SCHEDE - Istituto Nazionale Ferruccio Parri

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SCHEDE L uigi F ederzoni , Italia di ieri per U storia di domani, Milano, Mondado- ri, 1967, pp. 319, L. 3000. Pubblicate frammentariamente su « L ’Indipendente » di Roma tra maggio e luglio del 1946, queste memorie di Federzoni vengono ora riproposte orga- nicamente nel volume di Mondadori. Cosa aggiungono esse di nuovo alla nostra conoscenza della crisi del vecchio Stato liberale italiano, di quel rapporto sottile e corposo nazionalismo-fascismo, del regime mussoliniano e della sua pri- ma conclusione di palazzo il 25 lu- glio 1943? Una prima considerazione ovvia: ac- cusa e autodifesa da parte di Federzo- ni, giornalista tra i fondatori de «L’Idea Nazionale», deputato, vicepresidente del- la Camera, ministro con Mussolini due volte alle Colonie, una all’Interno, pre- sidente del Senato, presidente dell’Ac- cademia d’Italia, ma soprattutto Gran Collare dell’Annunziata e Gran Consul- tore del fascismo. Accuse al figliol traviato, a Musso- lini, presunto gregario e strumento nel disegno dei nazionalisti e capo effettivo, poi, verso cui « esisteva per tutti noi un rapporto di collaborazione...: rap- porto di rationabile obsequium, subor- dinato alla persuasione che il capo svol- gesse un’opera illuminata nell’interesse della nazione. Tutti avevano avuto per lungo tempo quella persuasione. Ave- vano creduto nella forza creativa della sua mente e della sua passione patriot- tica. Avevano piaudito e partecipato con intimo consenso, per non pochi an- ni, ad alcuni felici risultati della sua opera. Anche dopo che da difetti e in- congruenze di questa erano state sve- late le lacune del suo carattere, aveva- no continuato ad amarlo, e per un certo tratto si erano illusi che egli potesse essere difeso da loro contro se mede- simo » (p. 206). E accuse ai figli degeneri, i fascisti, sbrigativamente definiti « aderenti di svariatissima provenienza e idee elastica- mente rivoluzionarie, riassumibili in una specie di socialismo nazionale » (p. 58). In particolare « piccoli proprietari, fit- tavoli, molti dei quali avevano combat- tuto valorosamente. Essi costituirono i primi nuclei dello squadrismo fascista... forza... illegale, ma consistente in un moto di difesa dei cittadini che mira- vano principalmente al riacquisto della pace interna del popolo italiano» (p. 61). Che era ipoi, nel disegno di ordine e restaurazione proprio dei gruppi nazio- nalisti e degli interessi che con essi fa- cevano blocco, la funzione che si vo- leva assegnare a quel « movimento po- litico nuovo ». Utile, ma anche perico- loso perchè « svincolato dall’obbligo del- la solidarietà col blocco patriottico ». Di qui la polemica di Federzoni con- tro tutte le venature di radicalismo an- tiborghese, presenti nel fascismo — e in particolare contro il velleitarismo re- pubblicano — contro la « seconda on- data », contro la sua bestia nera per eccellenza: Farinacci. E in ciò stesso l'autodifesa: la funzione di traduttore, custode e cireneo che il nazionalismo si assunse nei confronti del movimento fascista prima e del regime poi (ma quale nazionalismo, dal momento che quel movimento politico, storicamente individuabile, è in parte risolto in po- chi spunti cor.radiniani, espurgato dei (Rocco, dei Coppola, dei Forges Davan- zali...?). Così che Federzoni ne risulta quello che Franco Gaeta ha definito un « normalizzatore nel senso che la nor- malità consisteva nell’affidare .la pro- tezione del fascismo non alle squadre e alla milizia di disciplina messicana, ma ai carabinieri e alla Pubblica Sicu- rezza ». Definizione che non è limita- bile alja sola attività del Federzoni mi- nistro dell’Interno. E sarebbe ingenuo pensare alla pa- rola « dimissioni » quando uomini ed eventi parrebbero smentire nel racconto di Federzoni la sua missione e quella di altri consimili « moderatori ». Tra cui non mancano i fascisti pentiti come Balbo che in Libia « sperimentò solide abilità proconsolari e attraverso quel- l’insieme multiforme di problemi di po- litica interna, economica, militare, sco- lastica e perfino estera... si accostò al concetto organico dello Stato e acquisì la cognizione diretta di una realtà po- litica ben diversa dalle sue giovanili chimere» (p. 153). Balbo, il quale — per ammissione dello stesso suo rivale, Gran- di « esercitava su le masse popo- lari italiane e straniere un fascino che lo rendeva, indispensabile e insostitui- bile ». Speranza di un possibile « ri- cambio ».

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S C H E D EL u i g i F e d e r z o n i , Italia di ieri per U

storia di domani, Milano, Mondado­ri, 1967, pp. 319, L . 3000.

Pu bblicate frammentariamente su « L ’Indipendente » di Roma tra maggio e luglio del 1946, queste memorie di Federzoni vengono ora riproposte orga­nicamente nel volume di Mondadori.

Cosa aggiungono esse di nuovo alla nostra conoscenza della crisi del vecchio Stato liberale italiano, di quel rapporto sottile e corposo nazionalismo-fascismo, del regime mussoliniano e della sua pri­ma conclusione di palazzo il 25 lu­glio 1943?

Una prima considerazione ovvia: ac­cusa e autodifesa da parte di Federzo­ni, giornalista tra i fondatori de «L’ Idea Nazionale», deputato, vicepresidente del­la Camera, ministro con Mussolini due volte alle Colonie, una all’Interno, pre­sidente del Senato, presidente dell’Ac­cademia d ’ Italia, ma soprattutto Gran Collare dell’Annunziata e Gran Consul­tore del fascismo.

Accuse al figliol traviato, a Musso­lini, presunto gregario e strumento nel disegno dei nazionalisti e capo effettivo, poi, verso cui « esisteva per tutti noi un rapporto di collaborazione...: rap­porto di rationabile obsequium, subor­dinato alla persuasione che il capo svol­gesse un’opera illuminata nell’interesse della nazione. Tutti avevano avuto per lungo tempo quella persuasione. A ve­vano creduto nella forza creativa della sua mente e della sua passione patriot­tica. Avevano piaudito e partecipato con intimo consenso, per non pochi an­ni, ad alcuni felici risultati della sua opera. Anche dopo che da difetti e in­congruenze di questa erano state sve­late le lacune del suo carattere, aveva­no continuato ad amarlo, e per un certo tratto si erano illusi che egli potesse essere difeso da loro contro se mede­simo » (p. 206).

E accuse ai figli degeneri, i fascisti, sbrigativamente definiti « aderenti di svariatissima provenienza e idee elastica­mente rivoluzionarie, riassumibili in una specie di socialismo nazionale » (p. 58). In particolare « piccoli proprietari, fit­tavoli, molti dei quali avevano combat­tuto valorosamente. Essi costituirono i primi nuclei dello squadrismo fascista... forza... illegale, ma consistente in un

moto di difesa dei cittadini che mira­vano principalmente al riacquisto della pace interna del popolo italiano» (p. 61). Che era ipoi, nel disegno di ordine e restaurazione proprio dei gruppi nazio­nalisti e degli interessi che con essi fa­cevano blocco, la funzione che si vo­leva assegnare a quel « movimento po­litico nuovo ». Utile, ma anche perico­loso perchè « svincolato dall’obbligo del­la solidarietà col blocco patriottico ».

Di qui la polemica di Federzoni con­tro tutte le venature di radicalismo an­tiborghese, presenti nel fascismo — e in particolare contro il velleitarismo re- pubblicano — contro la « seconda on­data », contro la sua bestia nera per eccellenza: Farinacci. E in ciò stessol'autodifesa: la funzione di traduttore, custode e cireneo che il nazionalismo si assunse nei confronti del movimento fascista prima e del regime poi (ma quale nazionalismo, dal momento che quel movimento politico, storicamente individuabile, è in parte risolto in po­chi spunti cor.radiniani, espurgato dei (Rocco, dei Coppola, dei Forges Davan­zali...?). Così che Federzoni ne risulta quello che Franco Gaeta ha definito un « normalizzatore nel senso che la nor­malità consisteva nell’affidare .la pro­tezione del fascismo non alle squadre e alla milizia di disciplina messicana, ma ai carabinieri e alla Pubblica Sicu­rezza ». Definizione che non è limita­bile alja sola attività del Federzoni mi­nistro dell’Interno.

