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Anno IX - n. 2/3 - Aprile 1988
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La Rassegna d’Ischia 2-3/1988 3

4 La Rassegna d’Ischia 2-3/1988

MARIANO CATANEO è stato confermatopresidente dell’Associazione del Commercio

e del turismo di Casamicciola Terme

Mariano Cataneo, 45 anni, gioielliere, è stato confermato per il triennio 1988/90, presidentee dell’Associazione del Commercio e del Turismo di Casamicciola Terme, che raggruppa circa 200 operatori economici del settore commerciale, di quello turistico e di quello termale. Il consiglio generale dell’Ascomtur di Casamic-ciola ha eletto anche la giunta esecutiva che af-fiancherà il presidente; ne fanno parte Salvatore Sirabella e Mario Romano in qualità di vicepre-sidenti; Salvatore Coppola, Francesco Scibilia, Giuseppe Conte e Luigi Mennella in qualità di componenti. “Desideriamo continuare nell’azione di conso-lidamento dello spirito associativo fra le diverse categorie economiche del paese — ha dichiarato il presidente Mariano Cataneo - aprendo cor-rette interlocuzioni con gli organi del Comune e dell’Azienda CST di Ischia e Procida, per un pia-no di valorizzazione e di rilancio del patrimonio turistico e termale di Casamicciola Terme”.

Il 24 aprile 1988 si svolgerà a Forio la undicesi-ma edizione della STRAISCHIA, manifestazione sportiva organizzata dall’Atletica Isola d’Ischia, e che si svolge attraverso una fase competitiva ed una fase ecologica.

*** La Lega per l’Ambiente ha organizzato per il 24 e 25 aprile 1988 una serie di manifestazioni, in occasione della Festa della Primavera. In parti-colare:- gemellaggio tra i bambini di Barano e di Forio;- gara fotografica sull’ambiente;- passeggiate ecologiche.-

In un incontro svoltosi ad Ischia, il Laborato-rio di Ecologia del Benthos della Stazione Zo-ologica di Napoli ha presentato i programmi di ricerca, finanziati dalla Comunità Econo-mica Europea, incentrati su ecosistemi ben-tonici marini dell’isola d’Ischia di particolare interesse ambientale.

(Sul prossimo numero de “La Rassegna d’I-schia” il servizio)

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Oltre la cronaca

di Giuseppe Mazzella

Lacco Ameno indietro tutta

compagni

La crisi al Comune di Lacco Ameno è ormai giunta su di un binario morto. Il braccio di fer-ro tra comunisti e socialisti per la poltrona di sindaco, per il ri-spetto del “patto della staffetta” secondo il quale il sindaco sa-rebbe stato per due anni e mezzo un socialista, com’è avvenuto, e per la restante parte della legi-slatura un comunista, come non è avvenuto e presumibilmente non avverrà, non solo ha para-lizzato l’attività amministrativa dell’ente locale alla vigilia della stagione turistica, ma sta get-tando tutta la classe dirigente di Lacco Ameno nel ridicolo. La “staffetta sì, la staffetta no” sembra un gioco da ragazzini e così la polemica politica tra le parti non ha più niente di politi-co ma ha tutto di personale. Ciò che ha diviso, in sostanza, i comunisti dai cosiddetti “in-dipendenti di sinistra” che con “estrema coerenza” si alleano con i liberali all’USL, non sono state le motivazioni “ideologi-che” o di “linea programmatica” che avrebbero dato buon spes-sore alla scissione, ma quelle “personali”, fondate sulle anti-patie fra persone di pari età con motivazioni risibili a persone che si occupano della pubblica amministrazione. Se si dovesse fare una scissione per i moti-vi programmatici addotti dagli indipendenti di Lacco, in Italia ci sarebbero in tutti i partiti mi-gliaia di scissioni al giorno. Dove prevalgono invece la serietà politica, il senso di re-sponsabilità verso gli elettori, la fedeltà all’indirizzo politico suf-fragato dal consenso popolare, si va avanti, si cerca di mettere

da parte i rancori personali, di contenere le vecchie invidie, di aspettare i tempi migliori, per-ché per chi sa attendere, tutto arriva. Insomma, se una coali-zione ha avuto il suffragio popo-lare dopo un trentennale domi-nio politico della DC, si cerca ad ogni costo di mantenere l’alle-anza e di fare quanto è possibile fare. Dividendosi in questo modo cosi rozzo che umilia la parteci-pazione civile, prima i comuni-sti nel loro seno e poi comunisti e socialisti hanno dimostrato la loro totale mancanza di “cultura di governo”. Andreotti ha ragione quando dice che “il potere logora chi non ce l’ha”, ed infatti una clas-se dirigente non si improvvisa ed i cittadini lacchesi oggi spe-rimentano sulla loro pelle che è meglio un cattivo governo che nessun governo e rimpiangono i tempi in cui la direzione am-ministrativa era riconosciuta a Vincenzo Mennella, l’unico uomo politico di statura sovra-comunale che ha espresso e che esprime Lacco Ameno, che è co-stretto a prendere a prestito dal comune di Casamicciola i tecni-ci per metterli nella commissio-ne edilizia. Poiché il braccio di ferro tra comunisti e socialisti continua, poiché gli indipendenti di sini-stra ormai hanno trasformato il

loro amore verso i comunisti in odio eterno, Lacco Ameno è en-trato in un vicolo cieco, mentre meno di tre anni fa la lista del Fungo prometteva nuove strade di sviluppo, nuovo metodo di governo e nuove speranze. Cosa si può suggerire in questa situazione? Credo che bisogna fare appel-lo al senso di responsabilità dei socialisti e dei comunisti ed an-che degli indipendenti, affinché sia ripristinata la coalizione del “Fungo” che ha avuto il successo elettorale ricercando una nuova direzione politica. Se è proprio impossibile per tutta la lista del “Funge” ritrovare un minimo di solidarietà per ripristinare la coalizione, è giusto arrivare alla presa d’atto delle dimissioni del sindaco e degli assessori di tutti i colori, in modo che si possano intavolare trattative per altre al-leanze. Il braccio di ferro sulle “non dimissioni” è sterile ed alla fine si rivolgerà contro il PCI. I “be-aux gestes” generalmente non producono successi politici ma servono a qualificare gli uo-mini. Ecco perché i comunisti devono prendere l’iniziativa di dimettersi da assessori, di la-sciare giocare i socialisti a tutto campo, facendo valere la loro “rendita di posizione”. Vedre-mo quale complicato linguaggio politichese i socialisti utilizze-ranno per dire che non vogliono rinunciare al sindaco e sono di-sposti ad allearsi con chiunque, pur di salvare la prima poltrona del paese.

Giuseppe Mazzella

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Dal 15 maggio al 15 settembreil divieto di sbarco per le vetture della Campania? I sindaci dei sei comuni isolani hanno tenuto una riunione operativa congiunta, allo scopo di avviare un chiaro discorso programmatico per la nuova stagione turistica, soprattutto per quan-to concerne le indicazioni da fornire al Ministro dei LL. PP. sul problema dell’afflusso delle mac-chine sull’isola nel periodo di alta stagione. In merito a questo ultimo punto si è general-mente riconosciuta l’esigenza di un più restritti-vo divieto e di una maggiore vigilanza per evita-re che molti riescano a svincolarsi dalla norma. E’ stato proposto, come lo scorso anno, di vieta-re l’imbarco e lo sbarco alle autovetture con tar-ga delle province campane; nessuna limitazione invece per quelle delle altre province italiane e per quelle con targa straniera, purché condotte dal proprietario o dal coniuge. Tutto ciò per il periodo dal 15 maggio al 15 settembre. Ci si chiede peraltro: come si intende evitare che i parcheggi nei vari comuni siano già in data anteriore al 15 maggio occupati dalle vetture dei villeggianti? In secondo luogo, considerato che i sacrifici debbono essere sopportati un po’ da tutti, compresi i cittadini locali, non potrebbe essere avviata anche una riduzione della circo-lazione, magari con targhe alterne? E si riuscirà soprattutto ad evitare chee l’isola sia invasa da mezzi a due ruote? Sul piano dei trasporti terrestri intercomunali sarà potenziato il servizio automobilistico pub-blico gestito dalla SEPSA con corse più frequenti e con linee più particolari per le varie zone in-terne. Sarà ripreso il servizio di comunicazione via mare, cercando opportuni collegamenti an-che con le spiagge più frequentate, come Citara e i Maronti. Ciò allo scopo di realizzare un vero e proprio trasporto alternativo che disincentivi l’uso dell’automobile privata. Intorno a questo problema bisogna richiamare l’attenzione sujla necessità di procedere ad una completa sistemazione delle tabelle di fermata dei pullman, oggi esistenti in pochi punti, e del-le pensiline che offrono uno spettacolo di certo poco gradevole. Un’altra considerazione riguar-da poi la possibilità di permettere una facile re-peribilità dei biglietti, generalizzando la vendita e non limitandola a pochi negozi. Non è ammis-sibile chee per munirsi di biglietti si debba girare il paese. Perché la SEPSA non gestisce diretta-mente il servizio di distribuzione ai negozi? Con

un maggiore introito cosi tutti accetterebbero di curare la vendita. Oggi il servizio è insufficiente per chi ha la sfortuna di dover ricorrere al mezzo pubblico. Gli alberghi stessi potrebbero fornire i biglietti ai loro clienti. Per quanto si riferisce alla balneazione, i sin-daci hanno convenuto che occorre approvare il regolamento per la immissione degli scarichi nel sistema fogna-rio pubblico che è in gran parte realizzato in tutti i comuni dell’isola. Nel corso della riunione sono stati accennati altri problemi che riguardano il consolidamento dello sviluppo dell’isola d’Ischia; in particolare è stata sottolineata l’urgenza dell’approvazione da parte della Regione del Piano Urbanistico Ter-ritoriale.

Impreparati per la nuova stagione turistica L’inizio della nuova stagione turistica ha trovato l’isola d’Ischia impreparata in alcuni servizi che toc-cano molto da vicino lo specifico settore. Il primo impatto negativo si riscontra lungo il circuito strada-le, principale e secondario, non solo per i lavori vari intrapresi e non ancora completati, ma anche e so-prattutto per lo stato rovinoso del manto asfaltato. Le piogge invernali, l’usura del tempo, la scarsa atten-zione nel ripristinare dovutamente tratti assoggettati ad interventi di scavo, costituiscono le cause di que-sto fenomeno che si ripete di anno in anno, ma che non provoca tempestivi provvedimenti da parte degli enti interessati. In proposito un grave contraccolpo al turismo è dato dalla chiusura cui è ancora soggetta la strada esterna che da Forio conduce a Citara. Passa il tempo, ma di soluzioni non si parla. Eppure oggi siamo ampiamente rappresentati in seno alla Provin-cia ed alla Regione! Lo stesso centro cittadino di Forio sotto l’aspetto stradale non è che abbia presentato in questi gior-ni un volto piacevole. Non c’è programmazione che porti alla perfetta funzionalità dei servizi con l’inizio dell’afflusso turistico. Le spiagge sono ancora spor-che; non si sa quali manifestazioni si svolgeranno nei prossimi mesi; per le macchine siamo appena nella fase delle richieste da parte dei sindaci. A Icu-ne am-ministrazioni dedicano al turismo un’attenzione del tutto insufficiente. Abbiamo un ricco e qualificato patrimonio archeologico, ma nulla si fa per darne in visione gli aspetti più significativi: a tal riguardo pre-occupa soprattutto la situazione di crisi che blocca il comune di Lacco A meno, per l’impossibilità di for-mare una nuova maggioranza amministrativa.

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Forse scomparirà il BAR INTERNAZIO-NALE DI MARIA, situato in P.zza Matteotti nel comune di Forio. Era il bar degli artisti e degli uomini di cultura. Per una causa di sfratto, i proprietari potrebbero entrare in possesso del locale che attualmente è gesti-to dagli eredi di Maria Senese, la “caffettiera galante”, come la chiamava Elsa Morante. Il Caffè Internazionale di Maria era fre-quentato negli anni ‘50 da uomini di cultura come Alberto Morante, Elsa Morante, Libe-ro de Libero, e soprattutto il grande poeta inglese Wysten Auden che soggiornò a Forio circa quattro anni dal 1953 al 1956.

Auden si ispirò proprio a Maria Senese per il personaggio di Bara la Turca nel libretto “La carriera di un libertino” musicata da Stravinsky. Maria aveva raccolto in un album le firme illustri di tutti gli uomini di cultura che era-no stati da lei. Il bar era praticamente una galleria, poiché tutti i pittori che lo frequen-tavano le regalavano una loro opera. Carat-teristico era anche il soffitto del locale rico-perto con tutte copertine di giornali illustra-ti degli anni ‘50.

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di Michele Longobardo

La bella mostra di pittori e scul-tori isolani allestita sul Castello da Gabriele Matterà e Massimo Ielasi all’inizio di questa prima-vera è un segno visibile, anzi un primo segnale, del risveglio del-le attività isolane dopo il lungo sonno invernale. Dobbiamo subito dire che più che una mostra ci è parsa una rassegna di tutti o quasi tutti gli artisti del novecento, viventi e defunti, nati sull’isola. Assente di rilievo Michele Petroni detto Peperone, uno dei più notevoli e originali, ma è stata una sua scelta, e speriamo di rivederlo presto in una personale con le sue ultime creazioni. Mancano anche alcuni pittori-barbieri, Renato Pollio, Catello Curci, ca-tegoria questa, dalla quale pure è uscito il famoso pittore-bar-biere Luigi De Angelis, primo dei pittori naïfs italiani, e qui primo vale per il migliore. Veniamo ora a parlare dei pre-senti e incominciamo un po’ alla rinfusa, come dei frettolosi ap-punti presi durante la visita. Filippo Cianciarelli espone al-cuni acquarelli in quel suo stile espressionistico-floreale ch’è l’ultima variante del suo invete-rato espressionismo. Non male. Una bella veduta ischitana di-stingue la presenza alla mostra del caro Federico De Angelis e direi che lo rappresenta otti-mamente come pittore e come ecologo. Due tele di Vincenzo Funiciello con paesaggi ischitani, eseguiti a collage, ricordano agli ischita-

Manifestazioni del Castello Aragnese

Rassegna di arte figurativa isolana 24 artisti- 44 opere

ni l’amore sviscerato che questi portò alla loro terra. Curiosità fa sorgere la presen-za di due tele di Matteo Sarno. Questo artista era consacrato, finché in vita, dalla presenza del mare nelle sue opere, e, di-ciamolo pure, un mare sempre mosso o agitato, visto dall’alto di scogliere o promontori soprat-tutto capresi, isola nella quale ha a lungo soggiornato. Questa volta invece i curatori della mo-stra hanno scovato due quadri che lo rivelano cultore di altri generi. Un bel mazzo di fiori alla Van Gogh e una scena di genere cittadino. Devo dire che soprat-tutto quest’ultimo quadro mi ha impressionato, perché in esso si vede rappresentata una strada di New York intorno agli anni Venti, mentre passa un tram a due piani e della gente cammina sul marciapiede. Il modo in cui tutto questo è rappresentato è di assoluta modernità e freschez-za, e fa intravedere le enormi possibilità di quest’artista, se avesse continuato a vivere in quella grande città, destinata a diventare sempre più negli anni a venire l’ombelico del mondo. Di Francesco De Angelis è esposto un Porto d’Ischia rap-presentato da tanti bastimenti a vele ricurve e dalla chiesa di Portosalvo dalla strana somi-glianza ad un tempio della clas-sicità pagana, sicché il tutto, anche per la luce senza tempo di cui è soffuso, acquista un sapore arcaico incantevole. Gianluigi Verde,- ormai inseri-tosi d’autorità in tutte le mani-

festazioni ischitane, espone due piacevoli acquarelli, una proces-sione e un paesaggio che piacerà agli ecologi. I due fratelli Colucci sono rap-presentati da un Porto e una festa Vincenzo, da due paesag-gi ischitani (il Porto e la Man-dria) Eduardo. E qui si può vedere, dal salto di stile e di qualità dei due quadri di Vin-cenzo, quant’egli fosse eclet-tico, perché passa dal futuri-smo della scena della festa al vedutismo di sapore ottocen-tesco del Porto. Eduardo è qui rappresentato da quadri un po’ più “tradizionali” rispetto a molti altri suoi, che io prefe-risco, che lo fanno accostare a Utrillo. L’apocalittico Raffaele Di Me-glio presenta un’opera quadran-golare ma poggiante su un an-golo, divisa in più “scene”, con uno stile che ricorda Chagall e dai colori “fauves”. Veniamo ora al padrone di casa, Gabriele Matterà, che qui dà un saggio della sua nuova “maniera”, la quale sembra ten-dere sempre di più all’astratto e all’informale. Non ci siamo an-cora, ma siamo molto vicini. Il suo “misticismo” in arte lo por-ta sempre più verso la ricerca pura, e qui egli ci dà una prova di tutto rilievo di ricerca materi-ca e coloristica. Antonio Macri è quel delicato pittore che tutti sanno. Al Ca-stello è presente con due opere dell’ultima produzione. Mari e cieli aperti con nuvole vaganti, le meravigliose, libere nuvole di cui parla Baudelaire. L’arte

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BOLIVAR - CAPUANO Mariolino - CIANCIARELLI Filippo - COLUCCI Eduardo - COLUCCI Vincenzo - COPPA Luigi - COPPA Marianna - DE ANGELIS Federico - DE ANGELIS Francesco - DE ANGELIS Giovanni - DE ANGELIS Luigi - DI COSTANZO Giovanni - DI MEGLIO Raffaele - FUNI-CIELLO Vincenzo - IACONO Raffaele - MACRl Antonio - MA-CRl Giuseppe - MALTESE Giovanni -MASCOLO Aniellantonio - MAT-TERÀ Gabriele - MAZZELLA Mario - SARNO Matteo - VARIOPINTO Federico - VERDE Gian Luigi.

di questo pittore consiste nel togliere il superfluo delle cose e nello sfumare i colori fino all’e-vanescenza, in ciò somigliando al grande pittore inglese Turner. Ora dobbiamo parlare di un’o-pera, di cui avrei dovuto parlare

all’inizio, se avessi cominciato questa rassegna dalle novità. La figura aerea di una creatura tracciata come un graffito con pochissimi segni da Raffaele Ia-cono. Quest’opera, a cui qualcu-no ha già dato il nome di “L’in-

sostenibile leggerezza dell’esse-re”, rappresenta un punto d’ar-rivo, o meglio una tappa lungo il cammino di quest’artista, a cui fin dal suo apparire abbia-mo preconizzato uno splendido avvenire. Una castigatezza colo-

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ristica e una ra-strematezza del segno fanno di Raffaele Iacono un pittore che non ha uguali. Parlare della grafica del nostro “go-” fico” Aniellantonio Ma-scolo mi sembra superfluo, tan-to è conosciuto e ammirato, anzi l’ammirazione per lui si fa sem-pre più viva e vasta. Quest’umi-le ischitano, andato a scuola dai maestri dell’arte gotica senese, ha trasferito quaggiù nel nostro paesaggio e nella nostra gente quella severa visione del vero e ha dato un’interpretazione ori-ginalissima alla nostra isola e ai suoi abitanti. E’ ora la volta di parlare di quel-lo che fu un ragazzo prodigio, orgoglio del padre, incanto dei forestieri, Giovanni De Angelis di Federico, che ancora ragazzo scolpiva con i materiali a dispo-sizione, ritratti e cavalli, oggetto di stupore ed ammirazione uni-versali. Dopo un periodo passa-to in Germania ed un altro pas-sato ad Ischia, si è trasferito in quel di Pesaro, dalla quale città ha portato a Ischia le sue ultime opere che si fanno ammirare per l’eleganza della ricerca for-male specie nello studio degli ampi panneggi che avvolgono le ieratiche figure. Un giovane poco più che ado-lescente, Giuseppe Macrì di Pie-

tro, ha avuto anche lui un’evo-luzione che lo ha portato su una strada difficile e accidentata, che, se proseguita con perseve-ranza, può portarlo molto lon-tano. Espone una grande tela tutta dipinta di nero, dalla qua-le emergono pochi segni, quasi graffiti, che rappresentano un mare con una vela in primo pia-no. E’ un inizio promettente. Aspettiamo con fiducia. Come per Aniellantonio, mi sembra inutile soffermarmi su Bo-livar Patalano, di cui sono esposti due ritratti “psicologici”, come li chiamava lui, ma bastano essi per far vedere di quale forza era fatta l’arte del Nostro. E lo stesso vale per il padre di tut-ta l’arte ischitana, il buono, gentile, indimenticabile Luigi De Angelis, di fronte al quale non c’è che da levarsi il cappello; anche se visti e rivisti i suoi quadri ci sono così cari che il rivederli non può non com-muoverci come la prima volta. Mario Mazzella espone forse il quadro più tempista di tutti in prossimità della Pasqua e sul limi-tare della primavera. Un Crocefis-so che sembra beato di starsene su una spiaggia ischitana cosparsa di grossi ciottoli,-mentre tutt’intorno volteggiano candide colombe sullo sfondo di un az-zurrissimo mare: una visione da gotico senese filtrata attraverso una sensibilità moderna. Mariolino Capuano e Marian-

na Coppa espongono i loro trompe-l’oeil dove la realtà è esaltata fino al punto di con-fondere le idee di qualcuno, in chiave surrealista Mariolino, in chiave “pop” Marianna. I due quadretti di Gino Coppa, due deliziosi acquarelli “africani”, ci riportano a quel mondo al quale Gino sembra indissolubilmente le-gato. Insomma il mal d’Africa che ha fatto tante vittime illustri in tutti i tempi ha colpito il Nostro, anche per reazione, a me sembra, con il costante degrado della natura pres-so di noi. Di Federico Variopinto sono espo-sti una natura morta e un paesag-gio che rivelano il crepuscolarismo discreto e gentile di quest’artista passato in punta di piedi fra noi, al-lora distratti e presi dalla lotta per la sopravvivenza. Giovanni Di Costanzo si mostra qui al meglio con due sue perfor-mances “picassiane”, un quadro ad olio ed una scultura veramente notevoli. Chiudo con un artista che merite-rebbe una considerazione maggio-re di quella riservatagli finora. Par-lo di Giovanni Maltese, di cui sono esposti l’autoritratto e quello della moglie in carbonell, che anche se mostrano una fattura accademica, rivelano un uomo di notevole im-pegno e di non comune ingegno.

