Società civile e democrazia in Medio Oriente e Asia

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s o c i e t à c i v i l e e d e m o c r a z i a

i n m e d i o o r i e n t e e a s i a

a cura di

elisa Giunchi

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o barra o edizionivia stromboli 1820144 milanowww.obarrao.com

Grafica di copertina di eros Badin

© 2011 o barra o edizioni

isBn 978-88-97332-10-7

Pubblicazione realizzata grazie al sostegno del ministero degli affari esteri, direzione generale per la cooperazione allo sviluppo e:

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società civile, associazionismo, ParteciPazione: esPerienze dall’asia

e l i s a G i u n c h i

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“La pace è una società in cui le persone si possono esprimere, la loro voce è ascoltata, e donne e uomini godono

dei diritti che hanno costruito”soraya Pakzal1

Quando, nei primi mesi del 2011, sono scoppiate in diversi paesi del nord africa e del vicino oriente proteste popolari anti-governative, il termine società civile ha assunto una va-lenza evocativa di grande appeal mediatico: ecco che la so-cietà mediorientale, ribellandosi al giogo di poteri illiberali mascherati da democrazie procedurali (egitto, tunisia) o di governi autocratici (libia, Bahrein, arabia saudita, siria), ri-vendicava il diritto a partecipare al governo del proprio Paese e a vedere riconosciuti i propri diritti e le proprie libertà. il suo risveglio apriva la strada, secondo un’analisi ricorrente sui media, all’introduzione di forme democratiche, o più sostanzialmente democratiche, dando vita a una nuova on-data – le note waves di Huntigton – di democratizzazione. l’idea dell’ondata, qualcosa che travolge in maniera impe-tuosa e irreversibile il pre-esistente, era già stata mediatizzata dalle proteste dei giovani iraniani a teheran nel 2009 e 2010 – l’‘onda verde’ che si era riversata nelle strade per chie-dere maggiori diritti e libertà. ritornavano così alla ribalta, in maniera strettamente interconnessa, due paradigmi che da tempo animano la politologia – il paradigma transitologico, che pone il sistema democratico come l’obiettivo auspicabile e inevitabile del progresso umano, e quello orientalista, per il quale il medio oriente è intrinsecamente illiberale per motivi religiosi, ma la sua società si può affrancare dalla propria cul-tura reclamando quei diritti e quelle libertà che costituiscono il cuore della democrazia e, quindi, secolarizzandosi. il che

1. comunicazione, conferenza internazionale della società civile afgana, roma, 24 maggio 2011. soraya Pakzal è la direttrice di voice of Women organisation (vWo).

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equivale a dire che i popoli musulmani devono rinunciare a parte della propria identità per poter ottenere un sistema po-litico democratico. l’appartenenza culturale all’islam definisce per molti autori anche la natura della società civile mediorientale e il suo rap-porto con lo stato. Per alcuni la cultura islamica dà vita a una società civile debole, nel senso di frammentata, scarsamente strutturata e passiva rispetto allo stato.2 altri ritengono che la religione islamica, enfatizzando l’integrazione dell’individuo in un più ampio ordine sociale e religioso, scoraggi quell’in-dividualismo e quell’azione indipendente che sono indispen-sabili per l’emergere di istituzioni non profit.3 Per altri, la società civile musulmana è al contrario troppo forte rispetto a realtà statuali deboli, che non controllano il territorio in ma-niera sostanziale e capillare.4 in entrambi i casi l’ostacolo alla democratizzazione è, per questi autori, connaturato al dato culturale. si potrebbe facilmente obiettare che il mondo musulmano è in realtà molto eterogeneo, che diverse identità – religiose, etniche, clanico-tribali, regionali – possono coesistere nel medesimo individuo, emergendo e prevalendo sulle altre a seconda delle circostanze, e che non è possibile, soprattutto oggi, nell’era della globalizzazione, operare una divisione tra ‘noi’ e ‘loro’, dove ‘noi’ incarniamo l’universale e ‘loro’ il locale destinato a scomparire. È poi indubbio che le analisi

2. lewis, B., The Middle East and the West, Harper torchbooks, new York, 1964; lewis, B., The Political Language of Islam, University of chicago Press, chicago, 1988; vatikiotis, P. J., Islam and the state, croom Helm, london and new York, 1987. 3. anheier, H. K. e salamon, l. m., Introduction: The Non Profit Sector in the De-veloping World, p. 17, in anheier, H. K. e salamon, l. m., eds., The Non Profit Sector in the Developing World: A Comparative Analysis, manchester University Press, manchester and new York, 1998.4. Hall, John a., Powers and Liberties: The Causes and Consequences of the Rise of the West, Penguin, Harmondsworth, 1985, p. 89.

