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Studi e ricerche L’industria metalmeccanica nel Modenese 1945-1991 Alberto Rinaldi La metalmeccanica è il principale comparto indu- striale della provincia di Modena, una delle aree emblematiche della cosiddetta “terza Italia”. Il settore ha conosciuto nell’ultimo cinquantennio una crescita impetuosa, che ha visto come pro- tagoniste da un lato una miriade di piccole im- prese, nate a sviluppatesi nel dopoguerra, e dal- l’altro le due imprese maggiori, la Fiat Trattori e la Ferrari. Lo sviluppo del settore è avvenuto in maniera tale da dare vita a due sistemi produttivi distinti, com- penetrati nella stessa area territoriale. Il primo, che coinvolge la maggioranza delle imprese e de- gli addetti, ha assunto nel tempo una configura- zione di distretto, nella quale i subfomitori non sono schiacciati dai loro committenti, vi è una forte concorrenza tra le imprese che eseguono la- vorazioni simili e una notevole spinta alla colla- borazione tra quelle che effettuano lavorazioni complementari. Il secondo è il sistema produttivo della Fiat Trattori: i rapporti tra questa grande impresa e i propri subfomitori sono riconducibili, invece, al modello del subfornitore dipendente. Caratteri fondamentali della struttura del set- tore sono la notevole ricchezza e l’articolazio- ne del suo tessuto produttivo, rese possibili dall’espansione del mercato, che ha creato lo spazio per l’esistenza di imprese specializzate in produzioni e lavorazioni particolari. Si è realizzata così quella che Nathan Rosenberg ha chiamato “convergenza tecnologica”. Lo sviluppo della tecnologia meccanica ha favori- to, infatti, la produzione di una quantità cre- scente di merci diverse utilizzando dei processi sostanzialmente simili. Engineering is the main industrial branch in the province o f Modena, one o f the most typical areas o f the so-called “third Italy" enjoying over the last half century a vigorous growth, thanks to the flourishing of both a large number of small fac- tories born after the II World War and the pre- sence o f two leading firms, Fiat and Ferrari. The development o f this sector involved two different productive systems, largely interconnected all over the same territory. The former one, including most firms and employees, has been assuming a district configuration, by which sub-suppliers avoid being dominated by big buyers, whereas strong competi- tion exists among firms performing similar pro- ductions as well as a practice o f cooperation is cur- rent among the ones operating complementary working processes. The latter one is the productive system o f Fiat Trattori, in which the relationships with sub-suppliers reflect a classic dependence pattern. The basic features o f this setting are a remarkable prosperity and utter differentiation of the produc- tive texture, both favoured by a market expansion engendering increasing opportunities for specia- lized production and processes all o f which amounts to what Nathan Rosenberg called “tech- nological convergence", since the development of sophisticated engineering has favoured an increas- ingly wider range o fgoods being produced by simi- lar productive processes. Italia contemporanea”, giugno 1996, n. 203

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Studi e ricerche

L ’industria metalmeccanica nel Modenese 1945-1991

Alberto Rinaldi

La metalmeccanica è il principale comparto indu­striale della provincia di Modena, una delle aree emblematiche della cosiddetta “ terza Italia” . Il settore ha conosciuto nell’ultimo cinquantennio una crescita impetuosa, che ha visto come pro- tagoniste da un lato una miriade di piccole im­prese, nate a sviluppatesi nel dopoguerra, e dal­l’altro le due imprese maggiori, la Fiat T rattori e la Ferrari.Lo sviluppo del settore è avvenuto in maniera tale da dare vita a due sistemi produttivi distinti, com­penetrati nella stessa area territoriale. Il primo, che coinvolge la maggioranza delle imprese e de­gli addetti, ha assunto nel tempo una configura­zione di distretto, nella quale i subfomitori non sono schiacciati dai loro committenti, vi è una forte concorrenza tra le imprese che eseguono la­vorazioni simili e una notevole spinta alla colla­borazione tra quelle che effettuano lavorazioni complementari. Il secondo è il sistema produttivo della Fiat Trattori: i rapporti tra questa grande impresa e i propri subfomitori sono riconducibili, invece, al modello del subfornitore dipendente. C aratteri fondam entali della stru ttu ra del set­tore sono la notevole ricchezza e l’articolazio­ne del suo tessuto produttivo, rese possibili dall’espansione del m ercato, che ha creato lo spazio per l’esistenza di imprese specializzate in produzioni e lavorazioni particolari. Si è realizzata così quella che N athan Rosenberg ha chiam ato “ convergenza tecnologica” . Lo sviluppo della tecnologia meccanica ha favori­to, infatti, la produzione di una quantità cre­scente di merci diverse utilizzando dei processi sostanzialm ente simili.

Engineering is the main industrial branch in the province o f Modena, one o f the most typical areas o f the so-called “third Italy" — enjoying over the last ha lf century a vigorous growth, thanks to the flourishing o f both a large number o f small fac­tories born after the I I World War and the pre­sence o f two leading firms, Fiat and Ferrari. The development o f this sector involved two different productive systems, largely interconnected all over the same territory. The former one, including most firm s and employees, has been assuming a district configuration, by which sub-suppliers avoid being dominated by big buyers, whereas strong competi­tion exists among firm s performing similar pro­ductions as well as a practice o f cooperation is cur­rent among the ones operating complementary working processes. The latter one is the productive system o f Fiat Trattori, in which the relationships with sub-suppliers reflect a classic dependence pattern.The basic features o f this setting are a remarkable prosperity and utter differentiation o f the produc­tive texture, both favoured by a market expansion engendering increasing opportunities fo r specia­lized production and processes — all o f which amounts to what Nathan Rosenberg called “tech­nological convergence", since the development o f sophisticated engineering has favoured an increas­ingly wider range o f goods being produced by simi­lar productive processes.

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Il problema storiografico

Negli anni del secondo dopoguerra la provin­cia di Modena ha conosciuto uno sviluppo economico impetuoso che, tra il 1951 ed il 1981, le ha consentito di aumentare il proprio reddito procapite di otto volte, di fronte ad un aumento di quattro volte registrato a li­vello nazionale, e di passare dal trentottesi- mo al primo posto nella graduatoria delle province italiane per reddito prò capite. Essa incominciò a guadagnare posizioni sino dagli anni cinquanta, ma fu a partire dalla metà del decennio successivo che la sua avanzata di­venne particolarmente rapida. Negli ultimi quattordici anni Modena non è riuscita a mantenere la posizione di vertice, senza tut­tavia mai scendere al di sotto del decimo po­sto. Questa performance è stata resa possibile da un rapido processo di industrializzazione, che ha trasformato radicalmente la fisiono­mia dell’economia locale, da prevalentemen­te agricola ad industriale e terziaria1. L’agri­coltura, però, non è stata marginalizzata, e

oggi è tra le più progredite in Italia2. L’inte­grazione tra agricoltura e industria, con la diffusione sul territorio di una robusta rete di imprese trasformatrici di prodotti agricoli o produttrici di macchine e attrezzature per l’agricoltura, è stata anzi uno dei punti trai­nanti dello sviluppo economico modenese.

Protagonisti deH’industrializzazione della provincia sono stati soprattutto i settori me­talmeccanico, agroalimentare, ceramico, bio­medicale, tessile e dell’abbigliamento. Nel corso degli anni essi hanno assunto la strut­tura di distretti industriali3, dislocati in aree diverse del territorio provinciale. Una siffatta articolazione del tessuto produttivo ha confe­rito all’industria locale una notevole flessibi­lità, che le ha consentito di fare fronte con re­lativa facilità alle recessioni periodiche e di cogliere con tempestività le opportunità of­ferte dagli spazi di mercato che via via si apri­vano.

La metalmeccanica è il principale compar­to industriale della provincia4. Non solo, la metalmeccanica è, in un certo senso, il settore

1 Sulle trasformazioni avvenute nell’economia modenese dopo il 1945, si veda Valerio Castronovo, Aspetti e vicende economiche, sociali e politiche della realtà modenese da11945 al 1985. Primo rapporto sui risultati della ricerca, Modena, 1990, dattiloscritto; Sebastiano Brusco, Alberto Rinaldi, Gli anni della democrazia: vicende e protagonisti dell'economia, parti I e II, in Paolo Golinelli, Giuliano Muzzioli (a cura di), Storia illustrata di Modena, voi. Ili, Milano, Nuova Edi­toriale Aiep, 1990 e G. Muzzioli, Modena, Roma-Bari, Laterza, 1993, parte III.2 Sull’agricoltura modenese negli anni del secondo dopoguerra, si veda S. Brusco, Agricoltura ricca e classi sociali, Mi­lano, Feltrinelli, 1979 e Mario Forni, Storie familiari e storie di proprietà. Itinerari sociali nell’agricoltura italiana del dopoguerra, Torino, Rosenberg & Sellier, 1987.3 Un distretto industriale è un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area geografica­mente ristretta, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali (Giacomo Becattini, Riflessioni sul distretto industriale marshalliano come concetto socio-economico, “Stato e mercato”, 1989, n. 25, p. 112). Le imprese sono tutte impegnate nello stesso settore produttivo; solo una parte di esse, però, produce beni finali, mentre le altre lavorano come subfornitrici per le prime. Ogni impresa è, quindi, specializzata nel progettare e vendere il prodotto, in una o poche fasi del processo produttivo tipico del distretto. Ciò fa sì che in un distretto industriale esista un mercato per ogni fase del processo produttivo: c’è un mercato per la tessitura, la tornitura, la carpenteria e così via. Questi mer­cati sono fortemente concorrenziali: sia le aziende che affidano all’esterno queste lavorazioni che quelle che le eseguono in conto-terzi sono numerose; in questo modo i subfornitori possono cambiare committente con relativa facilità e vice­versa. Di conseguenza, nessuna impresa riesce a conquistare una posizione dominante e ad imporre le proprie condizioni alle altre; al contrario, tra le imprese che fanno lavori diversi vi è una forte disponibilità alla collaborazione (S. Brusco, Small Firms and Industriai Districts: thè Experience o f Italy, in David Keeble, Eric Wever (a cura di), New Firms and Regional Development in Europe, London, Croom Helm, 1986, pp. 186-188).4 Secondo i dati del censimento industriale del 1991, la metalmeccanica impiegava in provincia di Modena il 38,7 per cento degli addetti al settore manifatturiero, contro il 23,9 per cento dell’industria tessile e dell’abbigliamento, il 15,5 per cento dell’industria della lavorazione dei minerali non metalliferi, il 10,1 per cento dell’industria alimentare e l’11,8 per cento degli altri comparti di attività presi assieme.

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strutturante l’intera economia modenese, da­to che tutti gli altri comparti produttivi in­trattengono rapporti con essa per la fornitura di macchine e attrezzature, o per l’esecuzione di lavorazioni particolari.

Una storia delle sue dinamiche e delle trasformazioni intervenute assume, quindi, significato non solo come un’indagine volta ad analizzare l’evoluzione di un settore in­dustriale, ma anche come un tentativo vol­to a cogliere e a mettere in evidenza alcuni dei tratti fondamentali di quel processo di sviluppo che nel corso degli ultimi quaran­tacinque anni ha modificato profondamen­te la struttura economica e sociale di una delle principali province dell’Emilia-Ro­magna.

Tra il 1951 ed il 1981 le unità locali operan­ti nel settore, gli addetti, la potenza installata e la potenza installata per addetto sono au­mentati rapidamente e costantemente (cfr. tabella 1), ed in misura assai più considerevo­le che a livello nazionale5. Tra il 1981 ed il 1991, invece, le unità produttive sono lieve­mente diminuite, mentre gli addetti hanno continuato ad aumentare, sia pure in misura più contenuta rispetto ai precedenti intervalli intercensuari.

Protagonista dello sviluppo del settore è stata soprattutto la piccola e media impresa6, anche se un ruolo importante è stato svolto pure dalle due imprese maggiori, la Fiat Trat­tori e la Ferrari.

Tabella 1. Unità locali, addetti, potenza (Hp) in­stallata e potenza installata per addetto nell’indu­stria metalmeccanica in provincia di Modena

1951 1961 1971 1981 1991

Unità 1.686 locali

2.485 3.845 4.066 4.057

Addetti 10.600 19.605 30.313 43.227 45.961

Hp 24.912 56.329 158.501 390.538 n.d.

Hp per 2,4 addetto

2,9 5,2 9,9 n.d.

Fonte: Istat, Censimento generale dell’industria, del commercio, dei ser­vizi e dell’artigianato, Roma, Istat, 1951, 1961, 1971, 1981 e Id., Setti­mo censimento generale dell’industria e dei servizi, Roma, Istat, 1991.

Tabella 2. Unità locali e addetti all’industria metal­meccanica in provincia di Modena nel 1991 per classi di dimensione delle unità locali ( in numero di addetti)

Classi di Unità locali Addettidimensione N. % N. %0-9 3.031 74,7 10.068 21,910-49 900 22,2 16.478 35,950-499 123 3,0 15.173 33,0Oltre 3 0,1 4.242 9,2

Totale 4.057 100,0 45.961 100,0Fonte: Istat, Settimo censimento generale dell’industria e dei servizi, cit.

