Rassegna bibliografica - Istituto Nazionale Ferruccio Parri · 1940-1945. II. La guerra civile...

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Rassegna bibliografica Gli ultimi incompiuti contributi di Renzo De Felice alla biografia di Mussolini Massimo Legnani Non è possibile riferire e discutere di quest’ulti- mo volume della biografia mussoliniana di Ren- zo De Felice (R. De Felice, Mussolini l’alleato 1940-1945. II. La guerra civile 1943-1945, To- rino, Einaudi, 1997, pp. X-— 768, lire 100.000), senza riferirsi preliminarmente al suo carattere anomalo di opera rimasta incompiuta per la mor- te dell’autore. Il libro si compone di quattro ca- pitoli che coprono i mesi che vanno dal 25 luglio alla primavera del 1944. Con qualche approssi- mazione, ché il terzo capitolo, dedicato a “Il dram- ma del popolo italiano tra fascisti e partigiani”, contiene ampi squarci su situazioni e sviluppi suc- cessivi, che in qualche modo giungono a lambi- re il periodo della liberazione, mentre le parti ri- servate a Mussolini restano rigorosamente entro i confini cronologici ricordati. D’altro canto, tra le carte dello studioso, come avverte la premes- sa, non è stato rinvenuto alcun progetto o indice analitico che permetta di intravvedere su quali li- nee si sarebbero articolati i restanti capitoli, se- condo quale impostazione e distribuzione della materia. Resta così insoddisfatto il desidero di sa- pere se aspetti appena sfiorati sarebbero stati in seguito approfonditi. Né si tratta di elementi mar- ginali, ma direttamente incidenti sulla struttura del libro. Ad esempio, non viene tracciato un qua- dro quantomeno di massima delle articolazioni istituzionali, politiche e organizzative della re- pubblica fascista, che sembra vivere esclusiva- mente attraverso i vertici del partito e del gover- no. Altrettanto si può dire delle strutture dell’oc- cupazione tedesca, su cui mai ci si sofferma con la dovuta larghezza e sistematicità, mentre la nar- razione indugia a lungo (specialmente nel quar- to capitolo) sui rapporti tra i rappresentanti del Reich e gli esponenti di Salò, fornendo spunti si- curamente utili, ma anche di breve raggio, tutti interni alle molte controversie innescate dalla me- morialistica. Non è dato sapere se e in qual mi- sura De Felice si proponesse di colmare tali la- cune nel seguito del lavoro. Di certo la loro esi- stenza orienta la lettura in una unica direzione, nella quale il centro della scena è costantemente occupato dalla ragnatela dei rapporti interni ad un gruppo molto ristretto di personaggi. Di qui il carattere fortemente affabulatorio soprattutto dei due capitoli dedicati all’attività politica di Mus- solini e del suo entourage. Gli interrogativi circa la volontarietà di queste scelte sono destinati, s’è detto, a restare senza risposta, ma anch’essi in- ducono a chiedersi— dato naturalmente per scon- tato che sia i tre capitoli licenziati dall’autore, sia il quarto, troncato prima della fine, meritano di essere conosciuti e discussi — se non sarebbe sta- to preferibile una veste editoriale diversa, più ade- rente al carattere parziale del testo. Il libro intreccia due percorsi, entrambi scan- diti con chiarezza: da un lato, nel primo e ultimo capitolo, la vicenda politica e personale di Mus- solini; dall’altro, nei capitoli centrali, quelle che De Felice considera le due coordinate di fondo di ogni cornice esplicativa, la “catastrofe nazio- nale dell’8 settembre” e il già ricordato “dram- ma del popolo italiano tra fascisti e partigiani”. È risaputo come negli ultimi anni l’attenzione di De Felice si sia ripetutamente rivolta all’8 set- tembre e come essa si sia prevalentemente espres- ‘Italia contemporanea”, settembre 1997, n. 208

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Rassegna bibliografica

Gli ultimi incompiuti contributi di Renzo De Felice alla biografia di Mussolini

Massimo Legnani

Non è possibile riferire e discutere di quest’ulti­mo volume della biografia mussoliniana di Ren­zo De Felice (R. De Felice, Mussolini l’alleato 1940-1945. II. La guerra civile 1943-1945, To­rino, Einaudi, 1997, pp. X-— 768, lire 100.000), senza riferirsi preliminarmente al suo carattere anomalo di opera rimasta incompiuta per la mor­te dell’autore. Il libro si compone di quattro ca­pitoli che coprono i mesi che vanno dal 25 luglio alla primavera del 1944. Con qualche approssi­mazione, ché il terzo capitolo, dedicato a “Il dram­ma del popolo italiano tra fascisti e partigiani”, contiene ampi squarci su situazioni e sviluppi suc­cessivi, che in qualche modo giungono a lambi­re il periodo della liberazione, mentre le parti ri­servate a Mussolini restano rigorosamente entro i confini cronologici ricordati. D’altro canto, tra le carte dello studioso, come avverte la premes­sa, non è stato rinvenuto alcun progetto o indice analitico che permetta di intravvedere su quali li­nee si sarebbero articolati i restanti capitoli, se­condo quale impostazione e distribuzione della materia. Resta così insoddisfatto il desidero di sa­pere se aspetti appena sfiorati sarebbero stati in seguito approfonditi. Né si tratta di elementi mar­ginali, ma direttamente incidenti sulla struttura del libro. Ad esempio, non viene tracciato un qua­dro quantomeno di massima delle articolazioni istituzionali, politiche e organizzative della re­pubblica fascista, che sembra vivere esclusiva- mente attraverso i vertici del partito e del gover­no. Altrettanto si può dire delle strutture dell’oc­cupazione tedesca, su cui mai ci si sofferma con la dovuta larghezza e sistematicità, mentre la nar­

razione indugia a lungo (specialmente nel quar­to capitolo) sui rapporti tra i rappresentanti del Reich e gli esponenti di Salò, fornendo spunti si­curamente utili, ma anche di breve raggio, tutti interni alle molte controversie innescate dalla me­morialistica. Non è dato sapere se e in qual mi­sura De Felice si proponesse di colmare tali la­cune nel seguito del lavoro. Di certo la loro esi­stenza orienta la lettura in una unica direzione, nella quale il centro della scena è costantemente occupato dalla ragnatela dei rapporti interni ad un gruppo molto ristretto di personaggi. Di qui il carattere fortemente affabulatorio soprattutto dei due capitoli dedicati all’attività politica di Mus­solini e del suo entourage. Gli interrogativi circa la volontarietà di queste scelte sono destinati, s’è detto, a restare senza risposta, ma anch’essi in­ducono a chiedersi— dato naturalmente per scon­tato che sia i tre capitoli licenziati dall’autore, sia il quarto, troncato prima della fine, meritano di essere conosciuti e discussi — se non sarebbe sta­to preferibile una veste editoriale diversa, più ade­rente al carattere parziale del testo.

Il libro intreccia due percorsi, entrambi scan­diti con chiarezza: da un lato, nel primo e ultimo capitolo, la vicenda politica e personale di Mus­solini; dall’altro, nei capitoli centrali, quelle che De Felice considera le due coordinate di fondo di ogni cornice esplicativa, la “catastrofe nazio­nale dell’8 settembre” e il già ricordato “dram­ma del popolo italiano tra fascisti e partigiani”. È risaputo come negli ultimi anni l’attenzione di De Felice si sia ripetutamente rivolta all’8 set­tembre e come essa si sia prevalentemente espres-

‘Italia contemporanea”, settembre 1997, n. 208

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sa, più che in contributi originali di ricerca, in in­terventi di tipo pubblicistico di cui la lunga in­tervita edita nel 1995 (Rosso e nero, a cura di Pa­squale Chessa, Milano, Baldini & Castoldi), for­nisce la sintesi più completa. La lettura dell’in­tervista lasciava supporre che il volume in ge­stazione, cui di continuo l’intervista rimanda, avrebbe sviluppato analiticamente, e comunque corredato dei dovuti riscontri documentari, le te­si affacciate in quella sede. E però un’attesa in gran parte delusa. De Felice fornisce bensì una esposizione più distesa e ricca di particolari, ma l’impalcatura concettuale resta sostanzialmente ferma a quelle sommarie enunciazioni, che qui vengono reiterate più come formule storiografi- che che come esiti di un’indagine. La “catastro­fe dell’8 settembre”, ripete De Felice, scava una voragine ben più profonda di quanto non spieghi il collasso dello Stato reso in tutta la sua am­piezza dalla dissoluzione dell’esercito; equivale alla “morte della patria” e “con essa della na­zione come vincolo di appartenenza ad una realtà etico-politica consapevole della propria ‘ragio­ne storica’” (p. 87). Quanto alla “guerra civile”, De Felice toma a ribadire che fu effetto di due ristrette minoranze, entrambe prevaricatrici del­la volontà della grande maggioranza degli italia­ni, preoccupata solo di “sopravvivere” e di sot­trarsi all’incubo della guerra distruggitrice. La migliore conferma, sempre secondo De Felice, verrebbe dal fatto che, nonostante la responsabi­lità della guerra civile ricadesse principalmente sui fascisti per non essersi, questi, “resi conto dell’abisso che si era frapposto tra loro e la gran maggioranza degli italiani e per essersi schiera­ti con i tedeschi”, la reazione di gran lunga pre­valente nel paese non fu “quella di unirsi a chi combatteva i fascisti e i tedeschi o, almeno, di identificarsi con essi e con la loro causa, ma quel­la, come abbiamo già detto più e più volte, di estraniarsi non solo materialmente ma anche mo­ralmente dalla lotta, di non compromettersi né con i fascisti né con i partigiani e di pensare so­lo a sé stessi, tutto riportando nell’ottica della so­pravvivenza”. E prosegue affermando che quel­la appena descritta non fu la sola reazione, “ché

un’altra risposta fu quella — per forti che fosse­ro l’ostilità nei confronti dei fascisti e la ripro­vazione per le loro violenze e per Tessersi mes­si con i tedeschi — di porli talvolta sullo stesso piano e persino di attribuire le maggiori respon­sabilità ai partigiani per avere con la loro pre­senza innescato un conflitto di cui pagavano le spese coloro che venivano a trovarcisi in mezzo senza aver nulla a che fare con esso e sentendo­si per di più estranei agli ideali, alle motivazio­ni di entrambe le parti” (p. 300). Abbiamo ri­portato per intero i passaggi salienti di una pagi­na che riveste un ruolo strategico nella costru­zione del libro perché ci sembra che essi renda­no con immediatezza, al di là della apparente li­nearità del giudizio, le asimmetrie e le incon- guenze della interpretazione che De Felice pro­pone. Su un punto essenziale soprattutto, relati­vo al nesso da porre tra la “morte della patria” e il chiamarsi fuori dalle alternative della guerra civile. Mentre infatti la “vera spiegazione” dell’8 settembre, per citare ancora le parole di De Fe­lice, va cercata, senza indulgere a “schematizza­zioni più o meno classiste”, “nella condizione culturale e morale dell’Italia” (p. 89), il succes­sivo estraniarsi risulta dettato piuttosto dalle pul­sioni esistenziali legate alla eccezionalità della situazione, dalla volontà di comunque sopravvi­vere. Che è concetto ben lontano da quello che De Felice, dichiarando di condividerlo appieno, ricava da Vittorio De Caprariis, laddove questi osserva che i comportamenti più diffusi nel 1943- 1944 rispecchiavano l’atteggiamento “di chi, do­po aver combattuto invano contro forze sover­chiami, si disanima al fine e si ritira dalla lotta per lasciarsi morire” (p. 93). Lo scarto tra i due giudizi non potrebbe essere più stridente. Il de­ficit morale cui De Felice rimanda (e su cui a lun­go si era trattenuto nel precedente volume della biografia mussoliniana) per motivare il tracollo del paese ben prima dell’8 settembre e la sotto- lineatura di De Caprariis dell’aver “combattuto invano contro forze soverchiami”, introducono infatti a due conclusioni lontane se non opposte: la ricerca della “sopravvivenza” in De Felice, il “lasciarsi morire” in De Caprariis (che De Feli­

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ce forza sino a renderlo equivalente al “lasciarsi vivere estraniandosi da tutto”, p. 98).

Tuttavia, vale ribadirlo, il filo del discorso non esce mai dalFambito della controversia storio­grafica. I molti riferimenti bibliografici di cui è intessuto recuperano una parte rilevante della let­teratura, soprattutto memorialistica, sul periodo, il che consente di accumulare un’ampia messe di giudizi che De Felice ritiene facciano in varia mi­sura da supporto alla sua tesi, ma che non con­sentono in ogni caso di oltrepassare i limiti di un panorama impressionistico. Quel “popolo italia­no” che campeggia nel titolo del terzo capitolo non è mai un soggetto, ma solo l’oggetto cui le forze in lotta costantemente si riferiscono per ana­lizzare le reazioni della popolazione alla loro pre­senza e iniziativa. La scena sociale resta vuota, come trasfigurata dall’imperativo biologico del­la “sopravvivenza”, tale da cancellare differen­ziazioni sociali e matrici culturali a favore dello stereotipo “gente”, di cui non casualmente De Fe­lice fa largo uso. Lo stesso De Felice, del resto, sembra percepire la fragilità della propria argo­mentazione quando, ad esempio, accompagna la definizione di “zona grigia” con la considerazio­ne che “così dicendo non usiamo un termine di riferimento generico, ma ben preciso” e soprat­tutto laddove afferma che, sulla scia degli avve­nimenti, “coloro che col passare del tempo riu­scirono realmente a non prendere assolutamente posizione furono solo una minoranza” (p. 292). L’iniziale estraneità della grande maggioranza non è dunque un dato immobile, ma la tappa di un percorso evolutivo che obbedisce a contesti e tempi diversi e che De Felice in parte esplora con considerazioni che giustamente ricusano un uti­lizzo rigido della contrapposizione fascismo/an- tifascismo, o comunque di una spiegazione pura­mente politica dei comportamenti individuali e di gruppo (e v’è da lamentare, a quest’ultimo pro­posito, che gli spunti sul cangiante atteggiamen­to delle popolazioni verso la guerra partigiana non siano affiancati da altrettante indicazioni su in­tensità e motivazioni dei fenomeni di collabora­zionismo). Si può dire, in definitiva, che non ap­pena De Felice cerca di calare la propria tesi nel

flusso degli avvenimenti la unilateralità della enunciazione iniziale si stempera, anche se il ver­sante più esplorato resta quello di una dimensio­ne psicologica e morale largamente disancorata da ogni riferimento incisivo al tessuto sociale.

Con il quarto capitolo, come già nel primo, si toma nell’alveo dell’operato di Mussolini. De Fe­lice ripercorre passo passo le tracce della memo­rialistica e illumina il tentativo di Mussolini di costruire una realtà politica e statuale che, legit­timata dal ritorno di unità italiane sul fronte di guerra, potesse guadagnarsi qualche spazio di au­tonomia nei confronti della Germania. Il disegno si inceppa rapidamente e di fatto si esaurisce, nel giudizio di De Felice, con la primavera del 1944 sia per le soffocanti interferenze tedesche sia, non meno, per le dinamiche interne al gruppo diri­gente fascista, frantumato in clan che si conten­dono le residue posizioni di potere miscelando continuamente eredità del regime e velleitarie pulsioni al rinnovamento. Non mancano in que­sta parte le pagine convincenti, come dimostra la ricostruzione della parabola del Partito fascista repubblicano dalla “provvisoria” attribuzione della segreteria a Pavolini all’assemblea di Vero­na, dalla decisiva questione della “politicità” del­le forze armate alla mancata sostituzione, nel gen­naio 1944, di Pavolini con Fulvio Balisti. Il ca­leidoscopio dell’universo fascista ne esce ade­guatamente illuminato, così come l’incapacità di Mussolini — sempre oscillante tra rassegnazio­ne e fiammate di attivismo — a governarlo, a ri­proporsi non solo come capo ma come simbolo unificante di quel mondo. Proprio per questo è difficile condividere la risposta che De Felice for­nisce all’interrogativo sulle ragioni che induco­no Mussolini a correre l’avventura della Repub­blica sociale. Mussolini, scrive De Felice, “rias­sunse il potere perché solo a questa condizione Hitler non avrebbe fatto dell’Italia da lui occu­pata una sorta di Polonia e perché sperava di po­tere con la sua presenza rendere meno pesante il regime di occupazione, in particolare di impedi­re che i tedeschi avessero carta bianca nelle ‘zo­ne d’operazione’ delle Prealpi e del Litorale Adriatico e se le annettessero” (p. 66). Al di là

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del fatto che Prealpi e Litorale Adriatico non com­pariranno mai nel corso del libro — così che il riferimento citato assume un puro valore retori­co —, ciò che appare storicamente inattendibile è la considerazione del personaggio Mussolini come di un’entità separabile dalla restante realtà fascista del dopo 8 settembre. Di quella realtà Mussolini resta l’immagine più prestigiosa, ma il suo ruolo di comando è stato intaccato in mo­do irreparabile. Tanto è vero che quando annun­cia il suo ritorno deve accettare una serie di scel­te che in parte, restando a De Felice, sono in ur­to con la sua visione (Pavolini alla testa del Par­tito, la Milizia come cellula di un futuro “eserci­to politico”, una lista di ministri largamente im­posta), in parte rimandano confusamente alla pos­sibile identità di uno stato repubblicano che non

realizzerà nemmeno le sue più elementari im­palcature (si pensi alla questione della mancata Costituente). Mussolini non è scindibile, quali che siano i suoi personali stati d’animo (a co­minciare dalla peraltro ambigua resipiscenza pa­triottica di cui De Felice gli fa credito), da que­sto intreccio di fattori, che altro non sono che ere­dità del regime in cerca di trapianto nella situa­zione creata daH’armistizio e dall’occupazione tedesca. Immaginare soluzioni alternative equi­vale, per involontaria ironia, a ipotizzare che an­che Mussolini potesse entrare a far parte di quel­la grande maggioranza di italiani che, secondo l’opinione di De Felice, si dichiararono egual­mente estranei al fascismo e all’antifascismo.

Massimo Legnani

Socialismo e capitalismo in Europa occidentale

Simone Neri Serneri

“Il socialismo è morto, viva il socialismo” po­trebbe essere l’epitaffio da apporre alle quasi mil­le pagine dedicate da Donald Sassoon al sociali­smo europeo di questo secolo, One HundredYears ofSocialism. The West European Left in thè Twen- tieth Century, London-New York, Tauris, 1996, pp. 966,36 sterline. Un’opera ponderosa, di cui si attende la traduzione italiana (soltanto le conclu­sioni sono state tradotte e pubblicate in “Italia con­temporanea”, 1995, pp. 581-605, con il titolo L'ombra del capitalismo. Storia e prospettive del capitalismo europeo), sorretta da un interrogativo ancor più ponderoso: cosa ha realizzato il sociali­smo in Europa? Dove è riuscito? Dove è fallito? Non è, perciò, una storia del movimento, né dei partiti socialisti, quanto piuttosto una ricerca del­le ragioni storiche della crisi attuale del sociali­smo europeo. Ecco perché Sassoon adotta una par­ticolare profondità di campo, che dilata l’atten­zione e la narrazione con ravvicinarsi al tempo presente e fa sì che, dei “cent’anni di socialismo”

menzionati nel titolo, la prima metà resti assai po­co considerata. Questa impostazione, fonte di un certo disagio per chi non disprezza i tradizionali canoni storiografici, rivela i suoi pregi via via che, di capitolo in capitolo, le chiavi interpretative pro­poste si rivelano interessanti e solide.

In effetti, il volume offre un’approfondita e informata trattazione delle maggiori questioni po­litiche ed economiche che hanno scandito la sto­ria d’Europa nella seconda metà del secolo, di so­lito considerandole dapprima nei loro termini ge­nerali e, poi, verificandole in modo analitico e com­parativo nei diversi paesi europei, anche se, forse, maggiore attenzione è rivolta a Gran Bretagna, Germania e Svezia (mentre, per esempio, la vi­cenda italiana risente di un certo schematismo). Ne risulta, perciò, una ricostruzione pressoché uni­ca per l’arco cronologico e l’ampiezza della com­parazione adottati e assai valida anche per un uso manualistico. D’altro canto, per l’impostazione di cui si è detto, essa risulta chiaramente ordinata e

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intelligentemente innervata da alcuni assunti prioritari: relativa omogeneità e comparabilità del­le vicende déll’Europa occidentale, distinta da quella orientale, oltreché dal resto del mondo; stretta compenetrazione, almeno nella seconda metà del secolo, tra sviluppo del capitalismo eu­ropeo ed esperienza della sinistra continentale (compresi i partiti comunisti, a partire da quello italiano); rilevanza decisiva della dimensione na­zionale oppure intemazionale del campo di azio­ne dei partiti e, rispettivamente, delle forze eco­nomiche con cui questi si confrontano.

Essendo ovviamente impossibile dar conto, anche per campioni, delle innumerevoli questio­ni affrontate da Sassoon, e limitandosi perciò sol­tanto alle linee portanti del saggio, va comunque sottolineato come, in generale, la narrazione sia condotta con mano sicura e scrittura piacevole, e fonda con discreto equilibrio esposizione dei fat­ti e giudizi di merito, gli uni e gli altri sorretti da un’ampia ricognizione delle fonti edite disponi­bili (per lo più pubblicistica coeva e raccolte di documenti) e da un ’approfondita conoscenza del­la letteratura storica e sociologica, soprattutto an­glosassone, mentre minore è il riferimento a ri­cerche e tematiche politologiche.