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delle rivolte arabe del 2011 tendono a oscurare rivendicazioni eterogenee, non sempre riconducibili al solo desiderio di li-bertà e diritti; in alcuni casi, si è trattato di proteste di natura socio-economica e politica (egitto, tunisia, algeria, siria, libia): a protestare sono stati giovani istruiti e ‘moderni’ per i quali l’accesso all’ascesa economica e al potere politico sono bloccati, ma anche altri gruppi sociali che reagiscono al ritiro dello stato dal welfare o alla sua continua latitanza dal sociale; le rivolte sono state quindi il prodotto di nuove opportunità d’informazione e di comunicazione ma anche di una recessione economica che esaspera la crisi di legittimità di regimi autoritari privi di mandato popolare. in altri casi si sono verificate proteste di natura religiosa (Bahrein, arabia saudita), in cui popolazioni sciite discriminate dai sunniti, come accadeva nell’iraq di saddam Hussein, hanno chiesto di essere incluse nel processo politico in maniera proporzio-nale al loro peso demografico. lo hanno fatto in nome dei principi democratici, ma in gioco vi erano (anche) le loro identità ‘primarie’. che l’analisi delle proteste arabe, e del ruolo che la società civile ha avuto in queste proteste, sia intriso di teleologia democratica è forse inevitabile: il concetto di società civile origina proprio in un contesto, quello dell’illuminismo eu-ropeo, caratterizzato dalla nascita di istituzioni rappresen-tative che hanno comportato crescenti limitazioni al potere centrale e all’interferenza politica del clero. nato nella se-conda metà del settecento con adam Ferguson, esponente di spicco dell’illuminismo britannico, il termine società civile è stato poi ripreso da Paine, Hegel e tocqueville per indicare un dominio separato dallo stato, che si contrappone a esso arginando la sua pervasività e rivendicando uno spazio auto-nomo di azione. dopo essere caduto in disuso nell’ottocento, il concetto di società civile ha ricevuto rinnovata attenzione dopo la seconda guerra mondiale da Gramsci, che lo ha visto

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come luogo della resistenza alla tirannia; ma è soprattutto negli anni ’70 in america latina e, nel decennio successivo, in europa orientale che il termine è diventato ricorrente, in una fase che corrisponde, per usare ancora una volta un ter-mine huntingtoniano, alla ‘terza ondata’ dei processi di tran-sizione democratica. a partire dagli anni ’80 del novecento i due concetti – società civile e democratizzazione – sono ap-parsi, nella letteratura politologica e sui media, strettamente legati, soprattutto in riferimento a contesti non occidentali: si è diffusa l’idea, in particolare, che una società civile so-lida e vivace, in grado quindi di controllare la tendenza in-trusiva dello stato, favorisca processi di democratizzazione.5 Un assunto, questo, che ha indotto le agenzie internazionali e i donors occidentali, in primis gli stati Uniti, a finanziare realtà associative esplicitamente o potenzialmente pro-de-mocratiche in paesi autocratici invece di premere su riforme sostanziali del sistema politico, che avrebbero potuto desta-bilizzare regimi alleati o comunque importanti sotto il profilo geostrategico. Grazie a questi finanziamenti si sono moltiplicate negli anni ’80 e ’90 le pro-democracy (o advocacy) NGOs, rivolte all’ampliamento dei diritti e delle libertà riconosciute dalle autorità. Parallelamente sono emerse, per sopperire alla de-bolezza dell’apparato statale, o per effetto del suo ritiro dal welfare come conseguenza di programmi di aggiustamento strutturale, onG orientate a garantire determinati servizi e a distribuire beni (le service delivery NGOs). anche questa seconda tipologia, al pari della prima, è stata considerata dai donors come funzionale alla democratizzazione, poiché costi-tuisce un esercizio di partecipazione e di pratiche decisionali

5. si veda ad esempio, tra i tanti, abootalebi, a. r., Civil society, Democracy, and the Middle East, in «middle east review of international affairs», vol. 2, n. 3, september 1998, p. 6.

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condivise pur senza sfidare frontalmente il sistema politico e tantomeno quello economico e anzi assumendo per conto dello stato alcune delle sue funzioni. le onG possono es-sere quindi funzionali alla sopravvivenza dell’assetto politico e dello stato stesso, piuttosto che contrapporsi a esso come accade nella visione originaria del concetto di società civile; in alcuni casi, possono anzi agire da stimolo per lo stato, ren-dendolo più presente ed efficiente, più ‘forte’, quindi.6 identificare la società civile con le sole onG sarebbe tut-tavia limitativo. le onG sono infatti l’ultima di una serie di modalità associative che sono andate sovrapponendosi nei Paesi extra-europei e che oggi coesistono. Già prima della colonizzazione esistevano in asia, come in altri contesti non europei, organizzazioni nate spontaneamente per fornire so-stegno alla popolazione o ad alcune sue categorie o sostituire lo stato in alcune sue funzioni, dai gruppi di auto-aiuto, alle associazioni di mestiere, alle istituzioni caritatevoli religiose, ai consigli di villaggio. i regimi coloniali e, nei Paesi non colonizzati, l’influenza europea, hanno introdotto forme as-sociative nuove, dai sindacati, alle associazioni professionali, ai club culturali, che hanno giocato paradossalmente un ruolo spesso fondamentale nelle lotte anti-coloniali e al tempo stesso hanno costituito uno strumento di penetrazione delle idee e delle forme organizzative del potere coloniale. dopo l’indipendenza, in molti Paesi queste forme associative sono state represse o sottoposte a regolamentazione e controllo da parte dello stato; è da questa repressione, e dal parallelo emergere di nuove possibilità offerte dall’istruzione e dalla mancanza di sbocchi occupazionali e di accesso politico, che sono nati negli anni ’70 e ’80 vasti movimenti di protesta nelle aree urbane del mondo musulmano che si sono espressi

6. carothers, t., The Concept of Civil Society is a Recent Invention, in «Foreign Policy», n. 117, Winter 1999-2000, pp. 26-27.

