pervenire all’odierna sistemazione.

Assunta come definitiva la configurazione delle fondazioni non riconosciute quale soggetto giuridico attraverso una lunga elaborazione della dottrina e della giurisprudenza, si pone il quesito su quale sia il titolo da cui discende la respon-sabilità dei loro amministratori per le obbligazioni contrat-tuali e da fatto illecito che sulla medesima gravano, suoi limiti ed estensione anche temporale.

La rassegna si apre con una ragionata classificazione della varie tipologie di fondazione.

1. Fondazioni non riconosciute e figure contigue.Fondazioni di fatto, fondazioni non riconosciute, fonda-

zioni in attesa di riconoscimento, sono tutte figure giuridiche che si distinguono e si intersecano tra loro, di cui solo si può dire con sicurezza che si contrappongono alla fondazione riconosciuta, alla quale è stata conferita personalità giuridica, con conseguente responsabilità limitata degli amministratori.

Accettando tale nomenclatura, con la espressione “fon-dazione di fatto” ci si riferisce alla situazione giuridica che si verifica nell’ipotesi in cui una persona, mediante un atto di fondazione, abbia destinato il proprio patrimonio o parte di esso a servire alla realizzazione di un’opera, e non vi sia stato riconoscimento, né esso sia stato richiesto. Verificandosi tale ipotesi, i beni oggetto di destinazione non si staccano e non escono dal patrimonio di provenienza, ed i terzi, creditori del fondatore, hanno il diritto di considerarli come facenti sempre parte di tale patrimonio originario. Il proprietario, inoltre, può in ogni momento far cessare la destinazione, non insistendo su di essi alcun vincolo reale.

Tale categoria è però ormai priva di ogni rilievo giuri-dico, dopo che la giurisprudenza si è orientata a riconoscere autonoma soggettività, nella fase prodromica, anche alle fon-dazioni operanti in attesa di riconoscimento, mentre inizial-mente esse erano ritenute solo “fondazioni di fatto”1. Infatti c’è un limite a tale “classificazione”: si ha quando, come si ricava dallo stesso art. 15 c.c., il fondatore faccia iniziare l’at-tività dell’opera da lui disposta e, naturalmente, non sia inter-venuto il riconoscimento.

A questo punto la “fondazione di fatto” esce da un binario “morto”, si mette in cammino per caratterizzarsi come “fon-dazione non riconosciuta” se ed in quanto le sia attribuibile una soggettività autonoma, indipendentemente dal mancato riconoscimento che la costituisce in persona giuridica.

1 Tale era la tesi di Cass. 7.8.1967 n. 2096, in Giur. it. 1968, I, 1, 558, di cui alla nota 4.

Nel parere della prevalente dottrina si ritiene che in tal caso il proprietario non può far cessare la destinazione impressa sui beni, nasce così un vincolo reale su di essi.

La causa di tale fenomeno è da ravvisarsi nel fatto che l’opera, una volta iniziata, non rimane più nella sfera del fon-datore, ma interessa ormai la generalità dei cittadini e così non può più essere distrutta ad arbitrio del privato2. La con-seguenza è che in questo caso si ha una ipotesi di fondazione non riconosciuta, mentre in un primo tempo era considerata priva di autonomia giuridica.

Si completa l’excursus: altra è la configurazione delle fondazioni in attesa di riconoscimento (art. 15 c.c.). Il tratto distintivo si verifica quando per statuto sia stabilito che la devoluzione avvenga a favore di una fondazione in quanto riconosciuta, cioè destinata ad operare solo in quanto abbia ottenuto il riconoscimento (c.d. riconoscimento necessario). In tal caso se la fondazione lo ottiene si avrà il trasferimento della proprietà dei beni in di lei favore, e la applicazione analo-gica dell’art. 2331 2°comma c.c. nella sua odierna estensione, che prevede la responsabilità illimitata e solidale di chi ha agito prima della iscrizione della società, ma anche dell’unico socio fondatore e di quelli tra i soci che nell’atto costitu-tivo o con atto separato hanno deciso, autorizzato, consentito il compimento dell’operazione; salva la responsabilità della fondazione per le operazioni pregresse a seguito di appro-vazione da parte della stessa una volta riconosciuta, in ogni caso per quelle necessarie ai sensi dell’art. 2338 c.c.

Che se invece il riconoscimento viene negato, i beni rien-treranno nella libera disponibilità del fondatore, a meno che egli non abbia fatto iniziare l’attività dell’opera da lui disposta (art. 15 c.c.) consentendo l’utilizzazione dei beni destinati in dotazione alla persona giuridica; nel qual caso si ricade nella fattispecie delle fondazioni non riconosciute propriamente dette (ove ritenute ammissibili).3

Si pone il quesito se esse, in mancanza di personalità giu-

2 Così, sulla scorta della Relazione del Guardasigilli 35, Cass. 4.07.1959 n. 2130 (contra Galgano, “Persone giuridiche”, in Comm. Scialoja – Branca, pag. 215).3 Trib. Roma 15.09.1987, in Giur It. 1988, II, 442, che si limita alla affermazione della irrevocabilità dell’atto di fondazione. Si rife-risce alla costituzione, da parte del gruppo parlamentare radicale, del Centro Calamandrei, e motiva la irrevocabilità della fondazione in attesa di riconoscimento, alla luce dell’art 15 c.c., considerando l’inizio dell’attività come rinuncia tacita alla facoltà di revoca. Per Galgano, op. cit., 211: “L’atto di fondazione diventa… irrevo-cabile non appena si sia verificato l’effetto traslativo della proprietà dei beni a favore di coloro che, per designazione del fondatore, dovranno provvedere alla loro destinazione allo scopo o, se si pre-ferisce, a favore della fondazione non riconosciuta, della quale le persone designate dal fondatore sono gli amministratori”.

Le Fondazioni non riconosciuteDella loro soggettività giuridica e della responsabilità degli amministratori

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ridica, possano considerarsi centro autonomo di interessi, soggetto a cui siano imputabili obbligazioni, contrattuali ed extracontrattuali, assunte dagli amministratori, diritti e legit-timazione processuale.4

L’incipit sta tutto nella riconosciuta e indiscussa propo-sizione del Galgano: “… l’immutabilità del vincolo di desti-nazione, che la fondazione imprime sui beni, ha indotto il legislatore moderno ad escludere che simili vincoli perpetui si possano liberamente costituire per volontà privata, ed a limitare i casi e le forme di costituzione della fondazione. Questo non significa che fondazioni non riconosciute sono sempre e comunque inammissibili per il nostro ordinamento, piuttosto significa:

a) che nel nostro ordinamento manca un principio di generale ammissibilità di fondazioni non riconosciute;

b) che fondazioni non riconosciute risultano ammissibili secondo il principio di tipicità, nei casi espressamente previ-sti dall’ordinamento giuridico”5.

4 Nella risalente giurisprudenza Cass. 7.08.1967 n. 2096, in Giur. it. 1968, I, 1, 558: “la semplice devoluzione di uno o più beni a un determinato scopo, in attesa del riconoscimento, non importa una perfetta autonomia dei beni medesimi, i quali, per il solo fatto di avere una data destinazione, non si staccano, di regola dal patrimonio di provenienza, né restano sottratti alla normale garanzia che i credi-tori hanno sul patrimonio”. Nella fattispecie esaminata un religioso aveva, con atto tra vivi, disposto una fondazione per la gestione di un orfanatrofio e, in attesa dell’accoglimento della domanda di rico-noscimento, aveva iniziato l’attività dell’opera, agendo quale ammi-nistratore. Un minore affidato all’orfanatrofio aveva cagionato un danno a terzi: costoro essendo deceduto nel frattempo il fondatore, avevano agito in giudizio nei confronti dei suoi eredi, assumendo che “del danno causato dal minore era tenuto a rispondere -in pro-prio- oltre che l’istitutore che accompagnava i convittori, il fondatore quale direttore e amministratore dell’orfanatrofio e, per esso, i suoi eredi. Questi ultimi, a loro volta, avevano eccepito che “deceduto il loro congiunto, l’attore avrebbe dovuto riassumere il processo nei confronti di chi, per destinazione testamentaria del de cuius, era subentrato nella direzione dell’orfanatrofio e nel possesso e nell’am-ministrazione dei beni”. La Cassazione ha disatteso l’eccezione: “il patrimonio destinato alla fondazione non può acquistare diritti nè rimanere obbligato e pertanto il fondatore defunto era responsabile in proprio, come direttore e amministratore dell’istituto, del fatto illecito commesso dal minore nel tempo in cui era affidato alla sua vigilanza, con la conseguenza che gli eredi erano tenuti al paga-mento”. Da qui la drastica affermazione secondo cui “l’esistenza di fatto di fondazione è un non senso” poiché “una fondazione di tal fatta non esiste né ha alcuna rilevanza giuridica. Risponderanno altri soggetti, diversi dai fondatori, se altri che non il fondatore abbiano agito quali amministratori della fondazione”. 5 Galgano, in Tratt. dir. civ., 282.Per Cass. 15.04.1975 n. 1427, in Foro it. 1976, I, 10683, l’atto di dotazione “produce l’immediato effetto di destinare i beni all’ente nascituro, sottraendoli non soltanto ad ogni altra destinazione, ma anche al loro precedente titolare, il quale non può disporne se non con la revoca dell’atto di fondazione, possibile nei limiti di cui all’art. 15 c.c.” (Di Ciommo, “Sulle fondazioni non riconosciute”, in Foro it. 1999, I, 348 ss.).Vero è che l’autore citato non riconosce tale soggettività giuridica all’ente che mai ha chiesto o non ha ottenuto il riconoscimento,

Come noto, l’Autore cit., che più si è diffuso in innume-revoli e originali scritti sul fenomeno delle fondazioni non riconosciute si discosta solo formalmente dall’indirizzo oggi prevalente, ma perviene alle stesse conclusioni seguendo la sua teoria delle fondazioni fiduciarie.

Il filo conduttore della ricerca giurisprudenziale è dunque “la ricostruzione teorica delle fondazioni prive di riconosci-mento: effettuata anziché in termini di rapporti fiduciari, in termini di soggettività giuridica, ravvisandosi nella soggetti-vità la pura e semplice idoneità ad essere titolari di diritti e doveri6; come del resto anche nelle fondazioni operative in attesa di riconoscimento. Per questa via la fondazione non riconosciuta sarà ravvisabile “come autonomo soggetto giu-ridico che è tale anche se non ha ottenuto il riconoscimento e anche se non intende chiederlo, senza che ciò influisca sul suo regime giuridico”7.

Il cammino, come si vedrà in conclusione, è stato com-piuto anche in sede legislativa.

2. Le fondazioni fiduciarie (teoria del Galgano).Il ripetuto sovrapporsi dei più recenti indirizzi giurispru-

denziali e le adesioni dottrinarie, ancorchè parziali ma comuni nelle conseguenze, alla tesi delle “fondazioni fiduciarie” da tempo elaborata dal Galgano esigono che se ne faccia cenno. Secondo l’Autore con l’espressione “fondazioni fiduciarie” ci si riferisce normalmente ad una disposizione patrimoniale a favore di un altro soggetto, persona fisica o giuridica, con l’onere di adempiere ad uno scopo.

Per realizzare lo scopo di una fondazione, oltre che di un ente autonomo, ci si può servire anche di una dotazione modale. Si può cioè attribuire una massa di beni ad altri, con l’onere di compiere permanentemente una certa opera ma “la fondazione disposta per testamento non potrà, come può l’erede e il legatario, rinunciare alla dotazione patrimoniale; e neppure quando la dotazione patrimoniale della fondazione

salve le responsabilità personali. Tuttavia ammette che “anche fon-dazioni non riconosciute possono avere un’autonoma ed efficiente organizzazione disciplinata dall’atto costitutivo” il cui regime di responsabilità “è rinvenuto nella parte del codice dedicata alla disci-plina dei comitati e dunque senza problemi di sorta negli artt. 40, 41 e 42 c.c. applicati per analogia”: tesi assai prossima a quella del Galgano che, però, applica il disposto in via diretta. Ciò consente “ai creditori della fondazione di trovare soddisfazione nel patrimo-nio stesso e in quello degli amministratori, i quali ai sensi dell’art. 41 c.c. rispondono illimitatamente e solidalmente delle obbligazioni assunte” (Basile, in Tratt. dir. priv. Rescigno, II, 555 ss.). E’ noto-rio che a differenza dalle associazioni non riconosciute, per le quali ai sensi dell’art. 38 c.c. rispondono gli amministratori che hanno operato all’esterno negoziando con i terzi, nelle fondazioni-comitati rispondono tutti gli amministratori senza alcuna distinzione tra chi abbia agito e chi non abbia agito (Cass. 82/134, Trib. Civitavecchia 20.11.2003, in Gius. 2004, 6, 874).6 De Giorgi, “Le fondazioni”, in Tratt. Dir. Priv. Rescigno, II, 1, 262.7 Bazzani, “Le fondazioni non riconosciute”, in N.g.c.c. 1988, II, 139.

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comprenda l’intero patrimonio del fondatore, o sia determi-nata in ragione di una quota di questo, ci sarà responsabilità della fondazione per i debiti del fondatore, come c’è respon-sabilità dell’erede per i debiti del de cuius; sarà insomma, inapplicabile ogni norma che presupponga la qualificazione dei beni come eredità, o della vicenda traslativa come succes-sione a titolo universale”8, anche se l’atto di dotazione della fondazione è soggetto alle norme come quelle di riduzione per lesione di legittima dettate per l’istituzione di erede e per il legatario, oltre che per la donazione, in quanto atti di liberalità.

L’illustre Autore allarga lo schema della fondazione per volontà di un unico soggetto per atto di liberalità compren-dendovi le fattispecie previste dalle norme sui comitati (artt. 40, 42 c.c. e art. 32 c.c.) che regolano la “devoluzione dei beni con destina-zione particolare”: “il fenomeno rego-lato da quelle norme non è che una fondazione la quale presenta la sola peculiarità d’esser costituita per pub-blica sottoscrizione anziché con atto di un unico fondatore. Una fondazione la costituzione della quale è preceduta, pertanto, dall’opera di un collegio promotore (il comitato in senso tecnico), impe-gnato a promuoverla. E, poiché la legge prevede solo come eventuale, in questa materia, il riconoscimento della perso-nalità giuridica (art. 41), dalla costruzione proposta deriva anche l’ammissibilità, per diritto vigente, di una fondazione non riconosciuta. Poiché, inoltre, la legge detta norme per il caso di mancato conseguimento della personalità giuridica, quella costruzione consente altresì di individuare la disciplina

8 Galgano Tratt. cit. I, 272. L’Autore riscontra nella parte motiva di Cass. 18.10.1960 n. 2785 che in diritto vigente come in epoche risalenti, sono ammissibili accanto a fondazioni dotate di personalità giuridica, le fondazioni fiduciarie, il primo enunciato giurispruden-ziale favorevole alla propria tesi. Trattavasi di un obiter dictum. Un passo della motivazione così si esprimeva: “certo poteva, come può ancor oggi, il testatore raggiungere il suo scopo non solo attraverso la detta costituzione indiretta della persona giuridica, ma anche attra-verso altro mezzo, lasciando cioè il proprio patrimonio all’erede e facendo obbligo allo stesso di destinare le rendite allo scopo sociale voluto (istruzione dei poveri, ecc..) o comunque di impiegarlo nella destinazione voluta. Fondamentale differenza tra le due forme è che, mentre la prima, attraverso la costituzione della fondazione, anche indirettamente e cioè dall’erede attuata, il patrimonio a questa desti-nato passa dalla disponibilità dell’erede a quella del nuovo auto-nomo ente, potendo tutt’al più rimanere all’erede un obbligo, dal testatore previsto, di vigilare sull’amministrazione del’ente stesso, nella seconda (che da una corrente suol anche definirsi fondazione fiduciaria) non si ha costituzione di persona giuridica, ma perma-nenza del patrimonio nella disponibilità dell’erede, pur con l’onere relativo al suo impiego ed alla destinazione delle sue rendite. Lo stabilire in quale delle due forme si verta nella specie rientra nell’in-terpretazione della volontà del testatore, compito riservato al giudice di merito.” Galgano “Sull’ammissibilità di una fondazione non rico-nosciuta”, in Riv. Dir. Civ. 1961 , 172 ss.

applicabile alle fondazioni non riconosciute”9. Nel comitato si ha pluralità di sottoscrittori-fondatori, ma “le norme degli artt. 40 - 42 troveranno applicazione anche quando una sola, anziché più persone, avrà destinato beni al perseguimento di uno scopo altruistico”10.

E sinteticamente: “la fondazione costituita su iniziativa del comitato presenta, rispetto alla comune fondazione, una peculiarità che attiene alle modalità della sua costituzione: essa è una fondazione costituita per pubblica sottoscrizione, anziché per atto di un unico fondatore. La sua è, cioè, una costituzione progressiva o continuata, anziché una costitu-zione istantanea”11.