Si è detto che Sassoon intende misurare il so­cialismo europeo essenzialmente sul metro dei suoi obiettivi dichiarati, a cominciare da quello massimo: il superamento o l’abbattimento del­l’economia capitalistica. Nei fatti, ciò porta a va­lutarne soprattutto l’opera di governo, dell’eco­nomia e della società, lasciando in ombra le di­mensioni sociali dei partiti in quanto attori poli­tici collettivi, e a concentrarsi sui decenni suc­cessivi al 1945. Quel che precede è trattato poco più che come un antefatto, di cui si sottolinea so­prattutto la contraddizione tra dichiarazioni pro­grammatiche e debolezza delle scelte pratiche, che avrebbe paralizzato i partiti dell’epoca. Ap­pare, invero, un approccio forse troppo ideologi­co e ingeneroso, perché — a differenza di quan­to Sassoon stesso fa per il periodo successivo — omette di cercare, dietro quelle contraddizioni, l’incidenza, tutt’altro che trascurabile, dei movi­menti socialisti organizzati sullo sviluppo e gli

esiti dei sistemi politici e sociali della prima metà del nostro secolo.

In realtà, a Sassoon preme sottolineare la frat­tura con il periodo successivo alla seconda guer­ra mondiale, quando, per una serie di contingen­ze, la sinistra europea riuscì, talora da posizioni di governo, a imporre un carattere sociale al ne­cessario compromesso che consentì la ripresa e la modernizzazione dell’economia capitalistica, ponendo le basi del consolidamento simbiotico del capitalismo e del socialismo europeo. In tal modo, però, restano nell’ombra la disparità del­le condizioni economiche e sociali e dei livelli di sviluppo e di integrazione nazionale, che non po­co contribuirono a determinare la natura e il ruo­lo dei partiti di sinistra all’interno dei vari paesi europei, nonché il loro grado di adesione alla cau­sa del proprio stato-nazione. Proprio quella ade­sione, si noti, che per Sassoon qualifica la fase politica apertasi dopo il conflitto mondiale.

Difatti, egli insiste nel ricordare che la nasci­ta del welfare state, le politiche di piena occupa­zione e di alti salari, le stesse nazionalizzazioni- che gradualmente avrebbero caratterizzato negli anni successivi lo sviluppo di diversi paesi euro­pei, scaturirono dalla egemonia politica dei so­cialisti, ma comportarono la sostanziale accetta­zione delle istituzioni statali e delle necessità del­le varie economie nazionali, a cominciare daquel- Ia della loro modernizzazione. In definitiva, co­me dimostrarono anche le scelte concrete di po­litica estera, al di là del fatto che fossero in dife­sa degli imperi coloniali o, invece, a sostegno del­la cooperazione europea, tutti i panili socialisti si identificarono con i rispettivi stati nazionali e accettarono il quadro generale della polìtica 'ame­ricana’, basata sulla crescita della produttività e dei consumi, pur dovendo necessariamente man­tenere bassi i salari (p. 207). Nel decennio suc­cessivo, il ‘disinteresse’ per la polìtica estera e il revisionismo ideologico, con la rinuncia esplìci­ta al finalismo socialista e alle concezioni eata- strofiste del capitalismo, testimoniarono ulte­riormente lo sforzo per adeguarsi, anche tattica­mente, alle condizioni della competizione polìti­ca nei singoli contesti nazionali.

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Questa chiave di lettura, accompagnata da un giudizio critico che tende a stemperarsi con il pro­cedere della narrazione, porta Sassoon a spiega­re l’eclisse dei socialisti negli anni cinquanta con il benessere prodotto dalla ripresa economica da loro stessi impostata e, ancora, a spiegare il loro ritorno al governo in molti paesi europei, nei ses­santa, con l’aprirsi di un nuovo ciclo politico, se­gnato dalla necessità di affrontare la crisi con­giunturale, rilanciare il welfare e dialogare con le rafforzate organizzazioni sindacali. Fu la stagio­ne delle politiche riformiste, che, seppur di soli­to assai poco incisive e di scarso respiro, contri­buirono a modernizzare e stabilizzare le econo­mie nazionali, nonché a favorire, finalmente, la crescita dei salari. I risultati, comunque, dipese­ro dal combinarsi di condizioni strutturali e scel­te politiche diverse da paese a paese: se i laburi­sti pagarono l’ostinata e tradizionalistica difesa della sterlina e dell’impero, la socialdemocrazia tedesca tentò una più innovativa politica dei red­diti, basata sulla concertazione sindacale e sul con­tenimento della disoccupazione, anche se il suc­cesso politico derivò soprattutto dagli alti tassi di crescita economica e le riforme più significative giunsero solo dopo il 1969, una volta abbando­nata la Grosse Koalition. La stessa socialdemo­crazia svedese, che pure a molti pareva riuscire nel comune intento di coniugare le esigenze del­la crescita capitalistica con gli ideali della redi­stribuzione socialista o, altrimenti, di raggiunge­re l’efficienza economica necessaria a sostenere il pieno impiego e il welfare state (pp. 320-322), rappresentava tutt’altro che un ‘modello’ espor­tabile, basata com’era su peculiari condizioni so­ciali e non meno peculiari caratteri del proprio ca­pitalismo nazionale (pp. 43 sg., 157-158, 203- 207). D’altronde, anche in politica estera restò difficile definire un comune indirizzo ‘ socialista’. Pur con alcune parziali eccezioni (il graduale di­simpegno laburista dalle colonie, V Ostpolitik, il policentrismo teorizzato da Togliatti), prevalsero i vincoli intemazionali e la fedeltà al bipolarismo, come dimostrarono eloquentemente il caso del Vietnam e della ‘primavera di Praga’. La stessa scelta europeista, per quanto talora sostenuta con

entusiasmo, non fu integrata con la politica inter­na: in effetti, “le fortune del socialismo furono inesorabilmente legate a quelle della nazione (ca­pitalistica) in cui operava” (p. 343).

E già ben evidente come Sassoon insista su tre principali considerazioni. Anzitutto, anticipando un giudizio positivo che egli esplicita soltanto nelle pagine conclusive, riconosce al socialismo il merito di aver ‘civilizzato’ il capitalismo euro­peo, rendendolo meno gerarchico e più umano, ovvero socialmente meno oneroso di quello ame­ricano o giapponese (pp. 763 sg.). Ciò si è con­cretizzato nella politica di welfare, nella ricerca della piena occupazione e nel graduale innalza­mento dei salari, ma sempre in una prospettiva di sostegno e di modernizzazione capitalistica: in altri termini, le fortune del socialismo non si so­no legate alla crisi, bensì alla crescita del capita­lismo, che ha consentito di reperire le risorse per quelle politiche sociali. Infine, egli sottolinea co­me il vincolo dell’accettazione dell’economia ca­pitalistica abbia trascinato con sé quello dell’ac­cettazione degli interessi politici ed economici nazionali e, quindi, della collocazione intema­zionale del proprio paese, inducendo una sostan­ziale identificazione tra socialismo e stato-na­zione, destinata a rivelarsi di corto respiro stra­tegico. E stato in larga misura questo insieme di vincoli o, meglio, la capacità di ciascun partito di farli propri e, se necessario, di modificarli a decretare il successo o il fallimento delle politi­che socialiste nei vari paesi europei.

Come li avevano sostenuti nei decenni del con­solidamento, questi vincoli condizionarono i partiti socialisti nella crisi che, dagli anni settan­ta, concluse F‘età dell’oro’ del capitalismo euro­peo. Già sul finire del decennio precedente, in­vero, la ripresa del radicalismo operaio, la ribel­lione studentesca e, di lì a poco, la rinascita del femminismo — cui Sassoon dedica ampio spa­zio — avevano mostrato i limiti e, ad un tempo, le sfide che quel modello di sviluppo andava in­contrando, sia sul piano economico, per la ten­sione tra alti salari e crescita della produttività, segnalata dalla ripresa dell’inflazione, sia sul pia­no sociale e culturale, per effetto del maggior be­

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nessere e dei nuovi stili di vita. Tuttavia, la crisi e la sconfitta dei partiti socialisti e, con loro, dei sindacati, che pure proprio in quegli anni parve­ro acquisire un proprio autonomo potere sulla ba­se della concertazione neocorporativa, scaturiro­no da un capovolgimento ben più radicale.

La fine del ciclo espansivo e, quindi, della re­golazione politica del capitalismo si manifestò con la ripresa dell’inflazione e, di lì a poco, del­la disoccupazione, concomitanza che impedì le tradizionali ricette keynesiane e indusse a ri­correre prima alla politica dei redditi e, poi, al neoliberismo e al monetarismo, assurti — come è largamente noto — a ideologia dominante de­gli anni ottanta. I conservatori tornarono a im­porre la propria agenda politica, imperniata non più sulla redistribuzione del surplus, bensì sul drastico ridimensionamento del ruolo dello Sta­to, accusato di impedire la ristrutturazione indu­striale e irrigidire i mercati. Peraltro, nota Sas­soon, almeno fino ai primi anni novanta la dere­gulation dei mercati non sarebbe servita a conte­nere l’inflazione e, per questa via, a favorire la ripresa e l’occupazione. Peraltro, dovendo sce­gliere, prevalse il fatto che erano più numerosi gli elettori colpiti dall’inflazione che dalla di­soccupazione.

Dove Sassoon appare particolarmente con­vincente, tuttavia, è nell’imputare il declino po­litico dei partiti socialisti allo sgretolarsi di quel­la divisione intemazionale del lavoro basata sul­la tendenziale identificazione tra capitalismo e stato-nazionale, che aveva sorretto l’espansione postbellica e di cui èssi erano stati leali sosteni­tori. La recessione apertasi negli anni settanta, di­fatti, scaturì da un molteplicità di cause, tra le quali la rigidità del welfare state non fu più gra­vosa degli shock indotti dalle crisi petrolifere e dall’abbandono del sistema di cambi fissi (p. 458). Pesò, piuttosto, il fatto che, per l’entità rag­giunta dal commercio intemazionale, i cambi flut­tuanti resero le economie nazionali fortemente dipendenti dal rapporto tra i prezzi relativi e, quin­di, dai differenziali d’inflazione: in sostanza, an­che la socialdemocrazia si trovò a dipendere, co­me ogni forza nazionale, dall’equilibrio della bi­

lancia dei pagamenti e non potè perciò procede­re a una politica espansiva, perché avrebbe ac­cresciuto le importazioni meno costose, favoren­do la ripresa dell’inflazione e diminuendo la com­petitività delle industrie nazionali. La sola possi­bile alternativa sarebbe stata un coordinamento delle politiche espansive, in una prospettiva di medio termine e, soprattutto, nella consapevo­lezza dell’incipiente erosione della sovranità eco­nomica nazionale (pp. 459-460).

Analizzando in dettaglio le risposte e i risul­tati dei socialisti nei piccoli come nei grandi sta­ti, Sassoon mostra che anche laddove, come in Austria e Svezia, fu possibile contenere gli effet­ti della crisi con l’intervento pubblico e la politi­ca dei redditi, il successo dipese da un insieme di condizioni specifiche, dalle peculiari risorse di quei sistemi sociali ed economici e dal sostegno delle esigenze del capitalismo nazionale. Anche lì, comunque, nel corso degli anni ottanta si do­vettero ridimensionare le prestazioni del welfare, il settore pubblico e il molo dei sindacati, proprio perché l’insufficienza del mercato interno e l’ac­cresciuta internazionalizzazione di quelle econo­mie rendevano destabilizzanti e inefficaci le tra­dizionali ricette espansive. Se in questi paesi si imparò gradualmente a convivere con un’econo­mia sempre più intemazionalmente interdipen­dente, altrove, come in Olanda e Belgio, le diffe­renti condizioni politiche e, soprattutto, la già ma­tura internazionalizzazione del sistema economi­co ridimensionarono bruscamente molo e propo­ste dei socialisti. Ad analoghe conclusioni porta il raffronto tra il caso della Gran Bretagna — do­ve il rifiuto di una politica di programmazione e la mancata concertazione tra governo e sindaca­to esaltarono le pressioni finanziarie intemazio­nali e accentuarono le disparità salariali, aprendo la strada al thatcherismo — e quello della Ger­mania,- ove i maggiori poteri di indirizzo del go­verno, la tradizione della “economia sociale di mercato”, la consapevolezza della necessaria in­tegrazione intemazionale dell’economia tedesca, nonché, non ultima, la sua maggiore solidità, con­sentirono di limitare il ridimensionamento delle politiche sociali e di gestire gli effetti sociali del­

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la ristrutturazione. Non meno eloquenti paiono, infine, le esperienze della Francia — ove soltan­to sul finire degli anni ottanta, ormai troppo tar­di, il nazionalismo economico lasciò il posto al­l’europeismo — e dei paesi mediterranei (Spa­gna, Italia, Grecia), pure essi guidati nei primi an­ni ottanta da governi socialisti che, tuttavia, non furono in grado di promuovere un’inversione di tendenza su scala continentale: ciò avrebbe ri­chiesto — è questo un passaggio cruciale del­l’interpretazione di Sassoon — non il susseguir­si delle vittorie nelle singole nazioni, ma condi­zioni economiche favorevoli, invero all’epoca ine­sistenti, e, comunque, un coordinamento delle po­litiche espansive. Al contrario, mentre partiti e na­zioni proseguivano su strade separate, reagendo a impulsi locali, i vari capitalismi continuavano a svilupparsi e ristrutturarsi, “inarrestabili, nella loro cieca corsa, come acqua che cerca il piano più basso, reclamando l’abolizione dei limiti e delle regole che lo stato-nazione aveva eretto nel corso del secolo” (p. 619).

In conclusione, Sassoon fa scaturire la crisi del socialismo europeo e, in particolare, la rottura del favorevole compromesso imposto al capitalismo continentale dopo il 1945 anzitutto dalla trasfor­mazione strutturale di quello stesso capitalismo, ormai uscito dal suo guscio nazionale e divenuto sistema di accumulazione a base mondiale, cosic­ché ne risultavano profondamente alterate le for­mazioni sociali con cui i socialisti si erano fino ad allora confrontati (p. 644). Proprio quella trasfor­mazione, oltreché il venir meno del sistema di Bret- ton Woods, sottrasse alle istituzioni politiche — le cui risposte, comunque, tuttora spiegano le di­verse condizioni nazionali — la possibilità di con­trollare pienamente le dinamiche economiche in­terne e di coordinare quelle intemazionali (p. 460).

L’internazionalizzazione del capitalismo, il venir meno di quella identificazione tra capitali­smo e stato nazionale, cui i socialisti restavano ancora legati, perché su di essa avevano fondato le proprie fortune politiche, è, dunque, il fattore stmtturale che, imponendo la svolta neoliberista degli anni ottanta, ha aperto la strada al ritorno egemonico dei conservatori e chiuso l’epoca d’o­

ro del capitalismo sociale europeo e, al tempo stesso, una fase storica del movimento socialista. Come si vede, Sassoon affronta in modo assai ar­ticolato il nesso tra economia e politica e ne de­duce una periodizzazione che, per quanto ri­prenda quella de 11 secolo breve di Hobsbawm (Milano, Rizzoli, 1995), di questa appare più so­lida e convincente. Del resto, l’ampiezza e l’ef­ficacia della ricostruzione storica che sorregge l’analisi del declino o, almeno, del marcato arre­tramento dei movimenti socialisti nell’ultimo de­cennio distingue il giudizio di Sassoon da quelli che, in modo altrettanto epocale, ma assai più ge­nerico, chiamano in causa i processi di moder­nizzazione, forieri di valori e codici comporta­mentali individualistici, e perciò antitetici alla cultura solidaristica e tendenzialmente statalista dei partiti socialisti, oppure, in modo più circo- scritto, responsabili dell’erosione dei loro tradi­zionali referenti sociali ed elettorali.

Non che in Sassoon non vi sia, ancorché me­no approfondito, il richiamo al mutamento di va­lori e alle trasformazioni sociali e culturali (dal­la cosiddetta fine del taylorismo alla femmini- lizzazione del lavoro, alla diffusione del part-ti­me, alla questione ambientale, ecc.) che, pur non necessariamente avverse ai socialisti, impongo­no un rinnovamento profondo delle proposte e dei programmi. Ma il rilievo di queste tematiche è da intendersi in riferimento alla improcrastina­bile elaborazione di una nuova agenda socialista, più che al loro impatto diretto sugli equilibri po­litici ed elettorali (pp. 655-656 e 690).

Gli anni ottanta, difatti, si sono chiusi con la stipula di un secondo compromesso tra socialde­mocrazia e capitalismo, questa volta, però, alle condizioni poste dal neoliberismo, e non è dato sapere se esso costituisca la resa de facto del so­cialismo o solo la fine della sua preistoria (p. 692). E pur vero, comunque, che, come sostiene con una buona dose di ragioni Sassoon, il cosiddetto “neorevisionismo” da allora dominante la cultu­ra dei partiti socialisti europei è un ineludibile punto di partenza, la cui meta, tuttavia, resta lar­gamente incerta. Alla fine di quel decennio, il dra­stico ridimensionamento delle Trade Unions in

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Gran Bretagna e il fallimento del progetto di de­mocrazia economica delineato nel piano Meidner in Svezia, dei quali il volume offre una ap­profondita disamina, segnarono emblematica­mente la sconfitta storica di due tra le più forti tra­dizioni del socialismo continentale e aprirono la strada a una svolta politica che, in tutta Europa, portò i socialisti ad abbandonare il keynesismo e, con esso, il paradigma della piena occupazione e dell’intervento pubblico quali strumenti primari di regolazione del mercato; a rinunciare ai valori del produttivismo e della programmazione; a ri­considerare il carattere universalista del welfare state e la finalità stessa della redistribuzione dei redditi, fino ad allora distintivi della politica so­cialista; perfino a dismettere il riferimento priori­tario ai lavoratori industriali e ai sindacati; ad ac­contentarsi di una più limitata regolazione legi­slativa dell’economia e del mercato capitalistici; ad abbandonare l’ipotesi di una ‘via nazionale al socialismo’, per scegliere senza incertezze la Cee e, poi, l’Europa di Maastricht e tentare una con­certazione intemazionale delle politiche econo­miche (pp. 734 sg.). Tutto questo perché, se muo­versi in avanti non è garanzia di successo, rima­nere fermi dà certezza della sconfitta (p. 754).

Tuttavia, le ricette del ‘neorevisionismo’ ser­vono per la navigazione a vista, ma non bastano a dettare l’agenda di un eventuale socialismo del se­colo venturo. Non spetta allo storico, peraltro, riempire quei vuoti, ma, tutt’al più, ricordare la strada percorsa e, alla luce dell’esperienza, addi­tare gli ostacoli che costringono il cammino. E, al­lora, quali consapevolezze restano in questa fine di secolo? Anzitutto, che il welfare state non solo ha opportunamente temperato la crudità sociale del capitalismo, ma, verosimilmente, ha contri­buito non poco a stabilizzarlo, da ultimo nella re­cente crisi degli anni ottanta (p. 797). Un altro mo­tivo, dunque, per non sbarazzarsene a cuor legge­ro, benché — a differenza di quanto scrive Sas- soon (p. 773) — anche in questo campo appaia as­sai limitata l’autonomia d’azione dello stato na­zionale. D’altra parte, se indubbiamente l’azione politica può ritrovare obiettivi ed efficacia soltan­to acquisendo una dimensione continentale, non

si può non concordare con Sassoon che ancora de­bole è una possibile identità ‘nazionale’ europea e che l’Unione europea appare profondamente se­gnata dal marchio d’origine liberista, mentre gli Stati nazionali godono di una ben più salda legit­timazione democratica e non a torto, perciò, sono difesi dai loro cittadini elettori, oltreché dai loro governi. Ma proprio qui nasce l’altro corno del di­lemma: poiché, nonostante tutto, lo stato nazio­nale resta relativamente solido, nella competizio­ne globale esso serve, in primo luogo, a difende­re gli interessi ‘nazionali’. Un compito che, sia sul piano ideologico, sia su quello delle prestazioni politiche ed elettorali, inevitabilmente avvantag­gia i partiti conservatori, anziché l’europeismo dei socialisti: globalizzazione del capitale e naziona­lismo vanno di pari passo (pp. 775-776).

E allora segnato il destino del socialismo? In verità, se la coesione e la congruenza dell’analisi e della prognosi di Sassoon mostrano un limite di, per così dire, eccessiva coerenza, questo scaturi­sce dalla scelta metodologica di privilegiare deci­samente e unilateralmente la dimensione politica e, quindi, l’azione istituzionale e di governo dei partiti socialisti. Tralasciando quanto attiene ai partiti nella loro qualità di forze sociali organiz­zate, quanto rende ragione del loro costituirsi e ri­costituirsi come strumento di proiezione delle frat­ture e delle aggregazioni sociali sulla sfera del con­flitto politico, Sassoon finisce per precludersi — al di là di alcune occasionali annotazioni — un’a­nalisi ‘dal basso’ delle forme storicamente assun­te dai nessi tra partiti e società, al punto che que­sti, almeno implicitamente, paiono essere costi­tuiti per lo più dall’alto. Invece, le sorti dello Sta­to nazionale e, sulle spalle di questo, dell’Europa paiono non poco dipendere dalla capacità di far­ne il terminale istituzionale di gerarchie o reti di aggregazione politica che, lungi dall’essere mero rispecchiamento di vincoli comunitari e fratture territoriali, procedano, secondo l’antica ispirazio­ne socialista, dal disvelamento — dentro le forme nuove del lavoro e del consumo — di poteri e bi­sogni sociali ineguali.