Le grandi unità produttive con almeno 500 ad­detti sono sempre state poche: tre nel 1951, due nel 1961, quattro nel 1971, cinque nel 1981 e tre nel 1991, nelle quali era occupato meno del 10 per cento degli addetti al settore7. Di

5 Le unità locali, gli addetti, la potenza installata e la potenza installata per addetto sono rispettivamente aumentati di 2,4, 4,1, 15,7 e 4,1 volte a Modena e 1,8, 2,3, 6,8 e 3,4 volte in Italia.6 In questo lavoro si riprende la classificazione proposta da Becattini, che considera grandi imprese quelle con almeno 500 addetti, medie imprese quelle che contano fra 50 e 499 addetti, piccole imprese quelle che hanno fra 10 e 49 addetti e imprese piccolissime quelle con meno di 10 addetti (G. Becattini, Il distretto industriale marshalliano: cronaca di un ri­trovamento, in Id. (a cura di), Mercato e forze locali: il distretto industriale, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 15-16). E evi­dente che una tale classificazione è assai rudimentale, dato che non è possibile stabilire in termini assoluti quale sia una “grande” e quale una “piccola” dimensione, e come si possa tracciare un confine tra le due, dal momento che la dimen­sione di un’impresa può essere riferita a sistemi diversi: il settore, la rete, il distretto, il mercato generale (Barbara Di Bernardo, Le dimensioni d’impresa: scala, scopo, varietà, Milano, Angeli, 1991). Le fonti disponibili non hanno, purtrop­po, consentito di pervenire ad una classificazione più soddisfacente di quella qui adottata, tuttavia utile per cogliere al­cune caratteristiche del settore analizzato.7 La situazione cambia, anche se non in maniera radicale, se invece delle unità produttive si considerano le imprese. Fra le imprese metalmeccaniche, aventi la propria sede in provincia di Modena, quelle con almeno 500 addetti erano cinque

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converso, nel 1991 ben i tre quarti delle unità locali avevano meno di dieci addetti e il 97 per cento meno di cinquanta; prese assieme, esse impiegavano quasi il 60 per cento degli ad­detti al settore.

Il percorso dell’economia modenese e, al suo interno, dell’industria metalmeccanica, deve essere visto come parte di un processo di sviluppo comune ad altre aree dell’Italia centrale e nord-orientale. È stato Bagnasco8 ad attirare per primo l’attenzione sul fatto che, in seguito al processo di sviluppo indu­striale verificatosi in queste regioni, l’imma­gine dell’economia italiana non poteva più essere rappresentata dal tradizionale duali­smo Nord-Sud, ma era divenuta più articola­ta. Le aree di nuova industrializzazione costi­tuivano ormai una realtà socio-economica omogenea, una sorta di “ terza Italia”, distin­ta sia dal “triangolo industriale” — Piemon­te, Lombardia e Liguria — che dal Sud arre­trato. Le regioni della “ terza Italia” erano caratterizzate, rispetto a quelle del “triango­lo” , da una maggiore incidenza delle imprese di piccola dimensione, per lo più operanti in settori tradizionali o interstiziali, da una più bassa produttività del capitale e del lavoro e da un reddito prò capite meno elevato. Que­sti fattori erano indicativi dell’esistenza di un effetto di dominanza del “triangolo” nei con­fronti della “terza Italia” , che, in questo mo­

do, costituiva una sorta di periferia delle re­gioni di più antica industrializzazione9.

A questa interpretazione dello sviluppo della “ terza Italia” ne è stata contrapposta un’altra. Si è sostenuto che non è possibile tracciare una separazione netta tra settori di­namici e innovativi da un lato e settori tradi­zionali e maturi dall’altro, dal momento che l’innovazione tecnologica è un fenomeno pervasivo, che coinvolge tutti i settori10. Allo stesso tempo, pure la tesi di uno sviluppo “in­terstiziale” è apparsa insoddisfacente. L’idea di interstizi, infatti, deriva da una visione del processo produttivo nella quale le merci sono divise in due gruppi: il primo comprende i be­ni prodotti su grande serie da imprese che uti­lizzano una tecnologia avanzata; il secondo produce beni per i quali il volume della do­manda è basso e che vengono, pertanto, fab­bricati su piccola serie adoperando una tec­nologia relativamente semplice. La produzio­ne di questo secondo gruppo di beni, conside­rata “ interstiziale” , viene trascurata dalle grandi imprese e rappresenta lo spazio nel quale possono inserirsi le piccole imprese11.

È stato rilevato, invece, che, di fronte ad una domanda che andava espandendosi e dif­ferenziandosi, molte imprese della “terza Ita­lia” , pur lavorando su serie corte, si sono do­tate nel corso degli anni di macchinari tecno­logicamente avanzati, hanno continuamente

su 3.824, ma annoveravano ben il 23 per cento degli addetti totali. Le imprese con meno di 50 addetti, invece, erano 3.702 (il 97 per cento del totale) e annoveravano il 50 per cento degli addetti. Occorre ricordare, tuttavia, che questo dato ora non si presta ad una comparazione esatta con quello relativo alle unità locali, dato che è comprensivo degli addetti ad unità produttive situate fuori della provincia di Modena, ma appartenenti ad imprese con sede in provincia, ed esclude gli addetti a stabilimenti localizzati nel territorio provinciale, ma appartenenti ad imprese la cui sede legale è fissata altrove.8 Arnaldo Bagnasco, Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Bologna, Il Mulino, 1977.9 Questo schema interpretativo è stato recentemente ripreso da altri autori, fra quali si possono menzionare Silvio La- naro, Storia dellTtalia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 290-292 e V. Castronovo, Storia economica d'Italia. Dall'Ottocento ai giorni nostri, Torino, Einaudi, 1995, pp. 500-511.10 Giacomo Becattini, Giuliano Bianchi, Chi ha paura della regionalità, “Il Ponte”, 1984, n. 1 e Charles F. Sabel et al., Regional prosperities compared: Massachussets and Baden-Wiirttemberg in thè 1980s, “Economy and Society”, 1989, n. 4.11 Per una formulazione della nozione di “interstizi”, si veda Franco Modigliani, New Developments on Oligopolistic Front, “Journal of Politicai Economy” , 1958; June e Edith T. Penrose, The Theory of thè Growth o f thè Firm, Oxford, Blackwell, 1959.

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perfezionato i propri prodotti e hanno pure acquisito un considerevole potere di merca­to, dando vita a sistemi produttivi di tipo nuovo12. Non ha, quindi, senso parlare di “ interstizi” , di “ centro” o di “ periferia” , concepire lo sviluppo come una corsa lungo una via obbligata. Non esiste un percorso unico o ottimale; l’industrializzazione pro­cede, invece, secondo percorsi diversi, origi­nali, che riflettono la storia, la cultura, l’or­ganizzazione sociale e i condizionamenti dell’ambiente e del territorio in cui vive chi ne è protagonista13.

Questo lavoro si colloca all’interno del se­condo filone interpretativo. Esso vuole essere un contributo alla conoscenza della storia di un settore che non è ancora stato oggetto di

uno studio esaustivo e che presenta la partico­larità di avere dato origine alla compresenza e alla interazione sullo stesso territorio di un di­stretto industriale di oltre tremila imprese e del sistema produttivo14 di una grande multi­nazionale, la Fiat Geotech, che è oggi il secon­do produttore mondiale di trattori15.

La metalmeccanica modenese dalla fíne dell’Ottocento al 1945

Un’indagine sulle condizioni industriali della provincia di Modena condotta nel 1894 dal Ministero di agricoltura, industria e commer­cio (Maic) rilevò, esclusi i semplici fabbri fer­rai, 51 imprese addette alla lavorazione dei

12 S. Brusco, The Emilian model: producine decentralization and social integration, “Cambridge Journal of Econo- mics”,1982, n. 6; Giorgio Fuà, L'industrializzazione ne! nord-est e nel centro, in G. Fuà , Carlo Zacchia (a cura di), In­dustrializzazione senza fratture, Bologna, Il Mulino, 1983; Michael J. Piore, C. F. Sabel, Le due vie dello sviluppo indu­striale. Produzione di massa e produzione flessibile, Torino, Isedi, 1987, pp. 331-337; G. Becattini, Introduzione, in Id. (a cura di), Mercato e forze locali, cit. e Vera Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell'Italia 1861-1981, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 434-441.13 Su questo punto, si veda Patrick K. O’Brien, Caglar Keyder, Economie Growth in Britain and France 1780-1914, Lon­don, Alien & Unwin, 1978, p. 18; Michael Storper, Alien J. Scott, OverView: Production, Work, Territory: Contemporary Realities and Theoretical Tasks, in A. J. Scott, M. Storper (a cura di), Production, Work and Territory. The Geographical Anatomy of Industriai Capitalism, Boston, Mass., Alien & Unwin, 1986, pp. 12-13; G. Becattini, Enzo Rullani, Sistema locale e mercato globale, “Economia e politica industriale”, 1993, n. 80 e Gioacchino Garofoli, Riccardo Mazzoni, 1 sistemi produttivi locali: un’introduzione, in G. Garofoli, R. Mazzoni (a cura di), Sistemi produttivi locali: struttura e tra­sformazione, Milano, Angeli, 1994, p. 8.14 Un sistema produttivo locale è costituito da una popolazione di imprese, concentrate in un territorio relativamente circoscritto e impegnate in uno stesso processo produttivo scomponibile in fasi. Le singole imprese sono, in linea di mas­sima, specializzate soltanto nella esecuzione di una o alcune fasi del processo produttivo tipico della zona (S. Brusco, Il modello emiliano rivisita il distretto. Regione e industria, “Politica ed economia” , 1993, n. 1, pp. 47-48; Giovanni Solinas, Competenze, grandi imprese e distretti industriali. Il caso Magneti Morelli, “Rivista di storia economica” , 1993, n. 1, p. 103 e Marco Bellandi, Le logiche del cambiamento economico locale, in M. Bellandi, Margherita Russo (a cura di), Di­stretti industriali e cambiamento economico locale, Torino, Rosenberg & Sellier, 1994, p. 32). Come si può vedere, la no­zione di “sistema produttivo locale” è più ampia di quella di “distretto industriale” . La differenza fondamentale riguar­da i rapporti tra le imprese, che in un sistema produttivo locale possono essere i più svariati. Ad un estremo ci possono essere sistemi produttivi in cui le imprese commitenti hanno un potere assoluto nel determinare il prezzo e le condizioni contrattuali delle lavorazioni affidate alFesterno; all’estremo opposto si possono trovare sistemi in cui le imprese com­mittenti non dispongono di un tale potere, come nei distretti industriali. Il distretto industriale è, quindi, un tipo parti­colare di sistema produttivo locale.15 Le fonti utilizzate nello svolgimento della ricerca sono l’Archivio del gabinetto di Prefettura presso l’Archivio di Sta­to di Modena (per gli anni sino al 1940), gli archivi del Comune, della Provincia, della Camera di commercio, del Pds, della Cdl e della Fiom di Modena, le riviste economiche e i quotidiani locali, gli elenchi delle iscrizioni, variazioni e cancellazioni delle imprese al registro ditte della Camera di commercio di Modena, le statistiche dell’Istat e dell’Ufficio provinciale di statistica. E stata, inoltre, effettuata una serie di interviste ad operatori del settore: imprenditori, manager e sindacalisti. I materiali e le informazioni così reperiti hanno consentito di ricostruire la storia di un centinaio di im­prese del settore.

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metalli, con 359 occupati16. Solo due di esse potevano essere considerate imprese indu­striali vere e proprie17, mentre le altre erano botteghe artigiane che operavano esclusiva- mente sul mercato locale.

La statistica industriale del 1911 censi 467 imprese, con 2.272 addetti18. Nonostante il fat­to che le due rilevazioni non siano esattamente comparabili19, emerge una considerevole espansione del settore. Se già vi erano alcune imprese di una certa consistenza20, la maggio­ranza delle imprese continuava ad essere costi­tuita da piccoli laboratori artigianali. La gam­ma dei beni prodotti comprendeva materiale fisso e rotabile per ferrovie, caldaie, apparecchi per illuminazione e riscaldamento, macchine e attrezzi per l’agricoltura, bilance, mobili in fer­ro, serrature, carrozzerie per veicoli a motore, componenti per biciclette, cancelli, ringhiere, posate, strumenti chirurgici e ortopedici, chio­

di, bulloni e altre minuterie metalliche. Il setto­re ricevette un impulso non trascurabile dalla domanda bellica in occasione della prima guerra mondiale. A Modena si insediarono al­cuni proiettifici, il maggiore dei quali giunse ad occupare sino a mille operai21.

Superata la fase della riconversione post­bellica22, l’industria metalmeccanica mode­nese conobbe negli anni 1922-1926 una nuo­va fase espansiva. Il censimento industriale del 1927 rilevò 889 imprese, con 3.091 occu­pati; gli esercizi con forza motrice erano 256, con una potenza installata di 3.562 ca­valli vapore23. Accanto alle botteghe artigia­ne tradizionali24, il settore annoverava due imprese con oltre 350 addetti25, altre due comprese fra 100 e 350 addetti26 e un gruppo ormai abbastanza numeroso di fabbriche di minori dimensioni, ma molto dinamiche, che costruivano macchine agricole27.

