le ragioni di una fede - una vera storia d'amore

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Per tutti coloro che ritengono che l’Ascoli sia una fede dalla quale non si può prescindere « L’Ascoli è come una malattia: quando ti si attacca non ti lascia più » Costantino Rozzi « Ascolano o con piedi sotto terra, o con piedi sopra cielo...mai ascolano con piedi sulla terra! » Vujadin Boskov

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una dichiarazione d'amore nei confronti dell'Ascoli Calcio

Transcript of le ragioni di una fede - una vera storia d'amore

Per tutti coloro che ritengono che l’Ascoli

sia una fede dalla quale non si può prescindere

« L’Ascoli è come una malattia: quando ti si attacca non ti lascia più »

Costantino Rozzi

« Ascolano o con piedi

sotto terra, o con piedi sopra cielo...mai ascolano con piedi sulla terra! »

Vujadin Boskov

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Dedico questo libro

alla babila mia amica virtuale, che da circa dieci anni mi sprona

nel pubblicare un libro.Eccolo. Certo, non è quello che ti avevo promesso, ma

può andar bene lo stesso!O no?

a giorroromano ma grande tifoso ascolano, compagno di mille

avventure bianconere, nel bene e nel male, e al suo spettacolare sms inviatomi in occasione del ritor-

no del Picchio in serie A.Prima partita Ascoli-Milan, biglietti messi in vendita

ed esauriti il primo giorno. Glielo comunico con orgoglio. La sua risposta mi gela:

“mmmh, se so’ finiti il primo giorno è come la mano liscia al tresette: qualcuno ha sbagliato”.

agli autori del sito www.mondopicchio.it il perchè è persino inutile scriverlo: basta che andiate

sul sito per trovarvi tutte le risposte!

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PREFAZIONE di Alessandro Conti Borbone… o Sandro Conti… o mi’ padre

Quando nasce un figlio la mente dei genitori è percorsa da due pensieri: che nasca sano e libero e che somigli a papà - se è maschio – e a mammà, se il sesso è diverso. Il � luglio �97�, intorno alle � di mattina – quando mia moglie ebbe le prime doglie mi trovavo allo Squarcia impegnato in un torneo di calcio aziendale, che poi ebbi la gioia di vincere - presso il reparto di neonatologia, nacque Gianluca, il mio primo figlio. Arrivai un tantino in ritardo ma mia moglie poté contare sul conforto di mia suocera. Volevo un maschio, non lo nascondo, e maschio fu. La cosa mi rese felicissimo ma devo ammettere che provai lo stesso sentimento sia per Valerio che per Cristiana. Avrei tanto voluto che il mio primogenito fosse ad immagine e somiglianza del padre, uomo orgoglioso e presuntuoso. Per sua fortuna non ha ereditato nulla dei miei tanti difetti ma qualche mia passione si è annidata nel suo cuore: tra queste, lo sport, il giornalismo e l’amore viscerale per l’Ascoli. A testimonianza di quanto abbia amato e continui ad amare il “Picchio” ha scritto questo libro che raccoglie tutte le sue emozioni giovanili ed attuali che mi ricordano con un pizzico di emozione la mia gioventù quan-do anch’io non perdevo nessun “appuntamento” con l’Ascoli. Il giorno in cui Gianluca mi consegnò il suo manoscritto non persi tempo e in men che si dica lo lessi con occhio severo di un esperto giornalista che da oltre quaranta anni scrive e com-menta sull’Ascoli Calcio �898. Non era male soprattutto perché si capiva subito che tutto ciò che aveva vergato era originale e genuino, sgorgava spontaneamente dal suo cuore senza alcuna intenzione di voler travisare la verità. Ma qualcosa andava rivi-sto. Alcuni giudizi sulle tifoserie avversarie mi erano parsi un tantino eccessivi ed andavano… addolciti. Ne ho discusso con Gianluca il quale ha convenuto che in effetti qualche correzione avrebbe reso più gradevole la lettura. Un libro che verrà letto con grande piacere da chi ha a cuore le sorti del “Picchio” e cre-do che l’autore, ossia Gianluca, lo abbia realizzato al solo scopo di dare corpo alla sua grande passione per la maglie bianconere. Concludo. Grazie Gianluca per avermi regalato questa picco-la ma grande soddisfazione. E ricorda sempre il proverbio “ad maiora semper” e naturalmente “forza Picchio, facci sognare”.

Il tuo papà

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soprattutto però, il libro è dedicato

alla silvi

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“LE RAGIONI DI UNA FEDE”

PREMESSAC’era una volta il calcio. Era bello da vedere e da pra-ticare. Poi sono arrivati i soldi e il calcio è rapidamente scomparso per lasciare il posto a speculazioni di qualsia-si specie. Quindi il massiccio avvento dei media, che ne hanno fatto un fenomeno da baraccone. Il popolo italiano ha abboccato, cadendo nel tranello ed abbonandosi alle pay-tv, abbandonando in massa gli stadi con la scusa del-la violenza (tanto ben amplificata dai media) e cedendo all’ozio. L’ozio, si sa, è il padre dei vizi. Chissà quanti altri ne avran presi gli italiani!!! Uno soprattutto: la sac-centeria. Così osservo personaggi grassi e unti con la voce roca dal fumo e dall’alcool, sprofondati in una sedia di un bar qualunque (purché abbonato a sky), sentenziare su questo o quel giocatore, su questa o su quella squadra, senza alcuna cognizione di causa. “Siete mai entrati in uno stadio?” è la domanda. “Una decina di volte, l’ul-tima volta 5... forse 10 anni fa…” è la risposta. Così va l’Italia. Si pretende di comprendere il pallone guardan-dolo da un teleschermo che inquadra la palla e fa primi piani agli eroi del momento. E giù applausi. Il tutto per l’audience. Mi guardo intorno, spaurito. Penso agli stri-scioni degli ultras. “Questo calcio mi fa skyfo”, esposto in tutti gli stadi d’Italia. Ma una cosa mi torna in men-te e mi fa accapponare la pelle. E’ un altro striscione, esposto dagli ultras ascolani qualche anno fa: SOLO SU QUESTI GRADONI SI VIVONO CERTE EMOZIONI. SPEGNETE LE TELEVISIONI. E mi torna in mente il Del Duca pieno come un

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uovo in occasione di Ascoli-Cagliari, una sfi-da che valeva la salvezza nella massima serie. Vincemmo 2-0, merito del pubblico. Emozioni indescrivi-bili. O altre partite del passato che facevano traboccare il Del Duca. Quello sì che era calcio. C’era molta più vio-lenza a quei tempi. Ne è testimonianza il numero impres-sionante di morti negli stadi degli anni ‘80. Pensiamo a Paparelli, a Filippini, all’Heysel e quant’altro. Eppure la gente andava ugualmente allo stadio, riempiendolo. Al-lora c’è qualcosa che non mi quadra. Si parla di violen-za che allontana la gente dagli stadi. Suvvia, diamogli il nome che merita: la violenza è un termine che cela dietro la televisione. E’ questo apparecchio la vera rovina del calcio. Che lo ha mandato in frantumi. E che non fa altro che parlare di Inter, Milan e Juventus; mandare in onda partite di qualsiasi stampo; parlare di calcio sette giorni su sette. Sale prepotentemente dentro me una certezza, che questo non sia calcio. Questo è un parlare di cose che non esistono, che i media amplificano celando così quello che uno sport tanto bello e popolare ha dato a me e a tanta gente come me. L’orgoglio di essere un tifoso, di seguire la propria squadra sempre, comunque e ovunque. Sfidando il freddo e il gelo, la pioggia battente e il sole asfissiante. Facendoci soffrire e gioire, facendoci spendere soldi per i più inutilmente. Ma nessuno parla della gioia che ci dà una rete. Dell’esplosione della curva, dei cori di ringra-ziamento verso questo o quel giocatore, degli applausi alla squadra anche quando non si ottiene il risultato sperato. Dell’amore che uno sport può dare. Dicono che l’amore vada inteso solo come rapporto uomo-donna. Il resto sono cretinate, cose futili e stupide, che non lasciano nulla den-

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tro. Allora qualcuno mi spieghi come mai sono innamora-to del Picchio da una vita. Qualcuno mi spieghi cosa mi abbia spinto a scrivere questo libro. Qualcuno mi spieghi come mai abbia percorso centinaia e centinaia di chilo-metri per seguire una ed una sola squadra di calcio. Qual-cuno mi spieghi come mai canti incessantemente per 90’ nonostante abbia la gola in fiamme. Sono stupido? Bene, sono stupido. Ognuno è libero di dire e pensare ciò che vuole. Io so di non esserlo, e giustifico questo mio compor-tamento in un’unica maniera: l’amore per l’Ascoli Calcio. A prescindere da tutto e tutti.

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LA MIA FEDE E’ UNA SOLTANTO…La mia passione per il Picchio risale alla notte dei tempi. Con questo non voglio dire che io sia un matusa, sempli-cemente che sin da quando sono nato sono stato “gettato” – per parafrasare il titolo di un libro – nel fango del dio pallone da mio padre, giornalista sportivo, da sempre in-namorato di questo sport e dell’Ascoli Calcio. Lui scri-veva dell’Ascoli su giornali, ne parlava alla radio o in te-levisione, ed era sempre allo stadio, dentro gli spogliatoi, aveva contatti diretti con giocatori, dirigenti ed allenatori, si chiamavano per nome e non si davano del lei. Come volete che possa essere cresciuta una povera ed innocente creatura? Pure mia madre, inizialmente, si era convertita al calcio. Poi però ha preferito la messa. Anch’io anda-vo a messa, tutte le domeniche. La mia chiesa era il Del Duca se l’Ascoli giocava in casa. Altrimenti, l’ascoltavo alla radio. Una volta cresciuto, ho cominciato a macinare trasferte su trasferte per seguire la mia unica passione. Il mio unico amore: l’Ascoli Calcio. Lo ammetto e ne vado fiero: non sono mai stato fedifrago. Ovvero, non ho mai tifato altra squadra all’infuori dell’Ascoli. Con una picco-lissima eccezione. Primi anni novanta, quando impazzava il fantacalcio, anche io mi dilettavo in questo gioco. Stra-vedevo per Signori, Batistuta e Rui Costa, così per qualche anno mi improvvisai lazziale (prima ancora che divenisse un’offesa) e fiorentino, ma solo quando vincevano e/o se-gnavano i miei tre pupilli. Sennò ‘sti gran cazzi! Al di fuori del Magico Picchio, infine, ammetto la mia più pura antiju-ventinità. Anche durante i terribili 7 (diconsi: sette) anni di serie C non sono mai venuto meno alla mia passione per l’Ascoli Calcio, resistendo con orgoglio alle sirene milani-

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ste, interiste, romaniste o di qualunque altra squadra di se-rie A. La mia serie A era ed è l’Ascoli, indipendentemente dai campi che calcava e calca. Il mio cuore era ed è sempre lì, a palpitare per il Picchio e i suoi portabandiera, nel bene e nel male. Solo l’Ascoli riesce a darmi certe emozioni. La Nazionale? Neppure quella. Ascoli al �00%.

