Solo una storia d'amore

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Antonio Sindona, sentimentale

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ANTONIO SINDONA

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Solo una storia d’amore Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Antonio Sindona ISBN: 978-88-6307-xxx-x

In copertina: Immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Dicembre 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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ANDREA 20/12/1980, ore 11. Era lì, aula A della facoltà di giurisprudenza, università di Messina. Diciannove anni, un residuo di acne ancora in viso, capelli scomposti, barba lunga, impermeabile stazzonato stile tenente Colombo e un vago senso di inadeguatezza. Perché l’esame sarebbe stato il giorno dopo, e lui sapeva che non vi sarebbe giunto preparato. Anzi, a dirla tutta, era in quella facoltà che si sentiva fuori luogo. “Ma come fa a chiamarsi ‘introduzione alle scienze giuridiche’ una materia che forse non la capiscono neppure i laureati?” Appena l’anno prima, finito il liceo classico, si era iscritto a legge perché fin da bambino sognava di fare l’avvocato. L’avvocato o il presidente della repubblica. Da come stava messo ora, forse sarebbe stata preferibile la seconda opzione. Dopotutto per fare il presidente non ci vuole la laurea, basta la quinta elementare, anche se bisogna aspettare almeno fino a cinquant’anni. In realtà aveva iniziato l’università così come aveva finito il liceo, svogliatamente. Non è che non volesse studiare, e anzi a scuola alcune materie, poche, le aveva coltivate con passione. È che gli piacevano un sacco di cose, alcune in fondo anche banali, e non gli restava molto tempo da passare sui libri, quelli intesi come testi universitari, perché gli altri li leggeva eccome. All’appello di giugno aveva comunque superato due materie: storia del diritto romano e istituzioni di diritto romano, ventisette e ventitré, neppure troppo male, considerata la pochissima applicazione. Era stato assiduo frequentatore delle affollatissime lezioni, quasi sempre in prima fila sfruttando la benevolenza di molti suoi ex

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compagni di classe, oggi colleghi, che arrivavano per tempo e occupavano i primi posti anche per lui. Aveva profittato di questa apparente diligenza in entrambi gli esami. Nel secondo addirittura, ben sapendo che il professore lo aveva certamente riconosciuto, era riuscito magistralmente a interpretare la parte dello studente molto volenteroso e un po’ tonto, quello che studia tanto e si applica ma proprio non ci arriva. Il professore c’era cascato con tutte le scarpe e piuttosto che bocciarlo, gli aveva dato un voto d’incoraggiamento e parecchi consigli. Poi però era arrivata l’introduzione alle scienze giuridiche e “l’avvio a una definizione assiologica del diritto” …minchia. La difficoltà della materia l’aveva subito depresso e piuttosto che intensificare lo studio si era lasciato andare a una sorta di inerzia. Trascorreva le giornate facendo nulla, passeggiava, ascoltava musica, leggeva e rifletteva sulla vita e sulla sua età, fantasticava sul futuro, sulla ragazza che avrebbe voluto e che non aveva, poi la sera usciva con gli amici. Tutto insomma tranne che studiare. All’appello di settembre, impreparato com’era, aveva rinviato l’esame a ottobre, e da ottobre a dicembre.

Era lì, si era iscritto tra gli ultimi in elenco e stava seguendo le prove dei colleghi per cercare di fiutare l’aria, capire quali fossero le domande più ricorrenti e le risposte migliori da dare, nel tentativo di recuperare qualche nozione in più e possibilmente salvarsi all’ultimo momento. Il fatto è che, nonostante il rush finale, la materia non voleva proprio entrargli in testa. Gli esaminatori poi erano senza cuore, bocciavano a destra e a manca e anche ai promossi mollavano diciotto e venti con sadico gusto. Seduto in prima fila si sentiva tremendamente solo e avrebbe voluto condividere l’ansia con qualche collega. Più che altro cercava qualcuno che approvasse quello che lui pensava: questa facoltà fa schifo, i professori sono dei palloni gonfiati, questa materia è inutile e i libri sono scritti in maniera volutamente incomprensibile. Oltretutto, giusto a voler prendere per il culo gli studenti, è catalogata pure come complementare.

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Conosceva tanti ragazzi in facoltà, ma non era particolarmente legato a nessuno. Studiava da solo e gli amici più cari erano iscritti altrove o frequentavano ancora la scuola. C’erano gli ex compagni del liceo, quasi metà classe si era iscritta a Giurisprudenza, ma dopo un anno qualcuno era già più avanti e altri erano invece rimasti molto indietro, alcuni comunque non li sopportava proprio. “Quasi quasi me vado, tanto ho sentito abbastanza da capire che solo un colpo di culo mi può salvare. Certo mi piacerebbe essere dell’umore di quella bionda della terzultima fila che parla continuamente con quell’altra, sembra che stia a una festa. Che avrà da ridere, proprio non lo so. Però è carina, anzi è proprio bella. Forse è meglio se resto un’altra mezzoretta, tanto anche se vado a casa mica studio. Ora mi ci siedo vicino, così con indifferenza le guardo le gambe, vediamo se sono all’altezza del resto.” Per quel poco che riusciva a vedere, le gambe erano in effetti una meraviglia. Né grasse né magre, muscolose solo quel tanto da renderle ben slanciate, i polpacci torniti, le ginocchia proporzionate, ma soprattutto le caviglie erano perfette. Andrea le aveva sempre ritenute la parte più sexy delle donne, più del sedere, più del seno e di tutto il resto. Vedere una signora accavallare le gambe e mostrare le caviglie lo stuzzicava molto più che vederla completamente nuda. Era capace di restare letteralmente rincretinito a fantasticare avventure erotiche con sfondi di ogni tipo e lui naturalmente assoluto protagonista. Le ragazze della sua età purtroppo, a parte il fatto che portavano quasi sempre i pantaloni, non lo seducevano abbastanza. Tranne quella bionda. Se ne stava seduta lì accanto con una gonna marrone al ginocchio, le gambe accavallate e le caviglie ostentatamente in vista che dondolavano leggermente. Pareva quasi farlo apposta, o forse lo faceva veramente apposta. In ogni caso, Andrea ne era sicuro, ogni tanto lo guardava. Di sfuggita, una frazione di secondo mentre parlava con l’altra, ma lo guardava. E adesso che fare? Era quasi mezzogiorno, tra poco avrebbero sospeso gli esami della mattina. Bisognava attaccare discorso, trovare un’idea per agganciarla, avviare uno straccio di conversazione, fare qualcosa insomma. Andrea era passato in un attimo dalla depressione preesame alla confusione più totale.

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Non era mai stato intraprendente con l’altro sesso. A dirla tutta, nei rapporti che aveva avuto sino a quel momento erano sempre state le ragazze a mostrarsi disponibili fino quasi a obbligarlo a dichiararsi. Aveva così scoperto che la sua naturale ritrosia, la riservatezza, l’aria un po’ trasognata, incuriosivano moltissimo e funzionavano meglio di qualunque approccio. Ma tutto questo andava bene in una comitiva, nell’ambito di un gruppo in cui avevi modo di vedere a lungo una ragazza. Qui invece il tempo scarseggiava, bisognava cogliere al volo una qualunque opportunità, altrimenti addio bionda. E tuttavia niente da fare, più cercava qualcosa di originale per rompere il ghiaccio, più annaspava nel buio. Si stava ormai facendo l’una e ancora non si decideva, restava seduto a una poltrona di distanza muto e rigido come uno stoccafisso. Però era sicuro di aver suscitato un certo interesse. La bionda aveva ricominciato a parlare con l’altra che sembrava quasi conoscerlo e ogni tanto si voltava a guardarlo. Gli sguardi si erano incrociati più di una volta e aveva la sensazione che volesse tacitamente incoraggiarlo a prendere l’iniziativa. Ma forse si ingannava.

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DANIELA 20/12/1980, ore 11. Era lì, Aula A della facoltà di Giurisprudenza, Università di Messina. Vent’anni, un bel corpo finalmente slanciato al punto giusto, passato attraverso la robustezza dell’adolescenza e però via via migliorato fino alla forma attuale, capelli biondo cenere tagliati a scalare, perfetti per il suo viso, e una consapevolezza tutta nuova di sentirsi bella e ammirata. Era già al secondo anno e quindi un po’ indietro, anzi molto indietro, con gli esami. Doveva dare ancora quella maledetta introduzione alle scienze giuridiche che la stava facendo penare. Di materie ne aveva superate quattro e il fiore all’occhiello era economia politica, costata enormi sacrifici e un quasi esaurimento nervoso. Che ne sapeva lei, con la sua maturità classica, di grafici, formule algebriche ed equazioni! Comunque, col senno di poi, doveva riconoscere che quella materia le era giovata parecchio, perché l’avvilimento l’aveva portata, quasi senza accorgersene, a perdere gli ultimi chili di troppo. Negli anni del liceo era stata femminista, di quelle che non perdevano un corteo e cantavano gli slogan alle manifestazioni. A lungo aveva indossato sempre e soltanto la divisa d’ordinanza della brava militante: gonna lunga sformata a fiori, o in alternativa blue-jeans, scarpe basse, camicetta e maglione di lana grossa molto consumato e possibilmente anch’esso sformato. All’Università non aveva rinnegato le sue convinzioni, ma aveva comunque deciso di svoltare, anche perché nonostante il gran parlare lei era sempre rimasta ai margini della rivoluzione sessuale e della libertà che gridava nelle strade ai cortei. Che male c’è, in fondo, a mostrarsi più carina, a pettinarsi meglio e a curare l’aspetto fisico? Da qualche tempo frequentava una piccola comitiva che non aveva niente a che vedere con le vecchie conoscenze della scuola.

