Jimmy Dean - Viviana Rubini

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Viviana Rubini JIMMY DEAN UNA QUESTIONE DI VITA E DI MORTE

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Il 30 settembre 1955 James Dean si schianta con la sua Porsche a 150 chilometri all'ora. Veniva dalla campagna, aveva fatto gavetta in tv e preso parte ad alcuni show di Broadway, ma fino a quel giorno al cinema era solo una delle tante promesse. Nonostante la capacità di trasformare la sua vita in uno spettacolo mediatico, è vissuto alla continua ricerca di se stesso. Fama e successo saranno postumi, tanto grandi da trasformarlo in una delle più grandi icone pop di sempre. Questo libro è il racconto dell?attimo di quello schianto: la vita/ morte e vita eterna del mito di James Dean.

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Viviana Rubini

JIMMYDEAN UNA QUESTIONE DI VITA E DI MORTE

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a cura di Flavio De Bernardinis

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© 2009 Valter Casini EdizioniISBN 978-88-7905-141-5

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Jimmy DeanUna questione di vita

e di morteViviana Rubini

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PrefazioneL’angelo disarticolatoredi Flavio De Bernardinis

Cosa c’è al di qua del mito di James Dean?Evidentemente, la sua arte.Qualcosa per cui Elia Kazan, il più grande maestro di attori di Hollywood, lo scelse infine come pro-tagonista de La valle dell’Eden, grande produzione targata Warner Bros., anno 1955, in cui arte e spet-tacolo trovavano una sintesi affascinante e equili-brata.Il libro di Viviana Rubini, che vi accingete a leg-gere, racconta l’al di qua, l’al di là, e anche l’inte-riorità, l’intimità del mito James Dean, come fino a adesso non è mai accaduto in lingua italiana.Tre film, compressi in due anni e mezzo. E il ter-zo, Il gigante, prodotto e diretto da George Stevens, sempre sotto l’etichetta Warner Bros., anno 1956, che non lo vede nemmeno come protagonista.Cosa ci sta, dunque, al di qua di James Dean, e il suo inossidabile mito?L’arte del recitare, semplicemente. Il James Dean attore. Quello che si vede sullo schermo. Sintesi di Marlon Brando e Montgomery Clift. I due grandi punti di riferimento di Jimmy.Di Brando, Jimmy ha la tendenza a invadere e magnetizzare lo spazio del film. Di Monty, all’op-posto, il desiderio di defilarsi, sbirciare, misurare sguardi e parole.Hollywood è sempre stato il variegato territorio dove vivono e prosperano diverse qualità di inter-preti. Ci sono gli attori corpo, come Kirk Douglas, in cui per corpo si intende il paesaggio frastaglia-

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to e profondo di faccia scavata e prestanza fisica; e prima ancora attori come John Wayne, in cui per corpo si intende il blocco granitico, roccioso, quasi preistorico, che si staglia dalla punta del cappello allo sperone dello stivale.Ci sono gli attori volto, come Gregory Peck, in cui per volto si intende l’indifferenza tra faccia e profi-lo, versanti di un solo promontorio sensibile, che si mostra pieno e centrato da qualunque latitudine lo si guardi; e prima ancora attori come Gary Cooper, in cui per volto si intende la decisa preminenza di questo sul resto del corpo, che serve solo come so-stegno più o meno stabile per segnalare quello.Marlon Brando è il primo, grande attore di Hollywo-od che mette in crisi il rapporto corpo/volto. Viene meno, in Brando, il confronto fra elemento domi-nante e elemento di servizio. Non c’è più un volto al servizio di un corpo, o viceversa. E nemmeno unità intima, o separazione consensuale di entrambi.In Brando, inizia la distonia tra corpo e faccia. Bran-do è un corpo trascinato da un volto. Il corpo è un peso (quante scene, nei film, in cui il suo personag-gio viene pestato di botte), che il volto deve soffrire. Montgomery Clift reagisce all’effetto Brando nel segno ancora della tradizione: cerca pervicacemente di sottomettere il corpo al volto. Anche se, in Mon-ty, la cosa va nella direzione di una tendenza a vola-tilizzare il corpo, più che sottometterlo, a dissolvere la inutile imponderabile fisicità sotto la spinta della sensualità mimico facciale.James Dean, come si diceva, sembra la sintesi dei due grandi attori che lo hanno appena preceduto nel firmamento divistico hollywoodiano.Se Brando accusa l’improvvisa gravità del corpo che la faccia fatica a reggere, e Clift lo scioglimento