Michele Longobardo

Premio Nazionale di poesia «Ciro Coppola» (XI edizione) La “Pro Casamicciola Terme” ha bandito con il patrocinio della Regione Campania, dell’Amm.ne Provinciale di Napoli, dell’Azienda di cura, soggiorno e turismo di Ischia e del comune di Casamicciola Terme, la XI edi-zione del Premio Nazionale di Poesia “Ciro Coppola” per lo studente italiano. Al concorso possono partecipare con uno o due componimenti poetici tutti gli studenti italiani iscritti per l’anno scolastico 1987/88 ad una classe della scuola media superiore (licei, istituti tecnici, magistrali, etc...). Il premio è di lire 800 mila per l’autore della poesia vincitrice, il quale riceverà anche la medaglia d’argento del Presidente della Repubblica, mentre gli autori delle poesie segnalate dalla giuria, che è presieduta dal prof. Edoardo Malagoli, riceveranno coppe, medaglie, trofei ed un assegno di lire 250 mila. I componimenti con l’osservanza delle norme contenute nel bando di concorso (che può essere richiesto dagli interessati alla Pro Casamicciola Terme - 80074 Casamicciola, dovranno pervenire all’Associazione organizza-trice entro e non oltre il 3 agosto 1988.

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Prospettive di recuperoper la «CANTINA

SOCIALE ISOLAVERDE»

Si è tenuto alla Provincia di Napoli un incontro, promosso dall’Assessore all’Agricoltura, Gennaro Ambrosio, per verificare se esistono le condizioni necessarie a promuovere una società a capitale mi-sto (pubblico e privato) per rilevare la società co-operativa “Cantina Sociale Isola Verde” di Ischia, dichiarata fallita dal Tribunale di Napoli. All’incontro hanno preso parte il sindaco di Ba-rano, Giuseppe Gaudioso, anche nella sua qualità di presidente della Commissione Agricoltura del Consiglio Provinciale di Napoli; il consigliere dele-gato all’Agricoltura del comune di Ischia, Pasquale Migliaccio; il curatore fallimentare della “Cantina Sociale Isola Verde”, avv. Luca Giordano; il diri-gente dell’Ispettorato Agrario Provinciale, dott. Gino Martusciello in rappresentanza dell’Asses-sore regionale all’Agricoltura, Giuseppe Mortola; ed il dirigente della FINAM (Finanziaria Agricola Meridionale), dott. Giovanni Pellegrino in rappre-sentanza del Presidente della FINAM, Alberto Ser-vidio. Il curatore del fallimento avv. Luca Giordano ha comunicato che il passivo accertato della Coopera-tiva, dichiarata fallita dal Tribunale di Napoli il 15 ottobre 1986, ammonta ad un miliardo e 421 mi-lioni, di cui un miliardo e 281 milioni nei riguardi di creditori privilegiati rappresentati dagli ex di-pendenti della Cantina. L’avv. Giordano ha manifestato la disponibilità della gestione fallimentare a collaborare per l’e-ventuale ripresa produttiva dell’Azienda. La volontà di partecipare alla costituzione di una società mista, ove mai ne sussistano le condizioni economiche, dopo la predisposizione di un piano di fattibilità, è stata manifestata, per conto del-la provincia di Napoli, sia dal sindaco di Barano, Gaudioso, sia dal consigliere delegato all’Agricol-tura del comune di Ischia, Migliaccio, sia infine dal rappresentante della FINAM, Pellegrino. In par-ticolare il dott. Pellegrino ha ricordato le finalità della finanziaria agricola del Mezzogiorno prepo-sta a partecipare al capitale di rischio di aziende agricole operanti nel Mezzogiorno in posizione di socio di minoranza. “E’ opportuno — ha aggiunto il rappresentan-te della FINAM — iniziare il dialogo con i rappre-sentanti dei produttori, per verificare se esiste la volontà della ripresa produttiva da parte degli im-prenditori agricoli”. La disponibilità della Regione Campania per contribuire alla ripresa produttiva della Cantina Sociale Isola Verde nell’ambito della legge regio-

nale 42/82 sul piano agricolo regionale è stata dichiarata dal dirigente dell’Ispettorato Agricolo Provinciale, dott. Gino Martusciel-lo, intervenuto in rappresentanza dell’Assessore Regionale Giu-seppe Mottola. L’Assessore Provinciale all’Agricoltura, Gennaro Ambrosio, nel ringraziare gli intervenuti ha an-nunciato che “la Provincia si farà carico di pro-seguire nella verifica delle possibilità di recupero della Cantina Sociale Isola Verde, anche nell’ambi-to dell’azione di rilancio dell’agricoltura nell’isola d’Ischia”.

La PROVINCIA DI NAPOLIpropone una consulta per i pro-blemi dell’apparato produttivo

e dei servizi Una consulta provinciale permanente per i problemi dell’apparato produttivo ed i servizi alla quale parte-cipino i rappresentanti della Regione, del comune di Napoli e degli altri Comuni dell’area metropolitana di Napoli interessati, della Camera di Commercio, dell’Unione Industriali, del Consorzio di sviluppo dell’area industriale, dell’Intersind ed infine i parla-mentari della Circoscrizione, oltre i rappresentanti della Provincia, è stata proposta dal Presidente della Provincia di Napoli, dott. Salvatore Piccolo, al termi-ne di un incontro svoltosi al Palazzo della Provincia tra amministratori provinciali ed i rappresentanti del sindacato unitario territoriale CGIL-CISL-UIL. Erano presenti il Presidente della provincia di Na-poli, dott. Salvatore Piccolo; il vice presidente, avv. Aniello Sorrentino; l’assessore provinciale all’Indu-stria, Agricoltura ed Artigianato, rag. Gennaro Am-brosio; ed i capigruppo del PCI (Giovanni Olivetta), della DC (Franco Cannavale), del PSI (Stefano Pri-sco); ed i sindacalisti Angelo D’Onofrio (CISL), Gio-vanni Agrillo (CGIL) e Bruno Terracciano (UIL). I rappresentanti del sindacato unitario hanno espresso agli amministratori provinciali le loro forti preoccupazioni per la crisi dell’intero sistema produt-tivo dell’area metropolitana di Napoli, sottolineando il processo in atto di deindustrializzazione culminato con l’incerto futuro dell’Italsider di Bagnoli. E’ stato chiesto di aprire una interlocuzione per tutti i pro-blemi dell’apparato produttivo con l’Ente Provincia. Gli amministratori provinciali hanno confermato la volontà di ripresa dell’azione politica da parte della Provincia che intende svolgere un ruolo di rappre-sentanza generale degli interessi delle popolazioni locali. “La nostra definizione è nei fatti - ha detto il Pre-sidente della Provincia di Napoli, Salvatore Piccolo, — perché la Provincia già svolge un ruolo di rappre-sentanza generale delle popolazioni ed intende rac-

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cordare le varie iniziative delle rappresentanze del mondo imprenditoriale pubblico e privato e delle forze sociali, per contribuire effettivamente al supe-ramento della crisi dell’apparato produttivo nell’area metropolitana di Napoli”. Piccolo ha colto l’occasione per sottolineare “il ruolo positivo svolto dal coordinamento per i problemi oc-cupazionali dell’area torrese-stabiese per la positiva conclusione della vertenza Ciba-Geigy” ed ha mani-festato il suo apprezzamento “per il ruolo svolto dai parlamentari di tutti i gruppi politici in questo coor-dinamento che ha aperto una interlocuzione con il Governo”. “Su questa strada di concretezza operativa - ha con-cluso Piccolo - intendiamo proseguire certi di arriva-re a buoni traguardi”.

Una società mistaper le Terme Comunali

di Ischia

Sarà una società mista costituita dal Comune, che possederà non più del 30% del capitale sociale, e da imprenditori alberghieri, a gestire le Nuove Terme Comunali che furono costruite su terreni comunali dal Cav. del Lavoro Marzotto 25 anni fa e che sono diventate di proprietà comunale quest’anno con la scadenza del contratto di concessione. L’Amministrazione comunale ha già dato incarico a due avvocati amministrativisti di redigere lo sta-tuto della nuova società. Alla società mista - ha detto il consigliere delegato Carmine Bernardo - potranno partecipare soltanto gli albergatori di Ischia che non posseggono stabi-limenti termali annessi ed i cittadini, perseguendo così l’obbiettivo di una redistribuzione del reddito. Alle Nuove Terme Comunali sarà annesso anche un centro studi sul termalismo collegato all’Uni-versità di Napoli, per incrementare le ricerche sul-le acque termali dell’isola d’Ischia, conosciute fin dal XVI secolo. Interesse per la formula della società mista in questo settore è stata espressa anche dal presi-dente dell’associazione del commercio e del turi-smo locale, Michele Morgioni, il quale ha detto che l’associazione è interessata attraverso i suoi iscritti che sono albergatori, ma non hanno terme annes-se, alla partecipazione alla società delle Nuove Ter-me Comunali. E’ la prima volta che ad Ischia si sperimenta nel settore termale una società mista. Infatti sull’isola ci sono 280 alberghi, di cui circa il 70% con an-nesso stabilimento termale. Le aziende soltanto termali sono 76, di cui una soltanto pubblica, le Antiche Terme Comunali del comune di Ischia.

Rotary Club «Isola d’ISCHIA»

Venerdì 11 marzo c.a., presso l’Hotel Majestic di Ischia, il Governatore del 210. Distretto Rotary In-ternational, prof. Raffaele Pallotta di Acquapenden-te, ha ufficialmente inaugurato il Rotary Club Isola d’Ischia. Alla cerimonia hanno presenziato il Segretario del Distretto Dott. Aurelio Malasomma, il Presidente del Rotary Club Napoli Ovest, Club padrino, prof. Camil-lo Sabatini, l’ing. Giuseppe Rizzo, vicepresidente del-lo stesso Club, l’avv. Florestano Perriello Zambelli e il dott. Sandro Marotta. Il Rotary International è una associazione mondiale di oltre 21.000 Rotary Club e con più di un milione di membri in 151 paesi e regioni geografiche. Il Rotary International è una organizzazione di uo-mini d’affari e professionisti di ogni parte del mondo, uniti fra di loro al fine di svolgere una attività uma-nitaria e di servizio, incoraggiare la pratica di elevate norme di condotta in tutte le professioni e contribu-ire a stabilire relazioni cordiali e una pace duratura nel mondo. Il motto del Rotary è: “servire al di sopra di ogni interesse personale”. In questo spirito è nato il Club Isola d’Ischia, col-mando un vuoto da anni avvertito; infatti il Rotary Club Isola d’Ischia avrà oltre alle finalità proprie di ogni Club, il compito di costituire un punto di rife-rimento per le migliaia di qualificati ospiti rotariani italiani, tedeschi e di ogni parte del mondo che ogni anno scelgono l’isola per le loro vacanze, così come da molti anni il Rotary Club Napoli Ovest ha scelto Ischia per i suoi incontri estivi. Il Rotary Club Isola d’Ischia, che viene definito provvisorio finché dalla Presidenza Internazionale non giungerà la “Charta”, è stato istituito con l’ade-sione di un gruppo di 23 uomini d’affari e professio-nisti dell’isola che ne costituiscono pertanto i Soci fondatori e che hanno provveduto alla elezione delle cariche sociali. Per il primo anno di attività sono sta-ti chiamati alla Presidenza il notaio Francesco Sena e alla Vicepresidenza il dott. Raffaele De Stefano. Il Club per i primi due anni sarà assistito dal Club pa-drino Napoli Ovest e dal Rappresentante Speciale del Governatore. La sede invernale è stata fissata presso l’Hotel Maje-stic, la sede estiva presso l’Hotel Excelsior.

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Convegno di Democrazia Proletaria

Lavoro, prevenzione e sicurezza: l’utopia del possibile

Organizzato da Democrazia Proletaria - Sezio-ne dell’isola d’Ischia, si è svolto un convegno su “Lavoro, prevenzione e sicurezza: l’utopia possi-bile - Il dramma della condizione operaia e delle morti sul lavoro dell’isola d’Ischia”. In proposito il consigliere regionale di DP Mi-chele Gargiulo ha dichiarato che il gruppo regio-nale di Democrazia Proletaria presenterà una mozione al Consiglio Regionale della Campania per la prevenzione antinfortunistica negli am-bienti di lavoro. “La mozione vuole impegnare la Giunta Regio-nale a fornire entro 60 giorni una mappa degli organici delle USL dalla quale risultino quanti-ficate le attività territoriali di prevenzione per la tutela della salute sui posti di lavoro ed a for-mulare dei programmi per il potenziamento dei servizi relativi all’obbiettivo della sicurezza sui posti di lavoro”. “La mozione vuole inoltre impegnare la Giunta regionale - ha proseguito Gargiulo - ad indicare quali provvedimenti concreti siano stati posti in essere dalla Regione in seguito ai gravissimi in-fortuni verificatisi nel mese di febbraio a Napoli e in Provincia. La Regione Campania deve esse-re impegnata infine a predisporre un disegno di legge che preveda l’utilizzo dei vigili urbani per compiere controlli sulla sicurezza nei cantieri edili e per effettuare sopralluoghi allo scopo di verificare i rischi di malattie professionali”. Nella relazione introduttiva Franco Monti, del-la segreteria provinciale di DP, si è soffermato sul “dramma della condizione operaia e delle morti sul lavoro nell’isola d’Ischia” dove in un anno sono avvenuti 8 decessi di operai per in-fortuni sul lavoro.

Al convegno sono intervenuti il magistrato

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Da oltre trenta anni operantea favore dello sviluppo economico

dell’isola d’Ischia

Nino Assante, l’avv. del lavoro Giuseppe Marzia-le, la responsabile del settore infortuni dell’IN-CA/CGIL di Napoli, Anna Petti, il sindacalista Giuseppe Vanacore della segreteria regionale FILEA/CGIL e Fulvio Aurora del dipartimento nazionale salute di DP. Alla manifestazione ha aderito la sezione napo-letana di Magistratura Democratica.

Concorso in memoria di FEDERICA TAGLIALATELA

La fondazione “Federica Tagliatatela” con sede in Ischia presso Scuola Media Statale G. Scotti, con il patrocinio della Regione Campania, assessorato alla P. I., organizza un concorso regionale di edu-cazione alla pace e alla non violenza, in memoria dell’alunna Federica Taglialatela, vittima innocen-te della strage sul treno rapido 904 Napoli-Milano il 23.12.1984. Possono partecipare al concorso tutti gli alunni frequentanti le terze classi delle scuole medie sta-tali di primo grado della Regione Campania. Il concorso comporta lo svolgimento del seguente tema (commento del passo): In quante divisioni ed incomprensioni noi por-tiamo la nostra parte di responsabilità, e quanto ancora ci resta da costruire nel nostro animo, in seno alle famiglie ed alle comunità, nel segno del-la riconciliazione e della carità fraterna! Né, dob-biamo riconoscerlo, le condizioni del mondo ci fa-cilitano il compito. La tentazione della violenza è sempre in agguato. L’egoismo, il materialismo, la superbia rendono l’uomo meno libero e la società sempre meno aperta alle esigenze di fratellanza. Le scuole che partecipano al concorso faranno pervenire, entro e non oltre il 30 aprile 1988, in apposito plico alla sede della Fondazione, Scuola Media Statale G. Scotti, Ischia, non più di tre temi selezionati tra i partecipanti di ciascuna scuola. Ogni elaborato, dei tre prescelti, deve essere ano-nimo e chiuso in una busta senza indicazione al-cuna. Il concorso prevede l’assegnazione di tre premi in danaro di lire un milione ciascuno, di cui uno al primo classificato nell’ambito della Regione Campania; uno al primo classificato nell’ambito della Provincia di Napoli; uno al primo classificato nell’ambito del 24. Distretto scolastico di Ischia e Procida.I tre premi non sono cumulabili. La premiazione avverrà nella sede della Fonda-zione, Scuola Media Scotti di Ischia, nella data che sarà comunicata a mezzo raccomandata alla scuola di appartenenza di ciascuno degli alunni vincitori.

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LACCO AMENO

Nel pianodi riqualificazionedel centro urbanoè stato messoil bellettoallo«Scoglio del faro»

Il 30 marzo u. s. il sindaco di Lacco Ameno, dott. Tom-maso Patalano, ha presenta-to alla cittadinanza la nuova sistemazione che, nel piano di riqualificazione del cen-tro urbano, è stata data allo SCOGLIO DEL FARO, in P.za Girardi. L’opera è stata pro-gettata dall’arch. Maurizio De Stefano ed ha richiesto una spesa di 104 milioni attinti dal bilancio comunale. La denominazione deriva dal

fatto che sulla roccia trachiti-ca, sino ad alcuni anni fa, era situato un faro di segnalazio-ne per i pescherecci e per le imbarcazioni (come si vede dalla fotografia tratta dal li-bro di G. G. Cervera: Questa è Ischia!). In mezzo ai due massi di roccia è stata realizzata una fontana con la scritta “Pitecu-sa”, il nome cioè deli-antico insediamento greco dell’VIII secolo a. C. - E’ stata anche

costruita una terrazza a mare che sarà successivamente col-legata con un pontile di legno alla scogliera per una caratte-ristica passeggiata. Tutta la zona intorno alla roccia ha sempre costituito un preciso punto di riferimento, là all’inizio della strada del-la marina che immette verso il centro cittadino. Singolari scogli si ammiravano nella parte interna, ove stazionava un mare limpido, che nelle giornate burrascose mandava i suoi spruzzi ben oltre il suo tratto limitato dalla parete rocciosa. Quello più elevato è indica-to dal citato Cervera con la denominazione di «Budda». Ma purtroppo negli anni ‘60 con l’incremento del turismo, cominciò anche il degrado del sito, soprattutto con la co-struzione dello stabilimento balneare che a poco a poco ha provocato la demolizione de-gli scogli.

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16 La Rassegna d’Ischia 2-3/1988

LACCO AMENO

SENZA MAGGIORANZA NON SI AMMINISTRA

Giovedì 31 marzo 1988 si è tenuto a Lacco Ameno una seduta del consiglio comunale, su richiesta di un terzo dei consiglieri (socialisti e indipendenti di sinistra); all’ordine del giorno una nutrita serie di argomenti, ma non la critica situazione politico-am-ministrativa che ormai perdura da tempo. In pratica però la discussione ha avuto in questo ultimo aspetto il motivo propulsore essenziale, anche perché senza una maggioranza numerica non è affatto possibile amministrare e reggere le sorti di un comune, pic-colo o grande che sia. Infatti una perfetta parità (10 - 10) veniva riscontrata nelle varie votazioni, compre-sa quella su una mozione di sfiducia verso il sindaco presentata dai comunisti ed appoggiata nel voto an-che dalla DC. Questa nuova situazione si è sviluppata attraverso alcuni momenti che sembrano abbastanza indicativi e significativi:— La divisione tra socialisti e comunisti si fa sempre più profonda: i due gruppi si lanciano di continuo accuse, gettando ombre anche sul breve periodo di convivenza nella guida del paese e facendo cadere nel vuoto e nel nulla tutte le prospettive di nuovi modi di

gestire la cosa pubblica, tante volte risonanti nell’au-la consiliare, soprattutto quando gli stessi erano espressione di minoranza.— Socialisti e indipendenti di sinistra (ex comunisti)— hanno trovato posizioni di accordo per una even-tuale nuova amministrazione, come si evidenzia anche da un pubblico manifesto redatto e firmato unitariamente e naturalmente contro il PCI cui sono ascritte tutte le responsabilità dell’attuale paralisi amministrativa. Ma sul piano numerico i due gruppi non sono sufficienti a costituire una maggioranza.— Paralizzati la giunta e il consiglio, la vita ammini-strativa resta ferma per quanto concerne la program-mazione delle opere che il paese attende. E’ purtrop-po una amara esperienza che si ripete a distanza di due anni, considerato che altrettanto bloccato e privo di iniziative adeguate si presentò l’ultimo periodo dell’amministrazione a guida democristiana.— Poiché appare improbabile che l’unità possa essere ritrovata tra le forze di sinistra, determinante diventa la posizione della DC (in cui si riconoscono gli altri quattro consiglieri di opposizione), che in un modo o nell’altro potrebbe appoggiare l’alleanza tra socialisti

La Rassegna d’Ischia 2-3/1988 17

e indipendenti di sinistra che ormai sembra sicura-mente un punto fermo nel mosaico consiliare di Lac-co Ameno. Ma sono disposti i democristiani a questo passo? E soprattutto quale prezzo sono costretti a pagare i socialisti, dovendo trovare appoggi in questa ed in quella direzione? Quale valore avrebbe la loro impronta in una amministrazione così eterogenea e dettata prevalentemente dalla esigenza di conservare o raggiungere certe posizioni di vertice? La situazione è in definitiva abbastanza intricata e difficile sul piano della ricerca di soluzioni, ma l’a-spetto più negativo può essere considerato proprio il ristagno di essa, nell’attesa che maturino lentamen-te eventuali occasioni di riprendere il cammino in-terrotto. La stagione turistica, la gestione della cosa pubblica, il rispetto di un programma da attuare, ri-chiedono invece tempi brevi per adottare le necessa-rie decisioni, anche se si deve trattare di mettere fine

a questa fase amministrativa e chiedere di nuovo il consenso popolare. E qui la responsabilità chiama in causa tutte le forze politiche presenti in consiglio co-munale. Se non ci sono soluzioni possibili, è d’obbli-go per tutti dimettersi dalle proprie cariche. Se qual-che componente ritiene improbabile tale prospettiva e preferisce comunque andare avanti nell’incertezza, spetta agli altri fare l’importante passo: e qui ci si ri-ferisce a democristiani e comunisti che, se ritengono di non poter appoggiare un programma e un’allean-za con i socialisti, possono determinare la caduta del consiglio con le loro dimissioni da consiglieri. Per i comunisti un altro diverso passo potrebbe essere co-stituito dal ritiro dalla giunta, considerato che ormai poco possono operare, indicando una strada da se-guire anche da parte dei socialisti e del sindaco.

