La Rassegna d’Ischia 2/1992 3 -...

48

Transcript of La Rassegna d’Ischia 2/1992 3 -...

La Rassegna d’Ischia 2/1992 3

4 La Rassegna d’Ischia 2/1992

La Rassegna d’Ischia 2/1992 5

6 La Rassegna d’Ischia 2/1992

La Rassegna d’Ischia 2/1992 7

Il termalismo costi-tuisce la struttura portante di tutto l’armamentario turistico di Ischia, l’isola più termale del mondo con i suoi 29 bacini e 69 campi fuma-rolici scoperti fin dal XVI secolo da Giulio Jasolino, medico calabrese alla corte partenopea. Proprio gra-zie al termalismo l’isola ha avuto - soprattutto dagli anni ‘50 con gli interventi del cavaliere del lavoro Angelo Rizzoli (1888-1970) - uno straordinario sviluppo economico che oggi con 40 mila posti letto e 4 milioni di presenze pone Ischia al primo posto fra le località turisti-che della Campania. Per consolidare questa espansio-ne del turismo termale occorro-no tuttavia interventi diretti nel settore da parte degli enti locali e soprattutto bisogna potenziare la ricerca scientifica, già avviata negli anni ‘50 dal compianto prof. Pietro Malcovati, con un centro studi sul termalismo ischitano collegato con l’Università Federico II di Napoli, in modo da valorizzare il termali-smo sociale come cura preventiva, e ricercare nuovi mercati come quel-lo anglosassone tradizionalmente scettico sulle capacità terapeutiche delle acque termali. Ma occorre an-che che l’isola d’Ischia, proprio per il suo sviluppo maturo, migliori i suoi servizi pubblici: dalla distri-buzione idrica allo smaltimento dei rifiuti, dal traffico alla promozio-ne turistica, per affrontare a tutto campo la concorrenza nazionale e comunitaria che si accentuerà con il mercato aperto dell’Europa dei 12 Paesi che sarà istituito a partire dal 1° gennaio 1993. Queste le conclusioni del meeting sulle nuove vie del termalismo di Ischia che si tenuto nel salone delle Antiche Terme Comunali, per ini-ziativa dell’Ischia Thermal Center, la prima azienda mista del settore termale nata dalla collaborazione tra 9 imprenditori alberghieri ed il comune di Ischia.

Mee

ting

“Is

chia

, le

nuov

e vi

e de

l ter

mal

ism

o”

Consolidare l’intervento pubblicopotenziare la ricerca scientifica

Al meeting hanno preso parte il Dott. Antonio Buono, diretto-re sanitario dell’Ischia Thermal Center, il Dott. Carmine Ber-nardo, presidente del Consor-zio Acquedotto e Fognature e membro del Consiglio di ammi-nistrazione della società mista “Gestione Nuove Terme Comu-nali”, la signora Stefania Capal-do, presidente degli imprendi-tori termali di Casamicciola, il Dott. Antonio Fimiani, direttore sanitario dell’Hotel Continen-tal Terme, il sig. Gennaro della Vecchia, direttore amministra-tivo dell’Ischia Thermal Center, il Dott. Luigi Mattera, consi-gliere delegato al termalismo del comune di Ischia che ha pa-trocinato la manifestazione, il Dott. Giovanni Trani, presiden-te della società “Gestione Nuove Terme Comunali”, il rag. Lucia-no Bazzoli, presidente dell’As-sociazione degli albergatori di Ischia anche in rappresentan-za del presidente dei termalisti ischitani Dott. Giuseppe Di Co-stanzo. Il presidente del comitato dei garanti dell’USL 21, rag. Giu-seppe Brandi, ha moderato il dibattito al quale hanno preso parte anche il sindaco di Lacco Ameno, prof. Vincenzo Men-nella, ed il capogruppo del PSI al comune di Ischia, avv. Nello Mazzella. “La società mista delle Nuove Terme Comunali, che ha rea-lizzato l’Ischia Thermal Center, ha effettuato investimenti per 5 miliardi di lire con un capi-tale di un miliardo sottoscritto per 300 milioni dal comune di Ischia e per 700 milioni dai 9 albergatori - ha precisato Gen-naro Della Vecchia - registrando 6 mila curandi nel 1991, quindi un successo al di là di ogni rosea previsione che ha confermato la validità dell’intervento misto

8 La Rassegna d’Ischia 2/1992

nel settore termale e ci ha spinti a tenere aperta la nostra strut-tura termale anche durante i mesi invernali, poiché Ischia ha le potenzialità per un turismo termale esteso a tutto l’arco dell’anno”. Il consigliere delegato al ter-malismo del comune di Ischia, Dott. Luigi Mattera, ha annun-ciato la costituzione di un Cen-tro Studi sul Termalismo che avrà sede presso le Antiche Ter-me Comunali di Ischia, l’unica struttura pubblica del settore dell’isola, con l’istituzione di un rapporto di convenzione con la 1.a facoltà di medicina dell’U-niversità di Napoli e più preci-samente con l’Istituto di Far-macologia e Tossicologia, con la scuola di specializzazione in Idrologia Medica e la Cattedra di Medicina dello sport. Mediante tale convenzione - ha aggiunto il Dott. Mattera - si condurranno studi sui mezzi termali in uso presso le terme del comune di Ischia che saran-no pubblicati su riviste qualifi-cate, si organizzeranno conve-gni e seminari per la completa valorizzazione delle capacità te-

rapeutiche delle acque termali ischitane”. Soddisfazione per i risultati del primo anno di gestione della società mista delle Nuove Ter-me Comunali che ha realizzato l’Ischia Thermal Center è sta-ta espressa dal presidente del consiglio di amministrazione, Dott. Giovanni Trani, mentre il direttore sanitario, Dott. Anto-nio Buono, ha posto l’accento sulle moderne tecniche di cura termale. Il presidente dell’Associazio-ne degli imprenditori termali di Casamicciola, la più antica stazione termale dell’isola, ha annunciato che “l’Associazio-ne curerà la ristampa del testo fondamentale del termalismo ischitano, quello di Giulio Ja-solino “De rimedi naturali che sono nell’isola di Pithecusa hog-gi detta Ischia che risale al 1588, poiché sul solco delle antiche tradizioni occorre valorizzare le capacità terapeutiche delle ac-que di Casamicciola conosciu-te ed apprezzate da secoli con i suoi antichi stabilimenti terma-li”. Il Dott. Antonio Fimiani, diret-

tore dell’Hotel Continental Ter-me, ha presentato il nuovo “pac-chetto per lo sport” che prevede l’utilizzazione delle cure termali per gli atleti di calcio e di basket. Il rag. Luciano Bazzoli ha sot-tolineato il “ruolo fondamen-tale che svolge l’imprenditoria privata nel settore del turismo termale ischitano che chiede più responsabilità da parte degli enti locali, soprattutto per una migliore gestione dei servizi pubblici”. Il Dott. Carmine Bernardo ha posto l’accento sull’appunta-mento della riforma del con-sorzio acquedotto e fognature che dovrà avvenire entro il 12 giugno prossimo ai sensi della legge 142/90 di riforma degli enti locali. Nel corso del meeting sono stati consegnati gli attestati di partecipazione ad uno stage sul termalismo svoltosi all’I-schia Thermal Center a 20 stu-denti dell’Istituto Professiona-le per i servizi commerciali e turistici di Crotone.

TDC

La Rassegna d’Ischia 2/1992 9

Rimini sull’Adriatico, figu-re grandi e famose vi sono passate, tra cui S. Antonio da Padova. I libri di storia parlano anche di altri illustri nomi, nessuno di quelli che hanno la voglia di portare Cristo ai fratelli, come Suor Gigliola, riminese (in foto con un gruppo di bambini), una delle tante questuanti la carità cristiana.

Nata il 12 giugno 1915, già fan-ciulla avverte il donarsi al servizio ai piccoli, ai poveri. In lei c’è una presenza viva che l’attira suora. Nell’autunno del 1940, viene ac-colta nella casa generalizia delle Stimmatine in Firenze, dove tra-scorre il probandato. L’anno se-guente, a 26 anni, nella cappella

E’ vano affaticarsi o perdere il sonno per le preoccupazioni del mondo (Salmo 126)

Ricordo diSuor Gigliola

Trasferita nel 1950 nella casa delle Stimmatine di Lacco Ameno, si buttò senza perdere tempo a offrire luce e calore nei cuori dei piccoli che affollavano fin dal mattino l’asilo infantile

dell’Istituto, sotto gli occhi della Vergine Maria, veste il ruvido saio francescano, emette i voti di po-vertà, castità e obbedienza. Aveva coronato il suo sogno d’amore a Cristo. In quel giorno scrive-va: “Ho scelto come unico amore dell’anima mia Gesù Cristo, e vo-glio essergli fedele fino alla mor-te”. Inclinata all’educazione dei bam-bini, frequenta il corso di maestra d’asilo, si diploma, ed ecco la via libera alla vocazione per i piccoli. Nel 1950 fu trasferita nella casa delle Stimmatine in Lacco Ameno, un paesino di pescatori, seminato lungo la marina, tra gente pove-ra ancora provata dai rigori della guerra. Essa, sempre umile ma carica di zelo per le anime, si buttò sen-za perdere tempo a offrire luce e calore nei cuori dei piccoli che

affollavano fin dal mattino l’asilo infantile. Proponendo in primo piano l’evangelizzazione, teneva inoltre insegnamento catechistico ai fanciulli in preparazione della prima Comunione, in determinati pomeriggi stabiliti dal parroco. La sua giornata era piena: si restava stupefatti di fronte al suo intenso lavoro tirato fino alla perdita della sua fioca voce. E come se ciò non bastasse, all’occorrenza, era sempre dispo-sta alle pulizie della casa o in cu-cina. Quante volte l’ho sorpresa con i manichi rimboccati a lavare, torcere i capi di biancheria sul la-vatoio di pietra. Per fare storia della sua vita la storia di Gesù con noi, assieme ad altra sorella, faceva visite di conforto nelle famiglie bisogno-se e là dove si trovavano malati. Portava il poco che aveva: me-

10 La Rassegna d’Ischia 2/1992

dagline, corone per il Rosario, e colloquiando, pregando in-sieme, preparava in quei cuori afflitti la festa nuova di Gesù, la devozione alla Madonna. Comprendeva bene che molti di essi, in quelle particolari con-dizioni, non potevano seguire la chiesa e convertirsi. Signore, tu ci hai chiamato a seguirti nel Tuo cammino di croce, che im-porta se la croce si fa più pesan-te! gusteremo il suo peso. In quel triste e penoso dopo-guerra, le suore dovettero as-sumersi pure il compito di pre-parare il calderone ai bambini dell’asilo e a tanti altri delle elementari che penetravano di nascosto. Così la gratuità del loro amore, fatta di sacrifici e di offerte, si aprì senza aspettare quella dell’altro. Solidali nel dono incondizio-nato di sé, di fronte alle scar-se erogazioni dell’assistenza dell’E.C.A. (farina, latte in pol-vere, farina di piselli), quella della cucina, Suor Gioconda, dinamica e intraprendente, as-sieme alla nostra suor Gigliola, che le ubbidiva ciecamente, de-cisero di questuare offerte na-turali nelle campagne del paese per cambiare nella stagione dei fanciulli una minestra più ac-cettabile. L’amore verso i pic-coli faceva diventare industrio-si come l’ape. La carità non le stancava: essa veniva realizzata nel Signore, nel dialogo, nel si-lenzio di un cuore che prega, nell’operosità per il fabbisogno degli altri. Quante volte, in sul tramonto, stupito, ho incontrato queste umili suore dinanzi al ministero di Dio: di ritorno dalle campa-gne, affaticate, discinte, con la legna sul capo, fasci di verdura e borse ricolme, pendenti dalle loro stanche braccia, quando miseria e fede erano lontano dalla paura di amarsi e pro-

tese al servizio degli uomini! Signore, fa che sia anche nostra questa esperienza perché pos-siamo annunciare nel nostro presente la nuova vita e farti in-contrare e amare dagli altri. Prima che chiudesse la gior-nata, per la discepola di Cristo stanno riservate altre esigenze per la sequela. Appena che la nidiata faceva ritorno alle pro-prie case, subentrava in quell’o-asi di pace la tenebra luminosa del silenzio, l’incontro con il Signore, ricercato e adorato nel Tabernacolo Eucaristico: Cristo piissimo, fratelli di tutti i fratelli del mondo. Solo Dio sa quanto sia stato glorificato, e la Madonna quan-ta sia stata amata e venerata. Essi soltanto potranno svelare il grado della vita interiore, il bene operato da suor Gigliola nei 41 anni di lavoro, segnati da Lui al servizio della gente di Lacco Ameno. Vorrei rilevare ciò che più mi ha colpito per vincere il mondo: il suo umile cuore, la rassegnazione cieca alla sua chiamata. La sua costante umiltà sarà piaciuta al Signore: questo stu-pore che dinanzi al Suo mistero deciderà del nostro futuro. Coloro che hanno così credu-to all’Amore vivranno sereni nell’attesa della Sua venuta. Signore, Tu ci precedi, Tu ci at-tendi, per fare della nostra vita la Tua storia! Il pomeriggio avanti la sua dipartita, alla superiora mera-vigliata che l’accompagnava a braccio in cappella, suo Gigliola ripetendo: “Signore, un posti-cino anche per me”, le chie-se se fosse spoglia di tutto...., poi si inginocchiò davanti al Tabernacolo Eucaristico, aprì le braccia e disse: “Signore, mi metto nelle tue sante mani”. Fu lo spogliamento totale di sé. Il mattino seguente, 8 genna-

io, si aggravò improvvisamen-te. Mormorava lentamente: “Signore aiutami! Madonna mia aiutami! Signore, fammi vedere il tuo volto”. Pregando si spen-se serenamente: il sorriso sul volto, la corona nelle mani, fra la commozione delle consorelle. Istanti solenni... che brividi di fede! Sicuramente, o Dio d’eterno amore e d’immensa misericor-dia, Ti lasciasti contemplare dai suoi limpidi occhi e possederTi! L’annuncio della sua morte volò subito per il paese, richia-mò una fiumana di gente, un’in-tera generazione: padri, madri, giovani, fanciulli, quanti l’ebbe-ro maestra ai primi passi! Essi, risalendo la scala dell’asilo, ve-nivano a rivederla ormai spen-ta, distesa sulla nuda terra tra i fiori che le portavano; e, fermi nella cappella, dove avevano tante volte pregato con lei, com-mossi, pregavano Dio per la sua anima benedetta. Alle ore 15 del pomeriggio, la bara portata a spalla, accom-pagnata da una folla di fedeli, entrava al suono festoso delle campane nella chiesa parroc-chiale di S. Maria delle grazie. Il nostro Vescovo, Mons. Antonio Pagano, presenziò la Concelebrazione Eucaristica. Sepolta nel camposanto dei morti, la sua tomba è apparsa improvvisamente ricomposta, adorna di marmi e di fiori. Chi il donante? “E’ stata la mia ma-estra d’asilo, 34 anni fa”, mi ha detto Giovan Giuseppe Monti, custode del cimitero di Lacco Ameno; “il mio vuole essere un amore di risposta ai sacrifici che ha fatto per noi”.

Di questa storia così umilesi faccia contemporaneala voce della Chiesa.

don Pietro Monti

La Rassegna d’Ischia 2/1992 11

Sono vissuto nel Cierco per più di 40 anni. Posso perciò raccontarvi com’era nell’immediato dopoguer-ra e come è diventato oggi e perché. Per certi aspetti è un quartiere sim-bolo delle trasformazioni avvenute nel paese dagli anni ‘40 in poi, an-che se, a differenza di altri, conser-va tracce evidenti del settecentesco decoro e, almeno sotto il profilo architettonico, non ha perso il fa-scino di un quartiere antico, dove ancor oggi si può vivere e respirare il passato. Vi si accede da via G. Morgera: il nome ricorda un martire della ri-voluzione napoletana del 1799, tra l’altro sacerdote. La strada è piut-tosto stretta e incassata tra case ora più alte, ora più basse, di cui alcu-ne conservano il fascino dell’antico negli ampi porticati, nei giardini interni ed esterni, nelle camere spaziose ed alte. Accanto a queste, altre dimore, più piccole, dimesse, abitazioni di gente meno agiata e tuttavia profondamente legata al quartiere. Al centro di questo grande rio-ne una chiesa dedicata a S. Carlo Borromeo, ma comunemente detta della Madonna della Libera, titolo con il quale le genti vesuviane han-no onorato la Madre di Dio fin dal 1300, per ringraziarla della prote-zione accordata loro in occasione delle varie eruzioni del Vesuvio. La data di fondazione del tempio è il 1620, come recita una lapide posta sul frontale. La costruirono i fratelli Sportiello, pare, per adempiere ad un voto: qualcuno della famiglia aveva commesso un omicidio e in penitenza aveva ricevuto l’obbligo di costruire due chiese che dove-vano essere dirimpettaie. L’altra sarebbe la piccola S. Maria del Monte, ben visibile dal piazzale an-tistante la Chiesa del Cierco. Interessante e pregevole l’ar-

Forio

Il Ciercoieri e oggi

Aniello Penza

chitettura: si tratta di un tardo Rinascimento per gli archi a tutto sesto e i fregi classici interni. La cosa straordinaria è che i pilastri, gli archi, le nicchie, i fregi sono scolpiti “in pietra verde del Cierco” ossia in tufo verde, che è abba-stanza morbido e friabile e quindi di difficile lavorazione. Il risultato però è mirabile: le pietre, scolpi-te alla perfezione, appaiono erose solo dal tempo. Questo tempio, una volta della fa-miglia Sportiello e ora di proprietà diocesana, è stato recentemente restaurato a cura di un gruppo di abitanti della zona, che in occasio-ne della festa della Madonna della Libera, celebrata ogni anno la se-conda domenica di novembre, si costituisce in comitato. Il risultato è davvero apprezzabile: la chiesa ha quasi riassunto l’aspetto origi-nario, anche grazie alla pulitura degli affreschi sparsi su tutte le mura. Mancano ovviamente quelli della volta e della cupola, che non esistono più, dato che l’edificio subì danni gravissimi nel terremoto del 1883. Questa chiesa è il centro spi-rituale degli abitanti della zona. E ricordo che lo è sempre stato. Vi si celebravano con gran concorso di popolo la novena di Natale, la pre-parazione alla Pasqua, il mese di maggio, la festa di S. Carlo e quel-la particolarmente amata in ono-re della Madonna della Libera, in occasione della quale il quartiere, ancor oggi, si veste a festa per acco-gliere tutti i foriani devoti. Negli anni ‘40 e ‘50, quando il tu-rismo muoveva i primi passi e i gio-vani vivevano di più la famiglia e il quartiere, per noi ragazzi il Cierco era la casa di tutti. Cari e molteplici ricordi di gaie e spensierate serate vissute accanto ai nostri, magari facendo un po’ di baldoria per inn-vervosirli o soltanto per dare sfogo

alla nostra esuberanza. Sfilano nel-la memoria i volti di molte persone che non ci sono più e che hanno portato via con sé una parte anche di noi sopravvissuti. Vita semplice quella di allora, si potrebbe quasi dire povera. C’era la povertà del do-poguerra, ma anche tanta voglia di ricominciare, magari attraverso il duro lavoro dei campi. Il Cierco era un quartiere di contadini: la mag-gior parte degli abitanti si alzava di buon’ora a partire dalla primavera e fino all’autunno per recarsi nei campi più o meno vicini ad affron-tare la fatica dell’agricoltura. Il quartiere si spopolava: i bam-bini a scuola, i padri in campagna, le madri a casa a preparare quanto era necessario per i bisogni familia-ri. All’ora di pranzo i bambini tor-navano, le strade si rianimavano, ricominciavano il gioco e il vociare. Ma a sera il quartiere si ripopola-va completamente e, specialmen-te d’estate, diventava comunità: gli uomini, seduti sulle scale della chiesa o della propria casa, parla-vano dei loro problemi, delle loro avventure, del servizio militare, a volte si occupavano ingenuamen-te anche di politica. Le donne sul-la porta di casa facevano gruppo: ciarlavano, ridevano, pettegola-vano, ma dimenticavano la fatica della giornata e le difficoltà di una vita non certamente agiata. I ragaz-zi, quanti ragazzi!, si riunivano per giocare, magari a nascondino; non c’era la luce elettrica; l’unica luce era quella della luna, a volte di uno splendore arcano, capace di creare giochi di luci e di ombre, che favo-rivano ed allietavano i divertimenti giovanili ed erano l’unica guida nei loro veloci e repentini spostamenti. Il senso di solidarietà si manife-stava soprattutto nelle circostanze liete o tristi delle singole famiglie: ogni dolore ed ogni lutto era il lutto e il dolore di tutti; ogni festa era la festa di tutti. Anche se non mancavano forme di invadenza, d’altronde inevitabili, l’interesse di tutti per tutti era un indubbio con-forto. Quelle persone che non ave-vano molto, erano l’una per l’altra:

12 La Rassegna d’Ischia 2/1992

ognuno sapeva di poter contare su quello della porta a fianco in caso di necessità. La povertà non costitui-va ostacolo per la fraternità, anzi la favoriva: tutti uniti si sapeva che si potevano affrontare meglio le dif-ficoltà. L epoche famiglie borghesi non partecipavano a questa soli-darietà con la stessa intensità del-le altre, ma questo non importava molto. Oggi quel quartiere è profonda-mente cambiato. Poche sono le persone di allora che ancora lo abi-tano, alcune perché sono partite da questo mondo, altre perché sono andate lontano, o in altri quartieri del paese o addirittura sul conti-nente. La popolazione è diminuita di molto: ho notato che molte case sono disabitate. Ci sono ancora i ragazzi sul piazzale davanti alla chiesa, ma sono tanti di meno. Le famiglie sono meno numerose e scarsamente collegate; le gaie sera-te di un tempo sono solo un ricordo di chi le ha vissute. Il consumismo ha alterato la fisionomia del quar-tiere: tutti hanno di più, tutti sono di meno. Le case, curate, sono più belle, quelle disabitate crollano. Agli agricoltori di un tempo sono subentrati gli operai di ogni setto-re, specialmente quello turistico e quello edile. Le famiglie borghesi non sono più tali, quelle proleta-rie non esistono più: la tendenza è all’integrazione e all’appiattimento. Tuttavia il rione conserva il fasci-no antico: è l’unico in tutto il comu-ne che non è stato profondamente alterato nella sua topografia: la strada è ancora la stessa, anche se un ignobile manto di asfalto ha co-perto i basoli di una volta; le case borghesi, magari un po’ abbando-nate, sono sempre lì; la chiesa con il suo insopprimibile richiamo co-stituisce, ora come allora, il centro spirituale della zona; la gente con-serva in molti casi l’uso dell’antico dialetto foriano; i piccoli campi che fiancheggiano abitazioni più o meno grandi, a volte ti arrivano fin sulla strada per allietarti con il profumo dei fiori o con la gioia che sempre dà un campo ben coltivato. Ma ci sono anche tante, troppe au-tomobili, che ti tolgono il gusto di

passeggiere nel quartiere e ne am-morbano l’aria. Chiudo con l’invito a prendere in considerazione l’ipotesi di una

più attenta custodia dei valori del Cierco, per motivi anche turistici.