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definitivo del portamento nello sguardo che non si dimentica, Jimmy lavora su una caratteristica fino a quel momento decisamente inedita. Sulla disarticolazione.Quando Jimmy cammina, è completamente disar-ticolato. Gli arti inferiori e superiori ondeggiano per proprio conto. Più che camminare, saltella e ballonzola. Seduto, tende istintivamente alla po-stura fetale, non solo per naturale evidente sim-bologia, il cupio dissolvi del personaggio che interpreta, ma anche perché le membra disartico-late, in posizione di riposo, tendono a ritirarsi, a cessare ogni spinta e controspinta,a cercare una collocazione in cui coltivare il desiderio e la spe-ranza di non ripartire più.Nessuno, prima di lui, aveva fatto della disarti-colazione il tratto pertinente del proprio divismo. E non lo fa nemmeno il divo a lui parallelo, in sincronia con la scalata al successo, che è Paul Newman (come ci racconta Viviana Rubini, nel-le pagine che seguono, l’attore, dopo la morte di Jimmy, che ne erediterà i personaggi e i ruoli).Paul Newman, come Jimmy, è un attore del dopo Brando, perché lavora sulla crisi fra volto e corpo. Senza incorrere, però, in alcun desiderio, o istinto di disarticolazione. Newman lavora sull’elasticità. La faccia di Paul Newman, anche se in maniera im-percettibile, trema, e subito trasmette il tremolio al resto del corpo, che ne riceve gli effetti, li sa am-ministrare e gestire, per scaricarli subito all’esterno, oppure conservandoli, e smistarli in quarantena in previsione di bisogni futuri.Se Paul Newman è l’attore intimamente elastico (e in questo, prefigura, se pur in nuce, la malleabilità fisica e mimica di Robert De Niro), James Dean è

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l’attore integralmente disarticolato (e non sappiamo scorgerne, per ora, alcuna prefigurazione).La disarticolazione, è facile sottolinearlo, è la figura chiave, sociale e antropologica, delle giovani ge-nerazioni nel seno della cultura occidentale, e non solo, lungo la decade degli anni Cinquanta del XX secolo. Giovani disarticolati,a cavallo di un mondo che scompare in una eclissi totale, quello del mon-do diviso in caselle politiche e culturali, e uno che sorge all’orizzonte, il mondo omogeneizzato in una pasta che monta e lievita in ogni punto del planisfe-ro terrestre.Il film che meglio racconta e esprime questa traiet-toria è forse, fra i tre interpretati da Jimmy, il meno interessante, Gioventù bruciata, diretto da Nicholas Ray, Warner Bros., 1955. Una visione paternalistica del disagio giovanile, un disagio che viene preleva-to dal territorio sociale e subito reciso a sezioni di grana grossa: un film costretto infine a virare verso il genere noir, per risolvere, nel luogo comune di genere, una tessitura narrativa incerta tra il ritratto a forti tinte e l’avventura di mezzi chiaroscuri e toni, fra l’indagine e l’illustrazione.Il film d’esordio di Jimmy, invece, La valle dell’Eden, denuncia da subito il taglio profondo della disarticolazione. Un cartello avvisa il pubblico che ci troviamo nella California del Nord nell’an-no 1917. Poi appare subito Jimmy e lo spettatore si ritrova di fronte, nell’abbigliamento, nel taglio dei capelli, nel portamento e nello sguardo, un giovane abitante e residente nell’anno 1955.Elia Kazan, al primo fotogramma, sbatte sullo schermo la figura della disarticolazione, nella pro-cedura artistica dell’asincronia. Il film narra di ieri, ma parla dell’oggi. In America (nel Mondo) ieri e

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oggi risultano profondamente disarticolati. I primi a pagare la frattura sono i giovani. Il primo a caricare su di sé il dissidio, è il nucleo familiare.La valle dell’Eden è un capolavoro perché, come tutti i capolavori, agisce sul terreno acuto e scosceso della trasgressione. L’eroe, il protagonista è qual-cuno che procede allo smembramento definitivo di una famiglia già disarticolata di suo. La madre, fug-gita da casa, sgusciando via da un marito ottuso e prevaricatore, ha pensato bene di aprire un bordello al di là delle montagne, sulla costa. I figli, abbando-nati, sono cresciuti con un padre autoritario ma sen-za autorità. Jimmy interpreta Cal, il figlio che carica su di sé ogni possibile dissidio. Kazan è tutto dalla parte di Cal. Cal, più che riman-dare alla figura di Caino, come detto e scritto, è un angelo vendicatore. James Dean interpreta questo an-gelo che disarticola definitivamente una famiglia già sfasata, in piena asincronia con tutti i ruoli deputati: i padri autoritari sono in realtà figli sperduti, le madri risultano uomini d’affari, “business men” incalliti, il figlio prediletto è un ruvido vigliacco impotente, la fidanzata del figlio prediletto (facente parte a pieno titolo del nucleo familiare) una cocciuta nevrotica re-pressa sessualmente. Tutti sono disarticolati rispetto al ruolo che svolgono e allo spazio che occupano.Cal è l’eroe consapevole di tutto ciò, il quale prov-vede a condurre alle estreme conseguenze il di-spositivo di disarticolazione: spinge il padre beota verso il colpo apoplettico definitivo, fa precipitare la madre nel vuoto e le miserie che le competono, espelle il fratello in direzione Europa, dove la pri-ma guerra mondiale lo ridurrà ben presto carne da cannone, e inchioda la cognata al ruolo nevrotico e periferico di femmina eternamente disponibile.