Raffaele Castagna

La Provincia deve essere una

moderna azienda di servizi

Affermare il principio di impostare l’attività di amministrazione su precisi obbiettivi program-matici in aderenza alle esigenze effettive della comunità e al loro grado di fattibilità rientra nelle aspirazioni della Giunta che ho l’onore di presiedere. Così ha affermato il Presidente della Provin-cia di Napoli, Salvatore Piccolo, illustrando alla stampa il consuntivo dei suoi primi cinque mesi a capo della giunta di pentapartito che dal no-vembre 1987 governa la provincia di Napoli. Piccolo si è soffermato soprattutto sui proble-mi dell’apparato produttivo dell’area metropo-litana di Napoli, ricordando l’azione intrapresa dalla Provincia con l’istituzione di un coordina-mento di amministratori locali e di parlamenta-ri per risolvere la vertenza CIBA-GEIGY di Torre Annunziata, dove 600 lavoratori erano stati mi-nacciati di licenziamento. Nell’area metropolitana di Napoli esistono pro-blemi occupazionali di una estrema gravità - ha aggiunto Piccolo -che richiedono la costituzione di una consulta permanente costituita dai rap-presentanti delle istituzioni locali, delle forze imprenditoriali e di quelle sociali. Il Presidente della Provincia ha annunciato, passando ad illustrare gli obbiettivi program-matici che rientrano nei compitti istituzionali dell’ente, che in tema di edilizia scolastica entro il 1988 saranno costruiti 9 istituti tecnici, ai sen-si della legge Falcucci, in comuni della Provincia

con una spesa complessiva di 68 miliardi di lire, di cui 44 miliardi hanno già ottenuto l’adesione al finanziamento della Cassa Depositi e Prestiti. Inforza del decreto Galloni - ha aggiunto Piccolo - è stato chiesto il rifinanzia-mento del piano di edilizia previsto per il 1986 di circa 107 miliardi, per la costruzione di edifici scolastici soprattutto nella città di Napoli. Piccolo ha anche annunciato che la Provincia sta predisponendo un piano organico per la si-stemazione di tutta la rete viaria provinciale, annunciando che in questo settore da gennaio ad oggi sono stati appaltati lavori per circa 12 miliardi di lire. Piccolo ha anche riferito che è in atto una rior-ganizzazione di tutti gli uffici provinciali per tra-sformare la Provincia in una moderna azienda di servizi, e ha comunicato che sono stati banditi concorsi pubblici per 300 nuovi posti di lavoro.

ECO DELLA STAMPA

Servizio ritagli da giornali e rivisteDIRETTORE: IGNAZIO FRUGIUELE

Amm. e Dir.: L’ARGO DELLA STAMPA s.r.l.Via G. Compagnoni, 28 - 20129 MILANO

Tel. 72.33.33 -71.01.81Casella postale 12094 - 20120 MILANO

Telegrammi: Ecostampa - Milano - C.C.I.A.A. Mi-lano N. 967272 - Reg. Tribunale Monza N. 14767

18 La Rassegna d’Ischia 2-3/1988

Ischia sul filo del rasoio. Le cro-nache e le opinioni di un giorna-lista locale (1983-1986)di Giuseppe Mazzella

Editoriale Ischia s.a.s. - 1987 - pp. 100.

Il volume raccoglie scritti relativi alla vita dell’isola che Giuseppe Mazzella ha pubblicato nell’arco di un triennio, in gran parte sulla stam-pa locale. Nel comporre in unità le riflessioni volta a volta suggeritegli da problemi e avveni-menti locali, Giuseppe Mazzella ha voluto sot-trarre alla caducità del “tempo” di un periodico o di un giornale fatti e opinioni che attengono alla dimensione del quotidiano, affidandoli al lento maturare del giudizio a posteriori. Pur nella varietà degli argomenti trattati, le ri-flessioni, puntuali e pertinenti, anche se sembra-no ovvie, ci inducono a considerare su vicende, persone e cose di una realtà locale e ischi-tana molto spesso sfuggente, quotidianamente evasi-va. Con un atteggiamento che supera il “paesano” e il “gazzettiere” e con occhio attento a quanto avviene fuori di Ischia, Giuseppe Mazzella espri-

me sincero rammarico per quanto, da più parti, non si compie o malamente si compie per Ischia. Per cui si fa strada, da una parte, la nostalgia per un presente che non è quale potrebbe essere, ma dall’altra, si coglie il rifiuto a ricercare un imme-diato “consenso” che riuscirebbe solo a bruciare “le idee e i programmi liberamente espressi”. Così, senza indulgere in doglianze o in sterili lamentazioni, Giuseppe Mazzella fa appello ai principi dell’etica, alle buone norme di un vive-re rispettoso di tutte le opinioni, ma attento alla salvaguardia del bene comune. Ricorda ai partiti operanti sull’isola che ormai è finita la stagione delle etichette, il popolo è cresciuto e s’impone quindi un discorso politico serio, cioè quello del-la programmazione, dell’ordinato sfruttamento delle risorse, della razionalizzazione dei servizi, della trasparenza amministrativa, per non allon-tanare le nuove generazioni dalla politica più di come sono disaffezionate per il cattivo esempio delle persone mature. Evitando la polemica, ma senza “accorciare il tiro”, gli articoli di Giuseppe mazzella vogliono dimostrare un’appassionata partecipazione alla vita pubblica isolana.

Ilia Delizia

I Normanni alla conquista dell’I-talia Meridionaledi Vincenzo CuomoEdizioni 2000 (Editrice culturale) - Ercolano - pp. 62.

Del nostro collaboratore Vincenzo Cuomo, nato a Vico Equense, citiamo questo testo pubblicato dalla Editrice “Edizioni 2000”. Come ladano intendere gli articoli che hanno trovato spazio sulla Rassegna d’Ischia, Vincen-zo Cuomo ha una particolare attitudine verso gli argomenti storici, di cui sa offrire una chia-ra ed elegante visione, spesso in forma sinteti-ca, quando mette in rilievo sia gli uomini che ne sono stati i protagonisti, siagli eventi, positivi o negativi, che hanno caratterizzato determinati periodi.Nel testo citato, l’autore - come indica nella pre-fazione Franco Piccinelli -ferma la sua attenzio-ne sul ruolo importante, nell’economia, nella crescita sociale, nella pacifica costruzione dello stato, svolto dai Normanni durante la loro non lunga presenza nel Sud dell’Italia all’inizio del

secondo millennio fin allo sscadeere del XII se-colo. L’argomento è trattato attraverso un preciso piano di lavoro. Nella prima parte, Cuomo trac-cia un quadro particolare-agiato dell’Italia me-ridionale prima dell’arrivo dei Normanni: qui si pone il perno intorno al quale “ha sempre girato la ruota della civiltà mediterranea”. Si dà poi ri-lievo al lento introdursi dei primi Normanni su queste terre, fino alla conquista del Sud e della Sicilia. Chiude il lavoro un capitolo sul consoli-damento della conquista. Nell’ultima parte, Vincenzo Cuomo dà una va-lutazione sulla presenza dei Normanni nell’I-talia meridionale: // regno degli Altavilla - egli scrive - è stato senza dubbio una delle creazioni più famose ed eccezionali del Medioevo. Nato grazie alla volontà di uomini provenienti dalla Francia, riuscì a fondere in un perfetto amalga-ma popoli diversi, per razze, religione e costumi, che abitavano tra Sicilia ed Italia meridionale, quali longobardi, greci, arabi ed ebrei.

Raffaele Castagna

La Rassegna d’Ischia 2-3/1988 19

di Pietro Monti

Dal 553 Napoli, strappata ai Goti, fu governata dai Bizantini, i quali impedirono che la città ca-desse nelle mani dei Longobardi, come avvenne per la vicina Benevento. L’amministrazione fu affidata ad un duca nominato ora direttamente dall’imperatore, ora dal popolo, ora dal papa, avendosi anche vescovi-duchi. Col passare del tempo i duchi si resero man mano sempre più indipendenti dall’impero d’Oriente e la città co-minciò ad avere una vita autonoma (755 - Ste-fano II). Napoli subì numerosi assedi da parte sia dei Saraceni che dei Longobardi e quindi bisogna-va essere sempre pronti alla difesa. Alcuni dei duchi vescovi dimostrarono di saper manovrare benissimo anche la spada. Quando si profilò anche la minaccia dei Nor-manni, ebbe inizio la crisi dei paesi bizantini in Italia (1122). I ducati costieri della Campania furono abban-donati al loro destino, per cui anche Napoli vide calare il sipario sulla sua secolare indipendenza, e quanto di più le due nostre isole che orbitava-no nel mondo bizantino ed erano politicamente legate alle sorti del ducato napoletano. Sulla scena del Mezzogiorno restavano Riccar-do, principe di Capua, e Roberto il Guiscardo, duca di Puglia. Ben presto fra i due si accese il contrasto, mentre Sergio VII, duca di Napoli, si manteneva lontano, mostrando piuttosto sim-patie con il potente duca normanno, ritenuto più pericoloso: questi infatti aveva potenziato l’attività marinara, aprendo l’Ufficio del Grande Almirante, e le sue navi mercantili rivaleggiava-no per potenza e numero con quelle degli altri Stati italiani (1). Appena le cose politiche volsero favorevoli a Ruggero, il duca di Napoli per non correre ri-schio cercò di riannodare rapporti con forze che stavano per cadere in analoghi pericoli. Per

1129 - 1130 Note storiche

L’insula majore e Gerone

questo, nell’aprile del 1129-1130, Sergio VII, per grazia di Dio console duca e maestro dei militi, strinse un patto con i Gaetani, non con Gaeta, cioè con l’universitas civium che costituisce un organismo autonomo e amministra i propri in-teressi indipendentemente da ogni ingerenza ducale. La promessa viene fatta all’intero popolo di Gaeta, cuncto populo Gajetano, rappresenta-to dalle persone, dai loro beni, dalle loro navi. Inoltre il duca di Napoli promette per se e per tutti gli uomini che abitano nel ducato, a me et ab omnibus hominibus, di obbligarsi a vicenda, di tutelarsi nei medesimi diritti, di fare uso dei rispettivi porti. L’atto di pace venne stipulato per la durata di dieci anni, a nome dei sudditi, abitanti nei confi-ni marittimi, cioè gli abitanti dell’Insula majore, di gerone, di procitha, di castro sancti martini, del castro puteolano, di gipeo, dell’arcem sancti salvatoris, della civitate neapoli e del castro qui dicitur turris. (2)

In questo atto si deve opportunamente far notare l’inclusione dell’insula major e di Gi-rone come due centri distinti, con funzioni specifiche indipendenti di carattere militare. L’isolotto Girone, ormai ben saldo ed orga-nizzato, esce dalla cerchia delle sue mura e si presenta, come Procida, Pozzuoli e l’Isola maggiore, con gli stessi impegni ed incarichi importanti. D’ora in poi la civitas posta su Girone, è rappresentata dal gruppo dei suoi uomini (“ex hominibus”) che assolvono e sot-toscrivono impegni difensivi per la propria comunità.

20 La Rassegna d’Ischia 2-3/1988

Quest’atto, che aveva spinto Sergio VII ad argi-nare la crescente minaccia normanna, non influì per niente sul corso fatale degli eventi, che se-gnavano la fine del ducato. Ruggero II, conte di Sicilia, dopo essere stato incoronato re in Palermo il 25 dicembre 1130, si mosse dalla capitale del nuovo regno per pren-dere sede nei pressi di Salerno. La indipenden-za del ducato napoletano appariva seriamente colpita, il pericolo era alle porte: Tutta la città di Napoli, tutti i baroni erano in rivolta, procla-mandosi indipendenti. Ciascuno faceva quel che voleva. La pace si era allontanata dalle terre del ducato. Non vi era sicurezza alcuna né per i vian-danti neper gli agricoltori che volessero uscire dalle terre murate per coltivare la terra (3). Ruggero, entrato a Salerno, accrebbe la pres-sione della potenza normanna facendosi ungere duca di Puglia dal vescovo Alfano, appena seppe la notizia della morte di Guglielmo. Ciò non impedì però a Onorio II di scomuni-carlo e di mettergli contro una lega formata dal principe di Capua e da Rainulfo di Alife. Napoli si mantenne estranea alla lotta per salvaguarda-re la propria indipendenza. Tuttavia, atterrito dalla potenza del re, anche se non costretto dalla forza delle armi, Sergio VII va a Salerno per sot-tomettersi a Ruggero (1131): una resa umiliante, ma non sincera, impostagli dalle circostanze del momento. Ciò nonostante, la rivolta divampa. Ruggero, dopo una sconfitta subita a Nocera ad opera di Roberto e di Rainulfo, cominciò ad occupare prima il ducato di Puglia, poi passò in Campania, indi riprese Benevento, spargendo dovunque rovine e terrore. Ritornato in Sicilia, scoppiò nuovamente la rivolta dei sottomessi duchi campani. Nel 1134 Ruggero si presenta a Salerno con sessanta galee e le spedisce nel golfo di Napoli: occupa Ischia e l’isolotto Girone che da questo momento diventano normanni, ma non Napo-li perché i cittadini “prese le armi” mettono in fuga “la flotta regia” (4). Le operazioni terrestri invece precipitarono; cadde anche Capua, dove Ruggero invita Sergio a giurargli fedeltà, se non avesse voluto subire l’assedio dell’esercito normanno. L’indipenden-za del ducato di Napoli, ridotto alla sola città, rimaneva appesa ad avvenimenti storici di ecce-zionale importanza, quale la lotta gigantesca che vedeva da una parte i Normanni, che, portati dal soffio della fortuna, erano riusciti ad avere nelle proprie mani tutta l’Italia meridionale e la Sicilia. La costituzione di questa nuova e grande

potenza marittima non lasciava indifferenti le repubbliche marinare (Pisa, Genova, Venezia). L’avvio alla ripresa delle ostilità fu dato dalla falsa notizia sulla morte del re che si era diffusa con gioia nel Mezzogiorno. In realtà Ruggero era stato colpito dal dolore per la morte della moglie Elvira e, a motivo del lutto, si era ritirato per al-cuni giorni dagli affari del regno.Gli avversari che avevano creduto alla sua mor-te si riorganizzarono con una certa rapidità. Il 24 aprile 1135 giunse a Napoli Riccardo di Ca-pua con venti navi ed ottomila Pisani, accolto con gioia da Sergio VII; anche Rainulfo, nella speranza di riprendere Capua, raccoglie quat-trocento “milites” e, unitosi a Napoli, decide di riprendere la lotta.Il 5 giugno 1135, Ruggero, assetato di vendetta, si presenta di nuovo a Salerno con una grossa flotta ed un nutrito esercito. Gli alleati non sono all’altezza di poterlo affrontare su tanta vastità di fronte. Aversa è presa e distrutta, Napoli vie-ne assediata da terra, dove ogni speranza di ri-fornimenti era poggiata sugli aiuti marittimi: un assedio che durerà circa due anni. Finalmente in agosto giungono altre forze pi-sane, ma vengono per i loro interessi. Infatti occupano e saccheggiano ferocemente Amal-fi, l’antica rivale. Poi passano a depredare altri distretti amalfitani ma davanti a Fratta furono improvvisamente attaccate dalla flotta del re, in maniera da potersene ritornare a Napoli, con un ricco bottino. Durante il percorso sbarcarono a Ischia dove restano 23 giorni, aspettando inva-no il nemico. Invece Ruggero si presentava nel golfo partenopeo ritentando di prendere Napo-li da mare; la battaglia navale dell’8 settembre 1135 fu sorpresa da una terribile tempesta, che danneggiò la flotta normanna, la quale prima trovò rifugio a Pozzuoli, indi ripiegò su Salerno e di qui tornò in Sicilia, senza curarsi di cacciare il nemico dall’isola d’Ischia.

Nel frattempo i Pisani, trascorso il breve appoggio a Ischia, prima di partire per la To-scana, combinarono con gli Isclani, forse per riparare ai danni recenti e remoti inferti, un patto commerciale (1135), con cui si conce-deva ai trafficanti d’Ischia lo sgravio da ogni imposta doganale nel loro porto e nella loro città: ... Isolani Cives a tempore cuius memo-riam non habent sunt immunes ut Cives Pi-sani in ortu Pisano et in Civitate Pisana... (5).

Ruggero, non riuscendo ad espugnare Napo-li per mare, dall’autunno del 1135 fin quasi la metà dell’anno 1137 la cinse d’assedio. Questa

La Rassegna d’Ischia 2-3/1988 21

situazione, divenendo sempre più allarmante, spinse il papa Innocenzo II ad esortare Lotario II a scendere verso Napoli per schiacciare l’usur-patore del regno, ed i rappresentanti dei ducati campani a rivolgere accorati inviti al vecchio e stanco imperatore di rimettere piede nel Mezzo-giorno. Le speranze si riaccendevano! Ma il Normanno, forte e sicuro nel riprendere l’offensiva, s’affacciava con la solita ferocia sulle terre campane, occupandole. Caddero Pozzuoli, Alife, Telese, Capua. Riuscì finalmente a ridurre a duri patti Sergio VII, “lo condusse con sé nella spedizione, facendolo combattere contro il co-gnato Rainulfo, colui che non era stato mai bat-tuto in campo aperto. Il 30 settembre 1137 i due s’incontrarono a Rignano: Ruggero venne scon-fitto per la seconda volta e cavalcando tutta la notte si rifugiò a Salerno; Sergio VII invece peri-va nella battaglia, combattendo accanto all’odia-to nemico normanno e contro Rainulfo col quale aveva per anni condiviso pene e speranze. Ruggero, anche se sconfitto, appariva sempre il padrone della situazione. Ma, a far cessare la lotta, fu la morte del suo irriducibile avversario, Rainulfo, avvenuta a Troia il 30 aprile 1139. Non contento di ciò, il re esplose la sua feroce ven-detta sul cadavere del prode guerriero, facendo-lo disseppellire e buttare in una palude, mentre sul ducato di Napoli poneva la pietra tombale. Che cosa era accaduto a Ischia e sull’Isolotto durante questo intervallo di tempo? Le fonti, dopo il ritiro dei Pisani, tacciono fino al 1179 e non consentono se non ipotesi. In seguito al patto marittimo, stipulato con i Pisani, dopo la pacificazione con Ruggero, il commercio ven-ne intensificato, in particolare con il passaggio dei mercanti e di navi provenienti da altri porti; all’ombra dell’Isolotto Girone dondolavano navi

pisane e normanne accanto a quelle isclane; il burgo di mare, la villa in terra plana con l’epi-scopio, la cattedrale, i palazzi dei protontini e dei ricchi mercanti avevano acquistato un valore molto più ampio e di maggiore prosperità. Di-fatti possiamo ritenere che agli inizi del 1100 la diocesi di Ischia era stata già eletta ed il capitolo cattedrale godeva il diritto di nominare il vesco-vo durante la vacanza (6). Al concilio lateranen-se, invocato da Alessandro III (1179), intervenne pure il vescovo di Ischia, Pietro II, con firma die-tro al vescovo di Napoli, Sergio III. Con la dominazione normanna Ischia ritorna alla normalità, si accentua la vita marittima, si allarga il tessuto urbano verso la campagna. Comincia un periodo di benessere. Il carattere religioso di Ruggero permetterà negli affari ge-nerali della nuova amministrazione civile di Na-poli, sia l’ingerenza ecclesiastica, sia quella dei “nobiliores” giuridicamente eletti.