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I ragazzi erano tutti più grandi, laureandi o già laureati e anche benestanti. Il sabato sera si usciva a cenare fuori. Al ristorante naturalmente, e vestiti bene. Gli anni del liceo sembravano lontanissimi e non le mancavano. Quando però si fermava a riflettere sui cambiamenti in corso nella propria vita non sempre riusciva a concludere di aver intrapreso la strada migliore. Una parte di lei era appagata di se stessa, l’altra, quella forse più vera che si risvegliava solo a volte, le provocava inquietudine e la sensazione di vivere una vita non completamente sua, fatta di rapporti superficiali e di convenzioni. Una vita recitata più che vissuta. A diciotto anni suonati, ed era ora, aveva avuto il suo primo ragazzo incominciando la sua personale rivoluzione e liberazione sessuale. Gli amici che frequentava però, a ben rifletterci, erano tutti ottime persone, ma troppo perfettini e anche un po’ noiosi. Si parlava soprattutto di studio e Università e poi ancora di sistemazione professionale, di sbocchi e carriere. Tutti serissimi argomenti che purtroppo non riuscivano ad appassionarla. Lei invece, a dire il vero, non aveva ben chiaro il suo futuro anteriore e neppure quello prossimo. A volte era graniticamente certa che si sarebbe laureata, altre aveva l’impressione di studiare solo per occupare il tempo nell’attesa di chissà cosa. Non era sicura di volersi veramente impegnare per tutti gli anni necessari, soprattutto pativa oltremodo la tensione e lo stress dell’esame e poi, a dirla tutta, non era completamente convinta di aver fatto la scelta giusta. Certo l’immagine di se stessa a trent’anni, giovane e brillante avvocatessa o abile investigatrice in polizia, la affascinava enormemente, ma il solo pensiero che per arrivarci avrebbe dovuto sopportare la tragedia di altri diciassette esami la atterriva. Comunque era lì, e l’indomani si sarebbe seduta su una di quelle tre poltroncine davanti a quegli stronzi che pareva provassero piacere solo quando bocciavano qualcuno. La materia l’aveva studiata, era preparata ma terribilmente nervosa, e sapeva che quando era nervosa esagerava. In tutto. Parlava a voce alta, rideva per nulla, si agitava. Aveva pensato di venire un giorno prima per verificare la preparazione seguendo le prove dei colleghi, ma era soltanto riuscita a parlare, anzi a cazzeggiare tutto il tempo, con Francesca, la sua amica e compagna di studio.

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Stava quasi per andarsene quando le si era seduto accanto quel tipo decisamente improbabile. Capelli indefinibili, non lisci non ricci e neppure ondulati, cespugliosi piuttosto, brufoli da quindicenne, barba vergognosamente non rasata almeno da due settimane e impermeabile modello Humphrey Bogart in Casablanca, nella scena dell’addio a Ingrid Bergman. Era sicura che la stesse guardando già da un po’, cercava di sorprenderlo ma lui si girava dall’altra parte. Aveva accavallato le gambe e ora dondolava la caviglia, quasi mettendosi in mostra, certa che lui fosse interessato all’argomento. Non le dispiaceva affatto che le guardasse le gambe, provava anzi il sottile piacere della seduzione. Mai e poi mai avrebbe immaginato qualche anno prima ai collettivi e nelle riunioni studentesche di riuscire a fare qualcosa di minimamente paragonabile a questo, e di divertirsi per giunta. Del resto con la gonna lunga a fiori e le polacchette sarebbe stato altamente improbabile.

«Ti dice niente questo tizio seduto accanto?» «Lo conosco di vista, andava a scuola al Maurolico, dovresti ricordartelo pure tu. Perché ti interessa?» «Perché se ne sta seduto a una poltroncina di distanza, muto e fermo che pare imbalsamato, e ogni tanto mi guarda.» «Certo come no, la donna fatale. A me pare piuttosto che abbia lo sguardo perso nel vuoto, sarà atterrito per gli esami, come tutti del resto. Però non è male, le occhiaie gli arrivano sotto il naso ma nel complesso ha un suo fascino.» «Appunto, il fascino dell’orrido!» «Non è vero, anzi quell’aria un po’ sbattuta gli dona, se poi togli qualche stravaganza, tipo l’impermeabile come quello di mio nonno, devi ammettere che ha delle qualità. Gli tagli la barba, gli sistemi in qualche modo i capelli, gli metti addosso un abbigliamento decente e diventa carino.» «Comunque deve essere povero.» «Perché?»

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«Non lo so, non che mi importi. Però veste male, è dimesso, sembra che non se la passi troppo bene.» «Magari invece è ricchissimo e lo fa apposta per acchiappare quelle come te che si incuriosiscono. Guarda che l’ho capito che ti piace.»

Era quasi l’una e avevano già chiamato i candidati degli ultimi esami della mattinata. Fra poco sarebbero andati tutti a casa, compreso lo strano personaggio che pareva osservarla. Daniela faceva di tutto per incrociare il suo sguardo, quasi incoraggiandolo a dire qualcosa, qualunque scemenza per iniziare un minimo di conversazione.

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La storia d’amore

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I «Devi fare esami oggi?» «No, domani mattina, probabilmente sul tardi. Dipenderà tutto dalla percentuale di assenti e bocciati lampo. Sono il numero 100.» «Con quella barba di due settimane non ti faranno nemmeno sedere.» «Quella me la taglio domani.» «Oltre alla barba potresti anche darti una pettinata. Lo dico per te, aumenteresti senz’altro le tue chances.» «Lo terrò a mente. Tu invece?» «Anch’io devo fare esami domattina, sono il numero 103, la mia amica è il 104.» Il ghiaccio era rotto, ora però bisognava continuare e qui le cose si complicavano non poco. Dopo le ultime parole di Daniela era calato di nuovo il silenzio, il cervello di Andrea lavorava freneticamente alla disperata ricerca di qualcosa di originale per continuare a chiacchierare, aveva quasi l’impressione di sentire il rumore delle rotelle che giravano vorticosamente nella sua testa senza produrre alcun risultato apprezzabile. “Sto facendo la figura dell’idiota.”

Daniela era dubbiosa. Aveva preso l’iniziativa ma ora non sapeva decidersi. Lui rimaneva di nuovo zitto e lei non capiva. Forse aveva esagerato, la battuta sui capelli poteva risparmiarsela, oppure molto semplicemente non era così interessato come a lei era parso. Aveva ragione Francesca, ultimamente tendeva a sopravvalutarsi. Era un atteggiamento sbagliato, lo sapeva, del tutto contrario a quello troppo dimesso di prima.

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Col tempo avrebbe trovato la giusta misura, ma intanto le piaceva così. Aveva la sensazione di sentirsi come il brutto anatroccolo che finalmente diventa un cigno. Fino al ginnasio i suoi l’avevano praticamente marcata a vista. Veniva accompagnata a scuola e riportata a casa dai genitori della sua amica del cuore. Entravano e uscivano dall’edificio sempre e soltanto dalla porta secondaria. A parte i compagni di classe, e solo per il tempo che trascorreva in aula, non aveva avuto una conoscenza maschile. Aveva il permesso di uscire unicamente nel pomeriggio e soltanto con alcune amiche, più imbranate di lei. Alle otto di sera poi scattava il coprifuoco. Quello era l’orario in cui rientrava dal lavoro suo padre. Al liceo aveva cambiato scuola e conquistato un po’ più di libertà. Con i nuovi compagni era poi scattato l’impegno politico: riunioni, collettivi, lotta per la parità, cortei e manifestazioni. Quegli anni però non l’avevano convinta del tutto, la spregiudicatezza delle idee e dei discorsi restavano in superficie senza attraversarla. In ogni caso, passato il liceo, l’aveva fatta finita con tutto. Era pure dimagrita e si era lasciata crescere i capelli. Sentiva di essersi ormai liberata dalle scorie di una educazione troppo repressiva, così come dalle esagerazioni studentesche.