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James Dean interpreta Cal, l’angelo disarticolatore, con movenze e posture puntualmente disarticolate, che Kazan dirige con artistica e ispirata perfidia. L’asincronia 1917/1955 fa il resto. Sullo sfondo del dramma principale, si agita una società USA raz-zista e violenta, ipocrita e misogina, prossima alla disarticolazione definitiva, che Cal puntualmente sfrutta nei punti deboli più evidenti. Data 1917, ma è già l’America degli anni Cinquanta, quella in cui è realizzato il film e quella in cui James Dean trion-fa, incubatrice di contraddizioni e conflitti pronti a esplodere alla minima occasione più vicina.Anche l’ultimo film, Il gigante, percorre traiettorie prossime a quelle de La valle dell’Eden. Nonostante George Stevens non sia Elia Kazan. Se Kazan ha in-fatti il dono della messinscena, Stevens ne coltiva la magnifica ossessione. Di una scena riprende e filma tutte le possibili inquadrature, da tutte le posizioni e angolazioni disponibili. Se Kazan ha già in testa un processo figurativo, attinente alla struttura profonda del testo letterario da trasportare sul grande scher-mo, George Stevens deve individuare, cogliere e realizzare l’essenza della narrazione cinematografi-ca, direttamente nello spazio sacro del set, nel luogo sconfinato e “intimo” delle riprese.Se la regia di Kazan è un’operazione strettamente professionale che fa della professionalità un alto e prezioso artigianato, e dell’alto prezioso artigiana-to, per forza e per forma, il confine sensibile di ciò che si chiama arte, George Stevens, invece, sente il luogo delle riprese come un’ecclesia pervasa da energie sciamaniche, che il regista deve captare e convogliare nel fotogramma filmico. Se per Kazan, allora, l’arte è un esito logico e necessario, l’arte, per Stevens, deve risultare un formidabile a priori.

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Se La valle dell’Eden, infine, è un teorema sulla fine di un mondo che progressivamente diventa, anche e soprattutto, la fine del mondo, Il gigante è un atto di fede sulla creazione di un mondo (il Te-xas del petrolio), che si trasfigura in bella vista nel mondo della creazione (l’America e la sua Bibbia moderna, il cinema).Jimmy, in perfetta sintonia con il magistero pedago-gico di Kazan, non comprende a pieno le dinamiche sciamaniche, tanto remote e siderali, del suo regi-sta, ma ciò che rimanda lo schermo de Il gigante è comunque qualcosa di unico e irripetibile. Jimmy, anche qui, anche così, prosegue imperterrito nella sua opera di disarticolazione, di sé e di tutto ciò che è prossimo e si avvicina. Inchiodato nel ruolo di deuteragonista, e anche antagonista, di un Rock Hudson insipido e monumentale, Jimmy deve inter-pretare Jet Ritt, l’incarnazione del Sogno America-no vissuto col piede sbagliato.Mentre Rick Benedict (lo dice il nome, figura bene-detta), interpretato da Hudson, ricco ranchero texano, mette subito su famiglia, accarezzando il buon gusto di scegliere una moglie più oculata e moderna di lui, Jet Ritt, ossia Jimmy, è il bracciante disgraziato che deve sbrigarsela da solo e anticipare i tempi, se vuole una bella e buona fetta di mondo da mettere sotto i denti.Jimmy allora caracolla, disarticolato, braccia e gambe ondeggianti alla polvere, tra i sassi del deser-to texano. Inclina la testa (come già faceva nei due film precedenti, e come fa e farà, via Actor’s Studio, anche Paul Newman), come se la disarticolazione interessasse anche, e soprattutto, l’osso del collo. E se deve pronunciare parole, è come un motorino d’avviamento di un congegno disarticolato, che non riesce ancora a carburare.

