Sergio Givone: Il Pensiero Tragico

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Il pensiero tragico

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intervista-lezione di Sergio Givone rilasciata il 17 giugno 1996nella abitazione del docente a Firenze

Il professor Givone si ferma oggi a parlare di pensierotragico. Ecco in che senso e con quali prospettive?

Sì, quella del pensiero tragico è una prospettiva relativamenterecente. Se ne possono trovare tracce nella storia della filosofia.C'è stato chi questo pensiero tragico lo ha trovato nella filosofiagreca. Nietzsche, per esempio, ha tentato una ricostruzione diquella che lui ha chiamata la "filosofia tragica" dei Greci.Tentativo però abbandonato. Chissà, non è detto che questoabbandono non sia dovuto proprio al riconoscimento che dipensiero tragico vero e proprio anche per i Greci non si puòparlare. Certo i Greci hanno espresso la tragedia, ma il pensierotragico è ancora un'altra cosa. C'è chi, come Lucien Goldmannper esempio, ha parlato di pensiero tragico a proposito di Pascale Racine. Ma anche questa proposta sembra caduta. Insomma ilpensiero tragico è un movimento, è un modo di pensare recente.E questo perché si costituisce sulla base di una risposta a quelloche è il grande fenomeno dell'epoca, cioè il nichilismo. E' unarisposta, diciamo pure, non nichilistica al nichilismo.

Che cosa distingue, Professor Givone, pensiero tragico enichilismo?

Ecco un buon punto di partenza. Il nichilismo, paradossalmente,non tematizza, non problematizza quello che sembrerebbe essereil suo problema più proprio, cioè il problema del nulla. Per ilnichilismo il nulla è un fatto, è qualche cosa di cui bisognaanzitutto prendere atto, anzi è qualche cosa di cui non si può cheprendere atto. Le cose sono impregnate di nulla - dice il

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nichilismo -, le cose non sono se non in rapporto al nulla, perciò ilnulla è la condizione del loro essere. Cosa saremmo noi, cosasarebbe il mondo, cosa sarebbe l'essere senza il nulla? Qualcosadi inconcepibile. Ma per l'appunto in quanto condizionedell'essere delle cose, del nostro stesso essere, il nulla è un fatto,è un "a priori", è qualche cosa con cui dobbiamo - ecco laproposta tipicamente nichilistico - abituarci a convivere.

Non così invece il pensiero tragico. Il pensiero tragico trova chela risposta del nichilismo al problema del nulla, sia una rispostaevasiva. In realtà il nulla è un problema. Il nulla è qualche cosache dev'essere interrogato. Insomma il pensiero tragico nascedalla riproposizione - in chiave moderna, anzi contemporanea -della "domanda fondamentale": la Grundfrage. La domanda chechiede perché c'è qualche cosa e non piuttosto il nulla.

Approfondiamo ancora l'antitesi tra queste dueprospettive: il nichilismo dunque è la dissoluzione deltragico e il tragico è l'alternativa al nichilismo?

Ecco, il problema è proprio questo. Il tragico viene dissolto làdove il nulla è concepito come una condizione, come un "a priori"dell'esperienza, come qualche cosa di cui noi dobbiamo prendereatto, prendendo atto della nostra finitezza.Certo la carta, che gioca il nichilismo, è una buona carta quandopone la domanda: cosa saremmo senza il nulla, cosa sarebbe dinoi senza la morte? La morte è certo qualche cosa che cispaventa, ma è anche ciò che ci fa essere quello che siamo.Senza questo destino che ci accompagna e che fa sì che noidobbiamo finire nel nulla, cosa ne sarebbe delle nostre speranze,dei nostri progetti? Dato che, per l'appunto, noi progettiamo invista del nostro tramontare, che progettiamo per salvarci daquesto tramonto, da questo naufragio, sapendo però chenaufragare dobbiamo. Insomma senza il nulla, senza la morte, lanostra vita sarebbe qualche cosa di inconcepibile. Dunque,concludono i nichilisti, un po' troppo precipitosamente: anzichépaventare il nulla, la morte, abituiamoci a convivere con questarealtà.Ma è appunto una conclusione un po' troppo precipitosa. Perché,per quanto sia vero che l'"a priori" della nostra esperienza èsegnato da una radicale, forse insopprimibile negatività, è anchevero che non per questo questa negatività merita soltanto ilnostro elogio. Piuttosto dobbiamo usare un pensiero che sappiadire l'una cosa e l'altra, che sappia dire: sì, il nulla, e cioè lamorte - il nulla, in fondo, non è che una metafora della morte - èla condizione della nostra vita. E' dunque anche la condizione delsuo valore, è ciò che la fa preziosa. Ma nondimeno il nulla è ilnulla, nondimeno la morte è la morte, cioè qualche cosa che