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GLI ANNI SETTANTA MORO, SCORSA E ROCCOTELLINato il � Luglio �97�, ho conosciuto –seppur in maniera del tutto innocente e pura in quanto bimbo- l’escalation del duo Rozzi-Mazzone che ci portò dalla C alla A. I miei primi ricordi risalgono ad un’amichevole allo Squarcia contro la Civitanovese. Correva la stagione 1975/76, se-conda di serie A per il Picchio. Finì �-� per noi e ricordo che il nostro portiere di riserva, entrato nel secondo tem-po, faceva il buffone, si sedeva sulle seggiole dei fotografi, scherzava con loro e fumava sigarette nella vana attesa che qualche attaccante avversario gli desse qualche noia. Quel portiere si chiamava Angelo Recchi. Tutti ridevano. Io no. Ero preoccupatissimo che gli avversari potessero partire in contropiede e infilzarlo come un tordo. No, non mi pia-ceva quel suo comportamento scellerato, mi fece stare in ansia per tutta la durata della gara. Fortunatamente aveva l’occhio sempre vigile a quel che succedeva in campo ed era pronto ad intervenire per sbrogliare la matassa quel-le rare volte in cui gli ospiti si facevano avanti. Alfine la gara terminò, io mi rincuorai e, soddisfattissimo, tornai a casa con mio padre. L’Ascoli aveva vinto �-�, mica caz-zi! Poi i miei ricordi si fanno vaghi e confusi, fino alla stagione �977-78. Ricordate? Trattasi di quella fantastica galoppata dell’Ascoli dei record che con �� punti stravinse il campionato di B approdando trionfalmente nella massi-ma serie. Attenzione, attenzione, attenzione: avevo appena � anni, ma come potevo non impazzire per una squadra così? Marconcini, Anzivino, Perico, Scorsa, Legnaro, Pa-sinato, Roccotelli, Moro, Quadri, Greco (Bellotto), Ambu. Allenatore Mimmo Renna. In quella stagione ero oramai

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un assiduo frequentatore del Del Duca, spesso in tribuna al fianco di mio padre, e sempre (o quasi) negli spoglia-toi sia durante la settimana, sia nel dopopartita. Avevo gli autografi di tutti i giocatori dell’Ascoli. Insomma, ero il bambino più felice del mondo. Ma un giorno un episodio mi turbò. Ero negli spogliatoi con mio padre e mio fratel-lo, in infermeria per l’esattezza. Giovanni Roccotelli, detto Cocò, era leggermente acciaccato ed attendeva il suo turno per un massaggio. Mio padre parlava con il medico sociale della situazione degli infortunati in casa bianconera. Roc-cotelli guardò mio fratello e me e con un gesto repentino ci staccò il pisellino dicendoci: “Ecco qua i vostri pisellini. Adesso non avete più il pisel-lino”. Cavolo, e adesso??? Il problema non era tanto il pisellino, ai tempi non sapevo che farmene a parte pisciare, il fatto era che il tipo aveva detto una parolaccia. Mia madre me lo diceva sempre che le parolacce non si dicono. Roccotelli non è un bravo ragazzo, dice le parolacce! Ma ecco che Roccotelli incalza: “Eccoli qua i vostri pisellini, li ho io in mano e non ve li rendo!” D’accordo, ha detto una parolaccia e continua a ripeterla, però ‘sta storia del pisellino non è male. Il tipo è simpatico, fa ridere, pensammo all’unisono io e mio fratello. Così ci lasciammo andare e cominciammo a giocare con lui. Cocò cercava di strapparci il pisellino, e noi cercavamo di ri-prenderlo. Alla fine aveva preso 5 pisellini, ed io e mio fra-tello ci eravamo sbellicati dalle risa col grande Roccotelli. Colui che faceva i cross come qualche anno dopo avrebbe fatto Maradona: di tacco incrociando le gambe (la rabona,

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tanto per intenderci). E come dimenticare il capitano Fran-cesco Scorsa che, dopo una gara interna, aprì con forza la porta del proprio spogliatoio urlando:“Serafino, bastaaaaaaaaaaa. Adesso hai proprio rotto i co-glioni!!!”Serafino era un signore obeso, era seduto su una sedia tra lo spogliatoio della squadra ospite e quello locale. L’Asco-li aveva vinto, e lui esprimeva la sua felicità cantando a squarciagola un’orrenda canzone napoletana. Io ero lì e lo osservavo, leggermente impaurito dalla sua stazza, ma so-prattutto curioso di sapere come quell’uomo potesse trova-re la forza di alzarsi dalla sedia. All’esclamazione di Scor-sa (che era davvero molto infastidito), Serafino proruppe in una grassa risata… Ma va’!Quell’anno mio padre mi portò per la prima volta in tra-sferta. A Rimini; vincemmo �-�. Mi raccomandò viva-mente di non esultare e di non tradire in alcun modo la mia ascolanità: avrebbero potuto riconoscerci e picchiar-ci. Io rimasi indignato dal comportamento dell’arbitro che annullò il goal del �-� a Quadri che, in netto fuorigioco, aveva proseguito l’azione dopo il fischio mettendo a se-dere il portiere, realizzando a porta sguarnita. Per questo fu addirittura ammonito! Mi arrabbiai tantissimo e lo feci presente, così tutti capirono (ma forse lo avevano capito da un bel pezzo) che eravamo ascolani. Qualche occhiataccia, ma nulla più. Uscimmo tranquillamente dallo stadio senza che nessuno ci dicesse nulla. Mentre sfollavamo, ricordo che chiedemmo ad un signore in auto i risultati delle nostre dirette concorrenti (Catanzaro ed Avellino). Non ricordo cosa rispose, anche perché non me ne fregava assoluta-mente nulla. Il mio Ascoli aveva vinto, ed ero certo che

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non avrebbe avuto problemi a salire nella massima serie. Difatti, così fu!Un altro episodio mi sconvolse in quella stagione, facendo-mi temere il peggio: il rapimento del politico Aldo Moro, allora presidente del Consiglio Nazionale DC, da parte delle Brigate Rosse. Era il �� Marzo �978. Frequentavo le scuole elementari a Castel Trosino, la maestra era mia zia. Ricordo che Moro fu rapito la mattina e gli uomini del-la scorta furono uccisi. Le lezioni furono interrotte e mia zia mi accompagnò a casa. C’era anche un’altra maestra in auto, e non facevano che parlare di questo rapimento e delle terribili conseguenze. La tensione era altissima. Io ero spaventosamente preoccupato di sapere chi cazzo era questo Moro che era stato rapito. Dentro di me speravo che non fosse Adelio Moro, il capitano dell’Ascoli, ma avevo uno strano presentimento e, oltretutto, non avevo il corag-gio di chiederlo a mia zia. Durante tutto il viaggio pensai che un simile rapimento poteva costarci la promozione nella massima serie. Ma chi cazzo erano ‘sti stronzi? E che cazzo volevano dal capitano dell’Ascoli? Forse erano ca-tanzaresi… o avellinesi… Tanti, troppi dubbi affollavano la mia mente. Arrivati davanti casa, mia zia alzò il sedile dell’auto per farmi scendere e mi disse: “Mi raccomando, dì ai tuoi che è stato rapito Moro. Hai capito?” E a quel punto non ce la feci più e dalla mia innocente bocca di bambino di 7 anni ancora da compiere uscì fuori questa frase: “Si, ho capito, adesso glielo dico… Ma chi è Moro? Il gio-catore dell’Ascoli?” Non l’avessi mai detto!!! Mia zia montò su tutte le furie,

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cominciò ad urlare e a riempirmi di parole e mi cacciò, trattenendo a malapena le mani. “’Sto strooo… Mmmmh…….. va via… CRETINO!” fu il suo saluto. Io rimasi per qualche secondo inebetito. “Si, vabbè, strooo… ehm, stupido. Ma mica ha risposto alla mia domanda”. Più che confuso, risalii a casa dove trovai entrambi i miei genitori. Strano, perché mio padre usciva alle 14 dall’ufficio. Ancora inebetito per aver preso parole da mia zia senza sapere il perché, dissi loro: “Ha detto zia Valeria di dirvi che è stato rapito Moro. Poi m’ha sgridato e voleva quasi picchiarmi perché gli ho chiesto se era Adelio Moro, il giocatore dell’Ascoli…”Io ero davvero disorientato. I miei scoppiarono a ridere e contemporaneamente dissero: Mia madre: “Ma no, è stato rapito Aldo Moro, un politico”. Mio padre: “Scì, hanno rapito Adelio Moro e ammazzato Pasinato e Roccotelli”. Fu il panico. Ovviamente credetti a mio padre (dentro di me pensai che mia madre non sapeva chi fosse Adelio Moro. Mio padre invece lo conosceva molto bene. O for-se mia madre lo sa ma non vuol darmi questo dispiacere; vuol tenermi nascosta la verità) e in un attimo vidi la serie A svanire nel nulla. Cominciai a frignare, perché, dei due, uno mi stava prendendo in giro e non riuscivo a capire chi fosse. Allora mia madre mi spiegò che Adelio Moro non c’entrava nulla, mentre mio padre, seduto sul divano da-vanti alla tele, rideva a crepapelle. Mi tranquillizzai, nes-suno poteva toglierci la serie A, manco le Brigate Rosse.

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ECCOLA QUA LA SERIE ANon ricordo i festeggiamenti per la promozione. Ero ovvia-mente felicissimo, avevo sempre un pallone fra i piedi ed uno in testa, il calcio era dentro di me ed ero certo che da grande avrei fatto il calciatore. Il mio sogno era di indossa-re la maglia bianconera dell’Ascoli e di fare il mio ingres-so trionfale al Del Duca. Immaginavo lo stadio pieno, con i tifosi che applaudivano l’ingresso del loro beniamini. Ed io ero uno di loro. Il ruolo non aveva importanza, l’impor-tante era esserci. Certo che un po’ mi sarebbe dispiaciuto di non essere in mezzo ai supporters bianconeri. Oh, la Sud gremita è sempre la Sud gremita!!! Ma ritenevo pure che col tempo me ne sarei fatto una ragione. E già a quei tempi ero convinto di due cose che poi i tifosi hanno tirato fuori tanti ma tanti anni dopo: la prima un paio d’anni fa sotto forma di striscione (ne ho parlato in premessa; mi ripeto, ma è necessario), la seconda durante la militanza in serie C sotto forma di coro. Lo striscione era: “Solo su questi gradoni si vivono certe emozioni”. E a 9 anni lo pensavo già. Bambino prodigio? Forse! E poi pensavo che sì, vorrei diventare un calciatore dell’Ascoli, ma anche un tifoso perché in curva (non ero mai andato in curva, era pericoloso, diceva mio padre), lì e solo lì si vivono delle emozioni così profonde… Il coro era: “Ricordo ero solo un fanciullo/sognavo una maglia e un pallon/sentendo la curva che canta/io provo la stessa emozion”. Ebbene, quando per la prima volta ho sentito quel coro partire dalla Sud –ed io ero lì ad impa-rarlo assieme agli altri- il mio corpo è stato percosso da brividi incredibili, riuscivo a malapena a trattenere le lacri-me, e nella mia mente sono riaffiorati tantissimi ricordi di

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quando ero bambino. Di quando non ero ancora in grado di fare discorsi di un certo spessore (non che adesso riesca a farne…), però avevo già capito l’importanza assoluta del-l’Ascoli Calcio per me. Comica fu quella volta che in classe la maestra (mia zia, al solito) chiese a tutti gli scolari cosa avrebbero voluto fare da grandi. Io fui il primo. Fui preso alla sprovvista. Avevo appena distrutto una macchinina così, senza pen-sarci su, dissi: “IL MECCANICO!” Presi una valanga di insulti, allora mi corressi prontamente. Cartoni animati do-cet, ai tempi impazzava Candy Candy… Si, volevo fare l’INFERMIERE. E giù un’altra razione di insulti. Mia zia mi tolse la parola con sdegno, e passò oltre. Fu la volta di Angioletto, il mio migliore amico, a raccontare quel che voleva fare da grande. Senza esitazioni disse: IL CAL-CIATORE”. Certo, pensai io, come ho fatto a non pensarci prima? E urlai a gran voce: “ANCH’IO VOGLIO FARE IL CALCIATORE DA GRANDE”. Anche in quella cir-costanza ricevetti la mia -stavolta ancor più dura- razione di insulti. Non ne ho mai compreso il perché. Ho rivisto Angioletto �-� anni fa: è ingrassato (alle elementari lui ed io eravamo soprannominati “scriccioli” perché eravamo piccoli e secchi come due chiodi) e non fa il calciatore. Anzi, non l’ha mai fatto. Come me, del resto. Alle elementari ero quello che portava il pallone da casa (un supertele bianco e nero) e all’intervallo organizzavo partitelle nel cortile. Tornavo sempre sudato come una be-stia, ma contento. Contentissimo di aver giocato a pallò, anche se solo per un quarto d’ora. Il pomeriggio andavo a giocare a calcio all’Elettrocarbonium. Lo facevo due volte la settimana. � giorni la settimana mi recavo al Del Duca

