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Da piccola borghesia a ceti medi Fascismo e ceti medi nelle interpretazioni dei contemporanei e degli storici Mariuccia Salvati Premessa Esistono diversi modi di affrontare il tema assegnatomi, almeno pari al numero di ge- nerazioni che si sono susseguite interrogan- dosi sulle ragioni dell’ascesa e della tenu- ta ventennale del fascismo. Dovendo sceglie- re, mi limiterò a proporre una sequenza di tre “scenari” in cui questo tema, prima com- pare, poi scompare, per riapparire, infi- ne, sotto forme mutate. I protagonisti dei tre scenari sono osservatori contempora- nei, italiani e stranieri, o storici del fasci- smo, tra gli anni venti e gli anni settanta-ot- tanta. In un saggio del 1967 uno studioso ameri- cano, John M. Cammett, prendendo in con- siderazione le teorie comuniste del fascismo negli anni 1920-1935, contestava la convin- zione diffusa secondo cui il pensiero comu- nista avrebbe trascurato il ruolo delle classi medie, a differenza degli storici e teorici borghesi, meritevoli, invece, di aver concen- trato l’attenzione oltre che sull’ideologia del fascismo, proprio sull’importanza delle clas- si medie nell’ascesa del fascismo1. Cammett ricordava che nei primi anni venti si era in realtà verificato un serio sforzo da parte del movimento comunista di contribuire alla teoria del fascismo: per esempio, il terzo Plenum dell’Internazionale comunista del 1923 (al quale aveva partecipato anche Gramsci, mentre la stessa Clara Zetkin ave- va insistito sulla natura di massa del fasci- smo) si era concluso con una dichiarazione tutta improntata a sottolineare la crisi della piccola e media borghesia; quest’ultima, si affermava, anziché al socialismo, si sareb- be rivolta allo Stato come strumento di sal- vezza al di sopra delle parti. Lo studioso americano ammetteva, tuttavia, che, nell’In- ternazionale comunista, a partire già dal 1924 (V Congresso) sarebbe prevalsa la tesi del fascismo quale strumento del capitali- smo, una delle forme classiche, cioè, di con- trorivoluzione, anche se autori come Gram- sci e Togliatti avrebbero continuato a lan- ciare segnali, circa le basi di massa del fa- scismo, rimasti tra le due guerre inascol- tati. Ho scelto di partire dal saggio di Cam- mett per due ragioni: in primo luogo, perché vi si puntualizza lo scarto nelle analisi comu- niste tra i primi anni venti e il successivo quindicennio; in secondo luogo per la sua data di pubblicazione. È infatti significativo che il richiamo agli interventi di Gramsci e Togliatti (sulla scia di una attenzione allora molto viva nel mondo anglosassone ai Qua- derni dal carcere) compaia in una importan- te rivista americana di “sinistra” alla fine degli anni sessanta; significativo della svolta 1 John M. Cammett, Communist Theories o f Fascism. 1920-1935, “Science and Society”, 1967 n. 2, pp. 149-163 (già citato, insieme ad altre rassegne europee delle posizioni della terza Internazionale, da Renzo De Felice, Il fasci- smo. Le interpretazioni dei contemporanei e degli storici, Bari, Laterza, 1970, p. 16). “Italia contemporanea”, marzo 1994, n. 194

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Da piccola borghesia a ceti mediFascismo e ceti medi nelle interpretazioni dei contemporanei e degli storici

Mariuccia Salvati

Premessa

Esistono diversi modi di affrontare il tema assegnatomi, almeno pari al numero di ge­nerazioni che si sono susseguite interrogan­dosi sulle ragioni dell’ascesa e della tenu­ta ventennale del fascismo. Dovendo sceglie­re, mi limiterò a proporre una sequenza di tre “scenari” in cui questo tema, prima com­pare, poi scompare, per riapparire, infi­ne, sotto forme mutate. I protagonisti dei tre scenari sono osservatori contempora­nei, italiani e stranieri, o storici del fasci­smo, tra gli anni venti e gli anni settanta-ot- tanta.