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spaventa, che fa orrore, qualche cosa che si staglia su unosfondo di negatività, del quale dobbiamo, se non venire a capo,ma certo porre il problema.

Allora come mai, Professor Givone, il nulla è statointerdetto dal pensiero occidentale ?

La storia della filosofia occidentale - quella storia che nasce,come sappiamo, con Parmenide - si svolge, quasi interamente,sotto un interdetto: tu non devi pensare il nulla. Perché pensareil nulla è impossibile, anzi è contraddittorio. Quindi, diceParmenide, non solo dovrai dire dell'essere che è e del nonessere che non è, ma in verità del non essere non dovrai neppuredire che non è, perché dirlo è già attribuire al non essere unaqualche realtà, sia pure una realtà negativa. Quindi lacontraddizione si insinua anche nel pensiero che dica - quello chesembrerebbe legittimo e doveroso dire - che il non essere non è.E' un interdetto che pesa "ab origine" sull'intera storia delpensiero occidentale. Tant'è vero che la metafisica ha fatto suoquesto interdetto e ha rimosso il nulla, il nulla in quantoproblema.Non solo la metafisica, anche la logica. Non solo la logica, anchela scienza. Heidegger, che è stato colui che in epoca moderna,più di ogni altro, ha posto il problema del nulla, nellaIntroduzione alla metafisica lo ha posto proprio a partire da unariflessione sulla scienza. Ha fatto notare come la scienza sioccupa di ciò che è, e proprio per occuparsi di ciò che è, ècostretta ad abbandonare, a rimuovere ciò che non è. ContinuaHeidegger: ma se neanche la metafisica e la logica si occupano diciò che non è, chi si occupa del nulla? Di qui il problema di altropensiero, di un pensiero che sappia appunto affrontare unproblema che sembrerebbe improponibile filosoficamente, e diqui la difficoltà di rinvenire, nella storia del pensiero, vere eproprie proposte, che vadano nella direzione di un pensierotragico.

In che termini i tragici, lasciando irrompere il nulla,aprono una direzione in un altro pensiero?

Il pensiero diventa - l'espressione è tipica nella tragedia - "dissoslogos", cioè "discorso razionale" che conosce l'ambiguità, laduplicità, con l'apparire di una radicale ambiguità e duplicità delvero. Cioè l'apparire del vero non è l'apparire di una veritàincontrovertibile, governata dalla necessità, ma l'apparire delvero è un enigma, qualche cosa che è e non è, qualche cosa cheè in questo modo, ma potrebbe essere altrimenti, qualche cosaappunto di fondamentalmente enigmatico. E l'essere dell'enigmain che cosa consiste? Nel fatto che l'essere, che questo essere ha

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il suo fondamento nel nulla, piuttosto che nella necessità.

Kierkegaard e Nietzsche, Sergio Givone, sono due autoricentrali nell'interpretazione del rapporto tra pensierotragico e Cristianesimo. Potrebbe spiegarci in quale modo,iniziando da Nietzsche.