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secondo un linguaggio religioso ma profondamente innova-tore. negli anni ’90 si è assistito, come si è già menzionato, alla proliferazione di associazioni, sotto forma di onG e di associazioni che svolgevano attività di advocacy volte a tu-telare o emancipare determinati gruppi (in primis le donne) o ad ampliare il sistema politico in senso democratico. Un caso particolarmente interessante è quello delle associazioni islamiste, che a partire dagli anni ’80, pur predicando il ri-torno al passato, un passato idealizzato e reinventato, si sono organizzate in forme moderne e hanno fatto ricorso a concetti religiosi nuovi. le loro attività hanno spesso avuto il duplice obiettivo di difendere certi valori e introdurli nel sistema giu-ridico e istituzionale, e fornire sostegno ai propri simpatiz-zanti o alla popolazione in generale, creando dal basso una micro-società ideale. Questa sovrapposizione di entità associative, che riflette spes so appartenenze regionali e socio-economiche diverse, è evi-dente anche se si guarda all’associazionismo femminile. vi è un associazionismo di vecchia data, urbano e di matrice alto-borghese, che incentra la propria azione sull’assistenza alle donne dei ceti svantaggiati, senza mettere in discussione l’or-ganizzazione sociale e l’ideologia dominante. associazioni ‘laiche’, sorte soprattutto a partire dai primi decenni del XX secolo, hanno invece unito all’azione concreta la rielabora-zione concettuale, ispirandosi al femminismo occidentale, di cui hanno adottato gli strumenti concettuali. Un terzo tipo di associazionismo, anch’esso prevalentemente urbano e di ma-trice sociale medio-alta, è quello riformista, che accompagna attività di assistenza a una riformulazione dell’islam secondo la metodologia ‘modernista’, volta a legittimare l’emancipa-zione femminile con il riferimento a concetti autoctoni. vi è poi una quarta categoria di associazioni femminili, nata a partire dagli anni ’80: le associazioni femminili ‘islamiste’, i cui membri provengono in larga misura dalla classe medio-

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bassa urbana, e che considerano il discorso femminista occi-dentale non applicabile al mondo musulmano, che avrebbe alcune peculiarità da preservare: l’armonia e la coesione so-ciale, fondate sull’importanza dei legami comunitari e della solidarietà, e la complementarietà tra i sessi. l’avversione ai gruppi laici e a quelli riformisti esprime la dicotomia tra un settore occidentalizzato benestante e un settore più tradizio-nale, e più svantaggiato, le cui aspettative sono state accre-sciute dalla scolarizzazione e dall’esposizione ai mass media ma il cui accesso al benessere rimane limitato.7 Queste considerazioni ci portano a un’osservazione più gene-rale: occorre esercitare particolare cautela quando si applica il concetto di società civile a realtà che a lungo sono state sotto-poste a dominio coloniale, e sono state quindi influenzate da un sistema politico, produttivo e scolastico e da categorie cul-turali allogene, che hanno comportato il ridimensionamento o la scomparsa di alcune forme associative e l’introduzione di nuove realtà strutturate che riflettono categorie e rapporti di potere indotti dall’esterno. si tratta di un’interferenza esterna che non è del tutto cessata: basti pensare alle strutture interna-zionali che impongono programmi di aggiustamento struttu-rale, o a quelle agenzie sovranazionali e onG transnazionali che realizzano alcune delle funzioni dello stato, o le delegano localmente, alla luce di priorità che sono decise fuori dal Paese. l’imposizione di modelli allogeni è particolarmente pronunciata in fasi di ricostruzione post-conflitto, quando i Paesi beneficiari di aiuto esterno sono spesso visti come una sorta di tabula rasa e le strutture che in ragione del loro ra-dicamento dovrebbero essere incluse nella ricostruzione ten-dono a essere trascurate a vantaggio di realtà ‘moderne’.8

7. Giunchi, e., Libere dall’Occidente, in «Guerre e Pace», ottobre-novembre 2003, pp. 24-27.8. Barakat, s, Setting the Scene for Afghanistan’s Reconstruction: The Challenges and Critical Dilemmas, in «third World Quarterly», vol. 23, n. 5, p. 812.

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sebbene siano solo una delle tante componenti della so-cietà civile extra-europea, è indubbio che le onG abbiano ricevuto più finanziamenti dai donors e più attenzione dalla letteratura rispetto ad altre realtà associative. i motivi sono evidenti: sono strutturate formalmente, e quindi ‘riconosci-bili’; parlano un linguaggio ‘comprensibile’ e hanno la ca-pacità di avvalersi di mezzi di comunicazione moderni e in questo modo di diffondere in rete notizie e idee – un chiaro esempio di globalizzazione del locale – e stabilire legami con realtà associative esterne e con i donors; sono, infine, consi-derate più sensibili al discorso democratico e costituiscono quindi potenziali agenti di democratizzazione. il sostegno internazionale alle onG ha tuttavia comportato una distor-sione delle società civili locali, poiché ha rafforzato alcune sue componenti, che tendono a essere espressione di ceti ur-bani medio-alti, rispetto a componenti più tradizionali, meno organizzate e magari meno pro-democratiche, ma spesso più rappresentative della realtà rurale e tribale. identificare la so-cietà civile con le sole onG comporta non solo il rischio di dar voce alla sola intellighenzia occidentalizzata,9 ma anche di rendere questo concetto dipendente da un particolare si-stema produttivo e politico. alcuni autori ritengono infatti che il concetto di società civile sia applicabile solo a una struttura produttiva capitalistica e implichi una democratiz-zazione minima, con istituzioni rappresentative collegate a un sistema di diritti, una cultura politica e una pratica statale fondate su rivendicazioni normative all’universalismo.10 de-finita in questi termini, la società civile altro non è che un ingranaggio nel processo di democratizzazione in paesi che

9. ad esempio si veda amnesty international, Human Rights Defenders in Afghani-stan: Civil Society Destroyed, london, 1999, asa 11/12/99. 10. si veda ad esempio Blaney, d. l. e Pasha, m. K., Civil Society and Democracy in the Third World: Ambiguities and Historical Possibilities, in «studies in com-parative international development», vol. 28, n. 1, pp. 3-24.

