Sensazioni ed emozioni di un viaggio in...

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La Rassegna d’Ischia n. 2/2012 35 Si parte da Uyuni per il lago salato e poi nel lontano sud- est dove saline ghiacciate dalle acque gelide sono tinte di rosso brillante o verde smeraldo da microrganismi o depo- siti minerali. E poi ancora picchi vulcanici innevati, deserti di alta quota gelati, affioramenti di rocce erose e plasmate a figura da un vento instancabile. Gigantesche, le architetture monolitiche di Tiwanaku sorvegliano da lontano la sponda boliviana del lago Titicaca: testimoni muti delle straordi- narie contaminazioni culturali che hanno assimilato arcaici idoli ancestrali e fervore religioso cattolico. Sensazioni ed emozioni di un viaggio in Bolivia Testo e foto di Carmine Negro Salar de Uyuni Ancora luccicano le strade dei colori accesi dei costumi e riecheggiano nell’aria i suoni vigorosi delle trombe che ac- compagnano le varie scuole di danza dei piccoli partecipanti alla manifestazione Mini Ch’utillos quando partiamo con il bus verso il paese di Uyuni con un viaggio di 6 ore. Pochi chilometri e il paesaggio diventa subito aspro e selvaggio con branchi di lama e grossi cespi di cactus a popolare le aride montagne che in più punti si trasformano in scoscese vallate sui cui versanti la natura si è sbizzarrita ad inserire rocce e terre dalle mille tonalità. L’autostrada che collega Potosì a Uyuni spesso non è altro che una stretta e polverosa pista di terra battuta; in alcuni tratti, quando si incrociano due veicoli, uno deve fermarsi per far passare l’altro. Lungo i crinali spesso si incrocia il luccichio del ghiaccio custodi- to negli anfratti che, sciogliendosi, alimenta i rigagnoli che scendono dalla montagna e che si riuniscono in piccoli fiumi nelle vallate andine. Occasionalmente l’autobus si ferma per far scendere o salire qualche passeggero. Sperdute nel nulla più assoluto, si intravedono lontano alcune fattorie solitarie o si incontrano edifici, dall’aspetto molto umile, costruiti in mattoni di terra e paglia, riuniti in villaggi isolati, che fian- cheggiano l’autostrada. Questo viaggio è diverso dagli altri, è molto silenzioso, le persone che incontriamo sono diverse dalle altre: gentili ma diffidenti. L’agenzia per farci stare in modo più comodo nel bus ha prenotato per ciascuno di noi due posti per consentirci un minimo di movimento durante il percorso. Il bus è pieno, in particolare c’è una ragazza, senza posto, con un bambino nello scialle che piange. Franco le lascia i suoi due posti per farla accomodare. Accenna a un piccolo sorriso. Si siede e chiama altri da far sedere al suo fianco. Non ha alcuna interazione né con chi gli ha dato il posto né con gli altri dai lineamenti differenti che in questo luogo ostile possono permettersi il lusso di due posti sul bus. Alla fermata dei bus di Uyuni viene a prelevarci Enoc per portarci con la sua jeep in albergo; porta con sé suo figlio di pochi anni. Uyuni mi dà l’impressione di essere una città familiare, rimanda alla memoria ciò che l’immaginario col- lettivo ha costruito come tipico delle cittadine del far west: sconfinata e un po’ desolata. Le strade ampie, a doppia cor- sia con gli alberi al centro, che si incrociano ad angolo retto, il freddo intenso, il vento che continuamente fa volare carte e buste di plastica, e le poche persone per strada rendono il paesaggio irreale. Di sera, nelle strade prive di illuminazio- ne, le voci si rincorrono nel buio e i fuochi dei falò riscalda- no e illuminano le danze di gruppo che in una sorta di giochi collettivi coinvolgono i giovani e le giovani animando un paesaggio rarefatto. Il mattino presto, subito dopo la colazione Enoc, con la sua jeep, ci porta verso il Salar de Uyuni che, con un’area 12.000 kmq ed una altitudine di 3660 m, è di questo spazio