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La sensualità dell’attore è tutta qui: nell’energia che c’è, ma deve essere catturata opportunamente e convogliata. E’ questa carica qui, effettivamen-te, che giunge potente fino alle partner, sia la Julie Harris de La valle dell’Eden, sia la Elisabeth Taylor (entrambe, amiche fidate dentro e fuori dal set) de Il gigante. L’istinto femminile materno si mette alla caccia della disarticolazione di Jimmy per afferrarla e condurla a maturazione: il piacere materno dell’in-cubatrice, ossia proteggere e gestire una primordiale carica affettiva, fino a che sbocci e forse si quieti.Jimmy comprende questa strategia e ci gioca. Un po’ si dà, un po’si sottrae. Non la fa mai sbocciare come si deve, naturalmente. La disarticola, come deve essere.Jet Ritt si imbatte nel punto debole del gigante te-xano, il petrolio. Sorpassa l’allevatore di bestiame Rick Benedict, e diventa l’uomo più ricco e famo-so del suo tempo. Il copione, per tutto questo, esi-ge che debbano passare degli anni. Nella seconda parte del film, Jimmy, come vuole il suo personag-gio, ha capelli brizzolati e i baffi. A questo punto, Jimmy tematizza il proprio stile di recitazione. Fa dell’invecchiamento, niente di meno, o di più, che un processo di disarticolazione, stavolta rinforzato dal ricorso all’alcol. La grande scena, in prefina-le (la vera scena finale del film) è il suo discorso all’alta società texana in stato di ubriachezza. Jim-my fa della vecchiaia e della sbronza un momento di disarticolazione del personaggio, che geme, in un monologo dai suoni davvero inarticolati, l’invidia nei confronti di Benedict.E’ il Sogno Americano vissuto col piede sbagliato: Jet Ritt è un self made man che non sa gioire di que-sto, perché di fare fortuna non ha davvero interesse,

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ma fama e ricchezza sono gli strumenti per ghermi-re il suo vero e autentico sogno, ossia la donna che ha sposato il rivale. Che è ormai irraggiungibile.Il copione, naturalmente, obbliga che si dedichi il finale al protagonista buono e riflessibo. Il Bene-dict di Rock Hudson è così costretto a una patetica scazzottata con un barman razzista. Ce le prende di santa ragione, obbligando la bella moglie (anch’es-sa imbiancata) a un elogio didascalico della formula sportiva “l’importante non è vincere, ma parteci-pare”. Rispetto a questo finale completamente “in minore”, a togliere, James Dean che declama la sua disperazione e, al vertice del salone da ricevimento ormai vuoto, crolla sotto i colpi dell’alcol trascinan-do a terra con sé metri e metri di tavola imbandita, è qualcosa che ha a che fare con le tragedie di Sha-kespeare. Jimmy è un Riccardo III del petrolio, un Macbeth che realizza nei fatti la più bella disartico-lazione mai scritta in poesia per le scene, la formula della vita come commedia messa in bocca a un folle.Tutta la sequenza dell’ubriacatura è inoltre il con-centrato della sciamanica messa in scena di George Stevens. Un uomo, potentissimo, solo, nel salone addobbato, nel momento della festa del suo trion-fo, che, abbandonato da tutti, parla alla macchina da presa e precipita a terra rovesciando il set e la sua scenografia. Con Jet Ritt, viene meno il Sogno Americano, viene meno il Mondo, e viene meno così anche il Cinema.Jimmy lascia a noi spettatori il suo testamento ide-ale, dopo due anni e mezzo di carriera, al suo terzo e ultimo film. L’arte della disarticolazione, le membra che non so-stengono il corpo ma cercano appena di sostenersi, che si fa tema, per coincidere con il film e la storia

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che si racconta. Con il suo personaggio, il magnate infelice Jet Ritt, Jimmy disarticola l’intero set ci-nematografico. Alto artigianato dell’Actor’s Stu-dio (Kazan) e pura energia sciamanica (Stevens), coincidono nel passo d’addio di uno degli attori più grandi che il cinema, arte disarticolata se ce n’è una (riprese, montaggio, effetti…) abbia mai avuto.E certamente avrebbe potuto avere.