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sono inclusi nell’economia capitalistica e aderiscono alle sue forme politiche. non meraviglia quindi che questi autori pos-sano arrivare a sostenere che in africa non c’è società civile se non allo stadio iniziale.11

È necessario a questo punto fare qualche precisazione: la contrapposizione non è, semplicisticamente, tra onG mo-derne e associazioni tradizionali, poiché quest’ultima cate-goria è il frutto di mutazioni continue, reinvenzioni e adatta-menti ed è al suo interno composita. le shure in diverse parti dell’afghanistan, ad esempio, seguono procedure diversifi-cate che riflettono un diverso contesto socio-culturale. e al loro interno, figure locali collegate allo stato moderno e alla sua struttura produttiva hanno assunto nel tempo maggiore visibilità rispetto a figure carismatiche legate alla sfera reli-giosa. Bisogna evitare di idealizzare, peraltro, l’associazio-nismo tradizionale, in quanto anch’esso riflette, al pari delle onG, logiche di potere e quindi anche di esclusione. le jirga pashtun ad esempio non includono donne e giovani, e in esse come nelle shure tagiche e nei panchayat punjabi hanno particolare peso le figure più carismatiche o potenti sotto il profilo economico o politico. ecco che sorge, in questi casi, la possibilità che la società civile ci appaia incivile,12 perché non persegue cause che a noi sembrano nobili, o cause che appartengono all’intera cittadinanza, ma è espressione di istanze particolaristiche, che avvantaggiano solo determinati gruppi. in alcuni casi inoltre la società civile può esprimere esplicitamente richieste che non sono assimilabili al nostro concetto di democrazia: basti pensare al Fis (Fronte isla-mico di salvezza) che vinse il primo turno delle elezioni al-gerine nel 1991, o, per andare a tempi più recenti, ad Hamas e a Hezbollah, che all’universalità dei diritti preferiscono la

11. Ibidem.12. su questo argomento si veda carothers, op. cit., pp.18-29.

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‘personalità’ del diritto islamico. È quindi evidente che se includiamo nel concetto di società civile qualsiasi forma or-ganizzata che sia espressione spontanea della popolazione, il legame tra società civile e democratizzazione appare partico-larmente complesso e sicuramente non univoco. la società civile non è necessariamente precondizione o garanzia di de-mocrazia anche per altri motivi, trascurati dalla letteratura: se le élites che detengono il potere politico appartengono a gruppi chiusi, poco disponibili a erodere i propri privilegi aprendo ad altri gruppi sulla base di principi trasparenti e meritocratici, se la competizione elettorale non è reale e se lo stato è disposto a fare uso contro i propri cittadini dei po-teri coercitivi di cui dispone e sa di poterlo fare senza provo-care reazioni sul piano internazionale (è il caso, ad esempio, dell’arabia saudita dinnanzi alle proteste sciite in casa pro-pria e in Bahrein).Per tornare alle strutture tradizionali, un loro limite è, dal punto di vista dei donors, quello di essere reattive: vengono convocate per risolvere determinati problemi, non hanno fun-zioni di pianificazione e sono prive di un’agenda più vasta. da qui il tentativo, ad esempio, in afghanistan, di trasformare i villaggi tribali in strutture permanenti, in grado di pianifi-care le proprie attività, e di democratizzare al tempo stesso le loro dinamiche decisionali interne in maniera da renderli maggiormente rappresentativi. Un processo, questo, che ci può apparire auspicabile, anche se bisogna essere consapevoli che in questo modo si contribuisce all’alterazione di forme tradizionali secondo priorità che sono indotte dall’esterno, es-sendo legate alla costruzione di uno stato corrispondente al modello occidentale elaborato a Bonn nell’inverno del 2001. Posto, quindi, che le onG sono la tappa finale, e forse la meno rappresentativa, di un associazionismo che è profondamente eterogeneo, come definire la società civile? corrisponde a qualsiasi realtà associativa o è l’espressione non strutturata,

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anche individuale, della volontà popolare? da una parte vi è il rischio, che abbiamo già menzionato, di identificare la società civile solo con alcune realtà, solitamente quelle più strutturate e ‘moderne’; dall’altra, è scarsamente utile sotto il profilo analitico e di elaborazione di policy ricorrere a una concezione molto elastica, che includendo anche i singoli cit-tadini rischia di far coincidere il termine società civile con società tout court. come osserva van rooy, il termine società civile rischia di diventare un «anaytical hat-stand» al quale si può appendere un’ampia gamma di idee sulla politica, l’orga-nizzazione, la cittadinanza e l’attivismo.13 il termine società civile è indubbiamente sfuggente e opaco, poiché diversissimi sono i significati che a esso sono attribuiti.14 non è possibile in questa sede riassumere il dibattito su una questione così complessa e si rimanda ai saggi di claudia Padovani e di Giuliano Battiston in questo volume per rife-rimenti puntuali alla letteratura. alcune osservazioni e pre-cisazioni sono però d’obbligo per circoscrivere il termine società civile e renderlo uno strumento d’analisi funzionale all’obiettivo che ci siamo posti, quello cioè di analizzare il contributo del tessuto sociale alla ricostruzione e riconcilia-zione post-conflitto, alla risoluzione di controversie regionali e all’apertura dei sistemi politici. la natura della società civile è solitamente definita come uno spazio interstiziale: nella tradizione europea, e anche tra gli autori contemporanei non europei, è diffusa la concezione che sia «a buffer between state power and the citizens’ life»15

13. van rooy, op. cit..14. sulla definizione del termine si veda Keane, J., Civil Society: Old Images, New Visions, Polity Press, cambridge, 1998 e van rooy, a., Civil Society and Aid In-dustry, earthscan, london, 1998.15. abootalebi, op. cit., p. 1; muslih, m. e norton, a. r., Political Tides in the Arab World, in «Foreign Policy association», n. 296, summer 1991; a. r., Political Ties in the Arab world, in «Foreign Policy association», n. 292, summer 1991, p. 11, a. van rooy, op. cit., p. 30.