In un saggio del 1967 uno studioso ameri­cano, John M. Cammett, prendendo in con­siderazione le teorie comuniste del fascismo negli anni 1920-1935, contestava la convin­zione diffusa secondo cui il pensiero comu­nista avrebbe trascurato il ruolo delle classi medie, a differenza degli storici e teorici borghesi, meritevoli, invece, di aver concen­trato l’attenzione oltre che sull’ideologia del fascismo, proprio sull’importanza delle clas­si medie nell’ascesa del fascismo1. Cammett ricordava che nei primi anni venti si era in realtà verificato un serio sforzo da parte del movimento comunista di contribuire alla teoria del fascismo: per esempio, il terzo Plenum dell’Internazionale comunista del

1923 (al quale aveva partecipato anche Gramsci, mentre la stessa Clara Zetkin ave­va insistito sulla natura di massa del fasci­smo) si era concluso con una dichiarazione tutta improntata a sottolineare la crisi della piccola e media borghesia; quest’ultima, si affermava, anziché al socialismo, si sareb­be rivolta allo Stato come strumento di sal­vezza al di sopra delle parti. Lo studioso americano ammetteva, tuttavia, che, nell’In­ternazionale comunista, a partire già dal1924 (V Congresso) sarebbe prevalsa la tesi del fascismo quale strumento del capitali­smo, una delle forme classiche, cioè, di con­trorivoluzione, anche se autori come Gram­sci e Togliatti avrebbero continuato a lan­ciare segnali, circa le basi di massa del fa­scismo, rimasti tra le due guerre inascol­tati.

Ho scelto di partire dal saggio di Cam­mett per due ragioni: in primo luogo, perché vi si puntualizza lo scarto nelle analisi comu­niste tra i primi anni venti e il successivo quindicennio; in secondo luogo per la sua data di pubblicazione. È infatti significativo che il richiamo agli interventi di Gramsci e Togliatti (sulla scia di una attenzione allora molto viva nel mondo anglosassone ai Qua­derni dal carcere) compaia in una importan­te rivista americana di “sinistra” alla fine degli anni sessanta; significativo della svolta

1 John M. Cammett, Communist Theories o f Fascism. 1920-1935, “Science and Society” , 1967 n. 2, pp. 149-163 (già citato, insieme ad altre rassegne europee delle posizioni della terza Internazionale, da Renzo De Felice, Il fasci­smo. Le interpretazioni dei contemporanei e degli storici, Bari, Laterza, 1970, p. 16).

“Italia contemporanea”, marzo 1994, n. 194

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in corso. Grazie all’influenza gramsciana, ma non solo, si stava in realtà chiudendo un’epoca in area marxista, come segnala la “scoperta” da parte anglosassone di testi de­gli anni venti, contrapposti, se così si può dire, a quelli più ortodossamente internazio­nalisti successivi (e dove la riflessione sulle basi di massa del fascismo aveva dato luogo alle teorie circa il ruolo determinante del “capitalismo monopolistico di Stato”). La lettura di quei testi doveva favorire l’aprirsi di un’epoca nuova. Come era già evidente nel caso dell’analisi delle classi sociali in Germania, proprio in quegli anni era in cor­so una svolta caratterizzata da un progressi­vo avvicinamento, anzi un vero e proprio in­contro, tra studiosi di matrice “weberiana” (ai quali si dovevano le interpretazioni co­siddette “borghesi”, secondo la definizione di Cammett) e studiosi non ortodossi di area “marxista” (i nomi sono quelli di Dahren­dorf prima e poi di Wehler e Kocka, per in­tenderci)2.

La svolta degli anni settanta è una data importante anche per gli studi italiani, che, a partire dall’antologia laterziana di Renzo De Felice sulle interpretazioni del fascismo del 19693, vedono il rinnovarsi dell’interesse per il tema dei ceti medi, a lungo, tuttavia, considerato anche nel nostro paese appan­naggio degli studiosi “borghesi” . Mi sono

occupata altrove del percorso culturale che, a seguito del passaggio dall’una all’altra sponda (e ritorno) dell’Atlantico degli emi­grati tedeschi studiosi di scienze sociali in fuga da Hitler, ha favorito, proprio a parti­re dalla riflessione sul nazismo, il costituirsi di un’area di reciproca influenza tra una scuola di pensiero di matrice marxista, at­tenta alla struttura delle “classi” e all’eserci­zio del “potere” economico-istituzionale, e la scuola anglosassone e liberaldemocratica più preoccupata dei rischi di manipolazione dell’ “opinione pubblica” e dei partiti4. Questo incontro ha avuto i suoi riflessi più significativi e più noti nell’area delle scienze sociali, ma non sono mancate importanti ri­cadute sulla storiografia, in particolare su quella relativa alle origini del nazismo-fasci­smo, alla crisi della democrazia e, appunto, al ruolo delle classi sociali, che è stata inve­stita da un salutare rimescolamento di carte sia ideologico che metodologico. È questa la tappa finale del percorso che qui prendere­mo in esame e che costituisce il quadro di ri­ferimento indispensabile per comprendere le nuove prospettive di ricerca sul tema fasci­smo-ceti medi.