Andrea intanto era come paralizzato. Succedeva sempre così, ogni volta che una ragazza gli piaceva, e solo di recente aveva imparato a fare di necessità virtù. Con le ragazze non ci provava più nel senso classico del termine, aveva capito che forse valeva la pena di assecondare la sua natura. Insomma piuttosto che dire scemenze per far colpo, meglio star zitto. L’estate precedente, al campeggio, era stato l’unico fra gli amici della sua combriccola a farsi una ragazza, Alessandra, proprio in questo modo. L’aveva avvicinata per primo il suo amico Giovanni piantando la bandierina di conquista come al risiko. Andrea per lealtà verso il compagno, nonostante si sentisse attratto da lei, si era fatto da parte. Sciolto dall’obbligo di dover essere simpatico e divertente a tutti i costi, se ne stava quasi sempre zitto o lasciava la comitiva e se ne andava per fatti suoi. Dopo un po’ si era ritrovato Alessandra dappertutto. Andava a farsi la doccia ed era lì, scendeva in spiaggia da solo e lei arrivava e

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stendeva l’asciugamano accanto al suo, passeggiava in pineta e gli si materializzava a fianco. Finché una sera l’aveva baciato confessandogli di essere attratta da lui, di aver capito che era diverso da tutti gli altri, che era sensibile e sognatore come lei. Andrea naturalmente non l’aveva contraddetta, anche perché in cuor suo sapeva che in fondo era veramente così. In ogni caso aveva concluso che le donne sono proprio strane: mezza popolazione maschile del campeggio andava dietro ad Alessandra, il suo amico ci perdeva il sonno, e lei si invaghiva dell’unico ragazzo che apparentemente non sembrava interessato a lei. La storia non era sopravvissuta alla vacanza ma gli aveva fatto proprio bene. Adesso però in quell’aula era combattuto, da una parte credeva di star facendo una monumentale figura di merda e temeva di perdere l’ennesima occasione, dall’altra percepiva, fiutava che forse andava bene anche così. Tutto sommato era stata lei a prendere l’iniziativa e ora sembrava quasi che lo stesse pesando, sentiva addosso i suoi sguardi che lo trapassavano, aveva la netta sensazione che lei stesse valutando l’eventualità di continuare, o finirla lì.

«Senti sono stanca, me ne vado a casa. Tu resti o vieni via?» «Vengo anch’io, tanto qui per stamattina non c’è altro da vedere.» «Io vado a piedi, abito poco oltre piazza Cairoli. Tu?» «Io no. Cioè io abito più in periferia, ma ho la macchina vicino alla piazza, posso accompagnarti per un po’.» «Cosa fai nella vita? Voglio dire oltre a lasciarti crescere la barba e a non curarti i brufoli.» «Niente di particolare, quello che fai anche tu. Studio, vorrei laurearmi e fare l’avvocato. Però…» «Però cosa?» «Giurisprudenza fino a oggi è stata una grandissima delusione.» * * * Daniela, salutato Andrea, si era diretta verso casa. In realtà non era così vicina come gli aveva lasciato credere, ma non voleva che lui la

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accompagnasse fin sotto al palazzo. Non lo conosceva abbastanza, anzi non lo conosceva affatto, ora che ci pensava non sapeva neppure il suo nome. Non glielo aveva chiesto e lui ovviamente non glielo aveva detto, visto che a quanto pare parlava solo se interrogato. Camminando si specchiava nelle vetrine del viale San Martino e si sorprendeva a sorridersi. Proprio così, passeggiava senza fretta, si guardava riflessa e rideva. Eppure non avrebbe dovuto. Era a meno di ventiquattrore dall’esame. Il rigido copione delle precedenti vigilie aveva sempre messo in scena stomaco chiuso, crampi, nausea, capogiri, depressione e voglia di morire. Fino a prima mattinata tutto si era svolto secondo normalità. Dopo colazione aveva vomitato poi, quando i crampi allo stomaco erano diventati insopportabili, si era affidata alla solita pillola e infine, prima di andare in facoltà, aveva preso le canoniche venti gocce per il mal di testa. Ora invece stava benissimo, aveva anche fame.

Andrea, appena lasciata Daniela, era tornato indietro lungo la stessa via. La macchina in realtà l’aveva parcheggiata vicino alla circonvallazione, esattamente all’opposto di piazza Cairoli. Aveva mentito per poterla accompagnare. Quella bugia, a ben pensarci, era stata l’unica alzata d’ingegno di tutta la mattinata. Comunque era certo di averla, se non conquistata, almeno incuriosita. Come si chiamava? Non lo sapeva. Possibile? Possibile sì, visto che non le aveva neppure chiesto il nome. E nemmeno le aveva detto il suo. Forse non era partito troppo bene. Ma domani si sarebbero certamente rivisti. Mentre camminava aveva netta, precisa, stampata nella mente l’immagine di lei. E gli piaceva. Però tutto quel tempo da trascorrere prima della mattina seguente diventava un problema serio. Sapeva di dover studiare duramente per cercare di migliorare in extremis la preparazione, ma per farlo avrebbe dovuto smettere di pensare a quella ragazza e non era certo di riuscirci. Era invece sicuro che si sarebbe arreso senza condizioni, abbandonandosi a sognare a occhi aperti.

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II Ore dieci, Aula A della facoltà di giurisprudenza, la stessa del giorno prima. Andrea era lì dalle otto e trenta, invano intento a concentrarsi sullo studio. Le venti ore precedenti erano state un incubo. In famiglia tutti avevano capito che qualcosa non andava. Durante il pomeriggio la mamma, con le scuse più banali, era entrata e uscita dalla sua stanza trovandolo sempre con i gomiti appoggiati alla scrivania, le mani a reggere il capo e lo sguardo perso nel vuoto. Sua sorella, già laureata, si era offerta più volte di farlo ripetere, ma lui aveva decisamente rifiutato. Il padre per fortuna lavorava fino a tardi e comunque era sempre molto discreto. Fino a sera insomma era rimasto inebetito sui libri o a ciondolare per casa. A cena poi aveva mangiato come un lupo, cosa che faceva sempre quando aveva qualche problema, ed era andato subito a letto sperando di riuscire a dormire e poi svegliarsi al mattino presto per ripassare. La nottata invece era stata tremenda, si era girato e rigirato inutilmente senza prendere sonno, aveva l’impressione di non essersi addormentato un solo minuto. L’aveva pensata e immaginata in ogni situazione e con tutte le possibili varianti: lei che gli dichiarava il suo amore; lei che stava con un altro ragazzo e lui li vedeva baciarsi; lei che lasciava l’altro per lui; lei che tornava con l’altro lasciando lui. E poi: loro due insieme; loro due che facevano l’amore; loro due che si sposavano. E ancora: lei che lo tradiva spudoratamente; lei che pensava che lui la tradisse, ma non era vero perché lui amava solo lei. Alle sei e mezzo di mattina aveva preso il libro solo per compiacere sua mamma lasciandole intendere che stava ripassando la materia. Alle sette e mezzo aveva deciso di sbrigarsi per uscire. Si era fatto la barba, tagliandosi più del solito, e poi aveva indossato la tenuta da esame: pantalone blu scuro, camicia azzurra con i bottoni al

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colletto e maglione girocollo, blu pure quello. Aveva lasciato perdere i capelli, tanto non era cosa, ed era uscito. La facoltà doveva ancora aprire e lui si trovava già lì. Seguiva gli esami con l’occhio incollato all’entrata per vederla arrivare. Alle dieci e trenta ancora niente. Cominciava a temere che le fosse successo qualcosa. Alle dieci e quarantacinque, quando lui era già quasi nel baratro, Daniela era entrata insieme alla sua amica, l’aveva visto e gli si era seduta accanto.

«Ma che faccia hai? Sembri uno zombie.» «In effetti non ho dormito molto stanotte, ho cercato di ripassare.» «Io invece no, credo di essere abbastanza preparata e poi all’ultimo momento non si conclude mai niente.»

Veramente Daniela non aveva quasi studiato. All’ora di pranzo era tornata a casa e aveva mangiato di gusto, la prima volta che accadeva alla vigilia di un esame. Aveva visto un po’ di televisione ed era andata a riposarsi. Nel pomeriggio, dopo due ore di sonno, cosa anche questa fuori dal comune, aveva chiamato Francesca ed era rimasta incollata al telefono. L’argomento di conversazione, manco a dirlo, era stato lui. Francesca aveva detto che era carino. E poi quell’aria indefinibile. Sembrava un intellettuale che vivesse fra le nuvole. Comunque aveva la faccia da gatto, sì, sembrava un gatto. Che età aveva? Il fisico non era male, un po’ bassino ma proporzionato, troppo magro forse. Ma dopotutto meglio magro che grasso. Peccato per quei brufoli. Però non erano molti, se ne sarebbero andati. Finito con Francesca, tramortita dalle chiacchiere, verso le sei di pomeriggio si era seduta finalmente alla scrivania. Ma aveva concluso zero. Senza prendersela, però. A sera, novità assoluta prima di un esame, aveva cenato regolarmente con i suoi.