Aniello Penza

La Rassegna d’Ischia 2/1992 13

Le radici di Napoli

Parthenope, scultura gigantesca, me-glio nota come “‘onna Marianna ‘a capa ‘e Napule, rinvenuta a S. Aniello a Caponapoli

La culla di Napoli è su Pizzofalcone.

Lì tra il 630 ed il 580 a C. i primi

nuclei greci fon darono Partenope, la dolce sirena eponima smagata dall’amore di Metioco, e solo suc-cessivamente verso il 474, poco distante, nasceva Neapolis.

La ragione di questa scelta urbani stica non stava tanto nel-la facile raggiungibi lità del mare quanto piuttosto nella na tura del sottosuolo.

Il fatto è che quasi tutta Napoli poggia su un solo blocco di tufo giallo, materiale con il quale sono stati costruiti per se coli tutti gli edifici.

Basta cominciare con una pas-seggiata nel centro sto rico dal Gesù Nuovo a Poggio reale e poi su verso Capodi monte fino a Miliscola.

Verso la metà del V sec. Nea-polis, che aveva già inglo bato la mitica Partenope, contava quasi 30.000 coloni e le cave di tufo, a

cielo aperto, erano dissemi nate lungo il pendio di quella che oggi è il quartiere Sanità.

Col granu lato, tagliato a spigoli concavi oppure a doppia cor tina con sperone trasver sale, era-no state in nalzate le mura le cui vesti gia sono state rinve nute in

piazza Bellini, via Costanti nopoli, via Foria ed al trove.

Con la parte nobile del tufo, la gialla fine, veni vano alzate le case. I cava monti ado peravano diversi ter mini per definire le va-rie qua lità dell’arenaria estratta: la cima di monte, la pietra are-nosa, la dura, la ferri gna, la gialla fine.

Le caratteristiche fi sico/mecca-niche delle varie qualità non sono poi tanto di verse.

E’ solo che la gialla fine è tut-tora la più ricer cata per la morbi-dezza della grana, docile e com-patta.

Un discorso a parte me rita il tufo pu gliese e del basso mate-rano. Questa pietra, in genere, ha interes sato an che vari artisti contem poranei che ne sono ri-masti aff ascinati: da Chillida a Melotti.

La stessa archi tettura colta ten-de a rivalutarlo per le sue qualità di resistenza, esteti che, coiben-tanti e fono assorbenti.

14 La Rassegna d’Ischia 2/1992

Nell’isola Megaride , ove si trovava il borgo Marinari, si erge ora Castel dell’Ovo

Ma tornando ai greci diciamo che ad un certo punto si pose pres sante il pro blema dell’approvvi-gionamento idrico e quindi della costru zione di un si stema di capta zione e distribu zione.

Dalle falde del monte Somma attra verso una condotta di circa 10 Km.- il co siddetto acquedotto “ della Bolla “ - l’acqua arri vava a Neapolis.

La rete fu sfruttata a lungo finchè i ro mani, at-torno al 50 d. C., rea lizzarono l’acquedotto Clau-dio, che dal Serino, all’aperto, per circa 60 km., ed in sotterranea, dalla città in poi, rag giungeva la flotta imperiale di stanza a Miliscola, sede an-che della scuola militare. Il toponimo è fin troppo chiaro.

Lungo il li torale l’acqua serviva an che per le vil-le patrizie di Velio Pollione a Posillipo, di Lucullo sulla Megaride, di Bruto a Nisida e di riflesso tutta la città risentì positiva mente del servizio off erto da quella che era stata un’iniziativa militare e tu-ristica.

Lo stesso termine “Serino”, fino a pochi anni ad-dietro, era sinonimo a Na poli di quanto di meglio si potesse consumare.

Altro che l’acqua in bot tiglie di pla stica d’oggi! Ma tant’è. I passaggi d’ispezione alle ci sterne, le chiuse, i

cunicoli, le stesse cisterne, tutt’ora perfettamente into nacate e con servate, lasciano affascinato il visi-tatore, così come, nel 1340, il Pe trarca che, incan-tato dallo spettacolo offerto dal grande serbatoio romano di Miseno - quasi una Basilica dell’archi-tettura imperiale -, lo definì “ Piscina mira bilis”.

Ed il termine di Piscina Mi rabile si usa tuttora per de finire il serba toio ro mano costruito sotto la dire zione dell’ architetto Lucio Cocceio Aneto.

Tutto questo pi stolotto introduttivo m’è ser vito, permettetemelo, prima di rac contare una magnifi-ca escur sione che ho fatto, pochi giorni fa, nel sot-

tosuolo di Napoli partendo all’incirca da un vicolo nei pressi di S.Anna di Palazzo.

Siamo scesi attra verso un pozzo a circa 50 metri nel sot tosuolo.

Il silenzio placentare del “ventre di Napoli” men-tre sopra brulica - insanabile ? - la furia bruta del quotidiano ci accoglie all’ improvviso e intanto un omino accattivante e garbato: tale Quaranta - Hermes psico pompo metrolitano - ci guida.

Siamo in una delle cisterne ro mane a po chi me-tri da Pizzofalcone.

La mitica: “ Illo Vergilium me tempore dulcis ale-bat Parthenope “ [ A quel tempo vivevo, io Virgilio, nutrito dalla dolce Partenope - Georg.IV,563]

Attraverso una serie di fendi ture larghe pochi cen- timetri più del sotto scritto - rassicu ratevi: sono abbastanza ampio - si passa in altri locali che non sono altro che successive ci sterne, monumen-tali ed impo nenti, alte dai 10 metri in su.

La cosa più interessante è l’uso che di tutta la rete è stato fatto in epoca più re cente.

Tra il 1588 ed il 1615 gli spagnoli per frenare la crescita urbanistica della città , racconta il signor Quaranta, emanarono una serie di grida tese a proibire l’estrazione del tufo dalla pe riferia di Napoli.

Ma - certo non è che a tutti i po litici difetti l’in-telligenza, solo che se si è attorniati da cretini è meglio - mentre da una parte si le giferava in pieno orgasmo proibizionistico dall’altra il popolo usava il cervello.

E così il tufo anziché cer carlo all’aperto veniva estratto dalle cisterne. Evidentemente i cavatori sa pevano bene il me stiere in quanto si trattava di scavare sotto garantendo l’equilibrio statico del suolo di sopra su cui sarebbero state co struite le case.

Le cisterne venivano così allargate, come si dice, a perfetta regola d’arte, con forma trapezoidale o “ a volta piana”, oppure “ a bottiglia “ o “ a campa-na“.

La Rassegna d’Ischia 2/1992 15

Graffiti all’interno delle grotte

Dall’interno delle case signo-rili o dai palazzi scen devano di-rettamente nelle ci sterne pree-sistenti stretti pozzi at traverso i quali si cala vano i secchi per attin gere l’acqua.

La fitta rete sotterranea di fen-ditoie, cunicoli e ci sterne diven-tava così il re gno dei “pozzari “ - veri signori dei luoghi - deposi tari della manutenzione e dei segreti degli intri chi.

Essi soli, a qualsiasi ora, dal fondo dei pozzi, avevano libe-ro accesso nelle case e potevano così,liberamente, trovare il tem-po per amori ancillari o portare alle “signorine”, in trepida attesa, furtive notizie di segreti Romei.

Tanto in casa si sarebbe detto che era passato il “ monaciello “.

Questo, per sommi capi, fino al 1884 quando per una fuoriuscita d’acqua in fetta da un pozzo nero scoppiò il colera per cui si pensò di dotare Napoli d’un acquedotto moderno e non più facendo ri-corso a canali - come quello del Carmignano - a pelo li bero.

L’inizio dell’acquedotto intu-bato diede il colpo di grazia all’uso delle antiche cisterne che adesso sopravvi vono, magi che testimo-nianze del passato, grazie all’o-pera di tutela dei vo lontari della L.A.E.S ( Li bera Associazione Escursioni sti del Sottosuolo, con sede in via S. Teresella de-gli Spagnoli, 24 - tel. 40 02 56 ), come ci racconta il no stro Ermes/Quaranta.

La com mozione prende un po’ tutti quando veniamo in vitati ad os servare una serie di graffi ti lun-go le pareti di alcuni muri.

Volti di donne anni ‘40, un sommergi bile perfettamente ri-prodotto, liriche in stile dan-nunziano e battutacce mi sogine testimoniano l’ultimo dono che la Napoli di pochi anni fa ha voluto fare ai suoi figli.

Queste cavità sono state riat-tate.

Alcuni pozzi dilatati per farne passaggi d’accesso fino a trenta/quaranta metri di profondità,

i cunicoli al largati e le cisterne perfetta mente intonacate, servite da impianti elettrici e fornite di rudimentali ma efficienti ser vizi igienici hanno accolto, a volte per parecchi giorni, intere fami glie che cercavano di sfug gire ai bom-bardamenti alleati .

Nell’angolo in fondo ad una grotta il dono che i ge nitori han-no voluto fare ad una coppia di giovani sposi: un piccolo vano di due/tre metri quadri, a 40 me-tri di profon dità, ha custodito i segreti della loro prima notte di nozze.

Dal fondo d’uno di que sti pas-saggi una sposa ha tre pidato per la sorte del suo compagno in Russia.

Eros e morte, messe e battesi-mi, hanno scandito la vita di mol-ti napo letani fino al settembre del ‘43.

La città delle tenebre si offre ora nel silenzio sa crale, testimone del passato.

A un tratto la nostra guida invi-ta tutti a tacere.

Siamo tutti all’interno d’una va-sta cavità. Si spengono le luci.

Lentamente lo spazio/tempo si dissolve e ciascuno, a suo modo, viene invitato a confrontarsi col buio ed il silenzio.

L’esperienza é indescrivibile. Tornano a galla, alla coscienza, spezzoni di memoria, bolle ri-mosse dal tempo, é un fluire di vissuto che scorre nella mente fino a separare ciascuno da tutti e tutto.

Poi mentre si riaccendono le luci le sensazioni lentamente svaniscono.

E’ stato un tuffo nella storia e poi di nuovo so pra verso il sole.

Il Sig. Quaranta, come un fol-letto, ci sa luta e torna a scavare e pu lire le grotte.

Però basta telefonargli e vi darà appuntamento da vanti al Gambrinus, in piazza Trieste e Trento.

Io di certo lo ri chiamerò.

Pierluigi Di Majo

16 La Rassegna d’Ischia 2/1992

Giunge un po’ in ritardo all’ap-puntamento fissato alla galleria “Il Canovaccio” nel centro storico di Roma dove sta per avere inizio, condotto da Walter Mauro, un importante incontro commemo-rativo su Montale nel decennale della sua morte. C’è la crema del bel mondo culturale e artistico ro-mano. Al suo apparire colla solita aria da bohémien, il noto foulard rosso al collo, i lunghi capelli neri un po’ spruzzati di grigio e quel suo broncio di ragazzo incompre-so, tutti (o quasi) gli si fanno in-contro con la cordialità riservata a pochi privilegiati. Mi ha portato due preziosi doni: un volumetto della collezione Newman poesia intitolato “Gatos” (una ventina di sue deliziose liriche sui gatti nella doppia versione italiana e spagnola) e una copia de “I poeti al balcone” (Ed. Attico a cura di Argento Migliore).

Dario, c’è qualche importante novità editoriale che ti riguarda? “Sì infatti: il libro “Invettive e licenze” pubblicato in ristampa da Garzanti con mie poesie di vent’anni fa. E’ una raccolta della mia produzione giovanile”.

Dunque non ripudi, come spesso avviene ai poeti, quanto scritto in passato? “Anzi, forse le mie poesie più belle le ho scritte proprio fra i venti e venticinque anni”.

Soffri per caso ora di crisi d’i-dentità? Sai bene che sempre più insistentemente si parla di una crisi d’identità della poesia. Cre-di che per questo motivo e per

Intervista a Dario Bellezza di Carla Vidiri Varano

gli accesi dibattiti critici relati-vi all’argomento i poeti di oggi facciano di tutto per costruire un linguaggio forzatamente au-tentico e forzatamente irripetibi-le? Non credi che i più vengano sopraffatti da un’ansia di novi-tà eccessiva a tutto danno della spontaneità poetica? “Non sono d’accordo in questo senso per quanto mi riguarda. Credo che i poeti veri, se sono tali, non hanno crisi d’identità. Se poi in senso collettivo la poesia sofr-ra di una tale crisi, ciò è possibi-le, ma questo accadeva anche ai tempi di Omero o di Baudelaire”.

Tu parli di poeta “vero”. Sei proprio convinto che la verità d’un poeta non sia solo e sempre un’utopia, specie per chi voglia inserirsi ufficialmente nei filoni che contano della poesia contem-poranea? “La verità è un fatto religioso, sacrale. Certo il poeta può anche perseguire la menzogna, ma quel-lo che conta sono i risultati ed an-che i risultati sono un fatto indivi-duale. Certo un poeta può anche entrare in crisi ma nei confronti delle ideologie, della società, del suo modo d’esprimersi, questo è un fatto comune ad ogni artista”.

Se da più parti (alcune auto-revolissime) si ritiene indispen-sabile il cosiddetto “scarto della norma” prevalendo l’interesse per le metodologie strutturali-stiche e semiologiche, tu ritieni veramente efficaci tali orienta-menti? “Io credo che queste metodo-logie vadano bene per lo studio

La Rassegna d’Ischia 2/1992 17

della poesia ovvero per la critica e per la storia della poesia, ma non credo che possano far ampliare l’immaginazione, la coscienza, il mondo poetico d’un artista”.

Nell’attuale quadro di disimpe-gno e di disordine socio-politico e ideologico, di violento postcomu-nismo, credi che la nuova poesia finirà col privilegiare un ritorno alla chiusura intimistica più che all’osservazione del reale? “Credo che la poesia soprattut-to sia uno specchio del mondo che la produce. Il più delle volte essa è in grado di trasformare il suo dettato dal negativo al positi-vo. Per esempio quando mi parli di postcomunismo penso ad un poeta impegnato politicamente, ora, per il passato un Foscolo o un Pasolini hanno trasformato sia la crisi risorgimentale il primo che ideologica il secondo dei loro tempi in un’espressione altissi-ma di poesia. Ora dovrà venire un poeta che saprà trasformare la crisi del mondo occidentale in grande poesia. Tuttavia ciò sarà abbastanza difficile perché oggi viviamo in una civiltà veramente barbarica affidata ai mass-media per cui è più difficile esprimersi”.

Ogni poeta in genere viene do-lorosamente etichettato: consi-derato affine a un caposcuola, seguace di una corrente. Tra i vari maestri che ti sono stati at-tribuiti quali rigetteresti con mi-nor sdegno? “Tutto sommato accetterei le più volte attribuitemi ascendenze di poeta “maledetto” in quanto ogni poeta è un po’ maledetto, natural-mente nel significato francese di “maudits””.

Dunque nel senso verlainiano di poeta “assoluto” e vero creatore? “ Sì in quel senso, riferendomi al filone cui appartennero anche Rimbaud, Baudelaire, Mallarmé. Questi i miei maestri, molto più dei soliti che mi vengono attribu-

iti e cioè Penna e Pasolini. Que-sti poeti ho cominciato a leggerli quando la mia formazione era già avvenuta e avvenuta sui classici, di modo che il mio vero maestro (e ci tengo a precisarlo) è stato il Leopardi”.

Nelle varie produzioni regiona-listiche che per motivi di sintesi raggrupperemo nelle due cate-gorie del Nord e Sud, quali diffe-renze cogli e quali preferisci? “ Credo che la produzione del Nord sia molto aiutata dall’edito-ria e per questo motivo ha molto più riscontro di quella del Sud. Ma dire che preferisco quest’ulti-ma è pleonastico, perché mi con-sidero un po’ meridionale. Tut-tavia c’è sempre la paura che il meridionalismo diventi cascame neorealistico, diventi solo rim-pianto, nostalgia o sterile medi-tazione sulla natura. Molti poeti meridionali infatti cantano ma non pensano, laddove io credo che la vera poesia sia quella che mentre canta soprattutto pensa. La poesia vuota che non ha pen-siero dentro, che non ha visione del mondo, mi lascia molto per-plesso. Per cui ci sono difetti sia nella poesia del Sud che in quella del Nord. La poesia del Nord che vuol essere troppo avanguardisti-ca e legata ai mass-media e quella del Sud che resta troppo avvinta alla tradizione”.

Hai parlato dei difetti, ora parla un po’ dei pregi citando possibil-mente qualche nome. “ Parlando in generale è quasi impossibile elencare i pregi. Ed in particolare posso far riferimento, per ragioni comprensibili, solo a poeti non viventi. Esemplificativo per il Sud mi pare Rocco Scotella-ro sebbene non sia esente anche lui da difetti. Per dirne uno: tutto il suo mondo poetico è affidato ad immagini che poi non si strut-turano in qualcosa di profondo. Tuttavia ha grandi pregi quali l’abbandono nel cantare, l’impe-

gno socio-politico, il suo neoreali-smo etc. E invece nel Nord l’avan-guardismo sfrenato, che si realiz-za in scrittori come Sanguineti o Balestrini, offre delle produzioni dove c’è solo sperimentalismo o tecnicismo ma dove non c’è ani-ma””.

Hai dimenticato quanto detto prima che volevi escludere i vi-venti? “Infatti! Ma non ti sfugge nien-te!”

Ritieni che nell’impulso di rin-novamento insito nel concetto stesso di poesia il poeta futuro potrà ancora influire positiva-mente sul progresso dell’uomo e della civiltà? “Io credo di no perché appunto il potere che si concentra nel potere editoriale e in quello dei mass-media ha allontanato il poeta dai suoi grandi compiti. Se pensiamo alla importanza che aveva il poeta nella coscienza nazionale in pas-sato, anche a voler rimanere solo in Italia, se pensiamo ai vati, alle triadi dei vati: dal Petrarca fino a Ungaretti e Montale, oggi ci ac-corgiamo che i poeti non hanno più questa funzione. Oggi conta-no i personaggi da baraccone che fanno opinione e sono i vari Sgar-bi, Busi e compagnia bella”.

Sei contro Busi? Ma non gli avevi dedicato in “Serpenta” un componimento? “ Non sono contro di lui ed è vero che gli ho dedicato una poesia ma a quei tempi era gentilissimo con me perché non era ancora famo-so. Appena ha avuto un po’ di successo, ha cominciato ad attac-carmi”.

Pensi che il compito del poeta sia quello di aiutare l’uomo ad il-ludersi, a insegnargli ad affron-tare i vari nodi esistenziali op-pure quello di metterlo di fronte alla drammatica inconoscibilità d’ogni cosa? Insomma di fronte

18 La Rassegna d’Ischia 2/1992

ad un mallarmeano nichilismo radicale o anche ad un concetto di scrittura come lo voleva Jabès quale luogo utopico di nascita e dissolvenza? “Penso che la funzione della po-esia possa anche essere quella di Jabès ovvero la dissoluzione del vissuto nella parola nello stile, però mi chiedo se sia possibile un eroismo perseguibile così fino in fondo. Anche in questo caso mi appello all’individuo: se uno avesse la forza di Jabès sarebbe tanto di guadagnato”.