16 Maic, Notizie statistiche sulle condizioni industriali della provincia di Modena, “Annali di Statistica”, IV,1895, fase. 82.17 Si trattava della ditta Luigi Rizzi, con 85 operai, che costruiva materiale fisso e rotabile per le ferrovie, e della fab­brica di caldaie a vapore e attrezzi agricoli La Emilia, con 62 operai.18 Maic, Censimento degli opifici e delle imprese industriali al 10 giugno 1911, voi. I, Roma, 1913.19 La statistica del 1911 censi tutte le imprese che occupavano almeno due persone, compresi il titolare e il direttore dello stabilimento.20 L’iniziativa più importante nel settore in età giolittiana fu la costituzione nel 1907, con l’apporto delle conoscenze tecniche e dei capitali degli industriali viennesi Arturo ed Ernesto Grundmann, della fabbrica di serrature Fermo Corni, che occupò sin dall’inizio una cinquantina di operai (Alberto Barbieri, Giancarlo Silingardi, Modenesi da ricordare. Operatori economici, Modena, Mucchi, 1978, p. 139 e G. Muzzioli, Modena, cit., p. 111).21 A. Barbieri, G. Silingardi, Modenesi da ricordare, cit., p. 156.22 Gli anni postbellici comportarono una difficile riconversione per l’industria metalmeccanica modenese. Il maggiore proiettificio della città subi un drastico ridimensionamento e fu convertito alla costruzione e riparazione di materiale mobile tramviario e ferroviario (cfr. Archivio di Stato di Modena, Gabinetto di Prefettura, cart. 197, b. 3.9.4.).23 Consiglio provinciale dell’economia di Modena ( d’ora in poi Cpem), Relazione sull’andamento economico della Pro­vincia di Modena nell’anno 1927-1928, Modena, 1929, pp. 164-165 e 194-195.24 II censimento rilevò circa 350 laboratori di fabbro ferraio, oltre 200 officine per la riparazione di cicli, motocicli e autoveicoli e un centinaio di botteghe di ramiere e lattoniere (Cpem, Relazione sull'andamento economico, cit., 173).25 Si tratta della già citata Rizzi e della SA Industrie meccaniche e metallurgiche di Modena, fondata nel 1924 da Adol­fo Orsi, il primo stabilimento siderurgico moderno sorto a Modena, che produceva laminati e profilati per uso indu­striale (Cpem, Relazione sull’andamento economico, cit., p. 174).26 Erano l’ex proiettificio, che nel 1918 era stato rilevato dalle Officine reggiane, e la Corni, che al reparto serrature aveva affiancato una fonderia di ghisa malleabile (Cpem, Relazione sull’andamento economico, cit., p. 175).27 II censimento rilevò 33 fabbriche di macchine agricole, con 263 addetti, la maggiore delle quali era la Fratelli Mar­tinelli, che costruiva soprattutto aratri, erpici e seminatrici. Uno sviluppo particolarmente rapido aveva conosciuto un gruppo di imprese specializzate nella produzione di svecciatoi da grano e separatori di riso, che erano riuscite a sosti­tuirsi ai produttori francesi sul mercato interno e ad avviare anche una discreta corrente di esportazioni (Cpem, Rela­zione sull’andamento economico, cit., p. 176).

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L’industria metalmeccanica nel Modenese 1945-1991 219

Un momento fondamentale per lo svilup­po dell’industria metalmeccanica e dell’intera economia modenese fu la decisione della Fiat di installare a Modena, nel 1928, la propria fabbrica di trattori — denominata Fiat Oci (Officina costruzioni industriali) — rilevan­do l’impianto di proprietà delle Officine Reg­giane28. La Fiat Oci divenne sin dal suo inse­diamento il principale stabilimento metal­meccanico della città29. Il settore risenti pe­santemente della crisi apertasi con la rivalu­tazione della lira a “ quota novanta” e ina­spritasi poi a partire dal 1929. Toccato il fon­do della recessione nel 1933, l’anno successi­vo ebbe inizio la ripresa30. Gli anni dal 1934 alla caduta del fascismo nel 1943 coincisero con la fase di crescita più intensa mai cono­sciuta dal settore sino a quel momento, soste­nuta soprattutto da commesse pubbliche le­gate alla politica di riarmo e alle guerre del regime31. Essa rafforzò le basi del settore e pose, in un certo senso, le premesse per il boom del secondo dopoguerra32.

All’inizio degli anni quaranta vi erano in provincia diciannove imprese metalmeccani­che con oltre 50 addetti, quattordici delle quali situate nel capoluogo. Cinque di esse erano officine per la fabbricazione di macchi­ne agricole33, quattro fonderie di ghisa34 e tre carrozzerie che costruivano pullman da turi­smo35. Vi erano, inoltre, una acciaieria36 e al­cune altre imprese specializzate in produzioni diverse: macchine utensili, motocicli, compo­nenti per autoveicoli, motori per aerei, moto­ri elettrici, elettrocarri, materiale fisso per ferrovia, bilance, e così via37.

Momenti importanti per lo sviluppo del settore furono l’acquisto nel 1937, e il trasfe­rimento a Modena da Bologna tre anni dopo, della Maserati da parte dell’imprenditore modenese Adolfo Orsi38; l’insediamento a Carpi, nel 1940, di due stabilimenti della Ma­rcili, destinati alla produzione di commutato­ri, motorini elettrici, dinamo, magneti e can­dele per motori a scoppio39 e l’acquisizione, nel 1942, della Guerzoni e Guarinoni da par-

28 Sull’insediamento a Modena della Fiat Oci, si veda V. Castronovo, Giovanni Agnelli, Torino, Utet, 1971, p. 471; Gianpaolo Caselli, Modena, città del ciclo Fiat, “Note e rassegne”, 1971, n. 33-34; G. Muzzioli, L ’economia e la società modenese fra le due guerre (1919-1939), Modena, Stem Mucchi, 1979, pp. 256-257; Id., Modena, cit., pp. 236-9; V. Za- magni, Dalla periferia al centro, cit., p. 363 e Fiat 1915-1930. Verbali dei consigli di amministrazione, voi. II, Milano, Fabbri, 1991, pp. 1041 e 1048.29 Nel giugno 1929, a circa un anno di distanza dal suo insediamento, la Fiat Oci occupava già 924 addetti (Mauro Francia, Lo sviluppo industriale a Modena negli anni trenta, comunicazione presentata al convegno “Il regime fascista e la società modenese. Aspetti e problemi del fascismo locale”, Modena, 28-29 novembre 1991, dattiloscritto, p. 2).30 G. Muzzioli, L ’economia, cit., pp. 120-4; Id., Modena, cit., pp. 241-242 e M. Francia, Lo sviluppo industriale a Mo­dena, cit., pp. 3-4.31 M. Francia, Lo sviluppo industriale a Modena negli anni trenta, cit., pp. 55-58.32 II censimento industriale del 1937-1939, effettuato nel periodo centrale di questa fase di crescita, rilevò 1.591 unità produttive, con 5.779 addetti. Gli stabilimenti con forza motrice erano 287, con una potenza installata di 6.259 cavalli vapore (M. Francia, Lo sviluppo industriale a Modena negli anni trenta, cit.)33 Fiat Oci, Fratelli Martinelli (che aveva annessa una fonderia), Ballarmi, Taddeo Giusti e Primo Martinelli (G. Muz­zioli, L'economia, cit., p. 326-7).34 Corni (che, come si è visto, aveva anche un reparto per la produzione di serrature), Fonderie Riunite, Valdevit e Fo- cherini (G. Muzzioli, L'economia, cit., cit.)35 Renzo Orlandi, Giovanni Orlandi e Galileo Barbi (G. Muzzioli, L ’economia).36 Le Acciaierie e Ferriere di Adolfo Orsi (G. Muzzioli, L ’economia, cit., p. 326).37 G. Muzzioli, L ’economia, cit., pp. 326-327.38 M. Francia, Lo sviluppo industriale a Modena negli anni trenta, cit., p. 18.39 Ad un anno dal loro insediamento, i due stabilimenti della Marelli occupavano già 700 addetti, che salirono a 1.200 nel periodo di massima espansione dell’attività all’inizio del 1944 (G. Solinas, Competenze, grandi imprese e distretti in­dustriali, cit., p. 79).

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te della Fiat, che in tal modo insediò a Mode­na un secondo stabilimento, adibito alla co­struzione di macchine utensili40.

La crisi della riconversione postbellica

Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale molte delle imprese cresciute du­rante il fascismo entrarono in crisi. In parti­colare, le fonderie dovettero ridurre la loro produzione in seguito al venir meno delle commesse pubbliche e alla loro incapacità di spostarsi verso i getti di ghisa di qualità più pregiata che allora il mercato incomincia­va a richiedere, mentre le officine produttrici di macchine agricole, con l’eccezione della Fiat Oci, restarono legate alle produzioni tra­dizionali — soprattutto aratri, erpici e semi­natrici — la cui domanda era stagnante o in declino, e non riuscirono a specializzarsi nel­la fabbricazione delle nuove macchine agri­cole leggere, come le pompe e i motocoltiva­tori, o dei motori agricoli, il cui mercato era in forte espansione41. La crisi di queste im­prese fu dovuta all’incapacità degli imprendi­tori che le avevano portate al successo duran­te il fascismo di fare fronte alla situazione nuova determinatasi in seguito al passaggio dal regime autarchico e dai mercati protetti alle nuove condizioni di concorrenza che pre­

valsero dopo la guerra. L’affermazione di quegli imprenditori era stata resa possibile non tanto dall’impegno assiduo ad ammo­dernare gli impianti e a produrre beni sempre più raffinati in un mercato concorrenziale, quanto dalla loro capacità di ottenere le com­messe statali.

Di fronte alle condizioni nuove createsi nel dopoguerra, e alle difficoltà in cui versavano le loro imprese, la maggioranza di quegli im­prenditori reagi non tanto con un accresciuto sforzo volto a riconvertire e ad ammodernare le proprie fabbriche42 e a cercare di inserirsi nei segmenti di mercato in espansione, quan­to scatenando una violenta offensiva contro la classe operaia. L’attacco ebbe inizio subito dopo le elezioni del 1948, il cui risultato sem­brava garantire agli imprenditori condizioni favorevoli allo scontro, con le serrate della Valdevit e della Carrozzeria Padana43. L’of­fensiva padronale si intensificò negli anni suc­cessivi e si estese a quasi tutte le maggiori im­prese della provincia, in uno stillicidio conti­nuo di serrate, licenziamenti, ricatti, angherie, intensificazioni dei ritmi di lavoro, riduzioni salariali. Essa culminò con la strage del 9 gen­naio 1950 — quando la polizia uccise sei ope­rai delle Fonderie riunite, che insieme con i lo­ro compagni di lavoro stavano manifestando davanti alla fabbrica, chiusa in seguito alla serrata padronale — e con il licenziamento

40 La Guerzoni e Guarinoni costruiva motocicli e macchine utensili. Inizialmente, la Fiat intendeva destinare questo stabilimento alla produzione di motori per navi e lo ribattezzò pertanto Fiat Grandi Motori. Alla fine, però, l’attività originaria non fu riconvertita, ma solo specializzata: venne abbandonata la produzione di motocicli e si mantenne quella di macchine utensili (M. Francia, Lo sviluppo industriale a Modena negli anni trenta, p. 18).41 Nel corso degli anni, alcune di queste imprese sono addirittura fallite, come Acciaierie e Ferriere, Fonderia Corni, Fonderie Riunite, Fratelli Martinelli, Taddeo Giusti, Primo Martinelli e Maserati Candele e Accumulatori. La famiglia Orsi, il principale gruppo industriale modenese di quel periodo, nel corso degli anni è stata costretta a cedere le imprese che possedeva — Acciaierie e Ferriere, Fonderie Riunite e Maserati — e oggi non svolge più alcun ruolo nell’economia locale. Allo stesso modo, anche le famiglie Orlandi e Rizzi hanno perso il controllo delle aziende che avevano fondato.42 Un’indagine condotta nel 1952 mostrò che su circa duemila macchinari delle trenta maggiori imprese metalmeccani­che modenesi, oltre mille avevano un’età non inferiore a venticinque anni (M. Francia, Gli anni della ricostruzione: 1946- 1950, in P. Golinelli e G. Muzzioli (a cura di), Storia illustrata di Modena, cit., p. 1007).43 Alla Valdevit furono licenziati 330 dei 360 operai che vi lavoravano e alla Padana 60 su 100. I licenziamenti furono attuati in maniera discriminatoria, in modo da allontanare tutti gli iscritti e i simpatizzanti della Cgil e dei partiti di sinistra dai due stabilimenti. Gli operai licenziati reagirono costituendo due cooperative di produzione: la Cooperativa Fonditori (oggi Fonderie Cooperative di Modena) e la Cooperativa Carrozzai (oggi Carrozzeria Autodromo).

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di 248 lavoratori attuato dalla Fiat nel 1955. Nel complesso, tra il 1949 e il 1957 furono cir­ca tremila gli operai metalmeccanici licenziati in provincia di Modena44.

L’offensiva antioperaia di quegli anni deve essere vista non solo come il tentativo da par­te degli imprenditori di riaffermare il proprio potere nelle fabbriche cacciando gli attivisti sindacali e i militanti dei partiti di sinistra, ma anche come la risposta alla crisi delle loro aziende, attraverso la strada della riduzione del costo del lavoro, nel tentativo di ripristi­nare quel meccanismo di accumulazione ba­sato sui bassi salari che aveva consentito loro di ottenere rapidi e notevoli profitti durante il fascismo.