Sul piano delle responsabilità il Galgano distingue quelle che riguardano i promotori/organizzatori da quelle dei

gestori/amministratori, ancorchè tale distinzione non sia sempre concreta-mente possibile poiché i membri del comitato di promozione assumono spesso le vesti di gestori in fun-zione della gestione dei fondi per lo scopo di destinazione.12 Della diversa responsabilità degli amministratori

delle associazioni di fatto rispetto alle associazioni non rico-nosciute si è già scritto nella nota 5 che precede.

I membri del comitato dei gestori, quantunque non abbiano partecipato all’atto, sono comunque responsabili nei confronti dei terzi per il solo fatto di esserne componenti, in quanto l’obbligazione sia stata assunta in nome del comitato. La responsabilità discende non già da ragioni di mandato più o meno presunto a favore del terzo che ha operato negozial-mente, bensì ex lege. La differenza sostanziale tra il diverso atteggiarsi delle responsabilità gestorie deriva dal fatto che le associazioni non riconosciute nascono da un patto con-trattuale e hanno piena sovranità decisionale entro i limiti statutari, mentre gli amministratori delle fondazioni non rico-nosciute (o comitati) non possono distogliere i fondi raccolti da una destinazione diversa da quella impressa, con negozio unilaterale, dal fondatore, o dal programma annunciato al pubblico dei sottoscrittori oblanti. I gestori dei fondi sono assoggettati al vincolo degli artt. 25 e 42 c.c.: la differenza è icasticamente definita con l’essere le prime “dominanti” e a carattere pluralistico-personalistico, le seconde “serventi” e a carattere marcatamente collegiale13. Le due figure, sussisten-

9 Galgano, “Delle associazioni non riconosciute e dei comitati”, 293.10 Galgano, ult. cit., 294. 11 Galgano, Tratt. cit, I, 288.12 Infatti la promozione e la gestione sono momenti in succes-sione logica, ma non necessariamente cronologica, potendo la sotto-scrizione proseguire anche nel corso della realizzazione dell’opera.13 Basile, “I comitati”, in Tratt. Dir. Priv. Rescigno, II, 1, 352: “nei comitati non riconosciuti la semplice veste di membro legit-tima una responsabilità illimitata”. Per questo Autore la diversità di trattamento rispetto alle associazioni non riconosciute dipende dallo

la responsabilità discende non già da ragioni di mandato più o meno presunto a favore del terzo che ha operato negozialmente, bensì ex lege

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done i requisiti (possibilità, liceità dello scopo, l’adeguatezza del patrimonio al conseguimento dello scopo) approdano entrambe al riconoscimento intervenuto ai sensi della legge 361/2000, conseguendo in tal modo la responsabilità limitata, anche per le obbligazioni sorte nel periodo antecedente (se ratificate dalle nuove persone giuridiche), ferma restando, in solido, la responsabilità pregressa degli amministratori, in conformità al rispettivo regime.

3. Panorama giurisprudenziale.Gli argomenti addotti a sostegno della tesi della non

ammissibilità delle fondazioni non riconosciute sono (si direbbe meglio “erano”) principalmente tre. Possono così riassumersi:

a) Il legislatore non nomina in alcun punto tale figura giu-ridica nè ad essa fa riferimento. Infatti, nel titolo secondo del primo libro, dopo un capo di disposizioni generali e un capo secondo dove si parla espressamente sia di associazioni che di fondazioni riconosciute, segue un capitolo terzo dove si parla soltanto di associazioni non riconosciute e di comitati; mentre non si nominano affatto le fondazioni non ricono-sciute.

b) il riconoscimento statale ha valore costitutivo: prima di esso non possono esistere autonomi soggetti di diritto; esso ha una funzione creativa, non dichiarativa né permissiva: “Il diritto, in questo modo, fa propria l’unità sociale creatasi, che diviene così, unità giuridica o persona giuridica, ma nell’atto in cui la fa propria, la trasforma nella sua intrinseca struttura sicché ciò che ne deriva è qualcosa di diverso da ciò che preesisteva”.14

c) La fondazione è costituita da un patrimonio destinato ad uno scopo: c’è l’elemento patrimoniale che acquista rico-noscimento, divenendo autonomo. L’elemento organizza-tivo passa in secondo piano: lo scopo da perseguire diventa il centro ideale intorno al quale ruota tutta l’attività della fondazione e dal quale esso non può distogliersi. Prima del riconoscimento il patrimonio non può essere autonomo e, quindi, non si può avere una fondazione.

Eppur si muove questo patrimonio, eterodiretto!La già più volte menzionata Cass. 7.08.67 n 2096, ed

altre conformi, evidenziavano esemplarmente la fondazione di fatto in attesa o prima del riconoscimento concludendo che l’esistenza di fatto di fondazioni non ha senso; seguita da appello Trento 27.05.74 in Giur. It. 1974 I, II 673: “Prima del riconoscimento non può la fondazione considerarsi, sia pure in linea di mero fatto, un’entità a sé stante, dotata, come tale,

sfavore del legislatore verso i comitati non riconosciuti.14 Menotti-De Francesco, voce Persona giuridica nel “Novissimo Digesto It.”, XII, 1968, 1038-1040, cosi come Rescigno “Manuale di diritto privato” 1986, 193 ss e Bianca “Diritto civile”, I, 1990, 312 ss. Ma l’argomento non valuta se tra la persona fisica e la persona giuridica davvero tertium non datur , e se quella continuità nella successione dei rapporti giuridici preesistenti non denunci una prio-ritaria soggettività giuridica a cui gli stessi siano imputabili.

di rilevanza giuridica”. Conforme Cass. 15.07.1977 n. 3196, in Foro It. 1977, I, 1875.

Ma con il passar degli anni le sentenze attributive di rile-vanza giuridica alle fondazioni non riconosciute (siano esse “fondazioni non riconosciute” o “fondazioni in attesa di rico-noscimento”) diventano più frequenti. Su questa linea di ten-denza Cass. 15.04.1975 n. 1427 (in Foro it., 1976, 1683, cit. in nota 5), e Appello Milano 15.05.1981 (in Foro Pad., 1981, I, 251) in tema di fondazione in attesa di riconoscimento che ritiene l’esistenza di un patrimonio autonomo destinato ad un certo scopo con i seguenti argomenti: “a) quello dell’art. 15 c.c. che, consentendo al fondatore di revocare l’atto di fonda-zione prima del riconoscimento fino a che egli non abbia fatto ‘iniziare l’attività dell’opera da lui disposta, ammette implicita-mente una limitata soggettività della fondazione anche prima del riconoscimento’; b) quello degli artt. 600 e 786 c.c. che, riconoscendo l’efficacia delle disposizioni testamentarie e delle donazioni fatte a favore di un ente non riconosciuto, ammettono del pari implicitamente una limitata soggettività dell’atto senza distinguere a seconda che si tratti di associa-zione o fondazione. Né a tale conclusione si oppone l’art. 3 disp. att. c.c. perché la norma prevede la nomina prefettizia di un amministratore provvisorio della fondazione in attesa di riconoscimento, sul presupposto che nell’atto costitutivo non sia nominato alcun amministratore; di guisa che, anzi, la norma stessa è ulteriore riprova di una soggettività giuridica alla quale non fa riscontro una piena capacità di agire”.

Di particolare importanza Cass. 16.12.1976 n. 4252, in Giust. Civ. 1977, I 274 che riconosce l’attribuzione di un centro di imputazione di situazione giuridica a soggetti collet-tivi “nel quadro del più ampio genus delle fattispecie sogget-tive o dei soggetti di diritto di cui le persone fisiche e le persone giuridiche sono le più significative, ma non esclusive, espressioni”.

Riassume e conclude tale orientamento Cass. 12.6.1986 n 3898 secondo cui le società non personificate, le associazioni non riconosciute, i comitati, forme organizzative accomunate dalla qualificazione negativa di non essere persone giuridiche, sono considerate dall’ordinamento come autonomi centri di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, dunque ad essi centri può attribuirsi la titolarità di diritti, sia obbligatori che reali. Uno dei corollari tratti da tale postulato è che il fondo comune delle associazioni non riconosciute, in specie i beni acquistati con i contributi degli associati, non è di proprietà pro quota, ma è di proprietà del gruppo, appunto come auto-nomo centro di imputazione, vale a dire come soggetto di diritti, pur non così a pieno titolo come la persona giuridica. Altrettanto deve dirsi del patrimonio sociale delle società semplici e di quelle in nome collettivo. Altrettanto può dirsi dei fondi raccolti dal comitato e dei beni acquistati con tali fondi.

“Anzi, per quanto riguarda i comitati, l’affermazione è più sicura. Di certo, infatti, deve escludersi una comunione di proprietà in capo a dei soggetti (componenti il comitato) che,

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a differenza degli associati, non hanno proprio alcuna pre-tesa su questi beni (come invece gli associati delle persone egoistiche), a non mutarne la destinazione (come invece gli associati che ben possono mutare l’oggetto dell’associazione e dunque, lo scopo cui è destinato il fondo comune)”.

Ed ancora: “sussiste la totale insensibilità del patrimonio del comitato rispetto ad eventuali obbligazioni personali degli organizzatori, ben più totale di quella che si riscontra per la società semplice (art. 2270 c.c.) e per la società in nome collettivo (art. 2305 c.c.). E tale insensibilità è altro indizio che comprova il fatto che i fondi raccolti sono di proprietà del comitato.”15 Per Cass. 8.5.2003 n. 6985: “I comitati non riconosciuti, come le associazioni non riconosciute, pur non essendo persone giuridiche, sono autonomi centri di impu-tazione di situazioni giuridiche soggettive, potendo ad essi attribuirsi la titolarità di diritti sia obbligatori che reali; per-tanto, l’incorporazione di un comitato non riconosciuto non crea una situa-zione di liquidazione del primo ma una ipotesi di successione a questi del nuovo comitato, con la conseguenza che nei rapporti giuridici del comi-tato incorporato subentra il comi-tato incorporante, mentre il comitato inglobato si estingue”. Più di recente Cass. 22.06.2006 n. 14453 ha esami-nato il caso del Comune di Marsala che aveva creato un ente per la organizzazione di servizi. Tale ente aveva assunto una obbligazione di cui era stato chiamato a rispondere il Comune sul presupposto che l’ente stesso, privo di soggettività giuridica, avesse agito quale articolazione organizzativa del Comune. Nonostante l’input originario la Corte ha così deciso: “Un comitato può essere costituito da un ente pubblico non economico, ancorchè manchi di auto-nomia nell’attività di raccolta dei fondi da impiegare per il raggiungimento dello scopo, posto che ciò che caratterizza un tal tipo di ente sono il fatto del suo costituirsi per uno dei fini indicati dall’art 39 c.c. e la esistenza di un fondo con cui perseguire detto fine, e non certo l’attività di raccolta dei fondi stessi. Conseguentemente, anche in tal caso, esso ha -pur privo di personalità giuridica- la titolarità piena e diretta dei rapporti patrimoniali relativi sia a beni mobili che immobili, e quindi risponde delle obbligazioni assunte dai suoi

15 L’opponibilità ai creditori di tale vincolo sarà possibile in due ipotesi: nel caso in cui l’atto di fondazione sia stato trascritto (e, allora, si formerà un patrimonio separato e i creditori del fondatore potranno agire sui beni di fondazione solo dopo il fruttuoso esperi-mento dell’azione revocatoria dell’atto di fondazione); nel caso in cui il patrimonio destinato alla fondazione sia formato solo da beni mobili si potrà opporre ai creditori del fondatore, quale atto avente data certa anteriore al pignoramento agli effetti dell’art. 2915 c.c., l’atto di fondazione che essi potranno superare soltanto esperendo vittoriosamente l’azione revocatoria.

rappresentanti”.16

4. L’intervento del legislatore.Con la legge n. 192 del 22.06.2000, che ha integrato la for-

mulazione dell’art. 3 legge 15.03.1997 n. 127 (Bassanini bis), il legislatore ha accolto l’orientamento giurisprudenziale anche per finalità diverse da quelle che ci occupano. Si trattava di liberalizzare il riconoscimento della personalità giuridica sem-plificandone la procedura e parificandola al riconoscimento normativo delle società di capitali (art. 2330 c.c.) e delle coo-perative (art. 2517 c.c.), senza più valutazioni di merito degli scopi delle società e dell’oggetto sociale prescelto. Il sistema concessorio restava di natura amministrativa, ma l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche disposta dal Prefetto (o dalle Regioni o dalle provincie autonome) non assolve più alla mera funzione di pubblicità dichiarativa bensì, diversa-

mente, costitutiva, e solo dall’iscri-zione nel registro delle persone giu-ridiche l’ente acquista la personalità giuridica: così da potersi equiparare al registro delle società, con tutte le ragioni analogiche da cui deriva l’ap-plicazione, ad esempio dell’art. 2331 c.c.. Soprattutto da segnalare lo snel-limento dell’iter: un tempo per tutti i passaggi burocratici occorrevano anche tre o quattro anni, oggi il ter-

mine è di 120 gg dalla domanda, e vige il silenzio-assenso. Di modo che di molto viene a diminuire l’incidenza delle fonda-zioni in attesa di riconoscimento17.

Per quanto riguarda la materia che ci occupa di grande importanza l’abrogazione dell’art. 17 c.c. disposta dall’art. 13 I comma legge 15.05.1997 n.127 (Bassanini bis) e la successiva integrazione disposta dalla legge 192/2000 che abrogava le disposizioni che prevedevano il riconoscimento o autorizza-zioni per accettare lasciti e donazioni e per acquistare beni stabili. Erano così abrogati: l’art 17 c.c. e la legge 21.06.1986 n. 218, l’art. 600, il quarto comma dell’art. 782 c.c. e l’art. 786 c.c., nonché le altre disposizioni che prescrivevano auto-rizzazioni per l’acquisto di immobili e per l’accettazione di donazioni, eredità e legati da parte di persone giuridiche, ovvero il riconoscimento o autorizzazioni per l’acquisto di immobili o per accettazione di donazioni, eredità e legati da parte delle associazioni, fondazioni, e di ogni altro ente non riconosciuto.

Abilitando associazioni n.r., fondazioni n.r. ed altri enti di

16 La decisione si segnala per aver precisato che se al comitato partecipano enti pubblici territoriali, la lora responsabilità verso i terzi è limitata agli impegni finanziari assunti con la deliberazione autorizzativa della loro partecipazione al comitato. 17 Sul tema G. Ponzanelli, “La nuova disciplina sul riconosci-mento della personalità giuridica degli enti del libro primo cod. civ.”, in Foro it., V parte, 46 ss.

abilitando associazioni n.r., fondazioni n.r. ed altri enti di fatto all’acquisto di immobili per via successoria o per atto gratuito inter vivos senza che ciò poi comporti la necessità di chiedere l’autorizzazione governativa, e il previo riconoscimento

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fatto all’acquisto di immobili per via successoria o per atto gratuito inter vivos senza che ciò poi comporti la necessità di chiedere l’autorizzazione governativa, e il previo riconosci-mento, caduti definitivamente gli artt. 600 e 786 c.c., consegue per tutta evidenza che il legislatore attribuisce una soggetti-vità giuridica ad un centro di imputazione che non sia una persona fisica o una persona giuridica. L’esplicito richiamo “alle associazioni prive di personalità e alle fondazioni e ad ogni altro ente non riconosciuto” dissipa ogni dubbio, ora anche a livello normativo, al di là della compiuta ricostruzione giurisprudenziale.

I primi commentatori hanno ravvisato in questo inter-vento del legislatore il “sempre più netto ridimensionamento del dogma della personalità giuridica come ‘for-mula minima di soggettività giuridica’ e la conseguente sostanziale assimi-lazione tra enti riconosciuti e non, innanzitutto sul piano della capacità giuridica”18. La persona giuridica ha perso la esclusività nel mondo dei soggetti col-lettivi. Non è più differenza tra associazione non riconosciuta che può avere personalità giuridica, e la fondazione che è riconosciuta oppure non è, così come il comitato può o non ottenere la personalità giuridica. Questo “progressivo deperi-mento della nozione di personalità giuridica”19 ha completato l’iter aperto dalle esperienze giurisprudenziali e dagli apporti dottrinali.20

5. La disciplina dei comitati (non riconosciuti): responsabilità dei gestori dei fondi devoluti.

Con questo capitolo si conclude il tema della respon-sabilità degli amministratori della fondazione non ricono-sciuta, equiparata a quella dei componenti del Comitato di gestione.

