Sergio Rubini

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EDIZIONI FALSOPIANO SERG1O Rubini Anton Giulio Mancino n Fabio Prencipe

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Tutti i film e le passioni dell'interprete e regista italiano, da La Stazione a Qualunquemente

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€ 18,00

EDIZIONI

FALSOPIANO

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FALSOPIANO

Un 10 felliniano sigla questa nuova, aggiornata e completa monografia su

Sergio Rubini al suo decimo film da regista e attore multiforme ed eccentrico.

«Adesso - dichiara - non ho un rammarico, eppure questi due mestieri vissuti

contemporaneamente ti portano uno da una parte ed uno dall’altra, tanto

che riuscire a coniugarli è espressione di una schizofrenia conclamata. Una

schizofrenia nella quale mi crogiolo. Per quanto mi riguarda devo costante-

mente riuscire a tenere vive queste due figure dentro di me. E quando mi

chiedono cosa preferisca tra le due me la cavo sempre con una risposta ge-

nerica non essendo ormai in grado di scegliere veramente. Fanno tutte e

due parte della mia storia».

Anton Giulio Mancino, ricercatore a Macerata, insegna cinema all’Università

di Macerata e Bari. Autore di volumi su Scorsese, Demme, Rosi, Wayne e

sul cinema politico italiano, collabora con le riviste “Cineforum”, “Cinecri-

tica” e il quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Fabio Prencipe, giornalista e studioso di cinema italiano, ha curato volumi

su De Robertis, Placido e Rubini, si occupa di organizzazione e manifestazioni

cinematografiche (Garganocinema e Festival del Cinema Indipendente della

Provincia di Foggia), svolgendo anche attività di produzione.

ISBN 978-88-89782-35-4

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Anton Giulio Mancino n Fabio Prencipe

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FALSOPIANO CINEMA

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Anton Giulio Mancino

Fabio Prencipe

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Ringraziamenti

Il presente volume viene pubblicato in collaborazione con:

La Provincia di Foggia nell’ambito della Xa Edizione del Festival delCinema Indipendente (con il Comune di Vieste e il progettoGarganoCinema - Vieste FilmFest) grazie alla disponibilità delPresidente Antonio Pepe, dell’assessore alla Cultura Maria ElviraConsiglio, del Sindaco Ersilia Nobile e dell’Assessore al TurismoNicola Rosiello.

Gli autori desiderano inoltre ringraziare Euclide Della Vista e UtopiaEdizioni di Foggia, il Circolo del Cinema “Dino Risi” di Trani, la rivi-sta “Cinecritica”, Mario De Vivo, Geppe Inserra.

In quarta di copertina: Sergio Rubini ne L’Anima gemella (in alto) eRiccardo Scamarcio con Vittoria Puccini in Colpo d’occhio.

© Edizioni Falsopiano - 2010via Bobbio, 14/b

15100 - ALESSANDRIAwww.falsopiano.com

Per le immagini, copyright dei relativi detentoriProgetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri e Roberto Dagostini

Stampa: Lasergroup - MilanoPrima edizione - Novembre 2010

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Sommario

Profeta in patria p. 9

Un regista si racconta comunqueUna conversazione con Sergio Rubini (2000-2010) p. 23

alfabeto p. 109

Autoanalisi (Anton Giulio Mancino) p. 109

Cavalieri (Massimo Causo) p. 115

Donne (Antonella Gaeta) p. 119

Eredità (Mario Sesti) p. 123

Fellini (Anton Giulio Mancino) p. 131

Genere (Cristiana Paternò) p. 139

Incontri (Fabio Prencipe) p. 151

Luoghi (Massimo Causo) p. 155

Mezzogiorno (Oscar Iarussi) p. 157

Provincia (Fabio Prencipe) p. 165

Radici (Fabio Prencipe) p. 169

Sconfitti (Antonella Gaeta) p. 175

Talento (Piero Spila) p. 179

Volti (Vito Attolini) p. 187

Filmografia (a cura di Davide Di Giorgio) p. 193

Sergio Rubini attore p. 241

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ProFeta in Patria

«È ovvio che io sono profondamente convinto del valore della cono-

scenza di sé; ma che senso ha raccomandare questa conoscenza quan-

do i maggiori saggi di ogni tempo ne hanno predicato la necessità

senza successo? Persino all’occhio più prevenuto è chiaro che questo

libro rappresenta una sola, lunga esortazione a esaminare con cura ilproprio carattere, il proprio comportamento e le proprie motivazioni».

C. G. Jung, Prefazione all’I Ching o Il Libro dei Mutamenti, a cura di R. Wilhelm

Tempo: il passato, prossimo o remoto. Indicativamente,gli anni Sessanta o Settanta. In alternativa un presenteugualmente affacciato al passato o da esso ipotecato, concui la partita esistenziale non è stata chiusa.

Luogo: la provincia meridionale. Nella fattispeciepugliese.

Personaggio, principale o a latere, non fa differenza:un uomo, giovane o di mezza età, con velleità artistiche -laddove l’arte è sinonimo di evasione da un ambientechiuso - che vive e si consuma nel perimetro ingrato e fru-strante di questa provincia. Se non fosse meridionale,pugliese, non incarnerebbe anche un divario culturale, unscarto storico e geografico.

