Pensiero e azione di Parri. 1915-1943 · 2019-03-05 · Ricordo di Ferruccio Porri Pensiero e...

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Ricordo di Ferruccio Porri Pensiero e azione di Parri. 1915-1943 di Guido Quazza Uno studio sull’evoluzione delle idee di Ferruc- cio Parri in connessione con la sua opera di militante non è stato ancora fatto. È fonda- mentale, tuttavia, per la documentazione di- sponibile, il grosso volume di Scritti 1915- 1975 Ad esso è d’obbligo fare riferimento, e da esso sono tratte per lo più le citazioni fatte in questo studio (di esse non darò la collocazione né i dati filologico-testuali). Mi pare, inoltre, opportuno ricordare che, per un uomo come Parri così parco e si può ben dire pudico nei ricordi autobiografici, poco di più che dagli scritti contenuti nel volume ricordato sarà pos- sibile apprendere in futuro. Lettere di amici, come Carlo Rosselli o Ernesto Rossi, testimo- nianze per altro di troppo posteriori per essere compiutamente utilizzabili, non l’archivio pri- vato, presso che inesistente per gli anni dei quali qui si parla e per altro non copioso. Da queste considerazioni sulle “fonti” è nata la decisione di tentare un’analisi del pensiero di Parri dall’interno delle poche cose a lui sicura- mente attribuibili. Da queste si può forse pro- porre una suddivisione della vita di Parri dal 1915 al 1943, collocata nella storia generale, la quale individui tre fasi: la prima, dal 1915 al 1918; la seconda, dal 1919 al 1924; la terza, dal 1924 al 1943. Il criterio è quello dello sviluppo del suo pensiero e della sua azione quale nasce e si snoda dall’esperienza quotidiana di uomo a confronto con altri uomini, prima di fronte e dentro la guerra, poi di fronte e dentro l’eredità della guerra nel combattentismo, infine di fron- te e dentro la crisi e la vittoria definitiva del fascismo nel regime. La pianta “uomo” nasce in Piemonte, a Pinero- lo, allo sbocco delle valli valdesi, e sembra crescere e configurarsi nell’atmosfera di fierezza e di capacità di ribellione e insieme di durata propria della minoranza religiosa che domina la zona, anche se Parri non ne discende. L’“e- ducazione familiare” è per un verso discipli- narmente rigorosa, per l’altro affettuosamente lieta, e prodiga di messaggi etici e culturali. Disciplinarmente rigorosa, come quella che scende per “rami” nati e sviluppati in una stir- pe, originaria del Montefeltrino, allenatasi nel duro lavoro dei carbonai, e come quella degli alpini, della quale Parri scrive, a quasi ottanta- cinque anni, in pagine stupende sulla “prova” di guerra vissuta sul trincerone del Merzli: “Mi era dispiaciuto non poter arruolarmi con gli alpini. A Pinerolo, dove io son nato, erano di casa. Quando scendevano giù dalla caserma sotto San Maurizio, a ranghi serrati, il rombo Si tratta del testo della relazione tenuta al convegno su “Ferruccio Parri: sessant’anni di storia italiana”, promosso dalla Sinistra indipendente, dal Senato della Repubblica e dal Movimento Gaetano Salvemini a Roma nei giorni 11 e 12 maggio 1982. 1 F. Parri. Scritti 1915-1975. Milano, Feltrinelli, 1976, edito nella collana dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia a cura di E. Collotti, G. Rochat, G. Solaro Pelazza e P. Speziale. “Italia contemporanea”, dicembre 1982, fase. 149

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R icordo d i Ferruccio Porri

Pensiero e azione di Parri. 1915-1943di G u ido Q uazza

Uno studio sull’evoluzione delle idee di Ferruc­cio Parri in connessione con la sua opera di militante non è stato ancora fatto. È fonda- mentale, tuttavia, per la documentazione di­sponibile, il grosso volume di S cr it ti 1915- 1 9 7 5 Ad esso è d’obbligo fare riferimento, e da esso sono tratte per lo più le citazioni fatte in questo studio (di esse non darò la collocazione né i dati filologico-testuali). Mi pare, inoltre, opportuno ricordare che, per un uomo come Parri così parco e si può ben dire pudico nei ricordi autobiografici, poco di più che dagli scritti contenuti nel volume ricordato sarà pos­sibile apprendere in futuro. Lettere di amici, come Carlo Rosselli o Ernesto Rossi, testimo­nianze per altro di troppo posteriori per essere compiutamente utilizzabili, non l’archivio pri­vato, presso che inesistente per gli anni dei quali qui si parla e per altro non copioso.

Da queste considerazioni sulle “fonti” è nata la decisione di tentare un’analisi del pensiero di Parri dall’interno delle poche cose a lui sicura­mente attribuibili. D a queste si può forse pro­porre una suddivisione della vita di Parri dal 1915 al 1943, collocata nella storia generale, la quale individui tre fasi: la prima, dal 1915 al 1918; la seconda, dal 1919 al 1924; la terza, dal 1924 al 1943.

Il criterio è quello dello sviluppo del suo pensiero e della sua azione quale nasce e si snoda dall’esperienza quotidiana di uom o a confronto con altri uomini, prima di fronte e dentro la guerra, poi di fronte e dentro l’eredità della guerra nel combattentismo, infine di fron­te e dentro la crisi e la vittoria definitiva del fascismo nel regime.La pianta “uom o” nasce in Piemonte, a Pinero- lo, allo sbocco delle valli valdesi, e sembra crescere e configurarsi nell’atmosfera di fierezza e di capacità di ribellione e insieme di durata propria della minoranza religiosa che domina la zona, anche se Parri non ne discende. L’“e- ducazione familiare” è per un verso discipli­narmente rigorosa, per l’altro affettuosamente lieta, e prodiga di messaggi etici e culturali. Disciplinarmente rigorosa, come quella che scende per “ram i” nati e sviluppati in una stir­pe, originaria del Montefeltrino, allenatasi nel duro lavoro dei carbonai, e come quella degli alpini, della quale Parri scrive, a quasi ottanta- cinque anni, in pagine stupende sulla “prova” di guerra vissuta sul trincerone del Merzli: “Mi era dispiaciuto non poter arruolarmi con gli alpini. A Pinerolo, dove io son nato, erano di casa. Quando scendevano giù dalla caserma sotto San Maurizio, a ranghi serrati, il rombo

Si tratta del testo della relazione tenuta al convegno su “Ferruccio Parri: sessant’anni di storia italiana”, promosso dalla Sinistra indipendente, dal Senato della Repubblica e dal Movimento Gaetano Salvemini a Roma nei giorni 11 e 12 maggio 1982.1 F. Parri. Scritti 1915-1975. Milano, Feltrinelli, 1976, edito nella collana dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia a cura di E. Collotti, G. Rochat, G. Solaro Pelazza e P. Speziale.

“Italia contemporanea”, dicembre 1982, fase. 149

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cadenzato degli scarponi chiodati dava l’im­pressione di una forza sicura di sé e disci­plinata”.

Educazione lieta, dicevo, come il sole che con la vista del Monviso invadeva la stanza nei giorni gelidi dell’inverno, come i cavalli che traversavano le vie di Pinerolo per andare al maneggio. Immagini di forza piena, di un Pie­monte guerriero e m ontanaro m a fiducioso nell’avvenire, che gli suggerirà, col santo della cattedrale natia, il più famoso dei suoi nomi di battaglia, Maurizio.