Una nota teoria riconosce al comitato una duplice natura, associativa nella fase iniziale, di fondazione nella fase seguente (Galgano “Delle associazioni non riconosciute e dei comi-tati” in comm. Scialoja e Branca, 278 e ss.; Basile “I comi-tati” in Tratt. Rescigno, II, 1, 350 e ss.). Si avrebbe così una fase associativa per la quale la responsabilità ha per titolo la partecipazione al gruppo solo in relazione agli obblighi sorti nel corso della raccolta, ed altra che ha per titolo la qualità

18 E. Camilleri, “Gli acquisti di enti diversi dalle società e la ‘gra-tuità in entrata’”, in Riv. dir. civ. 2001, 800 ss.19 E. Camilleri, op. ult. cit.20 Già del resto Cass. 26.10.1995 n. 11151, in Giur. Comm. 1996, II, 329 aveva affermato che “l’ente è un centro di imputazione meramente transitorio e strumentale” … e si ravvisa “conseguente-mente, nella personalità giuridica (non lo statuto di un entità reale diversa dalle persone fisiche, ma) una particolare normativa avente ad oggetto pur sempre relazioni tra uomini”. Parimenti sono conce-pibili altre figure “metaforiche” della persona fisica, a soggettività imperfetta, a cui si applicano discipline speciali , diverse da quella proprie delle persone giuridiche.

di amministratore dei fondi una volta che sui medesimi si è impresso il vincolo fondazionale (peraltro “la fondazione potrà dirsi costituita nel momento in cui è pervenuta la prima oblazione” Galgano ult. op. cit, 286).

Della prima fase sono protagonisti i promotori che svolgono, in esecuzione dell’impegno contrattuale tra loro intercorso (c.d. patto di comitato), una attività che consiste nel diffondere tra il pubblico il programma di un’opera di interesse collettivo (una sorta di “manifesto”) e nel curare la esecuzione delle sottoscrizioni (v. per le soc. per az. art. 2334 e segg. c.c.). Successivamente, per effetto del negozio unilaterale di dotazione, con il quale si ha la definitiva devolu-

zione dei beni nella disponibilità degli amministratori, inizia la fase fonda-tiva, erogatrice dei fondi per la desti-nazione, e ciò indipendentemente dal riconoscimento della personalità giuridica.

Si hanno due tipologie di responsabilità. Quella verso l’ente scaturisce dall’art. 40 c.c. ed è diretta a sanzionare gli organizzatori e coloro che assumono la gestione dei fondi (coincidano o meno le persone), tenuti personalmente e soli-dalmente alla conservazione dei fondi e alla loro destinazione allo scopo annunciato. Ne discende l’azione di responsabilità spettante alla pubblica autorità, nella specie il Prefetto o le Regioni. Altra è la responsabilità collettiva che il comitato di gestione dei fondi, con rilevanza esterna, in sede di svol-gimento dell’attività fondativa assume per le obbligazioni contrattuali ed extracontrattuali verso i terzi, disciplinata dal successivo art. 41 c.c.

La giurisprudenza richiamata sub nota 5 per le fonda-zioni–comitato è concorde nell’attribuire “la responsabilità verso i terzi per le obbligazioni assunte negozialmente o da fatti giuridici a tutti i componenti del comitato in via solidale tra loro senza distinzione tra chi ha agito e chi non ha agito e senza che abbia rilevanza la veste particolare di chi ha posto in essere l’attività”. Scrive Basile (“I comitati” cit., 350): “In virtù dell’art. 41, le obbligazioni del comitato, e la correlativa responsabilità patrimoniale, gravano su tutti i suoi membri. Dottrina e giurisprudenza hanno chiarito più volte che ciò non è subordinato alla circostanza che essi abbiano deciso o compiuto l’atto dal quale derivano quelle conseguenze, poiché il loro titolo risiede nella partecipazione al gruppo o, come pure si è scritto, nella qualità di parte del contratto di comitato”. Il principio discende dalla assimilazione della struttura del comitato alla società semplice, come da consolidata dottrina: “i comitati hanno una struttura personale chiusa (a differenza dalle associazioni) così come le società semplici. In entrambe l’ammissione di nuovi membri implica una modificazione del contratto di comitato”21 avente rilevanza esterna.

21 Galgano, “Delle associazioni non riconosciute e dei comitati”, in Com. Scialoja e Branca, 309 e ss.. Conf. Cass. n. 3898/1986 menzionata nel testo.

il tema della responsabilità dei componenti del comitato trae la sua regola dall’art. 41 c.c.

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Così una risalente Cass. 11.10.1973 n. 2561: “I compo-nenti di un comitato sprovvisto di personalità giuridica rispondono personalmente e solidalmente delle obbligazioni del comitato stesso senza distinzione alcuna tra coloro che in concreto hanno agito e coloro che non hanno agito. L’attività negoziale dell’appartenente di un comitato, purchè rivolta al conseguimento dello scopo dell’organizzazione, impegna la responsabilità di tutti i componenti anche in mancanza di un esplicito riferimento al comitato stesso”. (nello stesso senso giurisprudenza cit. in Galgano Tratt. cit, I, 290 nota 6).22 Pari-menti per le obbligazioni da fatto illecito Cass. 12.1.1982 n. 134 riguardante le fondazioni n.r., cit. in nota 5. “La solidarietà – scrive il Basile alla pag. 351 dell’ op. cit. - è posta a tutela dei creditori, e prescinde dal carattere disgiuntivo o collegiale del governo del gruppo, potendo conciliarsi con entrambi i metodi di gestione”. Si rinvia ai simmetrici artt. 2257 e 2258 c.c. per le società semplici. Di particolare rilievo l’applica-zione dell’art 2257 c.c. sulla responsabilità per le obbligazioni sociali (v. in particolare il patto limitativo della responsabilità e la sua opponibilità ai terzi ai sensi del 2° comma dell’art. 2267 c.c.).23 Ricorre il beneficio di escussione del patrimonio devoluto, come da art. 2268 c.c.. Come per il socio uscente trova applicazione al componente del comitato l’art. 2290 c.c., ma l’esenzione da responsabilità per le obbligazioni suc-cessive dipende dall’aver portato a conoscenza dei terzi lo scioglimento del rapporto particolare.

Sempre in tema di applicazione analogica “ogni membro è soggetto anche all‘adempimento degli obblighi sorti prima del suo ingresso nella compagine” (Basile “I comitati”, in op. cit., pag. 351). E’ pertanto l’ art. 2269 c.c. la norma di riferi-mento a carattere dispositivo (art. 2267 c.c.) che impegna il nuovo socio ovvero il nuovo componente della compagine amministrativa per le obbligazioni antecedenti, salvo l’oppo-nibilità ai terzi del patto di esclusione ( Ferri “Delle società” in Com. Scialoja- Branca, 195 e segg.). In tema la citata Cass. 11.10.1973 n. 2561: in virtù della applicazione del principio dettato dall’art. 2269 c.c. si ha che “il nuovo socio risponde delle obbligazioni sociali solo se assunte da una società già costituita e quindi da un comitato già costituito” (con riferimento al nuovo gestore del comitato, n.d.r.)

E’ chiaro che nella suddivisione interna ai fini del regresso troverà applicazione l’art. 1298 c.c., salvo il richiamo all’art. 2055 2° comma c.c. quando trattasi di attività compiute

22 Nel qual testo si evidenzia che non sono considerati “compo-nenti il comitato “agli effetti dell’art. 41, i cd. membri “onorari “, o i componenti il “comitato d’onore” nel linguaggio corrente con-trapposto al “comitato esecutivo”, il quale solo è comitato in senso proprio. Conf. Basile “i Comitati “ cit. 35123 Si ricorda che il patto di limitazione della responsabilità o di esclusione della solidarietà non vale per gli amministratori (come per i soci di società semplice) che hanno agito in nome e per conto del comitato, i quali restano, nonostante qualsiasi patto a loro favore, illimitatamente e solidalmente responsabili delle obbligazioni rife-ribili al comitato.

abusivamente dagli amministratori di una società semplice (o di un comitato di fatto). “Costoro infatti sono responsabili verso i consoci degli illeciti che, pur non inficiando la validità dei loro atti, realizzino però dei comportamenti quantomeno contrari alla buona fede e alla correttezza”. Solo in questa eventualità sarà consentito sottrarsi al regresso; ma, in tale ipotesi, “più che opporsi al regresso in senso proprio si fa valere in via di eccezione la violazione di un diritto e se ne domanda la riparazione”24 nei confronti del socio e così del gestore del comitato che ha compiuto l’illecito.

Si conclude l’iter espositivo avviato all’inizio. La ritenuta autonomia giuridica del comitato di fatto-fondazione non riconosciuta (che ha superato la risalente tesi della “fonda-zione di fatto” e della sua inesistenza nel mondo giuridico) consente di applicare per analogia gli artt. 2270 e 2271 nonché l’art 2267 cod. civ. prima parte, norme che fanno del patri-monio, formato dai conferimenti e dai successivi incrementi, una entità autonoma, vincolata alla destinazione impressa dal fondatore o dai promotori-organizzatori della raccolta delle oblazioni; come tale insensibile alle pretese dei creditori par-ticolari degli amministratori dei comitati di fatto-fondazioni non riconosciute. Autonomia patrimoniale ancor più rigo-rosa rispetto a quella stessa delle società semplici, come già messo in luce da Cass. n. 3898 del 1986 ut supra cit..

Giacomo Voltattorni

24 M. Costanza, “Sulle obbligazioni solidali nelle società di persone”, in Giur. comm. 1979, II, 42 ss..

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La redazione ha ripreso il tema della presenza femminile nell’avvocatura parmense aggiornando le statistiche locali (pubblicate nel giugno 2000 e nel febbraio 2003) e nuova-mente confrontandole con l’andamento numerico nazionale.

I numeri non hanno bisogno di molte interpretazioni.

La loro presentazione, nel contesto della “questione di genere” nell’avvocatura, è stata affidata ad una collega che ha dato grande lustro all’avvocatura italiana: Carla Guidi, lucchese, iscritta dal 1969, Segretaria e Presidente del locale Consiglio dell’ordine, componente e tesoriere del Consiglio nazionale forense, coordinatrice della sua Commissione per le Pari opportunità (2007-2010). É stata anche assessore della Regione Toscana(VII legislatura) con delega all’orga-nizzazione; al sistema informativo regionale e infrastrutture tecnologiche; all’efficienza e semplificazione amministra-tiva; ai rapporti coi cittadini; alla Scuola di governo e cul-tura della legalità.

LA QUESTIONE DI GENERE NELL’AVVOCATURA

La questione di genere nell’avvocatura è ormai parte essenziale della più ampia questione della trasformazione della struttura sociale, del mutamento del rapporto donna - lavoro e dunque della conseguente, diversa, distribuzione dei carichi familiari, ponendosi come centrale al fine di una effettiva tutela dei diritti fondamentali della persona.

L’attenzione sulla questione di genere che supera, dunque, la specificità delle problematiche dell’avvocatura femminile, richiede un processo di conoscenza globale che non può essere arrestato.

Ogni livello di programmazione passa, infatti, attraverso la conoscenza dei dati.

Dall’analisi della situazione dell’avvocatura italiana emer-gente dal Rapporto Censis del febbraio 2010 sulle donne avvocato nonché dall’indagine dell’Osservatorio Permanente Giovani e dai più recenti dati della Cassa Nazionale di Previ-denza ed Assistenza Forense risulta uno spaccato dell’avvo-catura sicuramente diversa e trasformata rispetto al modello tradizionale: oggi, dei 230.000 avvocati iscritti agli albi circa il 65% è costituito da giovani infra 45enni dei quali oltre il 60% è donna.

Se è infatti vero che ogni ostacolo nell’accesso al mondo dell’Avvocatura può dirsi superato ( le donne in ragione delle proprie capacità e qualità sono le prime all’esame di Stato), è però altrettanto vero che una tale ed inarrestabile cre-

scita numerica è sicuramente determinata dalla mancanza di un’adeguata e programmata selezione all’ingresso nel mondo della formazione universitaria nonché dalla mancanza di sbocchi professionali diversi per donne e giovani laureati in giurisprudenza che si affacciano al mondo del lavoro.

Ragion per cui molte delle difficoltà e delle problematiche dei giovani professionisti si ripercuotono in modo ancor più grave sulla componente femminile.

La situazione di disagio ed incertezza che emerge da un approfondito processo di conoscenza dell’avvocatura , in par-ticolare giovanile e femminile, richiede sostegni espliciti allo svolgimento della attività lavorativa al fine di rafforzarne la collocazione sul mercato delle competenze legali.

Occorre, dunque, continuare tale processo di conoscenza del mercato e delle sue esigenze per capire in quali settori ci sia spazio ed orientare, quindi, le donne avvocato verso quei settori, attraverso un’attività formativa specifica.

Tutto ciò, nel presupposto di una formazione professio-nale mirata ad una qualificazione ed a un orientamento che tengano conto degli effettivi bisogni del mercato e della col-lettività nonché in una linea di rinnovo e di intervento nella quale devono porsi le istituzioni forensi al fine di un’avvoca-tura che sia, effettivamente, attenta al presente e rivolta al futuro.

Una formazione mirata, dunque, ma non solo. La situa-zione di grave disagio ed incertezza, emersa dall’analisi svolta, è infatti determinata non solo dalla mancanza di meccanismi di orientamento della professionalità femminile verso settori di specializzazione atti a soddisfare le esigenze del mercato, ma altresì dalla inesistenza di forme di sostegno economico nell’avvio della vita professionale, dalla inadeguatezza dei modelli associativi attuali nonché dalla disincentivazione fiscale e dall’assenza di politiche di sostegno dello start up.

Per raggiungere una posizione di equilibrio e parità nell’av-vocatura così come nel mondo sociale è dunque necessario muoversi su più fronti.

Non solo, dunque, una maturazione collettiva della società attraverso una presa di coscienza del ruolo della donna ma interventi normativi specifici che tengano conto della com-ponente femminile nell’attuale assetto.

Carla Guidi

LA QUESTIONE DI GENERE NELL’AVVOCATURA

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Quanto ai numeri, ha invece svolto una modesta indagine statistica sugli albi dal 1950 al 2000, ricavando, innanzitutto, la seguente tabella numerica

parma

data uomini donne totale %donne

giu-50 171 2 173 1,2

giu-52 176 3 179 1,7

giu-54 170 4 174 2,3

giu-56 176 9 185 4,9

giu-58 178 8 186 4,3

giu-60 177 9 186 4,8

giu-62 192 11 203 5,4

giu-64 199 13 212 6,1

giu-66 197 14 211 6,6

giu-68 201 15 216 6,9

giu-70 199 15 214 7,0

giu-72 194 15 209 7,2

giu-74 201 17 218 7,8

apr-76 203 19 222 8,6

mag-78 207 23 230 10,0

giu-80 209 30 239 12,6

lug-82 221 42 263 16,0

lug-84 230 48 278 17,3

set-86 234 60 294 20,4

lug-88 227 65 292 22,3

lug-90 242 76 318 23,9

lug-92 264 101 365 27,7

lug-94 275 121 396 30,6

lug-96 305 171 476 35,9

nov-98 354 241 595 40,5

lug-00 390 297 687 43,2

dic-03 433 379 812 46,7

dic-04 449 415 864 48,0

dic-05 481 457 938 48,7

dic-06 497 496 993 49,9

dic-07 520 527 1047 50,3

dic-08 535 546 1081 50,5

dic-09 552 564 1116 50,5

dic-10 566 579 1145 50,6

Per confronto è rilevato anche l’analogo andamento numerico nazionale (1981 –2010) con dati forniti da Cassa-Forense (ancora stimati per quanto riguarda il riferimento al 31 dicembre 2010).

italia

data uomini donne totale % donne

dic-81 43.543 3.077 46.620 6,6

dic-85 43.881 4.446 48.327 9,2

dic-89 47.459 5.568 53.027 10,5

dic-93 54.363 15.401 69.764 22,1

dic-94 56.796 17.642 74.438 23,7

dic-95 62.068 21.022 83.090 25,3

dic-96 63.641 23.298 86.939 26,8

dic-97 68.265 26.024 94.289 27,6

dic-98 70.453 29.339 99.792 29,4

dic-99 75.335 34.483 109.818 31,4

dic-00 79.244 40.094 119.338 33,6

dic-01 84.283 44.788 129.071 34,7

dic-04 97.804 60.968 158.772 38,4

dic-05 100.881 67.572 168.453 40,1

dic-06 104.914 73.220 178.134 41,1

dic-07 107.287 78.713 186.000 42,3

dic-08 112.269 85.772 198.041 43,3

dic-09 115.705 92.295 208.000 44,4

dic-10 118.800 97.200 216.000 45,0

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E’stato quindi elaborato un doppio grafico per rappre-sentare le curve d’andamento dell’insieme totale nonché dei sottoinsiemi maschi-femmine a Parma e in tutt’Italia.

E’stato quindi elaborato un doppio grafico per rappre-sentare le curve d’andamento dell’insieme totale nonché dei sottoinsiemi maschi-femmine a Parma e in tutt’Italia.

Come si noterà dal grafico successivo che rappresenta l’incidenza percentuale delle donne sul totale, il “sorpasso”, vicino nella statistica nazionale, a Parma è già avvenuto nell’anno 2007.