L’atteggiamento della Fiat e di Enzo Fer­rari differì, invece, da quello della maggio­ranza degli industriali modenesi. Alla Fiat Oci si era provveduto sin dal periodo della ri- costruzione aH’ammodernamento degli im­pianti e nel 1952 era stata introdotta la lavo­razione a catena al reparto montaggio45. Con i licenziamenti del 1955 la Fiat, oltre alla de­capitazione dell’organizzazione della Fiom nei propri stabilimenti modenesi46, persegui anche altri obiettivi. Innanzitutto, l’introdu­zione della lavorazione a catena rendeva pos­sibile e conveniente una ridefinizione della composizione della forza-lavoro impiegata al reparto montaggio, dal momento che, nelle

nuove condizioni, le operazioni che ogni ope­raio doveva svolgere erano divenute più sem­plici e parcellizzate. Si trattava di ridurre la proporzione degli operai specializzati e quali­ficati e di aumentare quella degli operai co­muni. I licenziamenti consentirono di ottene­re questo risultato: dei 248 lavoratori licen­ziati, 24 erano operai specializzati e 124 ope­rai qualificati47. I licenziamenti devono esse­re visti, più in generale, nell’ambito di un riassetto complessivo della presenza della Fiat a Modena. Subito dopo la loro esecuzio­ne, infatti, la Fiat annunciò la chiusura della Grandi motori come unità produttiva auto­noma e il trasferimento di una parte dei suoi macchinari all’Oci, dove venne costituito un reparto per la costruzione di macchine uten­sili, con una produzione più ridotta e specia­lizzata rispetto a prima. Inoltre, a partire dal­la seconda metà degli anni cinquanta, l’in­dotto della Fiat a Modena incominciò ad as­sumere dimensioni rilevanti. Si trattava di un complesso di piccole aziende, costituite spes­so dagli stessi operai licenziati, i quali, aven­do un’ottima conoscenza del ciclo produttivo della Fiat, potevano facilmente collaborare, operando su commessa e non più all’interno della fabbrica, alla costruzione dei trattori o delle macchine utensili.

Anche Enzo Ferrari48 affrontò la situazio­ne creatasi alla fine del conflitto in maniera

44 Per una ricostruzione dettagliata delle lotte operaie di quegli anni a Modena, si veda Bruno Bigi, La Fiat a Modena dalla ricostruzione ai licenziamenti del 1955, tesi di laurea, Università di Modena, Facoltà di Economia e Commercio, anno accademico 1983-1984.45 Piero Catellani, segretario della Commissione interna della Fiat Oci nel 1955, testimonianza resa all’autore il 19 set­tembre 1988.46 Oltre ai 248 licenziamenti, la Fiat effettuò anche 150 sospensioni. Tutti i 398 lavoratori colpiti (su un organico di 937 addetti all’Oci e 403 alla Grandi motori) erano iscritti alla Fiom, 210 di loro erano iscritti anche al Pei e 6 al Psi. Nes­suno di loro era, invece, iscritto alla Cisl, alla Uil o ai partiti di governo (De, Psdi, Pii e Pri): cfr. B. Bigi, La Fiat a Modena dalla ricostruzione ai licenziamenti del 1955, cit., p. 443.47 Prefetto di Modena, dottor Adolfo Memmo, alla Commissione consiliare [recatasi a Roma a conferire con il ministro del Lavoro onorevole Vigorelli sulla vertenza degli stabilimenti Fiat], in Archivio del Comune di Modena, Protocollo generale, Atti del Consiglio comunale, seduta del 17 ottobre 1955.48 Egli iniziò la propria attività imprenditoriale nel 1929 fondando la Scuderia Ferrari, che partecipava alle competizio­ni automobilistiche con vetture fornite dall’Alfa Romeo. Nel 1939 fondò una nuova azienda, la Auto avio costruzioni, che costruiva motori per aerei e macchine utensili, oltre a continuare la ricerca e la sperimentazione nel campo delle automobili da corsa. Nel 1943 l’impresa fu trasferita da Modena a Maranello, un comune ai piedi dell’Appennino, nel-

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diversa rispetto alla maggioranza degli im­prenditori modenesi. Innanzitutto egli ricon­vertì l’attività della propria azienda. Nel giro di alcuni anni venne abbandonata la produ­zione di macchine utensili e di motori per ae­rei e l’impresa si specializzò nella costruzione di automobili da corsa e gran turismo49. La nuova attività registrò presto una rapida espansione: dalle tre vetture prodotte nel 1947 si passò a 21 nel 1949, a 61 nel 1955 e a 306 nel I96050.

Il successo della nuova attività consentì al­la Ferrari di gestire la riconversione postbel­lica senza mai operare tagli drastici all’occu­pazione51. Anche le relazioni industriali furo­no impostate su un piano più avanzato ri­spetto alle altre imprese modenesi. L’impresa non attuò licenziamenti discriminatori — as­sunse anzi alcuni operai licenziati per motivi politici da altre fabbriche — e raggiunse un accordo con la Cgil in base al quale quest’ul- tima si impegnava a non coinvolgere in even­tuali azioni di lotta i lavoratori impegnati nella preparazione delle vetture da competi­zione52.

La nascita e l’affermazione di una nuova imprenditoria metalmeccanica

A partire dal 1945 a Modena sorse un discre­to numero di piccole imprese metalmeccani­che, fondate in prevalenza da ex operai delle

fabbriche della città e, in alcuni casi, anche da fabbri, lattonieri, carpentieri e persino contadini. Il lotto di nuove imprese aumentò dopo l’inizio dei licenziamenti presso le mag­giori fabbriche della provincia, che colpirono migliaia di lavoratori, parecchi dei quali pos­sedevano una elevata capacità professionale: molti operai licenziati, infatti, decisero a loro volta di intraprendere un’attività in proprio.

Il caso di Modena si discosta, quindi, dalla tesi di Brusco e Sabel53, che individuano nei licenziamenti effettuati per rappresaglia poli­tica negli anni cinquanta l’elemento all’origi­ne del processo di nascita di nuove imprese metalmeccaniche in Emilia Romagna nel se­condo dopoguerra. A Modena, invece, il pro­cesso di nascita di nuove aziende prese l’av­vio già nel 1945, subito dopo la liberazione, e quindi prima che iniziassero i licenziamenti, i quali, come si è visto, vennero attuati solo a partire dalla seconda metà del 1948. Inoltre, anche quando l’ondata dei licenziamenti era in pieno svolgimento — tra il 1949 e il 1957 — molte nuove imprese furono costituite da operai che non erano stati in precedenza li­cenziati. I licenziamenti, pertanto, devono es­sere visti non come l’origine, ma soltanto co­me un acceleratore del processo di formazio­ne di nuove imprese.

Alcune delle nuove piccole imprese si dedi­carono alla costruzione di ringhiere, cancelli, serrande avvolgibili, canne fumarie e a lavori di carpenteria per il mercato locale. Attività

l’ambito dei provvedimenti voluti dalle autorità per decongestionare i centri industriali maggiormente soggetti al peri­colo dei bombardamenti (M. Francia, Lo sviluppo industriale a Modena negli anni trenta, cit., p. 36).49 Nel 1957 l’impresa mutò la propria denominazione in Auto costruzioni Ferrari. La denominazione attuale Ferrari spa fu assunta nel 1965 (Bruno Pacher, responsabile del personale della Ferrari, testimonianza resa all’autore il 15 giu­gno 1989).50 “Modena economica” ,1988, n. 2, p. 10.51 Gli addetti all’impresa salirono da circa 200 nel 1946 a 286 nel 1959: cfr. Relazione sull’andamento economico della provincia di Modena, gennaio-febbraio 1946, dattiloscritto, p. 11, in Archivio della Camera di commercio industria e artigianato di Modena (d’ora in poi CCIA Modena) e Archivio del Pds di Modena (d’ora in poi Pds Modena), 1960, fase. 501.52 Attilio Trebbi, segretario della Fiom di Modena dal 1949 al 1956, testimonianza resa all’autore il 18 luglio 1988.53 S. Brusco, C.F. Sabel, Artisan Production and Economie Growth, in Frank Wilkinson (a cura di), The Dynamics of Labour Market Segmentation, London, Academic Press, 1981, p. 104 e C.F. Sabel, Work and Politics. The Division o f Labour in Industry, Cambridge, Mass., Cup, 1982, p. 221.

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queste sostenute dal forte sviluppo dell’edili­zia che si ebbe a Modena a partire dagli anni cinquanta, in conseguenza soprattutto della forte ondata migratoria che si riversò verso il capoluogo e gli altri centri all’avanguardia nello sviluppo industriale della provincia54. Altre si dedicarono a lavorazioni di tornitu­ra, fresatura, foratura, rettifica, carpenteria, cromatura, zincatura e nichelatura di metalli su commessa per le maggiori imprese del luo­go, ed in particolare per la Fiat55, la Ferra­ri56, la Maserati e le carrozzerie, che nella se­conda metà degli anni cinquanta incomincia­rono a decentrare a subfornitori esterni alcu­ne fasi del processo produttivo. Altre ancora, infine, sin dall’inizio effettuarono produzioni nuove, per Modena e per l’Italia, con un mer­cato proprio ed in espansione.

Durante gli anni del “miracolo economi­co” (1959-63) questa nuova imprenditoria metalmeccanica modenese conobbe la sua af­fermazione. In quegli anni, insomma, si affer­marono quelle imprese che, insieme con la Fiat, la Ferrari e le altre di più antica costitu­zione che riuscirono a superare la crisi della riconversione postbellica, formavano, anco­ra all’inizio degli anni novanta, l’asse portan­te del settore: Caprari nelle pompe per irriga­zione; Annovi e Reverberi nelle pompe per ir­rorazione; Bendini e Frascaroli (oggi Benfra) nelle macchine movimento terra; Fiori nelle macchine per l’edilizia; Salami, Fabbi e Ro­seo nell’oleodinamica; Utit, Della Casa e

Montanari nei sollevatori e trasformatori in­dustriali; Hansberg nelle macchine per fon­deria; Fabbri nelle macchine automatiche per confezionamento; Rossi nei motoridutto- ri; Bompani, Terim e Glem-gas negli elettro- domestici.

Negli anni cinquanta si formò anche il comparto delle auto sportive, in seguito alla decisione di Ferrari, Maserati e De Tomaso di affiancare la costruzione di auto gran turi­smo a quella di vetture da competizione. Nel comparto delle fonderie di ghisa nacquero di­verse piccole aziende, che lavoravano soprat­tutto per le altre piccole imprese sorte nella zona in quegli anni. Nel comparto delle mac­chine agricole, accanto alle imprese che fab­bricavano un prodotto finito, si affermarono numerose altre aziende specializzate nella produzione di pezzi di ricambio. A Carpi, ac­canto alla Goldoni, alla Lugli e alla Angelo Po, che, fondate durante il fascismo, rimase­ro sino alla fine degli anni quaranta delle pic­cole botteghe artigiane e conobbero un’evo­luzione importante solo a partire dal decen­nio successivo — specializzandosi la prima nei motocoltivatori, la seconda nei carrelli elevatori e la terza nelle cucine per ristoranti e comunità — si affermò rapidamente un nu­cleo di imprese specializzate nella produzione di macchine utensili per la lavorazione del le­gno57. A Sassuolo, invece, sorsero le prime imprese che costruivano macchine per l’indu­stria ceramica,58. Insomma, acquistò sempre

54 Negli anni sessanta e settanta il comune di Modena giunse ad avere tassi di immigrazione netta superiori persino a quelli di Milano e Torino (Morena Pivetti, I movimenti migratori nel Comune di Modena dal 1965 al 1980, Modena, Cen­tro stampa del Comune di Modena, 1984).55 Dopo i licenziamenti del 1955 la Fiat Oci conobbe un considerevole sviluppo. La produzione passò da 80 trattori al giorno nel 1959 a 120 nel 1962 e a 175 nel 1970, mentre l’occupazione aumentò da 1.163 addetti nel 1959 a 1.392 nel 1962 e a 2.060 nel 1970: cfr. Pds Modena e Archivio della Camera del lavoro di Modena (d’ora in poi CdL Modena), materiali vari.56 Negli anni del “miracolo economico” la Ferrari aumentò la propria produzione di oltre tre volte, passando da 183 automobili nel 1958 a 598 nel 1963 (“Modena economica” , 1988, n. 2, p. 10).57 G. Solinas, Competenze, grandi imprese e distretti industriali, cit., pp. 92-93.58 Sulla nascita e lo sviluppo di questo comparto produttivo, si veda M. Russo, Technical Change and thè Industriai Districi, “Research Policy”, 1985 e Tiziano Bursi, Il settore meccano-ceramico nel comprensorio della ceramica: strutture e processi di crescita, Milano, Angeli, 1984.

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maggiore rilievo un’imprenditoria nuova in produzioni nuove, accanto a quelle delle macchine agricole, delle fusioni di ghisa e alle altre che già venivano effettuate precedente- mente.

La giovane industria metalmeccanica mo­denese riuscì a superare rapidamente la reces­sione del 1964-1965 e la seconda metà degli anni sessanta fu un nuovo periodo di rapida espansione, caratterizzato soprattutto da un considerevole aumento delle esportazioni59. E possibile, sia pure con la dovuta cautela, provare ad individuare alcuni dei motivi del successo dell’industria metalmeccanica mo­denese negli anni cinquanta e sessanta.

Una prima ragione risiede probabilmente nella cultura del lavoro propria della classe operaia modenese, dalla quale molti dei nuo­vi imprenditori provenivano. Per questi im­prenditori la propria impresa, il proprio la­boratorio, erano tutto, o quasi. Di qui l’im­pegno costante a reinvestire gli utili in azien­da, ad ammodernare le attrezzature produtti­ve, a progettare prodotti nuovi per inserirsi nei segmenti di mercato in espansione o addi­rittura creare mercati nuovi60.

Una seconda e non meno importante ra­gione va ricercata nell’organizzazione del processo produttivo vigente nelle maggiori fabbriche metalmeccaniche modenesi negli anni quaranta e cinquanta, presso le quali molti dei nuovi imprenditori avevano lavora­

to. Queste imprese producevano su piccola serie e usavano macchine polivalenti61. Ciò implicava che le macchine dovessero essere riattrezzate di frequente e che uno stesso ope­ratore avesse l’occasione di lavorare su più macchine utensili. In questo modo, molti la­voratori poterono acquisire una visione più compiuta del processo produttivo e ampliare la propria capacità professionale. Questo complesso di esperienze potè essere da loro valorizzato nel momento in cui decisero di mettersi in proprio.