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Sua mamma, testimone muta e dolente di tutte le vigilie tristi, non sapeva raccapezzarsi. La vedeva fare cose mai fatte, la sentiva ridere al telefono, e la guardava esterrefatta mangiare con appetito. Più di una volta le aveva chiesto se per caso non avessero rinviato gli esami, o avesse deciso di non presentarsi. Quell’atteggiamento non la convinceva, c’era sotto qualcosa. Lei comunque era andata a letto presto come ogni volta e aveva faticato a prendere sonno, ma non per la paura dell’esame. La mattina si era alzata fresca e riposata. Appena sveglia in effetti, passato lo stato di grazia del giorno prima, la paura dell’esame l’aveva azzannata, ma non come le altre volte. Non aveva vomitato, né era stata preda dei soliti crampi. Dopo colazione aveva preso i libri ed era persino riuscita a ripassare qualcosa. Verso le dieci e mezza, con calma, era uscita di casa. Tanto l’esame non sarebbe stato prima dell’una o addirittura nel pomeriggio.

«Come ti sei vestito? Sembri un becchino.» «Per essere più serio, mi sono anche fatto la barba.» «E ti sei tagliato tutta la faccia. E i capelli?» «Per quelli non c’è speranza meglio lasciarli così.» «Allora hai ripassato?» «Poco.» «Come ti senti?» «Mi sento che non so un cazzo.» «Scusa ma perché vuoi fare l’esame? Rinvia a febbraio.» «Non posso, ho già rinviato a settembre e poi a ottobre. Se non faccio l’esame corro il rischio di non poter più tornare a casa.» «Addirittura?» «Nella mia famiglia su queste cose si scherza poco. Mia sorella più grande si è già laureata, in corso e brillantemente, il suo ragazzo pure. Tutti e due in giurisprudenza. Se consideriamo i parenti stretti, e sono tanti, quasi tutti i miei cugini più grandi hanno preso la laurea col massimo dei voti. Non ho scampo.» «Ma non è peggio se ti bocciano?» «No. Posso sempre raccontare di essermi confuso o che il professore mi ha fatto cadere su un argomento che non era nel programma. Anche se è molto difficile che se la bevano.»

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«Insomma non stai messo bene.» «Puoi dirlo.» «Aspetta, stanno dicendo qualcosa.» “Per questa mattina gli esami chiuderanno con il numero cento, i candidati dal numero centouno al centoventi dovranno ripresentarsi nel pomeriggio a partire dalle quindici.” «Meglio così almeno mi cavo il dente subito.»

Alle dodici e quarantacinque era stato chiamato, ultimo studente della mattinata. Nella prima risposta aveva confuso qualcosa ma era passato indenne, alla seconda erano incominciati i guai, la terza aveva sancito il crollo. Bocciato in meno di un quarto d’ora. Daniela non era andata via. Aveva aspettato al suo posto che lui finisse.

«È andata male.» «Infatti. Scusami, me ne voglio andare subito.» «Aspetta, parliamo da due giorni e non ci siamo nemmeno presentati.» «Hai ragione, Andrea Scuderi.» «Piacere, Daniela Giordano.» «Allora ciao, in bocca al lupo per i tuoi esami.»

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III Ma che gli era preso, era andato via come un fulmine quasi senza salutarla. Se lei non glielo avesse detto, non avrebbe saputo neppure il suo nome. Avrebbe potuto seguire i suoi esami nel pomeriggio e invece non aveva fatto neanche quello. La bocciatura l’aveva reso furioso. Ma perché? In fondo era prevedibile. Anzi, vista la poca preparazione, era la cosa più probabile. E allora perché se l’era presa così tanto? Non riusciva a darsi una spiegazione logica. Ma dentro di sé sapeva che la risposta era lei. Era per lei che avrebbe voluto superare la materia. Non voleva ammetterlo ma si sentiva umiliato, si rivedeva seduto davanti alla cattedra a farfugliare in preda alla confusione più totale e avrebbe voluto spararsi. È vero, glielo aveva detto di non essere preparato. Ma lui non era quel ragazzo balbettante e impaurito cui il professore aveva restituito con disprezzo il libretto universitario. Era di più e di meglio. E correva il rischio di non farglielo sapere mai. Si sarebbe dovuto fermare un poco, accompagnarla a casa come il giorno prima e magari aprirsi di più, spiegarle i suoi pensieri, raccontargli di lui. E invece niente. La vergogna e l’umiliazione della bocciatura l’avevano sopraffatto e non era stato capace di riprendere al volo la situazione. Sentiva di avere un talento naturale nel fare sempre le scelte sbagliate. E adesso? Sapeva solo il nome e che abitava dalle parti di piazza Cairoli. Era molto probabile, se avesse superato l’esame, che dopo le vacanze di Natale avrebbe cominciato a seguire le lezioni di diritto privato. Anche lui se le sarebbe sciroppate. Forse non tutto era perduto.

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Se poi non l’avesse vista alle lezioni, si sarebbe messo a pattugliare giorno e notte i dintorni del viale San Martino, prima o dopo l’avrebbe certamente incontrata di nuovo. In famiglia comunque non era andata troppo male. La colpa della bocciatura se l’era beccata il professore che l’aveva fatto cadere su una domanda incomprensibile. Sua sorella gli aveva retto il gioco dichiarando che quello era un vero stronzo che faceva sempre così e sua mamma non si era lamentata troppo, anche se Andrea aveva capito che era ormai arrivata al limite della tolleranza. In casa non erano troppo abituati a bocciature e voti bassi, dopo la tregua armata di Natale la mamma sarebbe certamente partita all’attacco con le prediche. Tutta colpa di Valeria, così si chiamava sua sorella, che aveva avuto una carriera scolastica e universitaria brillante che lui, fratello più piccolo, era sempre stato costretto a inseguire. In realtà erano molto simili e la differenza d’età di quasi cinque anni non s’avvertiva più. Andrea si confidava con lei e le aveva rivelato di aver conosciuto una ragazza bellissima.

Daniela aveva lasciato l’aula sconcertata. Va bene che era stato bocciato e non poteva certo fare salti di gioia, però liquidarla così! Non glielo avesse chiesto lei, neppure il suo nome le avrebbe detto. Era tornata in facoltà al pomeriggio molto meno determinata di alcune ore prima. L’aveva cercato con lo sguardo ma lui non c’era. A casa, all’ora di pranzo, era riuscita a mandar giù solo pochi cucchiai di pastina, che naturalmente aveva vomitato subito. Prima di presentarsi all’esame aveva dato fondo a tutta la farmacia che si portava nella borsa per ogni evenienza. Lo stato di grazia delle ultime ventiquattrore era improvvisamente svanito. La tensione, salita via via con l’approssimarsi della chiamata, aveva fatto sì che si sedesse infine davanti alla cattedra preda del solito nervosismo.

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Il docente per fortuna non era tra i più cattivi, aveva cercato subito di tranquillizzarla e così erano trascorsi senza danni i primi minuti che per lei si rivelavano sempre decisivi. L’esame era così andato liscio fino alle domande finali, quelle sul negozio giuridico. Lì si era inspiegabilmente confusa e al professore non era rimasto che promuoverla nella parte generale della materia, con l’esclusione del negozio per il quale avrebbe dovuto presentarsi all’appello successivo. Nonostante tutto era molto soddisfatta. Il negozio giuridico in fondo rappresentava solo una piccola parte che avrebbe potuto tranquillamente ripassare qualche settimana prima dell’appello di febbraio. L’incubo introduzione, intanto, era svanito. Adesso l’aspettavano le feste di Natale e poi, a gennaio, una bella settimana bianca. Prima dell’esame infatti aveva preso un mezzo accordo con Rosanna, la cugina di Brescia. Sarebbero andate a sciare al Passo del Tonale se lei fosse stata promossa.

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IV Il panico prima e la soddisfazione subito dopo avevano momentaneamente accantonato Andrea dalla mente di Daniela, ma quella faccia e quell’espressione da gatto erano prepotentemente tornate ad affollare i suoi pensieri quando tutto era finito. Trascorsi ormai due giorni dall’esame, si aggirava indolente per la casa, si sdraiava sul letto per leggere qualcosa, accendeva lo stereo, poi la televisione, senza riuscire a trovar pace. Aveva voglia di rivederlo, sentiva la sua mancanza. Tutto questo era illogico. Come poteva aver bisogno di qualcuno che conosceva così poco? Ma intanto era così. Doveva prendere atto della situazione. Voleva rivederlo e avrebbe trovato il modo. Quei due giorni d’attesa poi l’avevano convinta che se avesse aspettato lui, sarebbero arrivati alla laurea prima di parlarsi di nuovo. Bisognava ancora una volta prendere l’iniziativa. Daniela però non sapeva dove abitava, qual era il suo telefono e come rintracciarlo. Nella sua mente si accavallavano disegni e strategie ma non veniva a capo di nulla. Finalmente, sentita Francesca, che peraltro era stata promossa per intero e non “quasi” come lei, aveva escogitato un piano e si accingeva a metterlo in pratica.