E sarebbe ingenuo pensare alla pa­rola « dimissioni » quando uomini ed eventi parrebbero smentire nel racconto di Federzoni la sua missione e quella di altri consimili « moderatori ». Tra cui non mancano i fascisti pentiti come Balbo che in Libia « sperimentò solide abilità proconsolari e attraverso quel­l’insieme multiforme di problemi di po­litica interna, economica, militare, sco­lastica e perfino estera... si accostò al concetto organico dello Stato e acquisì la cognizione diretta di una realtà po­litica ben diversa dalle sue giovanili chimere» (p. 153). Balbo, il quale — per ammissione dello stesso suo rivale, Gran­di — « esercitava su le masse popo­lari italiane e straniere un fascino che lo rendeva, indispensabile e insostitui­bile ». Speranza di un possibile « ri­cambio ».

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E le occasioni per saggiare la pro­pria delusione non dovevano essere il delitto Matteotti (per accettare in quel momento « l ’arduo cimento » del Mini­stero dell’Interno fu sufficiente per Fe­derzoni non tanto una designazione di Mussolini quanto una « iniziativa col­legiale » del Consiglio dei Ministri... su proposta di Mussolini), nè il colpo di Stato del 3 gennaio « nel quale io non ebbi alcuna parte anche perchè fu fat­to principalmente contro di me ».

La parabola discendente della fiducia di Federzoni in Mussolini e nel fasci­smo inizia dopo l’impresa etiopica, le­gata, come sembra, prima a considera­zioni di carattere internazionale, man mano che si precisa ravvicinamento italo-tedesco e riconducibile, sul piano interno, al tentativo di fascistizzazione dell’esercito e al progressivo spostamen­to di equilibrio nella simbiosi diarchica corona-dittatura. Dove è esemplare la vicenda farsesca e vulgo umiliante per il presidente del Senato della creazio­ne dei « primi marescialli dell’impero » (pp. 166-167). Poi la Spagna, l’Anschluss, Monaco (successo « più apparente che reale »), l ’Albania, il patto d ’acciaio e la guerra (« quell’avventura ancor più rischiosa delle precedenti »). Di fronte alla catastrofe il racconto di Federzoni è sommario. Ricorrono sempre più fre­quenti gli spunti « legalitari ».

Le origini del voto del 25 luglio? « Un conciliabolo di gerarchi incontra­tisi a Roma... Nel corso di un’udienza concessa dal Duce, Farinacci aveva pe­rentoriamente affermato la necessità ur­gente di riunire il Gran Consiglio ». E soltanto Farinacci avrebbe avuto un pia­no preciso: il passaggio dell’esercitoitaliano alle dipendenze dello stato mag­giore tedesco. « Dino Grandi, allora pre­sidente della Camera, preparò lo sche­ma di un ordine del giorno... ebbe il mio accordo. Subito cominciò la raccol­ta delle firme » (p. 193). Tutto qui. Non una parola di contatti con la Corte, con gli ambienti militari.

« Il Gran Consiglio per vent’anni era vissuto male, ma aveva saputo morire bene... ci dispiaceva di non aver po­tuto agire che tardi » (p. 205).

Ma sarebbe utile solo ai fini di un’ in­dagine psicologica seguire fino in fondo il processo accusa-autodifesa che Feder­zoni ha sviluppato in queste riflessioni della memoria. Troppo facile la polemi­

ca con le pagine di Federzoni per le cose dette e non dette (si ammettono le sovvenzioni ai nazionalisti della gran­de industria di cui parlava Bonomi ne La politica italiana da Porta Pia a Vit­torio Veneto, ma — aggiunge Feder­zoni — « come se... non avesse finan­ziato ecletticamente partiti e giornali di tutti i colori » (p. 9) ), per i quarti di verità (vedi il D ’Annunzio precursore di marce e riti (pp. 53-57) senza insistere molto però sulle solidarietà nazionaliste alla impresa fiumana) e per i travisa­menti (il nazionalismo continuatore del Risorgimento, il suo programma di ordi­nato espansionismo contrapposto allo « sfrenato sciovinismo » e allo « irre­sponsabile bellicismo» di Mussolini; «vit­toria e pace » hanno preso il posto del­la « vittoria mutilata »; Rocco, Coppola, Tamaro dimenticati: « L ’esaltazione el’uso della violenza, una qualsiasi an­che larvata idea di colpi di Stato, una tendenza a esperimenti totalitari furono del tutto estranei al nazionalismo ita­liano » (p. 15) ).

Qui il libro di memorie va accolto più come testimonianza complessiva che per l’utilità di notizie altrimenti veri­ficabili. A l livello delle responsabilità ricoperte dall’ autore in quegli anni di storia italiana sono le stesse interpre­tazioni che egli dà di se stesso e degli altri che fanno documento. Federzoni guarda indietro al ventennio con gli occhi del 25 luglio, il tentativo estre­mo suo e di quei suoi amici, in quel ruolo, di gettare ancora ponti nel nau­fragio a soluzioni moderate. L ’accu­sa a Mussolini di sdoppiamento di personalità sembra ritorcersi continua- mente proprio su quella dirigenza na­zionalista cacciatrice e catturata nei con­fronti del fascismo, ma più di tanti fa­scisti conscia del grande esperimento autoritario — pazienza se forcaiolo — in atto. Per la politica estera ecco il sogno velleitario di un equilibrio euro­peo quasi nittiano da parte del critico acerrimo di Rapallo, quando la fame nazista è ormai insaziabile.

Non ci interessano direttamente i di­stinguo che Federzoni introduce tra na­zionalismo e fascismo o quelli, per esem­pio tra la sua azione e il ruolo rico­perto da Rocco, qui interpretato come un puro visionario irretito nei suoi sche­mi, perchè sappiamo quanto comple­mentare fu l’opera concreta di quei due

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uomini. Quello che importa è proprio la misura in cui le vicende del fasci- smo ne escono anche dalle pagine di questo libro più complesse e contrad­ditorie per genesi e sviluppi.

Sono le contraddizioni patenti nella memoria polemica di Federzoni a richia­mare il problema della verifica della dia­lettica interna del regime. Al centro e nelle più oscure provincie italiane il rapporto tra gruppi vecchi e nuovi al­l’ interno del partito apparentemente mo­nolitico deve essere ancora tutto studiato.

T eodoro Sala.

A n g e l o T a r c h i , Teste dure, Milano,Editrice S. E . L . C ., 1967, pp. 283,L . 2800.

11 signor ministro dell’Economia cor­porativa della « repubblica sociale ita­liana » ci ha « offerto » le sue presun­tuose memorie. Labili alquanto, come « memorie », tanto da farci sospettare che .l’ex ministro non sappia che la censura sui libri è caduta e che dal 1945 ad oggi sono usciti, in piena le­galità, trattati, ricostruzioni e studi, i quali, se non altro, hanno messo a posto le date in cui si sono verificati certi fatti, ci hanno rivelato certi re­troscena e tutto ciò senza dover atten­dere l’ « illuminata » parola degli ex ge­rarchi di Salò, gerarchi ora del neo­fascismo.

Che, del resto, se avessimo dovuto attendere gli scritti rivelatori dei per­sonaggi che si muovevano, nemmeno con tanta disinvoltura, fra i « due laghi », come si dice oggi, non saremmo in grado nemmeno di conoscere i nomi esatti degli attori, o meglio dei registi, di quei giorni tragici. Perchè Tarchi non ricorda esattamente nemmeno quei no­mi, pronunciati e scritti, con tutte le caratteristiche grafiche al loro posto, in decine di libri rintracciabili presso edi­tori, biblioteche, librai e anche sulle bancarelle.

Cominciamo da qui. Tringali-Casano- va diventa ostinatamente Tringalli; Vez- zalini, nell'indice dei nomi diventa Vez- zolin; Apollonio si trasforma in Appo- lonio; i] gappista Fanciullacci si muta in Fanciul-letti; il capo della polizia te­desca di Roma, gen. Màlzer si trasforma in Malher. Il rifugio di Hitler, la « tana

del lupo », Wolffschanze diventa Wols- chauz. Ma il massimo di variazioni al suo nome, l’ha subito il personaggio più importante, dopo Rahn, dell’ambasciata ■ nazista, Moellhausen, il quale di volta in volta è : Molausen, Ma-nlausen, Molt- hausen o Molthansen.

Ma in fondo questi sono incidenti da .poco, in confronto ad altri. Come ad esempio con l’affermazione di pag. 35 : « . . . tra un arrivo di squadristi e mili­tari riuscii ad avere notizie da Olo [Nunzi] del come fosse riuscito a libe­rare il 12 mattino da Forte Boccea, Buf- farinin Candelori, Tanzi, Cavallero; mi parlò degli ultimi fatti di Roma, della morte di Bruno Buozzi... ». Siamo a Ro­ma mentre febbrilmente Pavolini tenta di mettere in piedi un governo per il ■« duce » che deve tornare dalla Germa­nia, cioè intorno al 20 -settembre 1943. Ebbene Tarchi dà per morto Buozzi il quale invece verrà fucilato alla Storta, come ognuno sa e ci sembra quasi su­perfluo ricordare, non quando i tedeschi occuparono Roma, ma quando i tedeschi se ne andarono da Roma, cioè il 4 giu­gno 1944, nove mesi dopo, quindi, il periodo indicato da Tarchi.