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La Rassegna d’Ischia n. 2/2012 35

Si parte da Uyuni per il lago salato e poi nel lontano sud-est dove saline ghiacciate dalle acque gelide sono tinte di rosso brillante o verde smeraldo da microrganismi o depo-siti minerali. E poi ancora picchi vulcanici innevati, deserti di alta quota gelati, affioramenti di rocce erose e plasmate a figura da un vento instancabile. Gigantesche, le architetture monolitiche di Tiwanaku sorvegliano da lontano la sponda boliviana del lago Titicaca: testimoni muti delle straordi-narie contaminazioni culturali che hanno assimilato arcaici idoli ancestrali e fervore religioso cattolico.

Sensazioni ed emozioni di un viaggio

inBolivia

Testo e foto di Carmine Negro

Salar de Uyuni

Ancora luccicano le strade dei colori accesi dei costumi e riecheggiano nell’aria i suoni vigorosi delle trombe che ac-compagnano le varie scuole di danza dei piccoli partecipanti alla manifestazione Mini Ch’utillos quando partiamo con il bus verso il paese di Uyuni con un viaggio di 6 ore. Pochi chilometri e il paesaggio diventa subito aspro e selvaggio con branchi di lama e grossi cespi di cactus a popolare le aride montagne che in più punti si trasformano in scoscese vallate sui cui versanti la natura si è sbizzarrita ad inserire rocce e terre dalle mille tonalità. L’autostrada che collega

Potosì a Uyuni spesso non è altro che una stretta e polverosa pista di terra battuta; in alcuni tratti, quando si incrociano due veicoli, uno deve fermarsi per far passare l’altro. Lungo i crinali spesso si incrocia il luccichio del ghiaccio custodi-to negli anfratti che, sciogliendosi, alimenta i rigagnoli che scendono dalla montagna e che si riuniscono in piccoli fiumi nelle vallate andine. Occasionalmente l’autobus si ferma per far scendere o salire qualche passeggero. Sperdute nel nulla più assoluto, si intravedono lontano alcune fattorie solitarie o si incontrano edifici, dall’aspetto molto umile, costruiti in mattoni di terra e paglia, riuniti in villaggi isolati, che fian-cheggiano l’autostrada. Questo viaggio è diverso dagli altri, è molto silenzioso, le persone che incontriamo sono diverse dalle altre: gentili ma diffidenti. L’agenzia per farci stare in modo più comodo nel bus ha prenotato per ciascuno di noi due posti per consentirci un minimo di movimento durante il percorso. Il bus è pieno, in particolare c’è una ragazza, senza posto, con un bambino nello scialle che piange. Franco le lascia i suoi due posti per farla accomodare. Accenna a un piccolo sorriso. Si siede e chiama altri da far sedere al suo fianco. Non ha alcuna interazione né con chi gli ha dato il posto né con gli altri dai lineamenti differenti che in questo luogo ostile possono permettersi il lusso di due posti sul bus.

Alla fermata dei bus di Uyuni viene a prelevarci Enoc per portarci con la sua jeep in albergo; porta con sé suo figlio di pochi anni. Uyuni mi dà l’impressione di essere una città familiare, rimanda alla memoria ciò che l’immaginario col-lettivo ha costruito come tipico delle cittadine del far west: sconfinata e un po’ desolata. Le strade ampie, a doppia cor-sia con gli alberi al centro, che si incrociano ad angolo retto, il freddo intenso, il vento che continuamente fa volare carte e buste di plastica, e le poche persone per strada rendono il paesaggio irreale. Di sera, nelle strade prive di illuminazio-ne, le voci si rincorrono nel buio e i fuochi dei falò riscalda-no e illuminano le danze di gruppo che in una sorta di giochi collettivi coinvolgono i giovani e le giovani animando un paesaggio rarefatto.