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a fare atletica. E questa era una bella storia. Noi facevamo il nostro allenamento, l’Ascoli faceva il suo. Era fantastico interrompere la lezione di atletica per correre a riprendere un pallone che i giocatori avevano erroneamente scagliato dalle nostre parti. E come mi emozionavo quando il gio-catore mi ringraziava! Emozionato ed orgoglioso. Erano davvero altri tempi. Il lunedì non era molto interessante perché l’Ascoli non si allenava, ma io portavo sempre con me una palla per cui, terminata la lezione, ci mettevamo a giocare dietro ad una delle porte. Guai però correre in mezzo al campo per riprendere la sfera erroneamente fi-nita nel manto erboso! Significava finire anticipatamente la partita prendendo tante ma tante offese da Raduchi. Era gelosissimo dell’erba del Del Duca: potevano calpestarla solo i calciatori dell’Ascoli. E lui. A volte proseguivamo la partita nel piazzale antistante lo stadio, ma era asfaltato, lì il pallone si rovinava, e poi se cadevi ti facevi male. No, meglio il Del Duca. Decisamente un’altra storia.La serie A l’ho vissuta in maniera piuttosto strana. Potete farmi qualsiasi domanda su partite, giocatori e quant’al-tro riguardi l’Ascoli Calcio, e vi risponderò prontamente. Ricordo però poco o niente degli avversari. Per me erano solo nemici, sapevo chi giocava nelle altre compagini (ero informatissimo: tutti i giorni leggevo La Gazzetta dello Sport, avevo l’almanacco e facevo regolarmente l’album dei calciatori –meglio conosciuto come “l’album delle fi-gurine”), ma quando ero allo stadio guardavo solo i miei bianconeri. Gli altri non esistevano. Esultavo alle reti fatte, mi incazzavo per quelle subite, impazzivo per le salvezze conquistate, mi strappavo i capelli per le retrocessioni. E forse è anche per questo che sono calvo. Oltre a legge-

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re la Gazzetta (che ai tempi parlava anche dell’Ascoli…), chiedevo ragguagli a mio padre in merito alla situazione degli infortunati in casa ascolana. E la domenica in cui si disputava Ascoli-Juve andavo allo stadio con la certezza della vittoria. Non avveniva quasi mai, ma le poche vol-te che ciò accadeva impazzivo di gioia. Immaginate come potevo stare quell’anno che vincemmo a Torino per � reti a �! Oppure quando al Del Duca l’Ascoli batteva la Juventus (è successo tre volte, compreso un Torneo di Capodanno). Si, perché la Juve l’ho sempre vista come il mostro gran-de, grosso e cattivo. Colei che ha soldi per fare e disfare a suo piacimento. Vinceva sempre, che odio! Tante partite in casa, ma trasferte poche. E’ pericoloso, diceva mio padre. Seee, poi un giorno mi portò ad Avellino in mezzo ai lupi irpini. La seconda trasferta della mia vita. Ai tempi l’Avel-lino era una squadra come l’Ascoli, lottava con il coltello fra i denti fino all’ultima giornata per ottenere la salvezza. Io odiavo quella squadra, come tutte del resto. Beh, insom-ma, andammo ad Avellino e ci accomodammo nella nord. Era piena di tifosi irpini. Di ascolani, manco l’ombra. Ero lì con mio padre, impaurito nel vedere tante facce truci, ma anche stavolta non accadde assolutamente nulla. Era-vamo sotto di due reti, quando ci fu un episodio che mi rivelò l’esistenza di Dio. O, perlomeno, questa fu la mia impressione. Durante un’azione di gioco l’arbitro rotolò goffamente a terra, scatenando l’ilarità dell’intero stadio che cominciò a prenderlo in giro perché non si reggeva in piedi e menate di questo tipo. Erano i tempi degli insulti al pastello, tipo ARBITRO CORNUTO. Beh, fu in quel momento che mi rivolsi a Dio dicendogli: “Dio, gli avel-linesi hanno preso in giro l’arbitro perché è caduto a terra,

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e questo non è giusto. Lui magari si sarà anche vergogna-to di cadere davanti a tutta quella gente, e quelle offese lo hanno ferito nel profondo. E’ per questo che devi farci pareggiare, perché io sono tifoso dell’Ascoli e non ho riso alla sua caduta”. Il senso della preghiera era più o meno quello. Beh, che ci crediate o no, l’Ascoli riuscì nella cla-morosa rimonta. Pareggiammo �-� in casa di una diretta concorrente alla salvezza.Poi sono passati gli anni, giocatori e allenatori si sono av-vicendati sulla panchina bianconera, e tutti erano per me dei veri campioni. Tutti, nessun escluso. Quale Krol? Qua-le Passarella? Quale Falcao? Quale Maradona? O Gullit? O Van Basten? Niente, non c’era spazio per loro nel mio cuore. Sono cresciuto, ho continuato ad andare allo stadio, a tifare per il Picchio e ad idolatrare esclusivamente esclu-sivamente i giocatori che indossavano la maglia del mio Ascoli.

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LE SCUOLE MEDIEAlle medie sei già più grandicello, ti sembra di cominciare a capire qualcosa di più; purtroppo però nella mia classe non c’erano tifosi del Picchio. A parte uno, Guido. Entram-bi giocavamo negli esordienti B dell’Ascoli Calcio, ed ave-vamo l’abbonamento gratis per andare a vedere le partite del Picchio. Eravamo due picchiomaniaci, ma parlavamo poco della nostra passione, perché in classe si parlava d’al-tro. Tempo di feste delle medie, le prime ragazze, i primi baci, giochi della bottiglia al sapor di spuma Paoletti. Della serie: quando la Coca-Cola è ancora un lusso. A dir la verità ero timidissimo e con una ragazza non riuscivo ad andare oltre un bacio pilotato dalla sorte scaturente dal canonico gioco della bottiglia. Un lento con una tipa era impresa memorabile! Troppo timido per riuscire a chiedere a qual-cuna di ballare. Mi sembra di esserci riuscito solo in gita di terza media, nel buio di una pseudo-discoteca ligure. Ter-minato il lento ho completamente rimosso dalla memoria chi fosse quella tipa. Mi sembra di ricordare che facesse la �^ F, null’altro. In ogni caso avevo una parziale attenuante. Andavo un anno avanti, ero più piccolo degli altri (di età e di altezza. E alle medie la differenza di età si sente tantissi-mo); e poi le ragazze non mi interessavano più di tanto. Fa-cevo mille sport, avevo mille interessi, la domenica c’era il Picchio al Del Duca o alla radio… Che altro dovevo fare? No, grazie. Stavo bene così. Certo è che la nostra classe era veramente la negazione assoluta nel gioco del calcio. I tornei interni tra sezioni dimostravano (qualora ce ne fosse bisogno) che eravamo i peggiori. Prendevamo scoppole a destra e a manca. Fortuna che l’Ascoli era in A e la dome-nica andavi a vedere giocatori seri che ti risollevavano il

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morale. Ai tempi capitava inoltre di aver qualche gioca-tore del Picchio ospite con la rispettiva famiglia. Ricordo benissimo una cena a casa nostra con il difensore Gilberto Mancini, la moglie e la figlia di 3 anni. Per me quelle erano vere soddisfazioni. Ricordo che la piccola andò in bagno, vide spazzolini e dentifricio, ne capì l’uso e lo spiegò a me e a mio fratello: “Dentijo jejeje” disse sfregandosi il dito sui denti, simulandone così il lavaggio. Io e mio fratello ri-demmo a crepapelle. Tempi delle medie, crescono cervello e fisico, ed anche la passione per il calcio era letteralmente debordata. La nostra stanza cominciò così a colorarsi dei colori di tutte le squadre di calcio del mondo. Il primo ga-gliardetto appeso su quei muri fu, ovviamente, quello del Picchio. Anche il nostro armadio cominciò a riempirsi di adesivi. Di comune accordo con mio fratello, per la pri-ma volta senza litigare, caso davvero più unico che raro, il primo ad essere attaccato sull’armadio verde petrolio che era nella nostra stanza da letto fu quello dell’Ascoli. Poi ci scatenammo ed attaccammo di tutto. Persino uno del-l’Anconitana, ma ai tempi (lo giuro sulla testa di cazzo che mi ritrovo appesa al collo) non sapevamo neppure che squadra fosse. Inizialmente simpatizzavo per questi sfigati. Poi hanno cominciato a rompere i coglioni (calcisticamen-te parlando) ed allora è cambiato tutto.In terza media cominciò a mancarmi la terra sotto i pie-di. Due erano le cose che volevo. La prima era un’utopia, cioè quella di andare in trasferta coi tifosi. “Ma quando sarò maggiorenne avrò la mia macchina, il mio pacchetto di Marlboro, e andrò in trasferta coi tifosi. Devo solo atten-dere cinque-sei anni”. Non so perché, ma il compimento della maggiore età l’ho sempre visto come il raggiungi-

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mento di tutte le libertà, ivi compresa quella di avere il mio personale pacchetto di Marlboro sul cruscotto. Già, a �8 anni i miei non potranno più dirmi nulla!!! Era questo uno dei miei pensieri fissi. L’altro, ben più importante e soprattutto di immediato realizzo, era quello di andare a vedere la partita in curva sud. Perché la curva è la curva. La curva è il cuore. La curva è il ��° uomo. La curva è quella sotto la quale i giocatori vengono ad esultare dopo un gol o una vittoria. La curva è un entità rispettata e temuta. La curva è quella che canta, lotta, impreca e soffre. Che può condurti alla salvezza… o a un esonero… o a una sonora bocciatura… o ad esse-re adorato da una città intera. La curva degli anni ’80 era molto fascista. Non perdonava nulla. Nessuna pietà per i brocchi, nessuna pietà per gli allenatori che non vinceva-no. Nessuna pietà per i tifosi che non cantavano. E con poca (ma proprio poca) pazienza: ai primi risultati nega-tivi, giù fischi e richieste di esoneri. La sud voleva solo vincere e continuare a restare nella massima serie. Signori, ai tempi lo stadio esaurito era quasi all’ordine del giorno. Gente accalcata, vessilli bianconeri che sventolavano, cori che si levavano, era un tripudio rigorosamente bianconero. Il solo vedere il Del Duca pieno come un uovo mi faceva impazzire. E quello che c’era prima? Ne vogliamo parla-re? Abitavo a Porta Cappuccina, tra me e lo stadio c’era un bel pezzo di strada da fare a piedi. Diciamo un paio di chilometri. A mezzogiorno in punto si mangiava (a volte anche prima), poco e velocemente perché dovevamo anda-re allo stadio a prender posto. Era sempre gremito quando arrivavano le grandi squadre. Guai a mio padre se provava a non condurci con lui (allo stadio) per paura della ressa.