Simone Neri Serneri

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La sfera pubblica femminile nella Germania hitleriana

Helga Dittrich-Johansen

Frutto di ricerche, basate su fonti archivistiche e orali, iniziate nei tardi anni settanta sull’onda del­la sensazione di “catturare la storia perduta di un’era remota e finita per sempre” (p. 5), il libro che Claudia Koonz ha dedicato alle Donne del Terzo Reich (Firenze, Giunti, 1996, pp. 431, lire45.000) è uscito nel nostro paese a ben dieci an­ni di distanza dalla prima edizione americana, il cui titolo originale— Mothers in thè Fatherland. Women, thè Family and Nazi Politics (New York, St. Martin’s Press, 1986) — consente, assai me­glio di quello della versione italiana, di apprez­zare il tentativo compiuto dall’autrice di andare ben oltre la semplice ricostruzione di una storia del nazismo al femminile, nell’intento di ridise­gnare la presenza delle donne (e i ruoli da loro ricoperti) in un periodo molto complesso e pro­blematico quale fu quello vissuto dalla Germa­nia a partire dagli ultimi anni di agonia della re­pubblica di Weimar fino al drammatico e fatale tracollo del folle sistema politico hitleriano.

Non si tratta —- avverte subito l’autrice — di una vicenda caratterizzata da spettacolari colpi di scena. A ben vedere, la storia delle donne nel Terzo Reich procede, in larga misura, sui tran­quilli e collaudati binari della normalità e della quotidianità, è “banale e poco appariscente” (p. 52), ed è in ciò che risiede il suo fascino. Attra­verso un’analisi incisiva e serrata delle motiva­zioni sociali, psicologiche e culturali, e ben rico­struendo il convulso clima politico di quegli an­ni, caratterizzato dalle attese palingenetiche che animavano buona parte della popolazione tede­sca dopo l’umiliante diktat imposto dal Trattato di Versailles, l’autrice ripercorre le vicende che condussero le numerose associazioni femminili tedesche, sorte ben prima della stabilizzazione del regime nazionalsocialista, a rinnegare le ri­vendicazioni di un tempo e ad apportare un fat­tivo contributo al successo elettorale del futuro Führer, alla messa in pratica dei suoi programmi

di purificazione razziale e, in ultimo, alla costru­zione di quel “nuovo ordine europeo” interamente subordinato alle esigenze economico-militari e ai piani di conquista tedeschi.

Capire come sia stato possibile per le donne esercitare un ruolo attivo all’intemo di uno Sta­to tanto misogino come quello nazionalsociali­sta, sottolineando l’ambiguità dell’atteggiamen­to tenuto dalla classe dirigente nei loro confron­ti, non è però il solo motivo ad aver spinto la Koonz a interrogarsi sul complicato intreccio esi­stente tra totalitarismi e sesso femminile. Il libro tenta, infatti, anche di fornire delle spiegazioni che rendano ragione del perché migliaia di don­ne “perbene”, incluse quelle più emancipate che avevano in precedenza militato nei movimenti di rivendicazione dei diritti femminili, scelsero vo­lontariamente di servire un regime che sin dal­l’inizio si era mostrato chiaramente intenzionato ad escluderle dall’accesso alla sfera pubblica e a valersi della loro collaborazione esclusivamente nell’ambito di una politica natalista tesa al po­tenziamento e all’affermazione di un’utopistica “razza pura”. Certo, in questa adesione consen­suale al nazionalsocialismo esercitarono una lar­ghissima influenza le innegabili doti carismati­che di Hitler, da molte addirittura venerato fana­ticamente, nonostante nei suoi scritti e interven­ti ufficiali egli non avesse mai fatto mistero del­le proprie personali convinzioni circa i caratteri e i limiti della natura femminile. Ma, secondo Koonz, le contraddizioni, per quanto non esa­sperate e laceranti come nella Germania del pe­riodo tra le due guerre, sono presenti e ben visi­bili ancora oggi, in un’Europa pericolosamente e nuovamente attraversata da venti reazionari. Nell’introduzione scritta all’edizione italiana, l’autrice fa notare che non vi è poi una così mar­cata differenza tra le dirigenti naziste e le donne della destra italiana affermatesi dopo le elezioni del 1994, donne che, ora come allora, condanna­

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no l’emancipazione femminile avvalendosi di una condotta politica moderna e dinamica. La storia si ripete: le reazionarie si avvantaggiano delle conquiste compiute dal movimento femminista, che non esitano però a condannare.

Ricostruendo il clima politico e culturale del­la Germania prima e durante il regime nazional­socialista, Koonz offre un quadro della realtà femminile dell’epoca molto più complesso e as­sai meno monolitico di quanto, sino a non mol­ti anni fa, si era indotti a pensare. Supportando le proprie argomentazioni con il ricorso a pun­tuali citazioni desunte da testi di propaganda na­zista, e avvalendosi di un ampio repertorio di ma­teriale orale, senza ignorare le più recenti acqui­sizioni storiografiche sul tema — a partire dagli studi compiuti da Tim Mason a metà degli anni settanta (cfr. Women in Germany, 1925-1940, “History Workshop. A Journal of Socialist Hi- storians”, 1976, n. 1-2), fino ai più vicini contri­buti di Dagmar Reese sulle donne impiegate al­la Siemens nel lager di Ravensbrück (cfr. Homo homini lupus. Frauen als Taeterinnen, “IWK. In­ternationale wissenschaftliche Korrispondenz zur Geschichte der deutschen Arbeiterbewe­gung”, 1991, n. 1; Coinvolgimento e responsa­bilità. Le adolescenti alla guida della Lega del­le fanciulle tedesche, intervento al seminario in­ternazionale “Donne, guerra, Resistenza nel­l’Europa occupata”, sul quale si veda “Italia con­temporanea”, 1995, pp. 343-347) e di Gudrun Schwarz sul ruolo ricoperto dalle donne nella ese­cuzione pratica delle leggi razziali (cfr. Die na­tionalsozialistischen Lager, Frankfurt am Main, 1990 e Donne SS addette alla sorveglianza nei campi di concentramento nazisti 1933-1945, in­tervento al seminario sopra citato) — l’opera si caratterizza per l’essere un vero e proprio spec­chio delle molteplici componenti della società femminile dell’epoca. Polemizzando aperta­mente con le tesi della storica tedesca Gisela Bock, secondo la quale il fatto che le misure di sterilizzazione coatta abbiano colpito anche cir­ca 150.000 donne “ariane” non può che portare alla conclusione che le donne furono unicamen­te delle vittime del razzismo nazista (cfr. Zwang-

sterilisation im Dritten Reich. Studien zur Ras- senpolitik und Frauenpolitik, Opladen, 1986 e Antinatalism, Maternity and Paternity in Natio­nal Socialist Racism, in Maternity and Gender Policies. Women and thè Rise of thè European Welfare States, 1880-1950, London, Routledge, 1994), l’autrice compie un’analisi puntuale del­le numerose responsabilità che le dirigenti delle principali associazioni femminili tedesche ebbe­ro nel determinare e favorire l’avvento di Hitler al potere e il consolidamento del suo regime nei successivi dodici anni.

L’opera si apre con l’intervista rilasciata nel 1981 all’autrice da Gertrud Scholtz-Klink, la don­na più potente del Reich, colei che, esercitando una influenza trasversale in uno Stato di soli uomini, giunse a dirigere nel 1941 circa trenta milioni di tedesche. Un incontro che, però, si è rivelato sot­to molti aspetti deludente, risolvendosi nel vuoto e inconcludente chiacchiericcio di una ex-funzio- naria e burocrate che del proprio passato non ha mai rinnegato nulla. Passando in rassegna le espo­nenti più carismatiche del mondo femminile tede­sco — le donne del ceto medio riunite nel Bund Deutscher Hausfrauen (l’Associazione delle casa­linghe tedesche), le evangeliche e le cattoliche — emerge, al di là delle differenze esistenti in mate­ria di politica familiare e di educazione della don­na, il profondo risentimento che accomunava que­ste donne nei confronti di ebrei e comunisti, la de­lusione per il sistema weimariano, 1 ’ impellente ne­cessità di poter legarsi a una nuova fede intrisa di nazionalismo e temi palingenetici. Donne che sce­sero a compromessi con il partito nazista, da cui scelsero di lasciarsi cooptare e assorbire, nella il­lusoria speranza di riuscire a difendere una loro sfera privata di azione e di conservare un certo gra­do di autonomia organizzativa. Una illusione, ba­sata su di una irrealistica percezione del proprio potere, che le indusse ad aderire persino alla poli­tica antisemita, ad accettare l’espulsione delle “non ariane” dalle loro organizzazioni e infine a colla­borare al programma della “soluzione finale” del­la questione ebraica. Koonz individua le moltepli­ci ragioni che portarono migliaia di tedesche a par­tecipare alla grande crociata nazista, ma non le giu­

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stifica e non risparmia accuse durissime nei con­fronti di quante, “anziché costituire un argine con­tro l’incorporazione delle donne da parte del na­zismo [...] ne furono esse stesse il vettore” (p. 76). Parole altrettanto dure vengono pronunciate dal­l’autrice verso le istituzioni, in primo luogo ec­clesiastiche, colpevolmente cieche e indifferenti di fronte alla sterilizzazione imposta ai minorati fisi­ci e psichici, alla propaganda antisemita e all’or­dine del terrore instaurato nei lager. Se va ricono­sciuto che vi furono molte persone che singolar­mente si adoperarono, a rischio anche della pro­pria vita, per la salvezza degli ebrei, “le istituzio­ni — e soprattutto le chiese — continuarono a ta­

cere. Le organizzazioni ebraiche, in mezzo a que­sta apatia collettiva, erano impotenti” (p. 367).

L’opera, che si configura come un significativo contributo nella pur vasta storiografia esistente sul nazionalsocialismo, si chiude con la trascrizione dell’intervista, rilasciata all’autrice, nell’estate del 1983, dalla dottoressa Jolana Katz Roth, un’ebrea sopravvissuta ad Auschwitz. Come un cerchio, il libro, apertosi con la deludente testimonianza di Scholtz-Klink, termina con le parole di una delle tante vittime di quella ideologia e politica cui la Fiihrerin aveva votato la propria esistenza.

Helga Dittrich-Johansen

Dai mestieri artigiani alla fabbrica capitalistica

Maurizio Bettini

Il libro di Simonetta Ortaggi Cammarosano, Li­bertà e servitù. Il mondo del lavoro dall’ancien régime alla fabbrica capitalistica (Napoli, Esi, 1995, pp. X-238, lire 35.000), costituisce un’am­pia ricostruzione della proletarizzazione dei mae­stri artigiani urbani in relazione al processo di in­dustrializzazione capitalistica. Il fenomeno vie­ne osservato sul lungo periodo (dal Trecento al principio del Novecento), con particolare riguar­do alla fase che comprende la fine del Settecen­to e i primi decenni dell’Ottocento, all’interno dei confini geografici dell’Europa occidentale. La vasta articolazione della sintesi storica è com­pletata da analisi approfondite di alcune vicende locali, presentate come casi tipici, e che servono a mantenere l’orientamento nella interpretazione di un processo che ebbe, in Europa, tratti comu­ni benché sfasati temporalmente.

All’interno del sistema di produzione capita­listico l’attenzione è rivolta alla transizione dal­la manifattura artigiana decentrata, organizzata su consuetudini e regole corporative, alla fabbri­ca capitalistica. Nel mezzo di questa transizione ci sono i maestri artigiani, destinati a perdere il

duplice status di padroni-operai, per diventare da un lato dei “fabbricatori” (esclusivamente pro­prietari) e dall’altro — come tendenza prevalen­te — dei salariati dipendenti. Lo studio mette, perciò, in evidenza l’attacco alle posizioni eco­nomiche e al ruolo sociale dei maestri artigiani portato sia dall’alto, dai mercanti-imprenditori, sia dal basso, dalle categorie dei lavoranti e dei garzoni. In relazione con la proletarizzazione dei maestri artigiani urbani viene studiata l’evolu­zione dei rapporti sociali che determinano le con­dizioni del lavoro della classe operaia in forma­zione, tenendo presente gli elementi di lungo pe­riodo che vanno dalle consuetudini corporative ai regolamenti vigenti all’interno degli “opifici”. Da questo punto di vista, per un paradosso solo apparente, il passaggio dall’“età corporativa” a quella del “lavoro libero” è segnato da una nuo­va attribuzione e da un inasprimento dei vincoli servili.

I corpi mercantili, trasferendo agli artigiani ob­blighi (come quello di eseguire tutto il lavoro pri­ma di poter rescindere il contratto) analoghi a quelli che già avevano legato i garzoni e i lavo­

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ranti ai loro maestri, intendevano imporre, prima ancora dell’abolizione delle corporazioni, una condizione di dipendenza. E alla metà del Sette­cento che i mercanti cercano di trasformare la lo­ro posizione di creditori in quella di padroni ef­fettivi dei mezzi di produzione degli artigiani. At­traverso la riduzione dei prezzi dei prodotti fini­ti e delle tariffe di cottimo i corpi mercantili cer­carono, a Lione come a Torino, a Roma come nel Vicariato di Ala, di incrementare, insieme con una politica di anticipazioni sulla materia prima e sugli strumenti di lavoro, il debito dei maestri artigiani, per monopolizzare i lavoro su com­missione costringendo di conseguenza gli arti­giani a limitare il proprio variegato circuito com­merciale privato. Si comprende, quindi, come l’obbligo servile del maestro di finire il lavoro avuto dal mercante, associato a imposizioni nel livello dei prezzi, impedissero al primo di svin­colarsi dalla stretta dipendenza economica in quanto incapace di far fronte a un indebitamen­to crescente.

Questi vincoli di lavoro pii! duri, che trovaro­no fondamento giuridico, peggiorandola, nella le­gislazione corporativa, furono acquisiti dalla le­gislazione pubblica intesa a regolare, alla metà del Settecento, la disciplina degli operai dell’“in- dustria libera”. Nella fattispecie, degli operai pre­senti nelle imprese sorte con capitale pubblico. In sostanza, all’organizzazione della manifattu­ra su scala industriale, dominata dalla centraliz­zazione dei mezzi di produzione e dalla concen­trazione di cospicue masse di lavoratori salariati e caratterizzata sia dalla rottura degli intralci cor­porativi nella gestione delle risorse produttive sia dalla divisione del lavoro, corrispondeva l’in­staurazione di rapporti di lavoro fondati sull’ina­sprimento unilaterale dei vincoli servili che ri­spettavano la “libertà del lavoro” solo della par­te padronale (come nel caso dell’editto del 1764 dell’imperatrice Maria Teresa, “Per la disciplina degli operai”). Alla proletarizzazione dei maestri artigiani corrispose la polarizzazione sociale (li due classi, quella dei fabbricatori e quella dei sa­lariati dipendenti. In quest’ultima si sovrappose­ro categorie che erano diverse nella loro colloca­

zione gerarchica nell’ordinamento corporativo, ma che svolgevano mansioni simili per abilità professionale. Da una parte i maestri artigiani, che avevano perso lo status dovuto alla loro con­dizione di proprietari, si trovarono a svolgere fun­zioni di operai qualificati o di controllori del la­voro di altri, ma pur sempre in posizione di di­pendenza, dall’altra i garzoni e i lavoranti che — a causa dalla divisione del lavoro e del minore salario — occupavano il posto di lavoro degli ar­tigiani.

Dalla fine del Seicento — del resto — si dif­fuse la violazione delle norme sull’apprendista­to di garzoni e lavoranti, che aveva permesso ai maestri artigiani più ricchi di vincere la concor­renza assumendo più manodopera per aumenta­re il volume della produzione, e ai lavoranti di in­crementare i salari grazie a un tasso di mobilità maggiore rispetto a quello garantito dai vincoli corporativi che regolavano l’accesso al mercato del lavoro. Ma la crisi dell’istituto dell’appren­distato era testimonianza pure del carattere di ec­cezionalità con cui i lavoranti approdavano alla condizione di padrone-maestro. L’analisi di lun­go periodo sulla proletarizzazione dei maestri ar­tigiani richiama da vicino la lezione di Harry Bra- verman (Lavoro e capitale monopolistico. La de­gradazione del lavoro nel XX secolo, Torino, Ei­naudi, 1978, ed. orig. New York — Londra, Monthly Review Press, 1974) sulla “degradazio­ne del lavoro” nell’industria del Novecento. Lo studio di Simonetta Ortaggi Cammarosano, quin­di, con un percorso a ritroso, da un lato indica l’origine del processo di dequalificazione del la­voro operato dal sistema di produzione capitali­stico, dall’altro mette in luce le conseguenze di lungo periodo della divisone del lavoro e della meccanizzazione, tendenti ad abbassare i costi del salario e a contenere la domanda di lavoro. Nel libro, tuttavia, non sono sottovalutate le con­giunture che, nel breve periodo, comportano un incremento della domanda di lavoro e del sala­rio: aumento della produzione già esistente o av­vio di nuovi processi produttivi. Come del resto non sono taciuti i fenomeni di “riqualificazione” (up-grading) che caratterizzano il processo di di-

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lution e che si verificano soprattutto nel passag­gio da un settore all’altro dell’economia o da un ramo all’altro della produzione nel medesimo set­tore. La dequalificazione del lavoro, perciò, non viene associata meccanicamente, sul breve pe­riodo, alla dequalificazione del lavoratore, come dimostra la promozione sociale dei garzoni che lavorano, alla fine del Seicento, per l’arte dei Fer­rari a Roma. Ma l’impostazione di lunga durata dello studio impone, in ultima analisi come feno­meno prevalente, l’aspetto di progressiva sosti­tuzione della manodopera più costosa con ma­nodopera meno costosa per effetto della sempli­ficazione dei mestieri. Se la posizione sociale ed economica dei maestri artigiani era indebolita dal­la divisione del lavoro che permetteva la sostitu­zione della manodopera qualificata, l’aspetto op­posto era costituito dalla privazione dei mezzi di produzione operata dai corpi mercantili. Tuttavia assieme ai mercanti diventavano padroni, senza partecipare più alla produzione, quella parte di artigiani ricchi che, per aspirazioni concorren­ziali, avevano contribuito a demolire già alla fi­ne del Seicento le limitazioni imposte al merca­to del lavoro dalle regole sull’apprendistato dei lavoranti. Altre figure sociali, comunque, si ele­varono alla metà del Settecento, nella fase di mas­sima differenziazione all’interno dell’artigiana- to urbano prodotto dalla crisi economica, per in­serirsi in una posizione intermedia tra il mercan­te e il maestro.

Un caso esemplificativo è citato nel libro in ri­ferimento alla vicenda dei maestri tessitori in se­ta di Lucca. Intorno alla metà del Settecento, in concomitanza con una crisi dell’industria serica che colpiva allora l’Italia e tutta l’Europa, il ce­to mercantile aristocratico dette autonomia di ge­stione delle proprie attività manifatturiere ai “mi­nistri di negozio” chiamandoli ora a partecipare agli utili. Si trattava di amministratori, di estra­zione popolare, che condussero una drastica concorrenza nei confronti dei maestri artigiani, assegnando la conduzione dei telai ai lavoranti e ribassando spregiudicatamente il livello dei prez­zi finali dei prodotti, ribasso consentito dai mi­nori salari erogati e dal maggiore sfruttamento

perpetrato. La vicenda dei maestri tessitori di Lucca, inquadrata nel contesto della frantuma­zione delle regole delle corporazioni artigiane contemporaneamente allo sviluppo della fabbri­ca, fornisce elementi di valutazione da inserire nel dibattito sui modelli di sviluppo economico prevalsi nell’Europa occidentale e negli Stati Uni­ti. Come è noto Charles F. Sabel e Jonathan Zei- tlin — cfr. Alternative storiche alla produzione di massa. Politica, mercati e tecnologia nell’in­dustrializzazione del diciannovesimo secolo, in David S. Landes (a cura di), A che servono i pa­droni? Le alternative storiche dell’ industrializ­zazione, Torino, Bollati Boringhieri, 1987— han­no contrapposto il sistema di manifattura defini­to della “specializzazione flessibile”, sviluppa­tosi in alcune regioni industriali sul finire del Set­tecento e caratterizzato dall’alta flessibilità del­la manodopera e della tecnologia e dalla grande specializzazione produttiva, a quello della “pro­duzione di massa”, che non costituirebbe il per­corso obbligato dello sviluppo capitalistico. Il presupposto, affinché la manifattura fondata sul­la “specializzazione flessibile” non entri in sta­gnazione, è che la concorrenza tra le imprese ar­tigiane non si verifichi sui prezzi o sulla riduzio­ne dei salari bensì sulla creazione di nuovi pro­dotti e sulla capacità di adattare nuove tecnolo­gie alla variabilità della domanda del mercato dei beni. L’assetto istituzionale assume, quindi, la ri­levante funzione di garantire che la concorrenza sia condotta sul piano della qualità produttiva e non dei prezzi. I teorizzatori della “specializza­zione flessibile” hanno individuato, in relazione con la base economica e la tecnologia impiega­ta, sistemi istituzionali fondati sulle municipalità (unità produttive piccole e ridotti investimenti di capitale), sul paternalismo e assistenzialismo ca­pitalistico (produttori artigiani riuniti all’interno di una stessa fabbrica a elevata intensità di capi­tale) e, infine, sulla confederazione delle azien­de familiari. Ora, l’esempio dei tessitori di seta di Lucca dimostra che, quando una crisi econo­mica minaccia la sopravvivenza delle aziende ar­tigiane, la lotta si verifica sul piano dei prezzi e della riduzione dei salari, evadendo proprio le

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norme corporative che ne stabiliscono l’entità. In questo senso lo studio converge con l’analisi di David S. Landes (Piccolo è bello. Ma è bello dav­vero?, in A che servono i padroni?, cit.) che sot­tolinea che i 1 model lo della “specializzazioni fles­sibile” funziona fino a quando l’economia tira, mentre l’instabilità economica che domina il mer­cato (a partire dal mercato del lavoro) costringe le piccole imprese nell’Ottocento e nel Novecento a condurre la concorrenza puntando al risparmio sul prezzo del lavoro e sulle materie prime.