Da tale indagine statistica emerge, secondo l’Avv. Carla Guidi, la necessità che gli Ordini, ove il “sorpasso” è già avve-nuto, maggiormente spingano affinché sia finalmente sfondato il famoso tetto di cristallo.

Importante, sempre secondo l’Avv. Guidi, è proseguire ed approfondire l’indagine statistica svolta dalla redazione per una conoscenza che, pur necessitando dei dati numerici, vada oltre i semplici numeri in un confronto con i dati nazio-nali ma anche locali, in rapporto con gli altri Ordini, sia del Distretto che fuori.

Particolarmente interessante potrebbe essere un’ana-lisi del contesto socio- economico che in una realtà come Parma ha permesso il “sorpasso” già dal 2007: quale ruolo della donna avvocato nel Consiglio dell’Ordine, nei luoghi associativi e nel sistema giustizia. Tutto ciò al fine di capire se vi siano ed in che forma meccanismi di esclusione, dal reddito alla rappresentanza, che intervengono dopo l’accesso.

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PremessaTizio (mediatore) stipula con Caio un contratto di

mediazione a mezzo del quale il primo assume l’incarico di far acquistare al secondo un determinato immobile. Sta di fatto che il mediatore in questione non risulta iscritto all’Albo dei mediatori istituito con la legge n. 39 dell’anno 1989. In mancanza di tale iscrizione, il mediatore non ha diritto a chiedere alla controparte la provvigione per le prestazioni svolte. Nel caso di specie, il mediatore in questione aveva provveduto ad iscriversi all’Albo nel corso del rapporto giuridico e prima che lo stesso fosse stato esaurito. In tale caso il mediatore potrà pretendere da controparte la provvigione solo per la prestazione svolta dopo la prefata iscrizione. In tale caso il mediatore dovrà restituire gli acconti che avesse ricevuto in precedenza (C.C. 07.05.07 n. 102904).

Il mediatore non potrà esercitare neppure l’azione generale di arricchimento di cui all’art. 2041 c.c., in relazione all’art. 2231 c.c., che dispone che quando l’esercizio di una attività professionale è condizionata alla iscrizione in un albo o elenco la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il pagamento della retribuzione. L’ampiezza del dettato normativo, diretto a negare l’azione per il pagamento della retribuzione impone di ritenere che il divieto si riferisca a qualsiasi azione e, quindi, anche all’azione generale di arricchimento di cui all’art. 2041 c.c.. Senza contare che i dettati di cui agli artt. 2229 e seguenti c.c., riguardano solo le professioni intellettuali per le quali è richiesto, in relazione alla loro peculiare natura, non solo lo svolgimento di riconosciuti e specifici corsi di studio, ma altresì il superamento di appositi esami di abilitazione (si pensi alle professioni di medico, di avvocato, ingegnere, architetto e così via). Ecco, quindi, spiegato il perchè della non applicabilità di dette norme ai mediatori, agli agenti e rappresentanti di commercio.

La mediazione come contrattoIl codice civile definisce la mediazione non in sé, ma

definendo il mediatore. La mediazione (a prescindere dalla unilateralità o bilateralità dell’incarico) si sostanzia nella interposizione neutrale ed imparziale fra due persone per agevolare la conclusione di un determinato affare. Ai sensi dello art. 1754 c.c. è mediatore colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione di dipendenza o di rappresentanza. (Giurisprudenza e Dottrina costante. Si confronti Cassazione 13.01.82 n. 186. In dottrina Francesco Galvano in Diritto Civile e Commerciale, volume III, pag. 361).

Sulla natura giuridica della mediazione, la Giurisprudenza dominante e la Dottrina corrente, salvo qualche ripensamento

ormai da tempo superato, riconoscono la natura contrattuale della mediazione. Il rapporto di mediazione sorge (e, quindi, il mediatore da diritto alla mediazione) sia nel caso in cui gli interessati conferiscano preventivamente l’incarico al mediatore, sia nel caso in cui accettano, comunque, l’attività da lui prestata.

Si è detto che il nostro codice civile definisce la mediazione non in sé, ma definendo il mediatore. Gli è, tuttavia, che se si guarda al di là delle enunciazioni testuali, alla particolare natura dell’istituto si scorge subito come il silenzio legislativo sull’accordo quale fonte del rapporto non costituisca una lacuna, ma risponde alla natura particolare degli interessi che l’istituto tende a realizzare i quali comportano una reciproca ed incondizionata libertà delle parti fino al momento della realizzazione del risultato utile fatto conseguire dal mediatore (V. Commentario al Codice Civile, diretta da Piero Schlesinger, La mediazione). Si può, quindi, concludere che il contratto di mediazione è un contratto consensuale, oneroso, a prestazioni corrispettive, ad effetti obbligatori e, di solito, ad esecuzione istantanea (v. Vincenzo Franceschelli in Introduzione al Diritto Privato pag. 1035).

La conversione del contratto di mediazione nulloSi è detto che il contratto di mediazione è nullo se il

mediatore non risulta iscritto all’Albo speciale dei mediatori istituito con la legge n. 39 dell’anno 1989. La nullità è determinata dalla contrarietà a una norma imperativa che comporta tutte quelle conseguenze di cui sopra si è detto (perdita della provvigione spettante al mediatore, restituzione di acconti eventualmente percepiti, impossibilità di esercitare l’azione di arricchimento ex-art. 2041 c.c. ecc. ecc. ecc.).

Gli è che ai sensi dell’art. 1424 c.c. un contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, qualora, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità. La così detta conversione del contratto nullo.

La descrizione del fenomeno ci permette di individuare gli elementi della fattispecie. Essa può innanzitutto essere scomposta in due elementi: il negozio voluto dalle parti, ma nullo, e il negozio a contenuto minore ma ricompreso nel primo che le parti avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità del primo: il così detto rapporto di continenza (v. Vincenzo Franceschelli opera citata pag. 785). Attraverso la conversione, ferma la nullità del primo negozio, che non deve però trattarsi di nullità per illiceità della causa o dell’oggetto, secondo il principio della inconvertibilità del negozio illecito, il secondo negozio è produttivo di effetti, salvo che non sia esso stesso nullo. La conversione, quindi, non sostituisce

Della conversione del contratto di mediazione nullo in contratto di procacciamento di affari

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un contratto nullo effettivamente voluto dalle parti con un contratto valido, o voluto dalle parti solo in via di ipotesi. Esso modifica la causa del contratto originariamente voluto dalle parti. La volontà, quindi, che sorregge il contratto risultante dalla conversione è quella espressa delle parti nella conclusione del contratto convertito. Di conseguenza la conversione del contratto nullo è consentita, a norma dello art. 1424 c.c., solo quando, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, possa ritenersi che esse, ove avessero avuto conoscenza della nullità del negozio concluso, ne avrebbe voluto uno diverso i cui requisiti di sostanza e di forma fossero già contenuti in quello nullo. In sintesi si può dire che l’istituto della conversione è espressione del principio di conservazione del negozio giuridico e, più in generale, del principio giustinianeo “utile per inutile non viziatur”.

Per compiutezza sarà il caso di accennare brevemente al principio della c.d. “conservazione legale”, anche essa espressione del principio generale di conservazione del negozio giuridico. Essa è collegata non già all’intento negoziale delle parti, ma alla volontà della legge. È denominata “conversione c.d. impropria”; il principio secondo il quale un documento incorporante un negozio, mancante dei requisiti di Parma richiesti per quello, ma avente altra forma documentale, vale in questa forma. (Il testamento segreto che manca di qualche requisito suo proprio, ha effetto come testamento olografo, qualora di questi abbia i requisiti).

La nozione di affareCausa della mediazione è la funzione economico sociale

della intermediazione, del mettere, cioè, in relazione due o più parti nella conclusione dell’affare.

Oggetto della mediazione è l’affare, la cui conclusione il mediatore favorisce.

Il termine “affare”, di cui all’art. 1755, ha un significato più ampio di quello di contratto, comprendendo ogni operazione di contenuto economico sociale risolventesi in utilità di carattere patrimoniale.

Per “conclusione dell’affare” si dovrà intendere il compimento di una operazione di natura economica generatrice di un rapporto obbligatorio tra le parti, “di un atto, cioè, in virtù del quale sia costituito un vincolo che dia diritto di agire per l’adempimento dei patti stipulati o, in difetto, per il risarcimento del danno” (v. Franceschelli, Galgano op. cit).

La conclusione dell’affare dà diritto al mediatore di richiedere la provvigione, che rappresenta la ricompensa del risultato utile fatto conseguire alle parti dello stesso.

L’art. 1755 c.c. costituisce una norma che, in quanto delimitativa della mediazione quale schema tipico, non può essere derogata dalla autonomia privata, che smaturirebbe il tipo stesso che la norma provvede ad individuare.

La giurisprudenza ha riconosciuto il diritto alla provvigione anche quando il mediatore non sia intervenuto a tutte le fasi delle trattative o alla precisazione definitiva di tutte le condizioni e modalità del contratto, ammettendosi, altresì, che la semplice segnalazione dell’affare possa essere determinante per la conclusione del contratto.

Il contratto di mediazione e il contratto atipico di procacciamento di affari

Si è detto sopra, trattando dell’istituto della conversione, che, ai sensi dell’art. 1424 c.c., un contratto nullo può produrre

gli effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, qualora, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità del negozio concluso, attraverso la conversione, ferma la nullità del primo negozio (non deve però, trattarsi di nullità per illiceità della causa o dell’oggetto, secondo il principio della inconvertibilità del negozio illecito) il secondo

negozio è produttivo di effetti, salvo che non sia esso stesso nullo.

L’attività dell’agente e quello del mediatoreSebbene l’attività dell’agente come quello del mediatore

siano dirette a procurare la conclusione di affari, mette ed inequivocabili risultano le differenze fra le stesse. L’attività dell’agente, infatti, diversamente da quella del mediatore, è finalizzata alla conclusione non già di un singolo affare, bensì di una pluralità di contratti in una zona ben determinata ed è, quindi, caratterizzata dalla stabilità (si prenda l’esempio scolastico dell’agente di assicurazione). Sicché l’agente, diversamente dal mediatore, è legato da un rapporto stabile e duraturo con una delle parti dell’affare nel cui interesse esclusivo agisce quale “ausiliario”. La stabilità dell’incarico assunta dall’agente, intesa quale attitudine del rapporto, propria dei contratti di durata, a permanere, indefinitivamente, la quale manca sempre dell’attitudine “a quella astratta continuazione indefinita che è propria dei contratti di durata” (vedi Carraro, La mediazione, pag. 98).

Il procacciatore di affariIl procacciatore di affari costituisce una figura atipica

circa la quale si discute se debba applicarsi, in via analogica, la

non v’è dubbio che la conversione del contratto di mediazione nullo èpossibile con il contratto atipico di procacciamento d’affari, ossia conil contratto avente forma ad oggetto del tutto analoghi del negozio dimediazione, per il quale doveva presumersi la volontà di cambio deicontraenti nel caso avessero conosciuto la nullità del contratto stipulato in concreto

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disciplina del contratto di mediazione.Secondo la nozione comunemente ritenuta, il

procacciatore di affari è colui che senza stabilità (ecco la grande differenza dall’agente di commercio) svolge, su incarico e nell’interesse esclusivo del preponente, un’attività di promozione di contratti.

Si tratta, dunque, sostanzialmente, di un intermediario, sia pure occasionale, dell’imprenditore e, dunque, di una figura essenzialmente diversa dall’agente per la inesistenza del rapporto della stabilità. Si intende, allora, come la disciplina del rapporto debba, innanzitutto, muovere dal concreto assetto che le parti hanno inteso dare dei loro interessi, per poi procedere, attraverso il criterio dell’analogico, all’individuazione delle norme applicabili, nella specie, al contratto di mediazione. Sarà, ora, necessario esaminare, se il contratto di mediazione nullo, sia convertibile nel contratto atipico di procacciamento di affari, di cui sopra abbiamo già detto.

Non v’è dubbio, date le premesse, che la conversione del contratto di mediazione nullo è possibile con il contratto atipico di procacciamento d’affari, ossia con il contratto avente forma ad oggetto del tutto analoghi del negozio di mediazione (forma libera in entrambi, promovimento, dietro compenso, della conclusione di contratti nello interesse del committente, tanto nel primo che nel secondo), per il quale doveva presumersi la volontà di cambio dei contraenti nel caso avessero conosciuto la nullità del contratto stipulato in concreto. È indubbio che l’identità di forma e la affinità di contenuto fra le due figure contrattuali in parola viene a realizzare la condizione di carattere “oggettivo”, imposta dalla legge, per la operatività dello istituto della conversione (art. 1424 c.c.: il contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma) e la condizione di carattere “soggettivo” imposta in merito: ossia la volontà dei contraenti, desumibile dallo scopo da essi perseguito col contratto, di concludere un negozio diverso nel caso avessero conosciuto la nullità di quello effettivamente stipulato. E non può essere altrimenti, atteso che lo scopo perseguito dalle parti con il contratto di mediazione è, nella sua essenza, scopo uguale a quello oggettivamente riconducibile di procacciamento di affari.

In passato, la tesi oggi sostenuta, non trovava molto d’accordo la giurisprudenza, che solo ultimamente, ripartendo dalle affermazioni di una sentenza di merito (App. Roma 12.04.63, in Temi Romana 1963 pag. 394) si è convinta della ricomprensione del procacciamento d’affari nella mediazione.

È elemento comune delle fattispecie della mediazione e del procacciamento d’affari la prestazione di una attività di intermediazione diretta a favorire tra terzi la conclusione di un affare, sicché ad entrambe le ipotesi sono applicabili alcune identiche disposizioni normative in materia di diritto alla provvigione, secondo le quali è sufficiente, perchè nasca

il diritto di credito al compenso a favore del mediatore o del procacciatore, che questi ponga in contatto tra loro due o più parti per la conclusione di un affare, che questo venga concluso per effetto del suo intervento e che la sua attività nota alle parti sia stato quanto meno da loro accettata, nella ipotesi della mediazione, o determinata da un incarico unilateralmente affidato anche tacitamente e desumibile per fatti concludenti (Cassazione Civile n. 11244 del 1996).

“Per integrare uno degli elementi essenziali del contratto di mediazione è necessario che il mediatore sia un soggetto che il mediatore sia un soggetto imparziale e che la sua attività consista nel mediare fra le parti poste in contatto per la conclusione dello affare. Qualora, invece, l’attività de’l’intermediario è prestata esclusivamente nell’interesse di una delle parti, si rientra nell’ambito del procacciamento oneroso d’affari, che non è soggetto alla applicazione della legge 03.02.89 n. 39 art. 6 (Cassazione civile n. 12106 dell’anno 2003).

“Quanto al rapporto tra contratto di agenzia e contratto di procacciamento d’affari nella giurisprudenza di questa Corte si è ulteriormente precisato che caratteri distintivi del contratto di agenzia sono la continuità e la stabilità delle attività dell’agente di promuovere la conclusione di contratti per conto del preponente nell’ambito di una collaborazione professionale e nell’ambito di una determinata sfera territoriale, realizzando in tal modo con quest’ultimo una non episodica collaborazione professionale autonoma. Invece il rapporto di procacciatore di affari si concreta nella più limitata attività di chi, senza vincoli di stabilità ed in via del tutto episodica, raccoglie le ordinazioni dei clienti, trasmettendole all’imprenditore da cui ha ricevuto l’incarico di procurare tali commissioni. Mentre la prestazione dell’agente è stabile, avendo egli l’obbligo di svolgere l’attività di promozione dei contratti, la prestazione del procacciatore è occasionale nel senso che dipende esclusivamente dalla sua iniziativa (Cass. Civile n. 13629 del 2005, Cass. Civile 11024 del 2007 e, da ultimo Cass. Civile n. 4422 del 24.02.2009).

ConclusioniAlla luce delle recenti sentenze della Corte Regolatrice

sopra riportata non può non avere rilievo il principio che il contratto di mediazione nullo possa convertirsi nel contratto atipico di procacciamento di affari. E non può essere altrimenti, atteso che - come infra detto - lo scopo perseguito dalle parti con il contratto di mediazione è nella sua essenza scopo uguale a quello oggettivamente riconducibile al contratto di procacciamento.

Renzo Botti

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il diritto preso sul serio&

il diritto preso sul ridere

Sono veri e propri ‘inni alleluiatici’, che si inseri-scono nella salmodia dell’analisi di diritto positivo, allontanandosi arditamente dalla sua monotonia e aprendo la strada allo studio di problemi nuovi, allora ben poco noti, trattati con grande novità di accenti e prospettive”.