Il mattino presto, subito dopo la colazione Enoc, con la sua jeep, ci porta verso il Salar de Uyuni che, con un’area 12.000 kmq ed una altitudine di 3660 m, è di questo spazio

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candido e luminoso il più alto ed immenso deserto salato del mondo.

Sulla grande distesa bianca spuntano qua e là piccole isole. Di sera in jeep sulla distesa bianca, il sole tramonta ricamando di caldi colori la linea d’orizzonte. Una grande luna rossa si affaccia su un terso cielo stellato.

Il colpo d’occhio è incredibile: una distesa desertica bian-chissima ed abbagliante sotto un cielo azzurrissimo. L’im-pressione è di essere su un altro pianeta. La visita ad una fabbrica di sale o ad una costruzione un tempo adibita ad hotel, ma attualmente in disuso, fatta interamente di sale (pareti, tavolo, poltrone, letto) non riescono ad emozionare quanto quello spazio nato oltre quarantamila anni fa da un gigantesco lago preistorico: il lago Minchin, e che ha dato origine a storie, leggende, visioni. L’ambiente surreale, la tersa luce degli altopiani andini, il riverbero del sole sui cri-stalli di sale e il silenzio assoluto fanno di questo scorcio di mondo un posto unico. Con la jeep, che di tanto in tanto perde colpi, viaggiamo sulla distesa di sale che si estende fino all’orizzonte, lasciando intravedere solo le vette dei lontani monti. Siamo diretti a Inkahuasi o Inkawasi che nel-la lingua Quechua significa “Inca casa”, un’isola rocciosa ubicata nel mezzo del Salar de Uyuni. La luce forte impone occhiali scuri e la rifrazione del sole fa brutti scherzi. Gli Inca ritenevano che Los ojos de Salar, gli occhi del Salar, fossero divinità che inghiottivano nel nulla le carovane che transitavano da qui, dirette verso la costa del Pacifico. Enoc ci racconta che le rifrazioni e le illusioni sono fenomeni che si amplificano nella stagione delle piogge, quando l’acqua copre con un velo sottile le cavità sulla superficie del lago, riflettendo il cielo su una distesa salata di dodicimila chi-lometri quadrati. Arriviamo seguendo un percorso virtuale padroneggiato solo dalle guide del posto all’Inkawasi, detta anche Isla del Pescado per la sua forma, una formazione rocciosa che emerge, come un atollo dalla distesa di sale. È formata da sedimenti calcarei marini e materiale vulcanico che hanno creato un terreno sufficientemente fertile da per-mettere la crescita di grandi e piccoli cactus, piante erbacee e licheni. Facciamo il percorso che ci porta fino alla vetta (102 m) e ammiriamo la grande varietà di cactus molto fitti; per la guida l’altezza media di 6-8 metri viene raggiunta soltanto dopo un secolo di vita. È adagiato su un anfratto roccioso il tronco legnoso senza vita di uno dei più antichi custodi di quest’isola: era già lì quando a frequentare quei luoghi erano gli Inca. Vicino c’è una tabella che recita: “CACTU MILENARIO MIDIó12 MTS 3CMS VIVIó 1203 AñOS MURIó (DIC) 2007” La vista che si gode da questa posizione privilegiata è fantastica. I rinvenimenti sull’Isla di giacimenti archeologici della cultura Tiwanaku, rovine Inca, e la presenza di caver-ne e gallerie naturali indicano una frequentazione antica del luogo. Quando torniamo scopriamo che la jeep non riesce a muoversi e, malgrado l’intervento di Enoc e degli altri autisti sul motore, si deve cambiare auto. Nel tardo pomeriggio ve-niamo portati di nuovo sulla terraferma da dove siamo partiti per accompagnare un gruppo di turisti. Rifocillatici ripar-tiamo ormai al tramonto con Peter che sarà con la sua jeep la nostra nuova guida. Questa traversata fuori programma