E sorvoliamo poi, sulla figurazione di comodo dei tedeschi « ingannati » da Badoglio, da De Courten, da Ambrosio, i quali, secondo Tarchi, sarebbero riu­sciti a far credere alle buone intenzioni italiane di intensificare la guerra, dan­doci dei poveri nazisti un’immagine di buoni fanciulli creduloni sviati per trop­pa lealtà. Ma passiamo a parlare del ruolo di Tarchi nella compagine mini­steriale della RSI.

Dunque Tarchi ci dice che non potè entrare nel governo nella sua -prima for­mazione romana per l’antipatia di un collega a cui si piegarono Pavolini, il « duce » e i tedeschi. Nemmeno tre mesi dopo tuttavia, l’-ing. Tarchi è chia­mato da Mussolini che gli offre la pol­trona ministeriale e lo -nominerà con de­creto del 3 1 dicembre 1943. Come mai? Ce lo svela Tarchi -stesso. La proposta -partì dagli industriali, da un gruppo di industriali d-i cui si -fece portavoce ring. Leone Castelli « che era stato con Papa Ratti, non solo il costruttore delle Opere del Vaticano dopo il concordato, ma un collaboratore molto intimo del Papa... » e dal quale Castelli, Tarchi, fu invitato a una conversazione il 3 di­cembre .

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Nè l’ interessato nasconde questo fat­to. « Capii », egli dice, « che egli [il Castelli] era un abile ambasciatore della classe industriale ».

Sette giorni dopò avveniva la chia­mata di Mussolini. Gli industriali erano sempre potenti presso Mussolini 1

Poco dopo la nomina, Tarchi riferi­sce di aver avuto una visita dall’ing. Falk a Padova. Lasciamo all’ex ministro di Salò di riferire i termini dell’incontro: « Mi dichiarò a nome degli industriali del suo settore siderurgico e di altri pro­duttori milanesi che la mia nomina a ministro era stata accolta con piacere, in quanto si era certi che finalmente si avrebbe avuto una voce italiana atta a frenare l’arbitrio del R U K e dellaWehrmacht. Gli comunicai che il com­pito affidatomi dal Duce era appunto questo. Gli esposi chiaramente il mio pensiero: non bastava Ja mia volontà ma occorreva la collaborazione di tutti, tenendo presente però che la volontà del governo era quella di rimanere fe­dele ai patti, e continuare la guerra vi­cino all’alleato. Esso mi disse che gli industriali si erano resi conto che dasoli di fronte alla forza non era 'possi­bile nessun diritto e nessuna opposi­zione; ma se il governo avesse funzio­nato, essi erano al mio fianco. Mi lasciò dicendo: ’ Lei ci guidi e ci difenda, noi ed i nostri operai lavoreremo, la segui­remo, e la difenderemo ’ ».

Inutile dire che Tarchi era lì a di­fendere la proprietà privata « che io in­tendevo salvaguardare nel modo più am­pio, ritenendo lo Statalismo la fossa del­l’ iniziativa e del senso della persona­lità e la corsa verso il comuniSmo ». E in questo non poteva mancargli l ’aiuto riconoscente di Valletta che « fu uno dei primi » scrive Tarchi, « che mi pre­garono di assumere la carica del mini­stero dell’Economia...». « Il comm. Poz­zi fu i] suo delegato [di Valletta] che settimanalmente a Bergamo od in piazza S. Sepolcro a Milano mi informava sulla situazione e sulle necessità che occor­reva affrontare ».

In questo clima di abbraccio gene­rale e di « comuni intenti » s ’incontrano via via, pronunciati da Tarchi, nomi d ’industriali o di rappresentanti degli interessi industriali, noti ancor oggi: Furio Cicogna, Giuseppe Pella, Reggiani.

Nè a Tarchi mancò l ’appoggio degli industriali nel momento stesso in cui

varando il decreto della « socializzazio­ne », il fascismo tentava di mostrare un volto « anticapitalistico ». Perchè a stare a quanto dice l’ex ministro di Salò, «Valletta si recò personalmente da Mus­solini per dichiarare d ’aver profonda­mente studiato i principi del decreto e di averli discussi con i suoi dirigenti e di non aver trovato nulla da modificare. Valletta espresse la sua adesione sul concetto e soprattutto sulla figura del Capo d ’Azienda ». Rimessosi in viag­gio, Valletta volle passare da Bergamo per riferire quello che Mussolini gli ave­va detto come commiato : « Andate acongratularvi con Tarchi e seguitelo, coa­diuvatelo con le Associazioni Industriali, nella preparazione delle norme di attua­zione ».

Pur nella tragedia' che la RSI rap­presentò per la storia d ’ Italia in quei due anni, non possiamo non rilevare ■ tutto il ridicolo e il farsesco di questi fatti e di questa narrazione.

Tarchi, che poche pagine prima ci aveva detto di essere stato uno degli artefici della dichiarazione « sociale » del congresso di Verona, procede poi, a braccetto degli industriali, a preparare quei decreti che avrebbero dovuto espro­priare gli industriali delle loro aziende e dei loro beni. Ma forse qui c’è qual­cosa di più; c’è il tentativo di mostrare le complicità degli industriali italiani nella sopravvivenza della RSI, c’è la « chiamata di correo » per il sostegno dato al fascismo sotto spoglie repubbli­cane, e, anche, una lontana malinconia per i tempi in cui fascismo e industria erano affratellati e andavano ancora in­sieme in attesa di più potenti alleati politici ;— per il capitale — con cui con­tinuare la strada. Una patetica aria di uomo tradito, di ministro tradito sem­bra sorreggere queste pagine e fare da sottofondo alla storia ridicolmente nar­rata da Tarchi.

Il quale non ci risparmia esilaranti giudizi come questo sul suo compagno di partito Edmondo Cione: « Fu ai pri­mi d’aprile 1945, mentre gli avveni­menti incalzavano, che a Mussolini, do­po un lungo rapporto, facevo presente che secondo il mio punto di vista, la nostra riforma sociale stava slittando paurosamente verso il comuniSmo, nè d’altra parte, mi sembrava che il ’ Rag­gruppamento repubblicano sociale ’ crea­to dal filosofo napoletano Edmondo Cio­ne, detto O’ Vaccariello, scismatico del­

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la scuola di Croce e quindi ripudiarne il liberalismo, mantenesse i presupposti con i quali era sorto, e che esso pola­rizzasse verso di se, forse senza volerlo, infiltrazioni socialcomuniste, che in tal modo avevano libero gioco negli organi stessi della RSI ».

Davanti a così « acuti » giudizi, non ci resta che fermarci.

Adolfo Scalpelli.

A n t o n io R ic c h e z z a , La Resistenza die­tro le quinte, Milano, De Vecchi, 1967, pp. 623, L . 5800.

L ’autore dichiara di aver tentato « una ricostruzione, sia pure episodica, del triennio 1943-45, proprio come noi10 soffrimmo »; e in particolare, di aver voluto tracciare, più che la storia di un periodo, la « storia di un popolo e del­la sua riscossa ». Ha quindi steso un racconto senza pretese di completezza, trattando vari episodi considerati più importanti o esemplificativi, con una no­tevole padronanza delle più disparate fonti.

Questo amplissimo materiale si arti­cola in quattro punti, il primo dedicato al crollo dell’ esercito all’8 settembre ed all’eroica resistenza di alcuni reparti; il secondo, illustrante soprattutto la rina­scita delle forze regolari del governo italiano; il terzo, su alcuni momenti del­la lotta partigiana; il quarto, sulle ope­razioni dell’ aprile 1945.

Molto spazio è sempre dedicato al contributo dei membri dell’esercito, sia organizzati nei reparti regolari, sia di­spersi nelle formazioni partigiane o nel­le molteplici attività della resistenza.

Il libro è corredato da numerosi do­cumenti; suo pregio maggiore è però il materiale fotografico, eccezionalmente ab­bondante, tipograficamente molto curato, che costituisce una documentazione di primo ordine.

Giorgio R achat.

O la o C o n f o r t i , Guadalajara, la prima sconfìtta del fascismo, Milano, Mur­sia, 1967, pp. 440, L . 3000.