Ritieni d’aver operato un gra-duale rinnovamento nella tua poesia? “ Sono indubbiamente cambia-to. Ho cercato di evolvermi sia in senso formale che intimamente e credo d’esser maturato ma questo non significa che io abbia scritto delle poesie più belle di quelle di vent’anni fa. Ora lavoro molto di più sui componimenti mentre prima scrivevo prevalentemente di getto. E magari rovino tutto. Ancora non so se questo sia un vantaggio o un danno: ci vorreb-be un filologo che operasse uno studio comparato delle varie ste-sure”.

Si riscontrano nella tua poesia un’infinita serie di scarti tra re-altà e visione, una modernità inclusiva di postmoderno, un accendersi continuo dell’eros nel buio esistenziale. E’ l’eros il car-dine del tuo mondo poetico? “Non solo l’eros. Diciamo che la mia poesia si colloca in una di-mensione esistenziale dove, al di là del fatto formale, vige una de-viazione dalla norma ovvero una leggera e latente “schizofrenia”.

C’è una dissociazione molto for-te fra un “io” che si guarda vivere e scrivere e un altro “io” che vive e scrive. Con questa dimensio-ne ho cercato di rinnovarmi nei confronti anche di poeti che qual-cuno potrebbe attribuirmi come simili, per esempio il solito San-dro Penna. Ma credo che la mia lettura del reale sia più moderna. Sono infatti figlio del ‘68, un post-moderno, figlio di quella psicana-lasi alternativa che ha permesso allo scrittore di vedere se stesso anche mentre scrive”.

E l’indispensabile ironia? “Sì, compare specie nei miei più recenti lavori come elemento slontanante anche da temi come i miei che potrebbero sembrare troppo neoromantici quali l’amo-re, la solitudine, l’ascoltarmi”.

Dunque la poesia cos’è per te? E’ “un’altra emozione per vivere”? Una possibilità di ascoltarsi for-se per spaventarsi? “ La poesia è una forma di con-forto a una vita dissipata. Dis-sipata nel senso che si consuma implacabilmente. E’ una registra-zione di eventi consolatori, è un punto fermo”.

In “Serpenta” hai alluso al male di Sodoma definendolo: “supre-ma, inalterabile ingiustizia”. “Sì, era un gioco in una poesia amorosa dedicata a Elsa Moran-te, per spiegare la condizione dell’impossibilità d’amare nei confronti della donna. Su questo perno di Sodoma si trasferisce l’impossibilità d’evocazione e la donna vien vista psicanalitica-mente come madre-matrigna, madre-assassina, madre-crimi-nale”.

In quale luce vedi Dio così spes-so invocato nelle tue poesie? “Lo vedrei come tensione meta-fisica, come speranza di cose so-gnate o di qualcuno che alla fine ci possa consolare dell’orrore del vivere e infine come speranza di un futuro nell’al di là. Dio ci ac-coglie o ci lascia e in questo mo-mento credo che mi abbia pro-prio abbandonato”.

Parlami della tua produzione a venire. “Ho scritto un libro al quale ten-go molto e che per il momento è in lettura presso la Mondado-ri. Probabilmente uscirà l’anno prossimo. Un libro che raccoglie la mia produzione degli ultimi anni. S’intitola “L’avversario” oppure “Il male dell’avversario”, non ho ancora deciso”.

Chi sarebbe l’avversario? “Sono io dentro me stesso ma anche il male, il nemico, il diavo-lo. Non in senso casttolico per-ché non sono cattolico nel senso stretto del termine. E appunto in questa dinamica competitiva con il male, il protagonista si dibatte e cerca di uscirne, non dico inden-ne dalla vita (il che è impossibile), ma almeno salvo nell’anima”.

In questo senso è un libro più positivo dei precedenti? “Sì, un libro meno disperato pure all’interno di un’assoluta e ironica disperazione. Si spera infatti che ci sia un “al di là” e si spera anche e fortemente che la letteratura non sia solo un gioco fine a se stesso”.

Carla Vidiri Varano

La Rassegna d’Ischia 2/1992 19

La favola di Cecilia Coppola

Florenzia Tanto tempo fa, quando le Fate erano una realtà credibile e i maghi girova-gavano per l’Italia galoppando su ca-valli dalle ali di seta, c’era un FIUME bellissimo, vigoroso, potente, ricco di acque chiare, robusto nella portata e desideroso di percorrere ogni giorno, a larghe bracciate, il cammino che lo conduceva dal Monte Falterona al Mare Tirreno. La mattina si svegliava gagliardo e scendeva lungo la strada del suo letto, lambendo sponde di terre fertili e lussureggianti. Salutava le foglie, gli alberi, i fiori, le erbette, gli arbusti con voce allegra e cante-rina e affascinava ogni creatura che incontrava sul suo cammino.

Era così bello che sembrava fatto d’argento.

C’era anche una FARFALLA, legge-ra, delicata, vellutata e colorata. Le sue ali sembravano dipinte dal più bravo pittore dell’universo, perché i colori erano morbidi, pastosi e lucen-ti e s’intrecciavano in disegni arabe-scati che solo un paziente cesellatore avrebbe potuto, in parte, riprodurre. Il suo nome era FLORENZIA. Ogni fiore sospirava al suo volo, de-siderando che si posasse sulla sua corolla, ogni filo d’erba attendeva che si fermasse sul suo stelo e ogni albero fra le sue foglie. Florenzia svolazzava leggera, disegnando l’aria di perfette evoluzioni. Aveva un carattere ribel-le, orgoglioso ed era curiosa, anzi cu-riosona... voleva conoscere tutto ciò di cui era circondata. Il tempo, passando, la rendeva più bella e desiderata, ma lei non accet-tava di divenire la sposa di nessuno. Molti pretendenti sospiravano inva-no, senza riuscire a commuoverla o a farla cedere. Un giorno, Florenzia, mentre si era posata su di una pietra levigata, all’ombra di un rosso pave-ro che allargava i suoi flessuosi petali per offrirle un riparo dal sole cocen-te, vide il Fiume ARNO passare lungo la sponda, vestito del suo abito lucci-cante intessuto di fili di luce, e subito se ne innamorò. Sbatté le ali per salu-

tarlo, si alzò in volo per farsi notare, dopo aver spolverato ben bene il suo vestito morbido e colorato, ma non ricevette nessun segno di attenzione. Il giovane FIUME era intento a don-dolarsi, pigro e sonnacchioso, stanco di una notte trascorsa a fare la sere-nata alle stelle, che avevano civettato con lui fino all’alba. Florenzia confidò il suo amore alla conca lussureggiante, ai filari d’uva sulle colline, ai monti del Chianti, al monte Albano, al Giovi e, parlando, le ali di velluto brillavano, i suoi co-lori si arricchivano di tonalità, l’emo-zione la rendeva simile ad una tavo-lozza di un pittore. Fu a causa dell’emozione che cadde in acqua e Arno la salvò. Preoccupato la depose su una foglia di nespolo e attese trepidante che quella straordi-naria creatura, impasatta di colori, si asciugasse e riprendesse conoscenza. Quando Florenzia lo guardò con i suoi occhioni fondi e dolci e lo ringra-ziò con la suia voce tenue e musicale, il Fiume si innamorò perdutamente e divenne impetuoso per esprimerle questo suo sentimento. Ma come potevano una Farfalla e un Fiume vivere insieme? Florenzia chiese consiglio a Fata Natura che rispose: “Non posso aiutarti”, e la Farfalla s’intristiva, sbiadiva, perdeva lucentezza, non volava più, passava delle ore appog-giata sul greto dell’Arno che, a sua volta, scorreva lento e opaco, depe-rendo a vista d’occhio. I campi a lui vicini avevano bisogno della sua ac-qua per essere verdi, rigogliosi, per fiorire. Preoccupati si riunirono a consiglio, invitando anche i Monti dell’Appennino Toscano, le Onde del Mar Tirreno e discussero a lungo. Purtroppo nessuno riusciva a trovare una soluzione. “Voglio diventare una città, esclamò Florenzia”, piombando all’improvviso fra i suoi amici in riu-nione. “Una città?”, risposero, sorpresi tut-ti, coralmente. “Sì, la città dell’Arno”. La Farfalla aveva ragione, era una

soluzione giusta ad un problema se-rio e difficile. Bisognava rimboccarsi le maniche e mettersi subito all’ope-ra. Consultarono il libro del Tempo Futuro e ne fecero uscire dalle sue pagine la Fata Urbanistica, la Fata Architettura, la Fata Ingegneria, la Fata Edilizia. Vennero leggere e sor-ridenti, riempendo l’aria dei veli flut-tuanti e di danze sinuose.

“Florenzia diverrà una delle più af-fascinanti città d’Italia” affermarono e pronunciarono, convinte, un pa-rolone magico: Firenzilandonione e subito la Farfalla divenne enorme, si allungò, si allargò, si innalzò, dando la possibilità alle Fate di distender-la, come se fosse un lenzuolo, sulle sponde dell’Arno: un’ala a destra, un’ala a sinistra e il corpo fra le brac-cia del Fiume. Poi le Fate, sfogliando il libro della Vita, aprirono le porte del Tempo ad un gruppo di monelli che scalciavano a più non posso sul-la soglia per entrare, erano: Giotto, Cimabue, Spinello Aretino, Lorenzo Monaco, Michelozzo, Benedetto da Maiano, Leonardo, Michelangelo, Cellini, Arnolfo da Cambio, Andrea Pisano, Lapo Gianni, Brunelleschi, Donatello, il Ghirlandaio, Paolo Uccello, Luca della Robbia, Simone Talienti, Verrocchio, Ghiberti, Gianbologna, Orcagna, Aliberti, Masaccio, Luca Fancelli, Rossellino e tanti altri. Questi monelli, ciarlie-ri, biricchini, vispi, prepotenti, che sarebbero diventati famosi in tut-to il mondo per il loro talento e per la grandezza delle loro creature, si misero al lavoro con un entusiasmo contagioso e un’operosità incredibi-le.

Così nacque FIRENZE.

Purtroppo oggi gli uomini hanno di-menticato che Firenze è nata da una Farfalla, Florenzia, innamorata di un Fiume, l’Arno, e che il suo nome ri-corda la bellezza dei fiori, la purezza delle acque, il calore del sole e l’ar-genteo chiarore della luna circondata dal suo corteo di stelle palpitanti nel-le notti di sogno e di magia.

Cecilia Coppola

20 La Rassegna d’Ischia 2/1992

Mario Mirenghi

Sapore di Napoli Purtroppo oggi vivere nelle grandi città è diventato veramente impossibile. Caos, traffico, inquinamento di ogni tipo atmosferico, acustico... Man mano si sta perdendo ogni gusto ed ogni sapore persino per le cose semplici e genuine offerteci dalla terra, ma grazie al cielo, nonostante tutto, a Napoli si può ancora annusare qualche odore o sapore delle cose passate, un odore a me sì caro, ad esempio un odore di una fresca conserva di pomodoro messa lì a seccare su quei terrazzi assolati, oppure magari il sapore del pane fresco, mentre verso il mare l’odore delle barche fresche di vernice tirate a secco sulla spiaggia, e poi vedere ancora due scugnizzi dissetarsi ad una fontanella di ghisa nella villa comunale o altrove. Camminare per i vicoli dove un’aria sottile e salmastra che sa di mare e di vento asciuga quei panni ancora bagnati di fresco bucato, vicoli lunghi, interminabili, quasi labirinti che poi all’improvviso si aprono ad un panorama che ti lascia senza fiato, ed ecco ci appare Via Caracciolo. Il Vesuvio, Mergellina, e lassù la collina di Posillipo. Ma resto ancora nei vicoletti di Napoli: un odore di pizza mi accompagna dappertutto e poi spaghetti, dappertutto spaghetti, i nostri spaghetti quotidiani che come coriandoli si affacciano dai piatti della povera gente che abita in questi tuguri, spaghetti aglio e olio, con le cozze, olive e capperi, con il sugo delle seppie, dei calamari, con le telline, coi lupini, a ragù, con le pellecchielle (pomodori di montagna) oppure con quelle belle sammarzano che le nostre donne preparano d’estate. Ancora spaghetti, quelli di don Gennaro che con una sola forchetta ne acchiappa

su un etto e mezzo e se li mangia, quasi di nascosto per paura che glieli rapiscano. Sento l’odore dei frutti di mare, vongole, taratufoli, cannolicchi, ostriche, angine, cozze del Fusaro che si mescolano con i frutti della terra: melloni cantalupi (o di pane), pesche, nespole, albicocche. Melloni rossi, pesche, percoche, nespole, albicocche, ceraselle, aria di stagione, aria di festa, per il resto tutti fischi, fuochi d’artificio, rumori vari, voci di venditori ambulanti, bestemmie, grida di gioia, di paura, di dolore, di miseria, di terrore, e poi occhi, dieci, cento... che ti osservano, ti scrutano, ti riconoscono, che piangono, sperano, gli occhi di Maria, di Lucia, di Carmela, di Concettina, di Filomena; quanti occhi, quelli di un cieco che suona la fisarmonica davanti ad una chiesa ed elemosina. I malocchi. E quante case, case ad acquerelli, case piccole, ricche,

povere, le case dei presepi a S. Gregorio Armeno, tetti, terrazzi, terrazzini, cupole, archi, cupoloni, e poi i balconi con le loro persiane aperte ove tra piantine di Basilico, rosmarino, malvasia e rose, civettuole si affacciano fanciulle in amore e ti regalano un sorriso. Dappertutto cappelle e cappelline per ex voti a S. Gennaro, a S. Anna, a S. Antonio, a S. Ciro sempre ornate di fiori. Ora vivo lontano da te e raramente di Napoli sento questi sapori, un po’ di Napoli la vivo per corrispondenza quando mi arriva una lettera o un piccolo pacchetto che frettoloso mi appresto ad aprire, ci ficco il naso dentro e sento quel sapore, ecco una bustina di origano, semi di basilico, sementi di peperoncino, che (sotto compresso) mi manda Donna Teresina, una mia vicina di casa quando abitavo in questa città.

*

La Rassegna d’Ischia 2/1992 21

La seconda repubblica spagnola

Il biennio rosso

di Giuseppe Alparone

Immediatamente dopo la fondazione della repubblica a Madrid, a Barcellona la Esquèrra, il partito dei separatisti catala-ni, sotto la guida del colonnello Macià, proclamò l’indipenden-za della Catalogna. La morte del Macià, sostituito da Luis Compànys, fece rientrare la seces-sione in cambio di un’ampia auto-nomia. Il governo provvisorio al potere a Madrid creò una terza forza di polizia, chiamata Cuerpo de seguridàd y assalto, comune-mente los Asaltos, che inquadra-va uomini di idee repubblicane. Agli ufficiali fu posta l’alternativa fra il giuramento alla Repubblica e la pensione, ed in grande mag-gioranza rimasero in servizio. Nell’ambito del taglio alle spese militari venne chiusa l’accademia di fanteria a Zaragòza, diretta dal generale Franco, che, subodorata la soppressione, tenne ai cadetti un discorso critico sulle attuali condizioni della Spagna sì da pas-sare per vittima di una ritorsione agli occhi dell’opinione pubblica quando l’accademia venne chiu-sa. Il governo dette un grande impulso all’alfabetizzazione e fece portare a Valencia con grandi onori le ossa del grande scrittore socialista Vicente Blasco Ibàñez, morto a Mentone nel 1928, autore fecondissimo di romanzi a sfondo sociale, fra cui Sangue e arena, famoso anche per le interpreta-zioni cinematografiche di Rodolfo Valentino e Tyrone Power.

Rientrarono due terroristi anar-chici, Buenaventura Durrùti e Francìsco Ascàso, latitanti dalla Spagna per l’assassinio del ve-scovo di Zaragòza e dalla Francia

per l’uccisione di una ricama-trice parigina. In patria ci rima-sero poco, perché fomentarono una rivolta anarchica nell’Alto Llobregat, furono arrestati, con-dannati e deportati nelle Canarie, da dove rientrarono allo scoppio della guerra civile per assumere il comando di volontari anarchici. Morirono nei primi mesi del con-flitto, Ascàso ucciso da un mitra-gliamento aereo, Durrùti dai suoi uomini che non volevano attacca-re alla baionetta le mitragliatrici dei nazionalisti.

Sul fallimento della riforma agraria lo storico antifranchi-sta Miguèl Tuñòn de Lara scrive che fu fatta una complicata legge che distingueva le terre soggette all’esproprio da quelle che non si dovevano toccare, aperta ai cavil-li giuridici di ogni genere, che la paralizzarono. C’è da supporre, dal momento che nel ‘36, dopo la vittoria elettorale del Frente Populàr, furono occupate le terre del presidente della repubblica Nicèto Alcalà Zamòra y Tòrres, che i padri fondatori della repub-blica con quella legge volessero proteggere le loro proprietà, di-stinguendole dai latifondi eccle-siastici e nobiliari. Nella biografia di Manuel Azaña pubblicata da La Nuova Antologia alcuni anni or sono, Luigi Paselli afferma che la riforma agraria fu bloccata da una sentenza della Corte di Cassazione che dichiarava illegittimo l’espro-prio senza indennizzo. La finanza pubblica non era affatto in grado di affrontare il pagamento dei latifondi da togliere alla Chiesa ed ai Grandi, gli eredi dei feuda-tari storici della Spagna. Contro il governo provvisorio ci fu nel 1932 la nascita di due movimen-ti. Sotto l’autorità indiscussa del generale Josè Sanjùrjo gli ufficia-li costituirono la U. M. E. (Uniòn Militar Española), l’avvocato Josè Antonio Primo de Rivèra, figlio del defunto dittatore, fondò

la Falange, ispirata al nazismo. I suoi organi di stampa erano Arriba! (in alto!) e FE, iniziali di Falange Española, ma anche so-stantivo che significa fede. La di-visa era la camicia azzurra, come le tute dei lavoratori, lo stemma un fascio di frecce con la punta rivolta verso il basso unite da un giogo. Ci furono in quell’anno an-che due luttuosi episodi che ebbe-ro conseguenze gravi, ben oltre i pochi morti che si lamentarono. A Castilblanco furono uccisi quattro militi della Guardia Civìl, a Càsa Vièja fu proclamata una repubbli-ca anarchica. Il governo mandò los Asaltos a ristabilire l’ordine, ma un vecchio fanatico, sopran-nominato Seisdedos (Seidita), sparò a bruciapelo su un agente che entrava in casa sua, i commili-toni risposero al fuoco uccidendo lui e la figlia. Ci furono delle inevi-tabili polemiche, ed il governo tra-sferì il generale Josè Sanjùrjo dal comando generale della Guardia Civìl a quello dei Carabinèros, equivalente della Guardia di Finanza. Per il Leone del Riff, ap-partenente ad una famiglia carli-sta, fu un grosso affronto, ed or-ganizzò un colpo di stato, al quale, con il suo notevole fiuto, si tenne estraneo il generale Franco. Nella Storia d’Italia nel periodo fascista di Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira si legge che Mussolini avreb-be promesso aiuto ai rivoltosi, ma poi, fallito il golpe, ammirando l’energia con cui lo aveva stronca-to, avrebbe invitato a Roma il pre-sidente Azàña. E’ un’affermazione che non ha riscontro in nessuno dei libri di autori spagnoli che ho letto.

Il generale Sanjùrjo si impa-dronì facilmente di Siviglia, te-sta di ponte per il trasferimento delle divisioni acquartierate in Marocco, ma i suoi complici che tentarono di occupare a Madrid il palazzo del governo, grazie ad una spiata, furono accolti da una

22 La Rassegna d’Ischia 2/1992

sparatoria. Si ripeteva il caso del putsch del 1923 di Hitler e Ludendorff, quando alla polizia di Monaco bastò una mitraglia-trice piazzata al punto giusto per falciare i rivoltosi e stroncare l’in-surrezione. Lo storico franchista Joaquìn Arraràs dice che il gene-rale Sanjùrjo si costituì, la storio-grafia di sinistra che fu arrestato alla frontiera portoghese. La cor-te marziale lo condannò a morte, ma la sentenza venne commutata nell’ergastolo insieme con quelle degli uccisori dei quattro militi della Guardia Civìl a Castilblanco. Fu deportato alle Canarie, ma poi il governo di centro destra espres-so dalle elezioni della prima legi-slatura repubblicana commutò la detenzione con l’esilio ed egli andò in Portogallo, ospite della ditta-tura del generale Carmona. Allo scoppio della guerra civile, capo designato dell’Alzamiènto, salì su un piccolo aereo, che al decol-lo imbardò e si incendiò, e la sua morte dette via libera a Franco, che era il numero due della con-giura. Rientrato dalla Francia, l’avvocato Josè Calvo Sotèlo, già ministro delle finanze sotto la dittatura, fondò la Renovaciòn Españòla (Rinnovamento spa-gnolo), un partito ispirato al fascismo. Alla continua perse-cuzione la Chiesa reagì nella maniera più legale possibile, ap-poggiando senza riserve la C. E. D. A., iniziali di Confederaciòn Españòla Derèchas Autònomas (Confederazione Spagnola Destre Autonome), l’equivalente del-la D. C. a cui la storiografia di destra, e mi riferisco alla Storia della Destra Spagnola dell’avv. Gabriele Fergola, rifiuta, malgra-do il nome, l’etichetta di partito di destra, essendo orientata per la forma parlamentare e non cor-porativa. Il suo capo carismatico (anche se allora tale appellativo non esisteva ancora) era l’avv. Josè Maria Gil Robles, nato nel 1898, oratore capace di suscitare entusiasmi soprattutto fra i gio-vani cattolici, che lo chiamavano

Jèfe (capo), scandendo il termine come in Italia si gridava Duce, e, con ancor minore originalità, cre-arono lo slogan: “Tutto il potere al Jèfe!”