consente di apprezzare i suggestivi colori del tramonto su questo mare di bianco straordinario. Il cielo è terso mentre il sole tramonta. Le montagne, che in lontananza delimitano il lago, riducono nel tempo la sfera di luce ad un sempli-ce spicchio che si colora sempre più di un rosso intenso e rimbalza sui cristalli di sali con l’ultimo raggio di sole. Poi la luce diventa viola e il sale color glicine in fiore prima di spegnersi definitivamente. Ormai è buio e nella notte senza una strada definita dobbiamo affidarci solo alla capacità di orientamento di Peter che, dopo una nuova sosta all’isola per lasciare utensili ad Enoc, restato vicino alla sua jeep, ci con-duce dall’altra parte del lago. La luce dei fari che si riflette sulla distesa bianca è senza riferimenti. Non lo sarà per mol-to. Dopo poco è la luna che sorge prima di un rosso intenso e poi sempre più bianca a consentire di ritrovare la direzione.

Il viaggio procede in un’area protetta situata nell’estremi-tà sud-occidentale della Bolivia, la Reserva de Fauna An-dina Eduardo Avaroa un parco naturale di 7147 mq, che si estende tra un’altitudine variabile fra i 4000 e i 6000 m e comprende i panorami più mozzafiato del paese. Il vento che soffia inarrestabile ha dato alle rocce forme surreali come l’Arbol de Piedra un masso enorme, alto 8 metri, che resta sospeso su di un gambo sottile.

Si parte prima dell’alba per raggiungere Sol de Mañana e vedere a quota 5.000 m con le temperature al di sotto dello zero i getti di vapore dei geyser. Poi lungo la Laguna Polques per una serie di sorgenti termali prima di incan-tarci davanti ad una moltitudine di fenicotteri rossi della Laguna Colorada.

Per godere in pieno dello spettacolo del geyser Sol de Mañana bisogna partire prima dell’alba quando le tempera-ture sono al di sotto dello zero. Lo facciamo percorrendo con la jeep o semplici tracce sul terreno o passi carrabili o stra-de che attraversano l’altipiano e che in realtà sono semplici piste di terra battuta. A questa altitudine l’aria è molto sec-ca e molto povera di ossigeno, al sole si scotta e all’ombra fa freddo; durante la notte gela spesso molto intensamente. Sembra davvero di essere su un altro pianeta. Così anco-ra addormentati siamo saliti a quota 4850 m attraversando panorami indescrivibili per rimanere affascinati da questi getti di vapore che si sollevano da terra raggiungendo grandi altezze in questo bacino di geyser di cui fanno parte anche bolle di fango gorgogliante e fumarole un po’ puzzolenti, tipiche dei vapori sulfurei. Ci aggiriamo tra le fenditure con attenzione per i cumuli di neve spesso ghiacciati perché il terreno è spesso “morbido”. Dopo il geyser la pista ci con-duce alla Laguna Polques, lungo le cui rive si trovano di-verse sorgenti termali. Le acque calde richiamano ad un ba-gno caldo di grande sollievo per le gelide temperature d’alta quota, anche se spogliarsi in queste condizioni termiche non è facile. Molti turisti accettano la sfida che è basata soprat-tutto sulla resistenza. Poco dopo è la Laguna Colorada, uno specchio d’acqua color corniola che si estende per 60 kmq raggiungendo la profondità massima di 80 cm ad attrarre la nostra attenzione. La colorazione rossa è dovuta ad alghe e plancton che prosperano nelle acque ricche di minerali, mentre i bordi sono orlati di brillanti depositi bianchi di so-