In terzo luogo, un ruolo importante fu svolto dalle scuole tecniche della provincia. In città operava sin dal 1921 l’istituto tecni­co e professionale Fermo Corni, tra i mi­gliori in Italia, che riforniva l’economia lo­cale di giovani operai qualificati e di periti dotati di ottime conoscenze teoriche e prati­che. Nel 1957 l’amministrazione provinciale istituì a Modena un secondo istituto tecni­co, con specializzazioni in elettronica e chi­mica industriale, diverse da quelle in mecca­nica ed elettromeccanica esistenti al Corni. Nel 1960 fu aperta una sezione del Corni a Mirandola e nel 1963 furono inaugurate al­tre due sezioni dello stesso istituto a Carpi e a Vignola62.

Accanto agli interventi nel campo dell’i­struzione tecnica e professionale, due altri ti­pi di iniziative degli enti locali modenesi con­tribuirono a favorire lo sviluppo industriale

59 Sino al 1963 lo sviluppo del settore fu trainato prevalentemente dalla domanda interna, tant’è che tra il 1955 ed il 1963 le esportazioni aumentarono solo del 18 per cento. Tra il 1963 ed il 1970, invece, le vendite all’estero crebbero di quasi quattro volte (cfr. Registri dei visti sulle fatture e Statistiche provinciali dei movimenti valutari inerenti impor­tazioni ed esportazioni, in CCIA Modena).60 Sulla cultura del lavoro della classe operaia modenese, si veda Maura Franchi, Vittorio Rieser, Esperienza e cultura dei delegati. Un’indagine sulla realtà metalmeccanica modenese, Reggio Emilia, Bonhòffer, 1984.61 Le macchine polivalenti sono concepite per fabbricare una grande varietà di pezzi e possono pertanto essere riattrez­zate rapidamente. Le macchine transfer fisse, utilizzate dalle imprese specializzate nella produzione di massa, sono in­vece costruite per produrre un unico pezzo, e, benché più produttive, richiedono un tempo molto più lungo per essere riattrezzate (James P. Womack, Daniel T. Jones, Daniel Roos, La macchina che ha cambiato il mondo. Passato, presente e futuro deli automobile secondo gli esperti del Mit, Milano, Rizzoli, 1991, pp. 39-41).6~ Sugli istituti tecnici e professionali modenesi, si veda Fulvio G. Cammarano, L ’istruzione professionale a Modena du­rante il fascismo: l ’istituto Fermo Corni, in Aldo Berselli, Vittorio Telmon (a cura di), Scuola e educazione in Emilia Ro­magna fra le due guerre, Bologna, Clueb, 1983 e A. Rinaldi, Ricerca sugli istituti medi superiori di competenza della Pro­vincia di Modena, dattiloscritto, Modena, 1990.

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della provincia63. Da un lato, dapprima il Comune di Modena, e poi anche molti altri comuni della provincia, promossero la crea­zione dei “villaggi artigiani” , ossia di aree at­trezzate per gli insediamenti industriali, che furono vendute alle imprese acquirenti ad un prezzo inferiore a quello di libero merca­to, in quanto non caricato della rendita gra­vante sui suoli edificabili64. Dall’altro lato, essi perseguirono una politica volta a dotare il territorio di una diffusa rete di servizi socia­li: in questo modo fu possibile aumentare il reddito disponibile per le spese diverse da quelle dirette a soddisfare i bisogni fonda- mentali — per i quali esistevano appunto i servizi sociali — e si consentì ad un numero più elevato di cittadini, ed in particolare alle donne, di svolgere un’attività lavorativa65 66.

Infine, tra le iniziative di politica industria­le promosse dal governo centrale, quella che si rivelò più utile a sostegno della metalmec­canica modenese fu probabilmente l’Arti-

• 66 giancassa .

Gli anni settanta: il distretto industriale e il sistema produttivo della Fiat Trattori

Fino alla metà degli anni sessanta le imprese metalmeccaniche modenesi, tranne le mag­

giori e di più antica costituzione, erano in ge­nere molto integrate verticalmente; esse svol­gevano al proprio interno gran parte delle fa­si del loro processo produttivo. Ciò era dovu­to al fatto che la preoccupazione principale di molte di loro, sino a quel momento, era stata quella di affermarsi sul mercato con un pro­dotto innovativo, via via sviluppato e perfe­zionato, il più delle volte adattando compo­nenti, macchinari o singoli utensili già utiliz­zati da altre imprese che fabbricavano un prodotto diverso. Pertanto, non esisteva e non poteva esistere ancora una rete di impre­se subfornitrici sufficientemente qualificate alle quali affidare la fabbricazione di pezzi e componenti di tali prodotti.

A partire dalla seconda metà degli anni sessanta, molte imprese incominciarono a de­centrare un numero crescente di lavorazioni a piccole aziende subfornitrici, costituite spes­so da ex tecnici o ex operai che, specializzatisi su determinate macchine, avevano deciso di mettersi in proprio, sollecitati a farlo talvolta dallo stesso proprietario dell’impresa nella quale avevano lavorato sino a quel momento e da lui finanziariamente sostenuti.

La spinta al decentramento si accrebbe nel decennio successivo, alimentata dalla neces­sità, per gli imprenditori, di reagire all’au­mento del costo del lavoro e ai vincoli nel

63 L’amministrazione provinciale, il Comune di Modena e la maggior parte degli altri comuni della provincia sono con­trollati dai partiti di sinistra ininterrottamente dal 1946.64 Sulla realizzazione dei “villaggi artigiani” a Modena, si veda S. Brusco, Ezio Righi, Enti locali, politica per l ’industria e consenso sociale: l’esperienza di Modena, in S. Brusco, Piccole imprese e distretti industriali, Torino, Rosenberg & Sel- lier, 1989 e Alberto Rinaldi, La sinistra e l'industria diffusa: il ruolo delle istituzioni locali, in Pier Paolo D’Attorre, Vera Zamagni (a cura di), Distretti imprese classe operaia. L'industrializzazione dell'Emilia-Romagna, Milano, Angeli, 1992.65 Sulla politica degli enti locali modenesi di promozione dei servizi sociali, si veda Giuliano Barbolini, Germano Bui- garelli, Gli anni della democrazia: amministratori e municipi nel governo della società modenese, in P. Golinelli e G. Muz- zioli (a cura di), Storia illustrata di Modena, cit.66 La grande maggioranza dei nuovi imprenditori metalmeccanici iniziò la propria attività ricorrendo all’autofinanzia- mento o a prestiti di parenti e amici. I costi di avviamento non erano elevati: si poteva partire con una macchina utensile di seconda mano opportunamente rettificata e sistemata in locali di fortuna, quali cantine, garage, o vecchie stalle ab­bandonate. Un impiego di capitali più consistente era richiesto, invece, in una fase successiva, quando, di fronte alla crescita dei volumi di attività, si rendeva necessario trasferire l’impresa in una sede appropriata e più ampia. In questa seconda fase, ebbero un ruolo di un certo rilievo i finanziamenti delle banche locali e dell’Artigiancassa. Tra il 1954 ed il 1964 in provincia di Modena furono effettuate 2.901 operazioni sulla base delI’Artigiancassa, per un importo di circa 7,5

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suo impiego conseguenti alle lotte operaie dell’autunno caldo del 1969 e degli anni suc­cessivi, che avevano profondamente mutato la condizione operaia, soprattutto nelle im­prese maggiori.

Il decentramento produttivo divenne ben presto una scelta strutturale per le imprese che vi avevano fatto ricorso67 e fu conseguen­za della crescita del mercato, che creò lo spa­zio per imprese specializzate in produzioni e lavorazioni particolari, e della sua crescente segmentazione, che rendeva necessaria una specializzazione produttiva difficilmente con­seguibile da un’azienda che svolgesse al pro­prio interno tutte le fasi del ciclo produttivo. L’ingranaggeria, le marmitte, i motoriduttori divennero, in seguito a questo processo, com­parti autonomi. Si creò, inoltre, un mercato anche per le lavorazioni meccaniche (tornitu­ra, fresatura, alesatura, foratura, rettifica, ecc.) e la carpenteria, che, data la presenza di un elevato numero sia di committenti che di subfornitori, assunse ben presto una fisio­nomia fondamentalmente concorrenziale.

Sempre a partire dalla seconda metà degli anni sessanta si assistette anche alla nascita di numerose nuove piccole aziende che fab­bricavano un prodotto finito o un compo­nente complesso, costituite anch’esse il più delle volte da ex tecnici ed ex operai che deci­devano di mettersi in proprio, presentandosi sul mercato con un prodotto parzialmente modificato nelle caratteristiche tecniche e nelle prestazioni o, quando la domanda era

in forte espansione, con lo stesso tipo di pro­dotto dell’impresa nella quale lavoravano in precedenza. Molte di queste nuove imprese sin dall’inizio decentrarono numerose lavo­razioni a subfornitori esterni.

In seguito all’interagire di questi processi — nascita di nuove imprese produttrici di beni finali, tendenza di tutte le imprese produttrici di beni finali a ridurre i propri livelli di integrazione verticale e nascita di un gran numero di piccole imprese specia­lizzate nell’esecuzione di lavorazioni di subfornitura — l’industria metalmeccanica modenese assunse in quegli anni una strut­tura di distretto68.

Il carattere fortemente decentrato del di­stretto consentì negli anni settanta all’indu- stria metalmeccanica modenese una crescita assai sostenuta, grazie alla sua elevata fles­sibilità, che consentiva di fare fronte con tempestività a mutamenti della domanda sempre più rapidi69, e alla sua capacità di favorire la diffusione e l’adattamento delle innovazioni tecnologiche, una volta che fossero state introdotte, in una particolare sezione del sistema produttivo. Non esiste, purtroppo, una statistica relativa all’anda­mento della produzione metalmeccanica in provincia di Modena negli anni settanta. Tuttavia, si è già visto (tabella 1, p. 215) che tra il 1971 ed il 1981 gli addetti al setto­re aumentarono del 45 per cento e la poten­za installata del 146 per cento. Un altro in­dicatore significativo della dinamica del set-

miliardi di lire. Si è calcolato che circa il 17 per cento delle imprese artigiane esistenti nella provincia alla fine del 1964 avesse ottenuto un finanziamento dall’Artigiancassa (Fapim, Artigianato modenese in cifre, Modena, 1976).67 Sul processo di disintegrazione verticale nell’industria metalmeccanica modenese negli anni settanta, si veda S. Bru­sco, Enrico Giovannetti, Werter Malagoli, La relazione tra dimensione delle imprese e saggio di sviluppo nelle imprese industriali: una ricerca empirica, Modena, Stem Mucchi, 1979.68 Negli anni settanta lo sviluppo dei distretti industriali fu un fenomeno che riguardò non solo Modena e la terza Italia, ma anche diversi altri paesi europei ed extraeuropei (M.J. Piore, C.F. Sabel, Le due vie dello sviluppo indu­striale, cit. e C.F. Sabel, Flexible Specialisation and thè Re-emergence o f Regional Economies, in Paul Hirst, Jona­than Zeitlin (a cura di), Reversing Industriai Decline? Industriai Structure and Policy in Britain and Her Compeli- tors, Oxford, Berg, 1989).69 Sulla crescente segmentazione e instabilità dei mercati negli anni settanta, si veda M. J. Piore, C.F. Sabel, Le due vie dello sviluppo industriale, cit., pp. 279-283.

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tore è la crescita delle esportazioni, il cui valore, tra il 1975 ed il 1981, aumentò in termini reali di circa l’80 per cento70.

Gli anni settanta videro anche una ridefi- nizione e un allargamento della presenza del­la Fiat a Modena. Sino alla fine del decennio precedente le attività del gruppo Fiat erano organizzate in una struttura aziendale forte­mente centralizzata, secondo gli indirizzi del­la direzione di Vittorio Valletta. Negli anni settanta, dopo l’ascesa di Giovanni Agnelli al vertice della società, fu attuata una riorga­nizzazione dell’impresa. Le principali divisio­ni del gruppo furono costituite in società autonome e fu loro conferita una notevole autonomia gestionale, mentre rimasero ac­centrate nella Fiat spa soltanto le funzioni strategica, finanziaria e di politica industria­le71. In questo quadro, nel settembre 1974 la divisione trattori fu costituita in società autonoma, denominata Fiat Trattori spa, con sede a Modena.

Nel 1975 la Fiat T rattori acquisì dalla Fiat Auto lo stabilimento di Cento. La pro­duzione di trattori a ruote, che in preceden­za era suddivisa tra varie unità produttive in diverse parti d’Italia, fu concentrata nel­lo stabilimento di Modena, mentre a quella di trattori cingolati fu destinato lo stabili­mento di Cento72. Nello stabilimento di Modena fu attuata una importante ristrut­turazione degli impianti; venne inoltre am­pliata la gamma dei trattori prodotti, inclu­dendovi nuovi modelli di potenza più ele­vata, per i quali la crescita della domanda era particolarmente intensa.