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e che costituisca una dimensione staccata rispetto al mercato: «the zone of voluntary associative life beyond family and clan affiliations but separate from the state and the market».16 Questa definizione presuppone tuttavia un certo tipo di stato, legato alla tradizione europea, ed è quindi poco utile in con-testi, come quello afgano, in cui le autorità centrali hanno dovuto per secoli contrattare continuamente il proprio potere con i gruppi tribali dominanti e non si è sviluppato un appa-rato statale capillare ed efficace. l’idea del ‘buffer’ rimanda poi a una contrapposizione che non sempre esiste tra stato e tessuto sociale. il rapporto tra queste due entità, più che di contrapposizione, è prevalentemente di interazione, talora conflittuale e talora cooperativa, secondo dinamiche che va-riano a seconda delle circostanze17 e in risposta, come nota la Padovani nel suo saggio, a opportunità o vincoli di natura politica. talora è lo stesso stato a dar vita ad associazioni; in cina ad esempio, come osserva montessoro in questo vo-lume, diverse onG sono state istituite con il fine di favorire iniziative dell’apparato statale, senza che a ciò sia corrisposta l’apertura di uno spazio politico autonomo. in situazioni post-conflitto, come raccontano gli autori dei saggi sull’afghani-stan e sul tagikistan, sono spesso i donors a promuovere la nascita di associazioni locali alle quali vengono subappaltati determinati servizi che lo stato non è in grado di garantire. l’istituzione dall’alto di forme associative formalmente in-dipendenti comporta indubbi vantaggi per le autorità: queste ottengono una facciata democratica, delegano a organismi specializzati determinate funzioni, ovviando alla propria in-

16. Hawthorne, a., Middle Eastern Democracy. Is Civil Society the Answer?, carn-egie paper n. 4, carnegie endowment for international Peace, march 2004, p. 5. 17. lewis, d., lewis, d., Civil Society in non-Western Contexts. Reflections on the Usefulness of a Concept, october 2001, lse, london, p. 5. si veda a questo proposito anche migdal, J., State in Society: Studying How States and Societies Transform and Constitute One Another, cambridge University Press, cambridge, 2001.

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capacità di risolvere problematiche complesse, cooptano seg-menti della società, spesso quelli che più potrebbero ambire al potere politico o a mettere in discussione l’assetto politico, e li utilizzano talora contro forme di dissidenza considerate più destabilizzanti.la definizione che abbiamo adottato di società civile esclude alcuni ambiti, seppure importanti, del tessuto sociale, e può non corrispondere alle auto-definizioni dei soggetti studiati ma, pur con questi limiti, indica quelle componenti che a nostro giudizio possono assumere un ruolo particolarmente efficace e propositivo nei processi politici che caratterizzano le fasi post-conflitto e la composizione di dissidi interstatuali. la società civile alla quale facciamo riferimento in questo volume è inclusiva di tutte quelle entità strutturate che sono sorte spontaneamente per esprimere i bisogni di determinati settori della popolazione; in questa definizione ricadono sin-dacati, organizzazioni religiose (con un importante distinguo su cui torneremo a breve), associazioni professionali e di mutuo soccorso, gruppi di interesse e di pressione, onG. sono quindi inclusi anche gruppi comunitari informali – i consigli di villaggio, ad esempio – purché convocati secondo procedure che abbiano una qualche stabilità nel tempo, il che non vuole dire che debbano essere formalmente registrati o avere una realtà istituzionale permanente. Forme associa-tive e strutturate, quindi, a condizione che non siano parte dell’apparato statale, che abbiano strutture e forme decisio-nali proprie, non controllate dall’esterno, e non siano del tutto dipendenti da finanziamenti governativi o dei donors; devono essere, quindi, espressione genuina, spontanea e non etero-diretta di bisogni della popolazione (pur potendo rece-pire anche finanziamenti statali o esterni) e non essere parte integrante della struttura statale. Quest’ultima condizione fa sì che i partiti politici non siano inclusi e che in paesi musul-mani dove il settore religioso è parte integrante della struttura

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di potere, come l’iran, o a essa strettamente legato, come l’arabia saudita, si debba adoperare particolare cautela: sa-ranno società civile le organizzazioni locali spontanee e auto-finanziate, anche di natura religiosa, ma non l’establishment religioso i cui membri ricoprono cariche istituzionali. società civile secondo la definizione che abbiamo deciso di adottare sono, quindi, anche le jirga in cui le donne non sono presenti, o le associazioni islamiste che predicano l’esclu-sione femminile dall’elettorato attivo e passivo e che hanno quindi della democrazia un’idea che non corrisponde alla no-stra. ciò che a noi interessa è se, e in quale modo e misura, esse contribuiscono alla pacificazione e alla ricostruzione post-conflitto, non se contribuiscono a una società che ai no-stri occhi è ‘giusta’ e democratica. Gli autori dei contributi raccolti in questo volume si sono oc-cupati sulla base di competenze disciplinari diverse del ruolo che la società civile asiatica ha o ha avuto recentemente in processi di ricostruzione post-conflitto (afghanistan, tagiki-stan), nella composizione di dissidi intra-regionali (caucaso, coree, Palestina e israele), e nell’apertura del sistema poli-tico a nuovi gruppi (cina, turchia, iran, malaysia). le realtà associative di cui si sono occupati sono diverse: alcuni autori hanno privilegiato le onG e l’associazionismo di advocacy (marzano, de danieli, vanzan, Battiston), pur aprendosi a realtà ‘tradizionali’ (Battiston); altri hanno guardato agli isti-tuti di ricerca (Ferrari), altri ancora alle associazioni profes-sionali, alle fondazioni pie e alle associazioni per migranti interni (scotti). i saggi che si sono esplicitamente occupati di peace-building indicano che le forme associative tradizionali non sono state incluse nella ridefinizione post-conflitto e che il coinvolgimento di realtà associative moderne, in primis le onG, nella ricostruzione non è stato accompagnato dall’e-mergere di uno spazio politico autonomo o dalla loro inclu-sione in spazi decisionali legati alla riconciliazione. la so-