Educazione, insieme, affettuosamente pro­diga di messaggi etici e culturali. Soprattutto del padre, mazziniano, amico del repubblicano Alberto Mario, e di quell’eccezionale perso­naggio ch’era stata Jessie White M ario,2 e futu­ro autore di un’operetta su II p e n s ie ro so c ia le e d e c o n o m ic o d i M a zzin i, finita di scrivere a Ge­nova nel giugno 1941 e edita a Torino dall’Im­pronta nel 1942. Un padre severo ma anche amoroso, certamente assai presente nella co­struzione d’un uom o la cui stoffa eccezionale di membro della “generazione della m orte” Piero Gobetti coglierà con sicurezza, segnalandolo a Bauer3 e di “eroe mazziniano”, secondo il ri­tratto che Carlo Rosselli ne dà narrando nel 1931 la propria fuga da Lipari4 e che merita qui ricordare:

“Guardo Pani. Come il suo viso fino, palli­do, incorniciato da una barba di venti giorni, spira nobiltà. P an i è la mia seconda coscienza, il mio fratello maggiore. Se la prigione non mi avesse dato altro, la sua malinconica amicizia mi basterebbe. Questi uomini alti e puri sono

tristi, terribilmente tristi e solitari. Scherzano, ridono, am ano come tutti gli altri. Ma c’è nel fondo del loro essere una tragica disperazione, una specie di disperazione cosmica. La vita è per loro dovere. Fino alla conoscenza di Parri, l’eroe mazziniano mi era parso astratto e retori­co. Ora me lo vedo steso vicino, con tutto il dolore del mondo ma anche tu tta la morale energia del mondo, incisa sul volto”.

Non meraviglia dunque, di là dalla specifica eccezionalità della persona, trovare già nell’a­dolescente figlio di Fedele gusto per la milizia delle armi sentita come tempratrice del caratte­re e senso rigido del dovere: un gusto per il “mestiere” di soldato che era anche una passio­ne dei fratelli, entrambi combattenti, e il più anziano, Walter, valoroso generale di carriera oltre che chimico eccezionale.5 Neppure mera­viglia la cultura larga e raffinata, con un p e n ­epiani spiccatissimo per la storia, storia degli uomini immersa nella storia dell’economia e della società, come nella tesi di laurea discussa con Pietro Fedele, sulfeconomia piemontese nel Sei-Settecento, e coronata dal massimo dei voti il 13 novembre 1913 presso la facoltà di Lettere dell’Università di Torino.

Allievo ufficiale in fanteria presso il 90° reg­gimento a Genova dal I gennaio al 31 dicembre 1913, sottotenente presso il 42° reggimento dal 15 marzo al 15 novembre 1914, viene gettato nel pieno della guerra, in trincea, pochi giorni dopo il richiamo, avvenuto il 6 maggio 1915 (e starà in divisa fino al 2 giugno 1919). Suo bagaglio, una viva simpatia per la “Voce” di Prezzolini e per 1’“ Unità” di Salvemini quali

2 Alcune lettere e biglietti dell’uno e dell’altra sono conservati presso l’archivio deH’Insml in fotocopia, e altri, ivi attestano la fede repubblicana di Fedele Parri e rapidi ma interessanti rapporti con Aurelio Saffi. Ringrazio Giorgio Parri di avermeli fatti conoscere.3 Ce lo attesta Bauer stesso nella testimonianza scritta resa al Convegno su Ferruccio Parri, sessantanni di storia italiana citato sopra. Parri stesso ricorda (in una testimonianza orale resa a Roma il 15 giugno 1973 e ora conservata nell’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, a Torino, Video 25, F. 19, S. 25) di aver conosciuto Gobetti prima attraverso “Energie nuove” e “La rivoluzione liberale” e solo in un secondo momento di persona; di avere avuto divergenze di opinione sui tentativi di evitare lo slittamento a destra del movimento dei combattenti, tentativi che Gobetti non riteneva destinati a successo; di avere criticato la posizione presa da Gobetti con la sua notissima lettera contro Delcroix.4 Cfr. Carlo Rosselli, Socialismo liberale, a cura di Aldo Garosci, Torino, Einaudi, 1973, pp. 512-513.5 Ciò risulta da una preziosa testimonianza che Giorgio Parri ebbe la cortesia di darmi, in una conversazione ricca di elementi storicamente interessanti.

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riviste critiche verso il giolittismo maneggione e corruttore, verso il protezionismo considerato fonte nefasta d’un quotidiano compromesso mercantile fra potere politico e potere econo­mico, verso il socialismo visto come macchina antiliberale che con l’uso demagogico del collet­tivo addorm enta il senso di responsabilità del singolo.

Il primo documento scritto che conosciamo, la lettera a Prezzolini datata 28 settembre 1915, è pervaso da un patriottismo di stampo otto­centesco non privo di punte nazionalistiche del Mazzini più “sacerdote”, e preoccupato soprat­tutto di reagire alle abdicazioni della borghesia, colpevole, agli occhi del giovane ufficiale- professore delle tare degli italiani, che definirà molti anni dopo “più che cittadini, sudditi oscil­lanti tra il gregge, la fronda, la furbesca evasio­ne”. La borghesia senza fede.

Nella lettera a Prezzolini, tuttavia, si sente anche — e più di quanto sia stato sin qui rilevato — la passione dell’educatore. Era stato per breve tempo (fra l’ottobre 1914 e il maggio 1915) insegnante di storia e geografia nella scuola tecnica F. Re di Reggio Emilia, e sembra trasferire direttamente sui “ragazzi in grigio­verde” al suo comando l’esperienza fatta con quelle ragazze “malvagie — come scriverà a ottantacinque anni con la fine ironia che gli conoscemmo — che una dopo l’altra, tutte quante, cacciavano le gambe fuori dal banco”, facendolo “sudar freddo e cercar di fissare sempre lo sguardo sul soffitto”.

La guerra — scrive a Prezzolini — è “guerra che la storia ha imposto”, e l’atteggiamento verso di essa non può esprimersi se non con un: “Almeno l’onore sarà salvo. Ed è affermata la nazione di fronte alla storia”.

“Guerra di difesa preventiva”, però, giustifi­cata dalle ragioni della geografia, come gli sug­geriscono i quattro mesi “in primissima linea”,

combattuti stando “aggrappati alla vetta di uno di questi aspri monti dell’Isonzo: uno dei capi­saldi di questa munitissima barriera” che è “permanente minaccia”.

Nazione ben lontana dall’avere la coesione e la m aturità necessaria: “Se verrà [al fronte] è qui che vedrà di che tram a sia intessuta la nostra stoffa nazionale. Trama solidissima al fondo. M a quanto lontana dalla finitezza e dalla docilità che permettono intelligenti lavo­razioni. Ancor grezza”.

Intelligenti lavorazioni: illuminismo educa­tore, che denuncia sia “l’impreparazione m ora­le con cui l’esercito si è accinto alla guerra”, sia i “tanti anni di propaganda socialista”. E dall’al­to di quello specifico elitismo della piccola bor­ghesia intellettuale, che nel Piemonte del pater­nalismo sabaudo aveva trovato tanto corrobo­rante quanto antico incentivo, vien naturale al giovane ufficiale coraggioso, sempre pronto ad affrontare di persona i servizi più pericolosi e più faticosi (tre medaglie d’argento, promozio­ni al merito di guerra a capitano e poi a mag­giore, ferite poco meno che mortali e malanni permanenti)6, dire dei suoi soldati: “Che guerra possono fare i contadini lombardi, emiliani ecc. dall’anima chiusa grettissima! Cioè senz’ani­ma. Gente all’oscuro”.

Degli ufficiali asserisce perentoriamente che “riflettono l’animo della nostra borghesia. An­che qui io non mi attendevo tanta forza di sacrificio. Si son fatti ammazzare al loro posto. Eroicamente, se vogliamo. Ma senza fede. Esercito senza fede. Guerra sentita da pochi”.

La speranza gli viene da ciò che i giovani' sapranno fare per la rigenerazione morale, non da un disegno politico. “E forse il suo frutto più grande — di questa guerra — sarà per la nostra vita politica interna: punto fermo, svolta. È un’alba questa? [...] Per chi spera — come me — è ancora la prospettiva del lavoro di domani.

6 Nelle carte donate all’Insml in fotocopia da Giorgio Parri c’è un biglietto di Parri nel quale si leggono parole che dimostrano la gravità delle ferite ricevute: “Il mio ultimo pensiero è per mio babbo e per mia mamma. Se devo morire sopportino il dolore della mia perdita con la stessa serenità con cui io muoio...”

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Lavoro di fondazione e di ricostruzione: orga­nizzazione anzi”.