L’ambasciatore degli USA Claude Bowers, nel suo libro di memorie My Mission to Spain, ispirato ad uno straordinario manicheismo per cui tutti i buo-ni nella politica spagnola erano a sinistra e tutti i cattivi a destra, pur dimostrando per lui una con-tinua antipatia, nel confrontarlo con Josè Calvo Sotèlo, fautore di una politica autoritaria, ammette che cercava il potere, ma conqui-stando una maggioranza nel par-lamento con le elezioni. Essendo già partito per la villeggiatura, Josè Maria Gil Robles sfuggì alla morte la notte del 13 luglio del 1936, quando venne cercato nella sua casa di Madrid dagli Asaltos che assassinarono Calvo Sotèlo. Rientrò nella capitale per pro-nunciare l’orazione funebre del leader del partito in concorrenza, poi, scoppiata la guerra civile il 18 luglio, si rifugiò in Portogallo e vi rimase per tutta la durata del con-flitto. Rientrò a Madrid nel ‘39, per riassumere la cattedra alla Facoltà di giurisprudenza e ria-prire lo studio legale, acquistando la fama che ebbero in Italia i suoi colleghi Francesco Carnelutti e Alfredo de Marsico. Negli ultimi anni della sua vita difese anche imputati antifranchisti. Morì nel 1980 ad 82 anni.

Per le elezioni per la prima le-gislatura repubblicana, indette nel 1933 dal Presidente Martinez Barrio, lo schieramento dei par-titi in lizza era grosso modo il se-guente. Dalla sinistra i comunisti, segretario Josè Diaz, poi i socia-listi, guidati da Indalècio Prieto, la Esquèrra di Luis Companys, l’Acciòn Repubblicana di Manuel Azàña Diaz. Al centro i Radicali, guidati dal settantenne Alejàndro Lerroux Garcia, un anticleri-cale che raccoglieva i voti della borghesia laica. Poi le destre: la C.E.D.A. di Gil Robles, i monar-

chici di Antonio Goicoechèa, la Renovaciòn Españòla di Josè Calvo Sotèlo, i Carlisti guidati dall’avv. Manuèl Fal Conde ed infine la Falange di Josè Antonio Primo de Rivèra, che con 29.000 voti raccolti a Madrid fu l’unico eletto. Nelle memorie dell’amba-sciatore Bowers si legge che a Gil Robles venne rinfacciata più volte la mancata dichiarazione di fedel-tà alla repubblica. Si può suppor-re che anticipasse quello che fu l’atteggiamento di De Gasperi nel 1946, grazie al quale la DC prese voti nei due campi nelle elezioni per la Costituente abbinate il 2 giugno al referendum istituziona-le. La maggioranza relativa, con 147 seggi, andò alla C.E.D.A. Un risultato di tutto rispetto, con-frontato con l’affermazione di Azàña due anni prima “La Spagna ha cessato di essere cattolica!”. Al secondo posto, con 107 seggi, i Radicali. Gli anarchici avevano boicottato le elezioni, affiggendo migliaia di manifesti “No votad!”. La Chiesa si era impegnata a fon-do, come poi in Italia nel 1948. La TV di stato ha mostrato spezzoni di cinegiornali, dove appaiono le suore in fila davanti ai seggi elet-torali. I padri fondatori della re-pubblica, che avevano gestito le elezioni, dopo il biennio rosso del governo provvisorio, passavano all’opposizione. La destra vitto-riosa non disponeva di una netta maggioranza, di conseguenza il Ghino di Tacco di quell’epoca fu l’anziano mangiapreti Alejàndro Lerroux Garcia. Forse memori di quanto era avvenuto in Italia nel 1922, quando il veto di don Luigi Sturzo alla nuova presidenza di Giolitti aveva spianato la stra-da a Mussolini ed alla Marcia su Roma, i cattolici della C.E.D.A. fornirono un appoggio esterno al governo Lerroux, ingoiarono il rospo e votarono la fiducia ad un anticlericale dichiarato.

Terminato il biennio rosso del governo provvisorio, cominciava il biennio nero.

Giuseppe Alparone

La Rassegna d’Ischia 2/1992 23

Nei miti che adom-brano il vero del pensiero o della realtà è la più antica storia del mondo; e per la conoscenza dei miti, dopo milioni d’anni dalle prime formazioni cosmiche, noi ci sentiamo quasi spettatori alle origini della natura, ai travagli dei suoi parti, alle lotte delle sue forze. Il naturalismo poetico portava in sé i germi della scienza; la quale, certamente, parla un linguaggio ben diverso da quello degli anti-chi nostri padri che favellavano per immagini, accese nella loro immane fantasia dagli splendori e dagli orrori della natura, i quali fortemente allora sovr’essi vibra-vano. Ma nel corso dei secoli quel-le personificazioni di fatti, di visio-ni, di fenomeni naturali andarono via via perdendo il proprio senso originario, e si trasformarono a significare esclusivamente il ciclo dei numi riveriti e temuti. L’Ellade, la grande fucina dei miti nel loro aspetto più giocondo e se-ducente, ne importava dovunque le sue navi approdassero. E poi-ché coloni elleni navigando verso l’occidente, approdarono, prima che altrove, alle isole e alle spiagge del Tirreno tra monte Circello e il promontorio Miseno, ivi trovia-mo e Circe e le Sirene e l’Averno e i regni di Plutone e l’antro della Sibilla cumana e Tifeo e i Giganti e le Ninfe... Luoghi, che paiono na-turale sede di miti, e quasi fatti ap-posta per la poesia divina del can-tore di Ulisse e di quello d’Enea.

Ad occidente del golfo su cui siede la terra ch’ebbe nome dal-la Sirena Partenope, giace l’isola d’Ischia. I geologi (1) che l’hanno

più specialmente studiata dicono ch’essa nacque, in remota epoca quaternaria, per eruzioni vulcani-che dapprima sottomarine, poi ri-petute con sollevamenti fuori dal-le acque. E la parte quasi centrale dell’isola, ove sopra gli altri si levò gigante un vulcano, l’Epomeo, il più alto in tutta la circostante re-gione flegrea (2), fu la prima ad uscir fuori. Intorno ad esso, qua e là si formarono altri vulcani minori, che, dopo spenti, ebbero nomi differenti di monti. Vivara e Procida, che le stanno vicine, nacquero allo stesso modo, unite o divise da essa. Questo dice la scienza. Pel mito, le conflagrazioni cosmiche prese-ro corpo e figura nei Titani e nei Giganti in guerra con Giove. Ogni vulcano ebbe nome da un fulmi-nato gigante che, vinto, rimase incatenato al monte o sepolto nel-le viscere dell’abisso. Così, all’an-tico Ceraunius (3), il gigante del Caucaso, si riferisce la leggenda di Prometeo (a), e Tifeo ha le sue

Antiche testimonianze

Ischianel mito, nelle leggende e nella storia

di Carlo Fiorilli

da Rassegna Nazionale

Firenze

Anno XXXII - volume CLXXI

16 gennaio 1910

1) Breislak, Top.fis. della Campania -- Spallanzani, Viaggi alle due Sicilie -- Fuchs, L’isola d’Ischia -- Fonseca, Geologia dell’isola d’Ischia, Firenze 1870 -- Gatta, L’Italia, sua formazio-ne, suoi vulcani e terremoti, Milano, Hoepli 1882 -- Mercalli, L’isola d’I-schia e il terremoto del 28 luglio 1883, Milano 1884 -- Johnston Lavis, The carthquakes of Ischia, Napoli 1886.2) Fra Ischia e il promontorio Miseno vi sono bassi fondi coperti da 25 metri d’acqua, al più. Perciò, i geologi hanno estesa la denominazione di campi fle-grei che l’antichità dava soltanto alla regione continentale.3) Ora, monte Elbrus, 5630 m.a) Prometeo, figlio del titano Giapèto e dell’oceanide Climene (o di Asia), peraver sottratto dal cielo il fuoco e

24 La Rassegna d’Ischia 2/1992

membra schiacciate dall’Epomeo (4). Al mito di Tifeo accenna Omero nel II dell’Iliade dove descrive le schiere degli Achei muoventisi simili ad un mare di foco inondatore, che tutta divori la terra, sì che que-sta, sotto i trascorrenti passi, geme e rimbomba:

..... Come quando il fulminante Irato Giove Inarime flagella Duro letto a Tifeo, siccome è grido (b)

Per questi versi di Omero, il quale disse ein Arimois si credette erroneamente di poter dare il nome Inarime a Ischia. Omero, invece, accennava ai monti Arimi nella Cilicia, che è regione assai travagliata da terremoti ed eruzioni vulcaniche, e perciò, secondo la favola, teatro delle mitiche gesta di Tifeo. E poi-ché anche Ischia era tormentata da eguali fenomeni, e alcuni poeti (5), per la somiglianza delle condizioni locali, aveano immaginato che Tifeo giacesse sotto l’Epomeo, l’ein Arimos si cangiò in Inarime, e anche con questo nome l’isola è ricordata da Plinio (6) e da altri, ma sopra tutti, con l’autorità sua, fece testo Virgilio (7):

Qualis in Euboico Baiarum litore quondamSaxea pila cadit; magnis quam molibus anteConstructam ponto jaciunt; sic illa ruinamProna trahit, penitusque vadis inlisa recumbit:Miscent se maria, et nigrae adtolluntus arenae;Tum sonitu Prochyta alta tremit, durumque cubileInarime Iovis imperiis imposta Typheo. (8)

Dai greci Ischia fu detta Pitekoussa o Pitekoussai; e quelli tra gli antichi scrittori che fanno deriva-re il nome da pitos, vaso di terra cotta, dicono che nell’isola, abbondando la creta figulina, vi si fabbri-cavano reputate stoviglie delle quali facevasi largo commercio. La geologia verrebbe qui a conferma della ragione etimologica e della storia. Sulle colline di Casamicciola e, sul versante opposto, a Fontana, Moropano, Barano e Piejo ancor oggi si trovano, a grande altezza sul livello del mare, depositi argillo-si che sono il prodotto della decomposizione dei tufi quando l’isola era ancora in gran parte coperta dalle acque. Questa creta si cuoceva in fornaci dette lumie-re o allumiere, e si estraeva da numerose cave che talvolta penetravano fin sotto l’abitato. Negli anni men lontani da noi, supponendosi che queste cave potessero accrescere i danni cagionati dai terremoti, la creta non venne più estratta, e l’industria laterizia è presso che spenta nell’isola. Fra gli antichi (9), più chiaramente degli altri, accen-nò a questa origine del nome Pitecusa, rifiutando l’o-pinione di coloro che lo facevan derivare da pitecos, scimmia, dei quali animali dicevasi popolata l’isola. Ma qualunque versione è incerta. Le scimmie, dal-le quali sarebbe venuto il nome all’isola, riferisconsi al mito dei Cercopi. Pei seguaci della interpretazio-ne evemerista, come Diodoro Siculo, Ovidio ed altri, la razza dei Xercopi, uomini brutti e bestiali oriundi dell’Asia, cominciò così. Due fratelli, l’uno Andolous, l’altro Atlantos, astuti maestri in ogni scelleratezza, si erano associati per esercitare il mestiere di truffatori pubblici; tentarono di frodare perfino Giove, il qua-le seccato di tanta sfacciataggine, cangiò in scimmie essi e i loro discendenti; ma anche col mutato aspetto continuando ad essere perversi e malefici, Ercole lo affrontò e vinse. E come dall’oriente passarono alla nostra isola i miti degli Arimi, di Tifeo e altri, così vi

Non così spesso quando l’anche ha rotte Dà le volte Tifeo l’audace ed empio Scotendo d’Ischia le valli e le grotte. Notate ben ch’io porto questo esempio, Levato dall’Eneida di peso, E non vorrei però parere un scempio, Che mi fu detto che Virgilio ha preso Un granciporro in quel verso d’Omero, Il quale non ha, con riverenza, inteso. E certo è cosa strana, s’egli è vero, Che di due dizioni una facesse. ......................................................................

9) N. H. lib. III, XII, 6: Aenaria.... dicta Graecis Pithecusa, non a simiarum multitudine, ut aliqui existimavere, sed a figlinis doliorum (Aenaria ... detta dai Greci Pitecusa, non dall’abbondanza di scimmie, come alcuni hanno pensato, ma dalle botteghe di orci di terracotta).10) Met. XIV, 89 e seg.Inarimen, Prochytemque legit, sterilique locatasColle Pithecusas, habitantum nomine dictas.Quippe Deum genitor fraudem, et periuria quondamCercopum exosus, gentisque admissa dolosae,....................

averne fatto dono agli uomini, insegnandone loro l’u-so, fu punito da Zeus. Incatenato sul Caucaso un’aquila gli rodeva il fegato (sede di ogni mala cupidigia) che la notte incessantemente cresceva. Alla fine lo liberò dalle catene Eracle, dopo aver ucciso con una freccia l’aquila. Prometeo è la personificazione dell’ingegno umano.4) Da epi sopra e vmos spalle, perché, secondo la favola, il monte premeva sopra il gigante.b) Tifeo (o Tifone): essere mostruoso per statura e per for-za. Alto più di qualsiasi montagna, stendendo le braccia toccava con una mano l’oriente e con l’altra l’occidente; al posto delle dita aveva cento teste di draghi, dalla cintola in giù era circondato di vipere, lanciava fiamme dagli oc-chi. Dopo una lunga lotta con Giove, fu messo in fuga dalle folgori del dio, che in Sicilia lo schiacciò sotto l’Etna: da allota il vulcano erutta fiamme.5) Ovidio, Silio Italico, Lucano, Stazio, Valerio Flacco.6) N. H. lib. III, XII, 6 Homero Inarime dicta.7) Aen. lib. IX, 710 e seg.8) ........ In tal guisa di Baia Su l’Euboica riva il grave sasso Ch’è sopra l’onde a fermar l’opre eretto, Da l’alto ordigno, ov’era dianzi appreso, Si spicca, e piomba, e fin ne l’imo fondo Ruinando, si tuffa e frange il mare, E disperge l’arena. Onde ne trema Procida e Ischia, e ‘l gran Tifeo se n’ange Cui sì duro covile ha giove imposto.Su questo errore di Virgilio scherzò il Berni nei seguenti versi:

La Rassegna d’Ischia 2/1992 25

passò pure, col culto ad Ercole importato dai calcide-si, il mito dei Cercopi. E Ovidio (10) graziosamente li fece cittadini di Pitecusa:

Ad Enaria s’accosta, ed a Prochita E a Pithecusa, che tra colli ignudi Siede, cui dier gli abitatori il nome, Imperocché de’ numi il padre, un giorno Aborrendo de’ Cercopi le frodi E gli spergiuri, e della gente iniqua L’opre, mutò coloro in belve oscene. Fe’ che sembrar potessero ad un tempo Dall’uom dissimiglianti e all’uom simili. Ne contrasse le membra, e ver la fronte Schiacciò le torte nari, e di senili Grinze solcò la faccia; e ricoverti Per tutto il corpo di rossiccio pelo Piantolli in quelle terre; e primamente Tolse loro l’usar della favella E della lingua agli spergiuri infami Quasi creata, e a loro sol concesse Un lamentar con rauco cigolio.

Quanto al vocabolo Aenaria, con cui dai Latini fu chiamata Ischia, non sembra accettabile alcuna delle interpretazioni proposte. Plinio (11) e Festo dissero che le fu dato a statione navium Aeneae; ma in que-sto caso si sarebbe dovuto dire Aenearia o Aeneia, non Aenaria.Altri, come Vossio seguendo in pare-te Strabone, lo fecero derivare da aenum o ahenum per le cave o depositi di metalli che sarebbero stati nell’isola; e dico seguendo in parte, perché veramen-te Strabone (12) parla di miniere aurifere (cruseia). Il Pais (13) sospettava si dovesse leggere, invece, cal-ceia nel testo di Strabone, per trovare un punto di confronto con Enaria; ma egli stesso (14), tornando alcuni anni dopo sull’argomento, rigettò la sua ipote-si. E’ più ragionevole supporre, come altri vogliono, che questo nome le venisse dal greco oinos oinarea alterato dai Latini in Aenaria, essendo l’isola una ter-ra abbondantemente vinifera.

Chi furono i primi abitatori di quest’isola nata nella culla del fuoco e del mare? Forse, gli stessi indigeni della Campania, gli Opici od Osci, dei quali ben poco dicono i dotti, perché poco si sa con certezza delle origini e delle antichissime migrazioni dei popoli, an-cora coperte da fitto velo diradato appena dagli studi della glottologia comparata. Si può credere che aves-sero natura fiera, selvatica, tenendo del monte e del macigno ond’eran discesi, e vivessero da predoni sul mare e per quelle belle contrade che furon sempre terre di conquista.

Anche qui sul primo limitare della storia incontria-mo il mito. Omero (15) dice che Nausitoo primo re dei Feaci era parente di Eurimedonte, il quale regnò su i superbi Giganti; e questi, secondo Strabone (16), furono i più antichi signori dei campi flegrei. La fa-vola e le leggende continuano e s’intrecciano sotto i nomi degli Ausonii, degli Enotrii, dei Cimmerii e di altri popoli che sembrano inventati dalla fantasia dei poeti, ma che, invece, realmente composero le maglie di quella immensa rete umana che si andò dispie-gando pel mondo. Liparo, figlio di Ausone, muove dalla regione flegrea e va alle isole che da lui pren-dono nome, donde poi Eolo lo riconduce a Sorrento. Gli Enotrii dalle fertili terre della Campania si spar-gono pel mezzogiorno d’Italia; e i Cimmerii che, al dire di Omero, vivono in eterna notte, scendono giù nelle terre del sole e del foco, e ivi, presso l’antro del-la Sibilla cumana, Dedalo scava per essi sotterranee dimore. Tra leggenda e storia vi è stretta parentela; e perciò dal Waiblinger (17) la leggenda fu ben definita «gio-conda primavera della storia». I Feaci «dalle navi ve-loci come l’ali, rapide come il pensiero» sono della famiglia dei Fenici, e le tradizioni raccolte da antichi scrittori concordano nel dire che i Fenici, veri lupi di mare, stabilirono scali marittimi e fattorie com-merciali sulle coste del Tirreno e, fra gli altri luoghi, a Cuma; poi, essendo ivi molestati dagli Enotri, pas-sarono nelle vicine isole di quel golfo che da Cuma ebbe nome. Ma dov’era la terra dei Feaci, la fertile e delizio-sa Scheria di Omero? Una tradizione ricordata da Tucidide (18) la poneva a Corcira, la moderna Corfù; e i Corciresi, per dar credito alla tradizione, elevaro-no un santuario ad Alcinoo, dettero il nome di que-sto eroe ad un porto e coniarono monete col busto di Nausicaa. I critici Alessandrini, nelle loro ricerche sulla geografia omerica e in particolare su i viaggi di Ulisse, furono i primi a rilevare le incoerenze di quel-la tradizione. Il Braun (19), in un suo lavoro sulla Scheria, si stu-diò di mettere assieme argomenti per provare che la terra dei Feaci fosse là ov’è Taranto. Ma la sua opi-nione non ebbe seguaci, ed egli non riuscì a sciogliere il nodo. Lo Champault (20), in un volume pubblicato nel 1906, dà a Ischia il vanto di essere la terra ove giunse naufrago Ulisse e vi fu raccolto dalla bella Nausicaa e poi ospitato nella reggia di Alcinoo, il quale lo for-nì di navi che lo ricondussero a Itaca. E sebbene lo Champault dica tante cose interessanti e faccia tan-

11) N. H. lib. III, XII, 6: Aenaria ipsa a statione navium Aeneae... dicta.12) Strabone p. 247.13) Per la istoria di Napoli e d’Ischia nell’età sillana. Mem. letta all’Acc. d’arch. 8 maggio 1900.14) Ricerche st. e geogr. sull’Italia antica. Torino 1908.15) Odissea VII, 68 nella versione di P. Maspero.

16) Strabone p. 243.17) Nella sua poesia su Pesto. Scrisse anche versi su Nisida, Procida e Ischia.18) I, 25.19) La bella Scheria, ossia la terra dei Feaci. Trieste, tip. Loyd Aus.-Ung. 1875.20) Phéniciens et grecs en Italie d’après l’Odussée. Paris, Leroux, 1906.