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cietà civile quindi non è riuscita a esprimere istanze politiche e a incidere sulle politiche governative promuovendo la pace, in afghanistan come in tagikistan, in israele, in cina e nelle due coree. diverso invece il discorso sul ruolo delle associa-zioni nell’apertura democratica: sia le organizzazioni fem-minili islamiche (vanzan) sia le associazioni professionali (scotti) hanno contribuito ad arricchire il dibattito politico interno con l’inclusione a nuovi attori.nel saggio che apre il volume, claudia Padovani ripercorre i principali filoni nella letteratura occidentale sulla società civile, analizza la composizione, la tipologia di intervento e le logiche di azione della società civile, e dà di essa una de-finizione operativa, che permette di ridurre le ambiguità che spesso accompagnano questo termine così da poterlo utiliz-zare per svolgere analisi empiriche e interventi di advocacy e policy in contesti socio-culturali diversi dal nostro. l’analisi della dimensione transnazionale dei fenomeni associati alla società civile, in particolare, costituisce un utile contributo alla riflessione su ambiti extra-occidentali e sul loro coinvol-gimento in attività strutturate di policy-making. il secondo capitolo dà inizio alla narrazione regionale. Giu-liano Battiston, attraverso numerose interviste realizzate in afghanistan, ha osservato la natura e il funzionamento della società civile in una situazione di debolezza statuale in cui si è inserito un progetto di ricostruzione politico-istituzio-nale, la road-map di Bonn, nato dall’esperienza occidentale. anche in afghanistan, come in ogni altra realtà asiatica di cui ci siamo occupati in questo volume, la componente delle onG è l’aggiunta più recente in un associazionismo di lunga data, che a gruppi di auto-aiuto, jirga, shure e fondazioni re-ligiose affianca forme associative moderne e, dopo gli anni ’80, le onG, alcune con l’obiettivo di promuovere i diritti umani, altre impegnate nella ricostruzione e nell’aiuto umani-tario. nella fase post-2001, osserva Battiston, i donors hanno

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trascurato le strutture di villaggio e le realtà religiose e si sono affidati prevalentemente a onG e agenzie delle nazioni Unite per svolgere attività di ricostruzione e state-building. in questo modo si è data priorità a realtà che distribuiscono beni o servizi per conto dello stato o della comunità inter-nazionale ma che sono rimaste senza voce su questioni poli-tiche: le onG sono state escluse dal processo di riconcilia-zione nazionale,18 anche se hanno promosso una maggiore partecipazione del tessuto sociale al dibattito sui cambia-menti in corso, complice una crescita rilevante delle stazioni televisive e radio.19

Filippo de danieli analizza nel terzo capitolo la sovrapposi-zione, nel tagikistan del dopo-indipendenza, tra una società civile ‘liberale’, formata da movimenti di opposizione sorti nella seconda metà degli anni ’80 nel contesto della pere-strojka e da onG nate negli anni ’90, e un tessuto associa-tivo ‘comunitario’, basato su reti tradizionali di solidarietà, che con lo sfaldamento delle istituzioni statali dopo il crollo dell’Urss hanno sostituito uno stato debole. anche qui, os-serva de danieli, il moltiplicarsi delle onG negli anni ’90 e soprattutto dopo il 2001, quando il Paese è diventato cruciale alla ‘lotta al terrorismo’, ha costituito una risposta alla neces-sità dei donors di avere dei partner locali per implementare i propri progetti. com’è accaduto in afghanistan, le onG mag-giormente sostenute dall’esterno hanno finito per riflettere le priorità dei loro finanziatori, allontanandosi dal tessuto so-ciale da cui erano nate. l’autore analizza quindi l’apporto che la società civile ha dato al processo di riconciliazione post-conflitto che ha portato all’accordo di pace del 1997. anche

18. Per una versione più amplia della ricerca condotta in afghanistan si veda G. Battiston, La società civile afghana. Uno sguardo dall’interno, documento non pub-blicato di afgana/intersos, roma, 2011.19. najiba ayubi, comunicazione, conferenza internazionale della società civile af-gana, roma, 24 maggio 2011.