«Pronto, buongiorno, mi scusi se la disturbo. Ho bisogno di parlare con Andrea.» «Chi è lei? Andrea è mio marito.»

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«Allora forse ho sbagliato numero, io cerco un ragazzo giovane, non sposato.» «Senti, parlagli tu a questa, che non ho capito niente.» «Pronto, chi è al telefono?» «Mi chiamo Daniela, volevo parlare con Andrea ma forse ho sbagliato.» «Ma chi è questo Andrea che cerca?» «È un ragazzo sulla ventina, bruno, magro, studente universitario.» «E cosa studia?» «Legge.» «Vuole dire avvocato?» «In un certo senso.» «Allora è mio nipote Andrea, il figlio di mio fratello. È bravo sa, studia da avvocato.» «Mi aveva dato il suo numero di telefono ma l’ho perso...» «Non si preoccupi, glielo do io. È il numero di mio fratello, suo papà.» «La ringrazio tantissimo è veramente gentile.» «Si immagini. Lo chiami pure e me lo saluti, che è tanto che non si fa sentire.»

Centro al primo colpo. Il magico piano partorito dalla brillante mente di Daniela prevedeva in realtà nient’altro che l’organizzazione di una festa a casa sua tra Natale e Capodanno, magari il ventisette, e ovviamente l’invito ad Andrea per poterlo rivedere. L’impresa più ardua era rintracciarlo. Ma lei non si era scoraggiata. Aveva semplicemente deciso di prendere l’elenco telefonico e di chiamare tutti quelli che facevano Scuderi di cognome.

«Pronto.» «Buongiorno signora. Sono Daniela, un’amica di Andrea, potrei parlare con lui?» «Mio figlio non è in casa, torna stasera. Ma lei è forse una nuova amica di Conca d’oro?» «Conca d’oro? No, io… ci siamo conosciuti in facoltà.»

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«Allora è una collega d’Università?» «Proprio così. Abbiamo fatto esami insieme.» «A lui sono andati male purtroppo.» «Lo so signora. Ma non è colpa sua. Anch’io ho avuto dei problemi e l’ho passata per un pelo, i professori sono delle iene.» «Ma intanto lui sta restando già indietro.» «Recupererà, non si preoccupi…»

Non poteva crederci. Era rimasta a chiacchierare più di mezz’ora al telefono con sua madre. Andrea in famiglia doveva essere chiuso come un riccio, perché le era parso che quella signora fosse entusiasta di poter parlare finalmente di lui e anche ansiosa e preoccupata di saperne un pochino di più della sua vita privata. Le aveva perfino chiesto alcune cose di lui che lei non poteva certo sapere, ma se l’era cavata benissimo. Era certa che sua mamma avesse frainteso qualche affermazione, convincendosi che fra di loro ci fosse qualcosa più di un’amicizia. Ma era stato veramente un fraintendimento, oppure era lei che glielo aveva lasciato credere? Non importava. Aveva appreso a sua volta tante cose di Andrea. Adesso sapeva che si vedeva sempre con gli stessi amici, quelli di Conca d’oro appunto, il nome del complesso di case dove abitavano. Che era un ragazzo molto sensibile. Che ascoltava un sacco di musica. Che non parlava molto e all’apparenza sembrava quasi scontroso, ma non era vero. Che avrebbe dovuto imparare a essere più concreto, meno sulle nuvole, e studiare di più per il suo futuro. Daniela era soddisfatta. Si sentiva felice. Non si nascondeva più la verità. Quel ragazzo le piaceva, e ora le piaceva pure sua madre. Aveva detto della festa a casa sua e aveva lasciato il numero di telefono per confermare. Sicuramente l’avrebbe chiamata l’indomani.

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V «Andrea.» «Sì mamma.» «Ha chiamato la tua amica, ti ha invitato a una festa a casa sua per il ventisette.» «Quale amica, mamma? Quale festa?» «La tua collega d’università, Daniela. È tanto simpatica, una gran chiacchierona, non come te.» «Daniela Giordano?» «Il cognome non me lo ricordo.» «Ma che ti ha detto di preciso?» «Se vuoi andare a questa festa, e ha lasciato il numero di telefono per chiamarla. Poi ci siamo messe a chiacchierare un po’. Abbiamo parlato di tante cose.» «Come, scusa?» «Sì, abbiamo fatto tanti discorsi, abbiamo parlato anche di te. Tu non mi dici mai niente… e poi questa tua amica, perché non me la fai conoscere? Sei sempre così chiuso!» «Mamma io, cioè lei, noi non… insomma niente, dammi il numero che più tardi la chiamo.»

Non riusciva a capacitarsi. Aveva passato due giorni cercando di immaginare un modo per rivederla presto, perché non voleva aspettare fino a dopo l’Epifania. Si era sfinito inutilmente a girare nei pressi di piazza Cairoli sperando di incontrarla per caso e lei invece aveva chiamato direttamente a casa, parlando perfino con sua madre.

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Era compiaciuto che lo avesse cercato e nello stesso tempo sinceramente ammirato dalla sua intraprendenza. A questo punto era chiaro che lui non gli era indifferente, e ciò lo riempiva di gioia.

«Buongiorno signora, sono un amico di Daniela. Posso parlarle?» «Mi dispiace, mia figlia è uscita.» «Sa quando torna?» «Veramente non lo so di preciso. È la vigilia di Natale, è andata un po’ in giro per gli ultimi regali. Sa, ci sono i nostri parenti che vengono da fuori. Ma lei doveva dirle qualcosa di importante?» «Dovevo confermare che vengo alla festa.» «Allora lei è Andrea. Mia figlia aspettava la sua telefonata stamattina. Ora è fuori ma mi ha incaricato di riferirle, se avesse chiamato, che la festa è alle ventuno e trenta del ventisette. Aspetti che le do l’indirizzo preciso.»

Idiota, stupido idiota, fesso. Non l’aveva chiamata di mattina perché era un cretino. Appena alzato si era detto che era troppo presto, poi aveva comprato delle cose per sua madre e quand’era tornato aveva deciso che era troppo tardi. Questa era la versione dei fatti che raccontava a se stesso cercando di convincersi. La verità, invece, era che ci aveva pensato su tutta la mattinata a quella maledetta telefonata, a cosa dire, al tono da assumere, a come giustificarsi per essere andato via di corsa il giorno dell’esame, e ogni volta che gli sembrava di esser pronto prendeva l’apparecchio ma poi lo rimetteva subito giù per cercare ancora di meglio. Voleva trovare frasi a effetto, far bella figura, voleva piacerle, e più voleva e più pensava, e più pensava e più il tempo passava, quando finalmente aveva trovato il coraggio erano già le cinque di pomeriggio. Fesso, fesso, fesso.

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Lei si aspettava prima quella telefonata e chissà com’era rimasta delusa. Adesso con Natale e Santo Stefano di mezzo era inutile cercarla. Avrebbe potuto parlarle e rivederla solo alla festa.

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VI Portone di casa Giordano. Andrea era lì davanti, perfettamente in orario, troppo in orario, alle feste si deve arrivare sempre un pochino in ritardo. Era uscito da casa con notevole anticipo, lungo la strada aveva cercato inutilmente di rallentare e perdere tempo, ma non c’era stato verso, i semafori pareva glielo facessero apposta, appena si avvicinava passavano subito al verde, e le altre autovetture sembravano sparite. Stava dentro alla macchina sotto casa di Daniela da più di un quarto d’ora e ancora non si decideva a suonare. Per fortuna, mentre rifletteva sul da farsi, aveva visto Francesca suonare al campanello e in un attimo si era aggregato.

«Siete venuti insieme?» «No, ci siamo visti al portone. Come stai? Te lo ha detto tua mamma che ti ho chiamato? Ho saputo che hai passato l’esame. Complimenti.» «In realtà devo ripetere il negozio giuridico, ma comunque va bene lo stesso. Perché non mi hai chiamato di mattina? Magari dopo si usciva insieme.» «Idiota.» «Cosa? Non ho sentito.» «Niente. Che si fa stasera, si gioca a carte?» «Secondo te? Il ventisette dicembre con una temperatura esterna di dieci gradi… si balla in terrazza, si organizza un falò in spiaggia, o si sta in casa a giocare?» «La terza che hai detto.»

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«Ma lo sai che stai proprio bene! Non pensavo. Giacca, cravatta intonata… allora non sei proprio irrecuperabile! Le scarpe però sono una schifezza.» «Non si può azzeccare tutto.» «Stanno arrivando gli altri. Vieni che ti presento agli amici. Conosci già qualcuno?» «No.» «Allora fra poco cominciamo con un bel mercante in fiera, poi faremo anche dei tavoli di poker e di chemin de fer così ognuno potrà scegliere.»