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Effettivamente poteva essere pericoloso, ma noi volevamo andare a tutti i costi. E alla fine vincevamo noi, mio fratello ed io. Andavamo allo stadio assieme a nostro padre, ri-spettando minuziosamente nei tempi l’iter. Eravamo emo-zionatissimi. Stavo dicendo: a mezzogiorno pranzo, subito dopo cacata sfonnacesso, quindi sciarpa intorno al collo o legata in vita, e si partiva a piedi per raggiungere il Del Duca. Lungo la via c’era tantissima gente, tutti con sciarpe e bandiere e maglie bianconere indosso, tutti muovevano verso est: era un fiume bianconero in piena. Sul ponte di Santa Chiara si stagliava alta e maestosa la A dipinta dei colori sociali, la cui ombra si rifletteva sull’asfalto della Via del Calcio Spettacolo (ovvero Via delle Zeppelle). Si passava sotto la A, si salutavano gli amici, si scambiavano quattro battute (ma proprio quattro… si andava sempre di fretta) e finalmente si arrivava allo stadio che già brulicava di persone. Sugli spalti c’erano ancora pochissimi posti da occupare. E, signori, erano si e no le ��. Mancava ancora un’ora e mezza all’inizio del match. Il bar dello stadio era zeppo di persone che volevano un caffè o un amaro, dalla strada vedevi Passarò schizzare da una parte all’altra del bancone, noi passavamo oltre e ci avvicinavamo alla tribu-na (o ai distinti ovest, a seconda delle circostanze). Erano due le cose che amavo fare. La prima era quella di prendere una copia di un giornale che distribuivano all’esterno dello stadio; si chiamava SPRINT e raccontava di tutti gli sport della regione Marche. Davvero un gran bel giornale che, come tutte le cose belle, un bel giorno svanì nel nulla. La seconda cosa era quella di passare davanti ai botteghini per il semplice gusto di vedere la scritta: biglietti esauriti. Era una cosa che mi rendeva troppo felice! Non so esattamente

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il perché, probabilmente perché sapere che tanti ascolani andavano allo stadio a vedere il Picchio era per me grosso motivo di vanto. Una città così piccola che adora la propria squadra e che la domenica “desertifica” le proprie vie e ruette… perché gli ascolani sono tutti dentro il Cino e Lillo Del Duca! Era come vivere una favola.In occasione di Ascoli-Milan, annata 2005/06, sono ap-positamente tornato da Padova per assistere al match. Era il ritorno nella massima serie del Picchio dopo �� lunghe e cupe stagioni, quando oramai mi ero messo l’anima in pace. Pensavo davvero che non saremmo più tornati in A. Sapevo che avremmo potuto perdere anzi, che probabil-mente avremmo subito una sonora batosta, ma la speranza è sempre l’ultima a morire. Chissà che non gli facciamo la bua, ho detto fra me e me. Immagino comunque che tanti ascolani avranno pensato la stessa cosa. Uno dei mo-tivi che mi ha spinto a tornare per vedere una sconfitta in partenza è stato determinato dal fatto che volevo riassapo-rare le emozioni di un tempo. Il pranzo veloce del mezzo-giorno, la cagata in tutta fretta, sciarpa bianconera al collo e via, dirigermi con passo spedito verso il Del Duca. Per strada il mondo, rigorosamente colorato di bianconero, tut-ti con lo stesso obiettivo: raggiungere in fretta il Del Duca. Il ponte di Santa Chiara senza la A sembra spoglio, poi è stato anche rifatto per cui l’impressione che desta è un’al-tra rispetto a quella che destava un tempo. La via del calcio spettacolo però non è cambiata granché, è sempre la stessa. Sul finire della via, semicoperto dai tigli, fa capolino il Del Duca. Quegli spicchi di parterre che si vedono dalla strada lasciano intuire che è già pieno come un uovo. Sono le ��. Che bello. (Quasi) Tutto come una volta… E poi i bot-

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teghini. Corro lì davanti… sono chiusi, nessuna scritta… Cazzo, vaffanculo, mettetelo un cazzo di cartello TUTTO ESAURITO… Sono venuto da Padova solo per quello!!!! Fortuna che l’Ascoli ha pareggiato rinverdendo i vecchi e gloriosi fasti del piccolo Davide contro il gigante Golia! Il Del Duca sa ancora ruggire. Dovreste vedere quanto lo fa bene!

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I PELI PUBICI DI ENRICO NICOLINIFrequentando spesso e volentieri gli spogliatoi del Picchio, scopri tante cose divertenti e –a volte- sconvolgenti. I gio-catori son lì, escono dalla doccia, si vestono e non badano tanto a chi è lì dentro. Ricordo il caldo, a tratti asfissiante, che era negli spogliatoi. E quel buonissimo odore di can-fora che, tuttora, identifico con la serie A. Enrico Nicolini era il capitano dell’Ascoli, una bandiera. Era d’un biondo unico, ed in tutta onestà ad Ascoli di biondi naturali ce ne son pochi. Così, una volta, mi capitò di vederlo nudo nel-lo spogliatoio, dopo una partita. Rimasi esterrefatto. Non riuscivo a credere a quel che vedevo. No, non parlo delle dimensioni del suo pene. Non ho tendenze omosessuali. La cosa che mi lasciò choccato fu che i peli attorno a quel ses-so erano biondi. Non avevo mai visto una roba simile! Ero abituato al nero, dentro la mia testolina di bambino pen-savo che tutti i peli dovessero avere quel colore. E invece no. I biondi ce l’hanno biondi. Il mio sguardo risalì su tutto il suo corpo. Anche le ascelle avevano peli biondi, e tutta la peluria che lo ricopriva era di quel colore. Non esagero quando dico che rimasi assolutamente sorpreso da quel che avevo visto. A distanza di anni, mi è capitato di farmi una bionda. Di quelle naturali. Non avevo altri obiettivi se non quello di portarla a letto. Così fu. Ma non scorderò mai le parole che mi disse:“Dillo chiaramente che non ti piaccio. Che mi scopi solo perché sono bionda e tu una bionda non l’hai vista mai”. Inizialmente rimasi sorpreso e non seppi cosa aggiungere. Di primo acchito non potevo che darle ragione. Ma quando poco dopo intervenne in me la riflessione, mi tornò alla mente proprio quell’episodio di Nicolini. E stavo per dir-

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glielo, ma ho desistito. Presumo che non avrebbe capito e mi avrebbe anche dato del frocio. Le donne non riescono ad apprezzare le sfumature che il calcio riesce ad offrire ai veri tifosi.

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LE SCUOLE SUPERIORILe scuole superiori sono il primo segno che stai diventan-do grande. Cominciano a crescerti i peli sulle palle (io ho sviluppato molto tardi), cambi la voce e cominci a farti tante seghe. La figa comincia ad assumere sempre più im-portanza nella vita di tutti i giorni. A scuola suona tutt’altra musica. Pensa, qualche compagno di classe con fare molto ardito fuma persino le sigarette… Qualcuno ha la ragazza (beati loro, esclami estasiato). Ma, soprattutto, vanno tutti in curva a vedere l’Ascoli. Perché alla sud (la curva è la sud) vai a vedere l’Ascoli, non la partita. Cazzo, e questo mi faceva rosicare ancora di più!!! Qualche mio compagno annoverava diverse trasferte sulle spalle, anche di quelle cosiddette a rischio. Poi, con molta enfasi, ce le racconta-va. Noi tutti restavamo incantati e in silenzio a sentire le avventure degli ascolani in trasferta. Che spasso, che bello, che sogno la trasferta! E, soprattutto, concedetemelo, che bello essere in una classe dove tutti i maschi erano giù di testa con il Picchio! Signori, sto parlando di veri malati, di autentici maniaci del Picchio, mica cazzi!!! Il bello è che la malattia dell’Ascoli Calcio ti accompagna per tutta la vita. Lo affermò anche Costantino Rozzi. Così, vecchi compagni di scuola che non vedi da secoli, stai pur certo che se e quando li incontrerai di nuovo sarà al Del Duca o in trasferta al seguito del Picchio. Garantito. Con tutta quell’adrenalina che pompavo a scuola, la mia passione per il Picchio divenne abnorme e… raffinata. Co-minciai ad avere maggiore cognizione del calcio, la passio-ne rimaneva sempre a livelli alti-altissimi e mi preposi un obiettivo: la Curva Sud. Era arrivato il tempo, il momento di conquistarla era alfin giunto, mi dicevo facendomi co-

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raggio. Perché i cazzi acidi erano convincere mio padre… Però, oh, tutti i miei compagni andavano in curva, solo io andavo ancora con mio padre in tribuna. O ai distinti. In curva è pericoloso, mi sentivo dire in continuazione. Che, in tutta onestà, solo parzialmente era una stronzata. Negli anni ottanta non passava una domenica senza una rissa. Arregna, pardon. A parte quella con i tifosi ospiti, che av-veniva spesso e volentieri, ogni domenica nella Sud due o più tifosi ascolani se le davano di santa ragione. Era mate-matico. Ad un certo punto scoppiava il parapiglia. E qual-cuno, più intento a guardare gli spalti invece di guardare il campo, gridava: “Oh, raga’, ci sta l’arregna”. E tutti si giravano a vedere. Il più delle volte il motivo dell’arregna era misconosciuto, spesso però accadeva che qualcuno non cantasse, ed allora il facinoroso capo ultras di turno saliva i gradoni due a due e riempiva di botte il “muto”. “Se nen vuo’ canda’, vattene ai distindi!” E giù un dio qua-le rafforzativo del concetto. Comportamento assolutamen-te da biasimare, la violenza è da incivili. Ma volendo fare a tutti i costi l’avvocato del diavolo, direi che il capo ultras amava l’Ascoli e voleva condurlo alla vittoria con i canti e i cori della Sud. C’era perciò bisogno dell’apporto vocale di tutti, in un’ottica di cooperazione tra veri amanti del Pic-chio. E se qualcuno viene nel cuore del tifo, dove tutti gli ultras sono schierati e cantano e gridano e incitano i propri beniamini, tu devi cantare, altrimenti cambi settore. Una logica un po’… illogica, ma alla fine è sempre stato così. L’ascolano ha l’Ascoli dentro, ed è sanguigno. Si sa che è così, negli anni ottanta ti picchiavano se non cantavi, ora cantano tutti. E non per paura delle botte!!!Detto ciò, finalmente arrivò il momento mio e di mio fra-

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tello di andare a soffrire in curva. Non ricordo l’anno, non lo ricordo affatto, so che ciò è avvenuto per legge naturale. Un po’ come quando, menandoti l’uccello, ti esce per la prima volta lo sperma. In fase di campagna abbonamenti, abbiamo detto a nostro padre che avremmo fatto quello della Curva Sud. “Cazzi vostri. Io non vi do’ una lira” fu la risposta per scoraggiarci. La cosa ovviamente non sortì l’effetto spe-rato. Avevamo vinto la battaglia. Da quell’anno in poi mio fratello ed io non abbiamo fatto altro che andare tutte le domeniche nella Sud, a cantare, gridare e soffrire con gli ultras. Con il raggiungimento del cuore del tifo biancone-ro, eravamo giunti alla completa maturazione del tifoso. Una volta fatto l’abbonamento eravamo raggianti, felici come mai lo eravamo stati. Mio padre non ci credeva, non credeva che potessimo aver fatto l’abbonamento in curva. Quando li vide, montò su una protesta davvero farsa che morì in un attimo. Sapeva anche lui che la Sud è la Sud. Secondo me ci rimase male perché per la prima volta i figli preferivano andare da soli piuttosto che con lui. Ma il discorso è sempre lo stesso: è una legge naturale, triste segno del tempo che passa e che sta a significare che si sta invecchiando e che i figli stanno crescendo. Se un giorno dovesse accadere a me una roba simile, probabilmente ci resterei molto male, ma lascerò che mio figlio vada a sof-frire nel cuore del tifo. Intendiamoci, questo solo se la sua passione è l’Ascoli, altrimenti lo osteggerò ad oltranza. E potrei anche disconoscerlo come mio figlio naturale! Ah ah ah, scherzo.Forse…L’ultimo ricordo che ho della tribuna risale ad un Ascoli-