Azione: l’uomo di cui sopra desidera evadere dalla pri-gione geografica e sociale, nonché culturale e antropolo-gica che ne mortifica il talento, lo giudica con implacabi-le sufficienza, ne condanna preventivamente non tanto laqualità specifica quanto piuttosto lo slancio. È impensabi-le, inaccettabile, altamente improbabile se non addirittura

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impossibile che un’esigenza di espressione creativa, unbisogno di fare arte possa anche solo - in uno spazio simi-le, impietoso, indifferente - trovare una valvola di sfogo.L’inevitabile mancanza di riconoscimenti, dall’esterno,agisce in realtà preventivamente dall’interno. Non sonotanto gli estranei a non riconoscere il sedicente artista, mai parenti, i fratelli, gli amici ad infierire per primi, a sfer-rare la pugnalata, la più sleale e implacabile di tutte.Affinché il divieto, il tabù dell’arte, nel meridione chiusoin se stesso, astorico, immutabile, demartiniano, folclori-stico, non venga violato.

Finale: sarebbe opportuno palare di finali, visto che letipologie sono tre.

1) Realistico: l’artista, incarnazione privilegiata deldesiderio di sottrarsi a un destino irrimediabile, resta scon-fitto. Con la consolazione relativa: concedersi in extremis oa posteriori il lusso di riuscire a sconfiggere i suoi detratto-ri, a prendersi un’ultima, tardiva, importante rivincita.Peter Bogdanovich, a proposito di certi personaggi di JohnFord, la chiamava «la gloria nella sconfitta» 1.

2) Provvisorio: l’artista o l’aspirante artista, special-mente se giovane, imbocca la strada che lo porterà lonta-no. Dove non si sa bene. Né è possibile stabilire se riu-scirà nell’impresa di farsi accettare e apprezzare - in tuttii sensi, non ultimo quello monetario, commerciale - fuoridalla propria terra d’origine, così a senso unico e avara digratitudine verso chi ipotizza soluzioni esistenziali e pro-fessionali alternative.

3a) Alternativo in loco: l’artista, o chi per lui, preferi-bilmente un intellettuale, emerge dalla provincia in cui ènato, ma non condannato in via definitiva, e ottiene final-mente ciò che la sua gente, la sua terra gli avevano nega-to, costringendolo a una sorta di esilio. Ciò nonostante,perché in questo finale potrebbe capovolgersi quella con-solazione pietosa concessa al perdente, il ritorno a casaconcepito anche come occasione per un bilancio com-

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plessivo, si rivela poco soddisfacente, venato di malinco-nia nel migliore dei casi, se non addirittura deludente,sconcertante.

3b) Alternativo dislocato: l’artista, oramai professioni-sta dell’arte o professionista incompreso, vive, bene omale, lontano da casa, in un mondo crudele, spietato,senza regole, dove è riuscito a lungo a resistere, a restarea galla, a mimetizzarsi. Forse proprio per questa (s)ragio-ne egli vagheggia, mitizza, sogna di poter tornare al suoposto delle fragole e recuperare l’armonia perduta.

Se si presta attenzione a questo schema che, rispettoalle premesse, ovvero il luogo e il tipo di personaggio,essenziali, fissi, precisi, trova nell’azione soprattutto nelfinale, anzi nei finali, una progressiva espansione, aumen-to di possibilità senza tuttavia mutarne la sostanza, ci siaccorge di come l’universo narrativo, mitico, fiabesco, diSergio Rubini regista vi corrisponde in pieno. Si sviluppadentro questo schema, uno schema narrativo molto sem-plice, tradizionale, che non implica necessariamente sche-matismo alcuno. Non si tratta insomma di prevedibilità,di mancanza di inventiva. Al contrario. Individuando unoschema sul quale impiantare storie, innescare dispositividi genere, far partire e ripartire, giungere o indurre a tor-nare i propri personaggi di riferimento funzionali a unsistema narratologico 2, Rubini - il regista che si alterna osovrappone all’attore, ma non ad esso contrapposto - sem-bra aver scoperto una sorgente inesauribile di spunti.Diciamo pure un prontuario barocco, estroverso ed eccen-trico di pieghe, increspature, corrugamenti rispetto asuperfici altrimenti lisce e omogenee del vissuto: un cata-logo adatto a supportare infinite varianti di un percorsoautobiografico consapevole. Generando a queste condi-zioni un rinnovato spazio rappresentativo e soprattuttoautorappresentativo di tipo “mitobiografico”, che è poi ladimensione felliniana per eccellenza. Dove Fellini, ilquale è stato - se non il primo - il più significativo tra i

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primi e con il senno di poi il più determinante personag-gio interpretato al cinema, ha fornito a Rubini anche ilmodello di “mitobiografia” riconducibile al concetto ari-stotelico di “entelechia” (somma dei vocaboli en e telos,in greco “dentro” e “fine”, significando così una “finalitàinteriore”) sviluppato in modo non sistematico, sulla scor-ta di frammenti di diario pubblicati postumi, da ErnstBerhard, analista di scuola junghiana con una forte pro-pensione per l’esoterismo e il mondo magico. La defini-zione più esaustiva e concisa la troviamo in un appuntodatato 17 febbraio 1944:

“L’entelechia”, la vita secondo un disegno, si manifesta nella coscien-

za facendo apparire l’interna “necessità”, a cui è soggetta ogni parte,

come “volontà”. La sua “volontà” consiste soltanto nell’inserire la

materia caotica, perché soggetta solo al principio di causalità, nella

propria opera ordinatrice, l’“ordine entelechiale”. Questo disegno è la

“ragione” che conduce l’uomo, se egli la comprende, alla concordan-

za cosciente e razionale della sua volontà con il disegno (volontà) del-

l’entelechia; con ciò egli partecipa con la “sua” ragione e la “sua”

volontà all’entelechia, la quale è liberamente legata alla propria legge,

che essa stessa si è data e che è appunto la sua ecceità; e allo stesso

tempo egli riconosce che questo è anche la propria ecceità, che simanifesta in lui come esperienza della libera volontà 3.