(Con queste espressioni il giudice costituzionale Prof. Sabino Cassese ha presentato l’opera scientifica del parmigiano Prof. Fabio Merusi)

Prove d’orchestra in Tribunale La grave stretta finanziaria ha notoriamente messo

in crisi anche il settore dei beni culturali. Le fondazioni musicali sono allo sbaraglio, gli enti lirici alla frutta, gli orchestrali scioperano alla prima della Scala, i Maestri più illustri fanno precedere l’esecuzione dell’opera dalla solenne lettura dell’art. 9 della Costituzione. I cartel-loni delle opere vengono ridotti all’osso, registi, attori e maestranze sono sul piede di guerra, e riversano le loro rivendicazioni nei tribunali.

Nella Turandot il trio dei ministri della Corte, Ping, Pang e Pong, si dissolve. Il tenore che interpreta Pong viene licenziato su due piedi per assenza da una prova, causata da affezione vocale. Si sostituisce subito, e si risparmia.

Pong ricorre al tribunale. L’opera lirica è la Pompei della cultura italiana! Un ministro, questa volta italiano, l’onorevole Sandro Bondi, sebbene poeta, viene addi-tato quale non lontano responsabile di questo sfascio, ma lui chiama in causa quale terzo legittimato passivo il Ministro Tremonti. Oggi i tagli, domani i ragli.

In questo surreale “circo” ministeriale italo-cinese nessuno si accorge che si chiama Alfano, ed è italiano, il compositore che ha portato a compimento l’opera di Puccini. Un po’ di rispetto!

Di peggio capita al Trovatore. Un Maestro viene scritturato per alcuni spettacoli. E’ regista, scenografo, costumista, datore di luci ed altro ancora. Il Maestro prende contatti con i collaboratori, con gli artisti, con gli addetti alla scelta dei costumi, insomma lavora, orga-nizza tutto….. ma poi il committente non approva, e mette l’opera fuori dal cartellone.

Retribuzione è locuzione che appartiene al lessico dei comuni lavoratori, per gli artisti dicesi cachet, e tale è l’oggetto della richiesta che il Maestro deduce avanti un tribunale. All’udienza la stanza del giudice si anima in maniera inusuale. Maglioncini casual, foulard dai colori cangianti, passi lieviquasìaerei, movenze atipiche, così si presentano in aula costumisti, costruttori di scenogra-fie, regista ed assistenti, direttori artistici, cantanti e così via, non in ordine di scena, ma secondo le regole testi-moniali del processo.

E tuttavia, in questo improvvisato svolazzare, sem-brava che il processo fosse soppiantato dallo spettacolo teatrale.

Finché il giudice si rivolge al Maestro e gli chiede: ”Lei che è l’attore mi deve dire….”.

Il Maestro, artista demodé, lunghi capelli brizzolati, rinserrato il capo tra le mani in posa antiemicranica, non si muove dalla postura. Ma un direttore artistico, impettito e severo, corregge: “Non è un attore, è il regista”. Non un sussulto, nemmeno un sorriso in aula, resta serio ed indifferente anche il giudice. Il processo è tornato ad essere tale. Solo una praticante soffoca in gola una risatina. E’ il battesimo del suo noviziato.

Cronache dal Foro Parmense 2010: il riferi-mento è volutamente casuale.

E’ prassi del prolificissimo scrittore Andrea Camil-leri esprimersi nelle postfazioni dei suoi innunerevoli figli, pressappoco così (cito a campione): “Questo è un romanzo di radica, almeno lo spero.

E perciò i nomi e i cognomi dei personaggi, i nomi di ditte e società, le situazioni, le vicende del libro non hanno attinenza con la realtà.

Se qualcuno troverà un qualche riferimento a fatti real-mente accaduti, posso assicurare che non è stato intenzio-nale”.

Ma la cautela non è sufficiente a creare uno scudo alla diffamazione di persone mediante un indebito uso del loro nome, ad es. inserendolo come nome di un personaggio di fantasia di un’opera artistica, in viola-zione dell’art. 7 cod. civ. inteso con estensione alla tutela della identità della persona (onore, reputazione, riservatezza).

E’ stato scritto puntualmente dal Breccia, “Persone fisiche” in Comm. al cod. civ., pagg. 469 ss., che “c’è uso indebito del nome quando le vicende immaginarie e i tratti esteriori o di carattere del personaggio inventato coincidano, anche fortuitamente, con i fatti della vita o con i caratteri distintivi della persona omonima oppure

Segnali di fumo

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quando, pur nella difformità, siano ugualmente possibili associazioni di idee e confronti non graditi all’interes-sato”.

Il contenzioso che ha impegnato il Tribunale di Parma su un ricorso ex art. 700 cpc riguarda una baruffa tra scrittori siculi di romanzi con propensione al “giallo”, che in loco riveste un particolare interesse, oltre che per la notorietà del Camilleri, per la ragione che il ricor-rente (pregevolmente referenziato dalla critica, come si legge nei “Domenicali” del Sole 24ore) ha in Parma la sua residenza. I colleghi curiosi, sapendo della cono-scenza per vie politiche che ho di quest’ultimo (ma non più condivisioni dopo i suoi sconvolgenti editoriali sulla “Gazzetta di Parma”) mi hanno spesso “spiato” (alla Montalbano) cosa ne pensassi e poi, all’esito, se avessi “taliato” le motivazioni del provvedimento. Richiesta che esaudisco stornando il testo dalla rubrica dedicata alla giurisprudenza del foro:

Il giudice Dott. Massimo Razzano omissis conside-rato che :

Cacopardo Domenico, assu-mendo che nel romanzo di Andrea Camilleri “il nipote del negus” edito dalla Sellerio Edi-tore s.r.l. dalla pagina 86 alla pagina 88 si parla di un control-lore di biglietti ferroviari con il nome di Cacopardo e si legge, in particolare, alla pagina 88 “…il Cacopardo , che risulta persona attendibile , anche se un poco chiacchierato (è fis-sato d’essere un grande scrittore e consuma il suo stipen-dio pubblicando romanzi a sue spese)…e assumendo che tanto sostanzia un uso indebito del nome e una diffama-zione di esso ricorrente, ha chiesto all’adito Tribunale di ordinare a Camilleri Andrea e alla Sellerio Editore s.r.l. la sospensione della pubblicazione dell’indicato romanzo e il ritiro di tutte le copie ancora invendute o comunque la correzione dello stesso;

Camilleri Andrea e Sellerio Editore srl, costitui-tisi, hanno eccepito l’incompetenza del giudice adito, essendo competente a loro avviso la sezione specializ-zata in materia di proprietà industriale ed intellettuale, e hanno contestato la sussistenza delle condizioni neces-sarie per ottenere la tutela d’urgenza invocata;

l’eccezione di incompetenza è infondata e deve essere respinta, atteso che oggetto della presente pro-cedura e dell’iniziando giudizio a cognizione piena è la tutela del diritto al nome ed alla reputazione di compe-tenza del giudice adito;

“perché si faccia luogo alla tutela prevista dall’art. 7 cod. civ . non è necessario che il nome altrui venga usurpato nella sua interezza, con la conseguenza che anche l’uso ini-bito di solo una parte del cognome può costituire elemento

sufficiente per ottenere – nel concorso degli altri requisiti – l’inibitoria, quando la parte del cognome usurpato, per la risonanza storica che ha acquistato, sia dotato di partico-lare forma individualizzante uno specifico casato o quando, più in generale, esiste una condizione di confondibilità con riferimento all’ambiente, al luogo, alla attività o ad altre cir-costanze in cui venga fatto uso del nome alterato (Cass. civ. n. 5343/84);

“in tema di diffamazione a mezzo stampa, l’individua-zione del soggetto passivo deve avvenire attraverso gli ele-menti della fattispecie concreta, quali la natura e portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali e simili, i quali devono, uni-tamente agli altri elementi che la vicenda offre, essere valu-tati complessivamente, così che possa desumersi, con ragio-nevole certezza , l’inequivoca individuazione dell’offeso, sia in via processuale che come fatto preprocessuale cioè piena e immeditata consapevolezza dell’identità del destinatario che abbia avuto chiunque abbia letto l’articolo diffamatorio (Cass. pen. V n. 3344/08),

“in tema di risarcimento del danno causato da diffamazione a mezzo stampa, non è neces-sario che il soggetto passivo sia precisamente e specificatamente nominato, ma la sua individua-zione deve avvenire, in assenza di un esplicito e nominativo richiamo,

attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e portata dell’offesa le circostanze narrate, ogget-tive e soggettive, i riferimenti personali e temporali e simili, i quali devono, unitamente agli altri elementi che la vicenda offre, essere valutati complessivamente, di guisa che possa desumersi, con ragionevole certezza, l’inequivoca individua-zione dell’offeso” (Cass. civ. III n.17180/07);

alla luce dei principi stabiliti dalla Suprema Corte, può e deve affermarsi che, affinchè si possa ritenere sussistenti l’uso indebito del nome o la diffamazione, in ipotesi del tipo di quello in esame, quando cioè non è espressa la completa indicazione del soggetto di cui si usi indebitamente il nome o che si diffami, occorre che detto soggetto sia, con ragionevole certezza, inequivo-cabilmente individuabile o confondibile;

nella fattispecie de qua, gli elementi valutabili al fine di ritenere sussistente la possibilità di individuare nel Cacopardo di cui al romanzo l’odierno ricorrente, ovvero di confondere con quest’ultimo il Cacopardo di cui al romanzo, sono il cognome, il fatto che l’atti-vità principale non è stata o non è quella di scrittore, l’origine siciliana, la circostanza che vengono indicati nel romanzo altri cognomi riconducibili a persone operanti nel mondo della letteratura, la circostanza che Caco-pardo Domenico, in un suo libro, ha scritto “… non ce

i colleghi curiosi mi hanno spesso “spiato” (alla Montalbano) cosane pensassi e poi, all’esito, se avessi “taliato” le motivazioni delprovvedimento

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l’ho con Camilleri, solo che non mi piace… la sua è una Sicilia artificiosa…” e, infine, la circostanza che qualcuno, nell’ambiente, ritiene Cacopardo Domenico l’antagoni-sta di Andrea Camilleri;

gli elementi, invece, che imporrebbero di non indivi-duare nel ricorrente il Cacopardo del romanzo e non confondere quest’ultimo con il ricorrente medesimo sono, evidentemente, il nome diverso e, ancora, la circo-stanza che i fatti narrati nel libro del Camilleri risalgono al 1929 mentre Cacopardo Domenico nasce nel 1936, la circostanza che Cacopardo Domenico ha svolto alte funzioni nella pubblica amministrazione ed il personag-gio di Camilleri svolge le funzioni di controllore delle Ferrovie dello Stato, la circostanza affermata e comun-que documentata dai resistenti che vi sono altri autori con lo stesso cognome dell’odierno ricorrente;

ad avviso di chi scrive, gli elementi valutabili al fine di ritenere possibili l’individuazione e la confusione, bilan-ciati con gi altri che imporrebbero di ritenere il contra-rio, non sono sufficienti per desumere con ragionevole certezza che inequivocabilmente nel personaggio del romanzo si individui e che col personaggio del romanzo si confonda Cacopardo Domenico;

per gli esposti motivi, il ricorso deve essere riget-tato;

sussiste ragione, costituita dalla particolare com-plessità delle questioni trattate, per la integrale com-pensazione delle spese di procedura;

P.Q.M.rigetta il ricorso; compensa le spese di procedura. 15/12/2010

Come dire: l’intenzione maligna (forse) c’era, ma tal-mente camuffata, ed in un contesto di generale disinfor-mazione su una fugace battuta polemica del ricorrente, peraltro comune ad altri critici del Camilleri (ricordare i confronti con Sciascia, Pirandello e Gadda) , da non essere percepita dal lettore, nel concorso di situazioni ambientali di tempo e di luogo, come riferita, attraverso il personaggio dell’opera, per nome, caratteristiche etc…, a (quella) persona fisica reale (Trib. Roma 24.01.1994, Dir. Informatica 1994, 725). Ora i lettori sanno, e i fer-menti letterari ed editoriali ne sono ravvivati.

Bigiavi bis: il pistolero Ha suscitato curiosità e ragione di divertimento il

“segnale”, che compariva sotto il titolo “Gli strali del prof. Bigiavi “ nel numero scorso di “Cronache”.

Ed anzi alcuni colleghi hanno indicato altre fonti di

“approvigionamento”. Per esempio l’avv. Renzo Ros-solini mi ha riferito di una forte polemica tra il Prof. Walter Bigiavi ed il Prof. Remo Franceschelli, fondatore e direttore della “Rivista di Diritto industriale”.

Le anticipazioni erano nuove e succulente e prove-nivano da un’autorevole fonte orale universitaria par-mense (un imponente Magnifico).

Tuttavia le fonti scritte erano, ahimè, incerte e risa-lenti agli anni ’50.

Si doveva saltabeccare da una rivista all’altra, lavoro compiuto da una praticante solerte e dotata di humor, la stessa che mi ha ispirato le divagazioni teatrali di un’udienza civile a cui aveva assistito (v. sopra).

Il primo cartaceo risulta dagli iniziali numeri della “Rivista di diritto industriale” ove agli esordi, nel 1952, il fondatore Prof. Franceschelli inaugurò una rubrica “leggera” di recensioni denominata “Intermezzo”. Nei primi numeri vi compaiono tra l’altro le recensioni del periodico appena nato. Manco a dirlo si pronuncia anche il Bigiavi sulla Riv. Trim. di dir. e proc. civile, di cui era ancora condirettore, il quale non tarda a ricono-scere l’impronta della sua rubrica “Cose Lette”. Facen-dolo precedere da un titolo ad hoc, così il Franceschelli riproduce lo scritto del collega bolognese: “In cui si vede che le cose che il Bigiavi legge, egli ritiene che figlino. E come egli pensi d’essere degno d’imitazione e si veda imitato”.

“Per rimanere in argomento voglio scrivere che le ‘Cose Lette’”figliano! Quale scandalo, nel nostro timorato e pudibondo ambiente accademico, allorchè nell’ormai lontano 1947, diedi inizio a questa rubrica leggera per i lettori , pesante per me! Ma poi, dalla “Rivi-sta del notariato” alla nuovissima “Rivista di diritto indu-striale”(…..) “gli imitatori non sono mancati e hanno preso il posto dei denigratori. Meglio così! Quando c’è l’imitazione vuol dire che il modello è buono; e, per vero, la Trimestrale ha servito da modello o da calco a “ non so più quante riviste ormai , e non certo solo per le “Cose Lette“. Del che noi siamo lietissimi”

Così contestualmente R.F. replica (si riproduce par-zialmente il testo in anastatica):

“Avevo appena finito di leggere queste avventate parole, quando lo sguardo mi cadde, tra i giornali esposti all’edicola davanti alla quale aspettavo il tram, sulla seguente testata

Mi venne fatto di pensare, da un lato, che Dio li fa e poi li

segnali di fumo

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accoppia; e, dall’altro , che il Bigiavi, come modello o oggetto di imitazione, non aveva, poverino, troppa fortuna, se in sette anni da che dice che fatica a dar conto delle letture che fa, non ha trovato che due supposti imitatori, piccola cosa davvero appetto ai quasi duecento di quell’altro” (“Riv. Dir. Ind.” 1952, I, 288).

Quando le meningi surriscaldano…Ma quale la causa di tale risentimento? Poiché, in

fondo, il Bigiavi si era complimentato dell’imitazione (così la mette il docente bolognese), mentre ad esem-pio al Prof. Asquini, che aveva criticato la rubrica, il Franceschelli tributò ringraziamenti. “Il mistero sarebbe proprio insolubile se non si risalisse ancor più addietro. Molti anni fa, recensendo sulla Giur. It., 1946, IV, 144, un libro d’altronde pregevole del mio amico Franceschelli (il quale nel 1940 mi era succeduto, con mio grande piacere, sulla cattedra parmense) avevo fatto osservare che per ben due volte egli aveva definito il diritto com-merciale una ‘branchia’ (anziché una ‘branca’ del diritto privato). Naturalmente – poiché ho il torto di essere uno spirito caustico- su questo errore (che non era un errore di stampa) avevo ricamato qualche divertente variazione. Orbene il nostro caro Remo (perché Remo è), anziché incassare la botterella e fare bonne mone à mauvais jeu, non me l’ha mai perdonata (da quando Franceshelli si occupa di diritto industriale io attendo ansioso che egli, fedele alle sue nobili tradizioni, parli non già di Fernet Branca bensì di Fernet Branchia); ed ecco perché egli è saltato addosso a chi gli dedicava parole di compiacimento mentre ha scodinzolato - grande e grosso com’è- intorno ad Asquini piccirillo”.

Ma forse, non tralascia il Nostro di pungere, non era questa l’unica ragione di risentimento. Forse perché, nominando la Rivista di diritto industriale aveva fatto seguire alla menzione qualche puntino chiuso tra paren-tesi. Il B. desidera tranquillizzare il collega: “quei puntini non vogliono affatto significare che la Rivista di diritto industriale è la rivista di chi s’industria di salire su di una Cattedra di diritto industriale (e ce la fa!)”.