Nella seconda metà degli anni settanta la Fiat intraprese una politica di espansione full-line nel settore delle macchine agricole, in un’ottica che tendeva a considerare il trat­

tore sempre più come una centrale di potenza alla quale collegare le varie macchine impie­gate nelle diverse fasi del ciclo produttivo agricolo: la lavorazione del terreno, la semina e la raccolta del prodotto. In questo quadro, la Fiat acquisì nel 1976 la ditta Gherardi di Jesi, che produceva aratri, erpici, seminatrici ed altri attrezzi per la lavorazione del terreno, nel 1977 la statunitense Hesston Corpora­tion, che costruiva macchine per la raccolta dei foraggi, nel 1980 la Laverda di Breganze, produttrice di mietitrebbie e, nel 1984, la francese Braud, che fabbricava macchine per la vendemmia. Nello stesso anno, le par­tecipazioni della Fiat nel settore delle mac­chine agricole furono raggruppate in una nuova holding, Fiat Agri, la cui capofila di­venne la Fiat Trattori.

Gli anni settanta furono un periodo di notevole espansione per la Fiat Trattori. La produzione salì da 235 trattori al giorno nel 1973 a 300 nel 1978; l’occupazione da 2.060 addetti nel 1971 a 2.550 nel 1979. Al­la fine del decennio la Fiat era divenuta il quinto produttore mondiale di trattori, con una quota di mercato del nove per cen­to, alle spalle delle multinazionali america­ne Massey Ferguson, Ford, International Harvester e John Deere, ed il primo in Eu­ropa con una quota di mercato del 13 per cento. Circa i due terzi della produzione erano destinati all’esportazione; la Fiat aveva, inoltre, mantenuto il proprio prima­to sul mercato italiano, con una quota oscillante intorno al 40 per cento.

Al momento della costituzione della Fiat Trattori spa, il reparto macchine utensili fu separato dalla fabbrica di trattori e costituito in unità produttiva autonoma, nella quale, accanto alla tradizionale produzione di mac-

70 Statistiche provinciali dei movimenti valutari inerenti le importazioni ed esportazioni, in CCIA Modena.71 Richard Locke, Sergio Negrelli, II caso Fiat Auto, in Marino Regini, C.F. Sabel (a cura di), Strategie di riaggiusta­mento industriale, Bologna, Il Mulino, 1989.72 Le informazioni sulle vicende della Fiat a Modena negli anni settanta sono state gentilmente fornite da Enrico Ame­rio, responsabile del personale di Fiat Geotech, nel corso di un’intervista effettuata il 27 settembre 1989.

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chine utensili individuali, venne avviata pure quella di linee transfer17’.

Alla fine degli anni settanta sia la Fiat Trattori che il Comau (Consorzio macchine utensili) erano imprese con un basso livello di integrazione verticale. La Fiat Trattori, ol­tre al montaggio, eseguiva al proprio interno soltanto le lavorazioni meccaniche sulle sca­tole cambio e sull’albero di trasmissione — lungo una linea transfer — e sul sollevatore idraulico sistemato nella parte posteriore del trattore — su macchine utensili indivi­duali — nonché una parte degli stampaggi. Le lavorazioni rimanenti erano affidate ad altre imprese del gruppo Fiat o a subfornitori esterni. Dall’esame dell’elenco ufficiale dei fornitori della Fiat Trattori del 1979 emerge che i fornitori esterni dell’impresa erano in tutto 49773 74. Benché l’impresa operasse a Mo­dena sin dal 1928, il maggior numero di for­nitori — 154, il 31 per cento del totale — era localizzato nella provincia di Torino. La provincia di Modena si collocava — con 67 fornitori, il 13,5 per cento del totale — al se­condo posto, alla pari con quella di Milano. Dei 67 fornitori localizzati in provincia di Modena, le imprese metalmeccaniche erano una cinquantina.

Una ricerca condotta di recente75 ha evi­denziato che in quel periodo — come del re­sto anche oggi — la Fiat Trattori assorbiva una quota elevata della produzione comples­siva dei subfornitori — quasi mai inferiore al 35-40 per cento, riusciva ad imporre loro sia il prezzo che le condizioni di pagamento e po­teva interrompere il rapporto di subfornitura in qualsiasi momento.

Accanto alle imprese, collegate da relazio­ni che avevano dato vita ad una struttura di

distretto e che erano numericamente predo­minanti sia per numero che per addetti occu­pati, conviveva, nello stesso settore e nella stessa ristretta area territoriale, un sistema produttivo diverso, quello della Fiat Tratto­ri, che distretto non era ed in cui i rapporti tra la grande impresa, che commissionava al­l’esterno determinate lavorazioni, e le piccole imprese, che le eseguivano, erano semmai ri­conducibili al modello del subfornitore di­pendente. In ogni caso, i rapporti tra i due si­stemi produttivi locali erano molto stretti, dato che i subfornitori della Fiat Trattori ri­correvano a loro volta al decentramento pro­duttivo, intrattenendo con i propri subforni­tori relazioni di tipo distrettuale. Allo stesso modo, pure di tipo distrettuale erano in gene­re le relazioni che le stesse imprese avevano con i committenti diversi dalla Fiat.

Alla fine degli anni settanta l’industria me­talmeccanica modenese aveva raggiunto un’articolazione produttiva assai elevata. Al­cune imprese producevano beni finali per il mercato nazionale ed internazionale: tratto­ri, motocoltivatori, pompe, macchine movi­mento terra, macchine per l’edilizia, pullman, automobili, macchine utensili, macchine per l’industria ceramica, macchine automatiche di dosatura, confezionamento e imballaggio, macchine per fonderia, macchine per l’indu­stria alimentare, automazioni e attrezzature per l’industria, elettrodomestici, serrature, termosifoni, caldaie, bilance, e cosi via. Un secondo gruppo di imprese produceva com­ponenti, come i motori elettrici, gli impianti oleodinamici, le marmitte, gli ingranaggi, i pezzi di ricambio per automobili e macchine agricole e così via. Vi erano poi le piccole im­prese artigiane che, su commessa, effettuava-

73 Nel 1977 gli stabilimenti Fiat specializzati nella costruzione di macchine utensili, tra i quali quello di Modena, furono riuniti in una nuova società, denominata Comau, con sede a Grugliasco.

Tale elenco, conservato presso il Dipartimento di economia politica dell’Università di Modena, include tutti i forni­tori e, quindi, non solo le imprese industriali, ma anche quelle commerciali, di installazione impianti e di servizi.

Barbara Melotti, Subfornitura dipendente in provincia di Modena. Un’indagine empirica sulle imprese che lavorano per la Fiat Trattori, tesi di laurea, Università di Modena, Facoltà di economia e commercio, anno accademico 1990-1991.

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no le lavorazioni più varie: tornitura, fresatu­ra, foratura, alesatura, rettifica, tranciatura, saldatura, stampaggi, trattamenti sui metalli. In quarto luogo si possono collocare le fon­derie. Quelle di dimensioni maggiori produ­cevano getti su serie lunghe per il mercato na­zionale e talvolta anche internazionale, men­tre le fonderie più piccole lavoravano su com­messa e su piccola serie per le altre imprese della provincia. Infine vi erano quelle impre­se che, benché appartenenti ad altri comparti merceologici, lavoravano per l’industria me­talmeccanica e formavano con essa un unico settore verticalmente integrato. Si trattava, in particolare, di imprese che producevano componenti elettronici, modelli in legno, tap­pezzeria per pullman e automobili, imballag­gi in plastica e in legno, o che effettuavano stampaggi ed altre lavorazioni su materie plastiche. La letteratura sui distretti indu­striali ha messo in evidenza come una delle ragioni del successo di questi sistemi produt­tivi vada ricercata nel particolare contesto sociale e istituzionale delle zone in cui essi si sono formati, che ha favorito la collaborazio­ne tra i gruppi sociali, disincentivando le im­prese dal praticare una concorrenza basata sulla riduzione dei prezzi e stimolando l’in­trapresa economica e il progresso tecnico76.

A Modena un tale contesto istituzionale si espresse nel tipo di relazioni industriali in­staurate negli anni settanta e nella politica economica condotta dagli enti locali a soste­gno dello sviluppo dell’economia locale; il sindacato dei metalmeccanici era molto for­

te77 e aveva una elevata capacità di mobilita­zione; tuttavia, nell’impostare le proprie azioni rivendicative non trascurò di assicura­re le condizioni per lo sviluppo produttivo delle imprese78.

E significativo osservare come questo tipo di relazioni industriali fosse radicalmente di­verso da quello prevalso negli anni cinquan­ta, caratterizzato da uno scontro frontale tra gli imprenditori e i lavoratori. Questo cambiamento fu probabilmente dovuto, da un lato, alla politica di collaborazione con­dotta dal Pei nei confronti dei “ceti medi pro­duttivi” , tra i quali rientrava certamente la maggioranza degli imprenditori metalmecca­nici modenesi79 e, dall’altro, all’atteggiamen­to aperto che la grande maggioranza degli operai metalmeccanici modenesi aveva nei confronti di un ceto imprenditoriale, anch’es- so di origine operaia, o comunque popolare, che aveva dimostrato notevoli capacità di ri­schiare in proprio, aveva a cuore lo sviluppo e l’ammodernamento delle proprie imprese e con il quale condivideva la medesima cultura del lavoro.

Riguardo all’azione degli enti locali, negli anni settanta il Comune di Modena si impegnò nello sviluppo di aree attrezzate per gli insedia­menti industriali, definendo strumenti di inter­vento diversi per le zone destinate alle medie e grandi imprese da un lato e per i “villaggi arti­giani” dall’altro. Per la gestione delle aree ri­servate agli insediamenti delle medie e grandi imprese — tali erano definite quelle che richie­devano lotti di più di 3.000 mq di superficie —

76 Si veda, ad esempio, C.F. Sabel , J. Zeitlin, Historical Alternatives to Mass Production. Markets and Technology in Nineteenth Century Industrialization, “Past and Present” , 1985, n. 108; Carlo Trigilia, Grandi partiti e piccole imprese, Bologna, Il Mulino, 1986; A. Bagnasco, La costruzione sociale del mercato, Bologna, Il Mulino, 1988 e G. Becattini, Riflessioni, cit.77 Di fronte ai 43.227 addetti all’industria metalmeccanica rilevati dal censimento industriale del 1981, alla fine dell’an­no precedente gli iscritti alla Firn erano 23.449, dei quali 17.997 alla Fiom, 2.883 alla Firn e 912 alla Uilm, mentre 1.657 lavoratori erano classificati come “senza scelta” ( Dati tesseramento, dattiloscritto, 1980, in CdL Modena).78 S. Brusco, The Emilian Model, cit. e M. Franchi, V. Rieser, Esperienza e cultura dei delegati, cit.79 Sulla politica di alleanza con i “ceti medi produttivi” condotta dal Pei, si veda Stephen Heilman, La strategia delle alleanze del Pei e la questione dei ceti medi, in Donald L. M. Blackmer, Sidney Tarrow, Il comuniSmo in Italia e in Fran­cia, Milano, Etas libri, 1976.

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fu istituito nel 1973 un organismo nuovo, il Consorzio per le aree produttive, che associò il Comune di Modena e dieci comuni viciniori. Su iniziativa del Consorzio furono create cin­que zone industriali, tre delle quali situate fuo­ri del comune capoluogo, al fine di favorire un riequilibrio degli insediamenti industriali a vantaggio dei comuni minori80.

La gestione delle aree destinate agli inse­diamenti artigianali fu, invece, lasciata, come prima, ai singoli comuni81. È significativo os­servare come l’atteggiamento collaborativo del sindacato e degli enti locali governati dai partiti di sinistra abbia riguardato non solo le imprese che avevano sviluppato le proprie relazioni in forma di distretto, ma an­che la Fiat Trattori e le imprese del suo siste­ma produttivo. Questa circostanza si spiega, probabilmente, con la convinzione che anche il successo di questo secondo gruppo di im­prese contribuiva ad accrescere la prosperità della comunità locale e a rafforzare il suo tes­suto economico e sociale. Si trattava di una linea perseguita nei fatti, che non fu però mai teorizzata esplicitamente e che non portò ad alcuna riconsiderazione, né a livello locale né, tantomeno, a livello nazionale, dell’anali­si tradizionale del maggiore partito della sini­stra italiana, il Pei, sul ruolo delle grandi im­prese nell’economia italiana e sull’atteggia­mento da tenere nei loro confronti.

I diffìcili anni ottanta

Gli anni ottanta hanno visto nei paesi indu­strializzati un’applicazione sempre più diffu­

sa delle tecnologie a base informatica e mi­croelettronica nei processi produttivi. Si trat­ta di un processo, ancora oggi in pieno svol­gimento, che sta trasformando radicalmente la fisionomia del settore secondario, tanto che, secondo alcuni studiosi, è possibile par­lare di una autentica seconda rivoluzione in­dustriale82.

In Italia questo decennio è stato caratteriz­zato innanzitutto da un recupero di efficienza e competitività da parte delle grandi imprese, dopo le difficoltà degli anni settanta83, reso possibile dall’attuazione di un profondo pro­cesso di ristrutturazione produttiva, il cui aspetto principale è stato costituito proprio dall’introduzione su vasta scala delle nuove tecnologie a base informatica e microelettro­nica al posto delle vecchie e rigide linee di produzione fordiste. In questo modo, le grandi imprese sono divenute più flessibili, realizzando, almeno in parte, uno dei vantag­gi che avevano maggiormente contribuito al successo dei distretti industriali negli anni settanta.

Le imprese metalmeccaniche modenesi hanno reagito alle sfide della seconda rivolu­zione industriale, della ritrovata competitivi­tà delle grandi imprese e della crescente glo­balizzazione dei mercati in maniera differen­ziata.