Non c’è dubbio che Berhard sia la chiave di volta diquesto discorso. In quanto fonte teorica che ci riporta aFellini, il quale dal 1959 fino alla morte di Bernhard, avve-nuta nel 1965, data alla quale risale il progetto incompiutodel Viaggio di G. Mastorna, era stato assiduo e circospettofrequentatore, non si sa bene se come paziente in analisi oapprendista stregone 4, desinato di lì in poi a smantellare inmodo sempre più consapevole, sempre più provocatorio,sempre più esplicito il racconto tradizionale, lo schemaclassico, polverizzandolo, restituendolo come work in pro-gress, taccuino di appunti, diario, block-notes. Come gli

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scritti di Bernhard, i film di Fellini assumono nel tempo laforma all’apparenza informale della precarietà, della casua-lità, dal mutamento. Come nell’I Ching, testo fondamenta-le per Jung. Quindi per Berhard. E naturalmente per Fellini.

Perché, ad un’attenta analisi, ci si accorge di come della“entelechia” come principio della rappresentazione filmicaFellini era stato il maggiore assertore della irragionevolestoria del cinema italiano, generando una tradizione volon-taria o involontaria che sarebbe proseguita sotto i più sva-riati auspici, spinta dai più svariati motivi e operante neipiù svariati contesti ideologici, geografici e culturali, conaltri cineasti di area emiliana o romagnola come BernardoBertolucci e Marco Bellocchio, e di lì a poco con PupiAvati, onde poi propagarsi in territorio romano con NanniMoretti, infine spingendosi a sud. Prima con GiuseppeTornatore. Quindi con Sergio Rubini. Come si può notare,a monte di questo percorso ipotetico c’è Fellini, di cuiRubini, molto giovane, si trova a interpretare fatalmentel’alter ego. A valle c’è Tornatore, che sceglie Rubini, anco-ra una volta come interprete, nel suo film più soggettivo,Una pura formalità (1994), molto più allegoricamente sog-gettivo e mitobiografico, sebbene meno autobiograficodello stesso Nuovo Cinema Paradiso (1988). Così come inIntervista (1987) Rubini “fa” Fellini, un Fellini acerbo, inerba, imbranato, incuriosito da tutto e da tutti, e affianca neiflashback il Fellini reale, in carne e ossa che ugualmenterecita la parte di se stesso, maturando dentro di sé una mar-cata propensione felliniana, in Una pura formalità siimmedesima in un personaggio minore, discreto, che stan-dosene in disparte trascrive e impara le parole altrui, stret-to nel confronto serrato tra i protagonisti Gerard Depardieu,l’artista in crisi, tragicamente suicida, e Roman Polanski, ilpoliziotto che agisce come uno psicanalista. Ovvero tral’attore corpulento che avrebbe poi diretto in Tutto l’amoreche c’è (2000), e il regista e attore occasionale al cui para-digma di reciproche e intercambiabili forme di persecuzio-

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ne e dipendenza, carnefice e vittima, si sarebbe probabil-mente ispirato per Colpo d’occhio (2008). E se l’origineebraica di Polanski e di Berhard, sfuggiti e sopravvissutientrambi alla Shoah, è all’origine del forte impulso mito-biografico che attraversa l’esistenza, la concezione doppia-mente subalterna, di meridionale e di aspirante artista meri-dionale, rende Rubini particolarmente permeabile alle sug-gestioni più mitobiografiche - se si preferisce: onirico-bio-grafiche, magico-biografiche, fanta-biografiche - che auto-biografiche di Fellini, del provinciale Fellini che attraversoil proprio io, il proprio ventre molle di visionario è riuscitoa cogliere, a comprendere, a includere smisuratamente lereticenze, le contraddizioni, le commistioni, le compromis-sioni a tutti i livelli e in tutte le epoche della società, dellacultura e della variegata (dis)umanità italiana condannataad essere ridicola, sconcertante, esorbitante. In accezionepirandelliana: umoristica.

Non a caso i registi fin qui citati - Rubini compreso -hanno spesso insistito non soltanto sui ricordi o più pro-priamente sulla componente autoreferenziale della rappre-sentazione, che inevitabilmente si presenta come autorap-presentazione o rievocazione di un tempo che fu, ma sulcinema che rappresenta se stesso o sull’arte che riflette suse stessa. In questo contesto, limitandoci al singolo caso diRubini, il regista, L’amore ritorna (2004) e Colpo d’occhiorisultano estremamente emblematici. Persino sintomatici,contigui per ovvie ragioni a Tutto l’amore che c’è, dove ilvero filo conduttore è la predestinazione d’attore, il biso-gno fisiologico di emergere dall’anonimato provincialeattraverso la recitazione, e a L’uomo nero (2009), dove l’ar-te del padre pugliese viene messa da parte a condizione chela rivincita sopraggiunga comunque, e spetti al figliopugliese trapiantato altrove. Proprio come era accaduto alprotagonista di Nuovo Cinema Paradiso, che non aveva unpadre vero ma un padre putativo, la proiezione di un padrenel cinema. Detto altrimenti, il proiezionista della sala