Del resto Libertà e servitù, avendo come tema principale la proletarizzazione dei maestri arti­giani, mette in evidenza — in opposizione allo schema proposto dal sistema di manifattura defi­nito della “specializzazione flessibile” — il pro­cesso di centralizzazione e di concentrazione dei mezzi di produzione in grandi fabbriche, in rap­porto con il processo di divisione del lavoro che, semplificando le mansioni, riduce in parte il po­tere contrattuale della manodopera qualificata. In sintesi, considerando sia le modalità con cui si svolse il conflitto tra i mercanti e i maestri arti­giani per la proprietà dei mezzi di produzione, sia le conseguenze dell’evasione dalle regole corpo­rative in materia di accesso al mercato del lavoro per i lavoranti e i garzoni, dallo studio risulta pro­prio la scarsa probabilità, se non l’impossibilità, di mantenere inalterati i salari e i prezzi dei pro­dotti finiti. Evidenzia, al contrario, che, proprio attraverso la variazione dei prezzi, dei salari e l’in­capacità delle corporazioni artigiane e della legi­slazione cittadina di controllare la concorrenza, si inasprirono gli obblighi servili dei maestri arti­giani, obblighi che costituirono i presupposti del­la loro degradazione a operai dipendenti.

Una smentita implicita alla teoria della “spe­cializzazione flessibile” emerge, oltre che dalla trattazione sulla scomparsa della manifattura arti­giana urbana indipendente, anche dall’analisi del­la proletarizzazione delle famiglie contadine de­dite al lavoro di tessitura in alcune vallate trenti­ne, biellesi e comasche in cui particolarmente at­tiva era l’economia protoindustriale. Nel libro in­fatti viene sottolineato come la protoindustria fos­se, non di rado, esercitata in Italia in aree collina­

ri o montuose dove era difficile ottenere un red­dito sufficiente dalla terra. Per questa ragione l’in­dustria a domicilio divenne una fonte insostitui­bile di reddito e molti contadini privi di terra o in eccesso furono indotti a emigrare verso i centri manifatturieri attivi su scala industriale. Da que­sto punto di vista il libro mostra un percorso che diverge dalla tesi sulla gradualità e originalità del­lo sviluppo economico italiano, rispetto al modello inglese, e accoglie, sottolineando la fragilità del­la figura del contadino-operaio, la tesi sugli effet­ti sociali della rivoluzione industriale che si eser­citano anche alla periferia del sistema. Estrema- mente significativo, da questo punto di vista, è il censimento milanese del 1790 dove appare fio­rente la piccola impresa. Tuttavia a una lettura at­tenta si scorge che essa non è rappresentata da pro­duttori indipendenti bensì costituisce il reparto esterno della grande fabbrica capitalistica.

Nel porre in risalto, infine, la lunga durata nel­la storia della proletarizzazione degli artigiani di ancien règime, lo studio prende in considerazio­ne anche laquestione delle rivendicazioni sui tem­pi e i ritmi di lavoro tra Ottocento e Novecento. Viene evidenziato, in particolare, l’affiorare nei comportamenti sociali degli operai qualificati di abitudini che risalgono alla tradizione degli an­tichi artigiani. Le tolleranze in entrata e uscita dalla fabbrica, il prolungamento della festa do­menicale al lunedì e martedì e l’autolimitazione nella produzione non costituirebbero altro che at­teggiamenti aggiornati di quella tradizionale au­tonomia dell’artigiano indipendente nello stabi­lire i tempi e i modi del proprio lavoro. In origi­ne, l’affermazione della industrializzazione com­portò, insieme alla (o nonostante la) meccaniz­zazione e all’aumento della produttività, l’allun­gamento della giornata lavorativa che non era più svolta a domicilio, o nella manifattura artigiana, ma in fabbrica. Così gli operai qualificati reagi­rono allo sfruttamento estensivo con l’imposi­zione di tolleranze sull’orario, con la pratica del ritardo al lavoro, con le feste prolungate; mentre reagirono allo sfruttamento intensivo con T auto­limitazione produttiva o con la distruzione delle macchine. Successivamente la lotta per la ridu­

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zione dell’orario giornaliero o settimanale di la­voro a parità di salario, sovrapponendosi ai per­sistenti atteggiamenti di resistenza allo sfrutta­mento, costituì la rivendicazione comune degli operai qualificati organizzati sindacalmente per il mantenimento del livello del salario e del tem­po libero. Rispetto alle reazioni che riflettevano l’antica indipendenza artigiana, la novità insita nella rivendicazione sindacale sull’orario di la­voro consisteva, però, nella sostanziale accetta­zione dello scambio tra giornata breve e incre­mento della produttività oraria procapite. Questo non significava ancora, per gli operai qualifica­ti di molti rami di industria, la perdita di spazi di autonomia nell’esecuzione del proprio lavoro al­

l’interno della fabbrica organizzata secondo la concezione dell’Arbeitsplatz. Infatti rimanevano i tempi da dedicare alla preparazione del lavoro, secondo valutazioni discrezionali basate sulla co­noscenza del mestiere, delle materie prime e de­gli attrezzi da utilizzare; al prelevamento, allama- nutenzione e alla affilatura degli utensili; all’al­lestimento della macchina e alla valutazione im­mediata del lavoro finito. Solo con la rivoluzio­ne taylorista e fordista l’operaio qualificato vie­ne privato drasticamente di quei margini di auto­nomia, che gli permettevano di bilanciare le pres­santi richieste di aumenti di produttività da par­te della direzione.

Maurizio Bettini

Il secolo breve della rivoluzione sovietica

Eligió Vitale

Victor Zaslavsky, autore della Storia del siste­ma sovietico. L’ascesa, la stabilità, il crollo (Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1995, pp. 290, lire 33.000), è il noto sociologo russo emi­grato dall’Urss nel periodo dell’epoca brezne- viana che va dal 1971 al 1982, in cui il regime sovietico fu costretto a concedere, per poi re­vocare appunto nel 1982 alla morte di Breznev, il permesso di “fuggire dall’impero” ad alcune centinaia di migliaia di persone, soprattutto ebrei. Zaslavsky, oltre che all’Università di Le­ningrado, ha insegnato molti anni in diverse uni­versità straniere, in particolare in Canada, ed è ora docente alla Luiss di Roma. L’aver vissuto direttamente gli avvenimenti, o almeno una par­te di essi, segnatamente nel periodo della “de­stalinizzazione” e del “consenso organizzato”, mentre gli conferisce una attenta sensibilità e una grande padronanza delle fonti, non fa velo ad una lucida intelligenza della ricostruzione storica, condotta con un equilibrio che dà con­to delle varie interpretazioni storiografiche, per proporre poi puntualmente le proprie analisi e

conclusioni, su cui si può o meno convenire, ma che sono sempre problematiche e aperte.

E questa l’opera di sintesi di uno studioso che ha già dedicato lunghe ricerche ai diversi mo­menti della “storia del sistema sovietico”: si ve­dano Il consenso organizzato (Bologna, Il Mu­lino, 1981), Fuga dall’impero: l’emigrazione ebraica e la politica della nazionalità in Unio­ne Sovietica (scritto in collaborazione con Ro­bert Brym, Napoli, Esi, 1985), Dopo l’Unione Sovietica. La perestrojka e il problema delle na­zionalità (Bologna, Il Mulino, 1991), The Neostalinist State. Class, Ethnicity and Con- sensus in Soviet Society (New York, Sharpe, 1994, seconda ed.). Il suo è un approccio inter­disciplinare che utilizza i modelli di interpreta­zione sociologica per l’analisi dell’evoluzione storica delle principali componenti politiche, economiche e sociali di questo impero multina­zionale.

Fra i due modelli esplicativi della società so­vietica — il primo che ne assimila lo sviluppo a quello delle società industriali occidentali, e il se­

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condo, il modello “totalitario”, in auge soprat­tutto dall’epoca della guerra fredda, che al con­trario pone l’accento sulle sue differenze rispet­to a queste ultime e piuttosto l’avvicina, in quan­to dittatura, al nazismo e al fascismo — l’autore sembra propendere per il secondo, aderendo al revisionismo storiografico alla Nolte, che, con­siderando il totalitarismo nazista come una rea­zione a quello bolscevico, tende a porre sullo stes­so piano antifascismo e anticomunismo, se non addirittura a privilegiare l’anticomunismo sul­l’antifascismo: revisionismo a cui, com’è noto, si oppone, fra gli altri, ci pare a buon diritto, Ha­bermas, il quale entra invece nel merito delle dif­ferenze ideologiche ed etico-politiche fra i due tipi di “dittatura”.

Ancora una dicotomia per quanto riguarda il problema se il sistema sovietico abbia dato luogo a una “modernizzazione”: l’autore spie­ga sia l’iniziale modernizzazione sia l’involu­zione e il crollo, con la caratterizzazione del si­stema stesso come “militare-industriale”, o me­glio “fondamentalmente militare piuttosto che industriale”. Sulla base dei nuovi dati resi di­sponibili dopo l’abolizione della censura e gra­zie alla possibilità di effettuare ricerche sul campo, il libro intende dimostrare che nel ca­so sovietico decenni di sviluppo estensivo del­l’economia, sostenuto da tecnologie arretrate e aggravato dalle priorità del complesso milita­re-industriale, hanno portato al progressivo esaurimento delle risorse e a un rovesciamen­to delle principali tendenze di sviluppo che ca­ratterizzano tutte le società industriali cono­sciute.

La rivoluzione bolscevica ha stroncato il ten­tativo attuato dopo la rivoluzione del 1905 di svi­luppare una industrializzazione di tipo occiden­tale con un ruolo primario svolto dalle banche e dagli imprenditori privati, ma c’è da chiedersi se questo tentativo di raggiungere i paesi sviluppa­ti, ricalcandone le orme, non fosse comunque de­stinato all’insuccesso, interrotto brutalmente an­che dal primo conflitto mondiale, la guerra che imprime alla rivoluzione la sua struttura di emer­genza: ma anche a proposito della natura di que­

sto “comuniSmo di guerra” si pone il problema di quanto di esso fosse dovuto, appunto, all’e­mergenza bellica e quanto non sia da attribuire alla stessa dottrina bolscevica, considerato che quelle riforme rimasero in vigore ben oltre il pe­riodo di guerra e caratterizzarono le istituzioni e la società sovietica per tutta la durata della loro storia.

Non è il caso di seguire l’autore nella sua ri- costruzione delle varie fasi dello sviluppo e del­la crisi del sistema sovietico, dalla guerra ci­vile e dal comuniSmo di guerra, con l’instau­razione della dittatura monopartitica leninista, alla Nuova politica economica, al sistema to­talitario staliniano fondato sul terrore della po­lizia segreta e dei gulag, con la collettivizza­zione forzata delle campagne e l ’industrializ­zazione militarizzata, e sulla “guerra fredda” e la politica im perialistica, nella convinzione della inevitabilità di una terza guerra mondia­le che avrebbe visto il trionfo del comuniSmo a livello mondiale; alla “destalinizzazione” da Chruscev a Breznev che al terrore sostituisce 1’ “organizzazione del consenso” e alla guerra fredda la “coesistenza pacifica” per l’impossi­bilità di una guerra nell’era della bomba ato­mica, mantenendo il sistema del partito-stato e dell’industrializzazione militare; alla sclero- tizzazione della produzione e al crescente esau­rimento delle risorse economiche; finalmente alla perestrojka gorbacioviana, tentativo di riforme nell’ambito del sistema comunista mo­nopartitico; a ll’esplodere dei nazionalismi a causa dell’impossibilità del proseguimento del­la “politica delle nazionalità” del regime so­vietico e alla fine deH’Urss; alla democratiz­zazione, alla nascita del mercato con tutte le sue contraddizioni, i suoi rischi e le sue pro­spettive.

Vanno però rilevati alcuni punti chiave che se­gnano l’originalità di questa ricostruzione stori­co-sociologica. A proposito di Stalin e dello sta­linismo l’autore di dissocia dal giudizio parti­giano di Trotzki, secondo cui Stalin, “l’insigne mediocrità” del partito, avrebbe instaurato un “centralismo burocratico senza principi”: il “boi-

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scevismo imperiale” di Stalin e la sua idea di ap­poggiare la rivoluzione non nei paesi evoluti, ma in quelli vicini, confinanti con l’Unione Sovie­tica, era funzionale alla nuova società sovietica e in particolare ai nuovi iscritti del partito, che ignoravano la teoria marxista classica e a cui era­no estranei il programma e gli slogan dell ’in­ternazionalismo; “negli anni dell’industrializza- zione staliniana si diffuse il fenomeno della sta­bilità sociale, cioè la promozione a posizioni am­ministrative e manageriali sulla base della lealtà e della provenienza da classi inferiori”: le “gran­di purghe” degli anni trenta sostituivano ormai le vecchie classi istruite. Se le strutture e la di­sciplina gerarchica sono in contraddizione con Finiziativa e l’indipendenza indispensabili al la­voro degli specialisti e degli operai altamente qualificati, il partito-stato permette però di con­seguire successi nel campo della modernizza­zione tecnologica accelerata, nella creazione del- l’industria pesante, nell’organizzazione di un moderno sistema di ricerca scientifica. Lo stes­so terrore staliniano non va considerato solo ar­bitrio insensato, ma freddo calcolo razionale ed espressione della ragion di stato in quanto stru­mento efficacissimo per le trasformazioni rivo­luzionarie della società.

A sostegno del regime staliniano operò an­che la “politica delle nazionalità”, a proposito della quale c’è da rilevare che se un vero fede­ralismo era precluso dall’economia pianificata centralmente e dal regime monopartitico domi­nato dall’esercito e dalla polizia segreta, “le re­pubbliche dell’Unione costituivano le tessere del mosaico della pianificazione centrale e allo stes­so tempo un valido strumento per la scelta dei quadri addetti all’amministrazione e alla ge­stione del paese”.

La destalinizzazione è vista come il passag­gio da un regime totalitario guidato da un tiran­no carismatico a un regime oligarchico totalita­rio, in cui gli aspetti terroristici dello stalinismo furono razionalizzati ed edulcorati, ma gli ele­menti fondamentali e i caratteri strutturali ri­masero intatti, con la priorità comunque confe­rita dallo Stato al complesso militare-industria­

le, che determina l’arretratezza tecnologia del­l’industria civile, soprattutto quella dei beni e dei servizi. È assicurata in tal modo la pace so­ciale, garantendo la sicurezza del lavoro e bas­si livelli dei prezzi dei beni di prima necessità, mentre i salari operai aumentano: la contropar­tita è costituita dalla bassa produttività, dall’or­ganizzazione di un sistema di “imprese chiuse” e di “città chiuse”, in ragione del rilievo dei set­tori di produzione e dell’importanza politica dei centri urbani. Si forma un tipo di lavoratore “so­stanzialmente passivo” e “assolutamente estra­neo ai valori socialisti”, caratterizzato dalla bas­sa qualità del lavoro: Yhomo sovieticus stato-di- pendente.

Il sistema del consenso organizzato funziona soddisfacentemente fino alla prima metà degli anni settanta, ma il regime brezneviano, incapa­ce di introdurre serie riforme strutturali, resiste svendendo all ’estero le ricchezze naturali in cam­bio di generi alimentari, così da avviarne l’e­saurimento innescando al contempo uno dei fon­damentali fattori di crisi. Né lo sviluppo priori­tario del settore militare trascina quello dell’in­dustria civile, come avviene nei paesi occiden­tali, a causa della sua segretezza e del suo ab­norme sviluppo.

La perestrojka di Gorbacev non può che ten­tare un approccio democratico alle riforme, poi­ché un intervento autoritario, gestito dall’alto del partito-stato col suo apparato coercitivo, sarebbe stato incompatibile con l’apertura alla concor­renza di mercato e alla decentralizzazione. Ma Gorbacev rimane prigioniero della sua continuità comunista, per nulla ripagato del resto dal suo partito che ne mina la posizione col tentativo di colpo di Stato antiriformista, ed è travolto dalla sua politica democratica nei confronti della dia­spora dei paesi dell’Europa orientale. Suo gran­de merito storico è certamente quello di non aver­la ostacolata, ma anzi di aver rifiutato l’aiuto mi­litare a quei leader, come Honecker o Ceaucescu, che, per dirla con l’autore, “venivano assediati dai loro stessi popoli”. Ma è la fine dell’Urss che non gli verrà perdonata dal popolo sovietico, il quale preferirà la contrapposizione dirompente

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col passato rappresentata da Eltsin e dal suo “par­tito democratico”.

A proposito dei nazionalismi che ora risor­gono sulle ceneri dell’impero sovietico l’autore non è d’accordo con l’osservazione generale di Hobsbawm secondo cui “i movimenti naziona­listi del la fine del XX secolo sono essenzialmente negativi e divisivi”, adducendo al contrario un esempio che sembra convincente: quello del na­zionalismo baltico, con cui le repubbliche balti­che non si limitano al recupero della sovranità perduta come conseguenza dell’annessione ef­fettuata da Stalin nel 1940, ma, insieme alle re­pubbliche slave, nonché ai paesi dell’Europa orientale postcomunista, “condividono un nuo­vo mito nazionalista — il mito del ritorno alle radici europee, reali o immaginarie, il mito del­lo sviluppo normale interrotto brutalmente dal- l’esperimento bolscevico o dall’aggressione rus­sa o da entrambi”.

Il giudizio di Zaslavsky sulla situazione at­tuale e sulle prospettive future è moderatamen­te ottimista. Pur consapevole delle enormi dif­ficoltà e dei conflitti etnici e sociali, dei feno­

meni di corruzione e di disfacimento dei ceti colpiti dalla disfatta dello stato redistributivo, egli rileva maggiori possibilità di cooperazione intemazionale e soluzione dei conflitti di quan­te non ce ne siano mai state in passato, e, con particolare riferimento alla Russia, la creazione di un nuovo tipo di relazioni tra lo Stato e la so­cietà in condizioni di libertà e di democrazia, “sconosciute all’intera storia della Russia”: i giovani sono in gran maggioranza favorevoli al­la smilitarizzazione e alle riforme che introdu­cono il mercato; sta nascendo una nuova classe di giovani imprenditori.

In conclusione, questa sintesi storico-sociolo­gica, se confrontata con le grandi opere ormai “classiche”, come quella di Edward Carr, che ana­lizzano con una qualche pretesa di esaustività le infinite vicende dello sviluppo della rivoluzione sovietica, ha il vantaggio di uno sguardo retro­spettivo nella piena consapevolezza del “dopo 1989”, da parte di un ex oppositore del regime, come si è detto, che ben conosce però le regole della mediazione storiografica.

Eligio Vitale

Strumenti

Direction des archives de Fran- C E , La seconde guerre mondiale. Guide des sources conservées en Frane e 1939-1945, Paris, Archives Nationales, 1994, pp. 1209, sip.

Risultato del lavoro congiunto della sezione contemporanea degli Archives nationales, sotto la dire­zione del suo conservatore capo, Brigitte Blanc, e del conservatore generale agli stessi Archives, Chantal de Tourtier-Bonazzi, e di una équipe dell’Institut d’Histoire du Temps Présents (del Cnrs), ca­peggiata dal suo direttore, lo stori­co Henry Rousso (con componen­ti quali Robert Frank, Denis Pe-

schanski, Dominque Veillon), que­sta guida rappresenta in forma ot­timale gli esiti di un’impresa per svariati aspetti eccezionale. Nel volgere di un breve arco di anni (dal 1991), infatti, i curatori - coadiu­vati da più di trecento archivisti - hanno classificato in modo siste­matico i materiali concernenti le vicende della Francia dal 1939 al 1945, vale a dire dall’inizio del se­condo conflitto mondiale, il 3 set­tembre 1939,allacapitolazionedel Giappone, il 2 settembre 1945, che ne segnò la fine. Grazie alla legge del gennaio 1979 sulla comunica­bilità dei documenti degli archivi pubblici a datare dal 3 settembre dello stesso anno (che metteva fi­ne al regime per cui la libera co­

municazione di quei documenti era limitata al 10 luglio 1940), sono state censite e presentate le fonti degli archivi pubblici nazionali del periodo menzionato; ma si è anda­ti ben oltre: la ricognizione delle fonti medesime è stata estesa agli archivi pubblici dipartimentali e comunali, mentre si è provveduto a offrire ai ricercatori ì referenti di numerosi organismi e istilli ."ioni di carattere pubblico e privato con­dendone note le giacente «tee» mentane relative sempre agli awnìi del conflitto, ivi compresi t ivwtói filmici, delle emissioni radtoe Or­tografici.

È stato, in tal nmto, appcesita«© uno strumento d'ìndaguto di p r ­illano valore, fiotto di umasttezter-

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ne accurata non in funzione - co­me chiarisce Chantal de Tourtier- Bonazzi - dell’importanza delle fonti, ma dell’obiettivo di raggiun­gerle dovunque conservate e qua­le che sia la loro funzione di sup­porto, per assicurare agli studiosi il più ampio margine di opportu­nità di confronti e integrazioni.