Finita la serata Andrea era andato via dubbioso, incerto tra delusione e speranza. Da quella festa si sarebbe aspettato un maggior coinvolgimento, invece aveva finito per emarginarsi da solo. Intanto gli amici di Daniela gli erano risultati antipatici al primo sguardo, troppo sofisticati, artefatti e anche privi di humor. Aveva fatto un paio di battute che credeva divertenti ma non se l’erano filato proprio, solo Daniela aveva sorriso. Poi aveva scoperto subito di non poter competere sul piano economico. Era arrivato con cinquantamila lire in tasca e si sentiva un Papa, ma quelli avevano ben altre possibilità. Già nel mercante in fiera del principio ne erano scomparse venti. Dopo, per fortuna, aveva individuato un ex compagno di scuola del Maurolico, più scalcinato di lui, e insieme si erano imbucati in un tavolo surreale di poker a quattro con Francesca e un’altra ragazza, che grazie al cielo non ne avevano completamente idea e facevano di tutto tranne che giocare. In conclusione aveva avuto solo poche occasioni per parlare con Daniela. Ma era certo che lei avesse fatto il possibile per stargli vicino, o almeno più vicino degli altri. Daniela per la verità era stata l’unica cosa bella della serata. Con quel vestito nero e il trucco perfetto era bellissima. E poi tutte le volte che avevano scambiato due parole da soli gli era parsa sempre spiritosa e divertente e anche lui se l’era cavata bene.

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A fine serata inoltre gli aveva mandato un messaggio per rivedersi dopo. E lui questa volta l’aveva capito.

Daniela era pensierosa. La festa non le aveva dato molte occasioni per stare sola con lui. Aveva sperato in un andamento diverso, ma del resto non si poteva ragionevolmente pretendere di più. Era lei l’organizzatrice e a lei toccava girare per i tavoli e mettere tutti a proprio agio. I suoi amici però erano dei veri stronzi. Aveva la sensazione che si fossero comportati in maniera ignobile con Andrea. Lui comunque non sembrava averci badato più di tanto. I pochi momenti passati da soli erano stati comunque una splendida rivelazione. Era piacevole parlargli e quel filo d’ironia che lui metteva quasi in ogni discorso la divertiva. In più con la barba rasata, i capelli meno scomposti del solito e dei vestiti passabili, era proprio carino. Alla fine della serata, badando che lui sentisse bene, aveva detto a Francesca che purtroppo sarebbe stata impegnata con i parenti nei prossimi due giorni e che quindi si sarebbero potute vedere solo la mattina del trenta, in facoltà, per cambiare il piano di studio come avevano concordato. Visto che era ormai lei a condurre tacitamente il gioco, aveva voluto lanciargli l’assist per rivederla. Se non era proprio tonto, si sarebbero ritrovati a breve.

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VII Notte di San Silvestro, l’una meno dieci sotto casa di Daniela, nella fiat 126 di Andrea. «Come ti sei combinato? Hai addosso giacca e cravatta e ti porti l’eskimo? Daniela mi invita a chiamare un amico intelligente per uscire in quattro e io mi presento con te!» «Senti, tu mi hai detto “vestiti bene perché faremo la notte di capodanno con due ragazze esigenti” e io ti ho dato retta.» «Ma a chi vedi col vestito elegante, le scarpe nere da cerimonia e l’eskimo come soprabito?» «È colpa mia se fuori ci sono sei gradi e si muore di freddo?» «Non potevi metterti qualcos’altro, che so un cappotto, un impermeabile?» «Non ce li ho, lo sai che non li uso e non porto nemmeno giacca e cravatta io, ti è andata bene che il mese scorso si è sposato mio cugino e mi sono fatto questo vestito, con le scarpe.» «Comunque dentro alla macchina non si sente freddo, perciò appallottola quel coso e mettilo sopra il sedile di dietro, così quando scendono non lo vedono.»

Il giorno precedente, afferrato il tacito messaggio lanciato da Daniela alla festa, Andrea si era presentato in facoltà praticamente all’apertura, per essere sicuro di non farsela scappare. Dopo due ore di attesa, verso le undici, era arrivata insieme a Francesca e da attrice consumata aveva finto stupore nel vederlo. Lui non era stato da meno. Un po’ contrariato di non poter restare solo con lei, aveva subito assunto un tono formale. Si era complimentato

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educatamente per la riuscita della festa e le aveva spiegato di dover anche lui cambiare il suo piano di studio. Per colpa dei tragici consigli di sua sorella, infatti, al primo anno ne aveva presentato uno impossibile, eliminando praticamente tutte le materie facili per privilegiare la preparazione. Giunto ormai alle soglie del secondo anno aveva capito che continuando con quel programma sciagurato non sarebbe riuscito a laurearsi prima di dodici anni. Daniela aveva ascoltato interessata ma sapeva di avere poco tempo. Sua mamma, purtroppo, l’aveva già precettata per il cenone di capodanno. A casa Giordano la notte di San Silvestro era molto sentita e riuniva tutta la famiglia. Quell’anno poi, oltre ai parenti di Brescia e agli altri di Catania, era arrivato anche lo zio Aurelio da Hong Kong con la moglie sudafricana e il figlio piccolo al seguito. Aveva una scaletta di impegni da paura: acquisto degli ultimissimi regali, sistemazione della casa con la predisposizione di tavoli e ulteriori addobbi, spesa alimentare in almeno tre supermercati diversi per trovare tutto, e infine preparazione di alcune tra le sue specialità culinarie, anatra all’arancia e tiramisù. Per la buona tavola aveva, fin da piccola, una forte passione ereditata dal padre, che nel tempo libero si divertiva a sperimentare nuovi piatti mescolando spesso gusti e sapori, con risultati a volte eccezionali per tutti, tranne che per sua madre costretta alla fine a sistemare la baraonda che lui puntualmente lasciava in cucina. Consapevole che nelle prossime trentasei ore non avrebbe avuto tempo per altro, Daniela aveva rotto subito gli indugi. Con apparente indifferenza si era informata sui suoi impegni per la notte di capodanno e prima che lui dicesse qualunque cosa gli aveva proposto di passarla insieme, e di portare un amico così sarebbero usciti in quattro, con Francesca. Andrea era rimasto ancora una volta completamente spiazzato, ma ormai cominciava a farci l’abitudine. E dire che quella proposta era la stessa che lui aveva immaginato di farle quella mattina. Solo che lui aveva pensato e ripensato, rimuginando fino allo sfinimento sulla forma giusta, sul momento opportuno, sulle circostanze e le modalità per esporla, e naturalmente era stato battuto sul tempo.

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«Ciao, siamo qui, l’una precisa come concordato. Dove le trovi due ragazze più puntuali?» «Ciao, lui è Carlo. Salite dietro?» «Ma che è questa specie di coso?» «Quale?» «Questo appallottolato dietro al sedile. È un eskimo! È tuo, Andrea?» «No è mio. Il cappotto non ce l’ho e non sapevo cosa mettere, lui mi ha imposto di nasconderlo per non fare brutta figura.» «Guarda che l’eskimo ce l’ho anch’io, sapessi per quanti anni l’ho portato! Magari come soprabito per la notte di capodanno non è il massimo, comunque va bene lo stesso. Io e Francesca non badiamo mica a queste cose.» «A giudicare dall’abbigliamento dei tuoi amici alla festa dell’altra sera qualche dubbio mi viene.» «Lasciali perdere quelli. Dopotutto stiamo uscendo con voi, mica con loro.» «Hai ragione. Allora, dove andiamo?» «Dove volete voi, basta che ci divertiamo.»

E si erano divertiti veramente. Era stata la notte più insolita mai trascorsa da ognuno di loro. Non per i posti dove alla fine si erano imbucati e neppure per le persone che avevano incontrato. Semplicemente era stato divertente trovarsi tutti e quattro a chiacchierare e ridere passando da una festa all’altra. Carlo aveva mostrato doti da comico consumato, esibendo un vasto repertorio di battute e imitazioni, e perfino Francesca, sempre seria e compassata, si era lasciata prendere dall’allegria generale. Andrea e Daniela, poi, erano felici per il solo fatto di stare insieme. Lui era rimasto tutta la notte in preda a una specie di ebbrezza, come lo stato di esaltazione di chi beve un paio di bicchieri che rendono la testa leggera e l’umore allegro senza le conseguenze di una vera sbornia. La sola presenza di Daniela dava filosoficamente un senso a tutte le cose dell’universo creato. Nella sua mente c’era solo l’immagine di lei. Mentre guidava, mentre parlava con gli altri, mentre giocava a carte, mentre ballava. Sempre.