Pietro MontiNote1) R. Cisternino e G. Porcaro - La marina mercantile napo-letana dal XVI al XIX sec. - Ed. F. Fiorentino, Napoli 1954 p. 8 — N. Fortunato - Riflessioni intorno al commercio an-tico e moderno del Regno di Napoli - Stamperia Simoniana 1760, p. 48.2) Codex Cajetanus, Montecassino 1888, II, p. 242 — Ca-passo - Mon. ad Neap. Duc. Hist. peri. - II, p. 196.3) A. Telesino - De rebus gestis Rogerii Siciliae Regis libri quattuor, in Cronisti e scrittori sincroni napoletani a cura di G. Del Re, Napoli 1845, II, 64-126 e not. a n. 98.4) Le fonti essenziali sono le cronache di Alessandro Tele-sino e di Falcone di Benevento.5) A. Lauro - Tra il ponte e gli scogli di Sant’Anna sorse nel 1200 il primo porto di Ischia - in “Ischia Oggi”, rassegna turistica illustrata... Tip. STEN, Napoli 1965, p. 7: Oltre a porto di smistamento commerciale divenne anche centro di difesa e di attacco militare con la nascita del castello sull’isolotto.6) A. Lauro - Ischia in alcuni documenti Pontifici del Due-cento - Centro di Studi su l’Isola d’Ischia, Roma 1964, p. 16.

Convegno Lega per l’Ambiente Il Circolo dell’isola d’Ischia della Lega per l’Ambiente proseguirà la sua azione di sensibilizzazione sociale verso il problema dell’ambiente, puntando a sollecitare i pubblici poteri, affinché la politica dell’assetto ter-ritoriale dell’isola sia ripresa. Così si è espresso il prof. Nicola Lamonica, concludendo il seminario di ecologia organizzato dalla Lega per l’Ambiente. Bisogna incrementare il nostro impegno - ha detto Lamonica - in modo che maturi nella popola-zione una coscienza ecologica tanto più necessaria in un’isola come Ischia, dove esiste una economia turisti-ca matura legata al termalismo e dove l’ambiente è elemento essenziale della stessa economia. Il presidente del 24. Distretto scolastico, prof. Vincenzo Mennella, ha auspicato una collaborazione sempre crescente tra associazioni ambientalistiche e la scuola, affinché la conoscenza in materia ambientale aumen-ti sempre di più, soprattutto nei giovani. L’attenzione della stampa locale sui problemi dell’ambiente è stata sottolineata dal presidente dell’Associa-zione della Stampa Isolana, Giuseppe Mazzella: Noi possiamo soltanto denunciare, annunciare e suggerire soluzioni, ma la risoluzione dei problemi spetta alla classe dirigente, la quale deve avviare una rigorosa politica di pianificazione territoriale, per difendere il patrimonio paesaggistico.

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Come è venuto SAN CIROnella Corteglia della Villa

dei Bagni di Ischia

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San CIRO fu medico, eremita e martire per la fede vissuto in Egit-to nel III secolo dell’era cristiana. Sappiamo relativamente poco della sua vita, ma le verità storiche ben mescolate alle leggende ed arric-chite di racconti sui suoi miracoli, ebbero la forza suggestiva e con-vincente a tal punto che il culto del santo si diffuse gradatamente in molte terre cristiane.

San Ciro nacque ad Alessandria d’Egitto, ivi esercitò l’arte medi-ca, ebbe presto fama di guaritore e successivamente si fece monaco ed eremita. Il fervore religioso uni-to all’impegno professionale nel campo tanto delicato e prezioso per l’uomo quale è oggigiorno, come lo fu allora, la salute, fecero di Ciro un personaggio autorevole e conosciu-to già dai suoi contemporanei. Non è superfluo considerare che egli fu medico dei corpi e delle anime insieme. I tempi per i cristiani di allora erano tristi davvero, le per-secuzioni sotto Diocleziano passa-rono alla storia come le più crudeli e spietate.

Un giorno Ciro d’Alessandria in-sieme a Giovanni d’Edessa, ex sol-dato romano associatosi al medico nella vita di opere buone e di inten-se preghiere, vennero a sapere che quattro cristiane di Canopo, poco distante da Alessandria, erano sta-te arrestate e condannate a morte. Ciro e Giovanni si portarono a Ca-nopo per incoraggiare le donne a non venir meno alla loro fede, ma furono anch’essi fermati e condan-nati alla pena capitale. Gli uni e le altre furono decapitati il 31 gennaio 303.

Presso il santuario egiziano dedi-cato ai santi martiri si registrarono numerosi casi di guarigioni mira-colose. ABA CIRO diventò per gli Arabi ABUKIR - oggi nome di una città, di un lago e di una baia ma-rina nelle vicinanze di Alessandria d’Egitto.

Dopo la distruzione del santuario le reliquie dei due martiri furono in seguito trasportate a Roma. La venerazione dei due santi Ciro e

Alina Adamczyk Aiello Giovanni si propagò anche fuori dall’Egitto: numerose opere lette-rarie attestarono questa diffusione. In Italia, non si sa bene perché - ma forse perché il nome di San Gio-vanni si confondeva facilmente con altri santi portatori del medesimo nome - la devozione per San Ciro prevalse. Nel Vicereame di Napoli il culto di San Ciro prese consisten-za dal secolo XVI in poi. A Napo-li, nella storica e fastosa chiesa del Gesù Nuovo sono conservate le ve-neratissime reliquie del Santo col-locate nella Cappella dedicata a lui. I fedeli della parrocchia di San Ciro a Porto d’Ischia hanno visitato quel luogo l’autunno scorso nel viaggio di ritorno dal pellegrinaggio al san-tuario della Madonna di Monte-vergine. Questo omaggio collettivo reso al Santo, patrono e protettore, volle porre l’attenzione sull’impe-gno della comunità parrocchiale nei confronti degli ideali cristiani.

Durante il regno dei Borboni i contatti dell’isola con la terrafer-ma, con Napoli stessa, si fecero più intensi e così anche Ischia conobbe il culto di San Ciro che insieme con altri 19 santi è protettore della città di Napoli.

I medici in generale hanno come santi protettori: San Ciro, San Bia-gio, i Santi Cosma e Damiano, San Lamberto, San Luca Evangelista

e San Pantaleo. Tuttavia a Ischia prevale l’attaccamento a San Ciro, questo da parte sia dei medici sia dei malati.

Come è venuto San Ciro nel-la Corte-glia della Villa dei Ba-gni d’Ischia è il titolo del mano-scritto consegnatoci dalla 72enne signorina Rosaria Montagna che gentilmente e con molti particolari racconta del culto al Santo. Citiamo senza correzioni:

— Ciro Montagna all’età di anni undici le morì il padre fu costretto lasciare la scuo-la e andare a lavorare nella muratura. Se lo presero con se un muratore si chiamava Giovanni ‘e Cangiurrone. Lo voleva bene come un figlio proprio perché Ciro Monta-gna era capo famiglia, era la Mamma, la sorellina e due fratellini. Il masto ci teneva tanto per farlo imparare al più presto così guadagnava di più. All’età di anni diciotto Ciro Montagna divenne ma-sto di muratura perfetto. Se nonché Ciro aveva una sua cugina paralitica con tutte due gambe abitava proprio nella corteglia a sinistra come si scendono i scalini. Questa cugina di Ciro si chia-mava Mariantonia De Filip-po e la chiamavano priatoria, perché era paralizzata. Un bel giorno pensò di parlare al suo cugino Ciro e dire. Ora sei masto e voglio da te una gio-ia mi devi costruire una pic-cola chiesetta e tanto grande il mio desiderio di ascoltare una SS. Messa Ciro le rispose /priatoria/ io non ho terreno come faccio?

Pensò a dirlo a un uomo di nome Messina A niello. Le disse zio Aniello priatoria mi piange che vuole una chie-setta per ascoltare una santa Messa voi che ne dite mi date un pò ‘ di terreno e la faccia-mo contenta?

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Zio A niello le rispose -figlio mio metti la lenza e prendi il terreno e fai la chiesa a pria-toria. Allora si andava a la-vorare con la lanterna, e Ciro dopo una giornata di lavoro la sera si scavava le fonda-zioni quante volte la mam-ma l’andava a prendere nelle fondazioni quasi svenuto per il freddo e per la fame - l’otto settembre del 1888 Ciro inau-gurò la prima prietra alla Chiesetta, la priatoria sapeva fare tutto con le mani intanto si preparava tutto il corredo a ricamo e merlette tutto ciò che serviva alla chiesetta.

Tanto festeggiarono l’inau-gurazione della prima prie-tra tutta la notte ammazza-rono molti capretti donato da zio A niello Messina zé Car-menella e Damiano Messina i vecchietti e le donne del rione si mangiava e si danzava con serrecchie e triccabballacchi.

Ciro Montagna pensò che da solo era troppo allungo per portarla a termine per-ché Ciro di giorno doveva la-vorare e di notte lavorava la chiesetta. Penso e invito un suo amico di nome Francesco Baldino l’amico accetto anco-ra e invito altri due - erano due fratelli di nome Giuseppe Stella e A ntonio Stella - ac-cettarono -eia domenica era-no quattro a lavorare.

Nel 1896 fu portato a ter-mine la chiesetta intitolata Maria SS. di Montevergine. E Ciro disse hai suoi compa-gni. La chiesetta è finita io ora farò un quadro che porta il santo del mio nome farò S. Ciro. Francesco Baldino fece S. Francesco gli altri due S. Antonio e S. G. Giuseppe. La fede verso S. Ciro cresceva giorno per giorni. La priato-ria era felice un sacerdote di nome Don Leonardo quando

veniva a celebrare la S. Mes-sa la prendeva con tutta la sedia e la portava nella chie-setta ed ella ci*serviva anche la S. Messa in latino.

Ciro aveva un fratello di nome Raffaele Montagna fu colpito da un male alla gola non c’erano speranze da sal-vare. Il giovane disse al fra-tello Ciro - vai nella chiesetta prendimi il quadro di s. Ciro portamelo qua da me -Ciro glielo portò. Il giovane Raffa-ele le disse. S. Ciro tu sai che io ti voglio tanto bene, prega Dio per me fammi ottenere la guarigione. Io non mi sposo indosserò l’abito come l’ari tu farò la questua e ti farò la tua statua. Dopo due giorni Raf-faele ebbe la grazia. Uscì fuori tutto il male che gli stava alla gola. I medici credettero tutti alla grazia ricevuta. Raffaele indossò labito da monaco fece la questua e fece S. Ciro - que-sto che ora veneriamo che ora sta nella chiesa grande. La piccola chiesetta sta sempre ben tenuta la chiesa grande e divenuta una grande parroc-chia e ben custodita dal Par-roco Don Luigi Trofa e dalle Suore Missionarie —

Gli abitanti di Ischia Porto sanno bene di quale chiesetta si tratta. La minuscola costruzione rosa e bian-ca con il grazioso piccolo campanile - tutto recentemente restaurato - è la “piccola chiesa di San Ciro” - co-struita cent’anni fa dal padre della signorina Rosaria Montagna.

“La grande chiesa di San Ciro” -l’attuale parrocchia - è venuta dopo. Costruita negli anni 1922-30 sul suolo donato dal cav. Giovan Battista Di Meglio, è intitolata a San Ciro.

Mons. Ernesto Castagna è stato il rettore fondatore.

Quest’anno cade il centenario di

nascita e il ventennio della morte del popolare sacerdote che fu an-

che il segretario del comitato per il nuovo tempio. La chiesa grande / 27 metri di lunghezza, 11 di lar-ghezza, metri 21 nella crociera / fu costruita ad opera del maestro d’arte edilizia Ciro Montagna, con la direzione tecnica del Cav. Ing. Vincenzo Trani. Molti collaboraro-no alla realizzazione della chiesa, con le generose offerte e con l’aiuto di ogni forma e genere. Nel 1967 il decreto vescovile di Mons. Tomas-sini elevò la chiesa di San Ciro a dignità di parrocchia. Il riconosci-mento civile avvenne nel febbraio del 1973 con il relativo documento della Presidenza della Repubblica Italiana.

Il primo parroco è don Luigi Tro-fa che tutt’oggi svolge la sua opera sacerdotale. L’impegno pastorale di don Luigi Trofa unito e concorde con il Comitato parrocchiale nella comprensione dei problemi sociali e culturali della comunità ha porta-to alla realizzazione di varie inizia-tive in tal . senso.

La Parrocchia di San Ciro dispo-ne di due saloni per le attività ricre-ative, formative, catechetiche e cul-turali, una biblioteca parrocchiale è in fase di allestimento, l’asilo per bambini gestito dalle suore “Piccole Missionarie Eucaristiche” da quasi 40 anni senza interruzione è una struttura sociale esemplare e mol-to apprezzata da tantissime mam-me ischitane. Sono diventati ormai tradizionali i “giochi del quartiere” per gli adolescenti che impegnano ed attraggono ragazzi altrimenti condannati all’ozio ed alla noia; si svolge qui una intensa attività dei gruppi neocatecumenali e così via. La parrocchia di san Ciro è a tutti gli effetti una cellula sociale valida e ben funzionante.

Alina Adamczyk Aiello

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La favolata ecologicaC’erano una volta gli anfibi

C’erano una volta a Casamicciola, comune dell’iso-la d’Ischia, gli anfibi. Diversi erano gli anfibi che vive-vano in tale località, soprattutto nelle zone più umide e nei ruscelli a lento decorso.

Questo ci fa capire che per gli anfibi l’acqua è molto importante; pur essendo in grado di vivere per bre-ve tempo sulla terra emersa, non si allontanano mai troppo dall’acqua. Infatti sono provvisti di polmoni, ma la loro respirazione avviene soprattutto attraver-so la pelle che perciò deve essere mantenuta sempre umida.

Nei ruscelletti che dall’Epomeo scendono verso il mare (soprattutto dalla parte dei Maronti) vivono tuttora numerose rane e, se si guarda nell’acqua nel giusto periodo dell’anno, si possono vedere gli am-massi di uova che le rane femmine hanno deposto nel ruscello, avendo cura di farle rimanere attaccate alle rocce e ai rami che si trovano sul fondo, in modo da evitare il rischio che le suddette uova vengano porta-te via dalla corrente.

Ricordo che un tempo (poco più di una ventina di anni fa) anche a Casamicciola esisteva un ruscelletto che portava al mare l’acqua che sgorgava da una pic-cola sorgente situata nei pressi della cima del monte Buceto. Ma ormai in questo fiumiciattolo sono stati convogliati gli scarichi di centinaia di pozzi neri ed il ruscelletto è ormai ridotto ad una fogna.

Ricordo che lungo le sponde di questo piccolo cor-so d’acqua noi (allora ragazzetti di scuola elementa-re) trascorrevamo gran parte del tempo libero gio-cando con l’acqua limpida e ammirando le rane che saltellavano dappertutto, cibandosi degli insetti che riuscivano a catturare sparando fuori la loro lingua lunga e appiccicosa.

E durante il corso dell’anno si poteva vedere come dalle uova si sviluppavano piccoli girini dalla lunga coda che poi cadeva, nel mentre che si formavano le due paia di zampe. Le acque del ruscello brulicavano così di piccolissime rane ormai del tutto simili alle loro mamme.

Ma ormai tutto ciò è solo un bel ricordo grazie al progresso che si è avuto negli ultimi tempi in tutta l’isola d’Ischia.

Sul territorio isolano vive anche un altro animale appartenente al gruppo degli anfibi: è il rospo, che si può incontrare talvolta sotto le “parracine” umide.

Una volta questi animaletti erano numerosissimi nelle nostre campagne, ma ultimamente, grazie all’ uso nell’agricoltura di anticrittogamici sempre più potenti, sono quasi scomparsi.

Riflettendo su tali fatti mi auguro soltanto che que-sto cosiddetto “progresso” non faccia scomparire dal pianeta terra tutti gli animali, compreso l’uomo stes-so.

Rodrigo Iacono

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Cava dell’isola scompare un distinto e

riservato spazio di quieteAL MARE

D’INVERNO

11 febbraio ore 17,12.

Un sole pallido ed una fila di bizzarre nuvole si trastullano rincorrendosi al tramonto. Di-scendo iprimi 10gradini, i 13 di un versante ad U ed infine tutti gli altri che col loro percor-so seguono il fianco del dirupo. Dopo la scala la stradina, una volta sentiero e ancor prima viottolo angusto dai confini incerti. Chi si avventurava attraverso l’oscurità delle esuberanti e lussureggianti canne palustri tra il profumo del muschio e i gruppi di felci, come in una itine-rante e personale diaspora, cercava un luogo privo di condizionamenti dove poter riscoprire il vecchio, cercare il nuovo, incontrare lo scontato e il proibito. Ora contaminata da piccole auto

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che ne deturpano la traccia, la strada è la-stricata qua e là dal cemento che non riesce a nascondere il rigagnolo a tratti melmoso come una volta faceva la terra nuda. Tutt’in-torno le case aumentano, come per magia, il loro volume e le canne palustri costrette a ritirarsi danno spazio alla cupa via che con una curva a destra e una a sinistra conduce al mare. La striscia di sabbia è protetta da una

spalliera di tufo scarsamente cementificato. Il costone accentua il proprio dislivello man mano che si avvicina alle due estremità. Una volta la ricca vegetazione rendeva magica l’insenatura. Ora, incalzata dalla forza del vento e del mare, disboscata e sterrata, pre-senta in più punti profonde ferite. Seguendo il ciglio dell’altura, cinque grossi recipienti, con quello centrale più alto e più sottile, su un tozzo piedistallo, catturano l’attenzione perii contrasto arcaica-forma recente-ce-mento. Un gruppo di canne palustri molto provate dalla stagione avversa già portano i segni della stagione che si approssima. Due ceppi malamente sradicati si mescolano alle mattonelle, al vecchio intonaco, alle pietre, per abbozzare un rude terrazzo. Dietro, le

ombre di alcuni operai che, malgrado l’o-ra, lavorano lestamente intorno alla nuova costruzione. Dai primi tre vani-porta spic-ca il bianco dell’intonaco fresco. Segue un arco, ancora un vano, un altro arco tagliato a metà. Un ‘ala della costruzione si protende in avanti; a terra un telaio attende di essere fissato. Tre piante di noci spoglie celano male le

baracche di quello che una volta era un vil-laggio turistico. Ora la desolazione e l’ab-bandono. Il cane che fedele mi aveva seguito si avvicina. Nei suoi occhi misoneici vedo il villaggio sgombrato, ripulito, rivestito di al-beri e canne da chi ha consentito lo scempio. Sorrido contento e incredulo per questo de-siderio-sogno da cane. Sotto il villaggio quel-lo che rimane delle diverse frane che hanno divelto quel tanto di rachitica vegetazione rimasta. In alto ancora un’altra costruzione irrompe col suo sguardo indiscreto. E’ un’a-la dell’albergo che stanno costruendo sullo sperone della collina al di là della strada che costeggia con circospezione la spiaggia. Le Pietre rosse impavide con la loro dura

struttura sfidano la forza dei flutti marini. Sopra il costone di tufo velocemente retro-cede. In tre anni è cambiato tanto. Un in-

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sieme di grotte chiudevano la spiaggia ver-so Citara. Grotte che divenivano, di volta in volta, spogliatoio, rifugio per furtive carezze, riparo nei giorni di tempesta. Ora la forza erosiva del vento e del mare le hanno com-pletamente cancellate. Malgrado tutto, lo spettacolo che si può

ammirare resta per molti versi suggestivo. Punta Imperatore ricoperta di verde con il faro bianco, il mare con le nere rocce lavi-che che emergono qua e là, la Pietra saccaia, finemente lavorata dalle forze della natura. Ma basta spostare di poco lo sguardo da quest’ultima emblematica forma per essere feriti dalle travi di cemento che hanno fal-cidiato una porzione di collina rendendola cancrenosa. Gli ultimi bagliori di sole fanno fatica a

incontrare spazi in cui riflettersi. Grandi quantità di energie permeano masse d’ac-qua che in rapida successione s’intersecano dissolvendosi. Uno spesso gruppo di nuvole chiude gli ultimi squarci di azzurro e il cielo si fa cupo. La grossa distesa d’acqua si tinge di un luminoso grigio perla, mentre creste bianco-spumeggianti dominano lo sguardo in lungo e in largo. Il mare d’inverno... il mare d’inverno incu-

te timore. E non solo per il roboante scroscio dell’acqua che si risolve in mille labili bolli-cine sulle rocce e sulla spiaggia, ma per tutto quello che evoca. Una fascia di terra dove si svolgeva gran parte della vita economica e commerciale completamente scomparsa. Una striscia di terra che si stendeva da Pun-ta Imperatore a Zaro con terreni coltivati e “terreni... incirca infertili, essendo sotto-posti al vento et a tempesta “ (Pietro Mon-ti - Ischia: archeologia e storia) che nel non lontano 1650 si stendevano oltre la chiesa del Soccorso che non esistono più. 0 ancora il mulino a vento sulla marina di Ajemmete che serviva per macinare il “grano prodotto in loco “. Terre che appartengono ormai alla storia di quelle ingoiate dal mare. Un mare terribile capace di cancellare anche l’im-pronta di chi non ha altra possibilità che il proprio lavoro per testimoniare il passaggio. Mare crudele capace di pietrificare madri,

avvolgere nella disperazione e nel pianto spose e figli quando un amaro destino recide la vita tra onde assassine. Il mare d’inverno... il mare d’inverno in-

cute rispetto. La sua veemenza trasmette il pullulare di vita che nasconde in grembo. Vita che ha visto nascere e sviluppare. Vita che per molto tempo ha gelosamente e inte-gralmente conservato. D’altronde basta al-lontanarsi poco dalla riva ed entrare in una delle praterie di posidonie che circondano l’isola per accorgersi di quanto sia comples-so questo microcosmo. Organismi mobili e fissi che vivono sopra lo stato fogliare, fau-na mobile che vive nella colonna d’acqua tra le foglie, organismi mobili e fissi che vivono nei rizomi, alla base dei ciuffi o sopra il se-dimento. Il mare... il mare d’inverno ha il sa-sapore

della malinconia. Ci rende coscienti con la mistificante linea d’orizzonte e le minuscole e impalpabili particelle della nostra dimen-sione di esseri sospesi tra l’infinito e l’infini-tesimo.