L’opera è divisa in quattro gran­di parti. La prima, consacrata agli archivi nazionali, ossia i fondi cu­stoditi a Parigi a Fontainebleau e, per l’Oltremare, ad Aix-en Pro- vence. La seconda, comprendente la descrizione - fornita dai loro re­sponsabili - degli archivi del mi­nistero degli Affari Esteri, di quel­lo della Difesa nei suoi tre servizi storici di Terra, Mare ed Aria, e di quello del ministero della Giusti­zia (per la parte non ancora versa­ta agli archivi nazionali), con an­nessa - eccezionalmente - la rile­vazione inerente tre centri esisten­ti all’estero, il Berlin Document Center, gli archivi Wast berlinesi e il Centro intemazionale di ricerche d’Arolsen (land di Hesse), utili per studiare le vicende degli alsaziani e lorenesi annessi al Terzo Reich, i deportati, i lavoratori forzati ed i dispersi durante il conflitto. La ter­za parte, infine, intitolata “Archi­ves des collectivités territoriales”, raccoglie (ed è la sezione della gui­da a maggior densità di pagine) le indicazioni di tutti gli archivi di­partimentali del paese e di una qua­rantina di città, dai grandi centri di Lilla, Marsiglia, Bordeaux e Stra­sburgo, ad altri di dimensione più modesta come Angers o La Teste- de-Buch, passando attraverso ag­glomerati di alta significazione sto­rica per gli avvenimenti della se­conda guerra mondiale in Francia come Dunkerque o Lione. A ra­gione, Chantal de Tourtier ne se­gnala la specificità dell’interesse,

soprattutto per il carattere inedito delle informazioni che contengo­no, ma anche perché essi sono su­scettibili di apportare contributi fondamentali sia agli studi di sto­ria locale, sia ai loro collegamenti con i dati più generali della storia nazionale rinviando alla ricogni­zione degli archivi nazionali.

Non si è voluto, né potuto, av­vertono i curatori, raccogliere tut­to; tanto più che il flusso delle car­te è continuo, i ritrovamenti prose­guono e fondi importanti sono per­venuti in ritardo alla redazione (per esempio, documenti del Commis­sariato all’Informazione dell’ulti­mo governo della III Repubblica, abbandonati a Tours, nel giugno 1940, al momento del ripiegamen­to su Bordeaux, sono stati avviati agli Archivi nazionali soltanto nel 1989, i registri delle sentenze emesse dalla corte di giustizia del­la Senna sono stati integrati ai lo­ro fascicoli d’istruttoria degli anni sessanta nel 1991, ecc.). E, tutta­via, la guida offre un panorama ine­guagliato finora delle risorse do­cumentarie alle quali gli studiosi possono attingere, indirizzandoli ai patrimoni di enti pubblici e di as­sociazioni private che, in pratica, coprono tutto lo scacchiere delle istituzioni note.

Basterà ancora accennare al fat­to che la pubblicazione contiene i dati su di un fondo della Banca di Francia, su quelli di alcune came­re di commercio e d’industria fra le maggiori del paese (Parigi, Mar- siglia-Provenza, Tolosa) ed una completa rassegna di materiali conservati presso i Musei di storia della Resistenza.

La proficuità della collabora­zione archivisti-storici, la bontà del metodo seguito, soprattutto, ripe­tiamo, affrontando il problema del­la presentazione degli archivi del­

le “comunità territoriali”, e l’im­pianto, essenziale nella sua fun­zionalità, della pubblicazione da mettere al servizio dei ricercatori, fanno, in sostanza, di questa guida un evento che studiosi francesi e di ogni paese possono salutare come oltremodo felice; vuoi sotto il pro­filo dell’aiuto che essa reca alle lo­ro fatiche, vuoi sotto quello degli stimoli che essa introduce, recu­perando anche ritardi e reticenze in mezzo a cui ci si è mossi nel- l’affrontare le realtà di alcuni pas­saggi nodali della storia contem­poranea francese, specialmente per quanto concerne la tormentata fase del governo di Vichy, risvolti inquietanti dei fenomeni di colla­borazionismo e le modalità di svol­gimento dei processi resistenziali.

Mario Giovana

Ministero per i Beni Culturali e Ambientali - Ufficio centrale per i Beni Archivistici, Le fonti diplomatiche in età moderna e con­temporanea. Atti del convegno in­ternazionale, Lucca, 20-25 gen­naio 1989, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali - Uf­ficio centrale per i Beni Archivisti, 1995, pp. 631, sip.

Indice: Ennio Di Nolfo, Idocumen­ti diplomatici: metodologia e storio­grafia; Charles Kecskeméti, Les archi­ves des organisations internationales: esquisse d'une problématique', Klaus Jaitner, Diplomatie Documents in the Historical Archives o f the European Communities in Florence.

1.1 documenti diplomatici e la sto­ria delle relazioni intemazionali: Pao­la Canicci, La documentazione degli Archivi di Stato per la storia delle re­lazioni internazionali', Viaceslav S. Chilov, Les documents diplomatiques pour une étude en histoire générale: la guerre d ’Espagne nepoléonienne et l 'o- pinion russe', Raffaele della Vecchia, La

Rassegna bibliografica 657

questione d’Oriente nella prima metà dell'Ottocento', Franco Rossi, L’edi­zione di una fonte della diplomazia tar­do quattrocentesca: aspetti e problemi', S.R. Ashton, The British Transfer o f Power in Asia: a Viewfrom thè Edito­rial Sidelines', Aldo Agosto, La diplo­mazia genovese in età moderna: docu­menti e problemi', Pietro Pastorelli, / criteri di pubblicazione dei documenti diplomatici: Roger Bullen, Margaret Pelly, Documents on British Policy Overseas: Editorial Principies and Practice', Maria Concepción Contei Barea, Presentación de la publicación de las actas del Consejo de ministros de España de 1824 a 1930; Maurice Degras, Les documents diplomatiques français; Jens Petersen, La pubblica­zione dei documenti diplomatici tede­schi; Nina D. Smimova, Les documents des Archives de la politique extérieure de l'Empire russe (AVPRI) concernan­tes la situation de T Albaine en 1912- 1914.

II. I documenti non diplomatici per la storia delle relazioni intemazionali: Fulvio D’Amoja, Le fonti "non diplo­matiche"; Antonello Biagini, Gli ar­chivi militari per la storia diplomatica; Viaceslav S. Chilov, L'utilisation des documents non diplomatiques lors de l’étude de la politique extérieure de la V République; C. Oudin-Doglioni, Deux sources peu connues de l'histoi­re des relations internationales au Mi­nistèrefrançais des affaires étrangères; Marek Sedek, Les archives de familles en tant que source pour l’histoire des relations internationales de Pologne du XVIe au XVIIIe siècle; Antonio Fiori, Una iniziativa in corso: la pubblica­zione di documenti sui rapporti italo- polacchi (1918-1940).

III. Documenti diplomatici per la storia non diplomatica: Domenico Caccamo, I documenti diplomatici ve­neziani; Fabio Grassi, Le relazioni con­solari come fonti per la storia dell’e­migrazione e del movimento operaio italiano all’estero (1861-1915); Gior­gio Mori, Luciano Segreto, Le fonti per la storia economica dell’Italia unita nei documenti diplomatici. Note ed ap­prossimazioni; Giorgio Petracchi, Le

carte del Ministero degli Affari Esteri per la storia politico-sociale della Rus­sia e dell’ Urss (1861-1950); Salvatore Bono, Fonti diplomatiche per la storia della conoscenza europea del mondo arabo; Alfonso Bogge, I rapporti dei consoli francesi a Torino come fonte per la storia economica piemontese. Primi appunti per una ricerca; Antoi­ne Fleury, L’apport des Documents di­plomatiques suisses à l’histoire non di­plomatique.

IV. I carteggi personali. I protago­nisti: Luigi Vittorio Ferraris, La me­moria diplomatica. Appunti critici; Ser­gio Romano, Memorialistica della se­conda guerra mondiale e del dopo­guerra; Tomaso De Vergottini, Fulvio Suvich e la difesa dell' indipendenza au­striaca, con appendice di Stefania Rug- geri; Costantinos Svolopoulos, Les pa­piers d'Eleuthère Vénizèlos; Paolo Cherubini, L’epistolario del cardinale Iacopo Ammannati Piccolomini; Ma­nuela Cacioli, L’archivio di Primo Le­vi; Carlo Bitossi, L’ambasciatore alla Bastiglia. Note sulla corrispondenza privata di Paolo De Marini, inviato ge­novese in Francia (1681 -1685); Vito Ti- relli, L’archivio di Elisa Bonaparte Ba- ciocchi presso le Archives Nationales di Parigi.

V. Fonti diplomatiche e non diplo­matiche per la storia dei paesi balcani­ci: Domna Dontas, Les documents di­plomatiques et l’histoire non diploma­tique de la Grèce; Rita Tolomeo, Le carte della nunziatura di Vienna per la storia politica dei paesi danubiano- balcanici in età contemporanea; Giu- stiniana Migliardi O’Riordan, La do­cumentazione consolare e le funzioni del bailo veneziano a Costantinopoli; Francesco Guida, Le carte diplomati­che italiane per la storia politico-so­ciale dei Balcani dal 1878 al 1914: il caso bulgaro; Veselin Trajkov, L’utili­sation des documents diplomatiques concernant T histoire non diplomatique de la Bulgarie jusqu’en 1878. Aspects communs et particularités; Ignacio Ruiz Alcain, Fuentes diplomáticas pa­ra la historia de los países balcánicos en el Archivo general de la admini­stración civil del Estado español; Tho-

ma Murzaku, Les fonds personnels et leur importance comme source pour T histoire de T Albaine et d'autrespays.

La riflessione sulle fonti è, per ogni storico, un passo obbligato della propria ricerca. Essa com­prende questioni eterogenee che vanno dall’ubicazione e disponibi­lità dei documenti ricercati, al rap­porto fra fonte e storia, ovvero a come il giudizio dello storico sul­la questione studiata sia profonda­mente influenzato dal tipo di fon­te che sta consultando.

Questa eterogeneità è ben ri­prodotta nel volume Le fonti di­plomatiche in età moderna e con­temporanea, esito felice di un con­vegno sul tema svoltosi a Lucca nel gennaio 1989, che ospita molti contributi diversi per impostazio­ne e spessore, alcuni dei quali uti­li riprese e aggiornamenti di parti del classico volume di Mario To­scano, Storia dei trattati e politica internazionale. I, Parte generale. Le fonti documentarie e memoria­listiche, Torino, Giappichelli, 1963 (seconda ed.).

Responsabili d’archivio, assi­stenti editoriali per la pubblicazio­ne di documenti diplomatici e, per la maggior parte, storici, interven­gono su temi che spaziano, crono­logicamente, dal tardo Quattro- cento al nostro secolo.

Molti di questi quarantatre in­terventi meriterebbero un com­mento ma, per mancanza di spazio, ci limiteremo a una breve nota a margine della relazione d’apertura del convegno, fatta da Di Nolfo, re­lazione dall’esito non scontato. Suggerisce infatti Fautore di intra­prendere lo studio delle fonti di­plomatiche secondo un metodo nuovo, considerandole come un codice in senso semiologico. La se­miologia presuppone una comuni­

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cazione biunivoca fra emittente e destinatario, inteso, quest’ultimo, come corpus sociale, una catego­ria che influenza 1’emittente e ne è influenzata. L’oggetto della comu­nicazione, che sia un vestito o un quadro, acquista determinate ca­ratteristiche artistiche e formali che sono, spesso, al centro dell’inte­resse di tali studi (perché la mini­gonna? Perché la Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca?). Ma questo metodo ci pare ironica­mente mettere in luce i limiti più che la ricchezza dei documenti di­plomatici. Perfezionando in senso semiologico lo studio delle fonti si arriverebbe infatti a scandagliare non ciò che, per esempio, le rela­zioni degli ambasciatori veneziani ci dicono riguardo ai paesi visitati e alla politica estera della Serenis­sima; il risultato sarebbe piuttosto un claustrofobico esame del “di­scorso diplomatico”. Sarebbe solo l’utilizzo brillante di un più elabo­rato metodo indiziario (ma quanti fra noi sono preparati ad intra­prenderlo?) a permettere, forse, di giungere alla ricostruzione della visione del mondo di questi fun­zionari e dei loro interlocutori. Ma non sarebbe questo risultato affine a quelli auspicati dalla “nuova sto­ria”, tanto aspramente criticata nel- Papertura dell’intervento?

Ciò di cui la storia delle rela­zioni internazionali ha bisogno sembra piuttosto, oggi, un allarga­mento dell ’ analisi ad altre fonti che permettano di valutare l’influenza di quelle meramente diplomatiche e, d’altro canto, di associare l’ela­borazione della politica intema­zionale a quella interna, secondo la lezione delle premesse alla Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 di Federico Chabod (1951!). Questo è tanto più vero quanto più ci addentriamo nel No­

vecento, dove molti elementi, fra cui l’accresciuta interdipendenza economica, lo sviluppo della de­mocrazia parlamentare e quello della tecnologia (già ricordato da Toscano negli anni sessanta) han­no indebolito il molo del ministe­ro degli Esteri quale unico attore della politica intemazionale di uno Stato. Il peso di questi mutamenti, d ’altronde, viene spesso ricono­sciuto dallo stesso Di Nolfo.

Ci piace infine notare l’ottima cura editoriale del volume alla qua­le avrebbe forse giovato, per ulte­riore chiarezza, un’appendice bio­grafica degli autori.

Lorenza Sebesta

Maria Teresa Piano Mortari, Isotta Scandaliato C iciani (a cura di), Le fonti archivistiche. Ca­talogo delle guide e degli inventa­ri editi (1861-1991). Introduzione e indice dei fondi a cura di Paola Canicci, Roma, Ministero per i Be­ni Culturali e Ambientali-Ufficio centrale per i Beni Archivistici, 1995, pp. 537, sip.

Il catalogo censisce guide e in­ventari di fonti archivistiche della penisola, comprese quelle della Città del Vaticano e della Repub­blica di San Marino. Esso rientra in un più vasto ed ambizioso pro­getto dell’ Ufficio centrale per ¡Be­ni Archivistici del ministero per i Beni Culturali e Ambientali, con­cepito nel 1983 con lo scopo di rea­lizzare un censimento complessi­vo degli strumenti di ricerca editi a partire dall’Unità d’Italia, com­prendente anche edizioni di fonti, regesti e cataloghi di mostre.

Il presente Catalogo delle gui­de e degli inventari editi è dunque la prima importante realizzazione del progetto. Compilato da Maria

Teresa Piano Mortari e Isotta Scan­daliato Ciciani sulla base della ric­ca bibliografia della Guida gene­rale degli archivi di Stato italiani (Roma, Ministero per i Beni Cul­turali e Ambientali, 1981-1994, 4 voli.); dello spoglio della “Rasse­gna degli Archivi di Stato” e di al­tri 279 periodici italiani e stranie­ri; delle carte d’archivio conserva­te in biblioteche italiane segnalate nei più importanti cataloghi di ma­noscritti (Mazzatinti, Kristeller), nella Guida storico-bibliografica dello Schiapparelli, nell’“Annua- rio delle biblioteche italiane”, nel­la Bibliografia storica nazionale e nella “Bibliographische Informa­tionen zur italienischen Geschich­te im 19. und 20. Jahrhundert”, comprende quasi duemila titoli. Ci permettiamo di segnalare qui l’op­portunità d’includere nello spo­glio, in vista di una nuova edizio­ne del catalogo, gli importanti pe­riodici di medievistica “Studi me­dievali”, “Italia medievale e uma­nistica”, “Scriptorium” e la “Re­vue bénédictine”. Le due curatrici danno conto delle tappe di svolgi­mento del lavoro e del metodo se­guito, delle difficoltà e dei limiti dell’indagine nell’Introduzione al volume (pp. 27-31).

L’Introduzione generale di Pao­la Canicci (pp. 7-23) descrive la complessità della ricerca sulle fon­ti archivistiche italiane (esistenza dei fondi, sede di conservazione, stato dell’ordinamento, strumenti per la ricerca), tenuto conto del­l’ampio arco cronologico dei do­cumenti, della varia natura delle istituzioni che hanno prodotto do­cumentazione, delle mutazioni po­litico-istituzionali, giuridiche e amministrative intervenute nella storia della penisola e dei suoi Sta­ti nel periodo preunitario e nella più recente storia unitaria, nonché

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del variare nei tempi e nei luoghi delle metodologie e dei criteri di ordinamento dei fondi archivistici.

Le notizie sulla storia degli in­terventi per uniformare l’ordina­mento degli archivi italiani, sul­l’organizzazione vigente, sullo sforzo della Divisione V-Studi e Pubblicazioni dell’Ufficio centra­le per i Beni Archivistici volti a for­nire appropriati strumenti conosci­tivi dell’inestimabile patrimonio storico-documentario italiano, in­fine sui criteri innovativi seguiti da Claudio Pavone e Piero d’Angio- lini per la descrizione dei fondi nel­la Guida generale, sono delineati con chiarezza e sinteticità nei pri­mi due paragrafi dell’introduzione. Seguono la descrizione delle tap­pe del progetto che hanno condot­to all’elaborazione del catalogo e dei suoi indici, l’enunciazione dei problemi metodologici inerenti al­la sua compilazione e, nell’ultimo paragrafo a cura di Claudio Torci­la, una breve descrizione del pro­getto informatico.

Il Catalogo (pp. 33-319) è sud­diviso in quattro sezioni. La prima concerne le guide generali, “che descrivono l’insieme dei fondi con­servati in una rete di istituti”, e comprende 19 titoli. La seconda elenca 118 titoli di guide settoria­li e territoriali, che descrivono cioè “una determinata tipologia di ar­chivi conservati in sedi diverse e di massima rilevati su base territoria­le”. La terza comprende circa 2.000 titoli di guide particolari e inven­tari, “che descrivono l’insieme dei fondi conservati in un determinato archivio”, e guide tematiche com­prendenti “una pluralità di fondi, conservati in uno o più istituti, li­mitatamente però alle serie e alle unità archivistiche relative a un de­terminato tema di ricerca” (citia­mo dall’Introduzione generale di

Canicci). Completano il catalogo l’indice degli autori e curatori del­le opere citate, l’indice degli enti curatori, promotori o editori, l’in­dice cronologico.

L’indice dei fondi archivistici, curato da Canicci, costituisce la se­conda parte del volume (pp. 321- 525). E diviso a sua volta in cinque sezioni: 1. Indice delle guide gene­rali, particolari e settoriali-territo- riali (a livello provinciale le secon­de, a livello regionale e provincia­le le ultime); 2. Indice dei fondi per località e sede di conservazione; 3. Indice generale dei fondi (comple­tato dalla sede e dalla località di conservazione); 4. Indice dei fondi per tipologia, nel quale sono state individuate 35 categorie (per esem­pio Archivi fascisti; Archivi sinda­cali; Comitati di liberazione nazio­nali; Corpi militari e documenti della Resistenza; Fotografie e Ar­chivi fotografici; Scuole).

In conclusione il volume appa­re un’importante guida alla cono­scenza di ciò che è stato fatto in 130 anni per la conservazione, 1 ’ or­dinamento e lo studio del patrimo­nio archivistico della penisola, una guida elaborata con grande consa­pevolezza metodologica e co­scienza dei limiti e della provviso­rietà che comporta ogni ricogni­zione in questo campo.

Riccardo Bottoni

Banca commerciale italiana- Archivio storico, Segreteria del- l’amministratore delegato Giusep­pe Toeplitz (1916-1934), a cura di Alberto Gottarelli e Guido Monta­nari, Milano, Banca commerciale italiana, 1995, ili, pp.LIX-210,sip.

Dopo la pubblicazione degli in­ventari della Presidenza e Consi­glio di amministrazione, della Se­

gretaria generale e dell’Archivio Sofindit, l’Archivio storico della Banca commerciale italiana mette a disposizione degli studiosi di sto­ria economica dell’Italia contem­poranea un altro preziosissimo strumento di lavoro. Anche a quan­ti non si interessino sistematica- mente di queste vicende non può passare inosservata l’importanza che le banche miste - e la Comit in primo luogo - ebbero nello svi­luppo e nel governo del settore in­dustriale italiano fino alla crisi dei primi anni trenta. Si comprende dunque facilmente come la pub­blicazione dell’inventario dell’ar­chivio di Giuseppe Toeplitz rap­presenti un ausilio di estrema im­portanza per un più facile utilizzo di questo interessantissimo mate­riale.

Il volume è aperto da un agile profilo biografico di Toeplitz- dal­l’infanzia in Polonia alle prime esperienze presso la filiale geno­vese della Banca d’Italia, dall’in­gresso alla Commerciale fino agli anni di governo pressoché assolu­to dell’Istituto - tracciato da Gui­do Montanari, che offre anche al­cune informazioni sulla storia del fondo, dalla sua costituzione al suo riodinamento definitivo

L’archivio della segreteria Toe­plitz comprende 84 cartelle e 73 copialettere (la serie completa ne contava 82, ma alcuni sono andati perduti, assieme a gran parte del materiale che costituiva l’archivio della segreteria, nel corso dell’in­cendio che nel 1973 devastò l’Ar­chivio centrale del Centro contabi­le di Parma), che coprono grosso­modo gli anni in cui Toeplitz fu am­ministratore delegato della Comit.

Il materiale delle cartelle è di­viso in nove gruppi: Corrispon­denza con funzionari, dirigenti e filiali della Bei (Cartt. 1 -6, ordina­

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te alfabeticamente); Corrispon­denza con diversi (Cartt. 7-23, re­lative al periodo 1916-1923); Pra­tiche varie (Cartt. 24-25, con ma­teriali del periodo 1916-1923); Raccoglitori numerati (Cartt. 26- 55, che conservano documentazio­ne degli anni 1923-1926); Pratiche alfabetiche (persone e società, Cartt. 56-63, anni 1927-1931); Corrispondenza con funzionari della Bei e pratiche d’affari (Cartt. 64-73, con carte del periodo 1930- 1933); Pratiche varie (Cartt. 74-75, degli anni 1930-1934); Segretari deH’amministratore delegato (Cartt. 76-77, con corrispondenza di Enrico Marchesano ed Emilio Brusa degli anni 1925-1930); Car­te personali e familiari di Giusep­pe Toeplitz (Cartt. 78-84, con do­cumenti tanto di carattere perso­nale, quanto relativi a questioni d ’affari, relativi agli anni 1900- 1931). All’archivio di Toeplitz so­no aggregati anche una decina di copialettere dei segretari dell’am­ministratore delegato. Fra questi si debbono segnalare i cinque volu­mi di Raffaele Mattioli (relativi al periodo 1925-1933), futuro ammi­nistratore delegato e presidente della Commerciale.