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1.L’outsider

Un ragazzo di provincia a New York

Una pioggia fitta e leggera bagnava i vetri delle fi-nestre quando Jimmy tornò a casa. La stanza n.82 era fredda, umida e non c’era nulla da mangiare, a parte le solite zuppe in scatola e della cioccolata. Erano passati solo pochi giorni da quando si era tra-sferito lì da Los Angeles. Con quei 150 dollari che era riuscito a racimolare dai suoi zii prima di partire, una stanza all’Iroquois Hotel, lungo la 44esima stra-da, era tutto ciò che poteva permettersi a New York al momento. Aveva trascorso la giornata al cinema. Non aveva fatto altro da quando era arrivato. Im-merso nell’oscurità della sala, riusciva a dimentica-re quanto solo e insignificante si sentisse nella ster-minata metropoli. In così poco tempo aveva già vi-sto quattro volte Men (Uomini) con Marlon Brando, e tre volte A Place in the Sun (Un posto al sole) con Montgomery Clift. Nonostante lo stile così diverso nella recitazione, Jimmy era convinto che Brando e Clift fossero i più grandi, che ci fosse tanto da im-parare da attori del loro calibro. Soprattutto per un aspirante della recitazione come lui. Era per questo che se n’era andato di casa, che ave-va lasciato suo padre, l’università di Los Angeles, l’amico e compagno di stanza Bill Bast. New York era l’unica città in cui avrebbe potuto inseguire il suo sogno, diventare un attore vero. Hollywood l’aveva stancato. Là dove gli attori o pseudo tali credevano tutti di essere degli dei, Jimmy voleva davvero di-ventare il più grande di tutti, desiderava una carriera

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affermata, fama, successo. Aveva capito che i favori e le promesse che gli erano stati rivolti non sareb-bero serviti a fare di lui un attore serio, tanto che aveva preferito mantenere un minimo di dignità, e andarsene. Non sarebbe cambiata la considerazione che gli altri, i pezzi grossi del mondo dello spetta-colo, avevano di lui, né lì avrebbe ottenuto la sua grande occasione.Tutto sommato, i cinque anni trascorsi a Los An-geles non erano stati così brutti. Alla fine in quel periodo si era seriamente reso conto che nella vita non avrebbe voluto far altro che recitare. A tutte le discussioni con suo padre (che avrebbe voluto stu-diasse giurisprudenza), era seguita la decisone di trasferirsi in un ostello, per poter finalmente fre-quentare i corsi di recitazione dell’UCLA. Quindi, tra un provino e l’altro, le inevitabili difficoltà eco-nomiche. E il lavoro come posteggiatore alla CBS grazie a cui incontrò e conobbe Rogers Brackett, il regista della popolarissima trasmissione radiofonica Alias Jane Doe. Era una mattina calda e afosa come tante, quan-do Jimmy notò in quel noiosissimo parcheggio un uomo sulla trentina, dall’aspetto molto curato, ben vestito. L’attrazione tra i due fu immediata, e nel giro di un paio di settimane, si era già trasferito nell’appartamento di Brackett, sulle colline di Hol-lywood. Lo accompagnava alle feste più esclusive, alle proiezioni private di film, ai convivi nei risto-ranti e locali alla moda. Grazie a lui ottenne i primi piccoli ruoli in trasmissioni radiofoniche e televisi-ve. Fu proprio lui, il suo pigmalione, a consigliargli il trasferimento nella Grande Mela. Durante i primi anni Cinquanta, infatti, per un aspirante attore, New York era il posto ideale, con oltre una trentina tra

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live-drama e commedie che venivano prodotte set-timanalmente. La richiesta di attori era immensa, e quasi ogni aspirante della recitazione poteva sperare di trovare lavoro.Ed eccolo dunque lì. Nel settembre del ’51, ave-va compiuto da poco ventitré anni, ed era solo e sperduto nella “città che non dorme mai”. Come per qualsiasi ragazzo della sua età proveniente dal-la campagna, i palazzoni e tutti quei grattacieli, quell’ammasso di cemento, l’avevano impressiona-to e travolto. Cresciuto a Fairmount, un paesino dell’Indiana, Jimmy era abituato alla vita all’aria aperta, alle ver-di pianure del Midwest, alle fattorie. Aveva trascor-so la maggior parte del suo tempo libero a guidare il trattore dello zio Marcus, a cavalcare, scorazzare con la bicicletta sulle strade polverose, pattinare sui laghetti ghiacciati durante l’inverno. Non era abi-tuato agli edifici giganteschi che sentiva incombere su di sé: ne restava intimidito al punto da non riusci-re a spingersi oltre Broadway, il quartiere dei teatri dove si trovava il suo albergo, ad un paio di isolati da Times Square. Il cinema divenne così il suo rifu-gio e, tra pop-corn e coca cola, aveva già speso la maggior parte del denaro, scarso per la verità, che aveva con sé, in una sala di proiezione.Quella sera, dopo il cinema, Jimmy non mangiò quasi nulla. Si fermò a fissare la pioggia dietro i ve-tri, le miriadi di luci colorate sui grattacieli e nel-le strade affollate, i taxi gialli, gli ombrelli. Andò a letto, accese una sigaretta e tornò a sfogliare le pagine del suo libro preferito, Il Piccolo Principe di Saint Euxpery. Cominciò a riflettere sul fatto che era a New York già da un po’, e che non aveva anco-ra conosciuto nessuno, visto nulla, fatto niente per