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Daniela dal canto suo aveva raggiunto in quelle ore la piena consapevolezza che al mondo non esistesse uomo migliore di Andrea. Avevano girovagato per la città da Nord a Sud presentandosi a quattro feste diverse. Alle due e mezza erano venuti via da una serata classica da ballo e si erano infilati in un salotto di intellettuali dove alcuni dialogavano sui massimi sistemi e altri si mettevano alla prova con giochi, quiz e indovinelli intelligenti. Scappati a gambe levate da quel cenacolo di sapienti si erano ritrovati a un’altra festa da ballo, e dopo a giocare a carte da alcuni amici. Qui Daniela e Andrea, con la testa fra le nuvole, avevano perso pure le mutande in un tragico poker a cinque. All’approssimarsi dell’alba erano andati alla punta di Torre Faro per vedere sorgere il sole sullo stretto e poi tutti a casa. Sulla via del ritorno, mentre andava scemando l’euforia della notte, Daniela aveva dato ad Andrea una notizia tremenda. Sarebbe stata via per quasi tutto il mese di gennaio. Prima dell’esame aveva concordato con sua cugina Rosanna di trascorrere qualche tempo da lei, a Brescia, e andare a sciare al passo del Tonale. Durante le vacanze di Natale anche gli zii avevano insistito e lei non si era potuta tirare indietro. Andrea era rimasto di sasso, gli si leggeva chiaro negli occhi che la mazzata era dura da digerire. Daniela, per parte sua, che solo due settimane prima non vedeva l’ora di partire, era scontenta di allontanarsi da Messina. Si erano salutati tutti sotto casa di lei. Anche loro, come gli altri, si erano baciati sulle guance, restando però abbracciati un po’ più a lungo del dovuto. Quel fugace contatto aveva provocato a Daniela un leggero fremito e si era fiondata dentro al portone ancora in preda a un brivido. Andrea invece era tornato subito in macchina e aveva chiuso i contatti col mondo.

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VIII Ma quando tornava? Aveva detto fine gennaio. Ed era già il trenta. Fine mese non vuol dire necessariamente l’ultimo giorno. Aveva promesso che si sarebbe fatta subito sentire. E allora? Se avesse conosciuto qualcuno? Quella maledetta della cugina! Non la conosceva e già la odiava. Se l’era portata in casa e poi sulla neve. E ora lei se la stava spassando con qualche montanaro, maestro di sci, alla faccia sua. Avrebbe dovuto provarci la notte di capodanno. L’atmosfera era quella giusta, tutto era perfetto, ma Carlo e Francesca gli erano rimasti incollati tutto il tempo. Anche per uno più sveglio di lui non sarebbe stato certo facile. In ogni caso era andata così. E poi lui non sapeva che sarebbe partita. Andrea si aggirava dentro casa con l’umore più nero della pece. I primi giorni erano trascorsi tutto sommato bene. Doveva studiare e ne aveva approfittato per farlo. Certo, di tanto in tanto lei gli tornava in mente, e allora si abbandonava a sognare a occhi aperti di loro due insieme, ma il pensiero non lo distoglieva più di tanto, anzi lo spronava a impegnarsi di più. A prepararsi meglio per superare l’esame e poi stare con lei. Decidere insieme le nuove materie da affrontare, progettare scadenze e impegni, e disegnare un futuro in comune. Era innamorato di lei e convintissimo che anche lei lo fosse di lui. Doveva solo aspettare che tornasse e trovare il momento giusto e le parole più belle per farglielo capire. Man mano che passava il tempo, però, quella magia degli sguardi, quelle poche frasi sussurrate, l’estasi della notte di San Silvestro, si erano lentamente consumate e le solide certezze cominciavano pericolosamente a sgretolarsi. Il ventuno, poi, era arrivata una cartolina spiritosissima dalle nevi del Tonale, dove lei gli comunicava con leggerezza che i maestri della

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scuola di sci erano uno più bono dell’altro e si stava divertendo moltissimo. Da quel momento aveva smesso di ragionare lucidamente. Da tre giorni non usciva di casa nell’attesa di una sua telefonata e più il tempo passava più era assalito dai dubbi. Se fosse già tornata e non volesse vederlo? Se avesse prolungato la vacanza? Se si fosse innamorata di un altro? Ma poi era vero che lui le piaceva o era solo frutto dell’immaginazione? Ancora un giorno senza notizie, e avrebbe chiamato a casa sua. Augurandosi di non trovarla. E già, perché altrimenti avrebbe voluto dire che lei era tornata e non l’aveva cercato. Non sapeva cosa sperare.

Daniela si era appena alzata. Era rientrata la sera prima dopo un viaggio estenuante. Il treno aveva accumulato sei ore di ritardo per un’interruzione della tratta poco dopo Salerno. Appena arrivata avrebbe voluto subito chiamarlo ma era troppo tardi, suo padre ciondolava per casa e lei non voleva che sapesse. Oltretutto era stanca morta e non se la sentiva di fare la spiritosa. Mentre preparava il the per la colazione ripensava al mese appena trascorso. Prima di partire era convinta che si sarebbe comunque divertita. Rosanna aveva un sacco di amici simpatici che lei conosceva, e poi al passo del Tonale, dov’era già stata, avrebbe sciato e trascorso belle giornate. Invece non era andata così. Per la verità tutto era filato come le altre volte. Nel gruppo di sua cugina facevano a gara per stupirla, si usciva ogni sera e un paio di ragazzi ci avevano anche provato. Le piste del Tonale erano splendide e le giornate meravigliose. Era lei che non andava. Era lei che aveva un magone incredibile, pensava a Messina, a quella faccia da gatto, a quel moccioso coi brufoli. Cosa stava facendo?

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La pensava anche lui? Studiava o si dava da fare con qualcuna? Più di una volta avrebbe voluto telefonare, ma credeva di essere eccessiva. In fondo non stavano insieme. La notte di capodanno aveva capito di piacergli parecchio, ma non era successo niente. Del resto con quei due sempre appiccicati addosso! Andrea comunque era proprio imbranato. In più di sei ore non era riuscito a sganciarsi cinque minuti di seguito per stare un po’ soli. Questa cosa però non la disturbava, anzi la inteneriva. Sarebbe stata proprio lei a creare le condizioni e l’atmosfera giusta per spingerlo a dichiararsi. Mentre era lontana, intanto, gli aveva mandato una cartolina quasi d’avvertimento. Il richiamo alla bellezza dei maestri di sci doveva essere, secondo le sue previsioni, un messaggio per metterlo un po’ in apprensione: stai attento che se non ti sbrighi mi rivolgo altrove. Dopo colazione l’avrebbe chiamato.

«Pronto, sono io.» «Io chi?» «Daniela. È passato appena un mese e già ti sei scordato di me!» «Ah… Daniela. Non pensavo di risentirti così presto.» «Ma sei scemo o hai bevuto di prima mattina? Ti avevo detto che sarei tornata a fine gennaio.» «Sì, ma pensavo che dopo aver conosciuto quei bonazzi dei maestri di sci ti saresti fermata al Tonale almeno per tutta la stagione.» «Devo ridere?» «Non so. L’hai scritto tu che ti divertivi moltissimo.» «E che dovevo scrivere? Che mi annoiavo a morte? Che ti pensavo sempre? Ma poi perché avrei dovuto farlo? Siamo forse qualcosa noi?» «Hai ragione scusami. Comunque io ti ho pensato.» «Veramente?» «Sì.» «Anch’io.» «Allora vale il teorema della lontananza.» «Che significa?»

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«La canzone di Modugno. La lontananza è come il vento, spegne i fuochi piccoli e accende quelli grandi.» «E noi che fuoco siamo?» «Direi grande.» «Sei sicuro?» «Sicurissimo. Sennò avrei citato Sergio Endrigo.» «Ma che dici?» «Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Tu invece mi sei stata sempre vicina.» «Per caso hai il manuale della canzone italiana a portata di mano?» «No, è che ascolto un sacco di musica e mi piace riflettere sui testi delle canzoni, anche quelli apparentemente banali. Poi certe volte provo a immaginare di vivere le situazioni descritte. Ti sembro un cretino, vero?» «Niente affatto. Diciamo che per me è inusuale. Io non mi sono mai concentrata troppo sulle parole. Di una canzone amo soprattutto il ritmo e poi ascolto quasi sempre musica straniera. Però mi piace questa cosa. È vero che alcuni testi sono molto belli. Potrebbe essere una specie di filosofia minore. In ogni caso, passiamo alle cose serie. Hai studiato?» «Moltissimo, e questa volta posso dirti che mi sento preparato.» «Allora mi è venuta in mente una cosa. Visto che tu devi dare tutta la materia e io il negozio giuridico, potremmo approfittare degli ultimi giorni per studiare insieme. Francesca sarebbe disposta a farci ripetere a casa sua. La mattina ognuno ripassa per conto proprio, il pomeriggio ti vengo a prendere io con la mia macchina e andiamo da Francesca. Non è una buona idea?» «Per me va benissimo. Quando cominciamo?» «Non prima di martedì.» «Ma oggi è sabato. Volevo vederti!» «Oggi non posso. Sono stata fuori un mese e mia madre mi obbliga ad andare a trovare le mie nonne e passare la serata in famiglia. Domenica e lunedì avrò mio padre alle costole. Quindi prima di martedì non sarò libera. Mi dispiace tantissimo. Anch’io avrei voluto rivederti subito. Senti, ora devo chiudere. Ti chiamo martedì mattina.»