Con questo volume, la guerra di Spa­gna entra nella produzione storica di­vulgativa, che da qualche anno inonda11 mercato librario italiano. Il libro del

Conforti risente fortemente dell'impo­stazione patriottica e giornalistica comu­ne a -tutta questa letteratura, ma meri­ta ugualmente di essere segnalato per uno sforzo di obiettività e di documen­tazione, nonché per la novità dell’ar­gomento.

Si tratta di una ricostruzione ampia e interessante della battaglia di Guada­lajara, inquadrata nella storia della guer­ra di Spagna. Il libro non vuole essere freddamente accademico : la fonte delle informazioni è quindi indicata solo sal­tuariamente e sono invece inserite si­tuazioni e dialoghi inventati, per dram­matizzare l’azione. L ’ insieme però è ab­bastanza completo e attendibile.

L ’autore mantiene una studiata im­parzialità tra le parti in lotta, evitando ogni accenno di polemica politica; così presenta Franco senza accennare alle cause della sua ribellione e registra, ma non ne spiega il perchè, che le popo­lazioni appoggiavano il governo legitti­mo. Le pagine sulle brigate inter-nazio­nali, -più di tutte, risentono di questa voluta apoliticità : il Conforti è assaigeneroso con i combattenti di queste brigate, ma evita con cura di spiegare perchè si trovassero in Spagna; e que­sto silenzio infirma anche le altre -pa­gine, che perdono in efficacia. Il com­battimento tra -italiani -fascisti e antifa­scisti, pur debitamente drammatizzato, non ha -perciò -riferimento politico o -temporale e diventa del tutto gratuito.

La parte migliore del libro è quella che riguarda le truppe fasciste. Il giu­dizio politico è qui -implicito: l’ inter­vento italiano è condannato nettamente e ne sono messi in luce i moventi me­schini e la leggerezza. Tutto quanto ri­guarda il corpo di spedizione fascista è trattato con molta ampiezza di dati: l’opera del comando di iRoatta e Fal­della è bollata come merita, l ’improv­visazione con cui erano state costituite le unità della milizia è documentata, le mosse delle forze contrapposte sono se­guite con molta cura. Salvando i sin­goli combattenti e molti ufficiali, il Con­forti mette invece in evidenza l’ arrivi­smo e l ’impreparazione di tanti altri, causa prima dello sbandamento delle truppe. Solo la divisione « Littorio » (l’unica formata di reparti dell’esercito regolare) ed il suo gen. Bergonzoli sono ■ presentati con rispetto e simpatia.

Tanta abbondanza di dati proviene

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chiaramente dagli archivi dell’ Ufficio Storico dell’esercito italiano, anche se il Conforti non indica mai da dove tragga le numerose relazioni ufficiali da lui citate ampiamente. Non c’è che da rallegrarsi che gli archivi militari si aprano almeno in parte e proprio su uno degli argomenti più scottanti; si de­sidererebbe però che la provenienza dei documenti citati fosse precisata e che uguale liberalità fosse norma costante di questi archivi. Il libro del Conforti ci pare dimostrare che la disponibilità di dati consente di indicare precise re­sponsabilità, portando l’ intera materia fuori dalla leggenda e dalla polemica con vantaggio indubbio anche delle tra­dizioni militari.

In conclusione, ci sembra che l’am­piezza e la serietà con cui il Conforti tratteggia l’azione del corpo di spedizio­ne italiano siano degne di considerazio­ne, anche se limitate dall’ inquadramento giornalistico e dalla rinuncia ad un più ampio giudizio politico.

Giorgio Rochat.

Nullo Baldini nella storia della coope­razione, Milano, Giuffré, 1966, pp.IX-767, L . 6500.

Scrivere di Nullo Baldini — precisa Luigi Dal Pane — « è scrivere anche dell’economia, della società, del lavoro, delle lotte politiche del tempo suo » (p. VII). E se questa osservazione ci sembra più che ovvia (guida indispen­sabile per la ricostruzione biografica di ogni persona storica), non possiamo non osservare che questo volume offre la non frequente caratteristica di « cercare nella storia e nella scienza i criteri es­senziali per una valutazione oggettiva dell’opera del Baldini » (p. V). Questo ci preme innanzitutto sottolineare: co­me, cioè, attraverso il perno centrale dell’esame dell’opera di Nullo Baldini, questo lavoro curato da Dal Pane co­stituisca il più valido e principale stu­dio delle condizioni politiche, economi­che e sociali del Ravennate (e della Ro­magna) negli anni dall’Unità alla Re­pubblica.

Obiettivamente parlando, il ruolo svolto dalla Romagna in quegli anni fu di particolare valore, contribuendo in maniera determinante ad operare attiva­mente nella lotta per il progresso de­

mocratico, non solo dei lavoratori della campagna. Se infatti le cooperative bal- diniane rappresentarono una « svolta » innegabilmente profonda ed irreversibi­le per il processo evolutivo delle classe operaia agricola, lungo l’arco degli av­venimenti (e vorremmo dire intimamen­te legata a quella « educazione coope­rativistica » che Nullo Baldini riteneva giustamente inscindibile dal suo ideale di organizzazione operaia) non possiamo certo dimenticare la partecipazione degli stessi braccianti e mezzadri (in una per­centuale notevole ed oltre la media na­zionale) alla Lotta di Liberazione nella XXVIII Brigata Garibaldi, decorata al Valor Militare. Questo legame, graduale passaggio e maturazione economico-so- ciale, trova innegabilmente la sua base nella costruzione baldiniana, senza tut­tavia che Nullo Baldini riuscisse a com­prendere a fondo l’evolversi politico del­la situazione locale e nazionale, come dimostra tra l’ altro il suo « strano » an­ticomunismo di principio con un assur­do tentativo di escludere i rappresen­tanti del PCI dagli organismi clandesti­ni antifascisti nel In questoquadro di una Romagna che giornalisti e politici dipingevano con i colori foschi della perenne rivolta, ricordandola più quale protagonista della Settimana Rossa che come realizzatrice delle vaste opere di bonifica e redenzione delle paludi, Baldini inserì la sua opera improntata ad una particolare concezione « positi- sta» del socialismo che voleva ogni mo­vimento politico subordinato alla eman­cipazione economica dei lavoratori nel senso ■— in questa sede per la prima volta, forse, così a fondo rilevato — di anteporre gli aspetti economici a quel­li politici in maniera determinante.

A ta] punto il problema dell’occu­pazione dei braccianti dominava l’atti­vità pratica e teorica di Baldini che, non a torto, l’Associazione Braccianti da lui guidata era considerata dal Pre­fetto di Ravenna un elemento cataliz­zatore, atta cioè a risolvere in parte il « problema del sovversivismo ». Al lu­me di questa considerazione non è quin­di fuor di luogo ricordare come la po­litica propugnata da Nullo (e non man­carono chiari richiami dalla direzione del Partito) portava come conseguenza ad una « subordinazione della vita della Federazione provinciale [socialista] alle idee e agli interessi della cooperazio­ne » (p. 58).

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Dove tuttavia il saggio di Berselli non sembra a nostro avviso approfon­dire l’esame politico come a noi sa­rebbe parso indispensabile è, forse, nel­la valutazione delle « due anime » del partito socialista in Romagna, in con­nessione sia con le lotte fra le coope­rative rosse e gialle, sia, soprattutto, con origini del fascismo, agrario e anti­cooperativistico. Ovviando tuttavia in parte a questo lo scritto più specifico di Nardi, resta non completamente chia­rito i] profilo biografico di Nullo Bal­dini ad iniziare dal periodo fascista e, in special modo, ci pare non comple­tamente chiarita la sua posizione du­rante la lotta di Liberazione.

La segnalazione del volume è « d ’ob- bligo » per il quadro generale della si­tuazione prefascista che esso offre e che appare come la più completa fra quan­to finora si è scritto. Oltre le mono­grafie (cui abbiamo fatto più volte cen­no) di Aldo Berselli (Profilo di Nullo Baldini) e Sergio Nardi (Il movimento cooperativo ravennate dalle origini al fascismo) che più direttamente ci inte­ressava esaminare, vai certo la pena ricordare il lavoro di G. Porisini {Aspet­ti e problemi dell’agricoltura ravennate dal 1883 al 1922), ampliamento di un precedente saggio comparso in limitato numero di copie nel 1964 a Bologna (L ’agricoltura ravennate nell’ età giolit- tiana. Prime ricerche), di A . Berton- dini {La vita politica e sociale a Raven­na e in Romagna dal 1870 al 1910), di A . Pagani {Sindacato e cooperativa agri­cola nel Ravennate).

Segnalazione a parte meriterebbe il vigoroso e lucido saggio conclusivo di Luigi Dal Pane su La cooperatone e la scienza economica italiana.