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procurarsi un ruolo, o comunque un lavoro qualsia-si. Le sue finanze diventavano sempre più esigue, e non sarebbe stato in grado ancora per molto di con-tinuare a pagare una stanza all’Iroquois. Era tempo di darsi da fare, sfoderare talento e fascino e provare ad emergere una volta per tutte. Si tolse gli occhiali da vista, e spense la luce.La mattina seguente, Jimmy si svegliò verso mezzo-giorno. Come al solito, affamato, si vestì in fretta e si fermò a mangiare una bistecca al sangue da Hec-tor’s, un ristorante economico all’angolo di Times Square. Dopo di che lasciò la sua stanza e si trasferì sulla 63esima, in un ostello della gioventù.Erano trascorse un paio di settimane da quando ave-va cominciato a lavorare come lavapiatti in un bar della 45esima, ma non c’era in vista ancora nessuna audizione. Così, finito il turno, decise di recarsi agli studi della CBS dove ogni settimana si tenevano au-dizioni di massa per i numerosi live-show trasmessi dall’emittente televisiva. Un’altra giornata di pioggia, il che significava che le persone accorse al Martin Back Theatre non sa-rebbero state numerose come i giorni di sole. Jimmy infatti, si ritrovò insieme un centinaio di altri giova-ni aspiranti attori. Ad ognuno di essi fu consegnato un numero. Poi vennero chiamati a gruppi di dieci sul palco, a turno, e sottoposti allo sguardo degli ad-detti al casting. Se costoro fossero stati interessati, al fortunato veniva chiesto di ritornare per una lettu-ra. Tutti gli altri venivano semplicemente congedati con la frase, “Ci dispiace. Grazie di essere venuti”. Mentre Jimmy attendeva di essere chiamato, si ac-corse che un ragazzo lo fissava con insistenza. Era piuttosto alto, capelli e carnagione scura, bei line-amenti; faceva parte del suo gruppo. “Non ti ho

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mai visto prima” disse il ragazzo. “Mi sono appena trasferito qui dalla California per studiare recitazio-ne”, rispose Jimmy. Il giovane si chiamava Martin Landau, l’ennesimo entusiasta aspirante attore. Gli rivolse l’invito di andare a bere un caffè caldo, vi-sta l’umiliante serata trascorsa e la pioggia che non accennava a smettere. Si diressero al Cromwell’s, all’ingresso dell’edificio della NBC a Rockfeller Plaza. Si trattava di una tavola calda economica, ri-trovo per giovani attori che restavano seduti lì per ore, in attesa di eventuali chiamate da parte dei loro agenti. Le discussioni andavano a pendolo, da pa-reri e critiche su spettacoli a cui avevano assistito, ai luoghi in cui si tenevano audizioni o sembrava ci fosse possibilità di lavoro.Dopo aver chiacchierato un paio d’ore, i due si scambiarono i rispettivi numeri di telefono e si salu-tarono, promettendo che si sarebbero presto rivisti.Jimmy si rese conto che frequentare questo tipo di audizioni non era ancora abbastanza, che a malape-na sarebbe riuscito ad ottenere piccole parti. Gli ser-viva un agente. Grazie ad un amico, riuscì ad ottene-re un appuntamento in una famosa agenzia. La cosa parve riuscire, e da quel momento in poi l’agente Jane Deacy iniziò ad occuparsi della sua eventuale carriera. Jane credeva molto nella capacità e nel ta-lento di James, nel suo fascino carismatico. In una parola, tra loro due fu amore a prima vista. Jane non sembrava far caso alla statura di Jimmy, quel metro e ottanta scarso, ritenuto dai più poco consono ai ruoli da protagonista; non considerava un problema la sua miopia e i suoi inseparabili occhiali. Non lo trovava per nulla immaturo. Jane presto divenne più di un semplice agente per Jimmy, ricoprendo persi-no un dolce e caldo ruolo materno.

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Nonostante Jimmy avesse familiarizzato sempre di più con la metropoli, trascorreva molte ore nella sua stanza; in uno spazio tanto piccolo era racchiuso tutto il suo mondo. Leggeva molto e di tutto, due o più libri contemporaneamente; passava dalla filosofia, ai fumetti, alle biografie, ai manuali per imparare a di-pingere, a giocare a scacchi o le tecniche di combatti-mento. Si sentiva più vivo quando imparava qualcosa di nuovo, e particolarmente gli piaceva dare agli altri l’impressione di essere un disciplinato intellettuale. Ma così disciplinato non era. Se aveva appena co-minciato Il cuore è un cacciatore solitario di Carson McCullers, ben presto avrebbe abbandonato anche quello; raramente portava a termine le sue innume-revoli letture. Amava anche scrivere. Erano mesi che lavorava ad una personalissima rielaborazione in chiave contemporanea del Dottor Jekyll e Mr Hide. E nel cassetto del suo comodino teneva un diario per-sonale di cui era gelosissimo, e che non voleva nessu-no leggesse; un quaderno dove gli piaceva annotare i pensieri e persino le poesie che ogni tanto provava a buttar giù nei momenti in cui sentiva maggiormente la mancanza della sua casa di Fairmount.