26 La Rassegna d’Ischia 2/1992

ti eruditi confronti, a me sembra ch’egli si affatichi eccessivamente e inutilmente a cercare e a trova-re nei luoghi d’Ischia assai più di quello che vi si possa vedere o sco-prire. Ma dalla impossibilità di deter-minare con precisione geografica il sito della Scheria non segue che tutto sia invenzione poetica sen-za un contenuto reale di luoghi e d’esseri umani. L’Odissea non è un poema di sola immaginazione; né Ulisse viaggia per terre incognite. Son quelle le coste del Tirreno ri-sonanti al soave canto delle ninfe dalle crespe chiome; ivi le amene spiagge di Baia, ove il poeta fin-ge che Ulisse scenda all’Averno per consultare l’ombra del tebano Tiresia ed evocare sua madre che gli parli della fedele Penelope, del tranquillo Telemaco, del vecchio Laerte; e tra Sorrento e Capri, i perigliosi scogli delle Sirene allet-tatrici «nelle cui acque non giunse mai nocchiero senza gustarne la dolcezza». A quelle spiagge naviga-rono e si fermarono Fenici e, prima di essi, altre genti; quelle isole, quei lidi furon punto di approdo e colo-nie di Elleni, la cui uscita dall’Ella-de precedette e motivò la creazione dell’epos omerico. Omero non face-va lavoro da geografo; era cantore e musico di un mondo reale, veduto attraverso l’alta fantasia creatrice di bellezza. Dopo i Fenici, dai cui viaggi gli Elleni appresero notizie, tradizio-ni e leggende, vennero Calcidesi-Euboici ed Eretri, i quali si ferma-rono prima a Ischia, poi passarono nelle vicine contrade e, prima che altrove, a Cuma. Con questa emi-grazione ellenica verso l’occidente, circa l’XI secolo a. C., la quale rap-presenta il primo scontro sul mare tra la stirpe ariana e la razza semi-tica, si entra nelle fasi documentate da antichi scrittori. Livio (21) dice così: «I cuma-ni traggono origine da calcide

Euboica. Con le navi su cui eran venuti di casa, molto poterono sulle coste del mare che abitano. Dapprima andarono nelle isole Enaria e Pitecusa (22); poi osarono trasferirsi sul continente». Scilace (23) e Strabone (24) ricordano che calcidesi e Eretrii vennero a colo-nizzare Pitecusa e vi rimasero sino a che ne furon discacciati da una violenta eruzione, la quale secondo geografo (25) dice accaduta nel VI secolo a. C. Al tempo del primo Ierone una colonia di Siracusani occupò Ischia (470 a. C.); e, tra gli altri, il Fuchs (26) credè di poter determinare ch’essa prese terra a Lacco, luo-go tra i più pittoreschi e ameni dell’isola, con naturale e larga baia; quindi salì al Monte di Vico, dov’essi costruirono quella cinta di fortificazione ricordata dall’epigra-fe che fino a pochi anni si vedeva sul pendio orientale del monte. I Siracusani s’impossessarono dell’i-sola a danno dei Cumani Calcidesi (in aiuto dei quali erano accorsi) dopo la battaglia nelle acque di Cuma contro le flotte riunite dei Fenici e degli Etruschi o Tirreni (474 a. C.). La vittoria di Ierone, che sebbene malato volle coman-dare la fazione navale, è ricorda-ta da Strabone (27) e da altri; e Pindaro nella prima ode Pitia così ne canta, invocando Giove: «Fa, o figliuolo di Saturno, che i Fenici e i bellicosi Tirreni si quetino, veden-do la strage funesta alle loro navi, innanzi a Cuma». Nuovi coloni greci, già naturaliz-zati nella Campania, andaron poi

ad occupare Ischia, probabilmen-te tra il 427 e il 412 a. C., quan-do i Siracusani, in guerra con gli Ateniesi gelosi dell’egemonia ma-rittima esercitata da Siracusa, fu-rono obbligati a raccogliere le loro forze e a lasciare perciò con minore resistenza il possesso dell’isola lon-tana. La quale rimase in potere di Napoli greco-campoana quasi cer-tamente sino al tempo della guerra sociale, allorché Silla gliela tolse per vendicarsi dei napoletani che parteggivano in favore di Mario. E questi a Ischia si rifugiò, lascian-do la deliziosa sua villa di Miseno, per scampare alla morte di cui era minacciato dai seguaci di Silla. Nell’isola già trovavasi il figliastro Granio con alcuni amici, come nar-ra Plutarco (28). Ma neppur là sen-tendosi sicuro, poco dopo pertì per la Libia. In quel tempo Lucullo, intimo e potente amico di Silla, edificò l’im-mensa sua villa sulle rovine della vecchia Napoli: e, come nota il Pais (29), cominciò allora il periodo del-le lussureggiantidimore campestri lungo le spiagge del golfo, dalla villa di Lucullo sino a Posillipo e a Baia. Napoli riebbe Ischia da Augusto (30), il quale desiderò di prendere in cambio Capri, dove il suo succes-sore Tiberio, come è noto, ritiratosi sul tramonto della vita, vi compì infamie svelatamente narrate da Svetonio. Del resto, il costume licenzioso fio-riva da per tutto in quei luoghi sulle rive del mare, ove i ricchi accorre-vano in cerca di piaceri più che a curare infermità di corpo, e dove Petronio Arbitro pose le scene non tutte vereconde del suo Satyricon. Primeggiava per incanto di sito e voluttuose delizie l’amena Baia, che Seneca, scrivendo a Lucilio, chia-ma «albergo di vizi» (31), e Orazio (32) dice «non vi ha nel mondo più risplendente seno». «Se in mille versi lodassi l’aureo lido di Baia,

21) VIII, 22, 5: “Cumani Chalcide Euboica originenm trahunt, classe, qua advecti ab domo fuerant, multum in ora maris eius, quod accolunt, po-tuere, primo in insulas Aenariam et Pithecusas egressi, deinde in continen-

tem ausi sedes transferre.”22) Non Livio soltanto, ma anche Ovidio, Met. XIV, 89; Pomp. Mela, II, 121. Mart. Capella, VI, 144 e altri, par-lando di quest’isola, le danno il dupli-ce nome. Come nel medioevo l’isola si distingueva in Iscla e in Castrum Geronis, è molto probabile che anche nell’antichità i due nomi corrispondes-sero a due località della stessa isola. Di questa opinione è anche il Pais, op. cit; Ricerche st. e grogr. p. 248.23) Peripl. v. Kampanoi.24) V, p. 247.25) Strab. V, p. 247.26) Op. cit.27) VI, p. 248.

28) Nella Vita di C. Mario.29) Op. cit. p. 266.30) Svet. Aug. - Strab. V, p. 247.31) “Vitiorum diversorium”.32) Epis. Lib. I, 1, 85: Nullus in orbe si-nus Baiis praelucet amoenis.

La Rassegna d’Ischia 2/1992 27

scrive Marziale (33), non lo lode-rei abbastanza». E Giovenale (34) quasi invidia il suo amico Umbricio che, lasciando Roma, va alla pla-cida Cuma, che è porta di Baia, in un eremo bello; e aggiunge, ego vel Prochytam praepono Suburae. Più degli altri poeti Stazio, nelle sue Selve, s’intrattiene a descrive-re minutamente tutti quei luoghi della Campania, sia che ricordi la villa sorrentina del suo amico Pollio Felice (35), sia che accenni ad Enaria (36) e alla salutare effi-cacia delle svariate sue acque cal-de, celebrate anche da Plinio e da Strabone.

Le antichità venute fuori dal suo-lo d’Ischia sono men copiose di quello che si potrebbe desiderare. Vi si raccolsero iscrizioni scolpite in are votive ad Apollo e alle Ninfe delle acque termali (Nitrodes), con bassorilievi rappresentanti il nume in mezzo a ninfe, e ninfe tra i Dioscuri o tra Amori; in qualcuno si vede una ninfa che bagna i suoi lunghi capelli nella conca offertale da altra ninfa; e altri marmi iscritti con figurazioni diverse, la maggior parte dei quali trovansi nel museo nazionale di Napoli. Si scoprirono pure titoli sepolcrali, e avanzi di suppellettile funebre, specialmen-te nella necropoli della baia di San Montano sotto il Monte di Vico, e le tombe greche del sepolcreto so-migliavano perfettamente a quelle scoperte in altre antiche città della Campania già abitate da coloni cal-cidesi (37). Quasi sulla spiaggia di Lacco si tro-varono resti di un tempio dedicato a Ercole, e un’erma marmorea del nume barbuto, nudo e con la cla-va, la quale erma trasportata nella chiesa di Lacco, che sorse sulle ro-vine dell’antico tempio, vi è ado-perata per battistero (38). Anche a Lacco, in un terreno di proprietà comunale, si rinvenne nel 1891 un

vaso di terra cotta con 129 monete d’oro, di epoca bizantina dal 610 al 669, esaminate e descritte dal de Petra (39). Ma notevole sopra tutte le scoperta, che alcuni dotti inglesi fecero verso la fine del sec. XVIII (40), della iscrizione greca incisa in un grande masso di basalto nero sul Monte di Vico, posta in memo-ria dei prefetti Pacio e Majo e dei militi che su quel Monte innalzaro-no una cinta fortificata (41). Filostrato (42), parlando di Ischia, delle sue sorgenti d’acque calde, dei terremoti e delle eruzioni che la sconvolsero, attesta che sulla vetta dell’Epomeo si ergeva un tempio sacro a Nettuno, col simulacro del nume tra la prora e l’aratro; i quali emblemi, meglio che la figura del fortilizio, converrebbero, forse, come stemma d’Ischia. La quale, nel medioevo, cangiò in S. Nicola il primo padrone, avendo innalzato sulle rovine del tempio di Nettuno un eremo e una chiesa a quel san-to, che diede anche il suo nome al monte. Più copiosi sarebbero gli avanzi di antichi monumenti se l’isola non fosse stata sconvolta da frequenti eruzioni vulcaniche e terremoti, nell’antichità incomparabilmente più disastrosi di quelli che seguiro-no nell’età moderna. Oltre i cataclismi avvenuti al tem-po dei calcidesi e dei Siracusani, lo storico Timeo, citato da Strabone (43), ricorda l’eruzione accaduta poco innanzi ch’egli nascesse (44), nella quale l’Epomeo, dopo un ter-

remoto, gettò fuoco, e il terreno incenerito tra il monte e il mare fu spinto in alto e ricadde turbinando come ciclone, e il mare prima si ri-tirò per circa tre stadii e poi tornò furioso sull’isola e la inondò. E Plinio (45) accenna all’altra eruzione, per la quale fu inghiotti-ta una terra dell’isola, un monte si pareggiò alla pianura e venne fuori uno stagno; probabilmente quello che in appresso fu chiamato Lago del Bagno e che nel 1853 divenne Porto d’Ischia. Il Günther (46), in seguito a studi accuratissimi, poté venire a queste conclusioni: che il suolo delle isole e delle spiagge lungo il mare napo-letano subì, ove più ove meno, no-tevole depressione dopo il periodo di massima elevazione raggiunta al tempo della colonizzazione elle-nica; che l’abbassamento più no-tevole avvenne negli ultimi anni dell’Impero e ne’ primi secoli del medioevo; e che ad un parziale sol-levamento, notato ne’ primi anni del sec. XVI, seguì un periodo di nuova, per quanto lenta, depres-sione. E lo Spallanzani (47) osservò che l’isola aveva perduto della pri-mitiva estensione, specialmente nella linea verso sud formata in gran parte di tufi, che è sostanza vulcanica men resistente alla cor-rosione delle onde marine le quali incessantemente la percuotono; e la diminuzione sarà sempre mag-giore. Anche questi fatti possono aver contribuito a distruggere o ad occultare ciò che in altre età era vi-sibile; senza dire che in Ischia non furono mai eseguiti con metodo scientifico larghi scavi per ricerca di antichità.

Carlo Fiorilli

45) Contributions to the study of Earth-Movements in the Bay of Naples, Westminster, 1903.46) Op. cit. vol. I, cap. V, p. 166. Pavia, 1792.

33) Epigr. lib. XI, LXXXI.34) Sat. lib. I, III.35) Silv. lib. II, II.36) Ib. lib. III, V.37) N. Corcia, Storia delle due Sicilie, vol. II, cap. 69.38) Corcia, op. cit.

39) Notizie degli scavi di antichità. An. 1895, p. 83.40) Fu veduta e trascritta dal mommsen (Unterital. Dial, pag. 197; C. I. Gr. 5861 con agg. p. 1259; e C. I. L. vol. X, par. I p. 679). Questo monumento è scom-parso dal luogo ov’era in origine. Al Pais che ne faceva ricerca fu detto che il masso era stato precipitato nella sotto-stante tonnara! Op. cit. p. 238.41) Icon. II, 17 p. 835 Olear.42) V, p. 248.43) Timeo nacque l’anno 352 a. C.44) N. H. lib. II, LXXXIX, 88: “Mox in his (Pithecusas7 montem Epopon, cum repente flamma ex eo emicuisset, cam-pestri aequatum planitie. In edadem et oppidum haustum profundo, alioque motu terrae stagnum emersisse”.

28 La Rassegna d’Ischia 2/1992

Fino al 14 febbraio 1992 grande nostra nel Palazzo Reale di Caserta

Luighi Vanvitelli - I Trombettieri, matita, penna, inchiostro bruno, acquerello grigio, biacca, su carta preparata grigia. In alto la scritta autografa: “La speranza del padre fin qui”

L’esercizio del disegno

I Vanvitelli

Dopo un meticoloso intervento di restauro ed un accurato la-voro di catalogazione sono stati esposti nei locali della Reggia di Caserta e precisamente nelle re-trostanze dell’Apparato Storico, il lato settecentesco che ha l’ac-cesso dal salone di Alessandro, i disegni dei Vanvitelli conservati nella Biblioteca Palatina. Il restauro ha liberato i disegni dai precedenti interventi, non sempre opportuni, e reintegra-to, là dove era possibile, le parti mancanti per un recupero este-tico e fruitivo delle opere. Fu Gino Chierici nel 1933 a tra-sferire un cospicuo numero di

disegni, riunendolo al gruppo di progetti della Reggia, da Napoli a Caserta. L’intenzione dell’allora Soprin-tendente era quella di poter dar vita a un Museo Vanvitelliano nella sede più naturale: Palazzo Reale. “Sfortunatamente quegli anni - scriveva nell’80 Raffaello Causa - erano poco favorevoli alle grandi iniziative culturali. E nulla lascia credere, ancora oggi, che per quel monumento possano considerarsi imminen-ti....” La mostra di Caserta, che se-gna un primo serio lavoro di di Carmine Negro

La Rassegna d’Ischia 2/1992 29

sistemazione e catalogazione del materiale conservato un po’ alla rinfusa, anche se non pre-figura ancora l’apertura di quel Museo, va tuttavia in quel senso (almeno ce l’auguriamo). I disegni di Vanvitelli risulta-no dispersi in varie collezioni da Roma a Monaco, a New York; le raccolte pubbliche di Napoli e Caserta rappresentano, però, da sole l’80% della produzione grafica finora conosciuta. In particolare il fondo di Caser-ta è costituito da 402 fogli: 81 di Gaspar van Wittel, 260 di Luigi Vanvitelli, 21 del figlio Carlo, 18 da attribuire e 22 di artisti ap-partenenti a collaboratori stret-ti. L’esposizione allestita dall’ar-chitetto Lucio Monica, e che mostra solo una parte del fon-do, propone nelle prime 4 sale

25 disegni a firma di Gaspar van Wittel e 20 del nipote Carlo. Attraverso una piccola sala contenente un ritratto ad olio ed una piccola teca con una poesia autografa di Domenico Mondo, un pittore che fu poeta, si rag-giungono le sale dedicate a Lui-gi Vanvitelli. “... Davanti al disegno - scrive Claudio Marinelli - noi siamo come davanti all’artista sorpre-so nella sua nudità, nella sua intimità di pensiero, nei suoi segreti modi di procedere con la creatività”. E questa mostra sembra svelarci tre artisti con personalità distinte ed autore-voli. Gaspar van Wittel, come abbia-mo avuto modo di sottolineare a proposito della mostra “All’om-bra del Vesuvio” (vedi La Ras-segna d’Ischia, giugno 1990, pp.

27/28), è considerato unanime-mente dalla critica il fondatore della nuova concezione sette-centesca della veduta. L’arrivo a Roma nel 1674 è una tappa quasi scontata nell’ambito della sua formazione artistica, condi-visa a quel tempo da molti suoi connazionali. A Roma, luogo delle Accade-mie, due scuole si affrontano: l’una che punta sulla suprema-zia di un “paesaggio ideale” e l’altra su una pittura di “paesag-gio reale”. In particolare la colonia olan-dese penetra la cultura figura-tiva italiana e affretta la crisi dell’ideale classico. Il procedi-mento compositivo di van Wit-tel prende le mosse da schizzi tratti dal vero, rielaborati in stu-dio in disegni per lo più a matita e di dimensioni maggiori, ripas-sati ad inchiostro e talvolta leg-

Luigi Vanvitelli

291 - Sezione trasversale mediana della Reggia. 605x910, penna, inchiostro grigio, acquerello grigio.

292 - Particolare della sezione longitudinale mediana della Reggia. 598x896, penna, inchiostro grigio, acquerello grigio.

293 - Sezione a pianta della Scala regia, 600x598, penna, inchiostro grigio, acquerello grigio.

294 - Sezione a pianta della Cappella Palatina, 598x895. penna, inchiostro grigio, acquerello grigio.

295 - Veduta della Reggia a volo d’uccello. 585x893, penna, inchiostro grigio, acquerello grigio.

296 - Veduta dei Giardini della Reggia, 600x910, penna, inchiostro grigio, acquerello grigio.

30 La Rassegna d’Ischia 2/1992

germente acquarellati, utilizzati poi per i dipinti ad olio o ridotti con il sistema della quadrettatu-ra nel caso delle tempere o delle pergamene di formato minore. La ricorrente orizzontalità del-le vedute è una scelta precisa, rispondente all’esigenza di of-frire una panoramica di vasto respiro, una lucida fedeltà da un punto di vista reale e ben deter-minato. Il merito di van Wittel, oltre alla realizzazione dei disegni come opere già finite, da vendere ad un prezzo molto più basso de-gli olii, ai viaggiatori del “Grand Tour” che sempre più numerosi vengono in Italia, luogo per ec-cellenza del mito, della storia e del pittoresco, è l’aver condotto con un’attenzione ed una sensi-bilità straordinaria una veduta “esatta”, topografica della realtà visiva fino ad allora sconosciuta. E’ documentato che nel 1700 viene tenuto a battesimo a Na-poli dal vicerè don Louis de la Cerda, duca di Medinacoeli, il

Carlo Vanvitelli - Bozzetto per un Casino di caccia ad Ischia, 303 x 484, matita, penna, inchiostro bruno, acquerello grigio

piccolo Luigi, primogenito del van Wittel (italianizzato poi in Vanvitelli) ed autore del proget-to della Reggia. Luigi Vanvitelli è attraverso il disegno che im-para dal padre a percepire e ad analizzare il possesso dello spa-zio. L’incontro con il messinese Juvarra influenza senza dubbio la sua produzione in cui pittura, architettura e decorazione sono un tutt’uno. La mostra, sempre attraverso i disegni delle prime quattro sale, tenta un recupero anche della figura del figlio di Luigi, Carlo, che nel 1773, alla morte del pa-dre, subentra alla direzione dei lavori del “Grande Palazzo”. La sua formazione avviene a Roma sotto la tutela dello zio Urbano e la guida dell’architetto Murena; nel 1756/.. raggiunge Caserta ed affianca il padre impegnato nell’elaborazione progettuale della Reggia. A quanti l’hanno visto come incerto esecutore dei progetti paterni questa mostra contrappone, oltre ad un ammi-

revole coerenza per i riferimenti progettuali originali, scelte per-sonali e varianti intelligenti. E’ nel Giardino Inglese, realizzato in un periodo successivo, senza quindi le direttive del padre, che Carlo dimostrerà la sua libertà creativa. Particolare la realiz-zazione sia dei tracciati d’acqua che del criptoportico adiacente al Bagno di Venere per il quale utilizzerà statue antiche prove-nienti dalla collezione Farnese e dagli Scavi di Pompei. L’incertezza di Carlo, se mai, è talvolta nella scelta tra un tardo rococò ancora presente nella città di Napoli e un mo-derno neoclassicismo del quale decisamente sente l’influenza. Il segno nitido e pulito e la meti-colosa definizione dello schema compositivo caratterizza la sua produzione grafica. Tra i disegni realizzati da Carlo il bozzetto per il Casino di caccia nell’isola d’Ischia mostra il prospetto di un edificio con il pronao dori-co, con un padiglione interno

La Rassegna d’Ischia 2/1992 31

sferico preceduto da un’ampia gradinata definita a due braccia. Le ultime sale della mostra sono dedicate al più famoso dei Van-vitelli: Luigi. Il disegno, in quel tempo, era l’unico modo per rappresentare l’idea di un progetto e Luigi si servì di esso non solo per deli-mitare gli spazi, ma anche per definirli in tutti i particolari fino alle decorazioni ed agli oggetti che esso doveva contenere.Scelse di diventare architetto, il più grande del secolo, ma la sua sensibilità rimase quella di un pittore per cui lo spazio archi-tettonico e quello della pittura potevano identificarsi. Dotato di una mano sicura e di una padronanza delle tecni-che del disegno ad inchiostro, egli passa attraverso successivi schizzi progettuali all’idea defi-nitiva in cui sono delineati tutti i particolari architettonici. E la realizzazione dei modelli in legno, presentati nell’ultima sala, sono una verifica del lavo-ro progettuale prima dell’esecu-zione. I 17 disegni della Reggia in cor-nici dorate sono riproposti in un involucro a pianta quadrata rivestito di stoffa cremisi.