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cinematografica presto dismessa e demolita.Ecco quindi come la mitobiografia, anche in Rubini, è

sinonimo di provincia, che a sua volta diventa un luogomitico, necessariamente retrodatato, brigantesco o cavalle-resco (Il viaggio della sposa, 1997), gretto e soffocante(Tutto l’amore che c’è, L’uomo nero). Infido tuttavia, oassurdo, anche se viene riscoperto, ritrovato, ricollocato inun probabile o paventato presente (La stazione,1990,L’anima gemella, 2002), se non addirittura criminale, fami-lista e amorale senza soluzioni di continuità (La terra,2006). Ma è pur sempre in questo luogo che l’oggettoumano posto davanti alla macchina (l’attore Rubini, diret-tamente o per interposta persona recitante) si specchia eraddoppia nel soggetto che resta prevalentemente o par-zialmente dietro la macchina da presa (il regista Rubini).Poiché l’alternativa è un Altrove tutt’altro che rassicurante,romano o milanese, non fa differenza, gelido, spiazzante,senza regole né garanzie. Principalmente senza folklore,divisione di ruoli, umorismo (La bionda, Prestazionestraordinaria, L’amore ritorna, Colpo d’occhio). Ma al dilà di qualsiasi variante, che può riguardare il luogo di rife-rimento non meno - lo si è detto in principio - della tasso-nomia dei finali, restano alcuni punti fermi: tanto percominciare, la topologia non tanto del personaggio princi-pale quanto del personaggio-chiave del discorso (che inRubini non coincidono automaticamente) e l’azione, l’im-pianto narrativo, il romanzo di educazione. Ma soprattuttouno si conferma essere il vero punto fermo, che assimilatutti gli altri, li rende sovrastrutture, accessori di copertura,occorrenze di un prototipo: la prospettiva. Rubini guarda almondo a partire dal sé, il suo binocolo è capovolto, non èpiù puntato sulla realtà distante, ma su un potenziale vissu-to, su una soggettività che opportunamente ingigantita,fatta deflagrare, portata all’eccesso, alle estreme conse-guenze dello stile ostentato o delle caratterizzazioni soprale righe, aspira a diventare, come accadeva a Fellini, vei-

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colo dell’altro o dell’oltre. La distanza troppo ravvicinata,che in realtà nasconde un profondo e tragico senso di stra-niamento, di non appartenenza linguistica e culturale, inpratica esasperata, è per Rubini quella giusta, l’unica pos-sibile. Non guardando il fuori se non attraverso il filtro deldentro, attraverso l’introspezione. O guardandosi indietro,sempre, inevitabilmente indietro, riscoprendo il padre che èin lui, travestendosi da padre (da La stazione a L’uomonero, chiudendo un ciclo). Odiando da un lato la figura delcritico che nel piccolo centro (L’uomo nero) come sullascena nazionale e internazionale (Colpo d’occhio) è l’in-carnazione del Sistema, colui che emette l’implacabile con-danna a vivere imprigionati pur vedendo i treni e gli altripartire. Dall’altro avvertendo l’urgenza di sottrarsi a questacondanna, a non fare la fine del padre, un padre naturaliz-zato, ovviamente, pur magnificandone il talento, che è poiil proprio o quello ereditato mitobiograficamente per diret-ta discendenza. Con il corollario inevitabile del bisognoassoluto di fuggire, farsi largo ad ogni costo nella società(dello spettacolo), raggiungere onore e gloria onde poterlariportare nei luoghi d’origine. Egli, in quanto autore che haraggiunto la soglia dei dieci film, uno e mezzo in più delfatidico 8 ½ felliniano del lontano 1963, torna da vincitorenella terra natia, anche se questa è una terra infida,mostruosa - lo è di necessità, possiamo aggiungere, daquando e perché ha costretto l’artista ad andarsene, a rin-negarla, a smarrirla - e si offre allo sguardo altrui, dei suoicari, della sua gente un tempo irriconoscente, idealmenteper prendersi la sospirata rivincita territoriale, per invalida-re l’assunto del nemo profeta in patria. Un assunto che inchiave meridionalista diventa assai più doloroso, inaccetta-bile, da rimuovere. A fronte della partenza impossibile deLa stazione e del complementare ritorno impossibile de Labionda, che invece si realizza anche alla lettera ne L’amoreritorna, il realizzarsi altrove pur continuando a rappresen-tare il proprio spazio geografico e autobiografico in quasi

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ogni film, serve a riproporre, esibire al cospetto dei suoiconcittadini potenziali e di ogni tempo il nuovo status dieroe affermato, di artista baciato dalla fama, di protagoni-sta totale (dunque regista/attore) sottrattosi all’anonimatodelle comparse e per giunta dei comprimari. Il personaggiocentrale, l’attante, caro a Rubini, è colui che è diventatoqualcuno. E lo dimostra arrivando da fuori e avendo bene-ficiato del consenso extraterritoriale. Salvo dichiarare l’or-rore per quel mondo stesso abbandonato, quel posto dellefragole imbarbarito, abbruttito, degenerato a causa dell’ab-bandono, dell’esilio, sublimato nel vagheggiamento.L’eroe-attante rubiniano, stretta derivazione di quello felli-niano o tornatoriano, è un’anima divisa in due, che agiscein film concepiti come proiezioni ad hoc di fantasmi sog-gettivi, che non dicono se non a condizione di poter enun-ciare questa possibilità del dire cinematograficamente, conla fluidità dei movimenti della macchina da presa, la rapi-dità degli stacchi, la concezione di un cinema grandioso, lamoltiplicazione dei piani temporali, onirici e visionari, leteatralizzazioni dichiarate (si veda l’incipit di Colpo d’oc-chio). Questo io diviso naturalmente, per potersi esprime-re, mostrare e dimostrare, teme ancora il giudizio esternoda cui deve tuttavia liberarsi ma da cui si dipende e versocui mostra un’aperta ostilità (sulla falsariga di Fellini che faimpicca il critico in 8 ½). Come del resto dipende da quelSistema di cui il critico non è che una parte dell’ingranag-gio, vorrebbe sbarazzarsi ma non completamente. Ciò spie-ga perché almeno una volta Rubini abbia voluto consape-volmente sfidare se stesso, o almeno provarci, rappresenta-re questa prova, trascorrendo dalla professionalità ricono-sciutagli all’ambita autorialità. Con L’amore ritorna, doveha corso il rischio, a ragion veduta, di vedersi rimprovera-re di aver fatto il suo 8 ½, di aver ceduto insomma all’au-tobiografismo (improprio sostituto della mitobiografia) delmaestro e primo mentore Fellini. Il metalinguaggio, tipicodel cinema sul cinema, è una tentazione cui si abbandona-