Titolo: My townMy town likes industrial impotenceMy town’s small, loves its diffidenceMy town thrives on dangerous bigotryMy town’s big in the sense of idolotryMy town believes in God and his crewMy town hates the Catholic and the JewMy tow’s innocent, selfistic caperMy town’s diligent, reads the newspaperMy town’s sweet, I was born bareMy town is not what I am, I am here

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Da quando era arrivato a New York aveva sentito lo zio Marcus e la zia Ortense solo una volta, al telefo-no, per rassicurarli che stesse bene e che tutto andas-se per il meglio. E’ da quando aveva nove anni che gli zii erano la sua vera famiglia. Mamma Mildred se n’era andata troppo presto per colpa di un cancro al seno. E suo padre non aveva avuto molta voglia e tempo di occuparsi di lui, troppo impegnato con il lavoro e gli affari. Così si era trasferito dagli zii i quali, non avendo figli, lo avevano subito trattato come tale. Li amava profondamente. Anche quando era nato Marcus Jr.! Markie, l’amatissimo cuginet-to, che adesso aveva quasi dodici anni. Quanto gli mancavano i pomeriggi trascorsi a rincorrersi nel fienile, a pattinare o a dar da mangiare alle vacche e ai cavalli!Si era nuovamente perso nei ricordi nel silenzio di quella stanza. Non amava particolarmente l’assenza di suoni, rumori, tanto che riempiva quel vuoto ascol-tando musica. Le note di Bach, Schoenberg, Stra-vinskij e quasi tutta la musica classica erano il suo sottofondo ideale, a parte Tchaikovskij che era un po’ troppo romantico per i suoi gusti. Poi c’era Songs for Your Lovers di Frank Sinatra, il suo disco preferito…che note sublimi! La musica l’aveva sempre accom-pagnato, fin da piccolo. Oltre ad aver preso lezioni di violino e clarinetto quando era a Fairmount, ballava persino il tip-tap. Recentemente aveva fortemente subito il fascino del jazz e della musica tribale, tanto che aveva cominciato a collezionare musica e canti afrocubani. Si era comprato dei bonghi e non faceva altro che esercitarsi a suonare. Il ritmo sprigionato dalle percussioni produceva un effetto liberatorio, serviva a stimolare il flusso dei suoi pensieri, le sue energie, a fargli dimenticare il resto.

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In quel momento squillò il telefono, era Martin che lo obbligava a vestirsi e uscire. Sarebbero andati da Jerry’s, un locale italiano sulla 54esima. Jimmy ri-agganciò, indossò il suo maglione nero mezzo sfi-lacciato, si infilò gli stivali, prese il soprabito, gli occhiali da sole e uscì. Erano quasi le dieci di sera, e tutte quelle luci gli davano fastidio alla vista. Ovun-que andasse, infatti, portava con sé i suoi Rayban Wayferer neri: la luce aveva su di lui lo stesso effetto che dovrebbe avere sui vampiri. Jimmy era una cre-atura della notte. Aveva sempre sofferto d’insonnia, anche quando viveva a Los Angeles. Poteva trascor-rere delle ore seduto in qualche locale aperto tutta la notte, ad osservare la gente o vagare senza meta per ogni dove, adesso che finalmente la città non lo angosciava più. L’oscurità lo rassicurava, proprio come il buio della sala cinematografica, dove pote-va perdersi nei suoi pensieri e fantasticare sulla sua carriera, sulla sua arte, su cosa avrebbe fatto e come sarebbe stato quando sarebbe diventato famoso, un attore affermato.Dopo cena, Martin e Jimmy si diressero verso la 53esima, al Rehersal Club, una residenza per giova-ni attrici e ballerine, il posto ideale per andare a cac-cia di ragazze. Si sedettero nell’atrio semideserto, accesero una sigaretta; Jimmy cominciò a sfoglia-re un settimanale. Di fronte, dall’altra parte della stanza, era seduta Elizabeth “Dizzy” Sheridan, una giovane ballerina. Alta, fisico esile e slanciato, ve-stita di scuro, con una lunga sciarpa ripetutamente avvolta attorno al collo, dai lunghi capelli castani e una folta frangia che le copriva lo sguardo; anche lei stava sfogliando delle riviste. Ad un tratto Jimmy cominciò a leggere ad alta voce, a caso, le prime parole capitate sotto gli occhi. Con quella mossa