“E adesso la botta finale: per mettere in ridicolo me, che avevo parlato di imitazioni, Franceschelli credette di far bene riproducendo la testata de La settimana enig-mistica, il giornale che vanta ben 172 tentativi d’imita-zione.

Povero Remo! Tu credevi e magari credi ancora di aver avuto un’alzata d’ingegno. Ma come non hai pensato che, se tu dai al lettore una testata, qualcuno potrebbe farti rilevare che si tratta invece di una… zuccata?!”

L’articolo del pistolero bolognese su la Trimestrale 1954, 186 ss. ha il titolo beffardo Scritti quasi giuridici in onore di me stesso compiendosi il mio 50° anno e mette sotto il fuoco altri bersagli, colleghi naturalmente. Ho detto pistolero perché la tradizione orale di cui all’inizio

vuole che in non so quale rivista, che la ricercatrice non è riuscita a rintracciare, il Bigiavi figuri in tali fogge, non saprei se in segno di autocompiacimento o di dileggio: dipende dalla testata, con o senza zuccata, che lo ha pubblicato.

Il professore bolognese torna sul “piccirillo”, critico della rubrica del Franceschelli: “Asquini-uomo d’inge-gno elevatissimo, che avrebbe dato contributi preziosi alla nostra scienza se avesse avuto al suo attivo anziché il solo studio del trasporto un po’ di trasporto per lo studio”.

A valanga sul solito “provincialotto”, che si difende come può dalla sua rivista “Il diritto fallimentare” 1950, I, 285 ss.: “se Bigiavi vuole, a tutti i costi, attaccar briga con me, troverà pane per i suoi denti e ne sentirà di pittoresche”.

Di rimando: “tutta quanta l’opera del nostro quasi-studioso si può per l’appunto definire in rapida ed eufe-mistica sintesi, come pittoresca”.

E quando il buon Provinciali “dagli e dagli” vince il concorso, il Bigiavi richiama l’istituto giuridico a cui dà il nome di “acquisto della cattedra per usucapione”: “Allora concludiamo: batti e ribatti ce l’hai fatta, a quasi 60 anni, talchè, in un certo senso, devo dirti «e bravo il mio Provincialotto per la tua inflessibile tenacia»; ma in un altro senso -ricordando che la tenacia è un difetto- devo condensare il mio pensiero in una formula ammo-dernata, che fungerà da moralité e qui sottopongo alla vivisezione dei competenti. Questa formula suona (e che suonata!) «PEGGIO TARDI CHE MAI».

Stop alle dotte cattiverie accademiche! Nel mio precedente “Segnali di fumo” sul Maestro (“gli strali del professor Bigiavi”), nell’incipit mi ero permesso di spendere un elogio della “ricerca, provvisoria e inter-mittente, dell’allegrezza sul filo dello humor come rea-zione al peso della concettualità (e del vivere), senza sfuggire alla gravità del pensiero”, anzi per vivificarlo, fargli “prendere aria”.

A conforto della mia vanità leggo che il Bigiavi è del parere che nello studio ci vuole “ogni tanto –anzi molto spesso un pizzico di sale e pepe, un po’ di ginger”. E a sigillo della positività della “leggerezza”: “io ho sempre sostenuto che uno studioso serio può permettersi il lusso di ridere e di fare ridere; che coloro i quali rifuggono dalla gaiezza e temono di passar per buffoni sono, generalmente, proprio i buffoni autentici: quelli la cui opera c.d. scientifica susciterebbe ilarità se, invece, non movesse a compassione. Appunto perché sono sicuro (sono sicuro io e sono sicuri gli altri) della mia fondamentale e assoluta serietà, non rifuggo dalla battuta scherzosa”.

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De profundis del negozio giuridico.Dopo tali lepidezze, parlare di negozio giuridico è

come indossare il gessato dopo i jeans.Storia e semantica del negozio giuridico: “La fonte

originaria è il latino letterario. Negotium si contrappone a otium (nec-otium). Se l’otium indica il disinteressato dedicarsi alle lettere e alle arti, il negotium esprime, per antitesi, il praticare la vita degli affari. Nelle lingue neo-latine négoce, negocio, negozio equivalgono ad affare, ma in Francia e in Italia, se non in Spagna, è ormai locu-zione arcaica, cui nel linguaggio moderno è preferita la locuzione affaire, affare, che trova riscontro nel tedesco geschäft e nell’inglese business.

In Italia, ma solo in Italia, la locuzione si è reificata. Negozio equivale a bottega, indica il locale dove si pra-tica la vendita di merce al minuto”.

Chi scrive è Francesco Galgano. Per l’autore il nego-zio giuridico è defunto, privo di dignità classificatoria dal momento che l’art. 1324 c.c. include tra gli atti unilate-rali sia le dichiarazioni di volontà che quelle di scienza, le partecipazioni e le comunicazioni. Sicchè “l’atto di volontà non ha, nel mondo del diritto, un separato trat-tamento normativo, diverso dal trattamento dell’atto giuridico in genere”.

La morte era già stata annunciata dal Prof. Schle-singer nella prefazione all’edizione 2007 del “Manuale di diritto privato” del Torrente: “Si è preso atto che il sistema del diritto civile è mutato, progressivamente ma inesorabilmente, e che perciò talune scelte di impo-stazione che avevano per anni connotato il Manuale non erano più attuali e dovevano essere rimeditate. In particolare è apparso necessario un ripensamento del ruolo centrale che l’impianto del Manuale aveva per tradizione concesso alla figura e alla disciplina del negozio giuridico, pur non ponendone in discussione la rilevanza teorica e concettuale. Si è perciò, in una prospettiva più moderna, ritenuto preferibile restituire centralità e pieno risalto alla disciplina del contratto, eli-minando l’estesa esposizione di una disciplina comune ai vari fenomeni negoziali che connotava le precedenti edizioni dell’opera”.

Conclusivamente per il Galgano il negozio giuridico, super concetto sovrapposto alle norme del codice civile, è “la metafora del nulla”, una di quelle “metafore nel diritto” su cui l’autore intrattiene il lettore piacevol-mente, pur in un contesto di superiore spessore cultu-rale, non solo giuridico, nella sua ultima opera: “Le insidie del linguaggio giuridico – Saggio sulle metafore nel diritto” (Il Mulino 2010).

Tema su cui ci si può dare appuntamento al pros-simo numero, magari dopo che qualcuno, accogliendo il consiglio, abbia letto il volume, oltretutto ricco di giu-risprudenza ed assai utile anche per l’esercizio profes-sionale.

Giacomo Voltattorni

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Avvocato - Tenuta albi - Cancellazione Registro praticanti Avvocati - Interruzione semestrale della pratica - Rilevanza - Fattispecie

Ai fini della cancellazione dal registro dei praticanti, l’interruzione della pratica forense per periodo superiore ai sei mesi presuppone la mancanza di pratica sia sotto il profilo dell’attività di Studio (atti, giudiziali e stragiudiziali) sia sotto il profilo delle udienze.

Non può pertanto dirsi sussistente un’effettiva e completa interruzione dell’attività della pratica forense per un periodo superiore al semestre quando, come nella specie, pur in difetto di prova di qualsivoglia attività di Studio, emerga dalla copia conforme all’originale del libretto una sia pur incompleta, ed in parte irregolare, attività d’udienza.(Accoglie il ricorso avverso decisione C.d.O. di Vercelli, 18 luglio 2008)

Cons. Naz. Forense 23-04-2009, n. 7 Pres. f.f. VERMIGLIO - Rel. BULGARELLI - P.M.

IANNELLI (conf.) - dott. D.S.

Avvocato - Tenuta albi - Cancellazione - Impugnazione - Ricorso presentato al CNF - Inammissibilità

In tema di impugnazione del provvedimento di cancellazione dall’Albo degli Avvocati, l’inosservanza dell’art. 59, co. 1, R.D. n. 37/34, che prevede tassativamente il deposito del ricorso al CNF presso il Consiglio dell’Ordine che ha emesso la pronuncia, determina l’inammissibilità del gravame. (Dichiara inammissibile il ricorso avverso decisione C.d.O. di Busto Arsizio, 16 febbraio 2007)

Cons. Naz. Forense 04-05-2009, n. 22 Pres. ALPA - Rel. BORSACCHI - P.M. CIAMPOLI

(conf.) - avv. R.D.M.

Avvocato - Tenuta albi - Praticante avvocato abilitato al patrocinio - Intervenuta scadenza del termine - Cancellazione - Impugnazione provvedimento C.d.O. - Esclusione

Avvocato - Tenuta albi - Praticante avvocato abilitato al patrocinio - Intervenuta scadenza del termine - Provvedimento di cancellazione - Natura - Atto dovuto - Previa audizione dell’interessato - Esclusione

Il provvedimento con cui il C.d.O. dispone la cancellazione del praticante dall’elenco dei soggetti abilitati al patrocinio per decorrenza del termine dell’abilitazione non è impugnabile, sia perché non espressamente previsto tra gli atti soggetti ad impugnazione dinanzi al C.N.F. dal R.D. n. 1578/1933, sia perché tale delibera costituisce atto dovuto, in funzione del mero accertamento della decorrenza del termine previsto dalla legge per l’esercizio della facoltà di patrocinare davanti all’Autorità Giudiziaria.

Atteso che la durata del patrocinio è espressamente

prevista dalla legge ed il suo venir meno non incide sullo status di praticante derivante dall’iscrizione al Registro speciale, al quale il praticante continua a rimanere iscritto, il provvedimento di cancellazione dall’elenco dei soggetti abilitati al patrocinio per decorrenza del termine dell’abilitazione non deve essere assunto nel contraddittorio con l’interessato, essendo la preventiva audizione dell’interessato prevista nella sola ipotesi disciplinata dagli artt. 24, co. 3, e 31, co. 3, del R.D. n. 1578/33 relativa ai casi di diniego di iscrizione all’albo per motivi di incompatibilità e di condotta. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Napoli, 3 aprile 2008).

Cons. Naz. Forense 24-07-2009, n. 84 Pres. f.f. TIRALE - Rel. FLORIO - P.M. MARTONE

(non conf.) - dott. G.C.

Avvocato - Procedimento disciplinare - Sospensione cautelare - Natura - Presupposti

Avvocato - Procedimento disciplinare - Prescrizione - Decorrenza

Il potere di adozione della misura della sospensione cautelare, che postula la sola gravità del fatto addebitato al professionista in un atto dell’Autorità Giudiziaria indipendentemente dalla sua fondatezza, e come tale idoneo a creare allarme nella collettività per la compromissione della dignità e del decoro della professione tale da rendere incompatibili con tali doveri la prosecuzione dell’attività da parte di costui, ha natura discrezionale e non è sindacabile, avendo affidato l’ordinamento al solo Consiglio territoriale la valutazione della lesione al decoro e alla dignità della professione e quella dell’opportunità della misura cautelare. Lo scrutinio del CNF, invero, è limitato al controllo di legittimità, restando precluso ogni giudizio sull’opportunità della misura sospensiva.

Diversamente dall’iniziativa disciplinare prevista dall’art. 38 L.P., collegata ad ipotesi generiche ed a fatti anche atipici, in relazione alla quale il termine prescrizionale comincia a decorrere dalla data della commissione del fatto, l’azione disciplinare invece contemplata dall’art. 44 e collegata al fatto storico di una pronuncia penale che non sia di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso, ha come oggetto lo stesso fatto per il quale è stata formulata un’imputazione, ha natura obbligatoria e non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto; con la conseguenza che la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta, restando irrilevante, il periodo decorso dalla commissione del fatto all’instaurazione del procedimento penale, e ciò anche nel caso in cui il C.d.O., avuta notizia del fatto, abbia dapprima deliberato l’apertura

Giurisprudenza disciplinare

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e disposto poi la sospensione del procedimento disciplinare. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Alba, 4 agosto 2008)

Cons. Naz. Forense 09-04-2009, n. 6 Pres. f.f. VERMIGLIO - Rel. BERRUTI - P.M. FEDELI

(non conf.) - avv. R.R.

Avvocato - Procedimento disciplinare - Decisione di archiviazione - Impugnazione - Inammissibilità

Attesa la tassatività degli atti impugnabili e la mancanza di una apposita previsione normativa, deve ritenersi inammissibile il ricorso proposto avverso la delibera di archiviazione dell’esposto presentato presso il Consiglio territoriale. (Dichiara inammissibile il ricorso avverso decisione C.d.O. di Bergamo, 10 ottobre 2005)

Cons. Naz. Forense 04-05-2009, n. 13 Pres. ALPA - Rel. CARDONE - P.M. FEDELI (conf.)

- sig.ra A.S.

Avvocato - Procedimento disciplinare - Decisione del C.d.O. - Rigetto istanza revoca provvedimento disciplinare - Ricorso - Inammissibilità

E’ inammissibile il ricorso proposto avverso la delibera con la quale il C.d.O. respinga l’istanza di revoca di un provvedimento disciplinare applicato al ricorrente, atteso che, gli atti impugnabili davanti al C.N.F. riguardano tassativamente la tenuta degli albi, i certificati di compiuta pratica ed i provvedimenti che riguardano il procedimento disciplinare, mentre la decisione impugnata è senz’altro priva del carattere di provvedimento disciplinare. (Dichiara inammissibile il ricorso avverso decisione C.d.O. di Viterbo, 29 giugno 2006)

Cons. Naz. Forense 04-05-2009, n. 17 Pres. f.f. TIRALE - Rel. BASSU - P.M. FEDELI (conf.)

- avv. S.D.A.

Avvocato - Procedimento disciplinare - Decisione del C.d.O. - Corrispondenza tra contestazione e pronunzia disciplinare - Violazione - Limiti

Avvocato - Norme deontologiche - Principi generali - Divieto di pubblicità - Violazione a mezzo stampa - Illecito deontologico - Sussistenza

In perfetta coerenza con i principi enunciati dalla giurisprudenza della Suprema corte e del CNF, va esclusa la violazione della regola della corrispondenza tra la contestazione e la pronunzia disciplinare allorchè il fatto posto a base della sentenza non abbia il carattere della eterogeneità rispetto a quello contestato, sicchè la nullità del procedimento disciplinare per difetto di specificità della contestazione sussiste nel solo caso in cui vi sia incertezza sui fatti contestati, con la conseguente impossibilità per l’incolpato di svolgere le proprie difese, a nulla rilevando la precisazione delle fonti di prova da utilizzare, né la individuazione delle

precise norme deontologiche che si assumono violateViola il dovere di riservatezza propria della professione

forense ex art. 9 C.D.F., nonché il divieto di sollecitare articoli di stampa o interviste su organi di informazione, spendendo il nome dei propri clienti ex art. 18 C.D.F., il professionista che, attraverso le pagine di un quotidiano locale divulghi il contenuto della propria corrispondenza, inviata per conto dei propri assistiti.

Pone in essere un contegno contrario ai principi di correttezza e riservatezza nonché violativo del divieto di pubblicità propri della professione forense, l’avvocato professionista che in ordine alle modalità di svolgimento di un incarico professionale renda ad un giornalista dichiarazioni poi pubblicate dalla stampa al fine di pubblicizzare la propria attività professionale. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Treviso, 29 maggio 2006)

Cons. Naz. Forense 04-05-2009, n. 26 Pres. ALPA - Rel. DEL PAGGIO - P.M. MARTONE

(conf.) - avv. F.C.

Avvocato - Procedimento disciplinare - Fase preliminare all’apertura del procedimento - Natura ricognitiva - Applicazione garanzie procedimentali - Esclusione

La fase preliminare che si svolge dinanzi al C.d.O., una volta che sia pervenuto un esposto e prima che si addivenga all’apertura del procedimento disciplinare, ha natura ricognitiva ed informativa ed ad essa non si applicano pertanto le garanzie procedimentali. Deve pertanto escludersi la nullità della decisione per il fatto dell’audizione dell’esponente in assenza dell’incolpato, e senza che questi ne avesse ricevuto notizia, nella fase che ha preceduto l’apertura del procedimento disciplinare. (Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. di Parma, 5 dicembre 2006)

Cons. Naz. Forense 04-05-2009, n. 27 Pres. ALPA - Rel. BORSACCHI - P.M. FEDELI (non

conf.) - avv. V.B.

Avvocato - Norme deontologiche - Praticante avvocato abilitato al patrocinio - Violazione limiti jus postulandi - Illecito deontologico

Avvocato - Procedimento disciplinare - Eccessiva durata - Responsabilità - Irrilevanza

Pone in essere un comportamento contrario ai doveri professionali il praticante avvocato, pur abilitato al patrocinio, che svolga attività processuale avanti il Tribunale riservata all’avvocato pur non avendone titolo.

Salvi gli effetti della prescrizione estintiva, l’eventuale eccessiva durata del procedimento disciplinare non può mai avere come effetto di sottrarre l’incolpato alla responsabilità che discende dalla violazione delle norme deontologiche, ancorchè la violazione accertata si sia verificata quando l’incolpato era praticante e la concreta esecuzione della

giurisprudenza disciplinare

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sanzione disciplinare inflitta avvenga quando lo stesso sia divenuto avvocato, risultando così maggiormente afflittiva in considerazione del maggior impegno e visibilità della vita professionale dell’incolpato. (Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. di Livorno, 9 gennaio 2008).