*** D’inverno la spiaggia è vuota, non ha vi-

sitatori. D’inverno la spiaggia è immensa, si offre con

ogni suo angolo. D’inverno questa spiaggia attende, attende

per nascondersi. Dietro i mille colori, i motivi portati dal vento, i berci, le parole sussurrate.

Una volta sfoggiava rigogliosa vitalità e non pochi se ne accorgevano.

Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Enzo Siciliani, Aldo Pagliacci, Libero De Libero, Car-lo Ferdinando Russo, Francois Fejtó, Eduardo Bargheer, Ernst Bursche, sono solo alcuni dei nomi che “le” hanno reso omaggio. Ora che è uf-ficialmente inagibile e si ricopre quasi del tutto di corpi non ha più nulla da concedere.

Cerco di intuire la traccia delle mie impronte sulla sabbia, la perdo tra mille oggetti. Un por-tapiatti si appoggia ad un vecchio scaldabagno ammaccato e arrugginito in più punti. Segue un flacone di pillole dietetiche, un contenitore di gelati alla cioccolata, e alla nocciola, l’astuc-cio della crema abbronzante, l’ampolla di quel-la rassodante. Un pallone sgonfio sostiene un barattolo di detersivo che ancora recita: “Più bianco non si può”. Quasi allineati un tubo del gas, tre bottiglie opache aperte lungo i lati, un

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dentifricio. Una chiazza di petrolio copre a metà un gruppo di alghe e tiene prigioniera la spugna. Più avanti un cucchiaio ed una siringa.

Il mare d’inverno è sincero. Scaraventa con forza quello che si cerca di nascondere nel suo grembo, radiografa la nostra esistenza.

Vado via con passo veloce rimuovendo ogni possibile coinvolgimento. A metà percorso, al-cuni vivaci colori. Mi avvicino. Gli abiti di una bambola che fa di tutto per farsi notare, bella, fiera, dominatrice, una vera regina, proprio così una regina.

Se fosse venuta molti inverni fa, avrebbe go-vernato su mucchi di alghe, di spugne, di tronchi d’albero. Ora deve gestire solo immondizie, tan-ta immondizia.

Mi fa quasi tenerezza questa regina dell’im-mondizia. Mi avvicino ancora per poterla guar-dare in volto. Ahimè, la regina si sottrae agli sguardi troppo intensi, non ha occhi, non può vedere. Povera regina non sente, non può senti-re, ma poi dove si è visto che una bambola ascol-ta. Questa regina non parla, ripete biascicate pa-role pensate da altri.

Turbato mi approssimo alla risalita. Al punto ristoro due occhi mi scrutano e ve-

locemente scompaiono dietro una colonna di cemento frettolosamente alzata durante le as-senze invernali. Un ‘altra ombra lascia cadere un badile dileguandosi. Ma perché, mi chiedo, ci si nasconde, se la bambola non vede, non sente e non parla?

Dall’alto della strada gli ultimi sguardi. Il buio avvolge lentamente ma inesorabilmente l’inse-natura. Resta il rumore del mare a testimonia-re le lotte e i drammi del microcosmo appena lasciato. Nell’oscurità una figura si avvicina. Mostra una roccia ed un pezzo di tufo. Con insi-stenza chiede un assenso. Ma i miei occhi sono lontano, fissano un ceppo di canne che chiedono solo un po’ di rispetto per poter germogliare, un po’ di affetto per poter vivere.

Carmine Negro

Dal 14 al 17 aprile 1988XV INCONTRI INTERNAZIONALI

ISOLA D’ISCHIA Dal 14 al 17 aprile 1988 si terranno ad Ischia, presso

l’Hotel Continental, i XV Incontri Internazionali Isola d’I-schia, organizzati dal Centro Internazionale di Cultura, dal comune di Ischia e dall’Azienda di cura, soggiorno e turi-smo, con il patrocinio del Ministero Turismo e Spettacolo, della Regione Campania, del Banco di Napoli e della Soc. Caremar.

Sono previsti interventi in merito ai seguenti argomen-ti generali: Attualità sulla medicina dello sport - Problemi di uro-andrologia - La sanificazione ambientale - Boetica - Salute e turismo I due poli interdipendenti - Orientamen-ti attuali in immunologia in confronto di diverse patologie umane.

La manifestazione comprende anche un vasto program-ma sociale con incontri artistici, culturali e musicali. Presso i saloni dell’Hotel Continental le tele di Mariolino Capua-no, Laura Tarantoils, Gianluigi Verde, Liana d’Ischia, Ma-rio Ferrandino, faranno da cornice ai XVIncontri Interna-zionali d’Ischia.

30 La Rassegna d’Ischia 2-3/1988

TINERARI CAMPANI

Il Museo in S. Lorenzo Maggiorea Napoli

di Giuseppe Alparone

Debbo alla cortesia di P. Oreste, priore del convento dei Francescani in S. Lorenzo Maggio-re a Napoli, il dono del catalogo di questo pic-colo interessante museo, nato dal trasferimento di tutte le pitture esposte alla mostra del 700 in Palazzo Reale danneggiato dal terremoto del 22 novembre 1980. Il meglio di ciò che racchiudeva il contenitore (vocabolo caro al compianto so-printendente Raffaello Causa) è servito a creare nei locali adiacenti la torre Masaniello un nuo-vo museo, che era la pupilla degli occhi del P. Giovanni Recupido, ed è stato chiuso al pubblico dopo la sua immatura scomparsa, ordinato da due giovani funzionarie della Soprintendenza ai B. A. S. di Napoli, Linda Martino e Mariaserena Mormone, che firmarono il pieghevole provviso-rio e successivamente il catalogo apparso nell’85 (1).

Ogni libro che, come il catalogo di un museo, presuppone un impegno culturale, io per abitu-dine comincio a leggerlo dalla bibliografia, che qui, purtroppo, presenta un vuoto di 47 anni, dal 1891 al 1938. Mancano all’appello, in parole po-vere, Luigi Serra, Adolfo Venturi, Aldo De Rinal-dis, Raymond van Marie, Costanza Lorenzetti, nomi che fanno passare inosservata l’assenza del mio e di quello dell’amico Luigi Kalby, docente all’università di Salerno. Nella nota a due tavole provenienti da S. Angelo a Nilo è riportata la mia opinione riguardante Stefano Sparano, ed il mio cognome è sibillinamente seguito da una data e dai numeri che il lettore non potrà riscontra-re nella bibliografia generale, come vi cercherà inutilmente Classicismo e maniera nell’officina meridionale, libro ferocemente stroncato, an-che nei refusi tipografici, perché l’amico Kalby si era permesso di non condividere l’opinione di uno dei membri della consorteria che nel set-tore oggi fa il bello ed il cattivo tempo, tesi poi mutata nel catalogo della mostra di Andrea da Salerno, e destinata anch’essa, a mio parere, a non durare molto.

Nel ‘76 apparve in Calabria un volume di no-

tevole impegno: Arte in Calabria. Ritrovamenti, restauri, recuperi, collegato alla mostra che si tenne a Cosenza, seguito poi nell’81 da un altro: I beni culturali e le chiese in Calabria. Nel primo la bibliografia registra gran parte della mia colla-borazione a BRUTIUM, la rivista che si stampa a Reggio Calabria dal 1922; nel secondo il mio nome è scomparso completamente, poiché nel frattempo avevo messo nero su bianco opinioni troppo personali sul trittico di S. Teodoro a Lai-no e sul S. Sebastiano campeggiale nella coper-tina del primo dei due volumi, dirottandone la paternità su artisti differenti. Chi non condivide non esiste, atteggiamento che fa pensare a quel-lo dello struzzo.

Chiusa la parentesi di costume, occupiamo-ci del museo, il cui catalogo dimostra un arric-chimento notevole rispetto al pieghevole prov-visorio, e che potrebbe costituire un ottimo complemento di musei di gran lunga più vasti ed importanti per la conoscenza di tanti autori, soprattutto mostrani, che nella magnificenza dei musei maggiori, dove si isolano opere importan-ti e famose, finiscono peressere confinati nei de-positi. E’ il caso di tele di Carlo Sellitto, Paolo Domenico Finoglia, Agostino Beltrano, Massi-mo Stanzione, Guido Reni; Francesco Gessi, lo Spagnoletto, Matthias Stomer, i due Fracanza-no; Domenico Gargiulo, Giovanni Ricca, Car-lo Rosa, Giovan Battista Spinelli, Domenico di Nardo, Luca Giordano, Tommaso Fasano, Fran-cesco Solimena, Domenico Antonio Vaccaro, Giuseppe Tomaioli, una delle scoperte della mo-stra del ‘700, qui presente con una delicata Visi-tazione f. e. d. 1750. Accanto a tali nomi operosi nei due secoli aurei della pittura napoletana, certo non si possono ignorare le sculture lignee, e fra queste un bellissimo S. Giuseppe firmato da Giuseppe Picano.

Di notevole interesse anche il piccolo gruppo di ceramiche, soprattutto alcune delle mattonel-le che Gioviano Pontano adoperò per pavimen-tare la sua cappella in via dei Tribunali, ed altre un tempo nella cappella Pisanel-li in S. Lorenzo Maggiore.

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La sezione più interessante mi pare quella che raggruppa dipinti rinascimentali e potrebbe considerarsi un contraltare ai musei dove que-sto periodo è presente assai più nei depositi che nelle sale.

Si potrebbero qui ammirare pezzi molto rari, anche di autori non napoletani, come una Depo-sizione firmata dal fiorentino Giuliano Bugiar-dini, e la Madonna con i ss. Giovanni Battista e Paolo proveniente dai ss. Severino e Sossio, nella quale Ferdinando Bologna identificava il dipinto di Girolamo da Cotignola che Giorgio

Vasari citava con la collocazione in S. Aniello a Caponapoli. Non meno interessante il trittico Madonna col Bambino e quattro santi, già nel-la chiesa di S. Monica, per cui alla attribuzione longhiana ad Arcangelo di Cola da Camerino le due autrici del catalogo hanno preferito quella più recente al Maestro dei fratelli Penna formu-lata da Ferdinando Bologna. Fra l’altro ricorde-remo una Madonna delle Grazie proveniente da S. Giovanni a Carbonara, molto influenzata dall’arte del Vasari, siglata 1556 T, iniziale un tempo ritenuta di Cesare Turco, successivamen-

Antonio Rimpatta - Angeli musicanti (particolare)Monteoliveto Maggiore - Cappella di S. Sclastica

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te di Decio Tramontano: tesi, a mio modesto parere, confermata dal restauro dell’Annuncia-zione f. e. d. 1583, appartenente al convento di S. Giovanni del Palco a Taurano, che ha riscoperto angeli bellissimi e molto simili. Con l’opinione di Giovanni Previtali che ne vuole autore Girola-mo Imparato è ricordata un’altra Madonna delle Grazie proveniente da S. Maria della Sapienza, ma nei riferimenti biografici la prima notizia su tale artista dovrebbe essere abbassata dal 1573 al 1568, la data accanto alla firma IMPARA-TUS in una lunetta con tre Sante martiri affrescata a S. Angelo in Formis, inedita fino a quando non venne pubblicata da me su “Arte Cristiana” in-sieme ad una Madonna e Santi all’altare della congrega dei fruttivendoli in via Postica Madda-lena nelle vicinanze di Castel Capuano.

Riportando opinioni di Giovanni Previtali e Pierluigi Leone de Castris vengono elencati di-pinti di Francesco Curia, Marco Pino, Teodoro d’Errico.

Desidero soffermarmi su due dipinti molto belli, per esprimere opinioni molto persona-li che mi meriteranno a posteriori l’ostracismo bibliografico che in questo catalogo mi è stato inflitto, con ogni probabilità in ottemperanza ad ordini di scuderia. Una tavola molto stimolan-te per gli studi sulla pittura nel Meridione è il S. Michele, che in questo museo è stato esposto libero dalle lamine argentee che lo rivestiva-no in parte quando era all’altar maggiore della Chiesa di S. Arcangelo a Segno. Nel pieghevole e nel catalogo è ricordato che un tempo andava sotto la paternità di Angiolillo Boccadirame (la grafia esatta era Roccadirame, un nome fasullo, originato, secondo Raffaello Causa, dalla catti-va lettura della firma di Angiolillo Arcuccio) ma adesso il funzionario Pierluigi Leone de Castris lo ritiene appartenente alla cerchia di Francesco Pagano. Tale opinione tira in ballo la pala nel-la congrega dei ss. Michele ed Omobono, della corporazione dei sarti, che secondo Federico Zeri sarebbe di Riccardo Quartaro e Ferdinando Bologna propone, invece, a Francesco Pagano, da lui recuperato in maniera ipotetica, ma a mio parere non c’è altro in comune che il soggetto: S. Michele. L’esame della fisionomia dell’Arcange-lo ci porta a quella di un angelo in un affresco nella cappella di S. Scolastica a Monte Oliveto Maggiore (SI), che pochi anni or sono Anchise Tempestini at-tribuiva al bolognese Antonio Rimpatta. Questi fra il 1510 e l’I 1 era presso i Francescani di S. Pietro ad Aram (2) per i quali dipinse con estrema lentezza una Madonna e Santi, che venne confiscata da Gioac-

chino Murat ed è oggi nei depositi di Capodimonte, unica opera documentata, che servì a Federico Zeri per formare un primo catalogo di Antonio Rimpatta (3), poi notevolmente accresciuto dal Tempestini (4). Il confronto fra il S. Michele in questo museo e l’an-gelo a Monte Oliveto Maggiore può essere utile ad “entrambe le tesi che in tal modo vengono ad incro-ciarsi.

L’altra tavola, una raffinata Madonna col Bambino, è pubblicata a p. 17, ed in quella precedente le due autrici ricordano attribuzioni ad Antoniazzo Roma-no, poi quella a Francesco Citino, dovuta a Raffaello Causa (da loro accolta nel pieghevole uscito quando il Soprintendente era ancora in vita), infine la tesi di Maria Pia Di Dario Guida che in “Arte in Calabria” propone il dipinto a Cristoforo Faffeo, il cui nome appare anche nella didascalia sotto la figura a p. 17. Il nome di Antoniazzo Romano risale al Berenson, che molto probabilmente non vide mai questa Madonna, se definisce l’opera not traced. Nel 1934 il Van Marie (5) scriveva: ...it betrays the combines influence of Fiorenzo di Lorenzo and Antoniazzo Romano... Nel 37 Costanza Lorenzetti la faceva uscire dall’inedito (6) e con molte lodi l’attribuiva a Melozzo giovane, con affinità con l’Annunciazione Gardner. Negli anni 50 Raffaello Causa la metteva in evidenza come l’o-pera più bella di Francesco Cicino (7), e negli anni 70 Kalby in “Classicismo e maniera” l’includeva nel catalogo di Mario di Laurito ed infine la Di Dario Guida in quello di Cristoforo Faffeo. Sono poche le opere d’arte nel Meridione oggetto di tante opinioni diverse. E’ una composizione delicata, la cui fisiono-mia ritorna appesantita nella Madonna della pace nei depositi di Capodimonte, da Causa ritenuta di Fran-cesco Cicino, dove la Vergine è in compagnia di una Santa ingioiellata che deriva in maniera non molto raffinata da qualche figura femminile affrescata da Antoniazzo Romano a S. Maria sopra Minerva ed il Battista da un personaggio dell’Epifania di Antonio da Viterbo, detto il Pastura, nella pinacoteca di Viter-bo. La tesi del Van Marie mi piace perché mi pare che il Bambino derivi da quello dipinto da Antoniazzo Romano nell’affresco in S. Nicola in Carcere a Roma, pubblicato dal mio relatore di laurea, il compianto Valerio Mariani (8).

Io suppongo che il Van Marie pensasse molto a quella Madonna nel museo Jacquemart-André a Pa-rigi che poi il Berenson tolse dal catalogo di Fiorenzo di Lorenzo per proporla al Perugino, ma credo che un confronto molto più preciso, fino a supporre un auto-grafo, si debba fare con quella nello stendardo della chiesa di S. Francesco, a Montone (PG), che è l’opera più famosa di Bartolomeo Caporali, pubblicata anche nel secondo volume del testo scolastico di Francesco Negri Arnoldi.

E’ un modulo abbastanza diffuso nella pittura dell’Italia Centrale, anche in quella del padre di Raf-faello, e non solo nella pittura, se pensiamo alla fi-gura che il Bregno scolpì sulla tomba di Pio III in S.

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Andrea della Valle, e non mi pare di affacciare un’i-potesi troppo azzardata se a questa Madonna, che ha trovato una collocazione forse definitiva nel Museo in San Lorenzo Maggiore, attribuisco la responsabilità della sua diffusione nell’Italia Meridionale.

All’altar maggiore della parrocchiale di Melito di Napoli una Madonna con i ss. Pietro e Giovanni Battista, chiarissimamente derivata da questa, è cir-condata da una tela con figure di santi in preghiera firmata da Eugenio Biancardi nel 1804. Nel bema della basilica di S. Francesco a Paola ce n’è un’altra molto simile, al centro di un trittico murale eteroge-neo, ed io non cambio idea da quando in BRU-TIUM l’attribuii ad Alessandro Padovano. Un’altra è in un affresco miracolosamente intatto nel bema della chiesa protoromantica di S. Paride, abbandonata e spogliata, nella campagna fra la vi’a Casilina e Teano, ed un’altra in una pala d’altare, orrendamente ridi-pinta, dove appaiono anche il Battista e S. Eufemia, nella chiesa di s. Antonio dei Poveri a Sorrento. Qui la ridipintura ha toccato anche la data, al punto che Pasquale Ferraiuolo, pubblicando il dipinto nel suo libro Chiese e monasteri di Sorrento, l’ha letta 1562 anziché 1502, come la lettura critica impone di sce-gliere, una data preziosa che serve a fissare con una certa approssimazione l’arrivo del modello nell’am-biente napoletano, forse nell’ultimo decennio del 400.

Tirando le somme, possiamo dire che il contenuto di questo piccolo e recente museo dagli studiosi può esser definito solo molto interessante.

Nell’inverno del 70 in un corso di aggiornamento residenziale a Viareggio, il direttore e coordinatore, il compianto prof. Adriano Prandi, ci diceva che il nu-mero dei dipendenti della Direzione Generale Anti-chità e Belle Arti del Ministero della P. I. era uguale a quello dei dipendenti del Museo Nazionale di Wa-shington. Più tardi tale organismo diventò il Ministe-

ro dei Beni Culturali ed Ambientali, organizzato dal ministro Spadolini con il validissimo aiuto di Bruno Molajoli, richiamato in attività di servizio dopo esse-re andato in pensione quale direttore generale delle Antichità e Belle Arti.

Nel giro di pochi anni il persona-le ha raggiunto le diciottomila unità, ma nello stesso tempo i musei hanno cominciato ad esporre cartelli per avvisare i visitatori che poche sale erano aperte per mancanza di personale. In uno dei suoi spigliati scritti domenicali nel defunto quotidia-no “Roma”, il compianto soprintendente Raffaello Causa ne attribuiva la colpa alla lombosciatalgia, il motivo più frequente dell’assenteismo diffuso. Sono stati aperti in questi ultimi anni molti piccoli musei in provincia, e quando ho visitato quelli di S. Fran-cesco a Folloni e di Vallo della Lucania ho notato che la mia firma era la prima nel registro dopo quindici giorni.

Una domanda è ovvia: non si può trovare il modo di riaprire questo ricco museo che è rimasto chiuso dopo la scomparsa immatura e dolorosa di P. Gio-vanni Recupido?

Giuseppe Alparone

Note

1) Opere d’arte dalle chiese di Napoli - Mostra e Catalogo a cura di Linda Martino e Mariaserena Mormone.

Complesso monumentale di S. Lorenzo Maggiore. Napoli 1985.

2) Principe Gaetano Filangieri di Saldano - Di un dipinto finora attribuito ad Antonio Solario detto lo Zingaro. Ar-chivio storico per le Province Napoletane, anno IX (1884) p. 91 ss. - G. Alparone - Proposte per Antonio Pini, Antonio Rimpatta e Sebastiano Pisano nei musei napoletani - “Arte Cristiana” n. 712.

3) F. Zeri - Antonio Rimpatta - “Bollettino d’Arte Min. P. I.” - 1963 p. 46 ss.

4) A. Tempestini - Antonio da Bologna uno o due? - “Mit-teilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz” -1981, p. 341 ss.

5) R. Van Marie - The development of the Italian schools of painting - vol. XV, p. 390. L’Aja, 1934.

6) C. Lorenzetti - Nuove documentazioni di forme pitto-riche melozziane e antoniazzesche a Napoli - “Boll. d’Arte Min. Educazione Nazionale” 1937 p. 181 ss.

7) Raffaello Causa - Pittura napoletana dal sec. XV al XIX - Bergamo 1957 p. 18.

8) V. Mariani - Un dipinto di Antoniazzo Romano nella chiesa di S. Nicola in Carcererà “S. Nicola in Carcere. Nel-l’VIII centenario della riedificazione della basilica romana di S. Nicola in Carcere”. Roma 1929.

Per la fotografia dell’affresco a Monte Oliveto Mag-giore sono grato alla cortesia del prof. Miklòs Bòsko-vitz, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano.