Luciano Casali.

A b r a m L a n z m a n , Youth on the Roads 1939-1945, Tel-Aviv, Ben-Josef, 1964, p. 324.

Nel quadro delle informazioni intor­no a quanto viene pubblicandosi sulla storia della Resistenza e del fascismo in Europa, giunge assai opportuno segna­lare questo volume edito in Israele, in uno Stato, cioè, dove de ricerche sul tragico periodo della persecuzione anti­semita hitleriana sono per ovvi motivi assai avanzate e dove diversi istituti e

centri scientifici raccolgono e vanno stam­pando da parecchi anni materiale di notevole interesse.

Il presente lavoro è, in sostanza, un libro di ricordi : ricordi filtrati attra­verso una vigile consapevolezza critica, ma allo stesso tempo vivi, immediati, profondamente drammatici. L ’autore, in­fatti, israelita di origine polacca (var- saviese per la precisione), residente oggi nello Stato ebraico, sviluppa in un cen­tinaio di rapidi articoli, di bozzetti, di notazioni, raccolti in più ampi capitoli, l ’odissea della sua giovinezza, un’odis­sea incredibile e pure vera, nel tem­pestoso mare della guerra, delle torture e dei morti senza fine : dal ghetto di Varsavia, l ’ infelice capitale chiusa nella morsa nazista, alla fuga dalla città ed alla peregrinazione per le campagne cir­costanti, dai quatto - cinque campi di concentramento nei quali venne succes­sivamente trascinato, a mano a mano che il fronte avanzava, alla liberazione ad opera d’un soldatino russo che an­nunzia l ’apertura dei cancelli del cam­po e che, pur avendo percorso mezza Europa combattendo, rimane quasi so­praffatto dalla realtà concentrazionaria che improvvisamente gli si rivela di fronte.

Comunque due sono sostanzialmente le parti fondamentali dell’opera : la v i­cenda del ghetto e la testimonianza sui campi della morte dopo la cattura. E se questo secondo aspetto, con le lucide descrizioni del lavoro nelle fabbriche di gomma o di aeroplani, con l’ eterno dram­ma della scarsità del cibo, con il veloce affacciarsi e sparire di tipi e figure co­stituisce una valida ed incisiva confer­ma di un noto, ma indimenticabile aspet­to della barbarie tedesca, più originali ci paiono le osservazioni sulla strana vi­ta del quartiere ebraico di Varsavia.

« Strana » abbiamo definito resisten­za del ghetto perchè, come ribadisce il Lanzman, manteneva per più d ’un aspetto forme di normalità, pur essen­do in concreto non molto diversa da quella che si conduceva nei campi di sterminio. E di tale stranezza — la ter­ribile fame, i rastrellamenti e gli assas­sini inspiegabili, il persistere, presso gruppi di arricchiti col mercato nero, d ’una certa agiatezza, la presenza d'una polizia e d ’una autorità ebraiche colla- borazioniste ■— abbiamo qui in modo semplice e dimesso, ma appunto per

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questo .più autorevole una vivida rap­presentazione. Tra tanti personaggi mi­nori, ci sia concesso ricordarne a mo’ d ’esempio almeno una: quella dellostraccione Rubinstein (del quale è an­che riportata a pag. 64 una chiara fo­tografia), che con i suoi motti e le sue canzonette, con i suoi gesti da inva­sato e le sue battute di spirito, fune- ramente allegro, costituisce un poco il simbolo della volontà di sopravvivere, della volontà di resistere alla bufera.

Abram Lanzman, tornando a rievo­care le sue vicissitudini, ci pare essere il primo a constatare la eccezionalità del caso che lo ha fatto superare tante spaventose avversità. Non c ’è, in ef­fetti, altra soluzione della casualità che possa spiegare raggiramento di così nu­merosi rischi mortali, malattie, fucila­zioni, decimazioni. Eppure, ed è questa un’ indicazione specialmente suggestiva provenendo da chi ha visto tante or­ribili cose, il Lanzman ribadisce la sua fiducia nell’uomo in molte e in molte pagine: il caso sì, ma anche una ma­no amica, un suggerimento giusto al momento opportuno, un appiglio nell'i­stante del pericolo. Ritornando con la mente dopo tanti anni a quel periodo infernale, l’ autore ribadisce la sua cer­tezza nella possibilità di scelta: ieri si sbagliava in molti, in molti cadevano, ma c ’erano anche i pochi — una con­tadina, un semplice operaio, un colla­borazionista non troppo vile — che aiu­tavano, che sceglievano giusto.

Guido Valabrega.

Jean Plum yÈNE, Pétain, Parigi, Editionsdu Seuil, 1964, pp. 190.

Non si saprebbe raccomandare ab­bastanza al lettore italiano la lettura di questa breve ma incisiva biografia del maresciallo Pétain, che è altresì una storia in controluce di mezzo secolo di vita francese. Giacche non bisogna di­menticare che, prima di essere un capo di stato collaborazionista, Pétain fu un ufficiale boicottato nella sua carriera per aver sostenuto che, nella guerra mo­derna, il fuoco avrebbe avuto la supre­mazia sull’urto, e poi un eroe nazio­nale, tanto popolare tra i soldati quan­to criticato dai colleghi. Stranamente, quest’uomo che legò il proprio nome ad un’infamante collaborazione col nazismo

non aveva le caratteristiche psico-tecni­che del fascista. Come militare era un teorico della difensiva e come uomo ri­vendicava per se stesso più la vocazio­ne dell’educatore che quella del guer­riero. II culto che la nazione intera eb­be per lui è visto dal Plumyiène come una gigantesca manifestazione d’ imma­turità, il culto de! « grande vecchio », che ricorre con una certa regolarità nella storia di Francia, da Carlomagno a Clemenceau. In conformità con que­ste premesse, il fascismo di Pétain, al­meno per quanto dipese direttamente dal maresciallo, fu essenzialmente una reviviscenza di paternalismo, una ri­vincita della campagna sulla città, del lavoro a mano sulla macchina, dell'an­tico sul moderno, nel senso, almeno, in cui ai concetti di « campagna », « la­voro a mano » e « antico » si ricollega un ideale di vita patriarcale. Da questo punto di vista, l’analisi di alcune tipi­che manifestazioni culturali del regime è piuttosto illuminante: del resto, nulla è più indicativo, a questo proposito, della triade Travail, Famille, Patrie, con la quale il vecchio maresciallo volle so­stituire la triade repubblicana Liberté, Egalité, Fraternité. Indubbiamente egli fu un conservatore e, nella misura in cui la sua azione tendeva a ristabilire condizioni di vita rese superate non tanto dall’effimera vittoria del Fronte popolare nel 1936 ma dalla stessa vita moderna, fu anche un reazionario, nel senso più stretto della parola. Ma il contenuto concreto della sua opera di reazionario era quanto di più diverso si può immaginare dall’ attivismo irra­zionalistico che costituiva, bene o ma­le, l’ ideologia ufficiale dei fascisti di casa nostra. Se costante fu nei fascisti il richiamo ad un non meglio identifi­cato « spirito », contro un pure non me­glio identificato « materialismo », nessu­no invece ebbe come Pétain il culto della « calza di lana ». La destra fran­cese ha sempre rivendicato il monopo­lio della « concretezza » e del « buon senso » contro le « fumisterie » della si­nistra. Il fascismo di Pétain affondava, dunque, ben solide radici nel terreno francese e si rifaceva a stati d ’animo ben anteriori al fascismo mussoliniano e al nazismo. Donde la sua innegabile popolarità, compromessa solo dall’odio­sità del padrone-alleato tedesco e dalla precarietà della sua posizione nel con­testo internazionale. La caduta della

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Germania hitleriana doveva necessaria­mente trascinare con sè tutti coloro che si erano compromessi nella turpe allean­za; ciò non significa, peraltro, che tutto ciò che nell’esperienza pétainista fu so­stanzialmente estraneo al fenomeno na­zista non sia riuscito, per proprio con­to, a sopravvivere.

Aldo Giobbio.

L eo V a l i a n i , La dissoluzione dell’Au- stria-Ungheria, Milano, Il Saggiatore,

1966, pp. 505, L . 2700.