Cons. Naz. Forense 04-06-2009, n. 47 Pres. f.f. TIRALE - Rel. BULGARELLI - P.M.

MARTONE (non conf.) - avv. C.P.

Avvocato - Procedimento disciplinare - Rapporti tra procedimento penale e disciplinare - Sentenza penale di assoluzione perché il fatto non sussiste - Valutazione disciplinare - Esclusione

In tema di rapporti tra giudizio penale e giudizio disciplinare, la sentenza irrevocabile pronunciata nel primo ha efficacia di giudicato nel secondo quanto all’accertamento del fatto, alla sua eventuale illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Qualora, tuttavia, l’assoluzione sia stata pronunciata perché il fatto non sussiste, l’esclusione dell’ontologia del fatto ne impedisce la valutazione anche disciplinare, mentre se essa è intervenuta perché il fatto non costituisce reato, riconoscendone l’ontologia ed escludendo la sola rilevanza penale, l’organo disciplinare può e deve valutarlo sotto il profilo deontologico. (Accoglie il ricorso avverso decisione C.d.O. di Bolzano, 25 maggio 2007).

Cons. Naz. Forense 04-06-2009, n. 56 Pres. ALPA - Rel. VERMIGLIO - P.M. CIAMPOLI

(non conf.) - avv. S.D.A.

Avvocato - Procedimento disciplinare - Prescrizione - Atti interruttivi

Avvocato - Procedimento disciplinare -Ricorso al C.N.F. - Atti impugnabili - Tassatività - Decisione C.d.O. su istanza di ricusazione - Esclusione

Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con la parte assistita - Richieste di pagamento compenso per attività professionale - Forma e modalità della richiesta - Illecito disciplinare - Sussistenza

Avvocato - Procedimento disciplinare - Omessa notifica della delibera di apertura - Nullità del procedimento - Eccezione - Mancata proposizione nel primo atto o difesa successiva alla delibera - Tardività - Inammissibilità

Al fine di evitare la prescrizione quinquennale ex art. 51 l.p.f. dell’azione disciplinare è necessario e sufficiente il compimento da parte del C.O.A. di un atto interruttivo, dovendosi intendere per tale l’apertura del procedimento disciplinare.

Costituisce vero e proprio ius receptum l’insegnamento secondo cui tra gli atti impugnabili dinanzi al C.N.F., i quali sono previsti in modo tassativo, non rientra il provvedimento di un Consiglio dell’Ordine territoriale che abbia deciso su una istanza di ricusazione proposta contro alcuni dei suoi

componenti.Ancorchè il professionista possa vantare nei confronti dei

clienti insolventi un indiscutibile diritto di credito suscettibile di essere azionato, nondimeno va ritenuto che anche una richiesta legittima può essere soggetta a valutazione disciplinare, allorquando si accompagni a modalità o forme che incrinano il rapporto di fiducia e gettano discredito sulla dignità e sul decoro dell’avvocato e quindi sull’immagine dell’avvocatura, così integrando la violazione dei doveri di correttezza e probità professionali.

L’eccezione di nullità del procedimento disciplinare per omessa notifica della delibera di apertura dello stesso è inammissibile, siccome tardiva, se non è proposta nel primo atto o difesa successiva alla delibera stessa ed è comunque irrilevante se, attraverso la comunicazione correttamente notificata della richiesta di rinvio a giudizio, l’incolpato sia stato messo a conoscenza delle determinazioni prese dal C.O.A. nei suoi confronti e abbia perciò potuto compiere tutti gli atti previsti dall’ordinamento a garanzia del diritto di difesa. (Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisioni C.d.O. di Pordenone, 27 giugno e 1 ottobre 2007).

Cons. Naz. Forense 04-06-2009, n. 64 Pres. f.f. CARDONE - Rel. BONZO - P.M. FEDELI

(conf.) - avv. D.L.

Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con la parte assistita - Difesa di parti in conflitto di interessi.

Integra certamente la violazione dei doveri di lealtà, di correttezza e di fedeltà ex artt. 5, 6, 7 c.d.f. nei confronti della parte assistita, configurando altresì l’illecito deontologico previsto dal successivo art. 51, la condotta del professionista che in seguito alla dismissione del mandato - indipendentemente dal fatto che questa sia dovuta a revoca o rinuncia - assuma un mandato professionale contro il proprio precedente cliente, tanto più quando il nuovo incarico sia inerente al medesimo procedimento nel quale il difensore abbia assistito un’altra parte, che abbia un interesse confliggente con quello del nuovo assistito. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Bergamo, 19 ottobre 2007).

Cons. Naz. Forense 09-01-2009, n. 1 Pres. ALPA - Rel. ALPA - P.M. FEDELI (conf.) - avv.

A.D.P.

Avvocato - Norme deontologiche - Dovere di diligenza - Rapporti con il collega dominus della causa- Violazione

Avvocato - Norme deontologiche - Dovere di colleganza e collaborazione - Rapporti con il C.d.O. - Omessi chiarimenti - Illecito deontologico

Pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante l’avvocato che svolga con negligenza il mandato ricevuto, che ometta di dare informazioni al collega dominus della causa sullo stato del procedimento, e che non restituisca

giurisprudenza disciplinare

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al medesimo collega mandante ed ai clienti i titoli esecutivi necessari ad azionare la procedura esecutiva oggetto del mandato, così compromettendo la tutela delle relative ragioni creditorie.

L’avvocato che ometta di fornire i chiarimenti al C.d.O, pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante, poiché lesivo dei principi di solidarietà e collaborazione con il Consiglio di appartenenza, per i quali il professionista è tenuto al rispetto delle disposizioni impartite dai competenti organi nell’attuazione delle proprie finalità istituzionali. Tale contegno configura peraltro un’autonoma violazione disciplinare ai sensi dell’art. 24 del codice deontologico, giacché disattende il dovere imposto a ciascun professionista di collaborare con il C.d.O. per l’attuazione delle finalità istituzionali, dovendo ravvisarsi nelle mancate risposte un mancato rispetto verso le istituzioni collettive e un mancato senso di responsabilità collegato all’attività difensiva. (Accoglie il ricorso avverso decisione C.d.O. di Roma, 9 novembre 2007).

Cons. Naz. Forense 04-05-2009, n. 11 Pres. f.f. VERMIGLIO - Rel. VACCARO - P.M.

CIAMPOLI (conf.) - avv. A.R.

Avvocato - Norme deontologiche - Obbligazioni assunte nei confronti di terzi - Inadempimento - Illecito deontologico - Sussistenza.

Il mancato pagamento dei debiti contratti dal professionista, nei cui confronti risulti pendente un consistente numero di procedure esecutive mobiliari costituisce violazione del prestigio, della dignità e del decoro della professione, tale fatto compromettendo la fiducia dei terzi nella capacità dell’avvocato di rispettare i propri doveri. (Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. di Rimini, 20 dicembre 2005)

Cons. Naz. Forense 04-05-2009, n. 29 Pres. ALPA - Rel. ALLORIO - P.M. IANNELLI

(conf.) - avv. M.L.T.

Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con la parte assistita - Divieto di conflitto di interessi - Rapporti di carattere economico o commerciale - Illecito deontologico.

L’avvocato ha il dovere di non porsi in conflitto di interessi, nemmeno potenziale, con il proprio assistito, evitando di intrattenere con quest’ultimo rapporti di carattere economico o commerciale, indipendentemente dal fine, pur altruistico, che lo stesso intenda così perseguire. Tale divieto è invero diretto a preservare il rapporto fiduciario tra avvocato e cliente, atteso che soltanto l’estraneità dell’avvocato rispetto agli interessi del cliente garantisce la difesa tecnica più valida, evita il coinvolgimento in responsabilità ed assicura la massima professionalità.

(Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. di Bergamo, 28 dicembre 2008)

Cons. Naz. Forense 18-05-2009, n. 33 Pres. ALPA - Rel. BIANCHI - P.M. FEDELI (conf.)

- avv.ti C.I. e M.I.

Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con i colleghi - Espressioni sconvenienti ed offensive - Illecito deontologico - Fattispecie - Sussistenza.

Deve ritenersi deontologicamente rilevante il contegno del professionista che utilizzi nel proprio atto difensivo un linguaggio sconveniente ed offensivo nei confronti del collega - peraltro più giovane - e, comunque, non consono alla correttezza ed al decoro formale e sostanziale che deve sempre contraddistinguere colui che esercita la professione forense (nella specie, il C.N.F. ha ritenuto che l’utilizzo delle frasi offensive oggetto di censura deve ritenersi aggravato dalla circostanza che le stesse sono contenute nell’atto di citazione notificato alla parte assistita, la quale ne ha appreso il contenuto ancor prima del collega interessato dalle espressioni offensive). (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Chieti, 15 maggio 2007)

Cons. Naz. Forense 18-05-2009, n. 35 Pres. f.f. PERFETTI - Rel. BASSU - P.M. MARTONE

(non conf.) - avv. C.S.

Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con i magistrati e con i colleghi - Espressioni sconvenienti ed offensive - Illecito deontologico - Esimente provocazione - Irrilevanza - Risarcimento del danno in favore dell’offeso - Irrilevanza.

Pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante, poiché violativo dei doveri di correttezza e di lealtà, il professionista che - pur nella ipotesi in cui il clima di esasperata contrapposizione dialettica possa spiegare eventuali eccessi nell’uso di argomentazioni difensive - utilizzi espressioni sconvenienti ed offensive dirette consapevolmente ad insinuare, nei confronti dei Colleghi, la esistenza di condotte illecite e, nei confronti del Giudice, la violazione del fondamentale dovere di imparzialità nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali.

L’utilizzo di espressioni oggettivamente offensive verso il collega avversario non può essere giustificata dalla reazione ad una eventuale aggressione processuale ricevuta, atteso che l’esimente di cui all’art. 599 c.p. (ritorsione e provocazione) non trova applicazione in materia deontologica.

L’avvenuto risarcimento del danno da parte dell’incolpato nei confronti del collega reiteratamente offeso ed ingiuriato si manifesta del tutto privo di rilevanza, poiché tale circostanza, in considerazione dei modi, delle forme e dell’ambiente in cui la condotta lesiva si è estrinsecata, non appare idonea ad elidere gli effetti nocivi del contegno tenuto dall’incolpato, dal quale è scaturito, in maniera irreversibile, la compromissione del prestigio e della dignità dell’intero Ordine forense. (Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. di

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Monza, 14 gennaio 2008) Cons. Naz. Forense 18-05-2009, n. 37 Pres. f.f. PERFETTI - Rel. DEL PAGGIO - P.M.

MARTONE (conf.) - avv. P.L.C.

Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con la parte assistita - Conflitto di interessi potenziale - Violazione.

Atteso che l’art. 37 c.d.f. sancisce per l’avvocato l’obbligo di astenersi dal prestare attività professionale quando ciò determini un conflitto di interessi reale o meramente potenziale con il proprio assistito, deve ritenersi - anche in considerazione della ratio della disposizione - che anche il solo “rischio serio di conflitto” sia idoneo ad integrare la violazione del dettato deontologico. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Padova, 18 luglio 2007)

Cons. Naz. Forense 18-05-2009, n. 38 Pres. f.f. PERFETTI - Rel. BASSU - P.M. MARTONE

(conf.) - avv. P.S.

Avvocato - Norme deontologiche - Dovere di diligenza e lealtà - Esibizione documentale in causa - Limiti

Ai fini della valutazione della diligenza e lealtà nelle esibizioni documentali in causa, al difensore non può essere richiesto un giudizio stringente ed approfondito sulla congruenza di un documento all’oggetto della causa che vada oltre una valutazione di non estraneità, oggettiva e soggettiva, né tantomeno un’indagine sulla verità dei fatti riferitigli dal cliente che vada oltre una valutazione di verosimiglianza. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Firenze, 28 novembre 2007).

Cons. Naz. Forense 04-06-2009, n. 54 Pres. ALPA - Rel. LANZARA - P.M. CIAMPOLI

(conf.) - avv. I.T.

Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con i magistrati - Espressioni sconvenienti ed offensive - Illecito deontologico - Scriminante ex art. 598 c.p. - Inconfigurabilità

L’avvocato, nell’ambito della propria attività difensiva, può e deve esporre con vigore la difesa del proprio assistito, senza tuttavia mai giungere ad atteggiamenti o comportamenti sconvenienti e violativi dell’art. 20 del codice di deontologia professionale, che impone al professionista di mantenere con il Giudice un rapporto improntato alla dignità e al rispetto sia della persona del giudicante sia del suo operato.

La scriminante di cui all’art. 598 c.p. non trova spazio nel procedimento disciplinare, atteso che la tutela della libertà della difesa non attribuisce una singolare facoltà di offendere, dovendo tutti gli atti ed ogni condotta nel processo rispecchiare il dovere di correttezza, anche nelle forme espressive usate dalle parti. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Torino, 26 marzo 2007).

Cons. Naz. Forense 04-06-2009, n. 65 Pres. ALPA - Rel. SICA - P.M. FEDELI (conf.) - avv.

V.C.

Avvocato - Norme deontologiche - Doveri di probità, dignità e decoro - Condotta nella vita privata - Rilevanza

L’avvocato ha l’obbligo di avere una condotta specchiatissima ed illibata sia nell’ambito dell’attività professionale sia nell’ambito della vita privata, sicchè pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante perché lesivo dei doveri di probità, dignità e decoro propri della classe forense il professionista che compia atti di libidine violenti ed atti osceni, dovendo ritenersi assolutamente incompatibile tale contegno con la permanenza dell’incolpato nell’Albo forense e risultando conseguentemente congrua la sanzione della radiazione correttamente irrogata. (Rigetta inammissibile il ricorso avverso decisione C.d.O. di Milano, 6 novembre 2006).

Cons. Naz. Forense 13-07-2009, n. 70 Pres. f.f. VERMIGLIO - Rel. BORSACCHI - P.M.

CIAMPOLI (conf.) - avv. F.L.C.

Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con la parte assistita - Difesa di parti in conflitto di interessi

Avvocato - Norme deontologiche - Richiesta onorario eccessivo - Violazione art. 43, sub II, c.d.f.

Non integra alcun illecito disciplinare il contegno dell’avvocato che, già procuratore di un creditore per il quale abbia presentato domanda di insinuazione al passivo fallimentare, accetti altresì l’incarico di legale del medesimo fallimento al fine di fornire al giudice delegato un parere circa la legittimità e la legalità di notule professionali in ordine all’ammontare delle somme oggetto di insinuazione, trattandosi di questioni completamente indipendenti l’una dall’altra ed insuscettibili di determinare collegamenti o reciproche interferenze.

L’avvocato che richieda un compenso manifestamente sproporzionato e comunque eccessivo rispetto all’attività documentata pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante perché lesivo del dovere di correttezza e probità, a nulla rilevando, ai fini della responsabilità disciplinare, neanche l’eventualità che tra il professionista ed il cliente sia intervenuta la transazione della controversia. (Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. di Livorno, 11 gennaio 2006).

Cons. Naz. Forense 13-07-2009, n. 73 Pres. f.f. PERFETTI - Rel. DEL PAGGIO - P.M.

MARTONE (conf.) - avv. R.Z.

Avvocato - Norme deontologiche - Informazione professionale non veritiera - Omesso controllo contenutistico - Illecito deontologico - Sussistenza

giurisprudenza disciplinare

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Viene meno ai doveri di verità, probità e correttezza professionale, nonché alle disposizioni di cui all’art. 17 c.d.f., l’avvocato che ometta il controllo sul contenuto di un un articolo giornalistico nel quale per scopi elogiativi venga inesattamente attribuita allo studio associato l’esperienza professionale decennale propria dell’incolpato che della struttura faccia parte, sostanziandosi il mancato controllo della verità dell’informazione nella lesione dell’affidamento della collettività, la quale costituisce la finalità delle limitazioni deontologiche portate alla libertà informativa nell’interesse generale del corretto svolgimento della funzione svolta dall’avvocatura nella società. (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Vicenza, 23 aprile 2008).

Cons. Naz. Forense 13-07-2009, n. 75 Pres. ALPA - Rel. DEL PAGGIO - P.M. MARTONE

(conf.) - avv. M.B.

Avvocato - Tariffe forensi - Richiesta onorario - Mancato pagamento - Richiesta di compenso maggiore - Illecito disciplinare

Viola l’art. 43 III, c.d.f., l’avvocato che, a causa del mancato spontaneo pagamento delle competenze professionali e senza averne fatto espressa riserva, richieda con una successiva comunicazione un compenso maggiore di quello già indicato in precedenza. (Accoglie parzialmente il ricorso avverso decisione C.d.O. di Vicenza, 18 giugno 2008).