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Avellino della stagione �98�-8�. Finì �-� e al termine di quel campionato retrocedemmo in serie B. Erano i tempi del compianto Josè Guimaraes Dirceu, grande bombardiere dalla medio-lunga distanza. Quella domenica mi fece lette-ralmente impazzire. E con me impazzirono tutti i presenti al Del Duca. Ero in tribuna stampa, relegato in un cantone in seconda fila, col tetto spiovente di cemento armato ap-pena sopra la mia testa. Occupavo una posizione davvero disagiata, oltretutto la gara si era messa molto male per noi. Eravamo sotto di 2 reti. La sconfitta era assolutamente da evitare per non perdere il treno salvezza. E la salvezza ce la giocavamo (manco a dirlo) proprio contro l’Avellino. Beh, sotto di 2-0, si scatenava il brasiliano. Una fiondata su punizione dai trenta metri e palla che gonfiava la rete, pro-prio sotto la Sud. Lo stadio esplose, io mi unii all’esplosio-ne, ma eravamo ancora sotto. L’Ascoli riversava l’anima in campo alla disperata ricerca del pareggio che sembrava non arrivare. Solo una prodezza avrebbe potuto levare le castagne dal fuoco. E la prodezza fu firmata ancora una volta da Dirceu che, ancora con una punizione-bomba, andò a gonfiare la rete della porta dell’Avellino, ai tempi difesa da Paradisi. Stavolta l’esplosione dello stadio sem-brò dovesse farlo crollare. Io impazzii, mi alzai di scatto saltando dalla sedia, pugni al cielo, per esultare. Come det-to, il soffitto era piuttosto basso. Conseguenza: craniata sul soffitto + doppio pugno con conseguente indicibile dolore alle mani che cominciarono a sanguinare. Sembravo Padre Pio! Ricordo che un giornalista, che era davanti a me, sen-tendo la triplice botta si girò per chiedermi se era tutto ok. “Si, si. Tranquillo” fu la risposta. Dentro di me sentivo un male boia. Non mi preoccupai affatto delle ferite che san-

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guinavano copiosamente. Nei giorni a venire, con orgoglio mostravo a tutti i dorsi delle mani completamente ferite a causa di un doppio pugno tirato al soffitto dello stadio per festeggiare il �-� di Dirceu.

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SONO UN ULTRASConquistata la curva, nella mia mente si faceva strada una più che lecita domanda. Visto che in questo mondo è ne-cessario dare un’etichetta alle persone per inquadrarle tra le forze del bene o in quelle del male, anch’io mi domandai: che genere di tifoso sono? Anzitutto, non sono uno sporti-vo. Importa sega delle altre squadre, io voglio che l’Ascoli vinca, punto e basta. Giocando bene o male, non m’inte-ressa; l’importante è che vinca. La sconfitta non l’accetto, mi incazzo e sbraito furia. Non sono un ultras perché non mi sono mai preso a botte e non ho intenzione di farlo, non vado in giro con un coltello in tasca e non sono un violen-to; magari sono un po’ sadico, ma tutto finisce lì. Sono un tifoso, mi risposi, un tifoso del Picchio. A distanza di tem-po dico invece che a quei tempi è nato l’ultras Gianluca e a tutt’oggi l’ultras Gianluca è ancora vivo e vegeto. Si, sono un ultras e me ne vanto. Perché l’ultras è colui che va alla partita e fa il tifo inces-sante per la propria squadra. Soffre, si emoziona, si incaz-za, contesta, sbraita e smoccola, poi però l’amore per la sua squadra è talmente grande che gli perdona tutto. Anche dopo una misera sconfitta, la settimana successiva torna allo stadio a soffrire per la propria passione. Ha già dimen-ticato la figuraccia della domenica precedente. Oppure fa finta di essere incazzato, ma basta un gollonzo per farlo impazzire e smontare la protesta in quattro e quattr’otto. L’ultras è un sognatore, l’ultras è un violento solo a parole. Vi romperemo il culo! è un modo come un altro per insul-tare gli avversari. Nell’ambito dei 90’ ci sta tutto. L’im-portante è che quello che si dice rimanga dentro le quattro mura dello stadio. Varcato il cancello di uscita, tutto deve

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tornare alla normalità. Sugli spalti ci siamo offesi, fuori ci prendiamo un caffè insieme. Mai portare odio. L’odio genera odio e scatena una spirale di violenza difficilissima da fermare. A tal proposito vi consiglio un film del 1995, intitolato per l’appunto “L’odio”.Tornando al calcio, come non parlare del campanile? Io ho conosciuto qualche pesciaro… pardon, sanbenedettese… molto simpatico, alcuni sono anche miei amici, mai farei loro del male (né loro lo farebbero a me) anche se sono tifosi della poco simpatica (eufemismo!) Samb. Ciò però non mi impedisce di gioire alle sconfitte della loro squa-dra. Calcisticamente parlando siamo acerrimi nemici, ma è solo un aspetto delle cose. Un aspetto ludico, che non va assolutamente confuso con il diritto alla vita che ciascuno di noi ha e che tu ultras non hai il diritto di togliere!

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LE RISSE ALLO STADIOE poi le risse contro i tifosi ospiti. Volete la verità? Non ho mai mollato un pugno in vita mia, mio fratello escluso (e gli chiedo pubblicamente scusa) e mai ho tirato un sasso o altro oggetto contundente. Però le risse mi hanno sempre affascinato. Mi mettevo in prima fila a vedere quello che succedeva. Da semplice curioso. Intendiamoci, se ti pren-de lo sbirro ti gonfia di botte come se avessi accoltellato qualcuno. Forse anche peggio. Quindi, per conquistare il posto nelle prime file in occasione di una rissa allo stadio, è bene che si abbiano mille occhi e che si sia più che pronti nel fuggire quando la situazione si fa pagliosa. Non consi-glio a nessuno di farlo, tantomeno a coloro che fisicamente non sono particolarmente dotati. Non che io lo sia, ma ho la corsa dalla mia. A dir la verità l’ho fatto anche con le stampelle. Scappa un po’ tu dagli sbirri con le stampelle!!! Non è impresa facile. Mi è andata bene. O meglio, mi ero posizionato in un posto dal quale vedevo tutto ed avevo una via di fuga facile facile. E’ successo a Fermo, in occasione di Fermana-Ascoli. Mega carica della polizia a fine partita; io mi ero fatto male il giorno prima giocando a calcio. Non potevo però saltare il derby (ci sono alcune gare che, per principio, non si de-vono mai saltare: le cosiddette gare di precetto); così sono partito, con le crocchie. E da folle mi sono schierato in posizione ideale per osservare i tafferugli.Il mio amico Giorro, non appena mi ha visto in quelle con-dizioni, mi ha detto: “Ah Enrico Toti, vedi de nun fa’ l’eroe, che io nun ce vengo a trovatte all’ospedale de Fermo! ‘A maghina se rifiuta d’anna’ da quelle parti…”Gli ho risposto: “Tranquillo, non c’è motivo di preoccu-

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parsi, non accadrà nulla”. Invece è successo che gli asco-lani hanno esagerato, i celerini si sono incazzati ed hanno cominciato a menare di brutto. Tutti scappavano, io lo fa-cevo con le stampelle in una strada in discesa. A tratti ero comico.Aggiungerei anche un’altra cosa. Non ho mai visto un col-tello in curva sud. Mai. E poi noi tifosi ascolani siamo stati sempre tenuti a bada in maniera egregia dalle forze dell’or-dine. Questo va riconosciuto. C’hanno sempre seguito e ci seguono tutt’ora in casa e in trasferta impedendoci pronta-mente il contatto con la tifoseria avversa.

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LA RETROCESSIONERecitava una pubblicità di fine anni ottanta: “Le tre paure più grandi dell’uomo? Il tradimento, la morte e la retroces-sione”. Quest’ultima paura si manifestò improvvisa a noi ascolani nella stagione 1985/86 e interruppe un periodo di 7 consecutive annate nella massima serie. Era l’anno del-lo scudetto al Verona, uno squadrone che al Del Duca ci arò. Letteralmente. �-� e nulla da recriminare. Quell’anno l’Ascoli disputò una pessima stagione, chiudendo al ter-z’ultimo posto retrocedendo in cadetteria. La tifoseria era ai ferri corti con Rozzi, chiese ed ottenne l’immediato ri-torno in serie A. Qualcosa però stava già cambiando. Era il primo anno di Maradona in Italia, Platini era alla terza stagione, Zico alla seconda, Falcao addirittura alla quinta e stava salutando l’Italia. Insomma, i soldi cominciavano a girare sempre più e tanti campioni stranieri venivano nel paese della cuccagna a calcare prati sempre più verdi… di denaro. Cominciava a crescere il divario tra le grandi e le piccole squadre. Il Verona vincitore dello scudetto può es-sere considerato come il canto del cigno delle provinciali. Si entrava nella seconda metà degli anni ottanta e i miliardi cominciavano a diventare bruscolini. Rozzi diceva già da tempo queste cose, allertava gli addetti ai lavori sulla pe-ricolosità di questo trend negativo. Niente da fare, l’hanno fatto passare come un personaggio pittoresco di un paesot-to di provincia che si raggiunge a dorso di mulo. La retro-cessione fu interessante solo per un motivo: il derby con la Samb. Mio padre (ovviamente) non mi mandò a San Be-nedetto del Tronto ad assistere al match; mi accontentai di vedere il retour match al Del Duca. Fu una delusione, per-ché entrambe le gare finirono in parità, e soprattutto quella

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del ritorno sembrò una partita truccata per permettere alla Samb di salvarsi. Alla fine del campionato i cuginetti se la scamparono per un punto, l’Ascoli approdò in A e i tifosi ruppero pesantemente con Rozzi.