Contro “i ceti dirigenti attuali” solo i giovani potranno fare quésto lavoro: “siamo i più puri e dobbiamo e vogliamo essere i più forti”, nei “gruppi sorti intorno alle riviste sane; tutti i giovani che non si sentono a posto politicamen­te”. Contro i partiti — il liberale che non esiste ed è invece conservatore, il socialista che è equivoco e del quale è m orta l’idea — il sotto- tenente Parri invoca il “principio liberistico”, “che trascende l’azione politica pura, per forni­re un centro, uno strumento di giudizio di ogni individuale vita pratica”, e insieme consente l’“accettazione piena della lotta di classe: la quale rientra nell’intimo del progresso naziona­le e ne è fattore”.

Nazionalismo liberale, dunque, individua­lismo nel quadro dello scontro sociale per un’a­zione “riservata ad un’aristocrazia. Non oligar­chia. Aristocrazia a ruoli aperti che deve stori­camente soppiantare la democrazia: o almeno la democrazia delle ideologie progressiste”.

Pensieri antidemocratici, d’un interventismo assai più prezzoliniano che salveminiano (“Strano spettacolo quello di Salvemini — sto­rico — che non sente, almeno all’apparenza, dell’antistoricità della sua piattaforma sociali­sta. Ed avremmo tanto bisogno di Salvemini con noi!”). La scelta è però attenuata da una linea che parte dalla responsabilità del singolo per coinvolgere gli altri nell’opera più propria­mente politica, una linea che vuole esplicita­mente richiamarsi al “concreto” dello storico nato a Moffetta: “Lei mi chiederà il concreto, necessario a questa azione. Ma creda come zampillerà facile il nostro concretismo una vol­ta accettata e fermata la nostra teoretica”.

Appena congedato, nel 1919, Parri ottiene, con l’aiuto di Giovanni Mira, di lavorare come “com andato”, dal 1 ottobre 1919 al 30 settem­bre 1920, ai servizi assistenziali e cooperativisti­ci dell’Opera nazionale combattenti, sezione sociale.

Comincia quella che chiamavo seconda fase.

Alla scuola con i ragazzi preferisce la scuola della politica, ma della politica in senso lato, non del cabotaggio piccolo o grande dentro e intorno al “potere”. Porta con sé la conoscenza degli uomini che aveva guidato al pericolo di morte, quelle “plebi contadine” a poco a poco capite nelle loro potenziali capacità, superando le posizioni nazional-liberali del ’ 15, conferma­te allora anche dal consenso dato al settimanale “L’azione” edito dal 1914 al 1916 a Milano da due uomini significativamente affiancati, ma presto destinati a militare in due trincee oppo­ste: Giovanni Amendola e Gioacchino Volpe.

Vincitore del concorso per le grandi sedi e destinato, dal 1 ottobre 1920, alla Scuola tecni­ca Maurizio di Roma, chiede l’aspettativa dal I gennaio 1921 al 30 settembre 1922 per trasferir­si a Milano a collaborare al “Corriere della sera”, e nel capoluogo lom bardo si stabilisce definitivamente, insegnando dal I ottobre 1922 alla Scuola tecnica P. Fusi e dal I ottobre 1923 al Parini come ordinario di lettere nel ginnasio inferiore. Prima di chiedere nuovamente l’a­spettativa nell’ottobre 1924 per dedicarsi to­talmente agli impegni giornalistici e politici, ha com battuto le principali battaglie interne al combattentismo contro i tentativi dei fascisti e degli opportunisti di impadronirsene. Tra la fine del ’20 e l’inizio del ’21 ha infatti collabora­to al “Popolo rom ano”, nel 1921 a “Volontà”, ed è entrato nel giugno dello stesso anno nel nuovo comitato direttivo dell’Associazione na­zionale combattenti con Federico Comandini e Camillo Bellieni, svolgendovi un’attività che emerge dal settimanale milanese “Nuova gior­nata”. Nel gennaio 1922 è diventato redattore del giornale di Albertini per la cronaca politica interna e militare, molto imparando di quelle tecniche che saranno poi utile strumento nel suo agire politico.

Siamo, dunque, dopo la fase crociana, al­l’antifascismo, con qualche progresso reale sul­la via del concretismo solo vagamente auspica­to nel 1915 e di una visione politica meno ristretta entro l’“aristocrazia”, più aperta alle

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altre forze sociali in campo. Il filo che consente di unire il quinquennio 1919-24 al 1915 è nel­l’ammissione, quale sfondo d’ogni attività, del­la “lotta di classe”, ancora intesa come una realtà non governabile dalle norme marxiste ma come un’eredità della formazione storica del paese, un retaggio del solco fra Italia legale e Italia reale. Gli echi della guida egemonica della Destra storica persistenti nel suo mazzinismo per così dire imperfetto lasciano via via, in questi anni, il campo alle esperienze risorgi­mentali del partito democratico non più soltan­to mazziniano m a garibaldino. L’interventismo del ’15 m uta segno, diventa ora più schietta­mente salveminiano. La profonda ambiguità, insita nell’atteggiamento di una parte della pic­cola borghesia intellettuale che aveva accettato la guerra si va liberando in chiarezza: in lui come in molti altri. Vicenda personale, dunque, che è vicenda nazionale, quant’altra mai rap­presentativa d’un cammino non certo rischiara­to sempre e senza incertezze dall’obiettivo fina­le, ma anche per questo più viva, più storica­mente attendibile. Ambiguità, del resto, dello stesso Risorgimento perché ambiguità d’una società nella quale anche lo scontro di classe è appesantito e confuso dalla grande varietà delle economie e delle situazioni sociali.

Fra le prove di questo cercare, da parte di “uno spaesato inquieto”, come si definirà nel bel ricordo del governo 1945, quanto scrive in “Volontà”, numero 5-30 aprile 1921. Al centro è ancora la “impostazione nazionale superante i limiti e l’angolo visuale delle singole classi sociali” e resta qualcosa del vecchio naziona­lismo nel “concetto organico dello stato” che egli pone “a base di ogni critica e di ogni program ma”.

C’è però un vero passo avanti rispetto all’eli- tismo, al richiamo insistente all’“aristocrazia”, quando addebita alla “Lega democratica” di essersi rivolta soltanto a “scarni gruppetti di studiosi”. L’illusione del 1919, simile a quella dei garibaldini nel 1860 e anticipatrice di quelle di tanti partigiani nel 1945, che “un vasto mo­vimento politico a carattere nazionale potesse

sgorgare dalle masse combattenti” è caduta. Ora — ed è la novità maggiore, pur nel persi­stente antisocialismo — afferma: “La diagnosi del problema della origine e della costituzione politica della nazione [...] ci dimostra ancora assente dal processo di sviluppo della nostra storia la grande classe contadina scarsa ancora’ di consapevolezza sociale e, quindi, di peso politico. E quindi di contributo alla nostra sto­ria nazionale: passiva ed inerte di solito, lancia­ta nelle sommosse distruttive nelle ore rosse”.

Non c’è nell’orizzonte di Parri il processo di industrializzazione, sono lontane dalla sua pro­spettiva le masse operaie, certamente anche perché assenti dalla guerra combattuta. Ma quelle che aveva chiamato “plebi contadine” sono ora in primo piano: “Intendevamo sem­pre più chiaramente la formidabile gravità di questo vuoto, la formidabile necessità equili­bratrice ed integratrice della presenza di questa classe giovane, ricca di avvenire storico, accan­to alle classi ed ai gruppi privilegiati, unici attivi sinora della nostra storia, sempre più poveri di capacità di superamento e di sviluppo”.

“Conosciamo le plebi contadine. Le abbia­mo fraternamente tollerate ed amate in trincea. Non ci facciamo illusioni messianiche sulla “santità” di queste classi; non nutriamo adora­zioni letterarie od esotiche per il ‘contadino’. Sappiamo solo che questa è la classe più giova­ne, socialmente più intatta e — nonostante tutto — meno pregiudicata, specie nel Mezzo­giorno.”

“Strumento” contro il protezionismo e il clientelismo per “quei gruppi di intelligenti che intendono portare direttamente nella lotta poli­tica la loro chiaroveggenza”, finora rimasti iso­lati e perciò “fatalmente destituiti di efficacia politica diretta, perché incapaci di azione di massa”.