Antonio Rimpatta - S. Michele Arcangelo scaccia il demonio (particolare) - In dep. S. Lorenzo Maggiore

34 La Rassegna d’Ischia 2-3/1988

di Vincenzo Cuomo

Con lo sbarco a Marsala dei circa mille uomini guidati dalla già leg-gendaria figura di Garibaldi, inizia una campagna che ha il sapore di una vera epopea.

Fu una nobile impresa idea-ta ed attuata da patrioti con una chiara coscienza sugli obiettivi da raggiungere. Uomini partiti dallo scoglio di Quarto con l’intento di attuare finalmente quell’unità na-zionale da decenni rincorsa dalle menti più illuminate della penisola.

La conquista del regno da parte di questo manipolo di coraggiosi, destinati ad allargarsi sino a dive-nire i ventimila del Volturno, sa di prodigioso. Nel giro di pochi mesi riuscirono a travolgere un esercito che, per quanto poco agguerrito, era però numeroso e dotato di una discreta artiglieria. Era da prima della dominazione longobarda che l’Italia aveva perso quell’unità ter-ritoriale che i Romani le avevano data. Nel Medioevo, come pure nell’Età moderna, era stata sempre divisa in stati perennemente in lot-ta tra loro, ed i pochi che avevano pensato una eventuale unificazione erano stati solo delle voci destinate a disperdersi nel clamore delle mil-le battaglie fratricide.

E’ a Napoleone però che si devo-no il risveglio e la diffusione del de-siderio dell’unità nazionale tra più larghi strati di popolazione.

Francesco II di Borbone, nato il 16 gennaio 1836, al momento di succedere al padre nella guida del reame (1859), aveva appena 23 anni. L’aspetto era quello di un ra-gazzo gracile e delicato con un viso eternamente triste. Di carattere chiuso ed introverso, fu fatalista, sempre indeciso ed incline alla ma-linconia.

Era cresciuto casto e timido nel-la venerazione della madre (Maria Cristina di Savoia), morta nel darlo alla luce. Alla sua educazione, pur

I Borboni di Napoli

Francesco IIessendo un principe ereditario, non fu data particolare cura; lo si spiega però facilmente tenendo presente quello che era lo status culturale sia del padre (Ferdinan-do II) che del resto della corte. Gli istitutori ed i maestri furono scelti tra le persone più reazionarie e re-trograde, uomini che non potevano trasmettere al ragazzo se non prin-cipi ostili allo spirito dei tempi ed al saggio governo di un reame. Visse in una reggia in cui vi erano anche ben undici fratelli a metà, frutto del secondo matrimonio del pa-dre (con Maria Teresa d’Asburgo), male adattandosi, lui così riservato e poco incline ad effusioni o confi-denze, ad una famiglia rumorosa e confusionaria. Per volere del padre fu fatto sposare con la principessa Maria Sofia di Baviera, la quale, bellissima e piena di fascino, a dif-ferenza del marito, fu anche giovia-le, allegra e brillante, con vitalità e voglia di vivere. Amava il ballo, la caccia e la vita sociale, in chiara an-titesi con i bisogni e le aspirazioni del consorte; ma, nonostante ciò, si può dire che fu un matrimonio ben riuscito.

Morto re Ferdinando (22 maggio 1859), non prima di aver impar-tito all’erede quegli insegnamen-ti nei quali credeva ciecamente e che prevedevano il più completo isolamento del regno, Francesco, con passo incerto, salì i gradini del trono. Venne subito circuito da-gli opposti schieramenti esistenti a corte. La fascia più reazionaria avrebbe voluto, per far fronte agli entusiasmi patriottici che si erano avuti in seguito alla vittoriosa con-clusione della seconda guerra d’in-dipendenza, che inasprisse il già duro regime di polizia. La parte più “liberale” invece avrebbe gradito un’alleanza con Vittorio Emanuele per la conquista e la spartizione a due della restante penisola. Chia-ramente, costoro godevano anche della simpatia di Cavour che pa-

ventava uno scoppio democratico nel Mezzogiorno, che, risalendo l’Italia, potesse travolgere anche il Piemonte. Il re, fedele al suo ca-rattere, non prese alcuna decisione e nel contempo non fu neanche in grado di liberarsi di questi familiari così invadenti. Non fu capace di re-agire con fermezza neanche quan-do gli portarono le prove che alcuni membri della famiglia reale, guida-ti dalla regina madre, avevano or-ganizzato una congiura di palazzo per sostituirlo con un fratellastro.

Non erano passati pochi mesi che il pericolo, che era nell’aria e già si avvertiva da tempo, si materializzò sotto forma di una spedizione di circa mille uomini, guidati da Ga-ribaldi ed intenzionati a realizzare l’unità d’Italia. Lo sbarco avvenne a Marsala, sotto lo sguardo tolleran-te e benevolo della marina inglese, ove i Garibaldini travolsero la scar-sa resistenza borbonica sciamando attraverso la Sicilia e dimostrando ancora una volta quanto conti la forza morale in un esercito.

Il pericolo era grave e sarebbe stato necessario affrontarlo con de-cisione e forza, ma Francesco, che avvertiva di non essere tagliato per la lotta in un momento di estremo abbandono disse: “lo non tengo né alla vita né al regno, perché penso a ciò che sta scritto: - Dio dà e Dio to-glie -”. In questa frase era racchiusa la sua visione della vita e delle cose. Ma è anche da dire che la situazio-ne si presentava tanto grave che .di certo sarebbe stata un duro banco di prova anche per un governo di ben altra tempra e struttura.

Al momento dello sbarco di Ga-ribaldi in Sicilia, il Reame non di-sponeva di una struttura statale moderna ed efficiente né di un vero uomo di stato, così come di un vali-do generale. Le menti migliori - da tempo - erano state messe da parte dal defunto re Ferdinando, che non gradiva critiche alla sua conduzio-ne del regno. Pertanto, nel momen-

La Rassegna d’Ischia 2-3/1988 35

to del bisogno, Francesco non potè contare né su uno stato forte che si stringesse attorno a lui, né tanto meno su una classe politica e mi-litare di valore e prestigio. Inoltre, il Reame era internazionalmente isolato e, nel momento in cui ne-cessitava aiuto, nessuna potenza europea fu disposta a dargliene. Napoleone III, interrogato in me-rito, consigliò di rivolgersi al re di Piemonte e concedere la costituzio-ne.

La situazione in Sicilia, a causa dell’inefficienza non tanto dell’e-sercito quanto dei suoi capi, pre-cipitava ed in breve Garibaldi, in seguito ad Jna secca sconfitta in-flitta al generale Landi, entrava in Palermo.

La notizia gettò lo sgomento a corte; la situazione era grave ma non disperata, ed ancora si sareb-be potuto correre ai ripari solo se si fosse stati capaci di farlo. Il 24 giugno, spinto dal Consiglio della Corona, il re concedeva finalmente quella costituzione per la quale da decenni la parte migliore del regno si batteva. Era però troppo tardi! Il gesto da nessuno fu inteso di ma-gnanimità, ma solo di estrema de-bolezza.

Padrone dell’intera Sicilia, nella notte tra il 19 ed il 20 agosto 1860, Garibaldi, eludendo la sorveglianza della flotta, passò lo stretto por-tando i suoi armati in Calabria. La marcia sino a Napoli non comportò difficoltà di rilievo, mentre l’eserci-to del regno si ritirava nel nord del paese senza impegnarsi in grossi scontri.

L’avanzata dei garibaldini fu sa-lutata in ogni luogo con giubilo dal-le popolazioni locali, che, in molti casi, insorsero, liberandosi ancor prima del loro arrivo.

A questo punto la presenza del re, tra le truppe accampate nelle fortezze di Capua e Gaeta, sareb-be stata di grande giovamento al morale dei soldati; ma Francesco, ancora una volta, preferì restare nell’oblio delle sue indecisioni. Fat-tosi grave il pericolo, re e regina si trasferirono nel forte di Gaeta (6 settembre 1860), volendo rispar-miare alla capitale gli orrori di una

guerra civile. E, non volendo in al-cun modo offendere i loro sudditi, tralasciarono di asportare sin an-che il tesoro della Corona.

Garibaldi potè così finalmente fare il suo ingresso a Napoli (7 set-tembre 1860), mentre la camorra, che aveva aderito alla rivoluzione, impose il rispetto dell’ordine nella città.

In questa seconda fase dei com-battimenti le truppe reali dimostra-rono una netta superiorità sulle Ca-micie Rosse, che in molti casi furo-no travolte. Ma sul Volturno (1 ot-tobre 1860), Garibaldi riportò una schiacciante vittoria, dimostrando di essere anche un valido stratega oltre che un grande tattico. Il plebi-scito, che fece subito seguito, sancì in modo definitivo l’annessione del reame al Regno di Piemonte.

Dopo rincontro di Teano i soldati regolari si sostituirono ai rivolu-zionari nel prosieguo della guerra contro il restante esercito borbo-nico, ponendo l’assedio a Gaeta. Iniziava così un triste periodo per Francesco! Sempre assistito dalla forte e volitiva moglie, per mesi, visse a contatto con l’esercito asse-diato, scrivendo una bella e nobile pagina di storia, fatta di coraggio e abnegazione a riscatto della iniziale apatia. Fu sempre vicino ai suoi uo-mini; ne divise i disagi, ne alleviò le pene, per tutti ebbe sempre una pa-rola di conforto e mai tremò sotto i continui bombardamenti.

Nasceva, in tal modo, quella leg-genda del re buono e sfortunato, che, privato del trono, non inveiva contro nessuno, accettando il fato con rassegnazione. Questa imma-gine, destinata a prevalere con gli anni, lo accompagnerà alla tomba e gli sopravvivere sino ai nostri gior-ni.

Francesco II con la perdita del trono pagava non solo i suoi erro-ri, che per la verità non erano stati molti, avendo regnato solo pochi mesi, ma soprattutto quelli dei suoi predecessori, che in decen-ni di malgoverno avevano gettato le basi per una riscossa popolare che si materializzò in quell’aiuto incondizionato che Garibaldi rice-vette da tutti i ceti. Nessuno quin-

di si prodigò per aiutare il re, i cui antenati nulla avevano fatto per creare una coscienza tra le masse ed un’opinione pubblica, che, nel momento del pericolo, se vi fosse stata, avrebbe potuto difendere le istituzioni minacciate.

L’11 febbraio 1861 Francesco II accettò di arrendersi. Alle truppe venne concesso l’onore delle armi, mentre i sovrani si trasferiva-no a Roma. Nel 1870 poi, in vista dell’occupazione da parte degli Ita-liani, operarono un nuovo cambio di residenza, questa volta in Fran-cia, ove il re, in esilio, morì il 27 di-cembre del 1894.

Fu indubbiamente più “re ten-tenna” di Carlo Alberto e lontano da quelle capacità che sarebbero occorse per guidare il regno nella bufera. Il carattere troppo debole mal si sposava con la figura di un re. Anche se lontano da quella gros-solana visione della vita e delle cose che fu una caratteristica del padre, era però sprovvisto di intuito poli-tico. Non fu in grado di restituire alla monarchia quella immagine di guida che sarebbe stata necessaria per salvare il regno. Avrebbe dovu-to allontanare quei ministri reazio-nari e poco intelligenti che erano serviti solo a mettere in cattiva luce la Corona agli occhi del popolo e ad isolarla sempre più, circondandosi, nel contempo, di uomini nuovi, ca-paci di sfruttare a suo favore quei fermenti di libertà che timidamen-te da tutte le classi sociali facevano capolino e cercavano affermazione. Ma se ciò non fu fatto, fu solo per-ché Francesco mancava di una sep-pur minima preparazione a regna-re, in quanto il padre nulla aveva mai fatto per insegnargli la difficile arte del governo, mentre la giovane età fece il resto.

Oggi, a distanza di anni e con tanti eventi che si sono susseguiti, l’ultimo re Borbone ci appare de-gno di conservare quel rispetto che nacque, quando a triste epilogo del suo regno, sopportò con serenità disagi e sofferenze senza dolersene, anzi dando aiuto e coraggio a chi gli stava vicino.

Vincenzo Cuomo

36 La Rassegna d’Ischia 2-3/1988

Ischia è una delle più amene non solo, ma più utili isolette del mar Tirreno. La sua aria, die ritorna di per se sola la sanità, le sue copiose argille che pren-dono forme d’idrie e d’ogni maniera di vaselli tra le industri mani di quei naturali, e ne divengono il più attivo commercio, le sue frutta che passano il mare per rivaleggiare con quelle della rivale Mergellina, e sopra tutto questo le sue saluberrime acque termali e minerali che mettono la forza nelle inferme mem-bra e nelle malsane, son tutte cose atte a giustificare ad un tempo le qualità di amena e di utile che or ora le davamo, e l’entusiasmo del Capaccio che per essa sclamava: “Potuitne ad Napolitanorum utilitatem Natura ditiorem insulam producere?”

Galleggiante per dir così in uno di quei bacini più che golfi, di cui nel baciarle intagliava le costiere l’az-zurro Mediterraneo, Ischia sembra accostarsi quanto più sa alla terra e stringersi al fianco della compagna Procida, temente ancora della crudele e lussuriosa Capri, da cui non si crede ancora abbastanza lonta-na. Veduta da lungi con le sue linee pressoché trian-golari, Ischia rassembra, più che ad un’isola, ad un vulcano messo all’altro lato del golfo come in simme-tria col Vesuvio, allora soprattutto che i crepuscoli ne ricingono la fronte d’un diadema di nubi. Questa sua fronte bella ed altera s’informa dall’Epomeo, o monte S. Michele; sul quale una volta poggiati vi troverete centro del più bel panorama che ad un raggio di ot-tanta miglia, ad un’elevazione di più di 2500 piedi vi si possa spiegare allo sguardo Siate una volta vaghi di trovarvi colassù prima del sorgere del sole, ed a mano a mano che l’alba toglierà un dopo l’altro i veli della notte, che le stelle impallidiranno che si avvi-cenderanno i colori dilicatamente sfumati dal riflesso dell’astro nascente, voi vedrete come un frammento di creazione sorgervi a poco a poco sotto l’occhio, la direste l’opera di un onnipossente artista che in breve tempo vedete delineare, preparare, abbozzare, ed a grado a grado finire per presentarla al vostro sguar-do, come una mostra dei suoi capilavori.

Colà mentre la natura svolge all’occhio il suo spet-tacolo svariato e delizioso, la storia vi schiude alla mente il suo volume monumentale. — Qui da Enea profugo a Mario proscritto, da Mario proscritto a M.... fuggente quante imprese e quante sventure! Quanto sangue ha irrigato quei poggi, quanti cadaveri hanno ravvolti quelle onde, dall’atroce e memorando sacco dato dai Saraceni nel cominciamento del IX secolo, alla brutale stretta che la meschina risentì della ma-nopola d’acciaio di Alfonso d’Aragona! Quante storie

Antche descrizioni dell’isola

Ischia e Casamicciola di A. de Lauzières

d’amore e di gloria, quanti muliebri fatti da Lucre-zia d’Alagno, la bella favorita dell’Aragonese, che vi sperò un asilo, alla valorosa Costanza d’Avalos che la difese intrepidamente: quanto timida e sventurata la Favorita; tanto valorosa ed illustre la Guerriera; e sino finalmente alle muse di Michelangelo, a Vittoria Colonna, novella Beatrice di quel Dante delle Arti! alla quale la bell’isola die amica stanza ed ozi soavi, quasi un rimorso dell’estremo asilo dato cinque lustri prima al Sannazzaro.

Ischia peraltro non gode della sua vita che a simi-di quelle lusinghiere che sembrano riassumere la loro in brevi anni di un’ebbra giovinezza La vita d’Ischia comincia con l’estate come quella della spiga, ed in essa si riassume; essa nasce col solstizio estivo, e vive poco più che due mesi; ma in sì poco tempo spende tutto il suo brio.

V’ha tante maniere di trarvi: dalla speditiva pas-seggiata che vi fa il battello a vapore alla modesta traversata che i lancioni, le barcacce della Marinella di Napoli vi fanno la notte. Gli artisti, i meditativi, e gli e-conomici scelgono quest’ultima danno l’addio in Napoli al sole che tramonta e cacciandosi nell’agile legno a vela latina sembrano sfidar quell’astro a chi sarà il primo la domane a trovarsi ad Ischia, ed av-viene di rado che la sfida si risolva a vantaggio d’una delle due parti, perché non si sa ancora se le barche arrivino ad Ischia al sorger del sole, o se il sole spun-ti all’arrivar delle barche — Il trarre a Miniscola in carrozza, di qui a Procida traversare quest ‘isola, ‘e passar il canale che la separa dalla sorella Ischia è la meri disagevole via e la più rapida.

Casamicciola, come quella che è ficca delle terme, è la più corteggiata borgata dell’isola. Tutti concorron qui d’ogni paese e soprattutto d’ogni condizione. L irrequieto touriste che vi accorre non sa come, non sa donde, non sa perché; la stanca aristocratica che vi va per un vezzo, per un capriccio, per un dispetto for-sanco, il vagabondo artista che vi trae per rubacchiar-ne le belle teste delle naturali e i deliziosi accidenti del sito: il positivo ed ozioso villeggiante die vi resta quei due mesi per cangiar noia sotto pretesto di can-giar a-ria: il soldato che va a tuffar nelle terme le sue gambe di legno sperando che l’acqua rimedii ai dan-ni del fuoco, il vapore alla polvere, la. docciatura alla mitraglia: il gobbo che va ad appianarvisi, il rattratto a scioglier-visi, lo storpio a raggiustarsi, il valetudi-nario a risanarsi, e più d’ogni altra la sterile a fecon-darsi nelle famose acque di Citara... vedi lusinga del nono lustro, o febbre di posterità! tutta questa gente,

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Le ville Sauvé e De Rivaz

sorta indistintamente col sole, comincia a muoversi e a dar segni di vita: cavalca, cammina, si strascina o si fa trascinare come può meglio pei colli, per le vie, alle terme, in cento aggiustature diverse bizzarre o prosaiche, sfarzose o affligenti, da ridurre quelle vie ad un ghetto, ad un bazar, al riposo d’una carovana.

Casamicciola più che il resto dell’isola è sparsa di deliziose ville, e di più deliziose casine. Non le nove-riamo tutte certamente, anzi accenniamo ad un pun-to solo dell’isola come quello che sulla sua situazione non così alta da essere disagiosa a chi vuole scendere alle acque né così bassa da non goder dello spettacolo dell’altezza e del campestre, è sopra tutte ricercatis-sima.

Sul cominciar dell’erta, mezzo nascosa tra i pam-pini, come una bella baccante in riposo, vedi a de-stra una magnifica Casina — il fabbricato della villa Sauvé — chiara ed a gelosie verdi, come le ambiva Gian Giacomo Rousseau di piacevole architettura con porticato, e loggiati d’ogni maniera se v’entri la trovi addobbata veramente da patrizia come quella che offre allo straniero ospitalità confortevoli ne par-liamo con conoscenza di causa: e se non vantiamo ulteriormente le belle sale, le splendide suppelletti-li ec, è per non imitar lo stile degli affissi d’alberghi Sotto il porticato, dopo che avete guardato in alto la

bella Casina inchinate lo sguardo: è’-là che la povera pazza d’Ischia famosa per triste celebrità, stette tanti anni a piangere^ ed aspettare il suo infedele, come vel narrano con tanto successo due de’ nostri rivali nell’amore d’Ischia, i sigg. Tarantini e de Ribas. —

— Ahi! avviene spesso così: la sventura resta pie-distallo all’opulenza, ed un palmo più sotto dove ride famiglia di fiori... Ma lungi da questi deliziosi luoghi tutta idea di malinconia — Di rincontro alla villa Sau-vé è quella del dott. cav. de Rivaz, l’amico di tutti quei naturali, il consiglio, la guida dei Napolitani e degli Stranieri che traggono a quelle salubri acque, il quale spende il poco tempo che gl’infermi gli lasciano a stu-diare con analisi sempre più scrupolosa ad investi-gare le virtù di quelle scaturigini. E siffatti suoi studi rende di pubblica ragione con edizioni mai sempre accresciute, delle sue Descrizioni delle acque termo-minerali e stufe di Ischia. Abbiamo sotto lo sguardo la quinta edizione di tal opera, oltre quella recata in italiano dal D. Ziccardi, e senza alcuna condiscenden-za d’amicizia, troviamo in essa il miglior vademecum di chi trae ad Ischia per profittare delle virtù di quelle acque. LA. in essa discorre a parte a parte, la situazio-ne, l’aspetto dell’isola, la descrive, ne dà un rapido e accurato cenno della storia, de ‘ costumi degli abitan-ti, delle antichità colà scoverte, accenna alla natura

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del suolo, delle acque minerotermali, delle stufe delle produzioni d’Ischia; dopo di che passa ad esaminar singolarmente quelle varie specie di acque, Pantano, Castiglione, Gurgitello, Cappone, Citara, Olmitello... che non sapremmo tutte nominarle; e d’ognuna dice la topografia della sorgente, le proprietà fisiche, l’ana-lisi chimica, le virtù medicinali, ed il metodo di cura: tutto ciò con quello stile facile ad un tempo e saturato direm quasi di erudizioni, il quale più volte avemmo occasione di ammirare in quest’Autore, specialmente nella Relazione della corsa a Pesto ed Amalfi “fatta in occasione del VII congresso degli scienziati italiani.