Una proporzione rilevante di imprese, ed in particolare quelle di dimensioni maggiori, ha effettuato investimenti cospicui per dotar­si delle nuove tecnologie informatiche e mi­croelettroniche84. Nella seconda metà del de­cennio l’uso di queste tecnologie si è diffuso anche tra le imprese di dimensione più picco-

80 A. Rinaldi, La sinistra, cit., p. 151.81 Tra il 1971 ed il 1985 il Comune di Modena creò cinque nuovi “villaggi artigiani” , su una superficie di 73 ettari, neiquali si insediarono 275 imprese (S. Brusco, E. Righi, Enti locali, politica per l ’industria consenso sociale, cit., p. 439). 8~ Giorgio Mori, Artigianato, manifattura, industria, in Roberto Finzi (a cura di), Percorsi di storia, Bologna, Zanichel­li, 1987, p. 30 e David F. Noble, La questione tecnologica, Bollati Boringhieri, Torino, 1993.83 V. Castronovo, Storia economica d'Italia, cit., pp. 513-4.

Marco E. L. Guidi, L'impresa modenese e il suo retroterra istituzionale dal dopoguerra agli anni ottanta: prime elabo­razioni dei risultati di un questionario, dattiloscritto, Modena, 1989, pp. 33-38 e Fiorenza Belussi, Alcune riflessioni sullo sviluppo industriale della provincia di Modena, dattiloscritto, Modena, 1989, pp. 94-107.

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la85. La maggior parte delle imprese ha regi­strato, soprattutto a partire dal 1984, un successo considerevole ed è riuscita a mante­nere — e in taluni casi persino a rafforzare— la propria posizione sul mercato. Alcune imprese, anche tra le più importanti, hanno invece scelto investimenti rivelatisi poi sba­gliati, per cui la loro posizione sul mercato si è indebolita.

Hanno registrato i tassi di crescita più ele­vati quelle imprese che sono riuscite a combi­nare l’introduzione delle tecnologie microelet­troniche nel processo produttivo — macchine utensili a controllo numerico, centri di lavoro, linee di automazione flessibile— con una qua­lificazione del prodotto — ottenuta il più delle volte inserendovi proprio dei componenti elet­tronici per la gestione di determinate funzioni— e una trasformazione della struttura orga­nizzativa in senso manageriale, avvalendosi anche a questo fine delle nuove tecnologie in­formatiche e microelettroniche per la gestione dei flussi informativi e il coordinamento delle diverse funzioni aziendali. Tuttavia alcune im­prese, soprattutto tra quelle di più piccole di­mensioni e dirette da imprenditori anziani, non si sono dotate di tecnologie a base mi­croelettronica e continuano ad utilizzare un macchinario antiquato. Sono queste le impre­se più deboli del settore e maggiormente espo­ste ai contraccolpi di una congiuntura negati­va, come si è verificato nel 1991 e nel 199 286.

Nel corso degli anni ottanta si è verificata

in Italia una forte ondata di acquisizioni e fu­sioni aziendali, che ha interessato pure l’Emi­lia Romagna e la provincia di M odena87. Nell’ambito di questo processo, alcune delle imprese più importanti dell’industria metal­meccanica modenese sono state rilevate da grandi imprese nazionali e multinazionali. Il numero maggiore di acquisizioni è stato però effettuato da imprese locali, che hanno as­sunto il controllo di altre imprese situate sia all’interno della provincia che al di fuori di essa, dandosi in tal modo una configurazione di gruppo. Si tratta di imprese che hanno per­seguito una strategia di crescita basata sul­l’assunzione del controllo dei fornitori più importanti, o di aziende specializzate in pro­duzioni complementari, al fine di acquisire nuove capacità tecniche e professionali, ga­rantirsi riguardo alla qualità dei componenti più importanti, conquistare nuove quote di mercato e presentarsi alla clientela con una gamma di prodotti e di servizi più ampia.

Si sono avuti anche numerosi casi in cui due imprese del distretto si sono scambiate una quota di azioni, o un’impresa ha acquisi­to una partecipazione di minoranza in un’al­tra, o più imprese si sono accordate per par­tecipare in comune a gare o ad aste di governi stranieri o per condurre una ricerca in comu­ne. Il moltiplicarsi di iniziative di questo tipo va probabilmente visto come il tentativo di costruire nuovi rapporti tra imprese, anche formalizzati, che consentano ad esse di con-

85 Giuseppe Fiorani, Maura Franchi, Vittorio Rieser, Piccole imprese crescono. 1985-1992. Una ricerca empirica sulle piccole imprese metalmeccaniche nella provincia di Modena, dattiloscritto, Modena, 1993.86 Al momento attuale non è possibile dire se i problemi incontrati dalle imprese modenesi nell’introduzione delle tec­nologie a base microelettronica siano maggiori, minori o equiparabili a quelli di altre aree a specializzazione metalmec­canica. Utili informazioni intorno all’introduzione di questo tipo di tecnologie nell’industria metalmeccanica della vici­na provincia di Bologna sono contenute in Vittorio Capecchi, Formazione professionale "flessibile” e imprenditorialità, dattiloscritto, 1991; per il Baden-Württemberg si veda C. F. Sabel et al., Regional prosperities compared, cit. Per una comparazione intorno ad alcuni problemi posti dall’introduzione delle tecnologie a base microelettronica nel Regno Unito e nella Rft, si veda Adrian Campbell, Wendy Currie, Malcom Warner, Innovation, Skills and Training: Micro- electronics and Manpower in thè United Kingdom and West Germany, in P. Hirst, J. Zeitlin (a cura di), Reversing Indu­striai Decline?, cit.87 Per un’analisi dettagliata del processo di acquisizioni in Emilia Romagna, si veda Patrizio Bianchi, Giuseppina Gual­tieri, I distretti industriali regionali in una fase di internazionalizzazione dell'economia; S. Brusco, M. Russo, Le peculia­rità del modello emiliano, entrambi in P. P. D’Attorre, V. Zamagni (a cura di), Distretti imprese classe operaia, cit.

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servare la propria autonomia e allo stesso tempo di operare su una scala più grande. Negli anni ottanta importanti trasformazioni hanno investito pure la maggiore impresa del settore, la Fiat Trattori. Questo decennio è stato contrassegnato da un forte calo della domanda mondiale di trattori, che nel 1988 era scesa a circa il 70 per cento del livello di dieci anni prima88.

Di fronte al calo della domanda, la Fiat Trattori reagì intraprendendo un impegnati­vo programma di ristrutturazione produtti­va, che nello stabilimento di Modena portò all’introduzione di macchine utensili a con­trollo numerico per le lavorazioni meccani­che sul sistema idraulico, di un sistema di automazione flessibile, al posto della vecchia linea di macchine transfer per le lavorazioni sulle scatole cambio e gli alberi di trasmissio­ne, e di un sistema robotico per la verniciatu­ra dei trattori.

La gamma dei trattori venne ampliata e ri­progettata sulla base dei nuovi schemi modu­lari. Un’importante innovazione di prodotto fu l’introduzione nel trattore di componenti elettronici per l’esecuzione di alcune opera­zioni prima governate da sistemi meccanici o elettromeccanici: l’accensione e l’alimenta­zione del motore, il controllo della velocità di scorrimento delle ruote e la regolazione del­l’altezza del sollevatore idraulico dal suolo89. Queste iniziative consentirono alla Fiat di in­crementare la propria quota sui mercati ita­liano ed europeo, ma ciò avvenne in una fase di contrazione della domanda, cosicché il vo­lume complessivo delle vendite e della produ­zione della Fiat Trattori registrò ugualmente una diminuzione90.

Di fronte a questa situazione, nel 1987 la Fiat ha accorpato le divisioni Fiat Agri e Fiat Allis — la società che gestiva le parte­cipazioni della Fiat nel settore delle macchi­ne movimento terra — in una nuova hol­ding, denominata Fiat Geotech, che ha riu­nito le attività di servizio e la gestione degli acquisti delle due divisioni. E stato cosi creato un unico parco fornitori, che serve sia Fiat Agri che Fiat Allis. Le due divisioni hanno invece mantenuto la loro autonomia riguardo alle funzioni di progettazione, pro­duzione e commercializzazione dei rispettivi prodotti.

Nel 1990 la Fiat Geotech ha acquisito il controllo della Ford New Holland, la divisio­ne trattori e macchine movimento terra della casa americana, rafforzando in tal modo la propria leadership nel mercato europeo dei trattori e attestandosi al secondo posto nella graduatoria mondiale alle spalle della Mas- sey Ferguson91.

Conclusioni

Dalle considerazioni svolte appare evidente che il caso della metalmeccanica modenese non si conforma alla tesi di Bagnasco secon­do cui l’industrializzazione della “ terza Ita­lia” sarebbe avvenuta in attività tradizionali e interstiziali.

Si è visto, innanzitutto, che lo sviluppo del settore è stato dovuto in larga misura ad imprese specializzate in attività che non possono essere definite tradizionali, ma che erano nuove per l’intera Italia e che, si­no ad allora, non avevano trovato spazio

8 E. Amerio, testimonianza, cit.89 The Corporate Intelligence Group, “Construction, Earthmoving, Mining & Industrial Equipment in Europe”, Ja­nuary 1990, p. 9, dattiloscritto, in Archivio Fiom di Modena.90 Tra il 1980 ed il 1986 la quota della Fiat Trattori sul mercato europeo ed italiano aumentò dal 13,3 e dal 37 per cento al 17,9 e 44,3 per cento rispettivamente, mentre la produzione diminuì da 59.400 a 48.121 trattori ( Fiat Trattori, Re­lazioni ai bilanci annuali; in Archivio della cancelleria del Tribunale di Modena).91 “Il Sole 24 Ore” , 1° agosto 1990.

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neppure nel triangolo industriale. Anche la tesi di uno sviluppo “interstiziale” non pare accettabile. Come si è detto, l’idea di “inter­stizi” è riferita alla produzione di beni per i quali il volume della domanda è basso, nel cui processo produttivo non esistono econo­mie di scala rilevanti e che vengono, pertan­to, fabbricati utilizzando tecnologie relati­vamente arretrate. Molte imprese metalmec­caniche modenesi, invece, pur lavorando su serie corte, si sono dotate di macchinari tec­nologicamente avanzati, hanno continua- mente perfezionato i propri prodotti ren­dendoli sempre più sofisticati e hanno pure acquisito un notevole potere di mercato. E questo il caso, ad esempio, di molte delle imprese che producono macchine agricole o macchinari e attrezzature per altri settori industriali, di quelle che costruiscono auto­mobili, o di una parte delle imprese che fab­bricano sistemi oleodinamici.

Il caso della metalmeccanica modenese si discosta pure dalla tesi di Paci92, secondo il quale l’origine dell’industrializzazione della “ terza Italia” andrebbe ravvisata nelle pre­sunte capacità imprenditoriali sviluppate dai mezzadri nella conduzione dei poderi ad essi allocati, che avrebbero consentito a molti di essi, di fronte alla forte crescita della do­

manda di beni manufatti negli anni cinquan­ta e sessanta, di trasformarsi in piccoli im­prenditori industriali. L’imprenditoria me­talmeccanica modenese, invece, ha un’estra­zione fondamentalmente urbano-operaia, e non contadina o mezzadrile. Infatti, uno stu­dio condotto alcuni anni fa ha mostrato non solo che la grande maggioranza degli impren­ditori del settore ha avuto un’esperienza di lavoro dipendente, come tecnico o operaio, prima di intraprendere l’attività in proprio, ma anche che assai pochi sono gli imprendi­tori provenienti da famiglie contadine, il cui padre era coltivatore diretto, mezzadro o bracciante93.

Il rapporto tra mezzadria e formazione di capacità imprenditoriali non è, quindi, gioca­to su un’esperienza personale, ma appare, co­me si vedrà meglio tra breve, più complesso e indiretto. Non pare, infine, che sullo sviluppo della metalmeccanica modenese abbiano in­fluito in maniera rilevante l’eredità o le con­nessioni con le attività manifatturiere dell’e­poca preindustriale94. Tali attività, ed in parti­colare l’arte della seta, erano state prospere a Modena nel Cinquecento, ma a partire dall’i­nizio del secolo successivo avevano incomin­ciato ad incontrare delle difficoltà crescenti nella collocazione dei propri prodotti, soprat-

92 Massimo Paci, La struttura sociale italiana, Bologna, Il Mulino, 1982.93 V. Castronovo, Aspetti e vicende economiche, cit., p. 29.94 II tema della continuità tra lo sviluppo manifatturiero preindustriale e quello dell’industria moderna è stato portato al centro dell’attenzione dal noto articolo di Franklin F. Mendels, Proto-industrialization: the First Phase o f the Indu­strialization Process, “Journal of Economic History”, 1972, n. 1. Tra i contributi più significativi apparsi in Italia sul tema della protoindustrializzazione, si possono menzionare Peter Kriedte, Hans Medick, Jürgen Schlumbohm, L ’indu­strializzazione prima dell’industrializzazione, Bologna, il Mulino, 1984 e i numeri 52 e 59 della rivista “Quaderni storici” . Considerazioni critiche sulla teoria della protoindustrializzazione sono esposte in Pierre Jeannin, La protoindustrialisa- tion: developpement ou impasse?, “Annales E.S.C.” , 1980, n. 1; G. Mori, Introduzione, in Id. (a cura di), L ’industrializ­zazione in Italia, Bologna, Il Mulino, 1981 (prima edizione 1977); Maxine Berg, Pat Hudson, Michael Sonenscher, In­troduction, in M. Berg, P. Hudson, M. Sonenscher (a cura di), Manufacture in town and country before the factory, Cambridge, Cup, 1983; D. C. Coleman, Proto-Industrialization: a Concept Too Many, “Economic History Review”, 1983, n. 3; G. Mori, Il processo di industrializzazione in sé e l ’Italia; Peter Mathias, La rivoluzione industriale: temi in discussione, entrambi in Luciano Segreto (a cura di), La rivoluzione industriale tra il Settecento e l ’Ottocento, Milano, Mondadori, 1984; Leslie A. Clarkson, Proto-Industrialization: the First Phase o f Industrialization?, Basingstoke, Mac­Millan, 1985 e Sidney Pollard, La conquista pacifica. L ’industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970, Bologna, Il Mu­lino, 1989, pp. 106-126. La tesi della continuità tra lo sviluppo protoindustriale e quello dei moderni distretti industriali italiani è sostenuta in A. Bagnasco, La costruzione, cit. e Alain Dewerpe, Verso l ’Italia industriale, in Ruggiero Romano (a cura di), Storia dell’economia italiana, Einaudi, Torino, 1991, voi. Ili, pp. 82-7.