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dio, magnesio, borace e gesso. Da qui il rosso più intenso al centro del lago. A questi colori bisogna aggiungere il bianco e rosa del piumaggio ed il giallo del becco dei fenicotteri, presenti in grandi quantità a questa altitudine. Scendiamo dalla jeep per ammirare la spettacolarità di questa natura. Sotto un cielo terso e luminoso un gruppo di fenicotteri è vicino la riva, qualcuno vola basso per fermarsi poco lon-tano, altri nei piccoli movimenti riflettono la loro immagine sulla superficie dell’acqua. L’aria è fredda ma secca e in-torno a noi tanto, tantissimo silenzio; siamo soli in questo momento in questa valle. Spesso è un piacere condividere con altri compagni di viaggio le bellezze dei luoghi ma c’è il rischio di “danneggiarne” i silenzi. Con tristezza lasciamo i fenicotteri rosa che in grande numero popolano questo lago. In Bolivia vengono anche chiamati fenicotteri di ghiaccio perché per le bassissime temperature notturne, anche -20°, si dice che durante la notte si lasciano congelare le zampe nell’acqua per farsi liberare dal tepore del sole il giorno se-guente.

Fondata 3.000 anni fa Tiwanacua a 71 km da La Paz, fu capitale di un impero enorme che durò quasi 1000 anni. Scomparsa molto prima che arrivassero gli europei, fu saccheggiata dagli spagnoli con la dinamite per utilizzare le pietre, anche di diverse tonnellate, e distruggere simboli pagani. Ancora oggi si aspetta, il 21 giugno, il sorgere del sole con danze, musica e rituali elaborati.

Si parte da La Paz, attuale capitale della Bolivia, verso ovest e dopo circa 71 Km le rovine dell’antica città di Tiwana-ku1, nei pressi della sponda sud-orientale del lago Titicaca. In questa città, considerata come il centro della cultura che porta lo stesso nome, cultura tiahuanaco (o tiwanaku), si svi-luppò un’importante civiltà precolombiana il cui territorio si estendeva attorno alle frontiere degli attuali stati di Bolivia, Perù e Cile. Questo luogo nacque come un villaggio intor-no all’anno 1580 a.C. ed ha attraversato tre periodi cultura-li nel suo sviluppo: Contadino o di formazione, Urbano e Imperiale per scomparire per cause non ancora stabilite nel XII secolo. La civiltà Tiwanaku fu contemporanea di quella Wari, che si trovava a nord di quella Tiwanaku condividen-done molti progressi sia dal punto di vista tecnologico che artistico. Alcuni autori usano il termine Wari-tiwanacu per riferirsi al complesso di queste culture affini territorialmen-te contigue. Non vi sono evidenze che la civiltà Tiwanaku utilizzasse la scrittura. Le rovine di Tiwanaku sono le più importanti della Bolivia e occupano una superficie di 240 et-tari. Tiwanaku ha avuto una popolazione stimata in 100.000 persone nel suo periodo di massimo splendore. Una carat-teristica sono gli enormi monoliti di circa 10 tonnellate che si possono ancora ammirare nelle rovine dell’antica città. L’area archeologica presenta una struttura urbana ben defi-nita e i suoi monumenti sono una inesauribile mostra di pro-gressi tecnologici e artistici. Il declino iniziò attorno al 950 fino al collasso completo attorno al 1100, quando il centro cerimoniale venne abbandonato. L’area circostante non fu però abbandonata completamente, ma lo stile artistico ca-ratteristico cadde assieme agli altri aspetti della cultura. Una

1 Historia de Bolivia Periodo Prehispánico, Fundacion Cultural Del Banco Central de Bolivia La Paz 2006 pag. 352

Cactu millenario

Rocce sull’altopiano boliviano

Geyser Sol de Mañana

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La Paz - convento di San Francesco

Tempio di Kalasasaya

Inkavasi cactus

Isola della luna

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ricca iconografia è presente sulla metallurgia, la ceramica, il tessile, la litografia e altre eredità culturali. Tutto il territorio fu conquistato, attorno al XV secolo, dagli Inca e annessi all’impero noto come Tahuantinsuyo. Il sito è stato dichiara-to Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO

Il centro cerimoniale di Tiwanaku è un intrigo di pira-midi crollate, palazzi e templi diroccati fatti di blocchi di pietra megalitici pesanti anche più di cento tonnellate. Nel periodo d’oro le enormi piramidi e gli opulenti palazzi era-no dipinti in colori brillanti e intarsiati d’oro. Ancora oggi per gli Aymara resta un posto di forte significato simboli-co e li vede nel solstizio invernale contemplare la nascita del sole davanti alla porta con danze, rituali e abbondanti quantità di alcol e coca.