Nietzsche sostiene che con il Cristianesimo del tragico non v'è piùnulla. Il Cristianesimo ha cancellato il tragico in base a un idealedi redenzione che strumentalizza la sofferenza, che considera lasofferenza come lo strumento per una più alta riconciliazionedell'uomo con Dio. Nietzsche è tra coloro i quali sostengono latesi che c'è radicale incompatibilità tra Paganesimo eCristianesimo. Il Paganesimo sa invece essere tragico perché saessere fedele al finito. Essere fedele al finito significa esserefedele alla morte, alla nostra finitezza che non è oltrepassabile.La fedeltà al finito è il presupposto per quel pensiero, capace disopportare la contraddizione e dunque capace di esserepropriamente pensiero, pensiero tragico.Non solo, Nietzsche si spinge anche più in là e, dopo aver distintoPaganesimo e Cristianesimo, dopo aver identificato ilCristianesimo con una concezione del mondo fondamentalmenteantitragica identifica anche il Cristianesimo con una concezionedel mondo fondamentalmente nichilistica. Nichilismo eCristianesimo sono, per Nietzsche, la stessa cosa. Perché ilnichilismo è il frutto di una scissione ontologica, quella per cui dauna parte c'è l'essere e dall'altra il dover essere. E il dover esserenon coincide con l'essere, non solo, ma svaluta, impoverisce,svuota l'essere.Scindere, separare l'essere e il dover essere, come, secondoNietzsche, fa il Cristianesimo, significa inseguire un vuotofantasma e sacrificare a questo fantasma, che è Dio, ma anche ilcontenitore dei valori, la vita. La vita quale essa è, quale essa ènel bene e nel male, degna di essere amata nel bene e nel malee anzi al di là del bene e del male, perché appunto, al di là delbene e del male, non c'è, non ci dovrebbe essere, che il nostro"sì", il nostro "sì" alla vita. I Cristiani invece trasformano questo"si" in un "no", in un "no" pieno di risentimento, perché nonsapendo amare la vita e inseguendo appunto questo fantasmatrascendente, rivolgono, nei confronti della vita così com'è, tuttoil loro astio, per l'appunto il loro sentimento risentito. Quella diNietzsche è la riproposta di un Paganesimo, di un Paganesimoper l'appunto ritrovato al di là del Cristianesimo.

Cosa afferma invece Kierkegaard?

Non così in Kierkegaard, il quale, a proposito della morte delfiglio di Dio, parla della più alta tragedia. Il pensiero tragico cioè,

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secondo Kierkegaard, trova la sua realizzazione più piena e piùcompiuta proprio nel Cristianesimo, ma un Cristianesimo le cuicategorie devono essere totalmente ripensate. Un Cristianesimoche sappia sciogliere i propri legami - legami molto equivoci - conla tradizione metafisica, che sappia pensare la redenzione comequalche cosa di tragico. Quindi non hegelianamente, non come ilsuperamento, la "Aufhebung" della scissione, dellacontraddizione, ma sappia pensare la redenzione come quelladimensione - paradossale - in cui il superamento del dolore e lasua conservazione sono tutt'uno. E in cui Dio, anziché venire adare una risposta sulla ragione del male nel mondo, assume su disé questo male e lo redime, esibendolo, conservandolo,portandolo dentro di sé.Non che questo significhi avere una sorta di manicheismo, per cuiDio è un Dio ancipite, un Dio in cui il principio positivo e ilprincipio negativo, il bene e il male vengano alla fine acoincidere. No, Dio è Dio a misura che in lui il male è redento.Ma, per l'appunto, la redenzione non lo cancella il male, ma laredenzione svela nel male, cioè nel dolore e nella sofferenza, ilsenso dell'essere. Nella misura in cui lo svela, il male è sottrattoa se stesso, alla propria forza puramente distruttiva e nichilistica.Ma nella stessa misura il male è fissato a una inoltrepassabilità.Dio ricorda, Dio è questa realtà, che ricorda la sofferenza,ricordandola la espia e la redime, ma per l'appunto la ricorda edunque la conserva. Non c'è niente, secondo Kierkegaard, di piùtragico di questo, non c'è niente di più tragico del fatto che non sipossa salvare dal male, se non trattenendoci in una dimensionedove il male, il male che abbiamo fatto, il male che abbiamosubito, siano conservati, conservati in Dio stesso.

Biografia di Sergio Givone

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