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IX Cinque febbraio, giovedì, tardo pomeriggio, casa di Francesca. Gli esami erano fissati il giorno dopo. Andrea si era iscritto fra i primi in modo di potersi liberare subito, visto che Daniela, inserita in piccolo elenco a parte, doveva sostenere solo una breve prova di pochi minuti. Era il terzo pomeriggio di ripetizioni, nei giorni precedenti avevano ripassato seriamente. Si erano concentrati sulla materia senza concedersi distrazioni. L’avevano fatto d’istinto, autonomamente, ma tutti e due con decisione, come se si fossero consultati. Ognuno sentiva che prima di ogni cosa era necessario liberarsi di quell’ostacolo. Adesso però erano entrambi distratti e non avevano più voglia di continuare. Andrea, sdraiato sul divano, aveva acceso il televisore ma non lo guardava, seguiva chissà quale pensiero con lo sguardo perso nel vuoto. Daniela sfogliava distrattamente le pagine del manuale riempiendole di disegnini a matita. Francesca dopo aver cercato inutilmente di richiamarli all’ordine si era rassegnata e aveva desistito. «Sono stanca, andiamocene così ci riposiamo, ti accompagno.»

«È ancora presto, ho voglia di fare una passeggiata in macchina, non è vero che sono stanca l’ho detto per andare via. Arriviamo fino a Torre Faro e poi ti riporto a casa.» «Lo sai che è la prima volta che stiamo soli un po’ più a lungo da quando ci conosciamo? Anche in questi tre giorni abbiamo parlato un

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sacco al telefono, ci siamo raccontati mille cose, ma al pomeriggio siamo stati sempre con Francesca.» «Non vorrei sembrare assillante ma tu domani dovrai sostenere un duro esame e anch’io dovrò rispondere a qualche domanda per completare la materia. Comunque, ti ricordo che non fosse stato per me a quest’ora saremmo ognuno per fatti suoi nella propria casetta. E anche adesso siamo soli in macchina per una mia iniziativa. Non è che tu finora abbia brillato per intraprendenza.» «Hai ragione, è che penso troppo. Se voglio fare qualcosa mi vengono nella testa mille idee, solo che poi è come se ci fosse un imbuto, grande all’inizio e stretto stretto in fondo. Faccio progetti e disegno strategie, qualcuna la elimino altre cerco di svilupparle e l’imbuto si restringe e però pure il tempo passa. Quando alla fine decido, e resta l’idea migliore, il più delle volte mi accorgo che il tempo è scaduto.» «Io invece sono l’esatto contrario. Faccio le cose d’impulso e spesso me ne pento. Anche nei rapporti con gli altri mi faccio condizionare dalla prima impressione.» «Con me, per fortuna, hai preso le decisioni giuste. Anche se devo ammettere che non ero molto in tiro quando ci siamo conosciuti.» «Infatti, ormai ti considero il più grande mistero dei miei primi vent’anni di vita. In linea di principio saresti il preciso esempio di tutto quello che non sopporto in un ragazzo: vesti male, hai sempre la barba lunga, dei capelli meglio non parlare, le occhiaie ti prendono mezza faccia, hai ancora i brufoli di un quindicenne, e in più sei anche imbranato, anzi diciamo pure che sei un caso disperato. Seduto in quell’aula non riuscivi nemmeno a guardarmi le gambe senza fartene accorgere. E nonostante questo sono io che ho voluto continuare a vederti. E ti ho cercato per prima. E da tre giorni ti scarrozzo con la mia auto, perché mi dici che la tua serve a tua sorella. E ti consento di usare la mia autoradio per sentire solo la musica che piace a te. E non esco da più di un mese con i miei amici che sono curatissimi, belli, ricchi e disponibili, e hanno macchine di lusso dove potrei fare la signora.» «Vabbè non esageriamo, i tuoi amici saranno pure ricchi e curati nell’aspetto ma in quanto a bellezza… io in ogni caso non ho i tuoi problemi. Mi piace stare con te semplicemente perché sei la ragazza più bella che abbia mai conosciuto. Mi piace parlarti e ascoltare quando mi parli, mi piacciono le tue risate, e mi piace perfino quando mi prendi in giro come adesso.» «Comunque siamo arrivati sotto casa tua…»

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«Aspetta ancora un attimo voglio finire di ascoltare questa canzone. È bellissima, si chiama il Pescatore è di Pierangelo Bertoli…» «Andrea…» «…sì.» «…ti sei accorto che mi stai baciando?» «…sì.» «Finalmente!»

Sulla macchina di Daniela poco oltre il portone di casa di Andrea, col motore acceso e la marcia in folle, si erano baciati a lungo senza fermarsi. Poi Daniela aveva spento il motore ed erano rimasti abbracciati, stretti stretti, senza dire una parola. E dopo ancora baci, dolci e appassionati, poi impazienti e quindi di nuovo delicati, gentili, sempre in silenzio. Erano rimasti sospesi tra voglia e abbandono, fuori dal tempo, distanti da tutto ciò che stava attorno, senza capire e sentire altro che loro stessi, i baci, gli abbracci, le carezze. Fino a quando Daniela, ripreso per prima il senso della realtà, aveva guardato l’orologio e cacciato un urlo. Erano già le nove di sera. Doveva rientrare subito a casa, sennò suo padre avrebbe dato di matto. Si erano salutati velocemente e lei aveva dettato le condizioni. Niente telefonate mattutine l’indomani e nessun contatto prima degli esami. Si sarebbero rivisti all’università, avrebbero superato entrambi la materia, era questa più una speranza che una certezza, e solo dopo avrebbero fatto le opportune valutazioni del caso. Andrea aveva tentato una timida replica cercando di obbiettare che la loro non era una pratica d’ufficio da sbrigare secondo la scaletta degli impegni, ma Daniela era stata irremovibile. Prima di scendere dalla macchina, con lo sportello già aperto, lui le aveva detto “almeno stanotte pensami un pochino” ed era andato via. Pazzo di gioia.

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Lasciata Daniela, Andrea non era salito subito a casa, non poteva. Era troppo felice, doveva camminare, doveva riflettere, doveva sognare, doveva assaporare tutta intera quella felicità. Era tornato indietro passeggiando sul viale senza una meta precisa. Ce l’aveva fatta, si era buttato vincendo timori e incertezze e lei l’aveva accettato. Sentiva di amarla profondamente, non aveva mai provato un sentimento così forte. Il sapore di quei baci gli era rimasto appiccicato addosso. Si toccava dappertutto con le mani, se le portava al viso le annusava e assaporava il suo profumo, si rialzava il bavero del giaccone e gli sembrava di averla ancora fra le braccia. Rientrato a sera tardi, aveva mangiato pochissimo e svogliatamente ed era andato subito a dormire. Mentre si spogliava continuava ad annusare i vestiti che erano impregnati del suo profumo e poi a letto si era addormentato come se l’avesse ancora vicina.

Daniela aveva guidato fino a casa in pieno stato confusionale. Non avrebbe saputo dire neppure che strada avesse fatto. A un certo punto aveva riconosciuto il portone del suo palazzo e dopo un posteggio alla buona era salita di corsa ed era entrata, proprio mentre sua mamma stava mettendo in tavola la cena. Si era subito scusata per l’orario. Mentendo spudoratamente aveva attribuito il ritardo agli esami del giorno dopo e allo studio con Francesca. Rinunciando a cenare si era immediatamente ritirata nella sua stanza con la scusa di dovere ancora ripetere qualcosa. E quindi, finalmente sola nella camera, aveva rotto gli ormeggi abbandonandosi anche lei alla felicità. Il primo bacio di Andrea le aveva dato la scossa. Non in senso metaforico e figurato ma nel significato reale del termine. Quando le labbra di lui si erano appoggiate alle sue aveva sentito una specie di tremito lungo tutto il corpo, uno shock proprio come quello di una leggera scossa. Ancora adesso era preda dei brividi, le sembrava di avere freddo ma stava sudando.

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Non era la prima volta che baciava un ragazzo, ma queste sensazioni le erano davvero sconosciute. Che voleva dire? Era vero amore? Era lui quello giusto? Sarebbero diventati una coppia? Andrea era proprio un insospettabile, così imbranato all’apparenza ma baciava da Dio e chissà cos’altro. Se si toccava il viso aveva ancora la sensazione di sentirsi pungere dalla sua barba. Quella però gliela avrebbe fatta tagliare più spesso, magari non ogni giorno ma almeno con continuità. Se voleva mettersi con lei doveva pur fare dei sacrifici. Ma era serio o no? Non è che la parte dell’imbranato fosse solo una farsa come suggeriva Francesca? A giudicare da come baciava non sembrava proprio alle prime armi. Si era messa a letto prigioniera della magia dei momenti trascorsi con lui. Si era addormentata subito. FINE ANTEPROMA CONTINUA…