Le rovine di questa antica capitale della civiltà pre-Inca. sono piene di fascino e di mistero e sono ricche di strutture, più o meno massicce, lavorate con tecnologie estremamente avanzate. Di quasi tutte le strutture, purtroppo, non resta-no che le fondamenta. Il sito è stato depredato e distrutto dal popolo invasore che non solo ha rimosso tutti i metal-li preziosi, ma ha addirittura utilizzato le antiche pietre per costruire la chiesa nella moderna Tiwanaku, la massicciata ferroviaria ed altri edifici a La Paz. In particolare questa è la sorte toccata alla grande piramide a gradoni, Akapana, una massiccia costruzione alta in origine ben 16 metri ed alli-neata perfettamente con i punti cardinali. E ancora le sca-le e l’enorme porta, entrambe monolitiche, ovvero ricavate da un unico blocco di pietra, del tempio di Kalasasaya, che formano, assieme alla grande statua nel centro (l’Idolo), un disegno geometrico estremamente elegante e gradevole. C’è poi il tempio semisotterraneo con le pareti ricoperte, lungo tutto il perimetro, di teste di pietra sporgenti che guardano verso i monoliti nel centro del tempio stesso. Le mura sono edificate con avanzate tecnologie per migliorarne la robu-stezza e per eliminarne i movimenti dovuti alle oscillazioni: in mezzo ai blocchi di pietra, venivano ricavati intagli nei quali si incastrava un’altra pietra più piccola o addirittura una piastra di rame, per legare il blocco a quelli adiacenti. Circondata da fascino e mistero La Porta del Sole fu rica-vata da un unico masso del peso di 10 tonnellate, sul quale vennero incisi rilievi, principalmente nella sezione trasver-sale collocata sopra il vano della porta. Il rilievo centrale mostra una figura armata di due scettri a forma di serpente, attorniata da altre 48 figure alate, di cui 32 con volto umano e 16 recanti la testa di un condor. La Porta del Sole venne così chiamata perché posizionandosi davanti ad essa all’ini-zio della primavera il sole sorge esattamente sopra la metà della porta. I simboli, presenti in alto, forse rappresentano una sorta di calendario, mentre la figura al centro dovrebbe rappresentare il Dio Viroacocha con i raggi del sole che, dal suo viso, partono verso tutte le direzioni. Nel primo giorno di primavera, il sole sorge esattamente al centro della porta ricavata dentro il monolita e ancora oggi si festeggia tutta la notte con balli in costumi tradizionali, canti e preghiere propiziatorie in attesa del nuovo giorno, per ricevere i primi raggi del Tata Inti (Padre Sole) che per rinvigorire devono essere quelli che passano attraverso la Puerta del Sol (Porta del Sole), ritenuti pieni di forza ed energia.

Il lago Titicaca ha sempre avuto un ruolo dominante nella religione andina. La leggenda narra che il lago si era formato con le lacrime della luna che non riusciva a incontrarsi con il sole. Trovarono il modo di sfiorarsi sulla superficie dell’acqua quando la scia del sole al tramonto si ritrovava, anche se per poco, con la scia della luna che si levava.