Estremamente utile è poi l’in- terventario, curato e rivisto da Al­berto Gottarelli, dei copialettere, l’unico fondo della segreteria ad avere conservato, fortunatamente, una sua compattezza, sia pure con qualche lacuna iniziale. I copialet­tere, integralmente microfilmati, sono ordinati alfabeticamente sul­la base del nome del destinatario, e sono suddivisi fra persone e so­cietà ed enti diversi. Per ogni no­minativo sono indicati i luoghi in cui le missive venivano indirizza­te, l’arco cronologico della corri­spondenza e la consistenza nume­rica dei vari carteggi.

Sarebbe impossibile rendere ra­gione, in queste poche righe, del materiale disponibile per i più di­versi filoni di ricerca, tanto nel set­tore della finanza quanto in quello dell’industria, soprattutto dei set­tori di punta: basti in questo senso un richiamo ai lavori di Antonio Confalonieri. Vogliamo tuttavia ri­cordare almeno un aspetto, e pre­cisamente la dimensione veramen­te europea, per non dire mondiale, che Toeplitz intese sempre dare al- l’attività dell’istituto che dirigeva: un nuovo invito - se ancora ce ne fosse bisogno - ad allargare sem­pre più lo studio della storia eco­nomica del nostro paese alla trama dei rapporti - vitali - con il conte­sto intemazionale.

Fabio Degli Esposti

Fedele Lampertico, Carteggi e diari 1842-1906, Volume I, A-E, a cura di Emilio Franzina, Venezia, Marsilio, 1996, pp. XXXIX-895, lire 120.000.

Con il volume che raccoglie una selezione di oltre 500 lettere di 202 corrispondenti tra i 3.480 compre­si tra le prime cinque lettere del­l’alfabeto è iniziata la pubblica­zione dei carteggi del senatore vi­centino. Il programma editoriale prevede quattro volumi e si con­cluderà - contestualmente alla an- tologizzazione di passi del Diario - con la presentazione di una sele­zione di missive inviate da Lam­pertico ad alcuni dei corrispondenti presi in considerazione, e recupe­rate in biblioteche e archivi pub­blici e privati.

Da parecchi lustri ormai il rin­novamento degli studi sul modera­tismo veneto e sulle sue connes­sioni non solo con le espressioni emiliane ma con la dimensione na­

zionale del fenomeno ha portato in primo piano l’interesse per parec­chi degli artefici di quella che Emi­lio Franzina - con espressione fe­lice - ha definito la transizione dol­ce. Le caratteristiche e la ricchez­za del fondo archivistico persona­le allestito da Lampertico stesso - emerse in pieno attraverso il lavo­ro di inventariazione e di scheda­tura ancora in corso presso la Bi­blioteca Bertoliana di Vicenza - lo hanno inevitabilmente reso un pun­to obbligato per la ricostruzione di e la riflessione su un modello di azione.

Franzina-che da anni lavora su queste carte - ha in parecchie oc­casioni già avuto modo di notare come la gran parte di esse rifletta l’impressionante dimensione del patronage esercitato con scrupolo e sapienza dal senatore vicentino nell’ambiente urbano e rurale e la capillarità dei rapporti intessuti con tutti i gangli della amministrazio­ne centrale e periferica dell’Italia liberale. Ma, data per scontata que­sta impronta, ciò che emerge da questo primo volume del carteggio e che sicuramente sarà conferma­ta dai prossimi, è la molteplicità, la polivalenza e la interscambiabilità dei ruoli ricoperti dal personagg- gio: una molteplicità, polivalenza e interscambiabilità che contribui­scono a caratterizzarlo come vero notabile della nuova Italia e che of­frono infiniti spunti per la defini­zione della specie e della categoria interpretativa con cui gli storici si misurano con crescente interesse. Attraverso le missive di uomini po­litici, amministratori, parlamenta­ri, prelati e sacerdoti, economisti, professori universitari, emergono e risultano compenetrate le dimen­sioni di Lampertico letterato ed erudito, economista e cultore di studi giuridici, collaboratore di ri­

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viste e giornali, uomo d’accademia e naturalmente politico in grado di muoversi sul piano parlamentare e non e attento a mantenere e garan­tire un equilibrio tra compiti dello Stato ed esigenze della società ci­vile.

Scegliere tra i corrispondenti in­seriti nel volume pochi esempi cal­zanti per restituire trame e temi di colloquio non è facile. Ma vale la pena di richiamare l’assiduità del dialogo con il vescovo di Cremo­na Geremia Bonomelli all’insegna del “trovar modo di comporre l’I­talia e la Santa Sede e far cessare il fiero contrasto tra il cittadino e il cattolico” e di armonizzare insie­me i due nobilissimi amori della re­ligione e della patria. Il colloquio con parecchi sacerdoti non trala­scia- tra conversari di carattere sto­rico ed erudito - lo scambio di informazioni di tipo politico a di­spetto della affermazione del mittente di aver giurato a sé mede­simo di non volersi più impicciare di fazioni elettorali e di limitarsi “ad adempiere il debito di cittadi­no col portare unicamente all’urna quel voto che avrebbe consigliato un ’ onesta coscienza, ed il bene del­la Patria”; con buona pace natural­mente della osservanza del non ex­pedid.

Già questo primo volume rac­coglie un manipolo qualificatissi­mo di economisti, statistici, stu­diosi del pensiero economico e di scienza delle finanze: da Luigi Bo- dio che discute del futuro della statistica ed offre al senatore infor­mazioni - tratte anche da pubbli­cazioni straniere - utili anche dal punto di vista politico; a Salvatore Cognetti De Martiis che illustra il progetto d’un “Gabinetto d’appli­cazione agli studi economici”, os­sia quello che diventerà il celebre laboratorio torinese; a Vito Cusu­

mano - di cui sono qui pubblicate una quindicina di lettere - che il­lustra a Lampertico da Berlino al­l’inizio degli anni settanta le ca­ratteristiche fondamentali della nuova scuola economica tedesca cui poi avrebbero fatto riferimen­to i “socialisti della cattedra” ita­liani, secondo la definizione di Francesco Ferrara; e tralascio gli Errerà, i Cossa e altri ancora.

Quanto ai politici ‘eccellenti’ non si può ignorare Francesco Cri- spi, che nel 1881 discute di rifor­ma del Senato, nel quadro più ge­nerale della ammissibilità della riforma dello Statuto, con il futuro autore de Lo Statuto e il Senato, pregandolo tra l’altro di “adope­rarsi con la sua influenza e l’auto­rità del suo nome alla riforma”, e assicurandolo che “renderà così un grande servizio all’Italia e al Re”.

Un elemento di fondo che emer­ge dalla lettura del carteggio è la co­stante compresenza e interscam- biabilità di registri di scrittura, tra il pubblico e il privato; una spia elo­quente della compresenza e inter- scambiabilità di ruoli dei corri­spondenti - e dunque dell’interlo- cutore-destinatario - tra uomini di cultura e uomini di potere all’inter­no di reti di relazione estesissime e intersecate.

Molte osservazioni questo vo­lume solleciterebbe sul problema storico e storiografico dei carteg­gi, sul rapporto tra epistolario e car­teggio come genere e come pro­blema editoriale; ma su tutto ciò varrà la pena forse di tornare al ter­mine di questa avventura editoria­le, richiamando per ora l’attenzio­ne dei lettori sulle penetranti an­notazioni del curatore sull’episto­lografia in età contemporanea, contenute nell’ampio saggio intro­duttivo.

Emma Mana

Paola Carucci, Fabrizio Dolci, Mario Missori (a cura di), Volan­tini antifascisti nelle carte della Pubblica sicurezza (1926-1943), Roma, Ministero per i Beni Cultu­rali e Ambientali - Ufficio centra­le per ¡Beni Archivistici, 1995, pp. 241, sip.

Questa raccolta di volantini, conservati presso l’Archivio cen­trale dello Stato, si presenta come una fonte sulla propaganda antifa­scista di notevole interesse, sia per il mezzo, che, insieme alla comu­nicazione verbale, costituiva uno dei modi principali di veicolare l’opposizione al regime fascista, sia per i contenuti, da seguire anno per anno, al mutare delle condizioni politiche interne e intemazionali. Gli estremi cronologici coprono il periodo in cui il fascismo fu regi­me, dal novembre 1926, data d’ap­provazione delle leggi sulla pub­blica sicurezza e dell’istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, al 25 luglio 1943. L’at­tività antifascista si sviluppò nei primi tempi, soprattutto nei suoi centri esteri, in particolar modo in Francia (ma la documentazione qui proposta mostra anche una certa vi- talità dell’emigrazione politica in altri paesi come Argentina, Sviz­zera, Stati Uniti), ma anche in pa­tria, per opera principalmente del Partito comunista, che si era at­trezzato per la clandestinità ancor prima della messa fuori legge dei partiti politici.

Il materiale propagandistico di questo partito, ma anche la pre­senza di Giustizia e libertà, è ab­bastanza ricorrente nei primi anni presi in considerazione. Balza agli occhi l’estrema precarietà di que­sta battaglia, condotta con povertà di mezzi, basti far caso alla stam­pa dei volantini riprodotti e alla

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presenza di manoscritti. Tra i de­stinatari prevalgono gli operai; i partiti di sinistra, in particolare, non dimenticavano di accompa­gnare, alla contestazione del regi­me, anche rivendicazioni salariali. Se questa attività risulta interes­sante nei suoi contenuti ma è nota, un certo stupore deriva dall’atten­zione posta ai metodi dell’acquisi­zione del consenso da parte del fa­scismo. Già nel materiale del 1929 si registrano appelli alle famiglie perché non mandassero i propri fi­gli alle colonie estive organizzate dal regime, cosi come alcuni mani­festini, tra cui uno manoscritto, molto interessante, mettevano in guardia verso l’attività di propa­ganda condotta dai fascisti nei con­fronti degli emigrati. Sembra così emergere la coscienza, tra gli anti­fascisti, della possibilità e della ca­pacità di penetrazione ideologica dei loro avversari tra le masse; si può percepire la preoccupazione per una progressiva fascistizzazio­ne della società.

Il Concordato venne “assorbi­to” lentamente; le reazioni più vi­ve sono identificabili nei volantini e nelle vignette che ponevano il Pa­pa al servizio del regime e lo con­trapponevano, come modello, alla scelta dei soviet, già peraltro esalta­ta in precedenti occasioni. Altro punto nodale è la guerra di Spagna e l’allarme che generò l’alleanza italo-tedesca.

I curatori fanno presente, nel- VIntroduzione, che tra il 1927 e il 1935 gli autori dei volantini sono ben identificabili e conosciuti, men­tre dopo il 1935 compaiono nuovi soggetti, o addirittura proteste di semplici cittadini. Dal 1935 si può notare, in effetti, un’impennata nel­la consistenza del materiale in cui predominano l’opposizione alla guerra in Etiopia e l’esortazione a

non arruolarsi. Di particolare rilie­vo è un volantino del 1936 (n. 351 ) in cui i comunisti invitavano le mas­se cattoliche alla fraternità e alla collaborazione fra tutti i lavoratori. Sembra così attenuarsi, se non spe­gnersi, quella forte spinta critica che, nella propaganda, aveva oppo­sto i comunisti al Concordato coin­volgendo non solo le gerarchie ec­clesiastiche, ma un intero modo di concepire la società.

Se deludente risulta, nel 1939, la mancanza (tranne che per un solo volantino) di sensibilizzazione con­tro le leggi razziali, desolante è il quadro generale dell’attività nel­l’anno successivo. I soli quattro vo­lantini raccolti, a prescindere dalla reperibilità archivistica, indicano chiaramente uno stato di crisi, do­vuto all’occupazione della Francia, che generò lo scompaginamento delle forze antifasciste ivi rifugiate, e allo stato di guerra. Il disorienta­mento è evidente anche nell’anno successivo; mentre nel 1942, le stes­se vicende belliche, stavolta favore­voli agli alleati, e il tempo speso per la riorganizzazione delle attività e delle strutture, fanno assistere a una più intensa opera di propaganda che, nell’anno successivo, sarebbe dive­nuta ancora più consistente nel nu­mero e più elevata nel tono.

Oltre al lavoro compiuto sui do­cumenti, di reperimento, di sche­datura, di collocazione entro pre­cisi ambiti cronologici e di attri­buzione di autori incerti, l ’impe­gno dei curatori si fa apprezzare per l’organizzazione del volume: l’or­dine e l’omogeneità nell’imposta­zione delle schede, l ’indicazione, redatta anno per anno, dei dati più salienti dell’attività antifascista, consentono una facile lettura e comparazione, mentre l’organiz­zazione dell’indice, che raggruppa partiti, enti, luoghi e cose notevo­

li, fornisce al lettore la possibilità di un’agevole fruibilità.

L’iniziativa di comporre un re­pertorio di queste fonti ha evitato la dispersione di una documenta­zione importante; renderla nella forma più efficace ha significato valorizzare quella che fu una scel­ta di libertà.

Marco De Nicolò

Elena Giacanelli Boriosi, Dia­na Ascari, Guida alle ricerche bi­bliografiche. Dalla biblioteca alle banche dati, alle reti telematiche, Bologna, Zanichelli, 1995,pp. 254, lire 20.000.

Nell’ambito della letteratura dedicata alla ricerca bibliografi­ca, questa guida si rivolge speci­ficamente a studenti delle scuole superiori, studenti universitari e ricercatori ancora inesperti. Co­me infatti sottolineano le stesse autrici, si è voluto “prendere per mano” chi per la prima volta in­tenda frequentare una biblioteca e usufruire dei suoi servizi e chi si trovi a contatto con l’informa­tica, i suoi strumenti e metodi. Il pregio del volumetto, infatti, con­siste nell’avvicinare e introdurre i giovani ricercatori non soltanto ai tradizionali strumenti di ricer­ca bibliografica, ma anche a quel­li più recenti quali il computer, banche dati, reti e Internet, argo­menti che, come d’altronde i pre­cedenti, raramente vengono oggi affrontati nelle scuole medie su­periori e nelle università.

La struttura di questa guida ta­scabile presenta come primo argo­mento l’esame dei preliminari alle ricerche bibliografiche. Si indica infatti come scegliere un argo­mento di ricerca, secondo quali cri­teri, dove reperire le prime infor-

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inazioni e gli strumenti di lavoro (dalle tradizionali schede biblio­grafiche a righe, al PC portatile). La biblioteca viene indicata come luogo privilegiato delle ricerche bi­bliografiche: vengono infatti esa­minate sia le diverse tipologie di biblioteca (nazionale, di conserva­zione, specializzate, annesse ai monumenti nazionali, universita­rie), sia gli strumenti (annuari, gui­de, elenchi, ecc.) per individuare quelle che meglio corrispondono alla ricerca prescelta.

11 secondo capitolo è dedicato al­la descrizione della biblioteca: dal­la sala di consultazione, agli stru­menti bibliografici e ai cataloghi; dalla sala di lettura al servizio fo­tocopie; dalla consultazione del vo­lume alle pratiche per ottenerne il prestito. Se questo percorso, in cui il lettore è letteralmente condotto per mano attraverso i luoghi della biblioteca, può apparire a tratti ba­nale, dal momento che è sufficien­te recarvisi per capirne il funziona­mento, risulta tuttavia utile per l’ap­profondimento con il quale infor­ma sull’organizzazione dei catalo­ghi e delle schede per poterli uti­lizzare al meglio; esaustivo risulta, infine, il paragrafo dedicato alla gamma delle bibliografie possibili.

Il terzo capitolo tratta degli ar­chivi (pubblici, privati ed eccle­siastici), soffermandosi sui ma­noscritti e sulla storia del papiro, della pergamena e della carta at­traverso brevi schede che con­sentono di avere un inquadra­mento generale sulla storia del li­bro e della scrittura, dando anche precise indicazioni bibliografiche a chi voglia approfondire la ma­teria. Il capitolo prende in esame anche altri argomenti, quali la co­siddetta letteratura minore e gli strumenti di ricerca legati ai “non- book materials” (dai manifesti al­

le locandine, dalle fotografie ai film, dai dischi ai nastri e alle vi­deocassette); infine si affrontano alcuni particolari campi di ricer­ca bibliografica quale quella mu­sicale, fornendo utili e pratiche in­dicazioni di repertori, cataloghi telematici e bibliografie delle edi­zioni a stampa.

Il quarto capitolo è, forse, quello che interessa maggior­mente il ricercatore di oggi a cui si chiede la conoscenza e l’utiliz­zo dei nuovi sistemi telematici in un mondo che diventa sempre più “virtuale”. Anche in biblioteca è entrato il computer e l’applica­zione delle tecnologie informati­che sta modificando radicalmen­te la raccolta delle informazioni e quindi le modalità della ricerca bibliografica. Lo scopo del capi­tolo non è certo quello di dare un’informazione completa e ap­profondita della materia, dal mo­mento che sono a disposizione dell’utente manuali ben più adat­ti a tale scopo, quanto di intro­durre ai nuovi strumenti tecnolo­gici. Si parla infatti del computer, delle parti che lo compongono (CPU, memoria RAM, hard disk), dei meccanismi di base delle ope­razioni compiute da un calcolato­re e dei concetti fondamentali del software (file, programma), per poi passare a illustrare come può essere utilizzato in una bibliote­ca, dalla semplice ricerca di un li­bro al collegamento in rete con banche dati di altre biblioteche o istituti.

Successivamente l’autore del capitolo, Federico Giacanelli, concentra il discorso sulle banche dati su CD-ROM e sulle reti, in particolare su Internet e sul mo­do in cui funziona questa grande “autostrada informatica” e sui servizi che può offrire. Il capito­

lo si conclude con un paragrafo dedicato all’editoria elettronica in cui si fa riferimento al catalogo CD-ROM (aggiornato al maggio 1994) delle informazioni edito­riali, una società sorta nel 1985 e specializzatasi nella progettazio­ne e gestione di grandi data-base.

L’ultimo capitolo è dedicato all’analisi, catalogazione e uso del materiale bibliografico rac­colto. Si parla quindi della com­pilazione delle schede bibliogra­fiche, delle schede di lavoro, del loro ordinamento e dell’elabora­zione del materiale raccolto.

La guida si conclude con un glossario relativo agli argomenti trattati e con un elenco delle ope­re consultate (che, in verità, avrebbe potuto essere sviluppato in una più ampia bibliografia). Nel complesso dunque un ma- nualetto utile, pratico, di facile consultazione, che evita tecnici­smi e rivela un’approfondita ri­cerca sul campo, introducendo al mondo della documentazione con indicazioni semplici e chiare.

Luisa Lombardi

Piero Del Negro (a cura di), Gui­da alla storia militare italiana, Na­poli, Edizioni scientifiche italiane, 1997, pp. 279, lire 50.000.

Serie di rassegne bibliografiche settorialidi 14 autori, impostatene! 1989 da Raimondo Luraghi e Mi­chele Nones, riprese e pubblicate da Piero Del Negro, aggiornate al 1992 (e in parte agli anni seguen­ti), con un elenco di 350 titoli edi­ti successivamente curato da Ni­cola Labanca. Per un totale com­plessivo di 4.000 opere, non poche delle quali citate in due o più se­zioni.

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Una rassegna bibliografica di tale ampiezza pone problemi irre­solubili di completezza e di ripar­tizione, di coordinamento e di se­lezione, e non può non lasciare la­cune anche notevoli e affiancare studi e memorie di valore a pub­blicazioni agiografiche o giornali­stiche. Una valutazione comples­siva deve tenere conto di questi ine­vitabili limiti di partenza e apprez­zare (oltre al grosso impegno dei curatori) quanto di utile e interes­sante offrono le diverse sezioni. Con l’ovvia avvertenza che quelle che trattano periodi e problemi per i quali la produzione è limitata e può essere tenuta sotto controllo riescono certamente meglio di quelle che devono fare i conti con una produzione sterminata e di li­vello quanto mai vario.

Segnaliamo in primo luogo le sezioni dedicate al Medioevo (Ro­berto Perelli Cippo, 277 titoli con una buona nota introduttiva), alla guerra nel Mediterraneo dal Cin­quecento all’Ottocento (Salvatore Bono, 100 titoli), all’età moderna (Piero Del Negro, 368 titoli con una buona nota introduttiva e una lo­devole attenzione agli studi stra­nieri) e al Risorgimento (Alberto Maria Arpino, 199 titoli, con scar­so interesse per gli anni post-1870). Per il periodo successivo, in cui la produzione cresce a dismisura, possono avvalersi di una concreta delimitazione di campo e di un’im­postazione giustamente e vivace­mente critica le sezioni dedicate al­la marina e all’aeronautica italiane dalle origini alla seconda guerra mondiale curate da Alberto Santo­ni (280 titoli) e Andrea Curami (321 titoli).