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tutto sui mercati esteri, sino a precipitare, nella seconda metà del Settecento, in una crisi gravissima, dalla quale non seppero ripren­dersi e che ne ridusse notevolmente il ruolo neH’economia locale. Il settore manifatturiero rimase assai depresso per tutto l’Ottocento e registrò un apprezzabile progresso solo a par­tire dall’inizio del Novecento95.

In ogni caso, le attività manifatturiere preindustriali, al pari delle esperienze accu­mulate dai mezzadri nella conduzione dei po­deri, non potevano consentire la circolazione nel tessuto sociale di quell’insieme di cono­scenze relative alle tecnologie meccaniche sviluppatesi nell’epoca successiva alla rivolu­zione industriale96. La sedimentazione di tali conoscenze è stata una delle condizioni fon­damentali che hanno reso possibile lo svilup­po dell’industria metalmeccanica a Modena negli anni del secondo dopoguerra97, ma l’ac­quisizione e la diffusione delle competenze specifiche sono più recenti e sono dovute, so­prattutto, alle occasioni di lavoro offerte dal­le prime grandi e medie fabbriche, insediatesi nella provincia durante il fascismo, e all’ope­ra delle scuole tecniche e professionali del ca­poluogo e degli altri maggiori centri della provincia.

La sedimentazione di conoscenze e di com­petenze relative alle tecnologie meccaniche non è però sufficiente a spiegare un processo di sviluppo come quello della metalmeccani­ca modenese, basato, come si è visto, sull’im­prenditoria diffusa. A questo riguardo un ruolo importante è stato svolto dal sistema di valori diffuso nella società locale, estrema- mente favorevole alla mobilità sociale e al- l’intrapresa economica. Il passaggio dalla condizione di operaio o di tecnico a quella di imprenditore è stato a Modena un percor­so di emancipazione per migliaia di persone e ha portato alla formazione di un ceto im­prenditoriale nuovo, di estrazione popolare, che è divenuto la nuova classe dirigente loca­le, al posto dei vecchi proprietari terrieri e de­gli industriali affermatisi durante il fascismo, travolti i primi dal collasso della mezzadria e i secondi dalla crisi delle aziende che avevano fondato.

Il radicarsi nel tessuto sociale modenese di un’attitudine positiva così diffusa nei con­fronti della mobilità sociale è senza dubbio legato ai caratteri del sistema mezzadrile, la forma di conduzione dominante nelle campa­gne di questa parte della penisola dal Basso Medioevo sino agli anni sessanta del Nove-

95 Sul declino delle manifatture modenesi tra la metà del Settecento e la metà del secolo successivo, si veda Luigi Sor- mani Moretti, Della industria agricola, manifatturiera e commerciale nel Ducato di Modena in ordine ad un istituto di cre­dito, Milano, Guglielmini, 1858; Odoardo Rombaldi, Contributo alla conoscenza della storia economica dei ducati Estensi dal 1771 all'età napoleonica, Parma, La Nazionale Tipografica Editrice, 1964 e Giorgio Boccolari, Aspetti dell’industria e del commercio a Modena dall'età napoleonica al 1859, in Aspetti e problemi del Risorgimento a Modena, Modena, Stem Mucchi, 1963. Sulla debolezza del settore industriale a Modena tra l’Unità nazionale e la fine dell’Ottocento, si veda Gianni Azzi, Modena 1859-1898. Condizioni economiche, sociali, politiche, Modena, Stem Mucchi, 1970 e G. Muzzioli, Modena, cit.96 Come è noto, le innovazioni introdotte nella siderurgia a partire dalla rivoluzione industriale hanno reso possibile la produzione in grandi quantità e a costi decrescenti dapprima del ferro e poi dell’acciaio, che poterono cosi essere im­piegati su vasta scala nei processi produttivi. Contemporaneamente, incominciarono ad essere costruite macchine uten­sili sempre più perfezionate, in grado di foggiare questi metalli. La letteratura sulla rivoluzione industriale nel settore siderurgico e sulle sue conseguenze è sterminata. Qui si possono menzionare Paul Mantoux, La rivoluzione industriale: saggio sulle origini della grande industria moderna in Inghilterra, Roma, Editori Riuniti, 1991 (prima edizione italiana 1971; ed. or. 1906), pp. 334-403; David S. Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell'Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Torino, Einaudi, 1978, pp. 118-122 e 333-351 (ed. or. 1969) e Phyllis Deane, La prima rivoluzione industriale, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 133-51 (ed. or. 1967).97 La tesi che la condizione fondamentale dello sviluppo economico risiede nella acquisizione di conoscenze e compe­tenze piuttosto che nella dotazione iniziale dei fattori produttivi è sostenuta in S. Brusco, Sergio Paba, Connessioni, com­petenze e livello tecnico nell’industria della Sardegna, Modena, Dipartimento di Economia politica, 1990.

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cento. Infatti, se il patto di mezzadria era for­malmente identico per tutti i coloni, la condi­zione reale di un mezzadro era molto diversa a seconda che egli lavorasse per un concedente professionale, che curava in prima persona la direzione dell’azienda agraria, o per un pro­prietario assenteista. Nel primo caso la figura del mezzadro non era dissimile da quella di un lavoratore subordinato, mentre nel secondo era riconducibile a quella di un lavoratore in­dipendente, dal momento che era lui, di fronte all’assenza di un intervento diretto da parte del concedente, a prendere le decisioni fonda- mentali riguardo alla conduzione del podere. Per i frequenti trasferimenti da un podere al­l’altro, la condizione di lavoratore indipen­dente, certamente preferibile all’altra, era con­siderata raggiungibile da molti mezzadri. Nel­la mezzadria, quindi, esisteva una forte mobi­lità sociale di fatto, considerata già allora co­me una componente fisiologica del funziona­mento dell’economia e della società locale. Questo aspetto si è mantenuto, per molti versi, anche nelle fasi successive dello sviluppo eco- nomico-sociale e ne è anzi stato, come si è vi-

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sto, uno dei tratti caratteristici .Un impulso ulteriore nella stessa direzione

venne dalle sollecitazioni prodotte nel tessuto sociale modenese dall’esperienza della lotta di liberazione dal nazismo e dal fascismo. L’adesione a questo movimento fu contrasse­gnata a Modena da un’estensione capillare", tale da promuovere una diffusa aspirazione al progresso e al miglioramento delle condi­zioni economiche dei singoli e della collettivi­tà, che favorì il dispiegarsi di iniziative multi­formi ed ingegnose98 99 100. Alla guerra di libera­zione fece seguito anche a Modena, come

nei maggiori centri industriali del paese, la costituzione, nelle maggiori fabbriche, dei consigli di gestione, organismi nei quali una componente eletta dai lavoratori — e che ri­spondeva di fronte ad essi del proprio opera­to — era chiamata ad affrontare molti dei problemi che in un’impresa normale sono di pertinenza della direzione aziendale: cosa produrre, come reperire le materie prime, co­me organizzare la produzione, come e a chi vendere. Molti operai metalmeccanici ebbero l’opportunità di vedere dal di dentro come si gestisce un’impresa, potendo poi mettere a frutto le conoscenze così accumulate101.

Si è visto, da ultimo, come uno dei tratti più rilevanti e caratteristici dell’industria me­talmeccanica modenese sia la notevole arti- colazione del suo tessuto produttivo. Per comprendere le ragioni dell’esistenza di una così vasta gamma di attività all’interno del settore, occorre tenere presenti due fattori fondamentali. Il primo è che l’evoluzione del­la struttura del settore è avvenuta, in buona approssimazione, secondo lo schema delinea­to da George J. Stigler in un suo noto artico­lo102. A suo avviso le industrie giovani hanno spesso un elevato livello di integrazione verti­cale: esse necessitano di nuovi tipi di materia­li e devono il più delle volte fabbricarseli in proprio; sono tenute a risolvere problemi tec­nici concernenti l’impiego dei loro prodotti e non possono aspettarsi che a farlo siano i po­tenziali acquirenti; devono infine trovare i clienti per i propri prodotti, senza che esista­no dei venditori specializzati in grado di assu­mersi questo compito. Le industrie giovani spesso progettano e talvolta anche fabbrica­no le attrezzature produttive di cui abbiso-

98 Su questo punto, si veda S. Brusco, Small Firms, cit.99 Sulla lotta di liberazione nel Modenese, si veda Luciano Casali, Storia della Resistenza a Modena: il rifiuto del fasci­smo, voi. I, Modena, Anpi, 1980.100 G. Muzzioli, Modena, cit., p. 324.101 Sui consigli di gestione in Italia, si veda Sergio Turone, Storia del sindacato in Italia dal 1943 al crollo del comuniSmo, Roma-Bari, Laterza, 1992, e per Modena, G. Solinas, Competenze, grandi imprese e distretti industriali, cit., p. 87.102 George J. Stigler, The Division o f Labor is Limited by the Extent o f the Market, “Journal of Political Economy”, 1951, n. 3.

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gnano. Tuttavia, man mano che cresce e si sviluppa, un’industria tende a ridurre il pro­prio grado di integrazione verticale, dato che il suo mercato, ad un certo punto, rag­giunge una dimensione tale da consentire re ­sistenza di imprese specializzate nella esecu­zione di ognuna delle fasi del processo pro­duttivo. È di questo tipo l’evoluzione della struttura industriale che si è realizzata a Mo­dena. Si consideri, ad esempio, il caso di uno dei comparti presenti da più tempo, quello delle macchine agricole. All’inizio, negli anni trenta, le imprese erano poche e non avevano una precisa specializzazione produttiva. Es­se, come si è visto, costruivano macchine di ogni tipo, dagli aratri, agli erpici e alle pompe sino ai trattori e alle trebbiatrici e svolgevano al proprio interno gran parte delle fasi del processo produttivo realizzando un elevato livello di integrazione sia orizzontale che ver­ticale. E non poteva, d’altronde, essere altri­menti, dal momento che le dimensioni del mercato erano ancora troppo limitate e nel tessuto produttivo locale non erano ancora diffuse competenze professionali tali da con­sentire 1’esistenza di imprese specializzate. Negli anni del secondo dopoguerra si formò un gran numero di nuove imprese, ciascuna specializzata in un particolare tipo di produ­zione (motocoltivatori, pompe per irrigazio­ne, pompe per irrorazione, macchine spandi­concime, pezzi di ricambio). Più o meno nello stesso periodo, le vecchie imprese, che aveva­no prosperato durante il fascismo, entrarono in crisi. Negli anni cinquanta dunque scom­parve l’integrazione orizzontale, mentre ri­mase l’integrazione verticale: le nuove impre­

se, infatti, pur essendosi specializzate nella produzione di un solo tipo di macchine, ese­guivano al proprio interno gran parte delle fasi del ciclo produttivo. Tra la seconda metà degli anni sessanta e l’inizio del decennio suc­cessivo si ebbe la nascita di nuove imprese specializzate nella fabbricazione di parti e componenti di prodotti finiti e nell’esecuzio­ne di lavorazioni meccaniche e di carpenteria. Negli anni ottanta si sono create nuove ge­rarchie e forme di compartecipazione e coo­perazione tra le imprese del settore. Le unità produttive hanno però continuato general­mente a rimanere di piccole dimensioni e ad essere molto specializzate.

Il secondo fattore si potrebbe definire con Nathan Rosenberg “convergenza tecnologi­ca” 103. Lo sviluppo della tecnologia meccani­ca dopo la rivoluzione industriale ha reso possibile produrre una quantità crescente di merci diverse utilizzando processi produttivi sostanzialmente simili. Le fasi di cui si com­pone il suo processo produttivo di qualunque bene sono più o meno sempre le stesse: ci vo­gliono i laminati o i profilati d’acciaio o di al­luminio, il lavoro di fonderia per la prepara­zione dei semilavorati, le lavorazioni mecca­niche che conferiscono ai vari pezzi la loro forma definitiva ed infine il montaggio e la verniciatura finali. Analoghi sono dunque i problemi da risolvere e il tipo di lavorazione e da ciò deriva un’articolazione produttiva tanto elevata da costituire una delle ragioni fondamentali della vitalità e della flessibilità dell’industria metalmeccanica modenese.

Alberto Rinaldi

103 Nathan Rosenberg, II cambiamento tecnologico nell'industria delle macchine utensili (1840-1910), in Id. (a cura di), Le vie della tecnologia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1987.

Alberto Rinaldi si è laureato in Economia e Commercio nel 1989 presso l’Università di Modena. Nel 1994 ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Storia economia e sociale presso l’Università Bocconi di Milano. Attualmente è borsista postdottorato in Storia economica presso la facoltà di Economia di Modena. E autore di vari contributi e saggi e del volume La Padania tra arretratezza e modernizzazione. Le campagne modenesi dalla fine del Settecento all’Unità nazionale, Bologna, Pitagora, 1995.