“Noi — dice Parri con fervida convinzione — possiamo farlo perché non socialisti, perché governati “da una concezione cardinale dello stato”, perché “fuori, per costruzione, da ogni equivoco popolare”. Uno stato è visto come articolato “nello sviluppo di tutte le autonomie

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locali, intese come consapevolezza, afferma­zione di tutte le forze autonom e”. L’autogover­no di Cattaneo, il futuro autogoverno del Parti­to d’Azione sono quindi già presenti, seppure ancora senza il quadro generale lucido del futu­ro. Non manca la consapevolezza che “una vera coscienza di classe non può procedere da una azione esterna alla classe stessa: la quale deve conquistarsela”. Il filo illuministico resiste tuttavia: dobbiamo tendere a favorire questa presa di coscienza, a svegliare e guidare il con­tadino ad esprimere “le sue forme di organizza­zione, i suoi uomini” sulla base del risveglio portato dalla guerra. “È la via più lunga”, che in parte deve rifare quella “fatta o tentata da po­polari e socialisti”. Combattenti e maestri ele­mentari debbono essere i nostri “propagandi­sti”, i nostri “parroci”, e la tram a quella di “organismi rurali che si possano facilmente e rapidamente trapiantare”. Il professore-educa­tore è sempre presente: occorre “studiare ed essere aiutati a studiare, se si vuole muovere il primo passo su questa via”.

Attraverso l’intreccio di riflessioni e di azioni del quinquennio 1919-1924 matura, e si affer­ma con chiarezza dopo l’uccisione di Matteotti, quell’antifascismo che era rimasto immerso nel­l’onda non sempre limpida del movimento combattentistico e aveva dovuto fare i conti con l’ambiguità di esso dentro quella più vasta ambiguità della società italiana della quale ho prima parlato. È la terza fase.

Un segno inequivocabile si trova nell’artico­lo programmatico del primo numero de “Il caffè”, datato I luglio 1924, a poche settimane per non dire pochi giorni dal tragico 10 giugno, anonimo ma attribuibile a Parri secondo le ricerche di Bianca Ceva. Nell’organo del picco­lo ma intransigente gruppo capeggiato da Ric­cardo Bauer, Giovanni Mira, E. M. Marga- donna, di impronta largamente liberale ma con assonanze morali di tipo gobettiano, si legge: “Ci vollero quarantotto ore perché Mussolini e la sua maggioranza si accorgessero che l’assas­sinio di Matteotti non era semplicemente uno spiacevole incidente, ma spalancava una im­

provvisa voragine sotto le loro illusioni e jat- tanze di b e a ti p o s s id e n te s”.

Parri individua con rigore le tappe e le mosse della corsa del duce al riparo, e le prudenze o paure degli opportunisti legatisi a lui. Egli chie­de, in una pagina stupenda moralmente e stili­sticamente, che Mussolini se ne vada: “Ingenui­tà chiederglielo: ma sia lecito dirgli che un gesto di questa grandezza morale sarebbe stato in­sieme principio di riabilitazione. Un gesto — o duce — da uom o di stato responsabile! [...] Vano del resto sperarlo: uomo di stato egli non fu mai; egli che non seppe mai dire una parola grande, non seppe mai avere una visione serena della sua patria, una concezione superiore della sua opera; egli prigioniero, ancora dopo l’ulti­ma lezione, della povertà morale del polemista che mentre chiede collaborazione minaccia l’irreparabile’!”

Bella caratterizzazione di Mussolini e del significato del suo dominio, tanto più bella se la si confronta con le recenti riabilitazioni oppor­tunistiche — dico quasi p e r incidens.

“Liberate da gravi scorie [...], le opposizioni si sono fatte interpreti — né potevano sottrarvi- si — di un imperativo di moralità politica che ne ha facilmente unificata, spronata e contenu­ta la battaglia in questa storica seconda quindi­cina di giugno; ed è la ragione del loro avvenire, della loro forza e sicurezza di vittoria.”

Parri denuncia però che “la battaglia contro Mussolini è stata abbandonata o rinviata” dalle opposizioni, anche nel discorso di Albertini, che pur era stato “schiacciante requisitoria di un sistema”. “Contro le illusioni”, esorta Parri: “Ed ora? Non è lecito attendere facili vittorie. La disfatta morale di un sistema tarderà a tra­dursi in disfatta politica, poiché il capo del governo dispone di armi, poiché la sensibilità del paese é ottusa da lungo abuso di eccitanti e stupefacenti, poiché la resistenza di quella rete di interessi di cui s’intesse il fascismo governan­te è, e sarà, disperata”.

Dal “lupo” non possiamo attenderci “altro che colpi di forza, o colpi di destrezza” in “una fase depretisiana della sua dittatura”. Un qua­

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dro, come si vede, molto acuto dell’ambiguità generale. È molto vivo il senso di ciò che si deve fare, della “via maestra” da seguire: “Non ven­dano le opposizioni il loro diritto di primogeni­tura per un piatto di lenticchie: non sciupino la loro forza, che è solo forza morale; una sola via è loro aperta: quella maestra della lotta a fon­do, condotta con fermezza, con pazienza, con temperanza: senza contare i nemici e le loro armi, senza deflettere, senza eccedere”.

“Grave colpa l’intemperanza e l’eccesso” — insiste, ed è già intera, mentre molti tentenna­no, la regola fondamentale della sua futura azione di antifascista e di capo della Resistenza armata.

E al “Signor Re”, atteso a lungo nei mesi successivi come miracoloso salvatore, Parri ri­volgerà in “Il caffè” una lettera PII gennaio 1925, dopo il discorso “fatale” del 3 gennaio, per inchiodare il sovrano alle sue responsabili­tà: “In quel giorno tra lui e la Camera, che partecipa con te della potestà legislativa, tu proprio non c’eri: c’era un dittatore che minac­ciava quarantotto ore oscure per liquidare non i suoi avversari ma i suoi accusatori [...]. Que­st’uom o ha parlato come un re, al quale la tua maestà non serve che come espediente polemi­co. Io, Re, al tuo posto l’avrei licenziato come un servo petulante.”

“O Re questa è l’ora nella quale la solidità della tua dinastia e della tua tradizione è chia­m ata a prova decisiva.” Colpito a morte il potere legislativo, umiliata la magistratura, “il potere esecutivo è tutto: anzi ormai è tutto l’arbitrio senza legge della oligarchia centrale e di quelle locali, che sfogano ora nelle perquisi­zioni e nei sequestri anche le loro vendette personali”.

Parri è giunto ormai al riconoscimento poli­tico di fondo dell’importanza delle masse: “L’unità morale del paese è sempre più profon­damente ferita: le masse proletarie si alienano sempre più dalla nazione che le comprime, le vessa e spoglia i suoi istituti. Questa propagan­da di sedizione che vien dall’alto, di bolscevi­smo di stato è veramente insensata; ed è anche

propaganda fieramente antimonarchica [...]. La gente si chiede: il re? Che fa il re?.”

“La battaglia precipita agli atti decisivi. Noi ti diciamo, o Re, che l’inattività delle opposi­zioni deve cessare, e cesserà. Da esse, che hanno sin qui pessimamente condotto la lotta, verrà al governo una perentoria messa in mora che sarà anche una chiamata in causa della monarchia da parte dei legittimi rappresentanti del tuo popolo”. “E allora quella sarà la tua voce, Re d’Italia. Non tradire. Non affidare l’onore del tuo paese ad un giocatore d’azzardo [...]. Noi siamo legalitari: noi vogliamo essere legalitari, perché questa catena dei governi di piazza deve essere ad ogni costo troncata [...]. Re, non tradire lo statuto che hai giurato [...]. Non ridurre gli italiani a sperar salvezza da un colpo di mano di generali, o da pronunciamenti di piazza. Non ridurli a disprezzare il tuo Stato e il tuo Statuto.”

C è ancora l’illusione di molti aventiniani, Giovanni Amendola in testa, che la monarchia possa arginare la piena verso il consolidamento della dittatura. Ma l’antifascismo come sola forza centrale effettiva da contrapporre ad esso è fuori d’ogni incertezza. L’ambiguità, anche quella di classe, è vinta. Parri, e con lui non pochi fra gli interventisti di dieci anni prima, si avvia verso una più ampia consapevolezza po­litica. Siamo alle soglie del Parri non più nazional-liberale ma liberal-socialista.