Nel valutare le altre sezioni bi­sogna tener conto dei problemi ir­resolubili di selezione e ripartizio­ne, oltre che del ritardo degli studi

pernon pochi settori. Come avverte Michele Nones, non è realmente possibile separare le vicende del- l’industria militare (cui dedica 274 titoli) da quelli dell’industria in ge­nerale (con tutte le sue implicazio­ni politico-sociali). Così Leopoldo Nuti conduce una rigorosa rico­gnizione dei contributi sulle forze armate dopo il 1945 (220 titoli, con una puntuale denuncia della insuf­ficienza delle fonti), ma è costret­to a sacrificare temi come la poli­tica Nato, il dibattito sulle armi ato­miche, le varie forme di antimili­tarismo e le “deviazioni” dei ser­vizi segreti. La sezione sulla storia militare coloniale di Luigi Goglia (240 titoli) ci sembra poi insuffi­ciente, sia nella rinuncia a distin­guere le opere edite prima e dopo la seconda guerra mondale, sia nel- l’incapacità di cogliere e valoriz­zare tutte le aperture problemati­che degli ultimi decenni. Del tutto inutile la sezione sull’esercito ita­liano nella prima e nella seconda guerra mondiale di Antonello Bia- gini e Filippo Stefani, che si risol­ve in due elenchi di 170 e 140 ti­toli senza alcuna ripartizione tra studi, documentazione, agiografia e memorie (con una scelta casuale di queste ultime); la grande diffi­coltà di un approccio a una produ­zione vastissima non giustifica la rinuncia a qualsiasi tentativo di in­quadramento critico. Lo stesso si può dire per la sezione sulla guer­ra di liberazione di Giuseppe Con­ti (208 titoli), di qualche utilità per l’operato delle forze armate e del­la Rsi, ma non per la prigionia dei militari italiani e ancor meno per la guerra partigiana (a che serve un semplice elenco di 83 titoli in par­te casuali dinanzi a una produzio­ne così vasta?).

Rispetto alle dimensioni delle sezioni citate, 200-300 titoli, assu­

me rilievo particolare la sezione de­dicata alla storia del pensiero, del­le istituzioni e della storiografia mi­litare curata da Virgilio Ilari, di ben 920 titoli articolati in 17 sottose­zioni. La sua straordinaria cono­scenza della produzione degli ulti­mi cinquantanni (ma non manca­no riferimenti a quella del periodo fascista) porta l'autore a spaziare sui temi più diversi, dai manuali di storia militare alla politica, dalla sociologia al pacifismo, dalla logi­stica al cinema, dalla censura ai monumenti ai caduti. Sono par­zialmente coperte alcune delle la­cune dell’opera (come la politica militare dell’Italia liberale e fasci­sta), ma, malgrado l’interesse di molte segnalazioni, l’effetto com­plessivo è di una notevole disper­sione e, quando l’autore esce dai tracciati più battuti, di scelte occa­sionali o discutibili; per esempio l’autore dedica una sottosezione di 40 titoli alla Miliziae alle forze del­la Rsi, ma nella sottosezione sui corpi volontari dal Risorgimento alla Resistenza riserva a quest’ul- tima non più di 7 titoli abbastanza casuali. Sarebbe stato opportuno calibrare meglio questa sezione nell’economia generale dell’ opera.

Giorgio Rochat

Il catalogo tematico dei piccoli edi­tori 1995, Milano, Associazione italiana piccoli editori, 1995, 446 pagine + floppy disk, lire 18.000.

Per evitare la dispersione delle proprie pubblicazioni aH’intemo della vasta produzione nazionale l’Aipe, ente che raggruppa oltre un centinaio di piccole case editrici italiane, aggiorna periodicamente un interessante Catalogo tematico, giunto ormai alla sua quarta edi­zione.

Rassegna bibliografica 665

Mantenere separato questo par­ticolare repertorio dai tre grossi to­mi che costituiscono il noto Cata­logo dei libri in commercio (cura­to quest’ultimo dall’Associazione italiana editori) significa richiama­re 1 ’ attenzione del pubblico su di un settore bibliografico che altrimen­ti rischierebbe di passare inosser­vato nel grande mercato del libro dominato dalle grosse imprese.

La piccola editoria, che per so­pravvivere si prefigge gli obiettivi della specializzazione culturale e della ricerca di una buona qualità di stampa, segnala in questo utile stru­mento informativo non l’intera di­sponibilità delle case affiliate ma una selezione di opere fra le più signifi­cative. I titoli si presentano ordinati per aree tematiche, ma non è tutta qui la struttura del catalogo poiché la versione in floppy disk annessa al volume permette la consultazione secondo altre chiavi di accesso: au­tore, curatore, soggetto, editore, pa­role chiave, prezzo di copertina.

Un’ultima rilevante caratteristi­ca del repertorio dell’Aipe è l’ap­pendice con le schede di tutte le ca­se editrici associate: un essenziale resoconto storico dell’attività di ciascuna e l’indicazione dei prin­cipali settori d ’interesse attual­mente coltivati.

Paolo Maggiolo

Gruppo di coordinamento delle biblioteche della Regione to­scana (a cura di), Catalogo collet­tivo dei periodici, Firenze, Edizioni Regione Toscana, 1996, pp. 221, sip.

L’ente regionale della Toscana, uno dei più attivi e benemeriti in Ita­lia nel promuovere e diffondere ot­time edizioni di carattere biblio­grafico e biblioteconomico (basti accennare all’iniziativa della pre­

ziosa collezione “Inventari e cata­loghi toscani”), pubblica questo Ca­talogo collettivo che riunisce in agi­le schedatura il patrimonio periodi­co dei seguenti istituti: Biblioteca della Giunta regionale, Biblioteca del Consiglio regionale, Biblioteca dell’Istituto regionale per la pro­grammazione economica della To­scana (Irpet), Biblioteca dei servi­zi bibliografici e Centro regionale di documentazione agricola, ovve­ro cinque sue strutture periferiche.

La lettura del catalogo rivela una buona dotazione di riviste ita­liane e straniere in un campo di di­scipline ampio e generale, consi­derando la diversità di compiti e funzioni che ciascuna delle cinque sedi si trova ad espletare. Nelle do­tazioni seriali del Sistema delle bi­blioteche regionali emerge, co­munque, una certa prevalenza di ti­toli appartenenti alle aree socio- economiche, giuridiche, politiche e biblioteconomiche, segnalando­si altresì una marcata presenza di rassegne di attualità culturale.

II recente strumento di consul­tazione offerto dalla Regione To­scana risulta infine utilmente com­plementare alle sempre più fre­quenti ricerche nella base catalo­grafica informatizzata dell’Indice nazionale (che raggruppa i poli Sbn, Servizio bibliotecario nazio­nale), in quanto i dati relativi alle raccolte censite in questo Colletti­vo sono attualmente immessi sol­tanto in rete regionale.

Paolo Maggiolo

Andreina Rigon (a cura di), Indici 1972-1994, supplemento a “Ricer­che di storia sociale e religiosa”, 1994, n. 46, pp. VIII-344, lire 60.000.

Su queste pagine è stato più vol­te sollevato il problema dell’infor­

mazione bibliografica (cfr. per esempio Enzo Ronconi, Informa­tica o obliterazione?, “Italia con­temporanea”, 1991, pp. 689-693), così come sono stati segnalati mol­ti “strumenti” della ricerca storica, compresi gli indici che diverse ri­viste hanno pubblicato (tra gli ul­timi interventi si veda “Italia con­temporanea”, 1995, pp. 528-532). Risponde alle stesse motivazioni l’elaborazione di un Indice gene­rale analitico 1974-1996 di “Italia contemporanea”, di imminente pubblicazione, e non possiamo di conseguenza che sfogliare con in­teresse il voluminoso indice della rivista dell’Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa di Vi­cenza.

Alla Presentazione e alla Nota introduttiva seguono le cinque par­ti in cui si articola il volume. L’In­dice degli argomenti “raggruppa i titoli dei contributi della rivista en­tro le maglie piuttosto larghe di ar­gomenti-contenitore generali, ma non generici” (p. 3). L’Indice de­gli autori presenta alfabeticamen­te articoli, note e interventi vari, e Io stesso fa Vindice degli autori di recensioni e schede, mentre Vindi­ce di colloqui, conversazioni, con­gressi, convegni, seminari, tavole rotonde presenta in ordine crono­logico i testi che si riferiscono ai diversi tipi di confronto culturale. Quasi due terzi del volume (pp. 125-344) sono infine occupati dal- Vlndice dei nomi di persona (che però non considera i nomi “com­presi nelle tavole, nelle appendici e nelle note a piè di pagina”).

Dunque un lavoro notevole, che offre molteplici possibilità di ri­cerca delle informazioni e che va­lorizza quanto pubblicato, consen­tendone un maggiore e più agevo­le utilizzo. Se è possibile qualche osservazione marginale — per

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esempio, sarebbe stato forse più utile dar conto dei libri recensiti presentandoli secondo gli autori e non secondo i recensori — va ri­cordato che in ogni lavoro di que­sto tipo occorre fare delle scelte che penalizzano o privilegiano una o l ’altra modalità di accesso alle informazioni. Il discorso si sposta, in questa prospettiva, sull’assenza di modelli condivisi ai quali rifar­si e che potrebbero permettere an­che la fusione dei singoli lavori.

In mancanza di un’iniziativa pubblica sarebbe allora da auspi­care, forse un po’ utopisticamen­te, che più enti pubblici e privati di rilievo si accordassero per sud­dividersi, con evidenti economie e quindi possibilità di offrire lavori più analitici, la gestione del­l’informazione bibliografica ri­guardante i testi comparsi sulle ri­viste storiche. Sarebbe un peccato continuare a disporre di strumen­ti, ben fatti e utili come quello of­ferto da “Ricerche di storia socia­le e religiosa”, senza poterli inse­rire in una più ampia banca dati e senza poterli aggiornare in conti­nuazione.

Paolo Ferrari

“Contemporary European Hi­story”, 1992-1996, Cambridge, Cambridge University Press, ab­bonamento annuo sterline 29 (pri­vati) - 47 (istituzioni).

“Contemporary European Hi­story” è nata nel marzo 1992 gra­zie al patrocinio dell’Institute of Contemporary British History (Londra) e si propone di contri­buire allo studio della storia del­l’Europa occidentale e orientale dal 1918 ai giorni nostri. Come scrivono Kathleen Burk e Dick Geary, editors della rivista e ri­

spettivamente docenti delle uni­versità di Londra e Nottingham, so­no stati gli enormi cambiamenti av­venuti nell’Europa dell’Est, in se­guito alla caduta del muro di Ber­lino, e l’accelerazione del proces­so di integrazione europea avve­nuta nel 1992, a riaccendere l’in­teresse per l’Europa intesa come entità geografica e storica e a ren­dere improcrastinabile la nascita di una rivista accademica che soddi­sfacesse la domanda crescente per studi di carattere comparato. Di qui il lancio della rivista, il cui scopo vorrebbe essere quello, sempre se­condo quanto si legge nell’edito­riale di presentazione, di fungere da luogo “di dibattito interdisci­plinare e intemazionale” fra stori­ci di diverse realtà nazionali per uno studio dell’Europa che tenga presente le numerose analogie e so­miglianze riscontrabili fra i diver­si paesi.

La traduzione degli abstracts in francese e tedesco riflette sen­za dubbio il desiderio di fare del­la rivista uno strumento realmen­te ‘europeo’ e non limitato a sto­rici anglosassoni. Il fatto di poter proporre articoli in lingua origi­nale è un’ulteriore testimonianza del tentativo di coinvolgere il più possibile il mondo accademico non inglese. Va detto, tuttavia, che, nonostante tali encomiabili sfor­zi, “Contemporary European Hi- story” rimane una rivista frutto per lo più del lavoro di storici inglesi e americani che rappresentano non solo la maggioranza del co­mitato editoriale ma anche la lar­ga maggioranza degli autori dei contributi.

Se il proposito di assolvere la funzione di luogo di dibattito real­mente intemazionale ci sembra in parte insoddisfatto, lo stesso non si può dire per quello che riguarda la

capacità della rivista di fornire una prospettiva comparata per lo stu­dio di molte questioni finora af­frontate in una chiave unicamente nazionale. Almeno un numero al­l’anno (in tutto sono tre, pubblica­ti in marzo, giugno e novembre) è infatti monografico, allo scopo di ospitare contributi che trattino in un’ottica comparativistica un uni­co tema; tra le questioni finora af­frontate vi sono il molo svolto dal­le banche centrali negli anni fra le due guerre (n. 2, 1992); razzismo e violenza in Germania e Europa (n. 2, 1994); la famiglia (a cura di Paul Ginsborg, n. 3, 1995); la pic­cola borghesia in Europa dal 1914 al 1945 (n. 3, 1996).

Per quanto riguarda i numeri non a tema, essi contengono saggi che spaziano dalla storia sociale a quella politica, diplomatica o eco­nomica e che si concentrano di vol­ta in volta su realtà nazionali spe­cifiche; è a questo proposito che ri­teniamo di dover richiamare l’at­tenzione su un’altra caratteristica della rivista, sul fatto cioè che lo studio dei paesi dell’Europa del Sud appare visibilmente trascura­to: scorrendo i numeri finora pub­blicati è innegabile, infatti, lo squi­librio considerevole fra l’attenzio­ne dedicata all’Europa centrale e dell’Est e quella riservata ai paesi dell’Europa meridionale. Nono­stante la presenza nel comitato edi­toriale di studiosi del calibro di Paul Preston, noto specialista di studi ispanici, e Paul Ginsborg, af­fermato italianista, sono rari i con­tributi su Italia e Spagna per non dire dell’assenza totale di qualsia­si accenno a Grecia e Portogallo. La maggioranza schiacciante di germanisti all’interno del comita­to editoriale fa sì che gran parte de­gli articoli si concentri sulla realtà tedesca e sui paesi ex-comunisti in

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transizione che, insieme al proces­so di integrazione europea, rap­presentano senza dubbio le aree di interesse chiave su cui ruota “Con- temporary European History”.

Quanto alla rivista, essa è com­posta in genere da tre saggi princi­pali di una quindicina di pagine, se­guiti da alcuni contributi più bre­vi, due o tre, che non superano le sei pagine. Segue poi la sezione “Book review” che ospita ogni vol­ta la recensione di un solo libro; se­condo quanto enunciato nel primo fascicolo, considerato l’alto nume­ro di recensioni già offerte da altre riviste accademiche, l’attenzione di “Contemporary European Hi­story” si sarebbe dovuta focalizza­re su saggi stranieri; non ci sembra tuttavia che anche questo ulteriore impegno preso in direzione di una minore ‘britannocentricità’ sia sta­to finora rispettato: la pressoché to­tale maggioranza dei testi recensi­ti è infatti di autori inglesi o ame­ricani. La rivista si chiude infine con due altre rubriche: “Com- ment”, che si propone di ospitare brevi interventi sullo stato dello studio della storia e della ricerca storica nelle varie realtà nazionali europee e che registra la prevalen­za di interessanti contributi sui pae­si dell’Est; e “Noticeboard”, attra­verso cui è possibile tenersi infor­mati su conferenze, nascita di nuo­ve fondazioni, associazioni, riviste storiche, apertura di nuovi archivi, eccetera.

Ilaria Favretto

“Rivista storica dell’anarchismo”, a.1,1994, n .l.pp. 160; a. 11,1995, nn. 1 e 2, pp. 176; ogni numero li­re 25.000.

La Biblioteca “Franco Seranti- ni” di Pisa ha promosso una rasse­

gna semestrale di studi storici sul movimento anarchico, sorretta dal- l’ambizione di effettuare uno sca­vo critico nelle vicende dei movi­menti libertari e delle culture an­tiautoritarie, con l’obiettivo di al­lestire non già “una rivista cele­brativa, o peggio autocelebrativa, un parco delle rimembranze, ma un osservatorio a 360 gradi, nell’am­piezza della collaborazione e del­le tematiche, senza apriorismi ideologici, fossero pure quelli del- l’anarchismo stesso; quelle che scriveremo saranno spesso pagine di critica e di rivendicazione - sto­riografica s’intende - dalla parte dei vinti ed evitando accuratamen­te il vittimismo tipico e autocon­solatorio delle minoranze”.

Nel folto elenco dei membri del Comitato scientifico e dei redatto­ri si ritrovano i nomi di taluni pio­nieri degli studi sull’anarchismo italiano (Pier Carlo Masini, Enzo Santarelli) e intemazionale (Paul Avrich), insieme a quelli di alcuni ricercatori delle nuove generazioni occupati su nuove piste d’indagine intorno a momenti e figure degli ete­rogenei movimenti libertari (Fran­co Bertolucci, Adriana Dadà, Isa­belle Felici, Francisco Madrid San­tos, Massimo Ortalli e altri studio­si i cui nomi si avrà occasione di ci­tare più oltre).

I temi affrontati dalla rivista - strutturata in quattro sezioni: “Sag­gi”, “Archivi, biblioteche, centri di documentazione e fondazioni”, “Recensioni e schede bibliografi- che” e “Notiziario” - privilegiano il periodo compreso tra l’ultimo de­cennio del secolo scorso e la se­conda guerra mondiale, con una meritoria attenzione all’edizione critica di materiale inedito (per lo più epistolari).

Nel numero d’esordio Maurizio Antonioli firma uno studio mono­

grafico sull’atteggiamento degli anarchici dinanzi alla guerra euro­pea, corredato dalle lettere inviate tra il 1914 e il 1915 da Luigi Fab­bri e Cesare Agostinelli a Nella Giacomelli, maestra impegnata nel giornalismo libertario accanto a Et­tore Molinari. Nel secondo nume­ro della rivista Antonioli prosegue l’accurato lavoro di edizione degli epistolari anarchici nei due primi anni di guerra, trascrivendo lettere di Luigi Fabbri, Mario Gioia, Mas­simo Rocca, Maria Rygier. Si trat­ta di un primo tassello, nondime­no utile per chi vorrà approntare una più generale storia (ancora tut­ta da scrivere) delle divisioni che lacerarono il movimento anarchi­co italiano tra antimilitaristi e in­terventisti, ben più in profondità di quanto non si creda comunemen­te: si consideri ad esempio - per un periodo successivo, a ridosso del­la rotta di Caporetto - il rientro di gruppi di militanti espatriati in Svizzerae disposti, nelle nuove cir­costanze di “pericolo mortale per la patria”, ad arruolarsi nell’eser­cito monarchico. Dalla lettura di questi documenti si comprende la fallacia di alcuni giudizi (più che altro autoconsolatori) espressi in passato da molti studiosi di area an­tiautoritaria, per avvalorare la so­stanziale tenuta del movimento anarchico italiano dinanzi ai profondi richiami dispiegati dal­l’interventismo.

Natale Musarra espone e com­menta i dati statistici sulla consi­stenza dei Fasci dei lavoratori in Sicilia, nel 1894, con utili elemen­ti sulla loro nascita, sul numero de­gli aderenti, sulla data e i motivi del loro scioglimento. Tra le fonti utilizzate in questo lavoro vi è un circostanziato indirizzario seque­strato ad Emmanuele Gufi, all’e­poca impegnato nel tentativo di in­

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dirizzare il movimento solidaristi­co verso sbocchi insurrezionali.

Alberto Ciampi e Armando Se- stani pubblicano un contributo sul rilievo deH’Art Noveau, fra istan­ze sociali e riorganizzazione del ca­pitale, in rapporto alle lotte operaie e contadine dei Fasci dei lavorato­ri e ai moti della Lunigiana.

La figura di Andrea Caffi è sta­ta affrontata da Stefano Merli in un contributo approntato poco prima della scomparsa, gravitante attorno all’idea-guida della sfortuna del pensiero di un esponente originale ma emarginato del movimento so­cialista italiano. Il fatto che questo saggio, orientato a rivalutare l’ere­dità proudhoniana nel socialismo italiano, sia apparso sulla “Rivista storica delFanarchismo” (che nel proprio Comitato scientifico anno­verò Merli) può apparire un tratto significativo per F itinerario scien­tifico e anche biografico dell’ulti­mo Merli, segnando per lo studio­so del movimento operaio italiano una sorta di ritorno alle origini (cioè all’inizio degli anni sessanta, quan­do militò nel le file della sinistra fuo­riuscita dal Psi in avversione al cen­trosinistra), consumata la deluden­te fase di fiancheggiamento all’in­voluzione craxiana del socialismo.

Il numero inaugurale del 1995 si caratterizza per una precipua at­tenzione al trentennio intercorren­te tra lo scoppio del conflitto eu­ropeo e la fine della seconda guer­ra mondiale.

Marcello Zane presenta una sti­molante indagine sulle “dimenti­canze di Clio”, cioè a dire l’assen­za di studi sul movimento anarchi­co nelle pubblicazioni edite dagli istituti storici della Resistenza: su un totale di circa quattromila fra saggi storici, interventi, articoli e ricerche, l’elenco dei contributi de­dicati alla storia dell’anarchismo

appare quanto mai sparuto: 23 per l’esattezza, nove dei quali raccolti nel numero speciale del “Notizia­rio dell’Issr di Cuneo” dedicato a SaccoeVanzetti (il n. 33 del 1988). Ulteriore elemento di riflessione, a integrazione dell’esiguità del dato numerico, deriva dalla constata­zione che la pubblicazione dei sag­gi riconducibili alla storia dell’a­narchismo sia dipesa essenzial­mente da soggettivi interessi di ri­cerca e dalla più o meno casuale disponibilità di materiale docu­mentario (fondi depositati da an­ziani militanti libertari).

Claudio Venza (condirettore con Alfonso Botti del semestrale “Spagna contemporanea”, interes­sante rivista alessandrina che dal 1992 ad oggi ha ospitato diversi studi sull’anarchismo, e non sol­tanto sull’esperienza iberica) esa­mina - attraverso l’esperienza e la memoria di Umberto Marzocchi - il richiamo esercitato su svariati militanti del movimento libertario italiano dalla guerra civile spagno­la, in una prospettiva non agiogra- fica ma nemmeno disamorata, nel­la convinzione che “su un piano meno vincolato alle contese poli­tiche e alla difesa del proprio pas­satoria riflessione storica debba af­frontare con strumenti critici anche gli aspetti di dubbio valore, le scel­te opinabili, le ambiguità e le con­traddizioni, insomma la problema­tica in tutta la sua complessità, una realtà composta spesso da un in­treccio inestricabile di progettua­lità utopica e di condizionamenti pressanti, di aspirazioni e di ne­cessità, di strategie meditate e di elementi di fatto ineludibili”.