Noi dunque per conchiuder queste poche pa-gine con un augurio non potremmo meglio desiderare a chi avesse necessità o vaghezza di

recarsi ad Ischia per cercarvi sanità, che goder delle delizie della villa Sauvé, e fruir dei consigli del D. de Rivaz; quante-volte beninteso non si avesse la propria villa, e le proprie opinioni, che ciascuno ha ragione ed abitudine di preferire a quante mai ve ne siano delle altrui.

A. de Lauziéres

(da POLIORAMA PITTORESCO opera periodica diretta a diffondere in tutte le classi della società utili conoscenze di ogni genere - Anno XII, primo seme-stre 1848.

QUESTO TESTO CI E’ STATO FORNITO DAL SIG. VINCENZO MORETTI di Pescara.

Raccolta di pile usate

sull’isola d’Ischia

Negli ultimi anni il progresso tecnologico ha fatto notevolmente aumentare la diffusione di pile e batterie, classificate dalla vigente legisla-zione “rifiuti urbani pericolosi”, a causa del con-tenuto di metalli tossici come il mercurio (specie per le pile “a bottone” usate solitamente negli orologi), il cadmio e il manganese.

Attualmente si stima un utilizzo medio prò capite all’anno di 300 grammi di pile che non sono riciclabili e, una volta consumate, finiscono confuse insieme agli altri rifiuti urbani. Nel 1987 sono stati venduti in Italia 290 milioni di pile, per un fatturato di oltre 400 miliardi di lire. Ad Ischia, come in tutti i centri turistici, ai “fruitori” locali, con l’inizio della primavera, si uniscono i villeggianti, i quali fanno un uso massiccio di macchine fotografiche, radioline, calcolatrici, ecc.. Su queste basi, si può ipotizzare, nell’isola d’Ischia, un consumo annuo globale di 20 ton-nellate di pile, pari a circa 40 kg di mercurio. Si pensi che un solo grammo del metallo pesante può contaminare 200 quintali di alimenti e mil-le litri di acqua.

L’unico semplice quanto efficace sistema per evitare il rischio di alterazioni da mercurio, in attesa che siano messe in commercio soltanto pile a zinco-carbone (come le Mazda Greenpo-wer) è la raccolta differenziata in appositi con-tenitori, idoneamente smaltiti. Numerose città, tra cui Reggio Emilia, Firenze, Trento, hanno già avviato l’iniziativa, con lusinghieri risultati, stipulando accordi di collaborazione con enti lo-

cali, scuole e commercianti (orologiai, fotografi, tabaccai, gestori di supermarket e ferramenta). Dalla consapevolezza che l’operazione “raccolta differenziata” si presenta estremamente sempli-ce - le pile a bottone hanno ridottissime dimen-sioni e sono facilmente localizzabili per la gran parte (presso gli orologiai) - il WWF Isola d’I-schia, in collaborazione con l’USL 21, ha istituito dei punti di raccolta nei negozi del centro e nelle scuole. Sistemate in appositi contenitori, le pile saranno così smaltite a parte (sigillate e interra-te) in discariche ad hoc in Germania Orientale.

Solidale all’iniziativa, anche il comune d’Ischia è intervenuto, nell’ambito del proprio territorio, per anticipare il servizio che, prossimamente, tutti i comuni avranno l’obbligo di originare ai sensi della legge 441/87!

Concorso ENEL - SCUOLA

L’ENEL, al fine di stimolare negli studenti l’in-teresse alle tematiche legate all’energia elettrica, bandisce un concorso a premi dal titolo:

L’energia elettrica è vita Gli studenti possono sviluppare il tema me-

diante le tecniche ritenute più opportune (ricer-che, inchieste, disegni, fotomontaggi, elaborati plastici, modellini).

Possono partecipare al concorso gli studenti delle Scuole Medie Inferiori, pubbliche e priva-te.

Il termine per la presentazione dei lavori sca-de il 16 aprile 1988.

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Dal momento che sull’isolotto si pone la città dei Feaci cantata da Omero, occorre ritrovare su di esso e nei dintorni i dettagli topografici indicati nel poema a propo-sito di Scheria. In primo luogo ci riportiamo al testo, per poter stabilire le indicazioni con la mas-sima precisione possibile. Ecco il passaggio più importante che in alcuni punti si presenta suscettibile di due interpretazioni egualmente accettabili:

Saliamo verso la città che è circondata da alte mura

da ambo i lati v’è un bel porto con da ambo i lati v’è un bel porto; l’ac-una stretta entrata; vi si fanno en- cesso alla città è stretto e lungo iltrare le navi con precauzione e tutte percorso che mena ad essa si tiranovi trovano sicuro rifugio. le navi a secco, e tutte vi trovano si- curo rifugio.

E’ là (presso questo riparo) e nelle vicinanze del bell’altare dedicato a Poseidone che si trova l’agora lastricata con enormi blocchi ben sistemati; è là che sono riparati gli attrezzi delle nere navi, le gómene e le vele, e ripuliti i remi (25). Il testo, nel suo passaggio più importante, è quindi suscettibile di due sensi egual-mente accettabili. M. Bérard, sicuramente buon ellenista, ha preferito il primo senso senza conside-rare il secondo ; M. Pierron, non meno buon ellenista, ha accettato il secondo senza sospettare il primo. Se con le due interpretazioni cerchiamo di immaginare oppure di disegnare su carta il luogo descritto, abbiamo cinque topografie differenti.Tre per il primo senso: a) Innanzitutto la città su una piattaforma avanzata; a destra e a sinistra due baie, chiuse l’u-na e l’altra da una stretta entrata. b) Ma il primo senso permette di supporre una sola entrata stretta e quindi una sola baia chiusa: l’altro porto può allora aprirsi fino ad essere una spiaggia sempli-cemente arcuata. e) Terza disposizione, sempre con una sola entrata stretta: una baia assai vasta che s’apre solo con una bocca; nel fondo della baia la città su una roccia scoscesa sul mare: la spiaggia circolare, tagliata in due da questa roccia, forma un porto a destra e un porto a sinistra.Due topografie per il secondo senso: d) Quarta disposizione non differente dalle precedenti: la città è su un promontorio peninsulare che si distacca nettamente dalla linea generale della riva: questo pro-montorio è unito alla costa soltanto per mezzo di uno stretto istmo; i porti sono tra la città e il continente, a sinistra e a destra dell’istmo. e) Quinta disposizione, semplice modificazione della precedente: l’istmo è più o meno largo; ciò che è stretto è solamente o soprattutto l’accesso immediato alla cit-tà, il cammino che, una volta traversato l’istmo, sale verso la città sotto forma di angusto sentiero. Se ora cerchiamo di fare in tutto ciò una scelta, noi moderni, le cui navi restano in acqua, propendiamo certamente per i primi tipi. Ma gli antichi, che tiravano a terra i loro battelli, come lo fanno ancora gli Italiani e gli orientali, avevano in poca stima i porti chiusi; essi preferivano una spiaggia almeno protetta contro i venti più peri-colosi, e con una discesa di sabbia fino alla costa, sufficientemente dolce per rendere meno pesante il tiraggio.

25) Odissea, libro VI, vv. 262 sgg. — Questo il testo:....E’ la città da un altomuro cerchiata, e due bei porti vantad’angusta foce, un quinci e l’altro quindi,su le cui rive tutti in lunga filaposan dal mare i naviganti legni.Tra un porto e l’altro si distende il fòrodi pietre quadre, e da vicina cavacondotte lastricate; e al foro in mezzol’antico tempio di Nettun si leva.

Colà gli arnesi delle negre navi,gómene e vele, a racconciar s’intende,e i remi a ripolir

vv. 55/59:

Ulisse i porti e i ben costrutti legni maravigliava, e le superbe piazze, ove i prenci s’assembrano, e le lunghe, spettacolo ammirando, eccelse mura, di steccati munite e di ripari.

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I Fenici in particolare preferivano alle rade strette gli istmi che offrivano una marina a destra ed una a sinistra, con due diversi orientamenti. Se per il vento era difficile entrare nell’una, si andava nell’altra. Quando l’istmo era basso e stretto, si poteva prendere il largo indifferentemente a destra o a sinistra; soltanto da un lato il tiraggio era un po’ più lungo. E la massa del promontorio inoltre offriva un adeguato riparo dai venti. A tutti questi vantaggi marittimi si devono aggiungere quelli, dal punto di vista della sicurezza, offerti dal promontorio più omeno scosceso e spesso formato dalla natura a guisa di fortezza. Si comprende così il passo di Tucidide: “I Fenici si stabilivano sugli isolotti nei pressi delle cose oppure sui promontori vicini al mare”. Sicuramente un Fenicio, ascoltando la descrizione omerica di Scheria, non avrebbe esi-tato; avrebbe visto il nostro quarto tipo e noi faremo come lui. Ma ritorniamo all’isolotto e vediamo se l’identificazione può avvenire in modo soddisfa-cente. In primo luogo, come vuole la Geologia, invitiamo Poseidone, il dio che scuote la terra, a sollevare progressivamente tutta la zona e a renderci l’istmo che colà stava, tremila anni fa. Ed ecco che, sotto la spinta del dio, le rive dell’isola principale cominciano ad emergere e sembrano avanzare verso il mare. Quando l’innalzamento verticale supera il metro, fac-ciamo una scoperta molto interessante: la linea sinuosa delle case che, dopo secoli, delimi-ta la città attuale sulla riva dell’isola principale, si trova grazie al dio ad una certa distanza dal mare e lascia davanti a sé lo spazio necessario per ricostituire la marina tradizionale delle piccole città italiane. Preghiamo Poseidone di riprendere il suo compito: l’isola ricomincia ad avanzare verso l’isolotto e nello stesso tempo il molo artificiale fuoriesce del tutto dall’acqua; ed eccolo ben presto limitato ai due lati d’una spiaggia emersa che termina a punta verso il castello e si congiunge con l’isola principale a mezzo di curve a grande raggio. Quando l’estremità si salda al castello, il movimento verticale tocca al più i tre metri; dopo un nuovo innal-zamento di due o tre metri, invitiamo il nostro divino servitore a fermarsi: è stato quasi compensato l’abbassamento riconosciuto in tre punti vicini: a Capri, al tempio di Serapi-de, e ad est di Casamicciola. Abbiamo di fronte a noi l’istmo, largo dalla parte dell’isola, stretto verso il castello, che ha dovuto vedere il poeta di Ulisse.Una annotazione è pertanto necessaria. In quanto precede io dò all’istmo la forma più verosimile, se si suppone la sua formazione dovuta ad un apporto delle onde con derivazione dal nord e dal sud, e formando una diga con le sabbie che depositano nella zona comune, dove si neutralizza il loro sforzo. Ma esso potrebbe ben essere al contrario il risultato di una erosione relativa ad una parte di terra preesistente e primieramente molto larga. Questa erosione si spiegherebbe bene con la mobilità dei detriti vulcanici, e l’abbassamento del suolo che poteva essere già comincia-to. In questa ipotesi, la parte più stretta dell’istmo non si localizzerebbe necessariamente ai piedi del castello, ma là dove il suolo sarebbe stato una volta facile a sgretolarsi e più vigorosamente attaccato dal mare: essa così potrebbe trovarsi molto più vicina all’isola principale, mentre una piattaforma triangolare si aprirebbe ai piedi del castello. Qualunque sia il modo di formazione preferito, l’esistenza antica dell’istmo omerico ap-pare certa, avendo dimostrato l’abbassamento posteriore dell’isola e quel poco di profon-dità del braccio di mare che lo sostituisce attualmente. “Secondo tutte le verosimiglianze - mi scrive M. Issel nella lettera già citata - la roccia del castello era, alcuni secoli addietro, unita all’isola a mezzo di un istmo naturale, sparito poi sotto l’azione di una lenta sommersione”. “Noi abbiamo modo di credere - scrive a sua volta M. Johnston-Lavis - che, mille anni prima dell’era cristiana, l’istmo naturale era al di sopra dell’acqua. Tale risultato otterrem-mo, se sollevassimo Ischia al livello che occupava primitivamente il pavimento inferiore del tempio di Serapide a Pozzuoli... L’istmo, una volta sommerso, ha dovuto essere attiva-mente eroso dalle correnti divenendo così uno stretto”. Originato dall’istmo e da questo riconquistato sul mare, il doppio porto dei Feaci è dun-que finalmente davanti a noi, così come l’hanno indicato il testo e le analogie storiche. Il dorso d’asino dell’istmo, terminante a punta verso la roccia, o ristretto dalle onde in vi-cinanza della sua base, è l’accesso angusto alla città: a destra e a sinistra, vi sono le marine per il tiraggio; dietro alla duplice fila di barche tirate a terra, ecco lo spazio ove si fanno le

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riparazioni, dove ci si prende cura degli attrezzi e dove si fabbricano i remi. Di fronte al passaggio che viene dalla città, si eleva l’altare di Poseidone, circondato dall’agora, piazza con sedili di pietra per i capi. Dalla parte posteriore si trova lo spiazzo consacrato ai giochi pubblici. Poi si susseguono senza dubbio alcune costruzioni, nucleo del sob-borgo del medio evo, utilizzato come rifugio d’estate ed anche per alloggi permanenti per marinai e pescatori. Posta sulla nera roccia, la città dei Feaci era ben “la città alla quale bisogna salire”, l’al-ta città del testo. La rupe era aspra realmente; e soltanto verso il 1440 i lavori di difesa, eseguiti da Alfonso d’Aragona, l’hanno resa accessibile. A tale epoca, che è quella della costruzione del castello, questo principe scavò nella roccia il tunnel in salita a mezzo del quale si sale ora alla fortezza: nello stesso tempo - le testimonianze storiche ne fanno fede - egli distrusse l’antico passaggio che si inerpicava all’aperto. Qual era il tracciato di questa via d’accesso? Non lo so. E’ probabile che al tempo ome-rico girava prima a destra, trovava allora alla sua sinistra il mezzo di salire sul fianco della roccia. Se si trattava di un cammino mulattiero, esso poteva inerpicarsi senz’altro come il famoso sentiero di Anacapri su una rupe quasi verticale, per arditi tornanti, abilmente tracciati ma con poca spesa. Se più ambiziosamente voleva essere carroz-zabile, esso doveva più lentamente salire circondando la massa rocciosa e toccava a mezzogiorno, od anche a sud-est, a duecento metri circa dal molo attuale, la piattafor-ma superiore che si trova là, nella parte più bassa, a venti o trenta metri al di sopra del mare. Nell’uno e nell’altro caso costituiva una strada stretta e angusta; d’altra parte come lavoro audace meritava attenzione. Può darsi benissimo che detto cammino e non l’istmo il poeta abbia in vista quando indica, come un tratto saliente del luogo, “l’acces-so che conduce alla città”. (26) Qualunque sia il tracciato che si adotti, è certamente ai piedi del pendio di sud-est, il meno scosceso ed il meno elevato al di sopra del mare, che localizzeremo l’imbarcatoio. A Scheria come a Itaca, le navi, una volta messe in mare e pronte a partire, avanzano verso l’entrata del porto, presso la parte bassa della ripa più vicina alla città; è là che “or-meggiati alla pietra bucata” (27) imbarcano o sbarcano i passeggeri e le merci. Questo imbarcatoio, il testo omerico lo localizza precisamente come noi; esso è nel dominio del vento, cioè a mezzogiorno o a sudest. Quando Ulisse, superato in fretta l’istmo, sale verso la città, incontra lungo la salita una giovane fanciulla, portante un’urna che è andata a riempire alle sorgenti della riva. (28) Questa fanciulla è Atena che accetta di condurlo al palazzo di Alcinoo; insieme i due superano il muro ed è soltanto dall’interno della cinta che Ulisse ha davanti ai suoi occhi la visione dei porti, delle navi in fila, dell’agora degli eroi e poi delle lunghe ed alte mura. (29) Ecco ciò che risponde bene alla topografia speciale dell’isolotto. In un altro sito, il baluardo ostacolerebbe la vista ed il poeta farebbe ammirare all’eroe il panorama, pri-ma che entri nella città (30); qui, per la disposizione dei luoghi, le mura sono poggiate naturalmente sui fianchi superiori della scarpata; all’epoca di Alcinoo, come ora, esse hanno contemporaneamente il ruolo di baluardo e di terrazza, e svolgono ai piedi dello spettatore la lunga fila di parapetti e di coronamenti. Dalla porta per la quale ha superato la cinta, Ulisse giunge direttamente al palazzo di Alcinoo; pongo senza esitazione la dimora del re a nord della roccia: è là che trova una

26) Le trachiti dell’isolotto erano certamente incastra-te in origine in altri terreni, anch’essi di natura vulca-nica, poi scomparsi. La geologia fa supporre che questa denudazione è stata prodotta dall’erosione delle cor-renti marine, conseguenza del bradisismo discendente che ha sommerso l’istmo. Non è dunque impossibile che il passaggio dei Feaci abbia trovato il suo assetto su questi terreni ancora esistenti.

27) Odissea, lib. XIII, vv. 95/96: ... e, poiché scioltadal traforato sasso ebber la fune..

28) Odissea, libro VII vv. 25/29:…. Ei già già entravanell’amena città, quando la Divagli occhi cerulea se gli fece incontro, non dissimile a vergine, che piena sul giovinetto capo urna sostenti.

29) Odissea, lib. VII vv. 49/50:.... Frettolosa Palla (Minerva)gli entrava innanzi, e l’orme ei ne calcava.

30) Ciò che fa Bérard dimostrandosi poco aderente al testo omerico.

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localizzazione precisa, cioè quella che occupa attualmente il castello nella parte culminante della città. E’ chiaro, come dice Nausica, che la casa di suo padre è facile a riconoscersi.La piattaforma - o piuttosto la cupola - dell’isolotto, cioè l’insieme dei pendii relativamen-te dolci che si trovano sulla scarpata e che sono oggi compresi entro la cinta costruita da Alfonso d’Aragona, può presentare una superficie di 5 ettari. A fianco del castello, della cattedrale e di parecchie chiese, vi si trovavano, nel XV secolo, fino a 192 famiglie (almeno 8000 anime), se si deve prestar fede alle carte pubbliche dell’epoca o alla loro interpreta-zione. Al tempo di Omero, poteva dunque contenere la città dei Feaci, sicuramente meno numerosa. Immagino d’altronde che la città omerica e quella del medioevo, malgrado il silenzio del poeta e dei cronisti, possedevano, ambedue, un sobborgo sull’isola principale. Certamente non troveremo presso il palazzo di Alcinoo “le due fontane, di cui una ser-ve ad innaffiare il giardino e l’altra fornisce acqua agli abitanti”. (31) Ma verosimilmente, come richiede il luogo e come è stato poi fatto, vi sono state costruite due cisterne, e Ome-ro, che vede tutto con gli occhi di un lusingatore e di un poeta, le ha trasformate in fontane. Peraltro, questa trasformazione potrebbe ben essere opera dei commentatori, perché la parola del testo può significare anche vasca, serbatoio d’acqua, in ogni caso, queste fonta-ne presunte erano, secondo quanto dice il poeta, di minima utilità per gli abitanti, perché anche per la reggia l’acqua veniva presa al di fuori della città, presso le sorgenti dell’isola principale. Bisogna credere che una amabilità esagerata per gli ingegneri feaci spinge Omero a con-durre il carro di Nausica fino al palazzo di Alcinoo, mentre in realtà la principessa sarebbe stata obbligata a lasciare il carro giù e a portare la biancheria in alto con i muli? Non mi creo eccessive difficoltà: si tratta di una di quelle libertà che il poeta può prendersi con la topografia. Ma non ne vedo la necessità, secondo lo stato dei luoghi. A tal proposito, è interessante notare che i Fenici sono stati più preoccupati dei Greci e dei Romani del-le questioni di comunicazione urbana. E’ quanto mostrano ben chiaramente le rovine di Solunto (32), una delle rare città fenicie di cui possiamo ancora apprezzare le disposizioni primitive. In un sito scosceso, a trecento metri al di sopra del mare, Solunto aveva due stra-de d’accesso pavimentate con enormi blocchi “faticosamente portati e profondamente di-sposti”, secondo l’espressione di Omero a proposito della lastricatura dell’agora di Scheda. Abbiamo detto del sito di Scheria propriamente detta, qualche parola ora sui suoi dintorni. Lungo il cammino che dalla città conduce al fiume, ove si incontrano Ulisse e Nausicaa, e nei pressi del porto, si trova, al tempo di Omero, “un bel bosco di pioppi consacrato a Minerva. Una fontana vi sgorga, un prato lo circonda; a fianco si trovano il recinto sacro i giardini fioriti del re, e questo recinto è ad una portata di voce dalla città”. Per il sentiero del Bagno Nausica si reca al fiume, ed ecco proprio in questa direzione, a settecento metri dal Castello in linea d’aria (33), l’acqua Pontano, cosi denominata dal fa-moso Gioviano Pontano che lì aveva una casa di campagna nel XV secolo. Siccome lo spa-zio intermedio è occupato in gran parte dalmare, è facile farsi ascoltare di là fino al castello; nulla impedisce di pensare che il recinto sacro si trovasse più vicino in direzione della città. L’acqua Pontano è ancora oggi alcuni metri al di sotto del suolo, ma l’espressione omerica non suona affatto contraddizione. Essa è inoltre calda e minerale: non potrebbe essere questa la ragione per cui la sorgente dei Feaci è dedicata ad Atena, dea della salute nell’e-poca classica? In ogni caso la figlia di Alcinoo sa bene che questa fontana non è usata nor-

31) Odissea VII vv. 164/169:

…. e scaturir due fontiche non taccion giammai: l’una per tutto si dirama il giardino, e l’altra corre, passando del cortil sotto alla soglia, sin davanti al palagio; e a questa vanno gli abitanti ad attinger.