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no prima o poi molti cineasti più o meno dotati, più o menocapaci di trasformare il proprio ego in parabola contempo-ranea. Ma Rubini, per sua fortuna, secondo la prassi mito-biografica ereditata da Fellini, non ha raccontato se stesso,come invece lascerebbero credere le numerose coincidenzecon la vita personale (le vicissitudini ospedaliere, l’exmoglie Margherita Buy nel ruolo della moglie del protago-nista, il vero padre dell’attore che interpreta tale ruoloanche sullo schermo, la fidanzata Giovanna Mezzogiorno,già fanciulla da proteggere cavallerescamente in Il viaggiodella sposa, ora copia conforme dell’ex compagna AsiaArgento). Ma l’impressione, come spesso accade conRubini, tanto attore quanto regista, è che l’eccesso di tra-sparenza, di soggettivismo, di autoanalisi sia la più sicuraforma di pudore, di dissimulazione, di rivendicazione diuna privacy altrimenti compromessa dalle manie promo-zionali cui il cinema italiano drammaticamente esangue (diqui l’eccesso sanguinolento del male oscuro che mina lavita del protagonista) ricorre per far fronte alla sua incapa-cità di rappresentarsi o di rappresentare la realtà, il mondo,l’esistente. Rubini invece tenta l’operazione opposta.Poiché consciamente o inconsciamente non sembra amare- a giudicare dal film - il proprio mestiere, o meglio nonama le condizioni nelle quali è costretto a farlo, lo rende unmezzo per esplorare i propri fantasmi. Augurandosi che inessi sia contenuta una chiave di lettura allargata, storica-mente, culturalmente, sociologicamente. Ad ogni modo,come il film lascia intendere, non ama la gente che per pro-fessione acquisita si ritrova attorno. Forse non ama se stes-so quando accetta dei compromessi per salvaguardare leesigenze alimentari imprescindibili di chi vuol restare agalla. Perciò, come opera spartiacque e come opera che adun livello più interessante salda la prima parte della sua fil-mografia con la seconda, L’amore ritorna è deliberatamen-te un film sgradevole, di sangue, di degenza, di malattia, dimorte. Quindi sincero. Rubini spregiudicatamente, nascon-

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dendo se stesso dietro una programmatica e simulata evi-denza autoreferenziale, infierisce per l’ennesima volta enemmeno per l’ultima volta sul mondo del cinema cosìcome lo conosce. Trasforma la malattia impressionante inuno strumento di conoscenza, dunque tanto più affilatoquanto drammatici sono i sintomi del decorso ospedaliero.Chissà se un film sui misfatti dei cinematografari naziona-li, artisti e maestranze varie, glielo avrebbero fatto fare.Probabilmente no. Non direttamente almeno. Perciò ricor-re allo stratagemma dell’autoanalisi, ma rilancia intatto ilsuo malessere di autore che non esita a riconoscere un para-dosso fondamentale. Paradosso dell’autore, che completaquello dell’attore. E che è alla base della sua e delle carrie-re di molti colleghi: l’abbandono, lo si è più volte ribaditoin questo intervento introduttivo, delle origini provinciali,meridionali, pugliesi, ha determinato un disfunzione gravee dolorosa. Ha segnato cioè il principio stesso di una pro-fessione concepita inizialmente come vocazione, mitobio-grafia, ma trasformatasi lentamente e inesorabilmente inroutine da catena di montaggio della produzione corrente,ove non ci si può sottrarre all’ennesimo film o all’ennesi-ma produzione internazionale. L’amore ritorna è statocatartico, cioè un film sulla crisi, nella doppia accezione deltermine: oltre che esistenziale, in senso medico, come fasea partire dalla quale la patologia può soltanto recedere oaggravarsi, senza più stagnare. Non è certo un eccesso dinostalgia, di sentimentalismo, di folclorismo a spingere ilpersonaggio-regista cinematografico ancora una volta acercare riparo dal suo male nella regione natia. L’ottimismofinale, se di ottimismo si può parlare, dopotutto nasce dallaconstatazione pregressa di una circostanza oggettiva: l’im-possibilità, in Italia, di pensare al cinema stando dove ilcinema si fa o si crede di fare, seguendo le tradizionali logi-che parastatali, protezionistiche e lobbistiche. Il protagoni-sta de L’amore ritorna ritrova la serenità e la salute sololontano dal cinema (e dal fantasma di se stesso che lo per-