Non diversi sono gli accenti della sua parte­cipazione alla redazione del settimanale dei combattenti lombardi “La patria”, uscito dal I novembre 1924 al 31 maggio 1925. Non diverso è il significato della richiesta al suo preside di esser posto in aspettativa come insegnante il 5 novembre 1924, richiesta che gli costerà la cac­ciata dal servizio il 26 ottobre 1925. Non diver­so l’abbandono del “Corriere della sera”, nella cui redazione gli Albertini l’avevano lasciato, prova di grande fiducia, per assicurare un pas­saggio alla nuova gestione che non fosse, come si rivelò, di rapida fascistizzazione.

Sono i costi della “lotta a fondo”. Subito se ne ha la prova.

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12 Guido Quazza

Dopo essersi prodigato a distribuire il “Non mollare”, a prender contatti con Gobetti, a fornire notizie aH’“Economist” e alla “London General Press”, dopo aver collaborato con Bauer e Ernesto Rossi a scrivere l’opuscolo C asi d ’Italia, dopo varie corrispondenze segrete per il parigino “Corriere degli italiani” diretto da Donati, Parri partecipa all’organizzazione degli espatri clandestini. E in quest’opera, di ritorno dall’impresa che porta da Savona in Corsica, nella notte del 12 dicembre 1926, Fi­lippo Turati, egli viene arrestato con Carlo Rosselli presso M arina di Massa il 14 dicem­bre, rinchiuso nel castello Malaspina, poi a Savona, e processato. La condanna, dopo la concessione della libertà provvisoria il 9 aprile 1927, è lieve (dieci mesi di arresto, con sentenza del 14 settembre 1927), ma gli è inflitto il confi­no, trascorso a Ustica e poi a Lipari dal gennaio 1928 al gennaio 1930, dopo un mese di Ustica fra la liberazione provvisoria e la condanna. Il peso è aggravato dal fatto d’avere un figlio in tenera età (Giorgio era nato il 30 giugno 1926), ma Parri subito si impone come un oppositore strenuo. Senza iattanza e tuttavia impavido nel rigore.

Non è forse inopportuno, sebbene siano molto conosciute, rileggere alcune righe della sua celebre lettera al giudice istruttore datata 18 febbraio 1927: “Contro il fascismo non ho che una ragione di avversione: ma quest’ultima pe­rentoria e irriducibile, perché è avversione mo­rale: è, meglio, integrale negazione del clima fascista. Né sono solo: il mio antifascismo non è fermentazione di solitaria acidità. Le mie idee sono di altri mille giovani, generosi combattenti ieri, nemici oggi del traffico di benemerenze e del baccanale di retorica che contrassegnano e colorano l’ora fascista [...]. Ad essi il fascismo deve, e dovrà, rendere strettamente conto delle lacrime e dell’odio di cui gronda la sua storia,

dei beni morali devastati, della nazione lacera­ta. Il regime li può colpire, perseguitare, disper­dere, ma non potrà mai avere ragione della loro opposizione, perché non si può estirpare un istinto morale. Consapevoli custodi, essi sanno che alla loro coscienza è affidata, per le speran­ze dell’avvenire, la tradizione del passato.

“Questa tradizione è nella aspirazione, pe­renne della nostra storia migliore, alla libertà e alla giustizia, ragione ideale del nostro Risor­gimento, ragione domani ancora della nostra storia nella storia del m ondo”.

Parri afferma con piena franchezza che la sua partecipazione all’impresa è “volontaria e meditata” e che trae le sue ragioni “da moventi strettamente politici”: è la stessa “ragione poli­tica” di cui parla l’altro accusato, Carlo Rossel­li, nella lettera al giudice che Aldo Garosci attribuisce all’agosto 19277. Parri ricorda d’“a- ver servito in pace ed in guerra lo stato italiano con fedeltà ed abnegazione”, di non aver “mai seguito movimenti di estrema”, d’esser “rima­sto sempre estraneo ai partiti”. Un tasto di grande significato, che Carlo Rosselli riprende per parte sua nell’interrogatorio al processo, dicendo: “E mi ritengo onorato di essermi as­sociato in ciò ad un uomo come Parri, un uomo che ha avuto in guerra ed in pace il meraviglioso contegno che ha avuto”8.

Un tasto che viene utilizzato per battere i fascisti sul loro stesso terreno, di esaltazione della guerra, come ricorda lo stesso Carlo Ros­selli9: “forse i distintivi delle medaglie, che ‘noi’ abbiamo pregato Parri di portare, hanno fatto il miracolo” di far tacere d’incanto il brigadiere che li minaccia durante il trasporto al confino; “quei distintivi che Parri chiama ‘chincaglierie’ hanno già fatto abbassare gli occhi ai fascisti, sul piroscafo”. Certo, un tasto che il “reo” Parri tocca per poter esprimere con maggiore incisi­vità la predizione e l’auspicio del militante

7 Cfr. C. Rosselli, Socialismo liberale, cit., p. 49!.K Ivi, p. 493.g hi, p. 513.

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inflessibile: “Perché questa buia parentesi di cattività sia chiusa e espiata occorre che respe­rimento fascista, percorso tutto l’arco del suo sviluppo secondo la logica del suo impulso e del suo peso, abbia m aturato nella coscienza del popolo tutti i suoi frutti amari e salutari, resti­tuendogli ansiosa sete di beni perduti, ferma volontà di riconquista e ferma volontà di dife­sa. Secondo Risorgimento di popolo — non più di avanguardie — che solo potrà riallaccia­re il passato all’awenire. È in noi la certezza che libertà e giustizia, idee inintelligibili e mute solo in tempi di supina servitù, ma non periture e non corruttibili perché radicate nel più intimo spirito dell’uomo, che questi due primi valori civili debbano immutabilmente sostanziare ogni sforzo di ascensione, di liberazione di clas­si e di popolo” [...].

“Io non potevo non sentire che l’esempio del Risorgimento ed il dovere del 1915 erano anco­ra il dovere di oggi. Ho sentito anche, come in guerra, che ai più consapevoli spetta inelutta­bilmente l’onore dell’esempio”.

È già tutto lo spirito di Giustizia e libertà, tutta la concezione della Resistenza come Se­condo Risorgimento, che collega il primo all’in­tervento nella grande guerra, alla lotta antifa­scista del ventennio, alla presa delle armi per vincere “con le proprie forze” e “l’onore dell’e­sempio” il nemico implacabile della giustizia e della libertà.

La fermezza del rifiuto trova conferma in altri documenti, come la lettera del 21 gennaio

1929 dal confino di Lipari ai genitori nella quale Parri rifiuta di firmare la dom anda di grazia: “Ma voi ed essi [“gli amici carissimi” di cui aveva parlato prim a10] dovete intendere che decisioni come queste appaiono di lieve mo­mento solo a chi le consideri con una disinvol­tura morale, cui sono per costituzione negato; che decisioni come queste involgono lo stile di un uomo, il suo modo di vivere, la sua ragione anzi di vivere, di fronte alla quale affetti ed amicizie devono per necessità rimanere al se­condo piano”.

Subito dopo, una nota di um anità familiare, un chiarimento bonario, da figlio: “Io non sono inciampato per caso nelle mie disavventure po­litiche. Avendo agito sempre per chiarissima consapevolezza, devo adattarm i in santa pace alle conseguenze dei miei atti”.

La medesima fermezza si trova nelle proteste contro le pesanti limitazioni del soggiorno a Lipari e contro le procedure per l’assegnazione ad altri cinque anni di confino11.