L. Valiani ha raccolto, in questo li­bro, una serie di saggi sulla situazione interna dell’ impero austro-ungarico du­rante la prima guerra mondiale, ed ha fatto molto bene a portare a più di­retto contatto con il pubblico questi scritti che erano già stati pubblicati su riviste specializzate: ha fatto molto be­ne perchè essi ci esortano, cosa estre­mamente importante per la nostra cul­tura storica sempre malata di italocen- trismo, a rivolgere l'attenzione a tutte le nazionalità che si agitavano nella vec­chia Duplice Monarchia e ad allargare, in tal modo, la nostra conoscenza ad aspetti che di solito sono trascurati op­pure soggiacciono alla tradizionale reto­rica patriottarda e nazionalistica. E ’ que­sta, purtroppo, che ci ha abituato a considerare i popoli dell’Europa balca­nica e centrale, e, in particolare, quello jugoslavo quasi come popoli inferiori de­stinati a subire la guida del popolo su­periore, che sarebbe stato l ’ italiano, suc­ceduto all’Austria nel dominio di quel­la zona. A tale umiliante visione dei rapporti fra i popoli ci aveva abituato

.il fascismo, e questo libro è, pertanto, da accogliere come l’effettivo sintomo che una simile atmosfera è definitiva­mente superata e dimenticata.

Il Valiani, dunque, oltre a fare ope­ra rigorosa di storico, che parte da una completa e sicura e approfondita cono­scenza delle fonti e della documenta­zione che si trova negli archivi dei vari paesi interessati, ha anche fatto un’o­pera schiettamente civile, contribuendo a disperdere gli ultimi residui di un na­zionalismo gretto e meschino oltre che sopraffattore. E questa opera è tanto più significativa, in quanto egli respinge, come abbiamo detto, il punto di vista angustamente italiano e si sforza di con­

siderare, dall’interno, le ragioni degli al­tri popoli. Ma, a questo proposito, oc­corre fare una importante precisazione, perchè il Valiani mostra chiaramente di propendere per la posizione tenuta al­lora da quelli che sono stati detti gli interventisti democratici, come un Bis- solati o un Salvemini. Era rinato, in questi uomini, di fronte alla guerra che sconvolgeva l ’Europa, lo spirito di un Mazzini che aveva sempre auspicato, nella fratellanza di tutti i popoli del vecchio continente, una particolare al­leanza fra il popolo italiano e quello slavo sull’altra sponda dell’Adriatico. Ed a tale impostazione gli interventisti de­mocratici si mantennero fedeli in una misura forse sconosciuta, spesso, ai loro interlocutori jugoslavi, tanto che il Sal­vemini, il io febbraio ’ 17, si dichiarava riluttante a promettere la sua collabo- razione alla « New Europe », perchè, osservava, « mentre in Italia vi sono persone che combattono apertamente l’imperialismo italiano, ed insistono sul­la necessità di un compromesso italo- slavo, e ritengono inique e pericolose le pretensioni imperialistiche su Spala­to, Sebenico e su tutte le isole della Dalmazia, nessun movimento analogo è venuto da parte degli slavi. Non una voce si è levata fra di essi per deplo­rare gli eccessi del loro nazionalismo e per riconoscere esplicitamente che il com­promesso italo-slavo deve avere per ba­se anche la rinuncia, da parte degli ju­goslavi, a Gorizia, Trieste e l’Istria oc­cidentale, salvo, ben inteso, a ricevere dall’ Italia l ’ assicurazione formale, garan­tita da un trattato internazionale, che la libertà d'insegnamento e l'eguaglian­za giuridica saranno riconosciute agli slavi incorporati nelle nuove frontiere italiane ».

Il fatto era che, nel quadro dell’in­terventismo italiano, quello democrati­co, pur avendo avuto molta importanza nel determinare l’ intervento in guerra, era andato, nel corso del conflitto, a poco a poco affievolendosi di fronte al­l’altro interventismo, quello nazionali­stico o imperialistico. Talora, anzi, le due posizioni erano sembrate coincide­re come quando il Bissolati, alla Ca­mera, dopo Caporetto, aveva esclamato con foga che sarebbe stato pronto a far sparare sui socialisti se ve ne fosse sta­to bisogno. Era naturale, pertanto, che tutto ciò rendesse alquanto diffidenti gli jugoslavi verso la supposta, ma non in­

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teramente dimostrata, volontà di un sin­cero accordo nutrito dagli italiani. Que­sto avvenne nella prima, .lunga parte della guerra, fino all’inizio del ’ 18 an­che perchè l’interventismo imperialisti­co, come ilo diceva il Salvemini, aveva sull’altro il vantaggio di presentare un programma forse più coerente e com­patto, o almeno un programma che ri­spondeva a precisi interessi di deter­minati ambienti italiani. Soprattutto di quelli economici, che, dall’inizio del se­colo avevano intensificato in misura no­tevole le esportazioni verso la penisola balcanica, dove si erano scontrati con la penetrazione austriaca che mirava ad impadronirsi degli stessi mercati. Di­ventava, pertanto, indispensabile, per vincere la concorrenza austriaca, occu­pare la sponda adriatica ed assicurarsi, in tal modo, saldamente le vie d ’acces­so all’interno. Il Sonnino, quando sti­pulò il Patto di Londra, si lasciò evi­dentemente influenzare da queste cor­renti e da questo programma che, ripe­tiamo, aveva senza dubbio maggior ef­ficacia dell’ altro opposto programma del­la fratellanza dei popoli e dell’accordo italo-slavo (d’altra parte non è del tutto detto che soprattutto il Bissolati non avesse risentito di queste esigenze di natura economica, come dimostrano i suoi soritti prima della guerra raccolti nel voi. La politica estera dell’ Italia; la differenza sostanziale, peraltro, con­sisteva nel fatto che egli sperava di rag­giungerne la soddisfazione mediante una leale intesa con gli jugoslavi e non con la violenza della conquista, che avreb­be creato un lungo risentimento e ali­mentato odi profondi).

Ma la guerra dell’ Italia, come quella degli altri paesi, può dividersi in due parti nettamente distinte: una prima,abbiamo detto, sin verso la fine del 1917 e la seconda nel ’ r8. In quest’ultimo anno si ebbe, infatti, la riunione a Ro­ma di tutte le nazionalità oppresse del­l’Austria e la firma del Patto di Roma che poneva come obiettivo indispensa­bile la disgregazione e la rottura del­l’ impero austro-ungarico. Sembrava che si fosse giunti al trionfo dell’interven­tismo democratico, eppure — e il Va- liani lo mette giustamente in rilievo — il convegno di 'Roma fu permesso dal governo italiano — dall’Orlando, non dal Sonnino che si dimostrò sempre molto diffidente verso di esso — dal fatto che nel gennaio precedente sia il

Wilson sia Lloyd George avevano, il primo nei suoi 14 punti e il secondo in un discorso, lasciato capire che la dissoluzione dell'Austria - Ungheria non rientrava nei loro piani. L ’Orlando, in particolare, come ci ha rivelato il Sa- landra nel suo Diario, venne allora pre­so da un senso come di ansia e di tur­bamento profondo, che parve dovesse spingerlo anche a consentire una revi­sione dell'art. 15 del Patto di Londra che escludeva la Santa Sede dalla con­ferenza della pace, nella speranza di avere il suo appoggio (che sarebbe sta­to, d ’altronde, molto problematico, date le non segrete simpatie del Vaticano per Ja Duplice Monarchia, sebbene il Valiani ricordi che dagli studi fonda­mentali di Engel-Janosi sull’ argomento risulta una certa tepidezza del papato per l ’Austria).

Il congresso di Roma esercitò una influenza abbastanza sensibile sugli al­leati, che da allora, come afferma il Valiani, fecero capire che nei loro pia­rti rientrava anche la fine dell’impero austro-ungarico: prospettiva questa, pe­rò, che sconvolgeva profondamente tut­te le posizioni del Sonnino, che non contemplava tale dissoluzione e che a- vrebbe voluto servirsi del baluardo co­stituito dagli Asburgo contro una espan­sione del germanesimo e dello slavismo. Sicché, si ebbe questo curioso contrae sto, che mentre l ’idea della dissoluzio­ne andava facendosi strada, il nostro responsabile del ministero degli Esteri, si arroccava su tesi assolutamente inte- nibili e che quanto più quella dissolu­zione si precisava, tanto più egli, per ovviare ai supposti .pericoli che essa avrebbe generato lasciando liberi gli slavi, era portato ad esigere l’ applica­zione integrale del Patto di Londra e la cessione all’ Italia della costa dal­mata. Era, indubbiamente, un program­ma contraddittorio perchè la fine del- l’Austria-Ungheria avrebbe dovuto ac­compagnarsi con un rimodellamento del­la carta di quella zona in base al prin­cipio di nazionalità. Ma proprio le vi­cende del ’ 18, con il suo notevole fer­mento politico, ' avevano rafforzato, o almeno erano sembrate rafforzare, l’ in­terventismo democratico; cosi il con­trasto, in seno al governo italiano, di quest’ultimo con l’opposto interventi­smo nazionalistico, si fece molto acu­to, ed appunto i nazionalisti finirono, come è noto, con il vincere, favoriti

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anche dall’atmosfera generale, che vide, a Parigi, lo scontro tra il Wilson e il Clemenceau.