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petua, con rassegnazione d’autore), pur riprendendo le vec-chie abitudini e le vecchie, cattive compagnie. La suaregressione si traduce in pratica in remissione dei peccati:il male insidioso e letale si scopre essere la sua colpa, quel-la di fare il cinema derubando i ricordi, attingendo all’ispi-razione originaria, non radicata nel cinema ma nel mondo,l’unico mondo che ha conosciuto prima dell’avvento delcinema, del successo, del compromesso con il mercato e leinevitabili confraternite di amici e amici degli amici. Tuttii suoi film da regista recuperano in un modo o nell’altro ladimensione e il vissuto regionale anteriore alla fase in cuiil cinema è diventato un mestiere, e con esso una maledi-zione, come la repentina e implacabile malattia ai polmonidel protagonista dell’Amore ritorna. Eppure a questa con-danna implacabile, che è contemporaneamente, tragica-mente, una magnifica ossessione, fa da contraltare la neces-sità mai sopita, fisiologica, di affrancarsi dall’incubo del-l’emarginazione, dalla sufficienza con cui in mancanza delsuccesso, della fama, dei riconoscimenti nazionali, si è giu-dicati senza appello da nord a sud e in particolare si diven-ta in poco tempo “nessuno” nella pigra e malevola provin-cia. Lo spauracchio della sconfitta, dell’artista votato aun’arte senza parte, spinge l’autore a costruire parabole incui, bello o brutto, quel mondo lontano ridiventa necessa-rio, indispensabile. Il cinema, quello romano, di sistema,idealizzato come luogo felliniano per eccellenza, serve anon soccombere alla ingenerosità della provincia meridio-nale che non perdona gli sconfitti, li irride e colpevolizza.Però, con effetto immediato, complementare, compensati-vo, è quella stessa provincia un tempo abbandonata, in cuiè possibile ora tornare preceduti dall’eco del successo, perfarlo pesare, esibirlo, a offrire un riparo dall’assenza diregole, di sincerità, di solidarietà cui il cinema costringe isuoi campioni ad assuefarsi, a sottostare, a subire. La“situazione” di Rubini, di volta in volta ricreata, reinventa-ta, simulata, è questa. Non c’è scampo, salvo la consola-

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zione di poter aspirare all’opera d’arte assoluta, al capola-voro autentico, persino più autentico del capolavoro auten-ticato dell’artista conclamato. La volenterosa, velleitariacopia paterna del Cézanne che viene provocatoriamentesostituita al Cézanne originale ne L’uomo nero divienequindi la beffa finale di un sogno inconfessabile: non piùaffiancare/copiare il maestro (Cézanne o Fellini), madiventare il maestro, se non addirittura superarlo.Superando implicitamente la condizione di partenza, quel-la del padre vero, della provincia/patria che non sa ricono-scere né distinguere il suo profeta, obbligando il figlio anascondersi sotto il tavolo, a coprirsi le orecchie, a ripeterein modo compulsivo di non voler essere come suo padre.Quindi a fuggire, a cercare altrove, lontano, la gloria, laconferma della profezia. Per poi tornare e essere non comesuo padre, ma direttamente il padre che avrebbe voluto: tra-sformandosi in lui, travestendosi, truccandosi per incarnar-lo sullo schermo. Corrispondendo così all’immagine idea-le di un padre realizzato cinematograficamente.

Un lungo e complesso viaggio, di andata e ritorno. E diquesta complessità d’insieme, il presente libro, con la suastruttura aperta, dialogica, basata su un principio di inter-pellazione del lettore e di sollecitazione di un confronto apiù voci, cercherà di fornire ulteriori e differenziati stru-menti di lettura che vanno dalla lunga intervista, al glossa-rio tematico concepito come pluralità di interventi, punti divista, stili, approcci, e percorsi di lettura destinati a interse-carsi, confrontarsi, divaricarsi, ad una filmografia ragiona-ta e supportata per ogni film da Rubini diretto di schede diapposite approfondimento e di un appropriato apparatobibliografico. Una struttura aperta, non gerarchizzata, cherielabora e riannoda i fili di un dialogo e di un approfondi-mento iniziato esattamente dieci anni fa con la pubblica-zione di un primo volume dal titolo, Intervista SergioRubini omaggio naturale e doveroso all’omonimo penulti-mo film felliniano. Dieci anni dopo, al decimo film da regi-

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sta di Rubini, questo libro - pubblicato nell’ambito deldecennale del Festival del Cinema Indipendente Italianodella Provincia di Foggia - ancora una volta gioca sin daltitolo la carta del richiamo a Fellini, questa volta numerico:10, in luogo del più volte citato 8½ felliniano. Un libro delquale i curatori non possono che essere grati per la puntua-lità, la disponibilità e la competenza, a Sergio Rubini e ainumerosi collaboratori del 2000 e di oggi, Vito Attolini,Massimo Causo, Davide Di Giorgio, Antonella Gaeta,Oscar Iarussi, Davide Magnisi, Cristiana Paternò, LorenzoProcacci Leone, Mario Sesti, Piero Spila.

1 Cfr. P. Bogdanovich, John Ford, Movie Magazine Ltd., London1967 [tr. it. Il cinema secondo John Ford, Pratiche, Parma 1990].

2 Ad essi è possibile per molti versi riferirsi - e in tal senso eserci-tarsi - anche in quanto “attanti”, all’interno di quello che Greimas chia-ma “modello attanziale”. Cfr. A. J. Greimas, J. Courtes, Dictionnaireraisonné de la theorié di langage, Hachette, Paris 1979 [tr. it.Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, La casaUsher, Firenze 1986], A. J. Greimas, Du sens II, Seuil, Paris 1983 [tr.it. Del senso 2, Bompiani, Milano 1984].

3 E. Berhard, Mitobiografia, Adelphi, Milano 1969; Bompiani,Milano 1977, p. 56.

4 Cfr. A. Carotenuto, Jung e la cultura italiana, Astrolabio, Roma1977, pubblicato non a caso in concomitanza con la riedizione dell’o-pera berhardiana, e dieci anni dopo T. Kezich, Fellini, Camunia,Milano 1987; Rizzoli, Milano 1988, pp. 301-305.