Con tutta evidenza, Parri sente un maggior peso non soltanto per le difficoltà e la respon­sabilità della sua piccola famiglia, ma anche perché a Lipari si consuma una parte e un modo del sodalizio con gli amici militanti anti­fascisti. Nello stesso tempo nel quale m aturano in lui, nei lunghi conversari con Carlo Rosselli, Emilio Lussu, Ermanno Bartellini e tanti altri compagni di confino, le nuove prospettive della lotta da combattere, avvicinandolo a quella revisione del socialismo che porterà il nome di

10 Si tratta dei colleghi (le firme sono circa cinquanta) del corso di Stato maggiore frequentato sotto la guida del generale Angelo Modena diventato intanto comandante del Corpo d’armata di Verona, i quali definiscono Parri “uno dei migliori loro compagni d’armi e di corpo”. In seguito a questo documento si comunica da parte del ministero dell’Interno al generale Modena che “qualora il prof. Parri presentasse domanda di clemenza, sarebbe presa in esame e sottoposta alla determinazione di S.E. il capo del Governo” (da un appunto senza data nelle carte datemi da Giorgio Parri. ora in archivio institi). È segno interessante dell’uso dei meriti di guer a anche una lettera del ministro degli Esteri Dino Grandi al capo della polizia, datata 19 giugno 1931, alla quale peraltro si risponde con un: “Così stando le cose, il Parri non appare meritevole di un ulteriore atto di clemenza" (ivi). Sintomatico dell’opinione di un Parri “ben noto e famoso confinato politico” e “pericoloso individuo [...] capo riconosciuto di tutti questi loschi figuri” di confinati è la lettera di Nicolò Nicchiarelli, del Reparto autonomo di Lipari della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e futuro generale della Guardia nazionale repubblicana nella Repubblica sociale italiana (ivi).11 Vedi i due ricorsi al ministero dell’Interno datati 21 agosto 1929 e 21 aprile 1931 (nellecarte citate ma già pubblicate in F. Parri, Scrii» 1915-1975, cit.). 11 prefetto di Milano in lettera del 2maggio 1929 al ministro deH’lnterno, indica come ragioni per rifiutare la liberazione dal confino la pervicacia di Parri a coltivare “la viva in lui fede nelle sue idee e negli uomini che di tali idee ne erano gli esponenti” (nelle copie di carte donate da Giorgio Parri, in Archivio Insml).

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Carlo Rosselli, le scelte specifiche degli stru­menti di azione divergono. Il 27 luglio 1929 Carlo Rosselli, Lussu e Fausto Nitti fuggono da Lipari per andare fuori d’Italia. L’emigra­zione dal paese non attrae invece Parri, così come non lo attrarrà la decisione di altri com­pagni di attaccare il fascismo con attentati di­mostrativi. La sua via è quella di lavorare in patria, e di lavorare serbando intatta la coscien­za, in attesa di tempi migliori. Non sappiamo quasi nulla sulle motivazioni di queste scelte12. Ma non ci è difficile pensare che per un autenti­co militante come lui la preferenza per l’inazio­ne dovette essere non senza intime crisi, non senza dubbi e rimorsi.

D’altra parte, la polizia fascista non lo lascia tranquillo neppure dopo che viene liberato “condizionalmente” con atto di clemenza di Mussolini alla fine del gennaio 1930. Già il 30 ottobre dello stesso anno viene arrestato per correità col gruppo Bauer - Rossi - Ceva con l’imputazione di “delitto contro i poteri dello Stato e di complicità nel tentativo di riorganiz­zare il movimento massonico e il movimento Giustizia e libertà” 13. Prosciolto in istruttoria dal Tribunale speciale il 6 marzo 1931, viene il 30 marzo dalla Commissione provinciale di Roma assegnato nuovamente al confino per­ché “pertinace avversario del regime”. Vano il suo ricorso; di nuovo assegnato a Lipari, poi trasferito a Vallo della Lucania nella seconda metà d’aprile 1932, sarà liberato soltanto il 20 dicembre di quest’anno con decreto del 5 no­vembre emanato nel quadro dell’amnistia per il decennale.

Il decennio successivo è un poco più tran­quillo, anche se egli non cessa di mantenere, sia pure con prudenza, i contatti con gli avversari del regime. Secondo il prefetto di Milano il “prof. Parri”, “socialista schedato”, “serba re­

golare condotta morale e politica” 14, ma nell’e­state 1940 gli verrà negata la carta di turismo alpino: “Sebbene in questi ultimi anni non ab­bia dato luogo a rilievi, egli continua a mante­ner fede ai suoi principi”. Si dà parere (e il Ministero decide) che sia meglio rifiutare il rilascio, “ritenendosi che il predetto si rechi nelle zone di confine per riprendere contatto con i suoi ex compagni fuoriusciti, dai quali potrebbe avere incarichi da assolvere nel Regno” 15.

Non risultano a tutt’oggi testimonianze scrit­te del suo pensiero politico, perché ciò che è possibile leggere di lui (ma i più degli scritti sono anonimi anche per ragioni redazionali) riguarda le materie di cui ora, per motivi di bilancio familiare, si occupa. Sulla scia di tra­duzioni fatte già negli anni precedenti, si dà a studi di economia, collaborando dal 1932 al 1936 (con lo pseudonimo di “uno qualunque”) sotto lo stimolo e l’aiuto dell’amico “statistico” Giorgio M ortara, al “Giornale degli economisti e rivista di statistica” e in modo anonimo all’o­pera, diretta anch’essa, come il giornale, dal M ortara, sul cinquantenario della Edison. Re­censisce molti libri francesi e inglesi su paesi extraeuropei o europei un poco esterni ai pro­blemi italiani e opere di storia economica: si conoscono, pubblicati nel 1932-33, tre saggi più ampi su Turchia d ’oggi, Problemi ed incognite del Giappone moderno, Un nuovo trattato di politica economica internazionale, e una rasse­gna di studi storici nella quale egli segnala il Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano di Nello Rosselli, uscito nel 1932, a cui per altro dedica nella “Nuova rivista storica” (fase. I-II del gennaio-aprile 1933) una più am pia e impe­gnativa analisi.

Questo è, allo stato attuale della documenta­zione nota, il solo testo dal quale si può desu­

12 Cè soltanto una testimonianza di Bianca Ceva: cfr. F. Parri, Scrini 1915/1975. cit., p. 21." Cfr. nelle carte più volte citate, in Archivio Insml.» Ivi.15 Ivi.

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mere qualche informazione sul procedere del suo pensiero politico. Ed è perciò da leggere un poco più attentamente di quanto non sia stato fin qui fatto.

Nelle pagine su Pisacane non troviamo sol­tanto — ed è già moltissimo — una straordina­ria capacità di ritrarre il personaggio storico nella sua interezza, nella psicologia e non solo nelle idee e nelle azioni, ed anche nelle circo­stanze (“il Caso e la Fortuna sommi artefici di storia”, dirà poco avanti). Vi troviamo l’ammi- razione — dato di grande significato — “per un uomo di tanto spicco, per un carattere di tanta forza, per una sorte così tragica”. S ub ito le congiuntamente — non è di minore importan­za — la considerazione approfondita “per un pensiero che ha un posto ben singolare nel patrimonio di idee e di motivi ideali della nostra storia recente”. Se l’ammirazione per il perso­naggio poteva essere ricondotta al tipo d’uomo che Parri si era da tanto tempo assunto come modello, la considerazione di un pensiero che faceva di Pisacane il primo socialista di stampo vicino al marxista segnava fortemente il cam­mino percorso dal Parri antisocialista della let­tera a Prezzolini, pur nelle riserve in parte mantenute.

L’uomo Pisacane gli appare colto da Rossel­li con “una sicura capacità di penetrazione psi­cologica”, m a vorrebbe fosse in qualche punto rilevato “ancor più vivacemente un tal tempe­ramento, orgoglioso suscettivo autoritario chiuso volontario, passionale e positivo insie­me, impulsivo e ponderato, romantico e geli­do”. E qui vediamo alcuni aggettivi che Parri stesso attribuirà — e altri gli potranno attribui­re — a se stesso. Altrettanto chiaro è il senso che, su questo piano umano Parri dà alla spedi­zione di Sapri vista quale conclusione del cammino della persona, dissentendo dal giudi­zio di Rosselli quando questi rimpiange “che egli col suo sacrificio inconsciamente oscurasse il senso prezioso delle sue intuizioni e delle sue profezie”.

“A me pare — scrive invece Parri — che quella elementare forza generosa dell’animo

che dette alla sua vita e alla sua morte lo stigma unitario di un magnifico stile, lo stigma di una splendente divisa, ‘noblesse oblige’, finisca per render gratuito ogni altro calcolo e pro­spettiva”.