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REGGIO EMILIA STAGIONE 1987/88Il Centro Coordinamento Club organizzava un treno spe-ciale con partenza dalla stazione di Ascoli Piceno. Che io ricordi, è stata la prima ed unica volta che si è verificato un fatto simile. Ma non ci metterei la mano sul fuoco. Destinazione: Reggio Emilia. Ultima partita di campionato. Decisiva per la promozione nella massima serie; un occhio al Padova impegnato a Lucca. Se non avesse vinto, la serie A sarebbe stata matematica per noi. Partimmo in… Non lo so, eravamo furia. Il treno non finiva mai ed era tutto bian-conero. Gente che cantava, vestita rigorosamente di bian-co e nero. Sciarpe, striscioni, magliette, tutti inneggianti al Picchio. Il viaggio fu interminabile, con sosta lunghissima poco dopo Ancona. Correva voce che qualcuno fosse stato colpito da un sasso. Nessuno confermava, nessuno smen-tiva. Dopo un bel po’ si ripartì sotto un caldo asfissiante (era la metà di giugno) e con pochissima acqua a bordo. La sete cominciava a farsi sentire. Le gole erano aride. Molti scendevano durante le fermate nelle stazioni per cercare di comprare una bottiglia d’acqua. Era comunque molto dif-ficile e rischioso: il treno non aspettava nessuno. Noi non ci provammo neppure. Reggio Emilia, stazione di Reggio Emilia. Finalmente arrivammo, prendemmo armi e bagagli e in cor-teo ci recammo verso il Mirabello, lo stadio più scomodo del mondo. Gradoni… pardon, gradini bassi che costringe-vano il pubblico all’ammasso, sotto un sole che spaccava le pietre. Io, come molti, ero a torso nudo; altri, ben più scaltri, erano in costume e nell’intervallo li ho visti buttarsi per terra, in quei lerci bagni, per cercare refrigerio sotto l’acqua di una fontana che sembrava appositamente messa

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lì. Caldo epico, inenarrabile. Partita emozionantissima, ma proprio nel finale Aloisi commetteva un errore madornale che i locali non perdonavano: �-� per gli emiliani. Dram-ma in curva, la serie A stava svanendo. Azione successi-va. Aloisi partiva in percussione dalla nostra metà campo, arrivava fin dentro l’area avversaria, e veniva messo giù. Calcio di rigore. Tiro, goal. �-�. La curva impazziva. Ol-tretutto correva voce che il Padova pareggiasse: in virtù di ciò, non avrebbe potuto scavalcarci in classifica. Al Mira-bello l’arbitro fischiava la fine delle ostilità. 3-3 il risultato finale, i giocatori restavano in campo immobili, così come i tifosi sugli spalti, nella trepidante attesa che finisse anche la partita di Lucca. “Dio, fa che finisca così. Facci tornare in A” era il pensiero che accomunava tutte quelle anime in pena. Triplice fischio anche a Lucca: la Lucchese superava il Padova per due reti ad una. La curva urlava al cielo tutta la sua rabbia e, contemporaneamente, i giocatori in cam-po balzavano in piedi e cominciavano ad abbracciarsi l’un l’altro, correndo verso i propri tifosi. Eravamo tornati in serie A. Subito. Nonostante l’enorme sofferenza durante il campionato. Nonostante quel caldissimo sole avesse cer-cato di rincoglionirci. Nonostante c’abbia provato in tutti i modi anche la sete, contorcendoci le budella e seccandoci le labbra… Ma noi niente, abbiamo onorato il campo e gli spalti in maniera più che degna, come si confà alle squadre e alle tifoserie della massima serie.

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L’UNIVERSITA’Ho fatto tre anni di università in quel di Ancona. Poi mi sono accorto di non essere tagliato per lo studio ed ho mollato tutto. Ai tempi tra Ancona ed Ascoli era esplosa un’acerrima rivalità. Ciò nonostante non è mai successo nulla di particolarmente grave nel capoluogo dorico al di fuori delle partite di calcio. Tenevo tantissimo al derby al Dorico. Fu il penultimo divieto di mio padre. A dire il vero, l’ultimo non me lo ricordo; evidentemente non era così im-portante. Ma non divaghiamo. Dicevo, mio padre mi im-pedì di assistere al derby in terra anconetana. La scusa era plausibile. Per l’occasione i tifosi della sud avevano messo in vendita una maglietta bianca con due stampe. Fronte, la sud stracolma di gente, striscioni e bandiere; sotto, la scritta: GRAZIE A DIO SIAMO ASCOLANI. Sul retro il simbolo del Settembre, gruppo storico ascolano. Quella maglietta che acquistai prontamente mi costò la trasferta. Ne avevo già fatte altre, ma quella rivestiva un’importan-za notevole dal punto di vista storico. Beh, io quella volta non c’ero. Mio padre disse che quella maglietta era un’isti-gazione alla violenza. Effettivamente aveva ragione. Però, porca troia, non potevo andare a quella trasferta senza la maglia appena acquistata!!! Morale della favola: sentii la partita alla radio. Incazzato come una iena. Anche perché perdemmo �-0. In quella circostanza ci furono duri scontri tra ascolani e polizia, devastazione di mezzi pubblici e tan-ta gente fu identificata e arrestata. Insomma, un marasma coi fiocchi. Io l’ho solo sentito raccontare da più persone. Le mie orecchie hanno sentito, ma i miei occhi non hanno visto. E’ il mio più grande rammarico. Però la maglietta ce l’ho ancora e la sfoggio a Padova durante gli allenamenti.

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In quel periodo universitario continuai a fare trasferte. A volte con mio padre e i giornalisti del giornale nel qua-le scriveva, altre volte coi tifosi. Era più o meno di quel periodo l’infinita trasferta in quel di Cremona, quando perdemmo �-� e retrocedemmo miseramente in serie B. Partimmo col pullman n. �, mio fratello ed io, denominato “Fluvione bianconera” perché organizzato da quel gruppo di Roccafluvione. Complessivamente eravamo 15 torpe-doni; quando ci iscrivemmo alla trasferta eravamo finiti in una corriera temibilissima, quella del Bar Musical. Ai tempi quel bar era davvero un’ira di dio. Per gentile inter-cessione di mio padre fummo inseriti nel �; non tanto per nostra paura, quanto per la sua. Cosa non farebbe un padre per i propri figli! La leggenda narra che almeno 3 mezzi fossero in soprannumero, e che �� persone fossero sedute sul corridoio perché non c’erano più posti a sedere. E poi ce n’erano alcuni che erano dei veri e propri polmoni; rimase-ro chiaramente indietro e abbandonati al loro destino. Che la leggenda narra che fu davvero brutto. Arrivarono parec-chio tempo dopo a Cremona, comunque prima dell’inizio del match. Contrariamente a quel che succede da qualche anno a questa parte, cioè che i pullman di tifosi giungono allo stadio a partita inoltrata per motivi di sicurezza. Una volta è capitato anche a me. Da quel momento ho scelto l’auto come mezzo di spostamento per le trasferte. Breve inciso: ritengo assolutamente ingiusto far perdere ai tifosi una parte della gara (anche solo � minuto) per motivi di sicurezza. Il biglietto è stato regolarmente acquistato, non vedo perché debba essere sempre il tifoso a pagare la di-sorganizzazione di chi è preposto a farlo in certi eventi. Beh, insomma, a Cremona assistemmo ad uno spettaco-

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lo pietoso. Il solo Zaini cercò di tenere alta la bandiera bianconera, ma fu uno sforzo inutile. Perdemmo meritata-mente e tornammo ad Ascoli (� ore di viaggio, mica una) con mille pensieri cupi dentro le nostre teste. Già, perché quella era l’ultima spiaggia; la sconfitta significava retro-cessione. Sempre la leggenda narra che un pullman intero fu portato in questura a Cremona, e tutti furono identifi-cati. Mi sembra fosse proprio il pullman dove saremmo dovuti accomodarci mio fratello ed io… La leggenda narra pure che, dopo il riconoscimento di tutti gli occupanti del mezzo, finalmente fu dato l’ok per uscire dalla questura e tornare ad Ascoli. Sfortunatamente, prima di sortire dal-la caserma, gli occupanti del mezzo intonarono il coro: “SBIRRO, SBIRRO, SBIRRO MALEDETTO…”. Il coro non fu gradito dai militanti dell’arma, che li bloccarono nuovamente, li riportarono dentro minacciandoli di non farli più ripartire.

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DECLIN AND FALL OF ASCOLI CALCIO EMPIREAbbandonai l’università, feci il militare e poi, finalmen-te libero dagli impegni scolastici, trovai un lavoro. L’ac-cresciuta possibilità economica mi portò a fare tantissime trasferte. Inutile dire che avevo l’abbonamento e non ne perdevo una. A tal proposito citerei quell’anno in cui persi l’abbonamento. Il gioco di parole è involontariamente… voluto. Mi incazzai come una bestia, per fortuna mancava-no solo 4 partite alla fine. Ovviamente dovetti comprare il biglietto per le restanti gare. Ma quanto mi rodeva il culo! Ogni volta che tiravo fuori i soldi per acquistare il biglietto per la gara del Picchio mi tornava in mente l’abbonamento andato perso. E montava su l’incazzatura. A distanza di � anni lo ritrovai. L’avevo nascosto dentro il mio armadio per paura di perderlo. Già, per paura di perderlo… Non mi incazzai, mi misi a ridere e pensai a quanto cazzo sono giggi. Poi però mi venne in mente che, comunque, avevo pagato il biglietto pur di non perdermi neppure una gara del Picchio. E fui orgoglioso di questo, e tutt’ora lo sono.La caduta in B fu drammatica, fu per me un vero colpo al cuore. Poi la morte di Rozzi e la serie C. Furono sette anni terribili, ogni anno peggio del precedente, ed io tutte le volte facevo codesta testuale dichiarazione: “QUEST’AN-NO NON FACCIO L’ABBONAMENTO MANCO SE CI CALA CRISTO”. Non solo ogni anno mi abbonavo, ma andavo pure in trasferta. E non ne facevo una e due. Me-diamente vedevo ��-�� partite del Picchio (tutte le gare casalinghe e 8-9 trasferte). La serie C quasi mi piaceva, perché ogni domenica avevo l’occasione di fare una tra-sferta senza sobbarcarmi migliaia di chilometri. Avevo cir-coscritto il mio raggio d’azione per la causa del Picchio

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ai �00-�00 chilometri. Non oltre. A meno che non andassi con mio padre e quelli della radio. Così mi capitò di an-dare a Palermo, in un Barbera desolatamente vuoto (��� paganti per uno spettacolo pietoso. Fu uno 0-0 piatto come l’encefalogramma di un uomo in coma irreversibile). Ma non solo lì. Lecce, Taranto, Terni, Roma, Castel di Sangro, Castellammare di Stabia, Nola, Wembley (non Londra… Wembley!) e chi più ne ha, più ne metta. Alcune trasferte sono state memorabili.

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GUALDO TADINO E SANT’EMIDIOGualdo Tadino. Altra trasferta fuori da ogni logica. Ri-cordo che pareggiammo �-� e che andammo là con uno scassatissimo Ducato 9 posti di Zè. Eravamo in sette, se non erro. Tre episodi mi sconvolsero. Il primo fu vedere il glorioso Ascoli giocare in un posto del cazzo, in culo al mondo, contro una squadretta che comunque ci aveva messo sotto dal primo all’ultimo minuto. Il secondo fu il terremoto. Eravamo posizionati nella tribuna davanti a quella coperta, rigorosamente in piedi su una struttura in tubi innocenti. Faceva un freddo boia e tutti noi ascolani battevamo i piedi forte forte. Un po’ per riscaldarli, un po’ per la tensione nervosa. Eravamo al 90’, la gara era ora-mai finita, stavamo pareggiando, ma stavamo soffrendo di brutto. Ad un certo punto si udì una fortissima esplosione. All’esplosione seguì un olè dei tifosi ascolani, che conti-nuavano a battere i piedi, stavolta con più vigore. Non so se più per la paura o più per il freddo… In tribuna scoperta, invece, all’esplosione seguì un fuggi fuggi generale; guar-dando meglio, notammo che il tetto della tribuna oscillava paurosamente. C’era appena stata una forte scossa di ter-remoto. Sant’Emidio aiutaci tu, pensarono senza scompor-si gli ascolani inneggiando al santo patrono protettore dei terremoti. E anche quella volta ci aiutò. Difatti, dopo un minuto, l’arbitro fischiò la fine. Il terzo episodio che mi sconvolse si verificò durante l’intervallo della gara. Guar-dandomi attorno notai la presenza di un mio ex compagno di classe delle superiori. Non lo vedevo dai tempi della scuola, ci fermammo a parlare del Picchio e della nostra vita. Dopo un quarto d’ora che parlavo assieme a lui, mi venne un’illuminazione:

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“Oh Dome’,mo’ che ci penso, ma tu che cazzo ci fai qui a Gualdo in mezzo ai tifosi ascolani? Nen sive nu’ pescia-re???” Era tutto vero, alle superiori era un accanito tifoso della Samb. Poi si è convertito all’ascolanità. Ora, caro let-tore, può capitarti di vederlo in trasferta e di vederlo esul-tare per le sorti del Picchio. Della serie: quando il calcio fa miracoli!!!