Il Lago Titicaca, il lago più grande del Sud America, re-gala un’esplosione di rigogliosa natura a quasi 4000 metri di altitudine. La calma piatta che si respira su quelle acque, dà l’impressione che il tempo si sia fermato, che lo stress e il rumore dei nostri giorni non siano riusciti a scalare quelle montagne. Luogo sacro degli Inca, patria di leggende mille-narie e delle più antiche tradizioni del mondo, ospita 25 isole tra cui l’isola della Luna e quella del Sole, da cui, si dice, nacquero il semidio Manco Capac e la moglie-sorella Mama Ocllo, mitici capostipiti del glorioso impero Inca. Da allora, non ha perso l’aria mistica, carica di energie e spiritualità che si avverte quando con la barca si solcano le sue acque. Gli Inca credevano che Viroacocha, dio della creazione, si sollevasse dalle sue acque per chiamare il sole e la luna a illuminare il mondo e che i loro antenati provenissero dal lago. Sull’Isla de la Luna, chiamata Coati, controparte fem-minile del Sole, c’è un luogo di grande importanza la Corte delle donne dove donne nobili venivano educate da 8 a 18 anni. Le vergini educate sull’Isla de la luna venivano portate sulla Isla del Sole. Lì un terzo veniva avviata al matrimo-nio un terzo alle varie attività (tessitura, cucina, ecc.) e un terzo al sacrificio. Aspettavano il momento nel labirinto e prima del sacrificio venivano drogate con la coca e la chicha2 (cicia). Si racconta che, in caso di inosservanza del voto di castità, le vergini del Sole erano sepolte vive e i loro partners impiccati. I traditori venivano uccisi e, per maggior spregio, con le loro pelli venivano confezionati dei tamburi e con i loro crani dei boccali, a perenne ricordo della loro infamia. Sulle rive del lago sacro sorge la città di Copacabana. La parola Copacabana per alcuni deriva dalla parola Aymara kota kahuana, che significa vista del lago, per altri trae il nome dalla dea Copakawana, venerata in epoca precolom-biana. I ritrovamenti archeologici indicano che era già abita-ta nel secolo XIV a. C. Con l’arrivo degli spagnoli nel 1550 venne costruita la prima chiesa cristiana, trasformata poi, il 2 febbraio 1583, nella Basilica di Nuestra Señora de Copaca-bana, uno dei santuari più importanti del Sud America. Pro-prio in questo santuario abbiamo partecipato ad un matrimo-nio prima in Chiesa e poi sul sagrato con i parenti in fila nei loro costumi della festa. Le donne con vesti molto colorate e scialli lunghi ed eleganti. Ciascun parente si avvicinava agli sposi e ai padrini situati sotto un arco addobbato con fiori e, prima del bacio, lasciavano cadere sullo loro testa una manciata di pezzettini di carta bianca mentre un gruppo del folklore andino con tipici costumi e tipici strumenti into-nava canti della tradizione. Anche Rosanna si è messa in fila per dare in spagnolo gli auguri agli sposi; hanno risposto in inglese ringraziando contenti.

2 Di origine inca, considerata l’elisir degli inca e della valle di Cochabamba, è una bibita fermentata per alcuni giorni dopo un processo di elaborazione molto lungo; è una bibita alcolica.

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La Paz, capitale più alta del mondo, raccoglie in una conca tutte le contrad-dizioni di una nazione. Nella parte alta ci sono i poveri nella parte bassa i ric-chi. Le brugas con i loro rituali magici, dietro la chiesa di S. Francesco, i locali con la musica e la danze tipiche, i mer-cati colorati

Ritorniamo a La Paz, città vivace co-

Tramonto a Copakawana

La Paz -

struita sulle Ande, per lasciarci coinvol-gere da questa capitale di una nazione giovane che sta cercando le sue radici nella propria storia. Sono radici civilis-sime dell’umanità, della nostra storia comune che, specie nei momenti diffi-cili, abbiamo tutti bisogno di avere pre-senti come monito e come esortazione.

Mentre rileggo questi appunti di viag-

gio ho sulla mia scrivania i sassi che An-namaria mi ha sempre chiesto per ogni luogo visitato nei miei viaggi. Questa volta non sono riuscito a recapitarli in tempo. Mi faranno compagnia ora che non posso più condividere con lei le pic-cole e grandi emozioni del quotidiano e ricevere carezze dai suoi sorrisi.

Carmine Negro