Ci sembra, pertanto, inutile ramina' ricarsi che negli jugoslavi non sia pre­valsa una valutazione più democratica dei problemi della pace e dei rapporti con l’ Italia, dal momento che questa non si dimostrava disposta a rinunciare a nessuna delle posizioni che si era as­sicurata con il Patto di Londra, contro cui la polemica degli slavi era stata, na­turalmente, continua ed anche aspra. La realtà fu che un nazionalismo favorì l’altro e viceversa e questo nuovo cli­ma esasperato e teso caratterizzò ap­punto i) periodo fra le due guerre. Fu una conclusione piuttosto amara quella che generò dalla dissoluzione di un im­pero supernazionale, residuo superato del passato, come era l’Austria-Unghe- ria, un così acuto conflitto fra le va­rie nazionalità. Ma era, questo, uno stadio attraverso il quale l ’umanità do­veva necessariamente, purtroppo, pas­sare (ed il fatto che diciamo purtroppo non toglie che lo valutiamo, da un pun­to di vista storico, nella sua inevita­bile necessità) perchè potesse, poi, giun­gere alla fase successiva, che è quella in cui ora viviamo, in cui i nazionali­smi sembrano, per fortuna, frantumati e dispersi. Con questo ci pare di avere implicitamente risposto al problema che rimane al fondo del libro del Valiani, cioè a queU'atteggiamento che è stato in tanti, anche storici, di rimpianto per la caduta della Duplice Monarchia. Era una costruzione ormai anacronistica che, sebbene riuscisse a mantenersi dando esempio di correttezza e di sapienza amministrativa, violava tuttavia le aspi­razioni dei popoli all’autonomia e al- l’ indipendenza. Era, insomma, un car­cere che teneva insieme popolazioni di­verse che non .potevano più convivere tenute insieme dal lealismo monarchico. Il rimpianto per la vecchia Austria-Un- gheria è molto simile al rimpianto, di cui abbiamo avuto molti esempi anche noi in Italia, per la vecchia dinastia dei Borboni, incapace di promuovere il progresso e lo sviluppo economico, po­litico e civile. Di conseguenza, la sua dis­soluzione era un destino cui non si poteva sottrarre, e la correttezza buro­cratica ed amministrativa non era più sufficiente: nelle seguenti parole del­l ’ex ministro degli Esteri austriaco, Bu- riam, si può trovare ]a .più netta, anche

se venata da malinconia, condanna del vecchio regime austriaco : « Laddovec’era comprensione, non c’era corag­gio [ .. .] . Di riforme interne non era­vamo capaci nella misura necessaria. Terribile nemesi storica. 1.1 frutto di 50 armi di .politica cattiva, anacroni­stica [...] ». Il fatto era che l ’Austria- Ungheria, per rinnovarsi dal profondo come esigevano le varie nazionalità che convivevano nel suo seno, avrebbe do­vuto appunto dissolversi: e ciò chenon poteva assolutamente fare essa stes­sa, da sola, fu fatto dalla guerra, i cui risultati, rivoluzionari sotto questo aspet­to, portarono alla scomparsa delle ormai superate monarchie feudali o pseudo- feudali con una esteriore pàtina di mo­dernità.

Franco Catalano.

C. E . T r a v e r s o , V . It a l i a , M. B a s s a n i , I partiti politici. Leggi e statuti, Isti­tuto editoriale Cisalpino, 1966, pp. XXXVII-454.

Lo studio dei tre giovani assistenti dell’Istituto di diritto pubblico dell’U- niversità di Milano ci offre una com­pleta documentazione sui partiti dal pun­to di vista giuridico : materiale norma­tivo e paranormativo reperibile nel no­stro ordinamento statuale e nei singoli ordinamenti partitici.

Di particolare interesse ai nostri fini la prima e la quarta parte di questa pubblicazione.

Nella prima parte viene infatti ordi­nato in quattro sezioni il materiale do­cumentario relativo al periodo costitu­zionale transitorio (1943-1948): un pri­mo gruppo di Regii Decreti Legge, dal luglio ’43 al R. D. per la nomiina di Umberto di Savoia a Luogotenente ge­nerale del Re (5 giugno 1944), sono tutti relativi alla soppressione di isti­tuti del precedente regime fascista (Tri­bunale Speciale, P. N . F ., Camera dei Fasci e delle Corporazioni, Gran Con­siglio del fascismo, Milizia Volontaria): di .particolare interesse il R. D. L. del 14 gennaio 1944 sulla « disciplina della stampa durante l ’attuale stato di guer­ra; obbligo di denunciare alla Prefet­tura l’eventuale affiliazione ipolitica ».

Un gruppo successivo di documenti, il più numeroso, abbraccia tutto il pe­

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riodo dal 25 giugno 1944 alla fissazione delle norme per la Costituente (in par­ticolare alcuni decreti relativi alla Si­cilia, alla Sardegna, alla Valle d ’Aosta; il D. Lgt. del 28 febbraio 1945 sulle attribuzioni del CLNA I come rappre­sentante del governo nella lotta contro11 nemico; i decreti relativi alla forma­zione e al funzionamento della Con­sulta Nazionale).

Infine dell'ultima sezione di questa prima parte, due i decreti di partico­lare rilievo: uno sui risultati del refe­rendum istituzionale e il secondo per la repressione della attività fascista e della attività diretta alla restaurazione dell’istituto monarchico (legge del 3 di­cembre 1947).

La quarta parte, in appendice, ten­de a completare il quadro che la pub­blicazione intende offrirci sui partiti sia nell’ ambito delle vigenti istituzio­ni che sul piano della struttura in­terna dei partiti medesimi (la parte terza è infatti costituita dagli statuti degli undici partiti attualmente rappre­sentati nel parlamento italiano), con una documentazione sul partito nell’ordina- mento fascista e nella repubblica socia­le italiana, dal manifesto agli italiani della nuova direzione del P. N . F . del12 novembre 1921, alle sanzioni penali previste per quei militari o civili che si fossero uniti alle « bande » operanti contro militari o civili dello « Stato » (D. LgsI., 18 aprile 1944).

La pubblicazione si apre con una prefazione del prof. Serio Galeotti, ordi­nario di diritto costituzionale dell’Uni­versità di Pavia.

Gino Rocchi.

S. W i e n s e n t h a l , Gli assassini sono tra noi, Milano, Garzanti, 1967, pp. 347, L . 2800. II

II libro si chiude con le ultime bat­tute di un dialogo avvenuto nel set­tembre 1944 in Polonia, presso il cam­po di sterminio di Lvov, fra un capo­rale delle SS e l’autore stesso del li­bro, uno dei trentaquattro superstiti che le SS sorvegliavano, tanto per poter giustificare la ritirata tedesca verso Oc­cidente dinanzi all’armata rossa che a- vanzava.

Il caporale Merz si era sempre com­

portato umanamente con 1 prigionieri; in quel momento rimasto solo col Wie- senthal gli confidò il senso di alcune sue meditazioni sulla terribile realtà vis­suta. Ad un tratto domandò: « Imma­gini Wiesenthal che lei stia arrivando a New-York e la gente chieda ’ come andavano le cose in quei campi di con­centramento tedeschi? Che cosa vi fa­cevano? ’ ». Al che l ’interpellato con esi­tazione rispose: « Credo che direi allagente la verità...». « S ì, ci ho pensato molte volte. Ho visto che cosa è suc­cesso alla sua gente. Sono una SS, ma a volte mi sveglio nel cuore della notte e non so se sia un sogno o la realtà... Lei direbbe la verità alla gente in Ame­rica. E ’ giusto. E sa che cosa acca­drebbe, Wiesenthal? ». Si alzò lenta­mente e mi guardò, poi sorrise. « Non le crederebbero. Direbbero che è mat­to. Forse la metterebbero perfino in manicomio. Come può un uomo cre­dere a questa terribile faccenda... se non ci è passato personalmente? ».

A più di vent’anni di distanza, pur dopo l’infinito numero di testimonian­ze, ogni volta che ci capiti di leggere un libro in cui si parli dei campi di concentramento tedeschi, a ciascuno di noi par sempre di leggere un racconto uscito da una fantasia demente, agitata da fantasmi di orrore e di morte. E ’ difficile perciò al nostro senso umano riuscire a raffigurare quella che fu la più terribile situazione di fatto dei no­stri tempi.