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un poco sciocca sperava di attirare l’attenzione del-la ragazza. Subiva maledettamente il fascino della vamp. Elizabeth in ogni modo lo aveva notato, quel bel ragazzo in jeans e dallo sguardo magnetico, sin da quando aveva messo piede lì dentro. Nonostante la pessima tecnica d’approccio, gli rispose leggendo anche lei ad alta voce frasi a caso. Scoppiarono a ridere. Per superare l’imbarazzo di quel momento, Jimmy la invitò a bere qualcosa in un locale poco distante. Trascorsero la notte a bere vino e a parlare di arte e di poesia. Mentre Jimmy disegnava sui tovaglioli di carta scorci di locale, oggetti, forme strane, Diz-zy lo scrutava, lo osservava attentamente rapita dai suoi gesti, dall’intensità con cui parlava di Kerou-ac, dei suoi libri preferiti e del perché aveva scelto di diventare un attore. Jimmy le sembrò perso: era questa la cosa che più la attraeva.La settimana seguente i due andarono a vivere insie-me in una stanza all’Hargrave Hotel, sulla 62esima strada. Lei gli lavava calzini e biancheria, e lui non faceva altro che prepararle la sua famosissima zup-pa in scatola, con aggiunta di cereali o vermicelli. Dopo che Dizzy aveva finito con le lezioni di danza, trascorrevano la maggior parte del tempo insieme. Giorno dopo giorno, però, la relazione si faceva più soffocante per Jimmy, che era assiduamente abitua-to alla propria indipendenza. Ciò che ingarbugliava le cose, stavolta, era il fatto che cominciava a ma-nifestare una certa confusione a proposito della sua sessualità.Fin dall’adolescenza la sua eterosessualità ave-va destato dubbi nei familiari. Lo stesso Jimmy si divertiva a raccontare agli amici che non era stato ammesso al servizio militare non a causa della sua

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miopia, ma perché aveva dichiarato di essere gay. A Los Angeles aveva avuto occasione di sperimentare diversi tipi di relazione. E da quando aveva comin-ciato a fare coppia fissa con Rogers, ottenne di es-sere introdotto al The Club, un famosissimo locale omosessuale sull’Hollywood Boulevard. Grande opportunista, fortemente determinato a raggiungere i propri scopi, cercò di sfruttare al meglio la situa-zione. A quei tempi, numerosi omosessuali ricopri-vano cariche importanti a Hollywood. Non era cer-to un segreto che personaggi come Henry Willson, agente di attori del calibro di Rock Hudson (di cui tutti erano a conoscenza, e regolarmente tacevano, l’omosessualità) organizzassero feste private nelle proprie ville; giovani ragazzi dal bel faccino, pro-prio come Jimmy, costituivano una preda appetibile per tutti.

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INDICE

PREFAZIONEL’angelo disarticolatore, di Flavio De Bernardinis

1 L’outsider

- Un ragazzo di provincia a New York- Ambizioni di un aspirante divo

2 Eden

- Elia Kazan incontra Cal Trask- Prova d’attore- Divi Allo Specchio, Prima parte- Amore e altre nevrosi- Divi Allo Specchio, Seconda parte- Nascita di una stella

3 Rebel

- Metamorfosi di una generazione- Divi Allo Specchio, Terza parte- Fuori dal set- The making of

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4 Giant

- L’America di George Stevens- L’ultima corsa- Divi Allo Specchio, Quarta e ultima parte

5 Dream as if you’ll live forever, live as if you’ll die tomorrow

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Casini Editorevia del Porto Fluviale, 9/a – 00154 [email protected] grafico

www.morriscasini.comFinito di stampare nel mese di ottobre 2009Stampato per Casini Editore da Eurolit Srl – Roma

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Casini [email protected]

9 7 8 8 8 7 9 0 5 1 4 1 5

ISBN 978-88-7905-141-5

14,90 euro

Il 30 settembre 1955 James Dean si schianta con la sua Porsche a 150 chilometri all’ora. Veniva dalla campagna, aveva fatto gavetta in tv e preso parte ad alcuni show di Broadway, ma fino a quel giorno al cinema era solo una delle tante promesse. Nono-stante la capacità di trasformare la sua vita in uno spettacolo mediatico, è vissuto alla continua ricerca di se stesso. Fama e successo saranno postumi, tanto grandi da trasformarlo in una delle più grandi icone pop di sempre. Questo libro è il racconto dell’attimo di quello schianto: la vita/morte e vita eterna del mito di James Dean.