Molte delle idee del Vanvitelli non si poterono realizzare, come il corso d’acqua che doveva ri-unire la Reggia di Caserta con Napoli o la città amministrati-va che si intravede nella tavbo-la XIV e che nelle intenzioni di Carlo di Borbone doveva servire per decongestionare la capitale già allora afflitta da problemi demografici. Il Vanvitelli seppe modificare le proprie idee e da un primitivo progetto colossale e maestoso passare ad una stesura più ade-rente alle necessità ed alle pos-sibilità della Corte. Seppe, inoltre, felicemente sin-

tetizzare nella sue opere l’antico e il moderno, la tradizione data dal rococò e il rinnovamento dato dal neoclassicismo. Lo stu-dio delle decorazioni, il ritmo della luce, il peregrinare tra im-magine e volume, le soluzioni architettoniche, talvolta ardite (è il caso del teatro di corte in cui lo spazio scenico si apre in un unico continuum con lo spa-zio naturale del parco), sono una testimonianza di uno spiri-to in continua ricerca e per que-sto geniale.

Carmine Negro

Carlo Vanvitelli - Ornato per la volta della Biblioteca nella Reggia di Caserta 310 x 428, penna, inchiostro grigio, acquerello grigio

32 La Rassegna d’Ischia 2/1992

Otto domandea Gian Marco Jacobittisoprintendente ai BB. AA. SS. di Caserta e Be-nevento

nautica ha in avanzata fase di costru-zione la nuova sede presso Capua. I tempi non li conosco, ammesso che si spostino completamente! Io non sono molto sicuro che l’Aeronautica lasci del tutto Palazzo Reale. I militari, di solito, è difficile farli lasciare...” I locali che comunque si libereran-no, come saranno utilizzati? E l’U-niversità? “E’ chiaro che una parte della zona dei locali sarà museale. Ci sono delle sale notevoli con arredamenti anche d’epoca che attualmente sono al ser-vizio della Scuola dell’Aeronautica. Bisogna ricordare che l’Aeronautica detiene il 60-65% di Palazzo Rea-le. Per un utilizzo di questi enormi spazi: camerate, servizi, occorre-rebbero dei finanziamenti notevo-li. Un’idea era quella di mettere la nuova Università, non facoltà ma il Rettorato che sarebbe di prestigio e compatibile con l’ambiente della Reggia”. Essere Soprintendente di Caserta: quali difficoltà e quali soddisfazio-ni?“Non so se ha seguito sulla stampa le mie vicissitudini di un anno fa, quando mi avevano offerto la sede di Venezia e subito dopo quella di Bari. Io preferisco, invece, rimanere a Caserta; qui le soddisfazioni sono maggiori delle difficoltà. Un centro piccolo come Caserta è più controllabile ed anche a livello di lavoro c’è una maggiore possi-bilità di risolvere questioni di uffi-cio, con un dato personale. In una grossa Soprintendenza, come quella di Napoli per esempio, non c’è la possibilità di quel rapporto umano che poi smussa i possibili contrasti. Difficoltà ci sono in provincia. Noi sappiamo che a Caserta è la provin-cia ad abbassare il livello ed a creare difficoltà. E da un paio di anni pur-troppo questo succede anche nella provincia di Benevento. Sono diffi-coltà, comunque, marginali perché noi lavoriamo con cantieri piccoli e,

normalmente, all’interno di edifici religiosi”. A Caserta la Soprintendenza è uno dei pochi centri culturali del terri-torio che specialmente in provincia soffre di una incapacità a incidere in questo senso. Pensa questa So-printendenza di sviluppare mag-giormente attività che consentano di venire incontro alle deficienze del territorio? “Vede, ogni ente ha un suo compito ben preciso; non si possono travali-care certi compiti istituzionali. Noi non è che possiamo fare turismo, cosa che deve fare l’ente provincia-le per il turismo, o urbanistica che invece tocca all’amministrazione comunale. Il nostro compito è quel-lo della conservazione e del restauro dei monumenti. Facciamo, certo, altre cose, come nel caso dei disegni del Vanvitelli che abbiamo prima restaurato e poi messo in esposizio-ne, o la mostra Territorio e restau-ro” che presentava una serie di re-stauri effettuati dopo il terremoto in provincia di Caserta e Bene-vento, però il nostro compito principale è quello della conservazione e del restauro dei monumenti e dei beni ambientali; non possiamo fare altre cose che non sono di nostra compe-tenza”. La Soprintendenza di Napoli oltre alla mostra su Battistello Caraccio-lo, ha presentato, nei locali di Ca-stel Sant’Elmo, una mostra, “Fuori dall’ombra”, che cerca di interveni-re sul territorio cercando di stori-cizzare un periodo delle arti a Na-poli La Soprintendenza di Caserta, visto il deserto che c’è intorno, non pensa di intervenire in qualche modo sul territorio senza recedere, naturalmente, da quelli che sono i suoi impegni istituzionali? “Quello che possiamo fare lo fac-ciamo. Questa mostra per esempio, ha avuto una grossa risonanza ed ha portato Caserta al centro dell’atten-zione”. La Rassegna d’Ischia riuscirà a fare un servizio sui Sanniti prima che si apra la mostra? “Io penso verso maggio-giugno; di-pende un poco dai lavori come pro-cederanno. Certamente noi ai primi di dicembre inaugureremo la sala archeologica”.

Carmine Negro

Dopo le mostre Terremoto e Re-stauro e L’Esercizio del Disegno “Vanvitelli”. quali sono i progetti di questa Soprintendenza in un ter-ritorio quale quello di Terra di La-voro, particolarmente provato sia sotto il profilo economico-sociale che culturale? “Mi fa piacere che lei dica questo: vuol dire che noi ci occupiamo di cultura. Per il futuro, a consuntivo dell’an-no, faremo una manifestazione di particolare importanza: inaugu-reremo le tombe sannite trovate all’interno di Palazzo Reale. Il restauro di queste tombe fa parte del progetto FIO che si sta realiz-zando qui a Caserta e che nel 1992 porterà all’inaugurazione di una sala archeologica”. Le tombe sono quelle ritrovate ne-gli scavi che si vedono nei cortili del Palazzo? “Sì, attualmente sono coperte da impalcature. Nel corso dell’anno ri-creeremo il basolato del cortile al di sotto del quale sarà realizzata la sala archeologica. In effetti le tombe rimarranno dove sono state trovate. Una di esse ver-rà “riformata” sotto cristallo e, con i reperti ossei e gli oggetti in cotto che sono stati trovati, esposta nella sala archeologica”. La Scuola di Pubblica Amministra-zione e l’Aviazione Militare quando lasceranno gli spazi che attualmen-te occupano nel Palazzo Reale di Caserta?“La Scuola di Pubblica Amministra-zione non lascerà la Reggia. Quello che è stato realizzato o che si sta praticamente concludendo (in uno dei due palazzi esterni alla Reg-gia n.d.r.) diventerà una specie di collage di supporto alla scuola stes-sa che resterà negli attuali locali del Palazzo Reale. Quella della Pubblica Amministrazione è una scuola di prestigio e, secondo me, compatibi-le con l’ambiente della Reggia. La Scuola Sottufficiale dell’Aero-

La Rassegna d’Ischia 2/1992 33

Silvestro II (Gerberto d’Aurillac) - 999/1003 - fu il primo pontefice a tuonare contro il basso livello rag-giunto dalla chiesa. Condannò con forza la simonia imperante e non tralasciò di attaccare anche la cor-ruzione ed il concubinato del clero. Alla sua morte, la turbolenta nobil-tà romana, incarnata al momento dalla famiglia Crescenzio, che già in precedenza aveva legato il suo nome alle elezioni papali, riprese la politica di controllo del Soglio. Si ebbero in tal modo delle scialbe figure pontificali ben lontane da quel rigore morale e da quella seve-ra fede che tanto bene si sarebbero sposate con la massima carica ec-clesiastica della Cristianità. Alla morte di Sergio IV (1009-1012) i Crescenzio furono questa volta messi da parte dalla famiglia Tuscolo, che riuscirono ad imporre un loro candidato: Benedetto VIII (1012-1024). Questi, che sempre fu in buoni rapporti con l’imperatore Enrico II, nonostante che dovesse la tiara non ad una libera elezione bensì ad una guerra tra famiglie rivali, sin dall’inizio dimostrò di essere un buon difensore sia della chiesa che del patrimonio di S. Pie-tro, costantemente insidiato dalla nobiltà locale. Emanò dei decreti tendenti sia a moralizzare il clero, sia a rendere più spirituale l’intera struttura della chiesa. Fu un buon guerriero e seppe contenere il pe-ricolo saraceno. Il 14 febbraio del 1014 cinse con la corona imperiale il capo di Enrico II e Cunegonda. Successore fu il fratello, quasi a sottolineare che ora i nuovi padroni del Soglio non erano più i Crescen-zio bensì i Tuscolo. Prese il nome di Giovanni XIX (1024-1032). Que-

Fatti e personaggi della storia

La riforma cluniacense arriva a San Pietro

Vincenzo Cuomo

Cluny, cittadina della Borgogna in Francia, diede nome all’ordine monastico fondato nel 1910 dall’abate Brunone.Agli inizi del secolo XI questo ordine si fece promotore della riforma della Chiesa: rimozione di abusi e della simonia, richiamo del clero corrotto e concubinato a una vita più degna, libertà e autonomia di fronte al potere laico.

sto pontificato non brillò però per amore verso Cristo e durante l’in-tero suo arco di tempo nulla venne fatto a favore della riforma della chiesa e del papato. Anzi si può dire che con Giovanni XIX riprese nuovamente quella decadenza che Benedetto VIII aveva cercato di ar-ginare. Il 26 marzo del 1027, in San Pietro, durante una fastosa e solen-ne cerimonia, incoronò imperatore Corrado II. Dopo di lui il precipitare dell’isti-tuzione nel baratro della violenza e della corruzione continuò con an-cor maggiore vigore. Nuovo eletto fu Benedetto IX (1032-1044), nipo-te di Benedetto VIII, che fece tocca-re al papato il fondo dell’aberrazio-ne morale. Spesso si è detto che al momento dell’elezione non avesse che dodici anni. Sembra però che si tratti solo di una leggenda, ma il fatto stesso che abbia trovato tanto credito sta ad indicare lo stato di abbandono e depravazione che era stato raggiunto. Il suo pontificato fu molto tormentato ed il dissenso che i Romani nutrivano nei riguar-di della sua famiglia si materializzò in una rivolta scoppiata nel 1044 che lo costrinse ad abbandonare la città eterna. Al suo posto venne così eletto Silvestro III (1045). Un nuovo tumulto, dopo breve tempo, ristabilì il precedente assetto, ri-portando Benedetto IX (1045) sul-la cattedra di Pietro. Questi però, stanco e sfiduciato, in quello stesso anno, abdicò in favore di Giovanni Graziano che fu papa con il nome di Gregorio VI (1045-1046). Il nuovo pontefice, nonostante che sulla sua elevazione alegiasse l’accusa di simonia, si rivelò uomo spiritualmente ricco e moralmente

34 La Rassegna d’Ischia 2/1992

sano. Animato da propositi rifor-matori, suo maggior merito fu aver capito le capacità e la tempra del giovane Ildebrando di Soana, che sempre volle accanto a sé, tenen-done in gran considerazione consi-gli e suggerimenti. Sebbene la sua condotta fosse irreprensibile e non desse adito a scandali o dicerie, Enrico III (1039-1056) lo depose, avendo creduto, o finto di credere, all’accusa di simonia a suo tempo lanciata. Messi in condizione di non avanzare alcuna pretesa i due precedenti pontefici ancora in vita, Benedetto IX e Silvestro III, per volontà imperiale fu eletto papa Suidgero di Bamberga, che prese il nome di Clemente II (1046-1047). L’autorità del Santo Padre, dopo quest’ulteriore intervento imperia-le, ne uscì ancora più umiliata e pri-va di autonomia; anche se ciò fu be-nefico per fermare l’invadenza e la prepotenza della nobiltà dell’Urbe. Clemente II fu però anche il papa destinato ad iniziare un nuovo pe-riodo per la storia della chiesa, in quanto è dal suo pontificato che possiamo realmente datare anche l’inizio della Riforma del Papato. Questo pontefice ed i suoi succes-sori si dedicarono al rinnovamen-to con tale passione, entusiasmo e certezza di essere nel giusto, che mai li portò ad avere dubbi o ten-tennamenti. La morte improvvisa di Clemen-te II riportò a Roma Benedetto IX, sorretto dagli armati di Bonifacio di Toscana. I Romani, che conti-nuavano a non gradire questo pon-tefice, chiesero allora ad Enrico III la nomina di un nuovo Pastore, che fu Samaso II (1048). Il neo-eletto dovette però non poco penare pri-ma di essere riconosciuto anche dal potente Bonifacio, che solo in se-guito abbandonò Benedetto al suo destino. Damaso non poté intra-prendere alcuna iniziativa in quan-to moriva dopo appena ventotto giorni di pontificato. La successione si dimostrò subito difficile in quanto, sospettando che la morte degli ultimi papi fosse do-vuta al veleno, nessuno mostrava entusiasmo per l’alto incarico. E, probabilmente, fu proprio la man-canza di altre figure di prestigio, di-

della chiesa che mancava appunto di un’autorità superiore che la gui-dasse e la indirizzasse. Portavoce e convinto egli stesso di una esigenza profondamente sentita a vari livel-li, ebbe la ventura di avere dalla sua parte anche l’imperatore Enrico III, che sempre lo aiutò e lo sorres-se condividendone gli ideali. Appena giunto a Roma fece sentire il peso della sua presenza emanan-do decreti ed indicendo concilii, sempre con l’intento di reprimere simonia, corruzione e concubinato, all’interno della sfera ecclesiastica. Il primo grande successo lo ottenne a Reims nell’ottobre del 1049, ove, in un concilio, nonostante una la-tente opposizione da parte dell’im-peratore, fece accettare il principio che i vescovi dovevano obbedienza prima al pontefice e poi al sovrano. I Legati, infine, sempre valenti e preparati, contribuirono non poco a far conoscere ovunque i suoi pen-sieri e le sue decisioni. Il papato entrava così in una fase completamente nuova, anzi rivolu-zionaria, che solo pochi anni prima sarebbe stato impossibile sperare di raggiungere. Il Santo Padre con-trollava adesso la totalità del clero, imponeva leggi che erano final-mente rispettate; ma, soprattutto, la sua figura era nuovamente ridi-ventata immagine di dignità, umil-tà, semplicità, ardore apostolico, così come ben si addiceva all’erede del Cristo. Durante il suo pontificato Leone IX molto si preoccupò anche della minacciosa presenza normanna sui confini del Territorio di San Pietro. Raccogliendo la richiesta di aiuto di tante città del meridione, intraprese dei contatti diplomatici con l’intento non solo di limitare le violenze di questi turbolenti vicini, ma anche di far entrare questi con-quistatori ed i loro possedimenti all’interno della sua sfera d’influen-za. Vi furono così degli incontri tra il Papa ed il conte Drogone, in rap-presentanza di tutti i capi norman-ni. I colloqui furono sempre carat-terizzati da gran devozione e rispet-to, le parole di obbedienza e le pro-messe si sprecavano, mentre nella realtà i Normanni continuavano a saccheggiare città e monasteri,

Papa Leone IX

sposte ad accettare, che spinse En-rico a concedere la tiara a Bruno di Toul, che fu Leone IX (1049-1054). Profondamente credente e con-vinto che la carità cristiana fosse un dogma a cui tutti gli uomini do-vessero attenersi, era in possesso anche di una vasta cultura. Sempre tenuto in alta considerazione, sia da laici che da ecclesiastici, fu tena-ce e deciso nei suoi principi. Anche in campo militare mostrò buona preparazione in quanto, alla testa di milizie, non poche volte dovet-te difendere il vescovado di Tour. Abile nei rapporti diplomatici, sep-pe trattare con tatto ed intelligente comprensione. Diventato papa e convinto che, oltre a ridare nobiltà a chiesa e papato, fosse necessario migliorare anche la qualità dei col-laboratori, immise nella cancelleria figure ad alto livello per moralità e spiritualità. Tra costoro, ovviamen-te, non poteva mancare Ildebrando di Soana. Sua massima aspirazio-ne era quindi ridare dignità alla carica papale, eliminando abusi e corruzione esistenti; nonché fare in modo che la figura del pontefi-ce divenisse quel perno intorno al quale far ruotare quella riforma

La Rassegna d’Ischia 2/1992 35

usando violenza anche a chi indos-sava un abito religioso. Nel 1051 questi faticosi tentativi d’intesa eb-bero bruscamente termine: il conte Drogone mentre ritornava a Melfi venne proditoriamente assassina-to. Temendo per la sicurezza dei propri confini, il pontefice preferì abbandonare la linea morbida sino ad allora seguita. Cominciò così a tessere una sottile rete di alleanze. Il marchese di Canossa Bonifacio, nonché vari duchi longobardi del meridione, diedero la loro adesio-ne. Il Santo Padre, pressato dal bi-sogno, inviò richieste d’aiuto anche ai Bizantini, dimenticando per il superiore fine l’antica ruggine. Il fronte era però destinato a romper-si prima ancora di divenire operan-te. Fedeli alla parola data restarono solo i Bizantini. Leone, capito che il loro apporto non sarebbe stato suf-ficiente a contrastare validamente i potenti vicini, si recò in Germa-nia con l’intento di sensibilizzare e chiedere armati all’imperatore En-rico III. Venuti a conoscenza che il pon-tefice stava allestendo un esercito, gli abitanti di quello che era stato il prestigioso principato di Beneven-to gli offrirono il dominio della cit-tà. Leone accettò. Era l’anno 1501 e sino al 1850 questo centro abitato, anche se territorialmente separato dagli altri domini, era destinato a rimanere stabile possedimento del-la Santa Sede. Enrico, all’arrivo del papa, mostrò molta benevolenza senza però con-cedere molto. Leone riuscì comun-que ugualmente ad avere degli ar-mati, nonché il permesso di reclu-tarne altri nelle terre dell’Impero. Lo scontro tra gli opposti schiera-menti avvenne a Civitate nella Ca-pitanata il 17 giugno del 1053, ove le poco esperte ed affiatate truppe papaline vennero travolte dalle schiere normanne guidate dai capi più prestigiosi. Al termine, Roberto il Guiscardo, che con questa vitto-ria aveva dato un’ulteriore prova delle sue capacità guerriere, volle darne anche una di abilità politi-ca. Fatto condurre il Santo Padre in sua presenza gli chiese perdono per averlo combattuto. Successi-vamente gli consentì anche di far

zioni costiere con le loro razzie. La crociata era già nell’aria! In conclusione, non possiamo esi-merci dal ricordare che il nome di questo pontefice, che la chiesa, ri-conoscendone i meriti, proclame-rà santo, è legato anche al Grande Scisma, che non fu certo lui a pro-vocare, anche se avvenne proprio durante il suo pontificato. Dopo che per secoli vi erano stati lotte e contrasti, il mondo cristiano si spezzò in due chiese ben definite: quella romana, che continuò a far capo al santo Padre chiamandosi “cattolica”, cioè universale; e quel-la greca dipendente dal Patriarca e dall’Imperatore di Costantinopoli che le imponevano uno stato giu-ridico di soggezione e che si definì “ortodossa”, cioè fedele al dogma. Alla morte di Leone IX, a Roma, nobiltà e popolo chiesero un papa che fosse meno legato all’autorità imperiale e più vicino agli interessi della città eterna. Ildebrando di So-ana, che da anni manovrava la poli-tica pontificia, riuscì a non far pre-valere questo orientamento nel ti-more che si riaprissero quelle lotte tra le varie famiglie dell’Urbe, che già in precedenza avevano insan-guinato il Soglio e gettato discre-dito sulla figura papale. Ciò non gli impedì di liberare l’istituzione da qualunque condizionamento laico, compreso quello imperiale. Ebbe anche il buon senso di accorgersi che i tempi non erano ancora ma-turi e pertanto non forzò la mano agli eventi. Nuovo pontefice fu il cancelliere imperiale, il vescovo Gebardo. Al momento dell’incoronazione as-sunse il nome di Vittore II (1055-1057) e grazie ai suoi precedenti di amicizia con l’imperatore, durante l’intero arco del suo pontificato i rapporti tra papato e impero con-tinuarono ad essere buoni e sen-za screzi. Nel 1056 fu al capezzale di Enrico III morente e ritornò a Roma solo dopo la sua sepoltura. La scomparsa dell’imperatore consentì a Goffredo il Barbuto, di-venuto anche marchese di Toscana dopo il matrimonio con Beatrice vedova del defunto Bonifacio, di ri-prendere il controllo sulle sue terre dell’Italia centrale. Iniziò anche a

ritorno nell’Urbe, dopo la stipula però di un trattato con il quale Leo-ne accettava la presenza normanna e legittimava le loro conquiste. La scomunica era stata tolta da tempo. Al ritorno a Roma, avvilito dalle umiliazioni ricevute e profonda-mente dispiaciuto per le sofferenze che aveva visto patire alle inermi popolazioni meridionali, si amma-lò gravemente e morì il 19 aprile del 1054. Prima del trapasso sembra si pentisse di aver organizzato una spedizione contro altri cristiani e non una crociata contro i Saraceni, che da tempo rendevano insicuri i mari e terrorizzavano le popola-