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in tagikistan l’apporto della società civile ad attività di peace-building è stato limitato, nonostante la visione idilliaca che prevale nella letteratura sul ‘dialogo intra-tagico’. le onG, osserva de danieli, hanno promosso iniziative istituzionali e incontri ad alto livello con un approccio top down che le ha scollegate dalla società e non sono riuscite a contribuire in maniera sostanziale alla democratizzazione del Paese.Bernardo venturi e Fabio indeo forniscono un quadro geopo-litico più ampio, quello delle cinque repubbliche centro-asia-tiche, e si chiedono se un rafforzamento delle società civile di quei Paesi possa avere un impatto sulla risoluzione della crisi afgana. Gli autori osservano che il caso tagico fornisce un modello che potrebbe trovare attuazione in afghanistan: gli accordi di pace del 1997 che posero fine alla guerra ci-vile si fondarono infatti sull’istituzione di una commissione per la riconciliazione nazionale che prevedeva il disarmo e il reintegro dei warlords, obiettivo che si è tentato anche in afghanistan in questi anni. ma la soluzione della crisi afgana passa anche per l’integrazione regionale sul piano commer-ciale ed energetico e l’interazione tra società civili col fine di promuovere un clima di fiducia nella regione ed evitare che le identità etniche afgane siano manipolate dall’esterno.20 aldo Ferrari analizza il ruolo che la storiografia ha nell’ali-mentare i conflitti etno-nazionalisti e i tentativi da parte della società civile di resistere a queste imposizioni culturali. i Paesi analizzati sono la Georgia, l’armenia e l’azerbaigian; con l’indipendenza seguita alla dissoluzione dell’Urss, questi Paesi sono stati attraversati da tensioni e conflitti etno-territo-riali non riconducibili, sottolinea Ferrari, a sentimenti atavici, ma a specifiche politiche sovietiche che hanno enfatizzato

20. si veda su questo argomento il capitolo di a. Giustozzi in Giunchi, e., a cura di, La crisi afghana e il contesto regionale, dossier di «afriche e orienti», anno Xii, n. 3-4, 2011.

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l’autonomia amministrativa e culturale delle etnie presenti nell’Unione e contribuito all’emergere nei decenni successivi di storiografie contrapposte. con arturo marzano si passa a un conflitto tra i più intricati della storia contemporanea e a una società civile particolare, quella israeliana, che vede la coesistenza di un associazio-nismo ebraico, prevalentemente volto a fornire servizi per conto dello stato, e un associazionismo palestinese, in larga misura sostenuto dall’esterno, e volto a ovviare all’assenza dello stato e a rivendicare maggiori diritti per la popolazione araba. marzano ripercorre le caratteristiche di queste due componenti e si chiede se la società civile israeliana, nelle sue correnti di advocacy, abbia condizionato il processo di pace analizzando il caso di due organizzazioni di ebrei israeliani nate tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80: Shalom akhshav (sa) e Moetzet yesha (mY), la prima impegnata a sostenere l’ipotesi della nascita di uno stato palestinese, la seconda contraria al ritiro israeliano dalle aree occupate nel 1967. diverso è il peso delle due associazioni sugli ambienti governativi: la prima, legata alla sinistra, non è riuscita a inci-dere sulle politiche governative, mentre la seconda ha legami ben più stretti con le autorità e ha potuto quindi influenzare l’adozione di politiche governative. sulla base di numerose interviste e del materiale raccolto nel Paese, marzano osserva come nessuna delle due associazioni sia comunque riuscita a far presa su una popolazione sempre più disillusa e disin-teressata alla questione israelo-palestinese e a ricoprire un ruolo propositivo nel processo di pace. valentina rita scotti ripercorre le principali tappe della storia costituzionale turca e le componenti della sivil toplum turca, da quelle tradizionali, come le fondazioni pie, retaggio otto-mano, a quelle più recenti, come le associazioni di settore, le associazioni dei lavoratori e in particolare l’associazione degli industriali e imprenditori turchi (tÜsiad), fino alle

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onG che si sono moltiplicate negli anni ’80 con l’intenzione di favorire la democratizzazione del sistema politico e di sopperire all’incapacità dello stato di rispondere ad alcune problematiche, in un contesto di crescente libertà di espres-sione e associazione e di apertura delle stesse forze armate alla società civile. la scotti analizza soprattutto il rapporto tra le autorità da una parte e le associazioni di settore, le as-sociazioni dei lavoratori e le fondazioni dall’altra, e le norme che disciplinano queste componenti, osservando il rapporto talora ambiguo che talune di queste realtà associative hanno con il partito al potere, l’aKP: il tÜsiad, ad esempio, è un importante sostenitore del partito, ma al contempo preme per una maggiore apertura del sistema politico. Un’ambi-guità, questa, che ritroviamo anche nel testo di anna vanzan, quando analizza aKder, onG turca i cui membri in larga misura costituiscono l’elettorato dell’aKP, di cui però criti-cano le posizioni patriarcali.la vanzan analizza l’apporto che l’associazionismo femmi-nile turco, iraniano e malese forniscono al processo democra-tico. Pur essendo espressione di gruppi minoritari e d’élite, e pur essendo finanziate con fondi governativi o occidentali, le associazioni femminili, sostiene l’autrice, contribuiscono al pluralismo, legittimandolo da un punto di vista religioso. tre i casi analizzati, l’associazione turca aKder, già menzionata, le associazioni femminili iraniane nate nella fase di liberaliz-zazione di Khatami, e l’associazione malese sisters in islam. la prima, tra le altre cose, si oppone al divieto di indossare il velo nelle università e negli uffici pubblici, promuovendo in questo modo l’istruzione e l’impiego femminile: il ricorso a un simbolo autoctono permette così alle donne di ottenere maggiore autonomia e inclusione in spazi fino ad ora di perti-nenza maschile. le associazioni iraniane analizzate mirano a tutelare la donna e a modificare il diritto di famiglia, che con la rivoluzione iraniana ha abbandonato un’esegesi modernista