Questo libro del Wiesenthal nella successione delle rappresentazioni retro­spettive di storie di uomini, delle quali alcune sono tessute di elementi e di cir­costanze che qualunque più audace e più strano ingegno inventivo non sa­rebbe mai stato in condizioni di crea­re, avvince così profondamente che non possiamo, se non a stento, interrom­pere la lettura di quelle pagine, che pur ci opprimono e ci fanno soffrire.

E ’ la storia dei più avventurosi ed allucinanti incontri che toccarono ad un superstite dei campi di sterminio, du­rante questi anni di ricerche per tutto il mondo al fine di scovare i principali responsabili, mandanti ed esecutori, dei crimini nazisti; un superstite che per placare il ricordo della sua famiglia di­strutta e dei milioni di seviziati e di uccisi si dedicò nel 1945 ad un’opera di collaborazione con le autorità alleate

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per aiutare profughi nelle ricerche dei parenti sopravvissuti, e contemporanea­mente sviluppò la creazione di un cen­tro di documentazione a Linz per in­dagare sui molti assassini nazisti che circolavano ancora in libertà.

Il libro testimonia questa energica ed affannosa attività, che da anni si sta ancora svolgendo, attraverso mo­menti ed episodi di intensa dramma­ticità.

Il pregio di questa narrazione che non indulge mai alla descrizione di particolari orrori sta soprattutto nel fat­to che essa riesce a ricreare con tale forza l ’atmosfera di quella realtà trop­po spesso non umana ma ferina, che il lettore deve talvolta fare uno sforzo per persuadersi che, al di là dell’in- cubo, c’è per lui ancora un’altra con­dizione umana fatta di serenità e di equilibrio nella quale può liberamente respirare. Ed è ogni volta quasi una sorpresa consolante scoprirlo.

A parte la materia avventurosa ed i suoi corollari minori, dalla .lettura di queste pagine affiorano soprattutto due problemi, l’uno morale, che se pur spon­taneamente si pone, è pertanto desti­nato a rimanere ancora una volta inso­luto; l ’altro storico, che riceve da que­sto contributo una maggiore chiarifica­zione. Il primo iriflette la nostra per­plessità nell’ammettere possibile l’eser­cizio della giustizia umana che, forse, mentre persegue il colpevole perchè sia condotto ad espiare le sue colpe, di­venta nello stesso tempo inconscio stru­mento di una superiore giustizia, che va al di là dell’individuo per coinvol­gere una più vasta corresponsabilità. Una società che protegge i singoli e fa sua la loro causa, pone già di per sè il riconoscimento della corresponsabilità; di fronte a questo il cacciatore di cri­minali Wiesenthal e la sua pratica mis­sione di giustizia devono troppo spesso cedere. La situazione storica che ne na­sce è strettamente legata al problema morale; la guerra è finita e lascia die­tro di sè il caos che non è, purtroppo, soltanto la distruzione di città e di uomini, la miseria e lo sfacelo di ogni opera umana, ma è soprattutto la ter­ribile stanchezza dei vincitori, che affie­volisce e spegne ogni reazione morale, lasciando libero il campo agli istinti ed alle opposte passioni. Di qui la situa­zione caotica che si manifestò alla fine

della guerra, riguardo al problema dei nazisti, nella stessa Germania occupata dagli eserciti alleati.

La testimonianza del Wiesenthal è, a questo proposito, preziosa. Egli pas­sò, infatti, parecchio tempo quale inve­stigatore della Commissione dei crimini di guerra dell'OSS e della CIC e do­vette assistere all’ottimo trattamento che ricevevano gli internati da parte degli americani, che, o per insensibilità, o per ignoranza, o per ragioni di rivalità fra i vari servizi di informazione, o so­prattutto per diffidenza ed ostilità verso l’alleato sovietico, si prestarono presto al subdolo gioco dei nazisti. Molti di questi criminali, infatti, fra il 1946 e il 1x947 furono liberati dagli stessi ame­ricani, per essere poi più tardi arre­stati dalle stesse polizie tedesca e austria­ca. Commenta il Wiesenthal:

« Costoro non capivano il problema nazista, che appariva ai loro occhi co­me un capitolo chiuso della Storia. Molti di loro non si preoccupavano di imparare il tedesco e si affidavano alle interpreti tedesche e austriache, così che spesso divennero vittime della migliore arma segreta nazista... le Fràulein. Era logico che un giovane americano si interessasse di più a una ragazza gra­ziosa e compiacente che a una di - ’ quel­le SS ’ che tutti volevano dimenticare come un brutto sogno. Questi ameri­cani consideravano noi, che volevamo veder fare giustizia, come della gente animata da spirito di vendetta, degli allarmisti incapaci di veder il mondo se non attraverso una siepe di filo spi­nato. Un capitano americano che ave­va un compito importante nella riedu­cazione dei tedeschi, mi disse una vol­ta : ’ Le opinioni della gente sarannosempre diverse. Da noi ci sono i de­mocratici e i repubblicani ’ , disse. ’ Qui voi avete i nazisti e gli antinazisti. E ’ questo che fa andare il mondo. Non è il caso di prendersela troppo ’ ».

Purtroppo, non dobbiamo nasconder­ci che proprio questa mentalità irre­sponsabile è destinata a generare il ri­petersi di situazioni di fatto, che ci portano ancora una volta a meditare amaramente sulla dubbia verità che la storia sia proprio magistra vitae.

Perchè tutto ciò non ritorni, forse bisogna tener desti gli spiriti col ricor­do di così inumana tragedia; forse ha ragione il Wiesenthal neH’ammonire che,

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se tutti dimenticano, in un avvenire non lontano, tutto potrebbe ripetersi ancora; egli crede infatti di poter af- fermare che :

« le inchieste sull’opinione pubblica dimostrano che fra la condanna dei cri mini nazisti e i fenomeni di neonazismo esiste un rapporto inversamente pro­porzionale. Quanti più processi si ce­lebrano, tanto più trascurabile è la ri­nascita del nazismo. Il processo di Adolf Eichmann a Gerusalemme nel 1961, se­gnò una grave battuta d ’arresto per il movimento neonazista in Germania e

in Austria. Milioni di persone che non conoscevano, o non volevano conoscere la verità, per la prima volta dovettero ascoltare i fatti. Oggi, qui nessuno può dire che non conosceva ’ queste cose ’ . E se ancora simpatizza con i criminali, si mette inequivocabilmente dalla parte del male. E non sono molti quelli che desiderano farlo ».

Forse è ancora il vigile senso della responsabilità umana che può incorag­giare un maggior ottimismo nell’inter­pretazione del valore positivo della storia.

Bianca Ceva.

N O T I Z I A R I OCONSIGLIO GENERALE D ELL’ISTITUTO

Domenica 4 giugno si è riunito a Milano il Consiglio generale del- l’Istituto.

Erano presenti il presidente sen. Ferruccio Farri; il vice-presidente sen. P. Secchia; il segretario generale dr. B. Ceva; i membri del Co­mitato Direttivo proff. F. Catalano, E. Collotti, G. Quazza e E. Ragio- nieri; il direttore dell’Istituto dr. M. Legnani; gli avv. M. De Meis e E. Frigè in rappresentanza del Collegio dei Revisori dei Conti; il dr. A. Pranzetti in rappresentanza del nuovo Collegio dei Revisori dei Conti; il prof. G. Stendardo in rappresentanza della Direzione Accademie e Biblioteche del Ministero della Pubblica Istruzione; il dr. R. MorotZfl Della Rocca della Direzione generale degli Archivi di Stato; il ten. col. C. Gramazio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito; l’avv. G. B. Stucchi in rappresentanza della Fondazione C.V.L.; i membri cooptati proff. L. Bulferetti e G. Vaccorino; i delegati degli Istituti regionali ; avv. M. Cassiani Ingoni, sig, A. Viale, avv. G. B. Lazagna (Genova); proff. A. Berselli e G. Bonfiglioli (Bologna); prof. F. Antomcelh, avv. G. Agosti, dr. C. Gobetti (Torino); proff. C. Pavone, G. Stendardo, dr. L. Mercuri (Roma); proff. E. Opocher e L. Briguglio (Padova); prof. T. Sala e sigg. G. Fogar e S. Poletto (Trieste); sen. M. Fabiani, dr. N. Nic­coli e prof. C. Francovich (Firenze); i delegati degli Istituti provinciali: dr. E. Pacchioni (Modena), dr. M. Pacor (Novara), avv. V. Pellitti (Reg­gio Emilia), dr. S. Nardi (Ravenna), sig. R. Politzi (Parma), dr. M. Calandri (Cuneo), gen. Ubaldo Barberis (Pavia).

Dopo la relazione della dr. Ceva sull’attività dell’Istituto nello scorso anno, il sen. Parri ha illustrato le nuove prospettive che si aprono nella vita