36 La Rassegna d’Ischia 2/1992

tessere una sottile rete di alleanze con l’intento di cingere quella coro-na d’Italia, appannaggio dei sovra-ni germanici sin dai tempi di Otto-ne il Grande. Vittore, però, tenace guardiano dell’integrità territoriale dell’Impero, molto si prodigò per la concordia, svolgendo anche un’abi-le opera di mediazione tra la Reg-gente ed i suoi vassalli, che, appro-fittando della vacanza imperiale, erano in un fermento molto vicino alla ribellione. Tenne anche in de-bita considerazione il pericolo che rappresentava per il Territorio di San Pietro la sempre crescente po-tenza normanna nel sud della Pe-nisola e pertanto in vista di un fu-turo intervento instaurò dei buoni rapporti con il monastero-fortezza di Montecassino, che per forza eco-nomica ed estensione di territorio non aveva nulla da invidiare agli altri potentati locali. Una morte re-pentina impedì la realizzazione di queste aspirazioni. Ildebrando, che ora ancor più at-tentamente vigilava sulla chiesa, fu abile ad impedire che le fazioni romane, approfittando della tenera età del nuovo imperatore Enrico IV, si scatenassero nella lotta per la successione. Riuscì ad imporre quindi la nomina di un suo favorito, il fratello del marchese di Toscana, che alla pari del germano, era ostile all’autorità imperiale. Il nuovo elet-to fu Stefano IX (o X) (1057-1058). Ebbe un pontificato breve, sempre però all’insegna di una condotta ispirata alla fede e ai principi fon-damentali del cristianesimo. Fu un tenace assertore e conti-nuatore di quella riforma iniziata da Leone X e sempre si circondò di persone che, come lui, deside-ravano ardentemente moralizza-re e rigenerare la chiesa nella sua globalità. Consacrò cardinale Pier Damiani, nonostante una sua de-cisa opposizione, e sempre si servì del prestigio e dello zelo di questo personaggio per il successo di que-gli ideali che perseguiva con tanta costanza e volontà. Durante questo pontificato, il So-ana continuò a non trascurare il pericolo che i Normanni rappre-sentavano. Certo che i Bizantini non avrebbero più concesso alcun

appoggio, a causa dell’aggravarsi del contrasto ideologico-religioso esistente tra le due chiese, influì sul nuovo papa spingendolo a chiede-re aiuti al potente fratello, nonché all’imperatrice reggente, allo sco-po di organizzare una nuova spe-dizione, con il chiaro proposito di ridimensionare questi prepotenti vicini, smussarne l’invadenza e co-stringerli ad abbandonare altre vel-leità di conquista. L’impresa non andò a felice conclusione a causa di un’inaspettata morte del Santo Pa-dre avvenuta in Firenze. Le famiglie dell’aristocrazia ro-mana, dopo che per secoli avevano gestito il Soglio come un feudo pri-vato e non avevano gradito la loro esclusione dalle recenti nomine pa-pali, approfittarono della vacanza imperiale per riprendere il control-lo dell’istituzione. I Tuscolo e i Cre-scenzio, agendo con decisione, im-posero allora il cardinale Giovanni detto Mencio, che prese il nome di Benedetto X. Ildebrando, deciso ad impedire il ritorno ad una tradizione di mal-costume, insieme ad altri cardina-li, indisse in Toscana una solenne assise, nella quale venne dichiara-ta non valida la nomina romana; nel contempo, si procedette anche all’elezione di un nuovo pontefice. Gerardo di Borgogna, vescovo di Firenze, fu il nuovo papa. Avendo ottenuto anche il riconoscimento della reggente imperatrice Agnese, prese il nome di Nicolò II (1059-1061). L’insediamento a Roma, gra-zie anche all’aiuto degli armati del marchese di Toscana, non presentò eccessive difficoltà. Benedetto, cat-turato da Riccardo d’Aversa, giunto anch’egli a sostenere il nuovo pon-tefice, fu deposto ed imprigionato; successivamente gli fu consentito di continuare a vivere in Roma, in una condizione di semilibertà, an-che se non poté più esercitare le funzioni ecclesiastiche. Il pontefice Nicolò II, pur aven-do regnato brevemente, è stato tra quelli che più profondamente hanno segnato la storia del papato. Il suo nome infatti è legato a quel Concilio da lui indetto, ma voluto anche da Pier Damiani, da Ilde-brando e dal cardinale Umberto,

con il quale si stabiliva finalmente, ed in modo definitivo, la modalità per l’elezione del Santo Padre. Va però anche detto che già in prece-denza vi erano stati dei tentativi tesi a mettere ordine nella successione al Soglio, ma ogni volta, sia per la poca autorità morale degli eletti che per l’arroganza e la prepoten-za della nobiltà locale, nonché per l’invadenza del potere imperiale, le normative emanate erano sempre state puntualmente evase. In questo Concilio, svoltosi in Laterano, fu sancito che l’elezione dei papi dovesse essere prerogati-va esclusiva dei cardinali-vescovi (che erano i vescovi delle principali chiese dei dintorni di Roma e del-le città limitrofe riuniti in un sacro collegio, previa consultazione con i cardinali-diaconi, il restante clero ed il popolo di Roma). La rivoluzio-narietà dell’atto non si fermava qui. Non vennero infatti menzionati sia il parere che il benestare imperiale, sino ad allora così condizionanti. In merito fu solo detto: “Salvi l’o-nore ed il rispetto del nostro diletto figlio Enrico (IV), attualmente re e si spera per grazia di Dio futuro im-peratore, come noi abbiamo con-cesso a lui ed ai suoi successori che personalmente avranno impetrato tale diritto da questa Sede Aposto-lica”. Con questa scelta la chiesa conti-nuava a percorrere a grandi passi e con energia e coraggio la strada della sua elevazione spirituale e libertà da qualunque condiziona-mento laico, che doveva condurla, nell’intenzione dei suoi animatori, ad una vertiginosa altezza di purez-za e moralità. Ancora, era intenzio-nata ad affrancare i suoi possedi-menti da quelli dell’impero. Voleva cioè liberare il Territorio di San Pietro dal controllo dell’imperato-re ed annullare quell’atto di Ottone il Grande, che, pur concedendo al papato parte dei territori imperiali sui quali esercitava giurisdizione, s ne conservava però la proprietà. In questa sede fu affrontato anche il problema del celibato del clero e condannata ancora una volta la si-monia in tutte le sue forme. Inoltre ai laici venne vietato in modo inde-rogabile di concedere investiture

La Rassegna d’Ischia 2/1992 37

diocesali, come pure agli ecclesia-stici di ricevere il pastorale da una qualunque persona che non fosse il papa. Terminato il concilio e saputo che l’imperatrice Agnese aveva rifiuta-to le decisioni in esso prese, perché svoltosi senza la presenza di un suo delegato, Ildebrando, resosi conto che oramai erano state gettate le basi per una lotta aperta con l’im-pero e che la chiesa necessitava di un alleato che le garantisse con la forza delle armi l’incolumità dei suoi territori e dei suoi rappresen-tanti, si guardò intorno alla ricerca di chi potesse essergli di aiuto. La scelta cadde sui vicini Normanni. Indetto un nuovo concilio a Melfi (sempre 1059), dopo lunghe trat-tative, Roberto d’Altavilla accettò di dichiararsi vassallo della Santa Sede, cancellando di colpo l’antica ruggine. Degno di nota è che questo infeu-damento fu, in ordine di tempo, il primo che un pontefice concesse ad un potere laico. Esso faceva perno sulla presunta proprietà dell’intero Occidente che i papi vantavano di possedere dai tempi dell’Impero romano (Donazione di Costanti-no). Nel futuro la signoria feudale della chiesa conobbe uno sviluppo sempre più ampio, che vide cresce-re gli stati ad essa sottoposti con giuramento di vassallaggio, sino a che la Santa Sede non divenne - nei secoli che seguiranno - sovrano feudale più potente dello stesso im-peratore. Il Guiscardo, in cambio di questo vassallaggio, ricevette l’investitura a duca di Puglia e Calabria. In que-sto concilio venne riconosciuto a Roberto anche il possesso su quelle terre che avrebbe in seguito con-quistato, avallando a priori la fu-tura espansione. L’investitura nel-la realtà delle cose non era affatto una concessione feudale, nel senso tradizionale del termine, in quanto i Normanni erano già saldamente padroni di queste terre. Si legitti-mava però ancora una volta il loro possesso, mentre si cancellavano le precedenti investiture concesse da Corrado II e da Enrico III. Nicola II concesse il suo appoggio anche al movimento riformato-

re milanese detto della “Pataria”, inviando a mettere ordine e pace nella città ambrosiana alcuni suoi legati, tra cui la figura di gran lun-ga più prestigiosa fu senz’altro Pier Damiani. Nel 1061, lo stesso anno in cui i Normanni iniziavano la conquista della Sicilia per sottrarla agli Arabi e riportarla a gravitare nell’orbita cristiano-occidentale, papa Nicola II moriva. La successione fu diffici-le e non solo per i motivi di sem-pre, ma anche perché, per la prima volta, avrebbe dovuto fare la sua comparsa quel conclave destinato ad eleggere il pontefice lontano da influenze non strettamente eccle-siastiche. Ildebrando, capito che il momento necessitava di un’azione di forza, fece nominare subito - chiaramente con la procedura ap-pena approvata - il nuovo pontefi-ce. Il prescelto, Anselmo da Baggio, uomo di vera e provata fede e lonta-no da simonia e corruzione, non fu però da tutti accettato pacificamen-te. Infatti, sia il popolino che l’ari-stocrazia romana provocarono di-sordini, non volendo sopportare di essere stati esclusi dall’elezione in modo legittimo e definitivo. Anche la reggente imperatrice Agnese si unì al coro di proteste. Il neo-eletto prese il nome pontificale di Ales-sandro II (1061.1073). L’opposizio-ne della corte imperiale alla nuova procedura non fu però solo verbale. A Basilea, in un sinodo, fu ritenuta non valida l’elezione di Alessandro e proclamato papa un fedele sud-dito dell’impero, che prese il nome di Onorio II. Questi, che godeva dell’appoggio delle armi imperiali, al momento risultò indubbiamente essere il più forte e quello dotato di maggiori possibilità di prevalere. La Curia romana non era del tutto indifesa. In seguito a quegli accordi precedentemente stipulati poteva ora contare sulla protezione delle armi normanne. Fu infatti Riccar-do di Capua a scortare Alessandro II al suo ingresso a Roma. Sorretto dagli armati imperia-li anche l’antipapa Onorio giunse nell’Urbe (marzo 1062). Al suo ar-rivo nobiltà e popolino lo accolsero con entusiasmo, rappresentando quella figura papale che essi avreb-

bero voluto ripristinare, ma che invece il Soana voleva distruggere. Ricevette l’appoggio anche di gran parte del basso clero locale che spe-rava in un suo trionfo per porre fine al regime di austerità e moralizza-zione a cui la nuova chiesa lo ave-va costretto. Dopo l’insediamento in San Pietro ed uno scontro che vide prevalere le schiere di questi, il papa legittimo ed i suoi più stret-ti collaboratori furono costretti ad allontanarsi. La contesa, che sem-brava dover essere l’inizio di un grande scisma, fu però in breve ri-composta, sia per la paziente opera di Pier Damiani, che la chiesa grata per l’impegno speso in suo favore proclamerà santo, che per l’aiuto di Goffredo di Lorena e dei Norman-ni che accorsero con i loro armati a sostenere Alessandro, il quale poté così finalmente rientrare in Roma e riprendere le sue funzioni. Anche le varie tendenze che ave-vano sostenuto le due parti in lotta, in seguito ad un indebolimento del-la posizione della reggente venuta in contrasto con il figlio, vennero alla fine ad un accordo. A Mantova, durante un concilio al quale parte-ciparono vescovi italiani e tedeschi, Alessandro II fu riconosciuto unico e vero pontefice. Onorio, sconfitto ma non domo, trovò rifugio prima alla corte imperiale e poi presso la fedele città di Parma, ove sino alla morte continuò a ritenersi il papa legittimo e ad emanare bolle. Alessandro II durante il suo pon-tificato dovette tener testa anche all’invadenza normanna, nonché a quella del duca Goffredo, sempre pronti a mutare alleanze a vantag-gio del proprio tornaconto. Con lui la Riforma continuò con decisio-ne il suo cammino. La lotta contro simonia e corruzione procedette ovunque con successo, mentre la presenza dei Legati papali faceva sentire in Europa il peso e l’impor-tanza della figura di un Santo Pa-dre ormai lontano da qualunque influenza laica e purificato negli intenti, nelle aspirazioni e negli ideali. Nel 1065, con il raggiungimento della maggior età, Enrico IV (1065-1106), giovane imperatore di soli quindici anni, prese saldamente in

38 La Rassegna d’Ischia 2/1992

pugno il governo dell’impero. Ini-ziò subito una personale politica ri-gidamente accentratrice ed in aper-to contrasto con i nuovi principi della chiesa. Nonostante che fosse ormai chiaro a tutti che essa desi-derava che le cariche ecclesiastiche dovessero essere conferite solo dal pontefice, Enrico elesse una lunga serie di vescovi di suo gradimen-to, senza chiedere alcun assenso al Santo Padre e facendo di tutto per acuire la già forte tensione. Il comportamento del giovane Enrico è però facilmente spiega-bile! Era cresciuto in una corte ove gli era stato inculcato che il papato stava minando alla base il prestigio e la stabilità dell’impero. Ovviamente, la conseguenza di ciò fu che maturò un odio per la chie-sa ed i suoi rappresentanti che, al momento del suo esordio politico, così come abbiamo visto, lo portò ad assumere atteggiamenti di aper-ta ostilità. Alessandro II, che sempre fu ani-mato da profonda fede religiosa e che molto si adoperò per la ri-nascita della chiesa e del papato, contribuì con il coscienzioso zelo di ogni suo atto ad elevare l’istitu-zione ad una ragguardevole altezza di dignità e rettitudine. Fu anche un tenace sostenitore della teoria secondo la quale la chiesa, padro-na di tutte le anime, dovesse, senza alcuna limitazione, controllare e sindacare ogni aspetto della vita di tutti i cristiani. Adirato per il com-portamento di sommo disprezzo

verso le normative ecclesiastiche, tenuto dall’imperatore, lo invitò ad una maggiore moderazione. La richiesta non poté però avere epilo-ghi, in quanto nel 1073 Alessandro moriva. Dei grandi protagonisti del suo tempo fu l’ultimo ad uscire di sce-na. Nel 1069 era morto l’indiscipli-nato vassallo imperiale Goffredo

I di Lorena detto il Barbuto; nel 1072 erano scomparsi sia l’antipa-pa Onorio che la mistica figura di Pier Damiani. Anche il cardinale Umberto era morto da tempo. Di quella cerchia di eletti, che tanto avevano lottato per la riforma, so-pravviveva solo Ildebrando, desti-nato a far parlare ancora di sé.

Vincenzo Cuomo

La Rassegna d’Ischia 2/1992 39

Rassegna LIBRI ARTE PREMI

Dipinti dal XVI al XVIII secolo nelle chiese di Ischiadi Elena Persico Rolando

Edizioni Graphotronic, Napoli 1991 - cm 18x24 - pp. 130, ill. b. n. 48, tavole a colori 8.

di Giuseppe Alparone

Ringrazio l’amico Agostino Di Lustro del prestito di questo li-bro. Nella prefazione il prof. Pa-celli scrive che qui sono finalmen-te studiate le opere d’arte nelle chiese isolane, presentate per il ruolo che occupano e nella storia culturale dell’isola e nel rapporto che esse stabiliscono con la pro-duzione napoletana dei grandi maestri. La vasta produzione ar-tistica è stata tutta identificata e classificata., e ciò ha permesso di assegnare ai vari Calise, Schiano, Ceppaluni, Ferrazzano e Di Spi-gna le opere di loro spettanza... artisti, solo alcuni noti agli stu-diosi; per altri, come il Ferraz-zano, si è trattato di una vera e propria scoperta. Tutti i suddetti artisti, nati nell’isola e qui attivi fra Sei e Settecento, trovano in questo volume finalmente rico-nosciuti ruolo e meriti. Conoscevamo i pittori isolani Cesare Calise, Alfonso Di Spigna e Gennaro Migliaccio, qui spun-tano altri nomi, non sappiamo se risultato di ricerca o cittadi-nanza onoraria motu proprio del prof. Pacelli. Del canonico Carlo Ferrazzani, ci sembra di ricorda-re opere firmate nella chiesa dei Francescani a Caiazzo ed il nome,

con quello di Aniello d’Aloisio, nella matricola dei pittori pubbli-cata da mons. Franco Strazzullo (nella quale manca Alfonso Di Spigna), ma è pittore modestis-simo, meno valido che lo scono-sciuto Luigi Zeppilli della tela di Barano. In chiusura della presen-tazione il prof. Pacelli afferma che l’alta qualità artistica delle opere di Alfonso Di Spigna avrebbe in-dotto gli studiosi ad assegnare a Francesco De Mura le tele all’A-scensione a Chiaia. A noi sem-bra che la cantonata presa dal Sigismondo nel 1788 e ripetuta più volte fino alla seconda metà di questo secolo sia dovuta alla lettura superficiale e sottovalu-tazione della pagina di Bernardo de Dominici, confermata in toto dal confronto con opere isolane. Manca nella bibliografia del vo-lume in esame almeno il 90 per cento delle pubblicazioni ospita-te in un lungo periodo di anni da questa rivista e da altra stampa periodica isolana. Personalmente non darei troppo peso all’infortu-nio tipografico dello scambio di collocazione fra tele a S. Gaeta-no e la chiesetta al Cuotto, se per due tele nella prima chiesa non fosse tirato in ballo il mio nome per un’attribuzione ad Alfonso Di Spigna mai fatta per i forti dubbi, e con l’aggiunta di una collocazio-ne cronologica espressa con ter-minologia estranea al mio lessico. La definizione di batoniano per

Severino Galante la ricavai dalla pagina del Bindi, che l’A. cita, e dal carattere delle tele foriane che denotano un alunnato alla botte-ga di Pompeo Batoni. Leggesi a p. 108 un’affermazione ripetuta che farebbe supporre Aliano fra-zione o sobborgo di Matera, men-tre ne dista parecchi chilometri, e trattasi della località immortalata in Cristo si è fermato a Eboli da Carlo Levi, che poi fu sepolto nel cimitero locale. Lo scrittore mo-dificò sia i cognomi delle perso-ne, sia il nome del paese, che di-venne Gagliano, col risultato che nelle note ad un brano del libro in un’antologia scolastica fu spie-gato come Gagliano Castelferra-to, in Sicilia. Il riferimento è alla tela in cui un restauro scoperse la firma di Carlo Sellitto ed un vigo-roso ritratto del committente in preghiera, figura assurta a simbo-lo della prima mostra di restauri in Basilicata e riprodotta sulla copertina di Arte in Basilicata di Anna Grelle Iusco. L’A. istituisce un confronto fra questa immagine ed il commit-tente in calce alla santafediana Traditio clavium allo Spirito San-to ad Ischia. Un confronto di cui assumo, ma fino ad un certo pun-to, la piena responsabilità, aven-do indicato il personaggio isolano come precedente della figura del Sellitto quando in BRUTIUM ed ARTE CRISTIANA recensii il volume della Grelle Iusco, ma