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AVELLINO: CRONACA DI UN TERRIBILEWEEK-END DI MERDAAh, quello fu un indimenticabile fine settimana di merda. Anzitutto, preciso che quel giorno perdemmo �-� contro una squadra in �0 dal �0’ del primo tempo. Facemmo schi-fo al cazzo anche quella volta. Non solo. Assieme ad alcu-ni amici arrivammo a partita già iniziata (odio arrivare a partita in corso. Purtroppo mi è capitato diverse volte, ma ribadisco il concetto: è una sensazione davvero spiacevo-le) e prima di capire quello che stava succedendo eravamo già sotto di � gol. Disputammo una partita allucinante. Un po’ come quello che mi era capitato la notte precedente il match. Ineluttabilmente fu preso come un segno del desti-no. Come si dice a Roma, quanno è tempo de piallo ‘nculo, er vento t’arza sempre la camicia. Quella notte era accadu-to uno di quegli episodi che mai càpitano nella vita di un uomo. Siete mai svenuti sopra una merda? Cioè, voglio dire, vi è mai capitato di perdere i sensi e di cadere con la spalla sopra una merda umana che è depositata su un mar-ciapiede di Roma? E vi è mai capitato che l’amico che vi raccoglie da terra non se ne accorge, pensa che tu abbia il giubbetto umido, che quindi si asciughi le mani sui panta-loni, ti stringa a te e che poi gli venga un dubbio: ma siam sicuri che sia acqua? E allora avvicina le mani al naso… e sente che tanfano di merda… E che anche in mezzo alle unghie ci sia merda! E che non abbia un cazzo per pulirsi se non l’acqua del tergicristalli? E che poi torni a casa a dormire, nessuno parla, solo la puzza di merda dentro l’au-to la fa da padrona. E poi ti svegli a casa del tuo amico, e la madre gli dice: “Ah Giò, ma che è sta puzza demmerda?”

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E che il giorno dopo passi a prendere altri amici per parti-re alla volta di Avellino per vedere la partita, e che questi amici appena salgono in macchina dicono estremamente preoccupati: “Oh, raga’, attenzione. Qualcuno ha quagliato. Si sente fu-ria puzza di mmerda!” Ve l’ho detto: fu un week-end di merda e non solo perché l’Ascoli ne uscì miseramente sconfitto.

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MILLE E PIU’ TRASFERTEE poi mille altre trasferte in giro un po’ ovunque nel cen-tro-sud d’Italia, rimediando prestazioni barbine (non noi tifosi, intendiamoci), a volte strappando qualche punto, spesso uscendo sconfitti con il viaggio di ritorno da fare nel silenzio di quell’auto triste, che sembra non finire mai. Come a Foggia, spareggio per la promozione in B col Ca-stel di Sangro. Viaggio di ritorno fatto a �0 all’ora a causa di un problema alla macchina di Giorro che ci ha costret-to a tenere un’andatura da funerale. Così, una sconfitta ai rigori contro una squadretta che volevamo dimenticare al più presto, si è trasformata in un calvario senza fine. Per-ché in macchina rimugini, ti vengono in mente episodi. E si attacca coi “se” e coi “ma”, per poi finire irrimediabil-mente a parlare di futuro. Già, quale futuro? Sembrava non ci sarebbe stato un futuro per l’Ascoli Calcio. E invece… Invece siamo riusciti a tornare in serie A, e ci siam fat-ti pure rispettare. Solamente il primo anno, però! Ma, vi giuro, fino a 7 anni fa la cosa era impensabile. E come non parlare poi della trasferta di Perugia? Come non farlo? Non si può, anche se è stata la cosa più triste della storia dei tifosi bianconeri. Oramai però appartiene al passato. Ne posso liberamente parlare. Di seguito riporto uno scrit-to fatto qualche mese dopo, quando il dolore era ancora tanto, troppo forte dentro me.

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SUNDAY BLOODY SUNDAY�� Giugno �000. Quel giorno lo ricordo benissimo. Era domenica. Assieme ai miei amici partivamo – era mattina, non più tardi delle �� – per Perugia dove si sarebbe dispu-tata la finale dei play-off tra Ascoli ed Ancona, valida per la promozione in serie B. Un derby di quella portata avreb-be assegnato una storica promozione. C’era Giorro, c’era-no Valerio, Gioacchino, Lello, Massi, il Quele, Luca, Ci-sco, P’che’, un collega di Massi e chiedo scusa a chi ho dimenticato. Tutti festosamente coperti di vessilli bianco-neri. Sciarpe al collo, magliette del Picchio, bandiere. Era un delirio. �0.000 ascolani circa, forse di più, si muoveva-no alla volta di Perugia. Eravamo tanti, tantissimi, tutti con l’Ascoli nel cuore e la speranza anzi, la CERTEZZA di salire in serie B. Personalmente non avevo mai esaminato attentamente la sfida che di lì a poco avremmo giocato contro l’Ancona. Per me sarebbe arrivata una vittoria ed una fantastica promozione. No, non avevo minimamente pensato alla probabilità che avremmo anche potuto perde-re l’incontro. Ero insolitamente eccitato, mai una partita di calcio aveva ispirato in me tanta passione, tanto sentimen-to. Ero partito con la certezza che ce l’avremmo fatta e che sarei tornato ubriaco di gioia e di alcool in seguito ai fe-steggiamenti che si sarebbero prolungati ben oltre i 90’ o ��0’ di gioco. Insomma, per me la promozione era cosa scontata. Partimmo e lungo la strada un corteo intermina-bile di macchine, tutte piene di gente e con i vessilli che sventolavano al vento. Era il preludio ad una grandissima festa. Viaggio bellissimo, ricco di alcool e aneddoti dei tempi che furono, quando l’Ascoli andava a gonfie vele in ben altre categorie. Si rideva, si scherzava. Poi, all’im-

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provviso, ecco il cartello stradale che indicava che Perugia era lì, che eravamo arrivati, finalmente. Davanti a noi c’erano alcuni pullman stracolmi di tifosi e di bandiere. Se con lo sguardo andavamo oltre quei torpedoni, potevamo scorgere una fila interminabile di auto strombazzanti che salutavano quelli che erano già arrivati. Il parcheggio anti-stante lo stadio era pieno. I tifosi parcheggiavano le pro-prie auto e, con andamento più o meno incerto (a seconda delle sostanze ingerite o fumate), si recavano dentro lo sta-dio cantando e vociando. Uno spettacolo unico e irripetibi-le. � anni prima a Foggia non fu così: fu una cosa diversa e sicuramente meno bella da vedersi rispetto a quello che i miei occhi stavano vedendo in quella maledetta seconda domenica di giugno. Fila interminabile ai cancelli. Alla fine arrivò anche per noi il momento di entrare. Ero emo-zionatissimo. Neppure quando davo un esame universita-rio o quando tentavo un approccio con una ragazza il mio cuore batteva tanto forte!!! Ricacciai indietro tutta l’emo-zione mormorando fra me e me che non era il caso. Che mancavano ancora due ore all’inizio del match. Che non aveva senso provare tanta emozione per una partita di cal-cio. Un po’ mi rabbonii, ma solo un po’. Entrammo, ci piazzammo in curva, in una zona che pensavamo fosse centrale. In realtà non lo era e ben presto ci accorgemmo che la curva era divisa da un’inferriata coperta da filo spi-nato. Io, Giorro, Valerio, Massi e il suo collega andammo dall’altra parte. Era lì il cuore del tifo. Ci siamo. Le due squadre scendono in campo. Si comincia a giocare. Dopo pochi minuti siamo costretti al cambio per un infortunio patito da Bitetti. Gara avara di emozioni. Finisce il primo tempo. Finisce anche il secondo. L’Ancona gioca bene, noi

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molto meglio. Ma di goal manco a parlarne. Gli ascolani cantano incessantemente, senza soste, senza smettere nep-pure un secondo di tifare ed incitare i propri beniamini. Dall’altra parte, la sparuta rappresentanza anconetana fa quasi pena. Quattro gatti a cantare, disorganizzati, schiac-ciati dalla supremazia bianconera sugli spalti. Una vergo-gna che un tifo tanto disinteressato quale quello anconeta-no possa salire, gridavamo a gran voce noi ascolani sugli spalti. Dicevo, dopo 90’ è 0-0, si va ai supplementari. Pri-mo tempo supplementare. Azione dell’Ascoli sulla fascia destra, non so come, non so chi, lascia partire un cross. La palla spiove in area. Baggio è lì, ben marcato dal suo uomo... Si gonfia la rete proprio sotto la nostra curva. Un boato. Un boato assordante. Guardo l’arbitro: indica il cen-trocampo. Guardo il guardalinee: indica il centrocampo. Guardo i bianconeri: uno sopra l’altro a festeggiare la rete dell’�-0. Si, è proprio GOAL. Impazzisco. Le gambe non mi reggono. Mi butto per terra fra i gradoni, mi rialzo, mi butto ancora, rotolo, abbraccio dei tipi che mi sono davan-ti. Non li avevo mai visti, dall’accento sembravano san-giorgesi, abbraccio Giorro, tifoso d.o.c. nonostante sia “ro-mano de Roma”. Abbraccio Valerio, e poi Massi, e poi mi si gonfiano gli occhi di lacrime. Incredibile!!!! No, non ci posso credere. Siamo ad un passo dalla serie B. Ero tanto spavaldo quando siamo partiti, ero certo della vittoria ma adesso... adesso è un’altra cosa. La sto tastando con mano, è qualcosa di unico, di indescrivibile. Riesco anche a sen-tire il suo odore. L’odore inebriante della vittoria... ti piega le ginocchia.. ti strozza la voce.. ti riempie di lacrime gli occhi... Sensazioni incontrollabili! Fino a quel momento ero agitato ma riuscivo comunque a trattenere (anche se a

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stento) le emozioni. Ora no, ora è diverso. Canto con rab-bia, quasi urlo, ma non ce la faccio a cantare per più di tre secondi. Un groppo in gola mi strozza la voce, debbo smet-tere. Mi passo velocemente una mano sugli occhi. Mi esco-no le lacrime. Nessuno deve vedermi. No, non posso pian-gere. Lacrime, tornatevene da dove siete venute. Aspettiamo il ��0’. Non riesco a star fermo sulle gambe, devo muover-mi, saltare, passeggiare, il cuore mi batte all’impazzata, i palmi delle mie mani sono bagnati. Mi asciugo il sudore dalla fronte. Mi giro come per dire qualcosa ai miei amici ma non ce la faccio. Non ce la faccio a parlare. Torno a guardare l’incontro. Viene espulso La Grotteria. Forse è fatta. Anche se in dieci si gioca meglio, diceva Liedholm. E questo dubbio comincia a farsi pericolosamente strada nella mia mente... Ma è un attimo. In curva si canta, in curva si urla, in curva è un autentico delirio. Pazzesco. Due minuti alla fine. E’ quasi fatta. Un minuto alla fine. Loro in avanti per battere un corner. La palla viene allontanata ma è sempre lì... qualcuno tira... la rete si gonfia. Il cuore cessa di battere... non sento più il cervello... non so... è una sen-sazione orribile. Mi mancano le forze. Sono costretto a se-dermi. E’ il 119’. Mancavano sessanta secondi alla fine! Un maledetto giro di lancette... In curva scende un silenzio funereo. Il triplice fischio consegna la serie B all’Ancona. Resto seduto, testa fra le mani. Intorno sento qualcuno piangere, i più sfollano in dignitoso silenzio. Rimango per una decina di minuti a pensare che forse è solo un brutto sogno. Che forse non è vero, no, non può essere vero, non esiste una storia simile. Non può esistere. DITEMI CHE ERA TUTTO UNO SCHERZO! E’ dura la realtà. Un altro anno di serie C. Il sesto, mi sembra. Devo tornare a casa.