Del resto, Parri è se stesso anche quando coglie le contraddizioni dell’“eroe di Sapri” come chiave profonda della sua fecondità nel processo storico italiano: “A parte la penombra che oscura ancora qualche punto della vita del Pisacane, e qualche lato dei suoi atteggiamenti, sono queste antinomie — ben sottolineate dal Rosselli — ed i processi di elaborazione interio­re che esse presuppongono a colpire di più la riflessione del lettore: curioso cervello, curioso carattere di nazional-socialismo-libertario, per­vaso sin nell’intime fibre di un senso profondo e vigoroso di libertà che non gli impedisce di concludere con rigide postulazioni di comu­nismo autoritario e spregiudicato, le quali sono — sembra a me in qualche dissenso da Rosselli — più che fredde e formali e provvisorie acqui­sizioni ideologiche se riflettono anch’esse uno dei lati distintivi del suo temperamento; ag­giungete in dissonanza una vivace tendenzialità all’autonomismo autarchico delle coscienze e degli istituti; aggiungete a quel romanticismo generoso che fu fondamentale lievito dello spi­rito migliore di quella generazione una esigenza vigile, sino alla pedanteria talora, di concretez­za di chiarezza e di ordine anche formale; ed accostate infine ad una inesausta forza spiritua­le splendente di disinteresse, ad un istinto — ed a un tal esempio — di volontarismo creativo la più secca e lineare filosofia materialista e de­terminista. Ed una nota in fondo che domina su tutto: sete di certezza e di assoluto”.

Non possono restare molti dubbi, dopo la lettura di questo ritratto. Parri si sente per molti versi vicino a Pisacane, e non a caso insiste sugli elementi nazionale e libertario come indissolu­bili dal socialismo. Non c’è, per uno storico di razza quale è Parri, nessun tentativo di acca­parrarsi il personaggio, di ricondurlo a quel socialismo liberale nel quale ormai crede; c’è il bisogno autentico di capire le ragioni del nesso

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istituito da Pisacane fra libertà e socialismo, fra volontarismo idealistico e determinismo mate­rialistico, cioè di capire u n o dei nodi, il nodo centrale col quale egli si sta misurando per conto proprio e, in un colloquio che séguita da lontano, col grande compagno di confino, il fratello di Nello. È un discorso su una rivista storica letta da pochi, ma un discorso che vuole esser rivolto anche ad altri, i più impegnati nella “lotta a fondo” contro il fascismo, com’egli l’aveva definita in “D caffè”. In una biografia che Parri considera non disgiungibile mai dal quadro complessivo, m a “un brano vivo, un elemento necessario della storia d’Italia”, la simpatia per l’uomo diventa esigenza di cono­scere meglio “il suo ambiente familiare e socia­le” prim a e dopo l’aggressione subita e la cele­bre fuga del ’47 con Enrichetta, dove il grande amore di singoli si deve congiungere con la visione delle reazioni collettive, locali ed euro­pee (l’inseguimento delle polizie di vari Stati e lo scandalo pubblico): “La violenta ribellione di quella donna, moglie e madre, contro la sua casa e la sua vita non può non può sorprendere. Quanto v’è di angustia e falsità soffocante di ambiente? e quanto in entrambi di esaltata ostinazione?”

Non meno acuta e squisita, anche se da buon cavaliere antiquo non ancora sfiorato dalla prospettiva femminista, l’annotazione che farà sul breve excursus di Enrichetta, lasciata per anni sola a Genova, con Enrico Cosenz, amico anche di Carlo e a Carlo da lei stessa comunica­to con sincerità amorosa: “Povera Enrichetta: in fondo, forse una donna senza casa. Le nostre donne, si sa, sono come le lumache: soffrono troppo senza un loro tiepido guscio”.

Accanto all’amore, il punto della passione di Pisacane per le vicende militari: anche qui una sottolineatura che ricorda la partecipazione di Parri al disegno di Vittorio Veneto: “Questo dei piani strategici, che redigerà per la guerra pie­montese del 1849, a Roma, e dovunque potrà, è un suo evidente chiodo professionale”.

Ancora: dopo le sconfitte del ’48 e del ’49, lo sforzo di ricominciare: “Se è certa la sconfitta,

sia tale la resistenza [a Roma] da preparare la riscossa, sia tale la prova di consapevolezza rivoluzionaria da meritare i futuri destini”. Sembra di sentirvi il bisogno dell’entusiasta combattente della grande guerra e del deluso militante del dopo di trovare esempi che con­fortino sull’avvenire, come nelle dichiarazioni della lettera al giudice di Savona. E gli piace, evidentemente perché gli ricorda il confino di Lipari, il quadro tracciato da Nello Rosselli di “quella particolare psicologia di esuli, sì che quella vita di grandezza e di miseria, di discus­sioni sterminate e di carteggi febbrili, dove il cospirare e il litigare sono ragioni di vita, dove la capacità di illusioni è inesauribile, quel mon­do di grandi sogni e di fame gli riesce sempre dipinto al vivo”.

Mentre chiede “se non fosse stato possibile — poiché i documenti tacciono — dall’analisi degli scritti risalire alla determinazione più par­ticolare delle influenze” e capire meglio l’i n ­fluenza attribuibile a M arx ed in particolare al suo M a n ife s to ”, Parri tocca con vigore elo­quente, che sembra anticipare profeticamente la Resistenza, il dilemma fra rivoluzione sociale e rivoluzione nazionale: “Come conciliare il dilemma?” si chiede. “No: — si risponde — un dilemma così cardinale non può, non deve esse­re conciliato, deve essere superato mediante un ferreo rapporto di necessità reciproca”. Questo rapporto — Parri non ha dubbi, come del resto Nello Rosselli — sta nel fatto che il gran Qua­rantotto è finito in sconfitta per [’“assenza delle masse, non cercate o tenute lontane dagli egoismi, dalle paure di classe, anche inconsape­voli, dei gruppi dirigenti, dalla loro miopia sto­rica e politica”. “La rivoluzione italiana è pos­sibile solo con la massa” — ripete Parri con Pisacane e la nettezza è maggiore che negli articoli di “Volontà”. E le masse possono m uo­versi solo per “una nuova giustizia economica e sociale: cioè rivoluzione politica e sociale. Ecco la più grande verità, ecco la nuova parola d’ordine”.

Ancora: se si deve ammettere che la mentali­tà di Pisacane è “scarsa forse di quel senso di

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relatività, di quel senso o istinto dei rapporti e delle proporzioni che è il sale nel cervello dello storico”, è fin troppo vero — torna qui un leit motiv del dirigente dei movimenti combattenti­stici — che la borghesia ha gravi limiti di con­sapevolezza “dei problemi fondamentali della società e della economia italiana”. E il riferi­mento al presente si fa subito esplicito: “Certo grave il danno, e grave la tara: ne avemmo recente eperienza. Che dire? Si può forse osser­vare che esce dalla storia rimproverare una nazione od una classe di non aver dato il vino che non aveva. Contentiamoci di constatare che la faciloneria della classe politica italiana è evidentemente di antiche radici. Ed aggiun­giamo, se mai, che qui si vedono i lati negativi della tradizionale educazione letteraria e curiale della borghesia italiana.

Quasi a precisare meglio il proprio pensiero attuale, Parri aggiunge che ad ogni buon conto al Pisacane ideologo si affianca il Pisacane “concretistico”, e cita il proclama “riformista” lanciato ai napoletani, la lucida coscienza che occorra “prevenire e rompere il gioco di Ca­vour, e sventare un possibile pasticcio muratti- sta” a Napoli, che l’“agire e puntare a Sud”, “idea fissa di Pisacane”, troverà la sua clamo­rosa riprova nel trionfo della spedizione dei Mille di Garibaldi.

Tutto il finale del dram m a di Sapri, che è il finale della recensione al libro di Rosselli, sem­bra un indiretto appello alla fiducia nella forza della passione di lotta e di sacrificio.