Il terzo numero della “Rivista storica dell ’ anarchismo” si apre con una lunga rielaborazione di Loren­zo Gestri che, muovendo da un do­cumento processuale, ricostruisce

un episodio dell’attività propagan­distica di Luigi Molinari a Carrara, nell’ultima settimana del 1893.

Franco Schirone ripercorre la parabola editoriale del tipografo aretino Giuseppe Monanni (1887- 1952), promotore (con Leda Rafa- nelli, nota soprattutto per i suoi le­gami col giovane Mussolini) della Casa Editrice Sociale, fondata ver­so la fine del 1909 e presto dive­nuta un riferimento politico-cultu­rale dell’estrema sinistra milanese (aveva sede nei dintorni di Porta Ti­cinese, in via San Vito 14). L’elen­co dei libri stampati da Monanni include i testi classici del pensiero anarchico (le opere di Kropotkin, Malatesta, Reclus, Stimer ecc.) e della narrativa “sovversiva”, da II tallone di ferro di London a La ma­dre di Gorkj, attingendo ad opere di Nietzsche e di Huxley, di Kipling e di Woodehouse, a riprova di un certo eclettismo culturale. Tra gli elementi di pregio dell’editrice si può senz’altro annoverare l’atten­zione all’aspetto grafico, compro­vata dalla commissione delle co­pertine a giovani artisti futuristi tra i quali spiccava Carlo Carrà. All’i­nizio degli anni trenta Monanni si trovò costretto a cessare ogni atti­vità editoriale, per riprendere le pubblicazioni nel 1945 con un te­sto antimonarchico di Paolo Vaie­rà, ma si tratterà di una breve pa­rentesi e il vecchio editore liberta­rio verrà assunto dalla Rizzoli di­venendo direttore editoriale.

Manca purtroppo lo spazio per dar conto di altri contributi accolti dalla “Rivista storica dell’anarchi­smo”, una rassegna che con i suoi primi tre numeri pare essersi con­quistata uno spazio significativo nel panorama dell’editoria periodica sulla storia dei movimenti libertari e della loro elaborazione teorica.

Mimmo Franzinelli

Rassegna bibliografica 669

Nicola Labanca, Storia dell’Ita­lia coloniale, Milano, Fenice 2000, 1994, pp. 96 ili., lire 9.500.Luigi Tomassini, L’Italia nella grande guerra 1915-1918, Milano, Fenice 2000, pp. 96 ili., lire 10.000.

Una delle scommesse princi­pali di ogni testo divulgativo è tro­vare un equilibrio tra le informa­zioni fornite, all’interno di una narrazione che sappia connettere i principali avvenimenti, e, d ’al­tra parte, la presentazione dei ri­sultati più recenti della storiogra­fia, comprese le questioni sulle quali non sono state raggiunte conclusioni ampiamente condivi­se. Una enfasi eccessiva sul pri­mo versante si addice a testi di consultazione (più che ai manua­li scolastici in senso stretto), do­ve chiaramente precisione e ric­chezza di riferimenti costituisco­no pregi essenziali. Quando inve­ce questo avviene in testi desti­nati a un vasto pubblico relativa­mente poco informato, il perico­lo è sempre quello di allontanare potenziali lettori, annoiando e suggerendo l’impressione che la storia si confonda con la cronaca. Spesso anche non pochi libri e ri­viste non destinati a specialisti sconfinano in un’aneddotica ca­ratterizzata dal fatto che i singoli avvenimenti vengono trattati iso­latamente, senza cioè legami con il contesto nel quale si inserisco­no e che dovrebbero contribuire a spiegare e senza che nella loro trattazione siano sollevate que­stioni rilevanti dal punto di vista dell’analisi storica.

Tutto questo per dire che i due volumetti di Nicola Labanca e Lui­gi Tomassini centrano invece in pieno l’obiettivo di fornire testi agili ma insieme aggiornati e acu­ti, non a caso dovuti a due autori

che da anni svolgono ricerche ori­ginali sugli argomenti in questio­ne. Caratteristica principale di questi saggi è, a parere di chi scri­ve, aver saputo narrare storie com­plesse fornendo in continuazione, accanto alle informazioni essen­ziali, chiavi di lettura dei fenome­ni discussi, non senza suggerire come le vicende italiane si inseri­scano in contesti più ampi. Così Labanca, dopo aver opportuna­mente ricordato in apertura che “il colonialismo permeò profonda­mente le società europee più di quanto si è usualmente disposti a riconoscere” (p. 7), affronta subi­to il problema della inadeguatez­za delle teorie generali esistenti a spiegare il colonialismo italiano, e mira quindi a dar conto non sol­tanto delle vicende diplomatiche e militari, ma anche delle spinte ver­so il colonialismo presenti all’in­terno della società italiana. Infine, per accentuare ancor più il carat­tere problematico della trattazio­ne, ripercorre in un capitolo con­clusivo questioni interpretative del colonialismo - sotto il profilo del­l’economia, della demografia e della società coloniale - che ri­mandano anche a problemi di­scussi dagli albori stessi del colo­nialismo italiano (la sua possibi­lità di fornire nuove terre a italia­ni), ma sulle quali, come ha dimo­strato lo stesso Labanca, sono pos­sibili ricerche originali.

Analogo il discorso per il sag­gio di Tomassini, che considera, accanto alla storia militare, quella della società italiana nel suo com­plesso durante la guerra. Per le vi­cende strettamente militari si pos­sono poi fare almento due consi­derazioni. In primo luogo Tomas­sini dà conto dei risultati e dei te­mi (dallo studio del combattente in tutte le sue dimensioni a quello del­

la mobilitazione industriale) della più recente storiografia. Inoltre an­che trattando temi “classici”, co­me le battaglie dell’Isonzo, cerca di sintetizzare le dinamiche pro­prie alle diverse fasi del conflitto, nelle loro relazioni con le vicende più generali della guerra (può es­sere utile, a questo proposito, con­frontare la sintesi di Tomassini con quanto scritto recentemente da Giorgio Rochat, L'efficienza del- T esercito italiano nella grande guerra, “Italia contemporanea”, 1997, pp. 87-105). Entrambi i li­bri, che appartengono alla collana divulgativa “Piccola biblioteca di base”, che si spera si arricchisca presto di nuovi titoli, sono corre­dati da fotografie e immagini stret­tamente legate al testo, da una cro­nologia essenziale, da un breve glossario, da una bibliografia e da un indice dei nomi.

Paolo Ferrari

Diego Leoni, Patrizia Marche- SONI (a cura di), Le ali maligne, le meridiane di morte. Trento 1943- 1945. I bombardamenti, Trento, Museo storico in Trento, 1995, pp. 143, sip.

Si tratta del catalogo di una mo­stra fotografica - che si è tenuta a palazzo Geremia di Trento nella primavera del 1995 - sui bombar­damenti aerei sul capoluogo tren­tino nel periodo dal 1943 al 1945, che lasciarono un ricordo di morti e distruzioni, tanto più gravosi per la popolazione in quanto total­mente inaspettati. A differenza in­fatti dei grandi centri industriali, Trento era una cittadina di rilievo secondario e mai e poi mai i suoi abitanti avrebbero immaginato di essere oggetto di bombardamenti che, nel tentativo di colpire lo sca­

670 Rassegna bibliografica

lo ferroviario, ebbero effetti terro­ristici, costringendo la popolazio­ne a vivere per mesi in gallerie e grotte. Il libro ripercorre quegli av­venimenti con numerose fotogra­fie, tutte di ottima qualità e stori­camente interessanti, grazie alla sollecitudine del servizio Beni Culturali della Provincia autono­ma di Trento, che ha provveduto ad acquisire, conservare e catalo­gare importanti archivi di fotogra­fi locali, come il fondo fratelli Pe- drotti o il fondo Giulio Cagol, per citare i principali. Molto preciso e documentato il testo che accom­pagna le immagini, alternando do­cumenti, storia e testimonianze scritte e orali di cittadini che furo­no, loro malgrado, partecipi di quel periodo storico.

Di notevole interesse sono le te­stimonianze dei trentini che per lungo tempo furono costretti a vi­vere in grotte per la mancanza di validi rifugi antiaerei: quelli che esistevano, se colpiti, si trasfor­mavano in trappole mortali. In ef­fetti, però,.dalle pagine del libro emana un cupo senso di incertez­za storica non risolta: perché gli americani bombardarono Trento? O almeno, se il primo bombarda­mento sembrava avere una sua tra­gica necessità bellica, i successivi sono difficilmente spiegabili. Era­no allora concepiti contro la po­polazione civile? Possibile però che gli alleati non avessero anco­ra compreso la mostruosa inutilità dei bombardamenti terroristici? Sono queste domande che, per la verità, non riguardano soltanto Trento, bensì tutta la guerra aerea condotta in Italia nel 1943-1945. Un argomento di studio interes­sante sarebbe poter appurare i meccanismi decisionali degli stati maggiori alleati, nel settore aereo, per quanto riguarda il teatro ope­

rativo italiano. In effetti si sa di più sulle operazioni terrestri, o, alme­no, si crede di sapere, perché gli studi dipendono largamente dalle storie ufficiali o dalla memoriali­stica, raramente dai documenti ori­ginali. Per quanto riguarda le ope­razioni aeree, si sa poco o niente, quasi che i feroci attacchi sulle città italiane siano stati un inevi­tabile fenomeno; e se si cercano le responsabilità, queste vengono ge­neralmente attribuite a chi scatenò la guerra. Ciò in effetti è vero, ma questo non toglie che stragi im­motivate dal punto di vista milita­re siano ascrivibili solo a chi le ha compiute direttamente o a chi le ha ordinate.

Per tornare al libro, gli autori hanno adoperato anche immagini di vittime dei bombardamenti, im­magini che possono sollevare un problema, quello cioè della ripro­duzione di immagini di cadaveri. Non intendo fare una classifica dei vari tipi di immagini di morte che possono far parte di un fondo di fo­tografie storiche, ma il fatto certo è che sono senz’altro un docu­mento, anche se può colpire la sen­sibilità più di altre immagini del passato, e una testimonianza degli effetti della guerra. Non pubbli­carle sarebbe una forma di celata ipocrisia o, almeno, un tentativo di rimuovere dall’immaginario il fat­to che il prodotto della guerra è, ol­tre alla distruzione, la morte, non soltanto di soldati, ma anche di vec­chi, donne e soprattutto bambini. Il problema posto da queste im­magini è pur sempre quello di tut­te le altre immagini storiche: in­quadrarle nel periodo cui si riferi­scono, analizzarle nel loro conte­nuto, studiare perché, quando e da chi sono state fatte. Non possiamo però esimerci dallo sperare di non vedere immagini analoghe recen­

ti, speranza purtroppo delusa ogni giorno.

Achille Rastelli

Atlante storico del popolo ebraico, direzione di Eli Barravi, Bologna, Zanichelli, 1995,pp.295,lire78.000.

Si tratta di un’opera lussuosa, il cui titolo originale, Storia univer­sale degli ebrei, meglio risponde­va al contenuto di quello fissato dalla casa editrice presumibilmen­te anche per esigenze di omoge­neità all’interno della collana: in essa, infatti, appaiono titoli quali VAtlante di storia dell’arte occi­dentale, il Dizionario della pub­blicità, e VAtlante storico dei pro­blemi del XX secolo.

In breve, un gran numero di au­tori di origine ebraica più o meno au­torevoli sono chiamati ad affrontare, ciascuno in due pagine, un tema as­segnato: a partire dall’antichità più remota o dai precetti biblici su quel­lo che agli ebrei è lecito mangiare, ai medici e scienziati ebrei nella Spa­gna musulmana, agli ebrei in India, nell’America latina o in Persia, dai numerosi paragrafi che affrontano l’antisemitismo nazista e lo stermi­nio, alla nuova realtà dello Stato d’I­sraele alle caratteristiche dell’ebrai­smo statunitense, alla condizione de­gli ebrei nell’Unione Sovietica con Krusciov e Gorbaciov.

Il tutto è poi accompagnato da un ricchissimo apparato di dia­grammi, cronologie, statistiche e piantine, di fotografie e riprodu­zione di oggetti artistici, di disegni, pitture e caricature. Anche per la serietà delle argomentazioni che qua e là emergono, il volume ap­pare particolarmente indicato qua­le regalo per la maggiorità religio­sa israelitica.

Guido Valabrega

Rassegna bibliografica 671

Enrico Acerbi, Marcello Mal- tauro, Claudio Gattera, Andrea Povolo, Guida ai forti italiani e austrìaci degli altipiani. Itinerari e storia, Valdagno, Gino Rossato, 1994, pp. 143, lire 18.000.

Chi come me in gioventù, baz­zicando gli altipiani tra Lavarone e Asiago, ha avuto la ventura di visi­tare i forti Cherle, Belvedere, Cam­po Lusema, Verena e altri dinosau­ri dell’ingegneria militare sparsi per quelle dorsali prealpine quando an­cora i “recuperanti” non avevano terminato il loro minuzioso disos- samento, non può non salutare con piacere l’uscita di quest’agile ma compendiosa guida, scritta con competente cura da Enrico Acerbi e dai suoi collaboratori. Rispetto ai ben noti e per così dire “classici” la­vori storico-escursionistici di Pie- ropan e di Schaumann, questo va­

demecum presenta un taglio più de­cisamente tecnico, orientato so­prattutto alla ricognizione degli aspetti più squisitamente ingegne- ristico-militari delle fortificazioni italiane e austriache che si fronteg­giarono con alterne vicende su quel tormentato campo di battaglia del­la prima guerra mondiale.

Pur nella sua essenzialità, l’im­pianto informativo risulta abba­stanza particolareggiato e rigoroso da soddisfare vuoi il semplice escursionista curioso di storia mili­tare, vuoi lo specialista al primo ap­proccio. Né mancano, accanto a un breve ma incisivo inquadramento storico generale, le annotazioni fon­damentali sui momenti cruciali del­la prova del fuoco, arricchite da pa­gine di testimonianza diretta (Ga- sparotto, Trenker, Weber, Artner). Buono anche l’apparato di piantine e schizzi tecnici, ma soprattutto ric­

co, accurato e per più aspetti affa­scinante il corredo fotografico, in gran parte d’epoca, la cui impor­tanza documentaria non va assolu­tamente sottovalutata in casi come questo, quando la povertà monta­nara, incontrandosi con la tirannia del mercato, arriva a precorrere l’o­pera distruggitrice del tempo. Com­pletano infine il quadro un glossa- rietto e una sommaria bibliografia, entrambi assai utili. Peccato che una guida così ben concepita manchi in­vece di una cartografia adeguata e, inconveniente un po’ più grave, di qualsivoglia indice, sia toponoma­stico che generale! Sarebbe tempo che gli editori in campo storico, an­che i più benemeriti come Rossato, si rendessero conto dell’importan­za di certi strumenti di corredo per una più facile e proficua diffusione dei loro libri.

Vittorio De Tassis

STUDI ECONOMICI E SOCIALIRivista di vita economica — Centro Studi “G. Tomolo”

Sommario del n. 3, luglio-settembre 1997

A. Fazio, Banche e finanza in Italia; R. Prodi, L’Italia e l ’Europa; F. Crisi, Territorio e sviluppo eco­nomico; L. Jucker, Politiche del territorio e settore tessile; F. Sarnelli, Emergenze ambientali e po­litiche economiche; G. Alioti, Diritti umani e sindacali nelle aree rurali del Brasile; L. Mortari, Gli indicatori di identità nell’educazione ambientale; A. Margheri, Politiche economiche e occupazio­ne nell’agricoltura; L. Colletti, Azioni internazionali e difesa delle foreste dalle precipitazioni acide

Note e rassegneG. Canali, Prospettive e strategie per l'agricoltura in Italia

Note economichePer un'industria europea della seta; Per lo sviluppo del Mediterraneo; Energia tra Nord e Sud; Occupazione: disegno di legge a favore delle fasce più deboli; Verso un piano d'area per la ri­viera del Brenta e per l'idrovia; Presentato il rapporto sociale di Ciba Italia; Gli utili Danone su­perano i mille miliardi; Aumento gratuito di capitale per la Benetton; Ricicla '97

RASSEGNA DI STORIA CONTEMPORANEARivista dell’Istituto per la storia della Resistenza

e della società contemporanea di Modena Sommario del n. 1,1997K

EditorialeNelle ‘nebbie’ del Nord-Est

Opinioni a confrontoEmilia, Veneto e Nord-Est: gli storici Conversazione con Silvio Lanaro e Guido Crainz Emilia, Veneto e Nord-Est: i protagonisti Intervista a Rubens Triva e Luigi Gui

Studi e ricercheFausto Anderlini, Geografia delle Leghe; Luca Baldissara, Poteri locali del Nord-Est. Municipa­lità e finanza locale a Modena e Padova (1930-1960); Mauro Mezzalira, Venezia negli anni tren­ta. Istituzioni, affari e società

Contributi e riflessioniGiovanna Pajetta, 1992-1997: cinque anni alla disperata ricerca di un leader

Recensioni e convegniGiovanna Pajetta, Il grande Camaleonte (Monica Casini); Giuseppe Turani, I sogni del Grande Nord (Emanuele Guaraldi); Guido Melis, Storia dell’amministrazione italiana 1861-1993 (Mar­tina Simeti); Marco Meriggi, Breve storia dell'Italia settentrionale dall’Ottocento a oggi (Loren­zo Bertucelli); Paola Di Cori (a cura di), Altre storie. La critica femminista alla storia (Nora Sig- man); Valeria P. Babini, La questione dei frenastenici (Michele Nani); Giulia Luppi, Cristina So­la (a cura di), Campogalliano dagli insediamenti preistorici all’età delle macchine (Tullio Sor­rentino)

Spoglio dei periodici italiani 1996

a cura di Franco Pedone

Sono stati presi in considerazione i seguenti pe­riodici (sono riportate la sigla, il titolo e la città di pubblicazione): AE, “Affari Esteri” (Roma); A, “Africa” (Roma); AFF, “Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli” (Milano); AFE, “Anna­li della Fondazione Luigi Einaudi” (Torino); AUL, “Annali della Fondazione Ugo La Malfa” (Roma); Al, “L’Almanacco” (Reggio Emilia); AI, “Archi­vi e imprese (Milano); Be, “Belfagor” (Bari-Ro- ma); CC, “Civiltà Cattolica (Città del Vaticano); C, “Clio” (Napoli); CM, “Critica marxista” (Ro­ma); DPRS, “Dimensioni e problemi della ricer­ca storica” (Roma); H, “Humanitas” (Brescia); IC, Italia Contemporanea (Milano); JEEH “Journal of economie european History” (Roma); MR, “Me­moria e ricerca” (Forlì); MC, “Mondo cinese” (Mi­lano); Mu, “Il Mulino” (Bologna); NA, “Nuova Antologia” (Firenze); NRS, “Nuova rivista stori­ca” (Roma); PC, “Parole chiave” (Roma); PP, “Passato e presente” (Firenze); PEM, “Il pensie­ro economico moderno” (Pisa); PeP, “Il pensiero politico” (Perugia); P, “Il Politico” (Pavia); Po, “Il Ponte” (Firenze); PR, “Proposte e ricerche” (An­cona); QC, “Quaderni costituzionali” (Bologna); QS, “Quaderni storici” (Genova-Bologna); RSR, “Rassegna storica del Risorgimento” (Roma);

RST, “Rassegna storica toscana” (Firenze); RS, “Ricerche storiche” (Firenze-Napoli); R, “Il Ri­sorgimento” (Milano); RSC, “Rivista di storia con­temporanea” (Torino); RSE, “Rivista di storia eco­nomica” (Torino); RSPI, “Rivista di studi politici intemazionali” (Firenze); RISP, “Rivista italiana di scienza politica” (Bologna); RMa, “Rivista ma­rittima” (Roma); RM “Rivista militare” (Roma); RSA, “Rivista storica delFanarchismo” (Pisa); RSI, “Rivista storica italiana” (Napoli); SoS, “So­cietà e storia” (Milano); SC, “Storia’contempora­nea” (Bologna); SpC, “Spagna contemporanea” (Torino); SS, “Storia della storiografia” (Milano); SM, “Storia militare” (Parma); SU, “Storia urba­na” (Milano); SE “Studi emigrazione” (Roma); Sst, “Studi storici” (Roma); STSS, “Studi trenti­ni di scienze storiche” (Trento); VS, “Ventesimo secolo” (Genova).

Lo spoglio — che è stato effettuato da Franco Pedone con la collaborazione di Elena Modotti — non comprende gli ultimi numeri di alcuni pe­riodici che al momento della stampa non erano ancora stati pubblicati. Sono invece inclusi alcu­ni numeri del 1995 che, per lo stesso motivo, non erano stati presi in considerazione nel preceden­te spoglio.

‘Italia contemporanea”, settembre 1997, n. 208

674 Rassegna bibliografica

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RS - RICERCHE STORICHESommario del n. 81, marzo 1997

Editorialedi Massimo Storchi

Riflessionidi Salvatore Fangareggi, Antonio Zambonelli

ConversazioniEnzo Santarelli, Una “storia in corso” (a cura di Antonio Canovi)

SaggiMarco Fincardi, Mobilità bracciantile e secolarizzazione nella Pianura padana

DocumentiGiuseppe Dossetti, Gli inediti di "Benigno” (a cura di Salvatore Fangareggi)

DidatticaAntonio Brusa, Il nuovo curriculo di storia

Schede (a cura di Alberto Ferraboschi)

RecensioniMarco Fincardi, L’ambigua transizione. I processi ai fascisti