32) Solunto, presso Palermo, fu fondata dai Greci che però presto l’abbandonarono. Questa circostanza ha

permesso che conservasse antichi tratti, nonostan-te alcune modifiche di epoca romana.

33) Questa indicazione (ed altre) è dovuta al prof. Vincenzo Mirabella, autore del testo Notizie intor-no all’isola d’Ischia. L’autore peraltro ha voluto an-che fornirmi rilievi manoscritti, di cui ho constatato l’esattezza. Ho verificato d’altra parte sul posto la topografia dell’isola, nel corso di una visita fatta nel dicembre 1904.

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malmente dagli abitanti, perché consiglia Ulisse di fermarvisi verso il tramonto del sole, per non destare l’attenzione. Singolare consiglio, se le donne della città venissero ad attingere! Ma, poiché la sorgente del bosco di pioppi non serve agli usi domestici, ecco che dobbiamo trovarne un’altra più utilizzata; infatti sul castello non c’è acqua, e Ulisse, salendo, incontrerà una fanciulla che porta un’urna. La riva dell’isola, nella parte vicina al molo, offre l’acqua a fior di terra; e Chevalley de Rivaz nota in particolare una fontana che il mare ha occupato, ma che è servita ai bisogni degli abitanti del castello durante tutto il medio evo.Dopo i contorni terrestri di Scheria, passiamo a quelli marittimi, cioè al famoso vascello pietrificato che dà terrore ad Alcinoo e gli prospetta tante calamità. Abbiamo già detto che vi si può vedere la manifestazione improvvisa di un fenomeno vulcanico: l’emersione, sotto la spinta di forze interne, di un rigonfiamento del suolo, od anche di un cono eruttivo più o meno sviluppato. Evidentemente il fenomeno s’è prodotto in mare ed a minima distanza dalla città (34); esso ha avuto luogo nella direzione che seguono le navi in arrivo dalla Grecia, cioè dal Capo Campanella, e di qui si dirigono verso il Castello; il che può rispondere a tre direzioni: la linea retta da Capri, e una deviazione più meridionale, arrivano da sud-sud-est; ma le altre due più a nord sono egualmente possibili, l’una a sud di Procida, l’altra rasente la costa nord di quest’ultima isola. Con queste indicazioni abbiamo la possibilità di trovare, intorno al Castello, l’isolotto vulca-nico che provocò timore a Scheda? Certamente no. Perché delle due cose l’una: o il fenomeno è scpmparso o al contrario si è sviluppato. Nel primo caso, il cono, restato all’incirca al livello del mare, era, come tutti i coni vulcani-ci, composto in maggior parte di tufo e di scorie, ed è stato presto demolito dalle onde. Nel secondo caso l’isolotto ha fatto posto ad un vulcano che forse è sparito e che, se esiste, ha dovuto coprire una superficie più considerevole. - Se ci fermiamo alla prima ipotesi, qualche bassofondo sottomarino potrebbe, oggi, indica-re il luogo del fenomeno. Uno sguardo alla carta idrografica dei passi d’Ischia e Procida (35), ci fa notare, a sud del castello, la SECCA D’ISCHIA, prolungamento sottomarino dell’isola, e rispondente bene alla prima direzione. Più da presso a Vivara, a due km e mezzo dal castello, ecco il bassofondo della CATENA che, a 25 metri dalla superficie, domina fondi immersi per 900metri. Infine a 1800 metri NE dal castello e a 800 metri O da Vivara le FORMICHE levano le loro vette rocciose a 4 o 5 metri al più sotto il livello del mare. Questi tre bassifon-di, sicuramente vulcanici, corrispondono bene a ciò che occorre a noi; ma se ne potrebbero indicare altri, poiché la regione sottomarina dei Campi Flegrei si stende tutto all’intorno. Se preferiamo la seconda ipotesi, le rive di Ischia ci offrono una soluzione veramente se-ducente dal punto di vista della storia dell’isola. A due km e mezzo a NO del Castello, ecco il cratere/lago del Bagno, che i geologi riportano all’origine dei tempi storici, e i cui dintorni immediati potrebbero ben essere stati sotto il livello del mare all’epoca di Alcinoo. Il miste-rioso vascello sarebbe dovuto ai fenomeni precedenti alla formazione del cratere. Poi, dopo un periodo più o meno lungo, l’eruzione annunciata per l’isola avrebbe seguito il suo corso. Un passo di Plinio il Vecchio conferma questo senso: egli nota in effetti che la tradizione ha conservato il ricordo dell’emersione di un lago nell’isola d’Ischia (36). L’espressione, molto significativa, collima bene con l’idea di una eruzione iniziata da una fase sottomarina.

l’orientazione. L’isola presenta ancora tre scogli per i quali si fa riferimento al fenomeno citato: LaNave a SO, la Barchetta, presso il capo S. Angelo, la Navicella a SE presso il capo San Pancrazio.

34) Odissea lib. XIII vv. 187/194 Quando i Feacesi scorgeran dal lido venir la nave a tutto corso, e poco sarà lontana, convertirla in sasso che di naviglio abbia sembianza, e oggetto si mostri a ognun di maraviglia; e in oltre grande alla lor città montagna imporre.

35) Il 18 luglio 1831 tra Pantelleria e Selinunte emerse l’isola Giulia, in un luogo in cui le carte idro-

grafiche indicavano 200 m. di profondità: l’isola superò i 33 m. di altezza e i 4800 m. nei contorni; ma formata soltanto da scorie vulcaniche, era del tutto scomparsa il 28 dicembre dello stesso anno. Nel luglio 1863 affiorò di nuovo e in alcune settima-ne raggiunse un’altezza di 60/80 metri. E’ poi stata demolita, pietra dopo pietra, dall’azione delle onde. (De Lapparent - Trattato di geologia, 1885, p. 445).

(36) Plinio - Storia Naturale libro III cap. LXXXVIII.

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LE NAVI E LA NAVIGAZIONESe si osserva con attenzione una carta geografica del Mediterra-neo si può agevolmente constatare che i tratti di mare nei quali si doveva naviga-e necessariamente senza punti di riferimento costieri sono in realtà assai rari. Infatti, se si tiene conto che la velocità del naviglio commerciale era attorno ai 2/3 nodi, ne con-segue che in un giorno potevano essere percorse oltre 50 miglia nautiche, che permettevano, salvo alcune traversate di particola-re lunghezza, di giungere in vista delle coste. I tragitti più lunghi che comportavano una navigazione priva di punti di riferimento costiero, erano la traversata del Canale di Sardegna, dalle coste africane a quelle dell’isola, o la traversata del mare balearico, dal-le coste africane a quelle delle isole Baleari o da queste alle coste occidentali della Sardegna. Ogni altra rotta percorsa abitualmen-te dai Fenici poteva aver luogo costeggiando la terra, come dove-va avvenire durante le grandi traversate da Oriente a Occidente e viceversa. Per quanto riguarda la velocità massima di percorren-za di un tratto di mare della quale si abbia notizia certa, lo storico Polibio ci tramanda (I, 46-47) come un comandante cartaginese, tale Annibale detto “il Rodio”, riuscisse a compiere il tragitto tra Cartagine e Lilibeo, l’attuale Marsala, pari a 125 miglia nautiche, con una r.ave da guerra in 24 ore, con una media di oltre 5 nodi. La navigazione commerciale aveva luogo quasi esclusivamen-te tra i mesi di marzo e ottobre, quindi durante la stagione più clemente e aveva inizio con particolari cerimonie, nelle inten-zioni atte a propiziare i traffici marittimi. La mancanza di venti costanti, quali gli Alisei, nell’ambito del bacino del Mediterraneo costituì certamente un non lieve problema per i lunghi tragitti, in relazione al tipo di velatura in uso a quell’epoca. Tuttavia, l’inco-stanza dei vènti mediterranei e il loro orientamento spesso mute-vole, se sovente imposero soste di alcuni giorni, permisero invece che il traffico commerciale si svolgesse in ogni direzione senza la necessità di attese stagionali o di percorrere giri talvolta viziosi o eccessivamente lunghi. La navigazione delle imbarcazioni da guerra avveniva invece durante tutto l’arco dell’anno, per il necessario pattugliamento delle coste e per la eventuale repressione della pirateria oppure, nel caso di eventi bellici in atto, per le operazioni militari che si rendevano opportune. Queste eventualità condizionate dalle in-temperie furono spesso fatali soprattutto se si considera che, ad esempio, durante lo svolgimento della prima guerra tra Carta-gine e Roma, le perdite di naviglio commerciale, comprendente

Venezia - Palazzo GrassiUna mostra archeologica di grande rilievo

I FENICI Il 5 marzo 1988 è stata inaugurata a Venezia - Palazzo Grassi - la mo-stra I FENICI, per la quale l’espo-sizione durerà/ino al 6 novembre 1988. La mostra ha come direttore scien-tifico Sabatino Moscati, accademi-co dei Lincei, presidente dell’Istitu-to perla civiltà fenicia e punica del Consiglio Nazionale delle Ricerche; e si avvale di un comitato promoto-re formato dai più autorevoli spe-cialisti su scala internazionale. Per la prima volta è offerto un panorama non settoriale, ma ge-nerale e il più possibile completo, del mondo dei Fenici da Oriente ad Occidente, con speciale riferimen-to alla loro produzione artigianale e artistica: dalla statuaria al rilievo in pietra, dalle terrecotte figurate ai gioielli, dai bronzi agli avori, dalle coppe metalliche ai vetri e alla ce-ramica. Una mostra articolata, che vuole approfondire ed illuminare in apposite sezioni gli apporti più significativi e peculiari di quel po-polo all’umana civiltà: dall’alfabe-to alla navigazione, dall’industria della porpora all’arte del vetro, che avrà poi a Venezia splendido sviluppo. Specifiche sezioni evi-denziano, con l’aiuto di pannelli grafici, filmati, audiovisivi.., quegli aspetti delle consuetudini, delle co-stumanze, dei rituali fenici che più impressionarono le altre genti del mondo antico. E sono poste in luce le connessioni con le altre civiltà, con particolare riferimento all’arte “orientalizzan-te”, nella quale i Fenici concorsero in modo essenziale alla creazione di una koinè tra le più significative del mondo antico.Un particolare complemento alla mostra di Palazzo Grassi è un film di Folco Quilici intitolato “Attor-no ai noi il mare dei Fenici “, con

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navi per il trasporto di truppe e degli approvvigionamenti, e di naviglio di linea causate dalle tempeste e dai conseguenti nau-fragi e attribuibili ai Cartaginesi assommarono a circa 700 unità, mentre quelle relative alle flotte romane superarono addirittura il migliaio.Grande risonanza ebbero nell’antichità i viaggi di esplorazione a fini commerciali compiuti da Fenici e Cartaginesi alla ricerca di metalli pregiati o di nuovi e più remunerativi mercati. Tra que-sti sono senza dubbio da ricordare quello che, secondo lo storico Erodoto, fu effettuato dai Fenici su incarico del faraone Necao verso la fine del VII secolo a.C, che durato circa tre anni, li portò a circumnavigare il continente africano da Oriente a Occidente: “Dopo che il faraone Necao ebbe terminato lo scavo del canale che dal Nilo portava al Golfo Arabico, fece partire dei Fenici su alcune navi, con l’ordine — per il ritorno — di entrare nel mare settentrionale [il Mediterraneo] attraverso le Colonne d’Ercole e di ritornare per quella via in Egitto. Questi Fenici, partiti dal mare Eritreo, navigarono sul mare australe [Oceano Indiano]; quando sopraggiungeva l’autunno, essi approdavano e semina-vano il terreno nel punto della costa libica [africana] dove erano giunti nel corso della navigazione, di anno in anno, e attende-vano il tempo della mietitura. Dopo aver mietuto e imbarcato il raccolto, riprendevano il mare. Così fecero per due anni; il terzo anno, doppiarono le Colonne d’Ercole e arrivarono in Egitto e raccontarono — cosa che io non credo, ma che forse altri potrà trovare credibile — che, mentre effettuavano il periplo della Libia [Africa], avevano avuto il soie alla loro destra” (Erodoto, IV, 42). Oppure, narrato da un geografo greco, il viaggio del cartagi-nese Annone che, verso la fine del V secolo a.C, facendo vela da Cartagine verso l’Oceano Atlantico, superò le Colonne d’Ercole e giunse fino al Golfo di Guinea. Da menzionare inoltre è il viaggio compiuto attorno al V secolo a.C. dal cartaginese Imilcone lungo le coste atlantiche dell’Europa fino a raggiungere la Bretagna e, forse, le isole Cassiteridi (Gran Bretagna e Irlanda) alla ricerca dello stagno e nel tentativo di aprire una nuova via commerciale per questo minerale in alternativa a quella continentale che, at-traverso la Francia, giungeva al golfo del Leone e a Marsiglia. Al-cuni rinvenimenti archeologici testimoniano la presenza sia pure temporanea dei Cartaginesi nelle isole Azzorre; mentre ulteriori notizie di antichi autori favoleggiano di viaggi effettuati dai Feni-ci in regioni oltre l’Oceano Atlantico...

(Estratto da: Le navi e la navigazione di P. Bartoloni)

sequenze marine e sottomarine realizzate in varie aree mediterra-nee ove i Fenici hanno navigato, e dove hanno lasciato tracce eviden-ti. Sono stati ripresi, da punti di vista diversi, gli approdi, cercando di rendere evidente come essi aves-sero tutti caratteristiche precise; le riprese, specialmente quelle dall’e-licottero, permettono di compren-

dere con chiarezza la tipologia che i Fenici preferivano: penisole - o isole molto vicine alle coste - come Tharros in Sardegna e Mozia in Si-cilia. Proprio a Mozia e a Tharros sono state realizzate anche riprese subacquee, nelle quali il ritrova-mento di un’ancora protofenicia, l’immagine della strada sommersa di Mozia, la base (così come sta ve-

nendo alla luce) di quello che fu il porto ddi Tharros, possono offrire emozioni inattese. Il prof. Sabatino Moscati ha an-che curato un catalogo, organizzato in qua-tro parti con un’appendice comprendente le schede del mate-riale presentato in mostra. Nella prima parte, intitolata “La civiltà dei Fenici”, offre una pre-sentazione globale della civiltà fenicio-punica nelle sue origini, nel suo sviluppo, nella sua irradia-zione, nelle sue tematiche generali (organizzazione politica e ammini-strativa, forze armate). Nella seconda parte, dedicata a “Le grandi aree”, viene tracciato un quadro approfondito ed esaurien-te, anche alla luce delle più recenti scoperte, dei diversi insediamen-ti fenici nel bacino mediterraneo, analizzandone le origini storico-geografiche e le profonde incidenze da essi derivate nelle varie zone: dal Medio Oriente a Cipro, dall’A-frica settentrionale alla Sicilia, dal-la Sardegna alla Spagna. La terza parte, intitolata “Il mon-do dell’arte”, vuole essere una presentazione d’insieme dei temi fondamentali corrispondenti alle categorie dei materiali che sono presentati nella mostra. Nella quarta parte, intitolata “I Fenici e gli altri”, viene affrontata la problematica delle relazioni dei Fenici con il mondo circonvicino: una trattazione necessaria quando si pensi all’amplissima irradiazione territoriale di questa civiltà. Va sottolineata infine la ricchez-za del materiale illustrativo - oltre 1500 fotografie frutto di un’appo-sita campagna fotografica, disegni, cartine - che fa del catalogo il libro più completo finora pubblicato sul-la civiltà dei Fenici.

L’allestimento della mostra

L’allestimento della mostra si è basato su tre principi comunicativi. Il primo, più tradizionale, presen-ta gli oggetti archeologici “in serie tipologica” per evidenziare mag-giormente, nella loro molteplicità, le singole caratteristiche e i diversi influssi artistici; questi oggetti sono esposti in vetrine e sono organizza-ti secondo le aree geografiche e ì

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luoghi di produzione della cui tura fenicia. Il secondo principio compone dei luoghi cerniera che separano le dif-ferenti aree geografiche come mo-menti di pausa mettendo in eviden-za le grandi tematiche storico-cul-turali fenicie, espresse secondo tec-niche espositive “spettacolari”per meglio coinvolgere i visitatori. Il racconto di questo “viaggio “ che il visitatore fa attraverso diverse aree geografiche, in un periodo sto-rico a noi così lontano e misterioso, viene rafforzato da un terzo prin-cipio espositivo che fa esplodere la didattica, così importante per que-sto tipo di mostre, in grandi raffigu-razioni dipinte e graffite sulle pareti delle singole sale. Si inizia così nella grande corte centrale di Palazzo Grassi, dalla grande duna dalla quale appaiono i sarcofagi in pietra, quasi a ricor-darci la meraviglia della scoperta archeologica, per passare via via all’Oriente-Fenicia, luogo di na-scita, a Cartagine, primo grande insediamento, alla Sardegna, alla Sicilia, alla Spagna, terre di conqui-ste pacifiche che mettono in risalto le caratteristiche marinaresche e commerciati di questo popolo noto anche per le sue usanze e credenze religiose ftofetj, per l’alfabeto e per l’invenzione della porpora. Que-sti temi, affrontati e rappresentati graficamente sulle pareti insieme ai testi letterari di autori classici, alle mappe geografiche, agli insedia-menti urbanistici, alle tipologie dei diversi e molteplici oggetti d’uso elaborati e prodotti dai Fenici, in-sieme ai confronti temporali con le altre civiltà, cercano di sperimenta-re per la prima volta la possibilità di integrare gli aspetti didattici e scientifici con un intenso coinvol-gimento personale dei visitatori ed una grande spettacolarità.(Notizie e dati sulla mostra sono stati ratti da un opuscolo illustra-tivo tramesso dall’Ufficio Stampa).

Notizie e dati sulla mostra sono stati tratti da un opu-scolo illustrativo trasmes-so dall’Ufficio Stama.

LA QUESTIONE DELL’ALFABETO

... Quello che sappiamo oggi sull’origine dell’alfabeto può riassu-mersi in questo modo: partendo dall’osservazione dei segni mono-consonantici egiziani, fu creato in Palestina un sistema grafico alfa-betico semitico che faceva largo uso di segni egiziani ma con valori fonetici tratti dal semitico; preceduto probabilmente da alcuni ten-tativi, tale sistema era pienamente operante prima del 1500 a.C. In una città fenicia (sembra esclusa Biblo) questo alfabeto palestinese subì una leggera trasformazione nella forma di alcuni segni; nella sua nuova forma è attestato nel XIV secolo a.C. direttamente in Pa-lestina e indirettamente a Ugarit. Ridotto a 22 segni, questo alfabeto continua ad essere documentato in Palestina tra il XIII e l’XI secolo (per la documentazione tra XIII e XI secolo a.C. gli studiosi del settore preferiscono parlare di scrittura “cananea” anziché fenicia), mentre per la Fenicia vi è un’oscillazione di date e di giudizio a seconda della posizione degli specialisti... ... L’alfabeto fenicio esprime soltanto le consonanti: non esistono segni per le vocali, che pure costituivano la lingua fenicia. L’intro-duzione sistematica delle vocali nella scrittura fu invenzione, certo non secondaria, dei Greci, che usarono per le vocali quei segni di consonanti fenicie che essi non possedevano o che non ritenevano necessario esprimere. In questo modo la consonante alef, una larin-gale, che i Greci pronunciavano ma non scrivevano, fu usata per la vocale a; il segno della consonante h fu usatoper la e; la faringale ayn, un suono tipicamente semitico, servì per la vocale o e così via ... ... Vogliamo infine concludere questa breve presentazione dei pro-blemi connessi con l’alfabeto con un accenno ad una questione ri-masta a lungo irrisolta, ma che potrebbe aver trovato di recente una soluzione imprevista e suggestiva: quella dell’ordine di successione dei segni. Il modo in cui si susseguono le nostre lettere alfabetiche {a, b, e, d, e ...) è antichissimo: è documentato direttamente nel XV secolo a.C. da un abecedario scoperto a Ugarit. Ma qual è la ragione per cui i segni stanno in quell’ordine e non in un altro? Certamente non si tratta di ragioni fonetiche (i suoni foneticamen-te vicini, come ad esempio t e d, s e z, si trovano distanti fra loro) e nemmeno grafiche (segni graficamente simili, come ayn e tet, gimele lamed ovvero gimel e pe, non stanno vicini); d’altra parte è difficile ammettere, per una mentalità come quella che caratterizzava le ci-viltà dell’antico Oriente, un raggruppamento casuale assolutamente privo di qualsiasi criterio, nemmeno a livello parziale. Una soluzio-ne è stata suggerita nel 1978 da Alessandro Bausani, il nostro genia-le orientalista specializzatosi poi in storia dell’astronomia orientale: sulla base dello studio delle stazioni lunari nell’astronomia araba, indiana e iranica, poste talvolta in corrispondenza con i ;egni dell’al-fabeto arabo secondo l’ordine antico (quello corrispondente a quello fenicio), il Bausani è giunto alla conclusione che l’ordine alfabetico fenicio raffigura una specie di calendario, dove i segni aleph, tet, ayn e taw appresenterebbero, nell’ordine, l’equinozio d’autunno, il sol-stizio d’in-rerno, l’equinozio di primavera e il solstizio d’estate: ciò in una situazione astronomica che vedeva il plenilunio dell’equino-zio autunnale in vicinanza Ielle Pleiadi, e cioè o intorno al 2000 o intorno al 1600 a .C ...

Estratto da: La questione dell’alfabeto di G. Garbini

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