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delle fonti per ritornare alla sua versione classica; sisters in islam, infine, rilegge il corano in una chiave di genere, diffon-dendo uno spirito critico verso tradizioni esegetiche ereditate e smascherando l’uso strumentale che di esse è stato fatto nei secoli. in tal modo contribuisce a espandere lo spazio della di-scussione religiosa, erodendo il ruolo esclusivo che gli ulama hanno ricoperto nell’interpretazione dei testi sacri. nelle pa-role della vanzan, associazioni come sisters in islam «con-tribuiscono […] a far crescere la consapevolezza di genere all’interno delle loro realtà, contrastando discorsi egemoni» e in questo modo costituiscono «una palestra tanto di empower-ment quanto di […] democrazia». il caso della cina sfata il presupposto, molto diffuso, che lo sviluppo economico e l’apertura a sistemi di mercato deb-bano necessariamente essere accompagnati da processi di transizione democratica. nonostante l’impetuosa crescita economica cinese e l’adozione di un’economia di mercato da parte del Partito comunista cinese negli ultimi decenni, gli avvenimenti di Piazza tian’anmen nel 1989 non hanno comportato una revisione sostanziale dell’assetto politico. Francesco montessoro analizza l’atteggiamento delle autorità cinesi verso la società civile e il dibattito interno al Partito comunista cinese sulla questione della democrazia. l’autore osserva come le forme associative e i gruppi di interesse sorti all’inizio dell’ottocento, che nonostante la loro natura elitaria erano caratterizzati da grande vivacità, dopo gli anni ’20 del novecento si sono impoveriti, per essere poi, in seguito al 1949, posti sotto il controllo dello stato o repressi nei casi in cui erano considerati eccessivamente critici nei confronti del sistema politico. in seguito alla limitata apertura degli anni ’80, volta a salvaguardare la stabilità dell’assetto istituzionale più che a rivedere il sistema politico, si sono moltiplicate le onG orientate al service delivery, in parte per sopperire alla riduzione dei servizi forniti dallo stato in seguito all’adozione

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di un’economia di mercato. Parallelamente, il dibattito in-terno è diventato più vivace per effetto del crescente numero di cinesi che vanno all’estero per motivi di lavoro o di studio e dell’uso crescente di internet, che nonostante le limitazioni imposte dalla censura ha accresciuto le informazioni sul mondo esterno. le associazioni di natura religiosa che ope-rano nel settore dei diritti umani hanno continuato tuttavia a essere ostacolate, e anche le service delivery NGOs sono ri-maste sotto il controllo dello stato, senza potere costituire uno spazio politico autonomo e senza riuscire a entrare nei luoghi decisionali del Partito comunista cinese.nell’ultimo saggio, antonio Fiori si occupa delle onG sudcoreane attive in corea del nord nella seconda metà degli anni ’90, dopo le disastrose inondazioni del 1995, con attività che miravano non solo a prestare soccorso alle popolazioni colpite, ma anche a promuovere il processo di riconciliazione tra i due Paesi. anche qui il bilancio non è del tutto posi-tivo: le onG sudcoreane sono state viste come funzionali al miglioramento delle relazioni bilaterali, riuscendo effet-tivamente a contribuire alla diminuzione della tensione, ma il summit di P’yŏngyang del giugno 2000 e la decisione del governo sudcoreano di inviare ingenti aiuti attraverso canali diretti hanno comportato il ridimensionamento delle loro at-tività e del loro ruolo politico.i contributi raccolti in questo volume sono stati presentati a un convegno che ha avuto luogo a milano il 21 febbraio 2011 nel contesto di un più vasto progetto nato dall’impegno e dall’esperienza di afgana, una rete di associazioni, sindacati, giornalisti e studiosi italiani, e di intersos, organizzazione umanitaria italiana presente in afghanistan da dieci anni. nel marzo del 2007 afgana ha presentato al governo italiano un appello in cui si chiedeva di dare voce alla società civile af-gana nel processo di ricostruzione e riconciliazione nazio-nale, sulla base della constatazione che nel Paese asiatico il

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tessuto sociale organizzato è stato in larga misura ignorato dalla comunità internazionale nonostante il ruolo fondamen-tale che può giocare nella transizione in corso. da quell’ap-pello è nato un progetto volto a fare emergere il tessuto asso-ciativo afgano, a facilitare la sua interazione e a coinvolgerlo nel processo di ricostruzione e riconciliazione in corso nel Paese: afgana e intersos hanno presentato nel 2010 al mini-stero degli affari esteri un progetto che prevedeva una com-ponente di ricerca sulla società civile volta a identificare e studiare le varie realtà associative afgane e l’organizzazione di un convegno che mettesse in relazione gli studiosi italiani che si occupano di società civile in asia e promuovesse il dia-logo tra la prospettiva di questi studiosi e l’esperienza delle onG italiane. il convegno, che ha avuto luogo presso l’Università degli studi di milano è stato una tappa in un progetto più vasto. il 30 e 31 marzo del 2011, afgana e intersos hanno organizzato a Kabul una conferenza sul ruolo delle organizzazioni della società civile afgana nei processi decisionali, che ha visto la partecipazione di 150 delegati provenienti da 34 province afgane. dalla conferenza è emerso il desiderio della società civile afgana di consolidare il cammino di coordinamento avviato tra le sue componenti, che vede nella costituzione di una casa della società civile un momento centrale, e di promuovere la sua inclusione nei processi decisionali gover-nativi. a questa conferenza è seguita, il 24 e 25 maggio, una conferenza internazionale della società civile afgana che ha avuto luogo a roma e alla quale ha partecipato una delega-zione di associazioni afgane, che si è confrontata con espe-rienze di associazionismo italiano e ha ribadito la propria volontà di sviluppare una rete comune e di estenderla ad altre realtà associative. l’auspicio è che questi momenti di rifles-sione e di incontro possano promuovere l’inclusione della società civile, in afghanistan come altrove, nelle politiche

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di governi che troppo spesso, sotto una patina democratica, la escludono dalla ridefinizione delle istituzioni nazionali.

Bi B l i o g r a f i a

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