40 La Rassegna d’Ischia 2/1992

non mi sognai di puntare su una pretesa somiglianza fisionomica che suggerirebbe una identità di persona, perché mi pare un con-fronto, verbigrazia, fra un tuni-sino ed un eskimese. Il polittico scompaginato che è nel convento di S. Antonio viene presentato con il pannello della Maddalena, qui chiamata S. Caterina d’Ales-sandria ed una scheda tecnica se-condo cui la pala principale, Ma-donna delle Grazie, cm 145x180, avrebbe come predella quattro tavole di cm 80x70 e due di cm 145x180. Penso che l’inclinazio-ne del capo abbia spinto la dott.ssa Persico Rolando a cercare un confronto per lei probante fra il S. Bonaventura (o S. Francesco) nel polittico nel convento ed il S. Leonardo ad Armenio, in Basili-cata, una tavola dove la decora-zione della centina e le artificiose pieghe del saio troppo lungo sono elementi innegabili della pittura tardogotica, che non hanno im-pedito alla tavola, prima di spari-re ad opera di soliti ignoti, di fare collezione di attribuzioni fuori tempo massimo. Eccole: Simone da Firenze (Grelle Iusco, catalogo della mostra di Andrea da Saler-no, e Persico Rolando); Pedro de Aponte, insieme con il S. Tom-maso orante nel duomo di Ischia (Pierluigi Leone de Castris), Bar-tolomeo Guelfo da Pistoia (Pre-vitali). (Questa rivista pubblicò nell’88 un saggio del nostro col-laboratore intitolato: Maestro del S. Tommaso nel duomo di Ischia: Pedro de Aponte, Simone da Fi-renze o Silvestro Falanga? n.d.r.) Se Leone de Castris vedeva nei due personaggi oranti nella tavo-la principale del polittico Costan-za d’Avalos e Vittoria Colonna, la dott.ssa Persico Rolando pensa a S. Chiara e Vittoria Colonna. A me il personaggio ammantato di nero ed incappucciato continua a parere un uomo: una coppia di co-niugi committenti di impossibile identificazione, allo stato attuale degli studi. In questa scheda l’A. tira in ballo un polittico del duo-

mo di Salerno, che definisce affre-sco, ed è anch’esso protagonista di una bella collezione di opinioni disparate; Stefano Sparano (F. Bologna), Maestro di Cassano Ir-pino (il sottoscritto), Maestro del transetto (Kalby), e nel catalogo della mostra di Andrea da Saler-no, caratterizzato da un’estrema disparità di vedute dei suoi auto-ri, Maestro dei polittici francesca-ni, Simone da Firenze, Vincenzo de Rogata e Girolamo da Salerno. A puro titolo di cronaca dirò che la Madonna dell’Ortodonico nella sacrestia del nostro duomo, sotto la pesante ridipintura mi sembra di poterla proporre al Maestro di Cassano Irpino. Nella scheda sulla Madonna del-le Grazie allo Spirito Santo l’A. insiste con discorso critico sulla data 1710 che segue la firma di Paolo de Mattheis. In realtà la ci-fra non è 1710, ma 1716, di quattro anni posteriore ad una pala nella chiesa del Purgatorio a Monopoli, ripetuta con alcune varianti nella tela di Ischia. Uscì dall’inedito in uno dei quaderni dell’istituto di storia dell’arte dell’università di Bari pubblicati quando la dott.ssa Luisa Mortari era soprintenden-te a Campobasso ed incaricata dell’insegnamento di tale mate-ria nell’ateneo pugliese (Gaetano Mongelli Paolo de Mattheis in Puglia, in Ricerche sul Sei-Sette-cento in Puglia, vol. I, 1978-79, p. 128, fig.9). Se la memoria mi soccorre, la data 1680 che nella tela in S. Vito a Forio segue la firma di Anna Maria Manecchia è tracciata con cifre arabe. Condivido perfetta-mente l’opinione sulla disparità qualitativa fra le tele foriane fir-mate da Filippo Ceppaluni, det-to il Muto, e quelle ad Avigliano in Basilicata, dove quel nome è seguito dalla data 1745, perché nella recensione al volume sul-la Basilicata posi un dilemma: o negare l’attendibilità di Bernardo de Dominici quando afferma che tale artista, già scolaro di suo pa-dre Raimondo de Dominici, morì

nel 1725, o chiamare l’autore del-le tele lucane Filippo Ceppaluni junior, con ogni probabilità un nipote. La lunga scheda tecnica sull’Annunciazione dispignana in S. Sebastiano a Barano manca di chiarezza, giacché contiene un in-ciso e la definisce Annunciazione d’Ascia, come io chiamai la tela in S. Sebastiano a Forio, essendomi stato detto da mons. Luigi Capua-no che era stata donata alla par-rocchia da tale famiglia, fra i cui antenati era la monaca effigiata nel quadro. L’inciso riguarda la tavola dello stesso soggetto all’al-tare della famiglia Migliaccio in S. Maria di Loreto a Forio. D’ac-cordissimo sui caratteri pseudo-cinquecenteschi, già notati da me, come riferimento alla pala dei ss. Severino e Sossio a Napo-li, successivamente pubblicata da Francesco Abbate nel vol. V della Storia di Napoli, ma questa specie di rigidità delle figure, incompa-tibile con i disciolti modi sette-centeschi, continua a parermi un desiderio dei committenti di evi-tare una cesura rispetto alla cona presente in due inventari delle suppellettili della chiesa nel tardo 500, che Alfonso Di Spigna rin-novava. Il cosiddetto trittico bi-zantino è riprodotto nell’aspetto che aveva prima del restauro che ha eliminato la brutta ridipintura e riscoperto la firma di Cesare Ca-lise, già fornita dal d’Ascia, con la data 1640: forse il canto del cigno del pittore foriano che è assente dal notamento delle anime della parrocchia di S. Vito compilato nel 1641 dal parroco Giovan An-drea Regine. E’ un argomento su cui varrà la pena di tornare. E’ un piacere ammirare in que-sto libro con ottime illustrazioni, migliori di quelle pubblicate in questa rivista nell’86, le pitture di Andrea Bordoni e Mattia Pre-ti nella chiesa dei Francescani a Forio. Non sarebbe stato male ristampare il quadretto del Cep-paluni rubato il 15/3/73, una delicata S. Apollonia che farebbe

La Rassegna d’Ischia 2/1992 41

ripensare alle doti di ritrattista che il De Dominici attribuiva al Muto, se non fosse derivata dalla testa di una figura in una tela di Francesco Fracanzano in Puglia, pubblicata da Michele d’Elia nel catalogo della mostra di Bari nel 64. Mi pare che in questo libro Alfonso Di Spigna sia oggetto di un’attenzione un po’ anomala, per opere classificate come del-la sua cerchia, altre che non gli competono affatto, quali una tela a Succhivo (pubblicata a colori) ed un’altra in S. Restituta a Lac-co, che dalla descrizione mi pare di poter identificare nel dipinto di un modesto pittore neoclas-sico, influenzato da Vincenzo de Angelis, autore nel 1855 di due delle tre grandi tele nella chiesa di Portosalvo. L’altra faccia del-la medaglia è l’assenza di altre, come il S. Giuseppe nel duomo, la Levitazione di S. Giuseppe da Copertino in S. Antonio, parec-chie in S. Maria di Loreto a Forio, come quelle influenzate da Seba-stiano Conca, la Visitazione dove il pretiano S. Zaccaria è lo stesso modello dell’Abramo a Chiaia, un’altra delle Annunciazioni (tut-te differenti fra di loro, sia detto

a lode di don Alfonso!), con l’an-gelo ispirato all’Estasi di S. Tere-sa di Gian Lorenzo Bernini. Fra le assenze da ricordare ancora le tele bonitesche allo Spirito Santo, quelle in S. Pietro, la Madonna del Carmine a S. Restituta, la ta-vola d. 1554 al Soccorso (se esiste ancora), due quadri di cavalletto in S. Michele a Forio, che per pi-grizia e mancanza di foto non ho potuto fino ad oggi confrontare con opere del Monrealese per fu-gare o confermare un’idea nata da un confronto mnemonico. Assen-ze tutte che suscitano dubbi sul giudizio di completezza espresso nella prefazione dal prof. Pacelli, anche pensando alla grande Ma-donna delle Grazie e Santi, forse di Cesare Fracanzano, all’altar maggiore di S. Antonio ad Ischia. E si potrebbe continuare. Numerose le illustrazioni, ed anche belle, soprattutto quelle a colori, fra cui la tela a Visitapo-veri che mi sembra un prezioso autografo di Guido Reni, ma in quanto alla completezza mi sem-bra che una pubblicazione ricca di tale requisito sia ancora di là da venire.

Giuseppe Alparone

Il maredi Cecilia Coppola e Giuseppe Coppola

Sorrento e la penisola hanno inte-ressato numerose pubblicazioni di vita marinara, degli sviluppi del-la economia che nel mare aveva fondamento, degli uomini che del mare avevano fatto il loro teatro di vita o il mare avevano ritratto nella propria arte. Nessuno aveva presentato al lettore il mare come parte di episodi di vita sposati con la fantasia fiabesca che ne arric-chisse il fascino, la curiosità e lo spirito di avventura. Dal binomio Cecilia Coppola e Giuseppe (Geppino per gli amici) Coppola è nato questo libro che si

presenta arricchito da riproduzio-ni di stampe antiche o foto d’epo-ca che cercano di individuare la parte di costa o le spiagge lungo le quali le favole di Cecilia traducono fantasticamente il racconto dell’e-sperienza personale di Geppino. La curiosità, conoscendo gli auto-ri, non è stata stimolata nel legge-re la scrittrice, ormai nota e colma di premi e riconoscimenti, ma il “capitano in pensione” nella nuo-va veste è stato motivo di una lieta sorpresa. Il comandante Coppola ha meso in mostra una proprietà di linguaggio (che naturalmente

gli deriva dalla lunga vita tra-scorsa sul mare), una ricchezza di immagini che manifesta una spiri-tualità sensibile e delicata, una ef-ficacia di descrizione che lascereb-be intravedere un esperto dell’arte della penna come, raramente, si trova in uomini usi a ben altre fati-che ed a superare ben altri ostacoli nell’attività professionale. L’estremo oriente si sposa con le coste sorrentine, così come fat-ti mitologici richiamano incontri di personaggi ormai fuori della storia attuale del nostro paese. L’amore è il dio che sovrintende alle creazioni di Cecilia Coppola, così come la passione per il mare è la forza che sostiene i maritti-mi, sia nella solitudine, sia nelle peripezie naturali o belliche come ricordate da Giuseppe Coppola, ri-leggendo i suoi appunti di bordo o ricordando episodi della sua lunga carriera sul mare. Forse in queste pagine del coman-dante Gep troviamo la spiegazio-ne del perché molti studenti degli Istituti Nautici non resistevano ed abbandonavano il mare, dopo di averne fatte le prime esperienze o aver sofferto la lontananza dagli affetti familiari, specie se impe-gnati in giovane età! I passaggi del Capo Horn o di quello di Buona Speranza, le visi-te a Tamara o alle Baleari, i peri-coli di Amboina e le conseguenze della minestra di ceci, hanno in-vitato Cecilia Coppola a viaggia-re con la sua fantasia, con la sua ricchezza di immagini, con la sua dolcezza nella scrittura (che mani-festa quella del suo animo e del suo spirito), descrivendo le avventure fiabesche di Malinke, delle vesta-li alla Torretta dello Scraio, della sirena punita con trasferimento nell’Oceano Indiano, della bontà e dell’amore di re Nerano, della universalità del presepe e della ef-ficacia del buonsenso nell’ammini-strare la giustizia. Se nelle descrizioni di Giuseppe Coppola si incontrano episodi di vita marinara e patemi d’animo, vinti o avvinti da fattori psicolo-gici che fanno della gente di mare degli eroi di vita, per il sacrificio

42 La Rassegna d’Ischia 2/1992

e l’impegno necessari, nelle para-frasi di Cecilia la finalità è diversa. L’amore, la ricerca della verità, l’anelito di giustizia, la passione per la pace ed il bene, sono le con-clusioni alle quali si perviene dopo di aver letto le sue appendici fiabe-sche ai ricordi del comandante. Quando leggemmo il primo li-bro di favole di Cecilia Coppola, Spiriponzi, le manifestammo la gioia provata nella lettura perché quelle sue favole, di ispirazione ed impostazione moderne, erano adatte sia a grandi che a piccini, anzi se ai piccoli destavano curio-sità e diletto, negli adulti ispirava-no ed infondevano un amore all’al-truismo, alla pace, alla difesa della

natura, all’ammirazione per il bel-lo. Oggi è stato vivissimo il deside-rio di leggere il comandante e la favolista che ci ha spinti a comple-tare la lettura (stavamo per dire “a divorare il libro”) in poche ore e la gioia è stata immensa alla fine, quando, dopo di aver trascorso ore liete nel calarci nei vari episo-di, siamo giunti alla conclusione. Abbiamo appreso da Positanea, la fata del golfo di Salerno, che “la ricerca della verità non si può avere sempre come se fosse un dono, bisogna cercarla dentro di sé, nel profondo del proprio cuore e ascoltarne la voce senza interfe-renze. La voce della verità è chiara e sonora e non si mescola a nessun

altro suono, si riconosce fra mille, ma bisogna bene tendere l’orec-chio”. Ed il principe Fiorenzo affaccian-dosi alla finestra poté vedere come “il mare era azzurro e il vecchio Buonsenso, stava sulla riva circon-dato da tanti bambini e racconta-va loro della bellezza del creato, mentre i pescatori tiravano reti colme di pesce guizzante e vivo. Il mare aveva ripreso a vivere”. Ed in questa gioia ci siamo... ad-dormentati anche noi, sperando di non doverci svegliare, nuovamen-te, nell’amara realtà della società di oggi.

Antonino CuomoPresidente Associazione Studi Storici Sorrentini

La Rassegna d’Ischia 2/1992 43

Il pathos nell’arte di Gabriella Pucciarelli

Il dolore della morte, nella sua duplice dimensione spirituale e fisica, unito alla scoperta dolorosa della solitudine dell’uomo, fonda la sua struttura portante nella scultura di Gabriella Pucciarelli, il cui motore creativo è scavato sulla particolarissima sensibilità dell’artista, protagonista in prima persona del dramma umano che, divorandola come un rogo, scatena la sua rabbia, consumandola e traducendola in altorilievi scultorei di autentica bellezza. Pur non essendo psicolabile, l’impatto è stato devastante: i fiumi dell’anima si sono ingrossati per cui le fitte profonde della sofferenza sono divenute mie. Nell’accostarci a questa singolarissima artista, non possiamo commettere l’errore di indugiare troppo sulla tecnica della caverna-juta o dei materiali poveri, con il rischio di sconfinare sul pedissequo e di smarrire il filo conduttore che rimane l’arte, pur riconoscendo che l’originalità della tela di sacco è semplicemente sbalorditiva, in quanto costituisce l’insegnamento di un modo di comunicare senza ricorso obbligato a canoni guidati. Solo nell’ottica di tale fondamentale premessa, è possibile formulare un giudizio non divagante o riduttivo sull’arte di Gabriella Pucciarelli che è essenzialmente scultura e pathos. Innanzi alle sue tele restiamo folgorati come se, per un guasto cosmico, ci capitasse di ammirare un cielo stellato con astri in fuga vertiginosa.

UN CANTO ALLA SOLITUDINE

La solitudine è la compagna del cuor ch’è in pena.Chi la sfugge non conosce le sue virtù.Lei sola è il porto del naufrago della vita.Lei sola può far capire che il dialogo più belloè quello che che si ha con se stesso.La meditazione dello spirito avviene in lei sola.Solo in lei l’essere si eleva nello spazioe l’anima prende l’eterea sua dimensione,l’anima oppressa si sprigiona dal dolore e sfoga in libertà. L’affanno si placa!

O solitudine,in te l’essere vola come in un cielo stellato.Sapessero quanto sei cara!Felice chi in te si rifugia!

Ma chi è colui che ti sfugge?Non è nessuno, non è nulla:Non conosce la tua melodia silenziosa che accarezza,la musica lieve che, come rugiada di primavera,rinfresca l’animo assetato di quiete,

che ti fa rivivere assieme a chi è in cielo che vive.z

Costui non conosce la poesia che dài,non capisce cosa vuol direil canto di un uccello che vola nel silenzio.Non conosce il conforto che può darel’abbaiare di un cane in una notte di temporale.Non conosce quella bellezza che dà allo spiritoil volo d’un gabbiano solitarionel deserto di un cielo in un tramonto di fuoco.Non può capire la frescura che donaad un cuore inaridito dal doloreil fragore di un’onda del mare in tempesta.Chi è costui che non sache solo in te la preghiera sale all’ETERNO?Nulla è costui; un’anima scialba che vaga nel nulla.

Elina Scandiuzzi

44 La Rassegna d’Ischia 2/1992

Mariano Izzol’arte di rinnovarsi per stupire

Dal figurativo all’informale, dall’astrattismo al simbolismo, fino al ritorno al figurativo puro

La stupenda sensazione che ci attraversa è il brivido, per cui è augurabile che lo scenario imponente delle sue creazioni, che la diversificano da qualsiasi altro artista, contemporaneo o del passato prossimo e remoto, esca prepotentemente fuori dall’ambito regionale e nazionale. Il suo vibrante figurativo traduce in un espressionismo mirabile il pudore della pena, scolpita sui volti delle donne di Napoli che esprimono un dialogo sommesso che ha valore di patto nella difesa dei valori vacillati e vacillanti nella conta dei restanti muniti di vita. L’originalità di Pucciarelli risalta in modo inconfondibile anche nella scultura che

ripropone un tema millenario, il percorso di morte di Cristo, che scivola fuori dai canoni religiosi per universalizzarsi nel dramma dell’artista che trapianta il proprio pathos sulle sue tele, modellate sul vortice di orrore che travolge la vita. Dal contrasto sofferto di luci ed ombre, scavate nel profondo con disperazione e rabbia, esce fuori l’Uomo moderno e buono, scaricato, brutalizzato, cancellato innanzi all’indifferenza umana o cristiana, la mina scatenante la massima esaltazione artistica della Pucciarelli che si esteriorizza nella verità del suo dolore e nella coscienza della propria solitudine.

Ferdinando Spano

Apprestandoci con amore a capire i segreti dell’arte, attingiamo ai tesori di esperienza di un nostro amico: Ibrahim Kodra, considerato dalla critica il massimo esponente vivente del cubismo. Da un discorso da lui tenuto a Palazzo Correale in Sorrento nel corso di una sua mostra antologica, facciamo nostro il messaggio artistico: Tutta la pittura moderna di ispira a due grandi scuole del passato: il naturalismo aristocratico e l’idealismo platonico. Ciò significa che, al di là delle formule (impressionismo, cubismo, dadaismo, surrealismo), i punti di partenza sono a priori ben delineati, come il percorso celeste dell’Orsa Maggiore. La sensibilità artistica di tutti coloro che si accingono a fare pittura è influenzata direttamente o indirettamente dall’energia solare di questi due grandi maestri che hanno mosso la storia.

Mariano Izzo, nativo di Trecase, vive e lavora in Castellammare di Stabia; ha studiato pittura a Napoli con Carlo Striccoli, uno dei maggiori esponenti del Figurativo. Ha insegnato per sette anni arte applicata a Cantù. Trasferitosi in Campania, insegna a Torre Annunziata: il suo impegno per la scuola e l’arte è totale. Hanno scritto di lui critici di assoluto valore, come Luigi Compagnone, Matteo D’Ambrosio e Gino Grassi. Non si contano più le mostre personali che ha tenuto in Italia e all’estero. Genova, Milano, Barcellona, Madrid, Zurigo e Stoccolma: le tappe di lavoro più significative e prestigiose. Disegnava già nel tempo delle scuole elementari, preferendo alla tecnica mista la pittura ad olio su tavolette o tele le cui grandezze variano da 18x24 a 2 metri e 1,50. Il mondo pittorico di Mariano Izzo è attraversato da una serie di

bagliori e folgorazioni che partono dal figurativo fino a percorrere i complicati sentieri dell’informale e dell’astrazione pura per approdare sulle rive dell’invenzione: il sogno della Falce, scaturito dalla “formella” del Ghiberti, il noto scultore del ‘400, autore della “Porta del Paradiso” del Battistero di Firenze, non è altro che una magica donazione al Simbolismo, ovverosia ad una pittura sociale, di forte impegno e di approfondita indagine, da cui balza fuori simbolicamente la figura drammatica del contadino nelle sue varie sfaccettature. In ultimo, per non rinnegare i primi amori, l’imperioso ritorno al figurativo, non più riferito al contadino come persona umana ma ai prodotti del suo lavoro, come i fichi, il melograno e l’uva. Un uomo come Izzo, che vive nel modo più naturale le sue splendide primavere artistiche, compreso l’astrattismo, in sintonia con il pensiero di Kandinsky, per il quale l’ostinata ricerca della bellezza nell’arte non è un obiettivo sufficiente, merita di essere collocato in un posto al sole, come le sue tele che hanno fatto il giro del mondo e che appartengono al momento apocalittico o gioioso della sua indagine esistenziale. La falce è il segno personale di Izzo artista ma anche la sua anima, votata ad interpretare con i suoi simboli il valore della sofferenza dell’uomo. Dopo aver illustrato graficamente tutte le poesie contenute nel volume La valle della luna dell’avv. Francesco Dell’Amura, suo e nostro amico, avvicinandosi al senso dei messaggi nel modo più appropriato, ha lasciato al Grand Hotel Moon Valley di Seiano in Vico Equense, il suo straordinario segno: il ritratto di Gigino, il creatore della “pizza a metro”, sul suo magico trono, raffigurato da un forno, il pane e una colonna d’oro.

Ferdinando Spano

La Rassegna d’Ischia 2/1992 45

46 La Rassegna d’Ischia 2/1992