Il crescendo febbrile dell’opera “di pochi uomini ardenti e decisi: che affilano le armi per la catastrofe che li attende nell’om bra” si lega a un toccante “Dietro essi l’angoscie, il funesto presentire di qualche donna”. Ancora una vol­ta, politico e personale, oggi si direbbe, sono fra essi congiunti dal Parri qui storico m a nel cuore ancora uomo d’azione. L’ammirazione ritorna senza celare le punte più incontrollabili del vero e proprio entusiasmo: “Pisacane grandeggia magnifico: magnifico di volontà lucida e con­sapevole; il suo carteggio con Napoli è un su­perbo attestato di volontà creatrice”.

E, in contrappunto, il grande quesito storico e insieme politico-psicologico del dilemma tra l’ottimismo del Pisacane degli scritti preparato­ri della spedizione e i “neri pessimismi” dei Saggi. Non “c’è bisogno di conciliare ad ogni costo: disperare e sperare possono essere due momenti dello stesso spirito; inoltre è proprio della gente d’azione uno speciale ottimismo in quello che fanno e vogliono fare che li rende meno sensibili a dubbi riserve e scrupoli; né in quel suo carattere a linea spezzata mancava, secondo me, il segmento della ingenuità. Ed anche egli — di nuovo la nota autobiografica emerge — partecipa di queirimpenitente otti­mismo quasi professionale degli emigrati esilia­ti rifugiati di ogni tempo e clima, che è come una istintiva reazione umorale difensiva dello spirito”. Infine, il monito a quel se stesso che sarà il capo di tanti uomini impegnati nella lotta arm ata e poi nel governo dell’intero paese: “Poi che si deve agire egli non ha più dubbi, o non li mostra”.

La conclusione è, per quanto consentono di dire pubblicamente i tempi, non soltanto signi­ficativamente esplicita, ma anche sufficiente- mente esplicativa dell’evoluzione di Parri, in quella che ho definito “terza fase” del periodo 1925-1943.

Anche dopo la vittoria dei piemontesi, dellp “forza” sabauda, del realista Cavour — è evi­dente la proiezione sul dopo 1861 e sull’oggi — “continuava ad aver ragione colui che aveva detto che fatta l’Italia restavan da fare gli italia­ni: semplice ed incontrastabile verità di senso comune, e pregna di senso del reale. Senso della coscienza letteraria che i ceti borghesi avevano della nazione; senso della coscienza retorica e labilissima che essi avevano della libertà elargi­ta e non conquistata; senso della scarsa consi­stenza di classe di questa semiamorfa borghe­sia, povera di coesione sociale e civile; senso della sua coscienza larvale dello stato, del suo nuovo stato liberale che li aveva piuttostoché cittadini sudditi incuriosi, oscillanti spesso tra la ereditaria docilità del gregge che attende il pa­drone, la fronda verbale e la furbesca evasione

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quotidiana; senso infine dell’assenza — massi­m a tara ed incombente pericolo — delle classi popolari nel quadro della nazione e dello stato dei signori”.

Fin qui sono le idee scritte in “Volontà” e in “D caffè” che ritornano con più sintetica e al tempo stesso incisiva chiarezza: ma aggiunge: “E senso anche della efficacia salutare che a risvegliare orientare articolare questa massa ge­latinosa avrebbe potuto esercitare l’azione di­rettrice delle élites e dei conduttori”. E qui è riconfermato, come filo rosso di un’intera vita, l’illuminismo dei giellisti, del futuro Partito d’Azione. Coerenza, dunque, e innovazione.

Con la scorta di queste idee Parri lavora con grande intensità, dal dicembre 1934, nell’ufficio studi della Edison col compito di seguire le vicende dell’economia intemazionale e dal 1 luglio 1937 come capo della sezione economica di quell’ufficio. Poco si sa sui suoi contatti con gli antifascisti all’interno, sulle vere ragioni del­l’arresto il 30 maggio 1942 con denuncia “per disfattismo” e la carcerazione fino al novembre, quando (in data 24 del mese) è “assolto per non aver commesso il fatto” con sentenza del Tri­bunale speciale.16 E ancor molto da conoscere è sulle forme e il grado della sua partecipazione al gruppo dei fondatori del Partito d’Azione. Ciò che è certo, ma esula da questo studio, è che l’estate cruciale del 1943 lo vede già tutto im­merso in quello sforzo di ricominciare di cui aveva scritto parlando di Pisacane, uno sforzo per il quale, al convegno di Firenze del Partito d’Azione il 5 settembre 1943, prevederà l’esi­genza di passare dalla lotta politica di pochi alla lotta arm ata di massa, una lotta dal “decorso lungo e aspro”.

Volontarismo risorgimentale, impegno fino al rischio della morte del combattente nella grande guerra, attenzione alle angustie dei gruppi dirigenti borghesi e poi, in misura via via crescente, alle capacità insite nelle masse con­tadine, nazionalismo mazziniano e senso dell’a­ristocrazia morale, profonda fede nel concorre­re libero dei singoli attraverso l’assunzione delle loro responsabilità individuali: i tratti che per­corrono il pensiero di Parri dal 1915 al 1943 sono lo specifico particolare dei tratti che con mescolanze e percentuali diverse segnano una parte cospicua della piccola borghesia intellet­tuale e di quella operosa nelle professioni e negli impieghi. È un percorso nella sua complessiva rappresentatività esemplare — e ancor più esemplare se si guarda al dopo, alla Resistenza, al governo del 1945, alla battaglia per la legge truffa, all’inclinare verso i socialisti e poi verso il più vasto mondo dell’intera sinistra vecchia e nuova. Il “transito” d’una forza sociale decisiva per le sorti del paese attraverso l’ampliamento progressivo del rapporto fra società e stato dall’oligarchia dominante alle grandi masse, quale l’ultimo Gobetti aveva auspicato e pre­conizzato: dal “terzo stato” di Cavour al “po­polo” di Mazzini con l’avanzata delle classi operaie e contadine di Marx.

Un secolo e più di vita italiana in un confron­to sempre più ampio e complessivo fra passato e presente, fra tradizione ed innovazione, nel quale — a differenza che in Gramsci — cam­peggia non l’iniziativa dei contadini e degli ope­rai, ma la creatività dei borghesi che hanno fede, come aveva scritto il giovane Parri nel 1915.1 borghesi che, a differenza o contro i loro compagni di classe che occupavano i posti

16 Ivi, in lettera del prefetto di Milano al ministro deirinterno. Direzione generale pubblica sicurezza. Servizio Schedario. 2 gennaio 1943, comunicazione alla quale è aggiunto: “Ha ripreso dimora in Via Buonarroti 40 ed è stata ripristinata nei suoi confronti la vigilanza. Dal 1934 al 1942 si susseguono regolarmente le comunicazioni da Milano a Roma con un “Nulla da segnalare”. Notizie sul processo, il cui capo d’accusa riguardava la traduzione e diffusione (con una breve prefazione antifascista) per mezzo di ciclostile del libro Afts.s!'one/i7//;7fl dell’ex ambasciatore inglese a Berlino Henderson, si trovano in “Lettera ai compagni", febbraio 1982, n. 2, p. 22. Si tratta d’un resoconto del giornalista Riccardo Aragno, presente all’udienza finale, e pubblicato in “Italia libera” il 6 e 7 agosto 1945. Parri era stato accusato d’aver partecipato a due riunioni serali a casa di Annarosa Cerritano e di sua madre Elsa Finzi, tenute da un gruppo di giovani (fra i quali Guido Bersellini, Luciano Bolis, Gilberto Rossa e Peter Tumiati) per fondare un “movimento liberale studentesco”.

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principali di potere, di prestigio, di ricchezza, erano partiti dalla provincia per andare a com­battere con Garibaldi, avevano creduto nella grande guerra come l’ultima delle guerre, come la guerra alla guerra, come massima scuola di sacrificio e di responsabilità, come suprema scuola del carattere, avevano capito che la le­zione della guerra non stava tuttavia nel sacrifi­cio e nella responsabilità in quanto tali, ma nel porli al servizio di un’opera di guida delle altre

classi. Parri fra il 1915 e il 1943 incarna quasi sempre con incisivo rigore logico e profonda passione sentimentale, in un connubio raro di esprit de géométrie e di esprit de finesse, quel travaglio che sfocerà nel congiungersi della par­te più generosa dei “ceti medi” con ampi strati contadini e operai nella lotta arm ata del 1943-45.

Guido Quazza