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«Un regiSta Si racconta comUnqUe»Una conversazione con Sergio Rubini (2000-2010)

La passione per il cinema risale all’adolescenza o è pre-cedente?

Comincia attraverso la televisione, con i cicli di film cura-ti da Gian Luigi Rondi dedicati al cinema francese deglianni Trenta e Quaranta. Per me il cinema era allora unapassione spudorata ma un po’ depravata, perché quelcinema agli occhi di un bambino era pieno di donne vizio-se e fatali che facevano solitamente perdere la testa adegli uomini che per loro si rovinavano la vita.

Avendo dieci anni nel ’67, che cosa ha rappresentato il’68?

Ma, io sono nato in un piccolissimo paese, GrumoAppula, che poi così piccolo non è. Però sono nato nellaparte vecchia del paese. Al piano di sotto c’era una donnache aveva i conigli, di fronte un tizio che aveva una can-tina, e in questa cantina aveva un mulo. Sapete bene chedalle parti nostre non si vive in campagna. Ci si va perlavorare. La campagna è una dannazione, non un luogo daamare come al nord perché ci si vive. Non c’è acqua, è unluogo dannato in cui devi andare al mattino per ritornarela sera. Per cui il rumore dell’infanzia è il rumore di que-sto mulo che si arrampica lungo le scale. La contestazio-ne giovanile non esiste. Solo questi ricordi legati un po’alla tv. Come se avessi un grande buco, e in quel buco cisono i film di Maciste, di Franco Franchi e CiccioIngrassia che posso aver visto nella sala del paese tra idodici e i quattordici anni.

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C’è un primo film il cui titolo è rimasto impresso nellamemoria?

Il primo film non visto, che avrei voluto vedere a tutti icosti è Il dottor Zivago: un episodio che ha segnato la miainfanzia perché non sono riuscito ad andarci con i mieigenitori. Invece il primo film colto che ho visto fu IlCasanova di Fellini. Fu cioè il primo film che mi ha fattosedere con alcuni amici per discuterne, quando ancora ilcinema non era per me, per noi, una passione o comunqueun momento d’incontro. Un film che naturalmente ci hafatto ritrovare nella situazione del “dibattito”, senza chetra di noi fosse usuale.

Bari era il punto di riferimento dove recarsi per vedere ifilm o avete messo su qualche circolo culturale, un po’come fece Giuseppe Tornatore con il circolo“L’incontro” a Bagheria?

In paese c’era un cinema che il sabato e la domenica face-va il film di maggior richiamo. Mentre, durante la setti-mana, venivano programmati sia le commedie sexy che ifilm di Fellini o di Pasolini. Questi altri film arrivavanoinsomma nel corso della settimana.

Non vi siete mai costituiti come gruppo?

No, perché per me il cinema era lontanissimo, un’altradimensione. Nel paese dove vivevo era assolutamenteinconcepibile un’idea simile. Per cui, essendo rimastoaffascinato dalla possibilità di recitare, la cosa più “nor-male” che si potesse pensare era quella di fare l’attore,l’attore di teatro intendo dire. La recita, e non il cinema,era una cosa possibile. Quindi ho cominciato pensando difare l’attore di teatro. E quando a vent’anni mi sono ritro-vato in una compagnia ho capito che non era quello il mio

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lavoro, non era la mia vita, non mi piaceva. Non mi pia-ceva l’idea di ripetere tutte le sere la stessa roba. Io ho fre-quentato l’Accademia d’Arte Drammatica a Roma. L’hofatto per due anni, poi ho cominciato a lavorare e così misono reso conto che non mi andava e mi sono dedicatoalla radio, facendo il doppiaggio. Insomma, ho comincia-to a cercare una dimensione più idonea.

Data la decisione di andare all’Accademia doveva giàessere scattato qualcosa…

Da ragazzino andavo al cinema ma anche a teatro, a Bari:l’ho fatto per un paio d’anni. Tutto è nato intorno ai quin-dici anni. A diciassette anni ho pensato che avrei volutofare l’attore, dopo in paese avevo fatto degli spettacoli diteatro, delle recite. Se guardo bene nel mio passato, que-sta mia dimensione doppia di regista e di attore era giàevidente allora. Nel senso che in quelle recite facevo l’at-tore, ma poi curavo anche la regia. Però non ho mai avutoun approccio intellettuale a questa cosa, non ho mai pen-sato: “Io voglio fare il regista”. Fare il regista è stata piut-tosto una necessità, un modo per poter realizzare unacosa, quel personaggio, quello spettacolo. Per poterlovedere. Allora ho deciso di farlo, ma, a priori, non ho maiavuto il desiderio di essere regista: ci sono finito. Standoin quel paese, volevo fare queste recite: c’era bisogno diorganizzarle e così le organizzavo io. Nel mestiere del-l’attore e del regista ho sempre trovato il fascino dellasensualità, della dimensione dello spettacolo, forse perquel tanto di esibizione che c’è e di sensualità che passatra gli attori o nelle pagine scritte. In quegli anni il CentroSperimentale era chiuso. Dunque, mi si prospettaronosolo due possibilità, tenendo conto che non ho fatto lascuola superiore a Bari, ma ad Altamura, rimanendo inuna dimensione assolutamente provinciale. Tali possibi-lità erano l’Accademia d’Arte Drammatica a Roma o il

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L’anima gemella (2002)

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Dams a Bologna. Siccome il Dams era una scuola acces-sibile a tutti, mentre per l’Accademia bisognava superareil concorso, mi sono detto: “Provo a fare il concorso inAccademia, se mi prendono faccio l’Accademia, se nonmi prendono andrò al Dams”. Ma non avevo scelto diimboccare una direzione precisa.