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Non ce la faccio più. “Dai, T.J., alzati. Andiamocene. E’ finita.” E’ Massi che cerca di scuotermi. “No” riesco a dire a malapena “voi andate, io vi raggiungo fra un po’”. Non so da dove mi sia uscita quella voce, artefatta da un dolore che mai in vita mia avevo provato. Un dolore che faceva da contraltare a quella grandissima emozione che avevo provato fino a un minuto dalla fine. Per la vittoria avrei pianto di gioia per un’ora di seguito. Adesso i miei occhi non versavano lacrime. Il dolore era troppo forte per secer-nerne una sola. I vessilli bianconeri vengono piegati da persone che di umano avevano ben poco. Sguardi assenti, volti distrutti dal dolore, pochi coloro che riuscivano a par-lare. Qualcuno passava, ti dava la pacca sulle spalle come a dire... come a dire nulla. Non c’era nulla da dire. Ancora una volta il campo aveva espresso il suo insindacabile ver-detto. Qualsiasi parola era inutile. Si risale nelle auto o nei pullman e la lunga carovana bianconera fa ritorno ad Asco-li Piceno. Lentamente, in silenzio, con tanta rabbia dentro. La fine di un sogno. La più triste giornata della mia vita. Non la auguro a nessuno.

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21 APRILE 2002Finalmente la serie B. Quel giorno la conquistammo me-ritatamente sul campo, nel corso di un campionato in cui annichilimmo tutte le dirette concorrenti. Fu la fine di un incubo, di un calvario durato sette anni nei quali abbiamo toccato il fondo e poi lo abbiamo raschiato ben bene. Solo i veri tifosi del Picchio possono rendersi conto delle sof-ferenze patite nel vedere la propria squadra ridotta “ecce homo”. Ma ne siamo usciti. E quelle emozioni indescrivi-bili furono raccontate in maniera egregia nel libro “Pagine in bianco e nero” da uno dei più grandi poeti dell’Ascoli Calcio: Armando Falcioni. Su gentile concessione dell’au-tore, che ringrazio di cuore, ecco La Favola Nostra.

LA FAVOLA NOSTRAL’Ascoli batte la Lodigiani e dopo sette anni ritorna in se-rie B. Il Del Duca pieno e colorato da togliere il fiato, i caroselli delle auto, i tifosi in lacrime ci riportano ai bei tempi andati, come in una bella favola a lieto fine.........................da Radiogol del �� Aprile �00�“Albertino, amore mio, vieni qui da papà tuo, smetti di giocare e siediti. Papino tuo ora ti racconta una bella fa-vola. La favola dell’Ascoli Calcio. C’era una volta......” E con mio figlio in braccio, con la mente ritorno indietro di �8 anni e mi ritrovo nella piazza più bella a festeggia-re. Ieri è iniziato un incantesimo che ha avuto il potere di fermare il tempo, all’improvviso. Mi giro e ritrovo le stesse bandiere bianche e nere abbandonate dai capricci della brezza picena, ritrovo le stesse auto ammantate con

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orgoglio come una vezzosa signora con la pelliccia indos-so, scruto qualche lacrima su gote arrossate dall’emozione, guardo abbracci inestricabili di chi appena si è conosciuto, osservo negli occhi del popolo piceno quel senso dell’ap-partenenza, sancito dall’unione sotto un unico vessillo. Sì, ieri il tempo ha concesso un’eccezione al suo crudele trascorrere e trascinare tutto come un fiume in piena. Mi ritrovo sulla piazza più bella d’Italia ad undici anni, con i baffi di mio padre ancora biondi, la pelle di velluto di mia madre, gli Albertino erano i miei fratelli in braccio, quel prepotente del mio amico di banco che, con protervia, continuava a lavorare il mio orecchio come gomma per cancellare. Vedo camicie dai colli infiniti, pantaloni buoni per zampe di elefante, auto come SIMCA e “FIAT �00”, i bimbi con i calzoni corti e visi già regalati alla storia, i Campanini in mutande, Gola sollevato come sacco di fa-rina, personaggi che da tempo hanno conosciuto i miste-ri dell’eternità. Per il resto era tutto come ieri, �� Aprile �00�, già consegnato al secolare archivio dell’Ascoli Cal-cio. Le stesse sensazioni, gli stessi brividi dietro la schiena, la stessa spontaneità quali solo certi eventi, che nascono dal cuore di tutti noi, ci regalano. E lo stesso orgoglio che l’opera sia stata disegnata e realizzata da gente che parla il vernacolo delle ruette di Ascoli, conosce gli ingredien-ti della “liva” fritta, chiude un pasto con l’anisetta, i loro avi guadavano a piedi il secco letto del torrente Chiaro per omaggiare la Vergine sul Monte Ascensione. Quell’anno fu Costantino che, tra un “loche” ed un “arrète”, arringava la folla con i suoi proclami da tribuno. Ora la riservatez-za e la naturale idiosincrasia alla celebrazione di Roberto Benigni e degli altri hanno fatto altrettanto. Ma da questa

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terra è stato partorito tutto ciò. Costoro, senza elemosinare nulla a santoni del calcio in vena di colonizzazioni, chiu-dendo voragini di bilancio, tappando le falle di qua e di là, sfidando chi crede che nessuno è profeta in patria, sono riusciti, come in una favola a riportare il tempo all’indietro di �8 anni. “Vieni Albertino, vieni in braccio a papà. Ora facciamo un viaggetto a sfiorare le stelle del cielo piceno”. E voliamo, guardiamo da lassù l’altra promozione, quel-la dei �� punti. Bellissima, coinvolgente da serbare con vanto e gelosia, ma troppo facile per avere gli stessi pati-menti dell’animo di questa. E ritroviamo lo stadio pieno il � Giugno �98�, quando il repentino ritorno in serie A di Boskov fu macchiato da quello 0-0 con la Samb, regalando loro una salvezza impossibile e che castrò ogni velleità di gioia. E ancora i mille del “Mirabello” di Reggio Emilia, il Giugno 1991, quando tra i veleni di Sonetti e il finale di gara, ancora avvolto dai misteri, a loro fu consegnata l’ultima, ma tiepidina, promozione della storia. Ma quel-lo che abbiamo visto ieri ci riporta alla prima promozione in A, a quella primavera del �97�, al buon tempo andato che credevamo terribilmente perduto e che ora abbiamo di fronte agli occhi, ancora madidi di lacrime. Quei colori dello stadio che ti tolgono il fiato, ti rapiscono come mai hanno fatto, quei vessilli che pare vogliano graffiare il cie-lo, quel coro profondo che ti apre l’anima, la fa cantare a tempo, la libera da qualsiasi catenaccio. Perché in prece-denza con Renna, Boskov e Sonetti, la nostra pancia piena e l’imborghesimento di maniera ci facevano sentire atto dovuto qualsiasi successo. Ora, dopo anni di sofferenza, dopo aver patito la fame calcistica, dopo aver sopportato sulla schiena questo insopprimibile fardello di questo orri-

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pilante, inguardabile, inospitale torneo di serie C�, girone meridionale, ci sentiamo finalmente svuotati. E con Alber-tino in braccio a sfiorare le stelle, ora troviamo il mesto ritorno da Foggia, la salvezza mendicata contro l’Andria, i 700 paganti contro tal Ischia Isolaverde, il Del Duca si-lente e vuoto come fortezza conquistata ed abbandonata, il Giulianova che ci scippa i play off. Con Albertino scendo per un attimo fino al piazzale del “Renato Curi” di Perugia. Trovo tifosi che ancora sono assisi lì. Paiono tante statue, quelle che adornano i parchi cittadini. Sono ancora pietrifi-cati dal dolore di quell’�� Giugno �000, le lacrime, quelle amare, sono rimaste a mezza gota. “Su, alzatevi” diciamo loro. “La maledizione è finita, l’incantesimo è rotto. Siamo tornati in B, questo stadio sarà solo un malefico ricordo che abbiamo esorcizzato”. E li portiamo con noi quelli che ancora erano rimasti con in cuore in quello stadio, meta-forica ara del sogno spezzato. Ritorniamo nella piazza più bella d’Italia, quella ammantata di bianconero, dove erano uniti da un unico filo l’ascolano delle ruette e la cantilena preromanesca di Arquata del Tronto, le guglie di Montalto delle Marche e Santa Vittoria e la riviera di Martinsicuro e Alba Adriatica, la “g” dolce di Porto San Giorgio e Monte-giorgio e il raddoppio delle vocali della Val Vibrata, la sa-lottiera compostezza di Amandola ed il colle di Maltigna-no. Tutti uniti, con il presidente, quei ventimila cuori più i centomila sparsi in ogni dove e che ci vengono incontro a suggellare la celebrazione autentica, quella di una inimi-tabile terra, del suo popolo, quello piceno, mai quanto ieri unito sotto un unico blasone, sommergendoci in un frater-no abbraccio. Albertino è estasiato dal racconto di questo impensabile viaggio nel tempo e di questa favola a lieto

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fine, con quegli occhi che ti esprimono la gratitudine per avergli donato le gioie ed il misterioso fascino dell’esisten-za. E’ felice e intanto molla quel palloncino, bianco e nero, che il papà gli aveva dato in dono. Quel palloncino ora vola, vola più in alto, raggiungerà i traguardi dell’ignoto. Seguilo, o tifoso, quel vessillo bianconero. Seguilo, non temere. Come noi, da oggi puoi volare anche tu.

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QUANDO MENO TE L’ASPETTI… LA SERIE AE’ SERIE A... SERIE A... SERIE A... Non so, non riesco ad esprimere la gioia che è dentro me, è qualcosa di im-menso. Un’emozione troppo forte. Tornavo dalla vacanza in Salento alla volta di Padova, solo nella mia auto. Ad Ascoli si festeggiava la serie A, era una bolgia infernale come mi testimoniavano le telefonate di mio fratello che mi faceva ascoltare i cori e gli inni in piazza. Non sono riuscito a trattenere le lacrime, e tuttora ne sto versando. Sto piangendo come un bimbo. Siamo tornati là dove mai avrei immaginato di tornare.

FINE

Il mio ringraziamento va a tutti coloro che sono arrivati a leggere sin qui senza saltare manco una riga!!!

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Indice:

PREMESSA pag. …

LA MIA FEDE E’ UNA SOLTANTO pag. …

GLI ANNI SETTANTA – MORO, SCORSA E ROCCOTELLI pag. …

ECCOLA QUA LA SERIE A pag. …

LE SCUOLE MEDIE pag. …

I PELI PUBICI DI ENRICO NICOLINI pag. …

LE SCUOLE SUPERIORI pag. …

SONO UN ULTRAS pag. …

LE RISSE ALLO STADIO pag. …

LA RETROCESSIONE pag. …

REGGIO EMILIA STAGIONE 1987/88 pag. …

L’UNIVERSITA’ pag. …

DECLIN AND FALL OF ASCOLI CALCIO EMPIRE pag. …

GUALDO TADINO E SANT’EMIDIO pag. …

AVELLINO:

CRONACA DI UN TERRIBILE WEEK-END DI MERDA pag. …

MILLE E PIU’ TRASFERTE pag. …

SUNDAY BLOODY SUNDAY pag. …

�� APRILE �00� pag. …

LA FAVOLA NOSTRA (di Armando Falcioni) pag. …

QUANDO MENO TE L’ASPETTI… LA SERIE A! pag. …

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