Cons. Naz. Forense 21-07-2009, n. 79 Pres. ALPA - Rel. MAURO - P.M. CIAMPOLI (non

conf.) - avv. R.C.

giurisprudenza disciplinare

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TRIBUNALE DI PARMASezione FallimentareSENT. N. 56/10Dott. Roberto Piscopo – PresidenteDott. Pietro Rogato – Giudice RelatoreDott.ssa Silvia Cavallari – Giudice

Con ricorso 26/7/2010 la ditta Alfa S.a.s., creditrice per €. 214.124,79 nei confronti della Beta S.r.l. in liquidazione e con-cordato preventivo, domandava la risoluzione del concordato preventivo di Beta in quanto all’esito dell’esecuzione dello stesso ai creditori di classe c), come la ricorrente Alfa, veniva corrisposta una percentuale molto inferiore a quella prevista nella domanda di concordato.

L’art. 186 l.f. dispone, infatti, che i creditori possano chie-dere la risoluzione del concordato preventivo per inadempi-menti che non siano di scarsa importanza e purché il ricorso venga proposto “entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento previsto dal concordato.”

Il Tribunale di Parma, con sentenza 13-15/12/2010, ha dichiarato risolto per inadempimento il Concordato Preven-tivo Beta S.r.l. in liquidazione applicando alcuni principi:

- innanzi tutto è stato giudicato un inadempimento grave che un concordato preventivo, approvato con la previ-sione del pagamento del 14,5 % dei crediti chirografari, finisca per effettivamente versare, ad esito dell’esecuzione, somme pari al 3% dei crediti;

- è stato giudicato che, ai fini della risoluzione del concordato, non possa considerarsi passività derivante da un fatto sopravvenuto all’omologa ed imprevedibile (ciò che secondo la sentenza sarebbe comunque non rilevante), un processo verbale di accertamento dell’Agenzia delle Entrate relativo ad imposte (IRES/IRPEG/IRAP ed IVA) evase negli anni immediatamente antecedenti la richiesta di concordato (la procedura aveva aderito alle pretese del fisco con concor-dato per adesione);

- un ulteriore principio fissato dal Tribunale è che nessun requisito condiziona l’accoglimento della domanda di risolu-zione, oltre alla gravità dell’inadempimento, sia perché non vi sono riferimenti normativi a sostegno delle tesi di chi ne richiederebbe la ricorrenza sia in considerazione della natura contrattuale del concordato che non presuppone altri ele-menti, per esempio soggettivi, perché operi la risoluzione (la sentenza conferma tale principio fissato dalla Suprema Corte “Il Tribunale non ha altro compito né altro potere che quelli di accertare se il concordato sia stato eseguito, o meno, nei termini e con le modalità stabiliti nella sentenza di omolo-gazione, senza alcun margine di discrezionalità in ordine alla valutazione della gravità o all’imputabilità dell’inadempi-mento” Cass. Civ. Sez. I 27/12/1997 n. 11503).

Oltre alla fissazione dei principi sopra estesi la decisione ha superato l’eccezione, sollevata dal resistente, circa la pre-tesa intervenuta decadenza di cui al terzo comma dell’art. 186 l.f. (“Il ricorso per la risoluzione deve proporsi entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempi-mento previsto dal concordato”): a tale riguardo il Tribunale ha ricompreso fra gli adempimenti esecutivi del concordato, atti ad essere qualificati come adempimenti previsti dal con-cordato, anche operazioni di pagamento quale il deposito di somme dovute a creditori irreperibili, autorizzato dal Giu-dice Delegato precisando però sarebbe la chiusura definitiva della procedura il termine finale rilevante per la disposizione in parola : “gli adempimenti previsti dal concordato preven-tivo sono quelli dettati dalla relativa procedura che viene ad ultimarsi esclusivamente con la chiusura della procedura avvenuta con provvedimento ex art. 116 l.f. emesso dal Giu-dice Delegato” (tale atto finale è previsto per il concordato preventivo in analogia con la disciplina fissata per il concor-dato fallimentare di cui agli artt.li 116 e 136”.

A considerare come soltanto la chiusura del concor-dato possa rilevare quale termine ai sensi dell’art. 186 terzo comma l.f. spingerebbe una lettura in linea con la ratio della norma che, fissando un termine teoricamente decadenziale, deve addivenire ad individuare un dies a quo che sia deter-minabile con certezza ciò per cui si afferma che “soltanto la data di chiusura della procedura costituisca un valido riferi-mento temporale per costituire “l’ultimo adempimento pre-visto dal concordato””.

La sentenza, in ossequio alla disciplina attuale, non ha automaticamente dichiarato il fallimento in assenza della relativa domanda da parte del ricorrente: per tale pronuncia, quindi, è pretesa un’istanza del ricorrente congiuntamente al ricorso per risoluzione del concordato, oppure una succes-siva istanza di un creditore o del pubblico ministero.

alb.m.

TRIBUNALE DI PARMAUfficio del Giudice Unico Monocratico- Sez. Penale- Dott. Paolo Scippa - Ordinanza 07.12.2010

Accoglimento della eccezione di estromissione della parte civile costituita - Lo stesso soggetto (ente pubblico datore di lavoro degli imputati) non può ricoprire nel medesimo processo il ruolo di due parti processuali (parte civile e responsabile civile) portatrici di interessi contrapposti e configgenti.

In procedimento penale a carico di appartenenti al Corpo di Polizia Municipale pendente in relazione a diverse ipotesi di reato tra cui quelle p. e p. dagli artt. 81, 582, 585 c.p.,56,

Giurisprudenza

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611, 610 c.p., 81, 368, 61 n.2) e n. 9) c.p., 605 c.p., 81, 479 c.p., la difesa degli imputati sollevava tempestivamente, al Giudice del dibattimento, eccezione con cui veniva chiesto che il Comune presso cui prestavano servizio gli imputati all’epoca dei fatti, venisse estromesso dal processo quale parte civile.

Lo stesso Comune, infatti, aveva già provveduto a costituirsi, tramite lo stesso difensore che aveva depositato atto di costituzione di parte civile, anche quale responsabile civile ai sensi e per gli effetti degli artt. 83, 84 e segg. c. p.p.

Il Giudice, nel provvedimento sopra citato, ha offerto ampia motivazione nella quale viene evidenziato il percorso logico e giuridico che porterebbe ad escludere il fatto che “la pretesa risarcitoria venga azionata nel processo penale nel quale il medesimo soggetto è chiamato ad esercitare la propria difesa quale responsabile civile”.

Il testo dell’ordinanza offre spunti di riflessione in materia sostanziale, processuale ed anche deontologica, laddove il Giudice afferma – tra l’altro - la condivisibilità dell’”ulteriore motivazione addotta dalle difese ai fini di esclusione della parte civile costituita, sul presupposto di fatto che il medesimo difensore non è legittimato ad assumere il mandato difensivo di assistere due parti processuali con interessi sostanzialmente contrapposti e confliggenti”.

Parte civile e responsabile civile: un caso di insanabile conflitto di interessi

L’ordinanza in commento è stata emessa dal Giudice nell’ambito di un procedimento in cui un ente locale è stato citato in giudizio quale responsabile civile per fatti di reato commessi da alcuni dipendenti in danno di terzi. Costituitosi in giudizio con il patrocinio di un primo legale, il soggetto pubblico, dopo la rinuncia al mandato di questi, si affidava ad un nuovo difensore, il quale ha inteso proporre l’azione civile nel processo penale, sostenendo un preteso danno subito dall’ente pubblico in conseguenza degli episodi delittuosi contestati agli imputati.

In virtù del mandato difensivo conferito dall’ente pubblico (già ritualmente costitutitosi responsabile civile), il difensore depositava nuovo atto di costituzione di responsabile civile e, quindi, chiedeva che l’ente pubblico venisse escluso dalla vicenda giudiziaria in qualità di responsabile civile.

La ricostruzione processuale sopra citata è utile per porre l’attenzione su alcuni aspetti, soprattutto processuali, che si possono sintetizzare in una serie di interrogativi per l’operatore operatore del diritto: un soggetto (tra l’altro ente pubblico) può essere presente in un processo penale in qualità di parte civile e, simultaneamente, di responsabile civile per il medesimo fatto di reato? Quali possono essere le ripercussioni di tale “anomalia” sul principio del contraddittorio e sullo svolgimento di tutta l’attività processuale? Il medesimo legale può difendere e rappresentare gli interessi di uno stesso soggetto in entrambi i confliggenti ruoli processuali?

L’azione civile nel processo penale ha fondamento normativo sostanziale e processuale, rispettivamente, nelle norme di cui agli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. che consentono l’ingresso, nel terreno pubblico del processo penale, di pretese civilistiche: le azioni in giudizio per le restituzioni e per il risarcimento del danno avanzate dai soggetti cui il reato ha arrecato un nocumento.

Attraverso la costituzione di parte civile, la persona offesa e, comunque,il soggetto danneggiato dal reato, vedrà come “controparte convenuta” l’imputato; senza escludere, tuttavia, il sub-ingresso, in questo rapporto, di un’ulteriore “soggetto- parte”: il responsabile civile (art. 83 e ss. c.p.p.), il quale, a norma di leggi civili, può essere chiamato a rispondere solidalmente con l’imputato per le conseguenze dannose causate dal reato, proprio sul presupposto dell’esercizio dell’azione civile in sede penale e con l’obiettivo di fornire maggiori garanzie a tutela delle pretese risarcitorie avanzate dal danneggiato.

Resta impregiudicato, in ogni caso, il diritto di regresso, che potrà essere fatto valere attraverso apposita azione in sede civile, da parte del responsabile civile, nei confronti dell’imputato-coobbligato in solido.

Circa la presenza delle cosiddette “parti eventuali” (parte civile e responsabile civile) nel procedimento penale pare fondamentale porre adeguatamente in luce lo schieramento delle medesime nelle dinamiche processuali: in tal senso, è indicativo il dato testuale dell’articolo 83 c.p.p. che letteralmente prevede la citazione del responsabile civile “per il fatto dell’imputato”.

In dottrina si deduce, dalla lettura della suddetta norma, la sussistenza di un litisconsorzio processuale necessario unilaterale1, nel senso che non sarebbe possibile pretermettere l’azione contro l’imputato laddove si voglia chiamare in causa il responsabile civile. Pertanto, attraverso l’intervento di quest’ultimo, si consente e si prevede l’ingresso nel processo penale di un terzo la cui posizione è strettamente correlata e connessa a quella del “convenuto principale”, tanto da rimanere coinvolto nelle vicende processuali che riguardano l’imputato stesso.

E proprio nei confronti del “connubio processuale” - come sopra indicato – si rivolgerà la parte civile al fine di vedere risarcito il danno subito in conseguenza del reato.

Prendendo in considerazione il caso sottoposto all’esame del Giudicante, inoltre, è necessario soffermarsi sui profili di responsabilità della Pubblica Amministrazione per illeciti commessi da propri lavoratori dipendenti.

Si tratta di una forma di responsabilità il cui fondamento risiede nel rapporto di “immedesimazione organica” ente-addetto ed affermata pacificamente dalla giurisprudenza della Suprema Corte la quale, richiamando l’art. 2043 c.c.,

1 Cfr. A CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, Milano, Giuffrè, 1993, 280.

giurisprudenza

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ha ribadito la riferibilità all’amministrazione del fatto lesivo del dipendente quando questo sia e si manifesti come esplicazione dell’attività della P.A. stessa, in quanto diretta al conseguimento dei suoi fini istituzionali nell’ambito del servizio a cui il dipendente è addetto2.

In altri termini, perché l’amministrazione sia chiamata a rispondere per il reato commesso dal dipendente, è necessario accertare l’esistenza di un nesso di “occasionalità necessaria” tra il comportamento doloso o colposo posto in essere dall’agente e le incombenze professionali ed istituzionali affidategli, verificando che la condotta si innesti nel meccanismo dell’attività complessiva dell’ente e che l’espletamento delle mansioni inerenti al servizio prestato abbia costituito conditio sine qua non rispetto al fatto produttivo del danno per averne in modo decisivo agevolato la realizzazione3.

La suddetta riferibilità viene meno, invece, qualora si venga a provare, in sede processuale, il fatto che il dipendente abbia agito per un fine personale, assolutamente estraneo all’amministrazione, tale da escludere ogni collegamento con le attribuzioni proprie del soggetto agente.

Sempre nell’ambito di un’indagine in merito alla eventuale sussistenza di elementi di responsabilità dell’amministrazione, non va trascurata anche l’esistenza di ulteriori profili afferenti a comportamenti omissivi della P.A., essendo possibile addebitare all’ente una culpa in vigilando.

A tale proposito dottrina e giurisprudenza, attraverso l’analisi interpretativa del dettato dell’art. 2049 c.c., hanno rinvenuto in capo ai superiori gerarchici un obbligo di sorveglianza da attuare attraverso l’indicazione di opportune direttive atte a prevenire la commissione di illeciti da parte dei propri sottoposti. Ebbene: la violazione del dovere di vigilanza, mediante omissioni nella predisposizione di siffatte misure di controllo, potrà essere fonte di responsabilità qualora si accerti l’esistenza di un nesso di causalità tra il comportamento medesimo e l’evento dannoso, prodotto proprio sfruttando le lacune esistenti nella rete di sorveglianza.

Per completezza espositiva si evidenzia il fatto che il Giudice, nel testo dell’ordinanza in commento, cita inoltrealcuni spunti di riflessione legati alla “responsabilità degli enti da reato” (di cui al testo del D.L.vo 231/2001) precisando come l’ente chiamato a rispondere nel processo penale ai sensi del D.L.vo 231/2001 “non è soggetto passivo di una pretesa risarcitoria avanzata dalla parte civile”.

Tornando all’analisi della questione centrale affrontata nell’ordinanza in commento, si sottolinea il fatto che il Giudice rileva il corto circuito causato nel sistema processuale, laddove si consenta l’accesso di uno stesso soggetto, in relazione al medesimo fatto, in due ruoli antitetici e incompatibili, quali la parte civile e il responsabile civile: gli interessi di cui sono portatori le citate parti processuali, proprio perché

2 Cfr. Cass. Civ. Sez. III, sent. 22 maggio 2000, n. 6617.3 Cfr. Cass. Civ. Sez. VI, sent. 20 giugno 2000, n. 13048.

diametralmente opposti, esigono una tutela indipendente attraverso l’adozione di linee difensive assolutamente (e necessariamente) inconciliabili.

A sostegno dell’affermazione sopra riportata basterà citare, ad esempio, le istanze totalmente opposte che, in sede di conclusioni all’esito del dibattimento, competono “naturalmente” alla difesa del responsabile civile e a quella della parte civile rispetto alla posizione dell’imputato.

Il caso oggetto del presente breve commento è assai singolare ed offre argomenti per un’ attenta riflessione (anche in relazione agli aspetti di natura deontologica) in merito alla difesa, nello stesso processo, di più parti in conflitto di interessi.

A tale proposito la giurisprudenza ha affermato che “la circostanza che le parti processuali antitetiche (nella specie, parte civile e responsabile civile) siano rappresentate e difese dallo stesso avvocato rende ancor più eclatante il conflitto d’interessi, posto che il professionista, in tale situazione, non sarebbe in condizione di fedelmente difendere gli interessi del mandante, né potrebbe ammettersi un atteggiamento difensivo di ciascuna delle parti in questione improntato all’inerzia ed alla passività rispetto alle iniziative probatorie degli altri soggetti del processo che, di per sé, già comporterebbe una grave violazione del diritto al contraddittorio e del diritto di difesa, costituzionalmente garantiti, oltre a concretizzare una palese mancanza ai doveri professionali connessi al mandato professionale” e ancora “la contemporanea veste di parte civile, nell’ambito del medesimo dibattimento, nei confronti di un imputato e di responsabile civile per il fatto dello stesso imputato, citato dalle altre parti civili, è incompatibile in quanto implica l’interesse a compiere determinate scelte difensive necessariamente fra loro antitetiche ed inconciliabili”4.

Anche la giurisprudenza del Collegio disciplinare forense si è occupata della condotta del difensore che assiste, nello stesso procedimento, più parti in conflitto di interessi ed ha individuato, in capo al professionista che si occupi della difesa di soggetti portatori di interessi obiettivamente confliggenti (si veda, ad esempio, CNF, 27 ottobre 2008, n. 149), la sussistenza della violazione di precisi canoni deontologici.

L’insanabilità del conflitto tra gli interessi rappresentati dalla parte civile e dal responsabile civile nello stesso processo dovrà essere attentamente valutata, pertanto, anche nei possibili risvolti di carattere disciplinare – forense.

dott. Pierfrancesco Brunelli avv. Alessandra Mezzadri

4 Cfr. Tribunale di Milano, 02 febbraio 2009. Da Foro ambro-siano, 2009, 1, 19 (s.m.) (nota di: CAMERA).

giurisprudenza

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