Era anche un modo di tagliare la corda, oltre che seguireun’aspirazione?

Quanto di questo fossi conscio non lo so. Volevo faredelle cose che lì non si potevano fare, però desideravoanche affrancarmi da una dimensione dilettantistica chein un piccolo paese era un fardello pesante da portare.Volevo affrancarmi dall’essere indicato come uno un po’diverso in quanto desideroso di fare una cosa fuori daglischemi. Mio padre era ed è ancora un dilettante, ed ioogni tanto gli ho visto portare con una certa difficoltà ilfardello di essere considerato, come si dice, ‘nu artist[un’artista]. Questa è una cosa che, in un paese dove tuttisi conoscono, dopo un po’ pesa. Io volevo, in fondo, farlosul serio l’attore, volevo che questo mio amore per la reci-tazione fosse ufficializzato da una laurea, una scuola o unmestiere vero che non permettesse poi a nessuno di met-tere in dubbio la mia passione. In realtà sono andato via.E basta. Quando qualche volta mi capita di ripensarci (emi è capitato soprattutto realizzando Tutto l’amore chec’è di ripensare un po’ a quegli anni), mi rendo conto diaver fatto una cosa abbastanza violenta, forte. Sono anda-to via che non avevo nemmeno diciotto anni. Però tutto èstato abbastanza naturale perché credo che quell’età tiaiuti: non hai grandi cose da perdere o da lasciare. Anchealtri miei amici dopo ci hanno provato, a ventitre o venti-quattro anni. Ma allora, in fondo, è trascorso un periodomaggiore, hai la fidanzata, è nato qualche amore, magarihai già lavorato, per cui lasci qualcosa in più. Io non

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lasciavo niente, a parte i miei genitori, i miei amici, manulla di fatto. Come vedete, anche nei miei ricordi è comese tutto nasca intorno ai quindici o sedici anni. Per cui adiciotto sono andato via, lasciandomi alle spalle vera-mente poco. Sono andato a Roma, ho fatto il concorso inAccademia. Non ero mai stato a Roma... Mio padre miaveva fatto viaggiare tantissimo da ragazzino, perché eraun appassionato di treni, di viaggi. Lui lavorava nelle fer-rovie private Calabro-Lucane, oggi Appulo-Lucane, eaveva una dimensione mitica del viaggio dettata dal fattoche, invece, era costretto a lavorare in una piccola ferro-via... Mio padre, mi ricordo, soffriva tantissimo quandodoveva ammettere che lo scartamento, cioè la distanzache c’è tra un binario e l’altro, nelle ferrovieCalabro-Lucane è minore rispetto alla distanza che c’ènelle Ferrovie dello Stato. Dover ammettere che “scarta-mento ridotto” era una cosa che diceva con la morte nelcuore. Però proprio per questo, forse, mi ha fatto tantoviaggiare. Questo elemento si riallaccia a quanto dicevoanche del cinema che vedevo da ragazzino, cioè al nordinteso come luogo mitico, per cui quello freddo era illuogo più bello che si potesse raggiungere o comunque illuogo più esotico, più lontano: il freddo, la nebbia, lanotte, l’idea della luce polare... Mio padre mi ha portatosempre nel nord Europa, mi aveva raccontato che erastato innamorato di una tedesca. E questa tedesca erarimasta come un mito nei miei ricordi. Per cui sono arri-vato a Roma la mattina e ho fatto l’esame, con l’aiuto diuno zio che insegnava tedesco all’università. Questo nonc’entrava assolutamente nulla con quello che avrei volutofare, semplicemente mi sono affidato alla persona piùcolta che avevo in famiglia, e lui mi ha aiutato a prepara-re l’esame all’Accademia. A Roma, città che non cono-scevo assolutamente, l’esame l’ho fatto bene, nel sensoche ero completamente e assolutamente, in maniera incre-dibile e impensabile, vergine. Non sapevo nulla, mi sono

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€ 18,00

EDIZIONI

FALSOPIANO

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FALSOPIANO

Un 10 felliniano sigla questa nuova, aggiornata e completa monografia su

Sergio Rubini al suo decimo film da regista e attore multiforme ed eccentrico.

«Adesso - dichiara - non ho un rammarico, eppure questi due mestieri vissuti

contemporaneamente ti portano uno da una parte ed uno dall’altra, tanto

che riuscire a coniugarli è espressione di una schizofrenia conclamata. Una

schizofrenia nella quale mi crogiolo. Per quanto mi riguarda devo costante-

mente riuscire a tenere vive queste due figure dentro di me. E quando mi

chiedono cosa preferisca tra le due me la cavo sempre con una risposta ge-

nerica non essendo ormai in grado di scegliere veramente. Fanno tutte e

due parte della mia storia».

Anton Giulio Mancino, ricercatore a Macerata, insegna cinema all’Università

di Macerata e Bari. Autore di volumi su Scorsese, Demme, Rosi, Wayne e

sul cinema politico italiano, collabora con le riviste “Cineforum”, “Cinecri-

tica” e il quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Fabio Prencipe, giornalista e studioso di cinema italiano, ha curato volumi

su De Robertis, Placido e Rubini, si occupa di organizzazione e manifestazioni

cinematografiche (Garganocinema e Festival del Cinema Indipendente della

Provincia di Foggia), svolgendo anche attività di produzione.

ISBN 978-88-89782-35-4

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Anton Giulio Mancino n Fabio Prencipe

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