Prima, tuttavia, mi propongo di allineare alcuni testi significativi per ricordare come nei primi anni venti esista una convergenza singolare tra tutti gli osservatori degli eventi

2 Ralf Dahrendorf pubblica nel 1957 Soziale Klassen und Klassenkonflikt in der industriellen Gesellschaft (Stutt­gart, Ferdinand Enkeverlag; trad. it. Bari, Laterza, 1963), mentre i saggi teorici di Hans U. Wehler e Jürgen Kocka sono della metà degli anni settanta e seguono le rispettive monografie su Bismarck (1966) e sulla Siemens (1969). Del 1975 è anche il saggio di Arno J. Mayer, The Lower Middle Classes as Historical Problem, “Journal o f Mo­dern History”, n. 3, 1975, in cui la tematizzazione delle classi medie come problema storico muove dalla constata­zione che se la classe media non è stata studiata dai marxisti non ha certo ricevuto più attenzione dagli antimarxisti, perché entrambe le scuole erano convinte della sua estinzione: la prima perché si aspettava la sua proletarizzazione, la seconda perché ne prevedeva l’imborghesimento, l’assorbimento nella società postindustriale. A. Mayer, come poco dopo Peter N. Stearns (The Middle Class: toward a Precise Definition, “Comparative Studies in Society and History”, July 1979) concludeva circa la necessità di cercare il carattere distintivo di questa “classe” non tanto nel reddito quanto nel suo moral belief, nei valori condivisi; ciò che in effetti è avvenuto, rinnovando su questo terreno l’interesse per la tematica delle classi sociali.3 R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Bari, Laterza, 1969; ma lo stesso autore aveva già pubblicato II fa­scismo e i partiti politici italiani. Testimonianze del 1921-1923, Bologna, Cappelli 1966.4 Mariuccia Salvati, Da Berlino a New York. Crisi della classe media e futuro della democrazia nelle scienze sociali degli anni trenta, Bologna, Cappelli, 1989.

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italiani, di qualsivoglia provenienza ideolo­gica, nell’evidenziare la connessione tra l’e­mergere del fenomeno fascista e la mobilita­zione in corso negli strati intermedi della scala sociale. Il passo successivo consiste nel mettere in luce come il ruolo della piccola borghesia perda progressivamente di impor­tanza a partire dagli anni trenta, sostituito (nel caso italiano) dal tema ben più centrale in quegli anni del corporativismo e come, più in generale, una prevalente attenzione al principio ordinatore dell’Economia (anzi­ché, come nei primi anni venti, della Politi­ca) permanga in area marxista anche negli anni del “lungo dopoguerra” . È solo in epo­ca più recente (proprio a partire dagli anni settanta) che il tema ricompare, tanto nel contesto italiano quanto in quello tedesco. A questo punto, tuttavia, esso si colloca al­l’interno di un filone di studi e al servizio di modelli interpretativi completamente muta­ti, riflesso di una nuova apertura verso quel­l’area di incontro tra scienze sociali (anglo- sassoni, ma fortemente influenzate dal pas­saggio “tedesco”) e storiografia a cui prima accennavo: l’asse principale è infatti in que­sti ultimi anni quello della modernizzazione ed è all’interno di questo generico ma duttile quadro di riferimento teorico (che comporta un’attenzione sincronica ai fattori economi­ci e a quelli politico-culturali) che i ceti medi tornano ad occupare un ruolo cruciale. Tor­neremo in sede di conclusioni su questo sce­nario. Occupiamoci per ora di scoprire in che modo i ceti medi erano usciti da una sce­na che avevano così prepotentemente e mag­gioritariamente occupato.

Ceti medi e cetimedietà

Prima di procedere è ancora necessario chia­rire che “ceti medi” (come “fascismo”) può

essere usata come una categoria idealtipica oltre che come una definizione storica e so­ciale precisa. E questo complica evidente­mente le cose, esattamente come la confu­sione tra fascismo come idealtipo e fascismo come fenomeno europeo tra le due guerre ha complicato il dibattito tra gli storici del fa­scismo. Uno dei contributi più rilevanti del recente lavoro di Enzo Collotti5 è appunto quello di aver apportato una distinzione chiara tra i fascismi in quanto manifestazio­ni che risentono dei rispettivi caratteri politi­ci e sociali nazionali e il fascismo come cate­goria, come modello, in riferimento al quale noi possiamo definire fascista più di un regi­me nazionale. Collotti ha elencato tra questi caratteri distintivi del fascismo-idealtipo il conflitto frontale con la liberaldemocrazia, il corporativismo, il razzismo-antisemiti­smo, l’imperialismo.

Credo che uno sforzo analogo debba esse­re fatto anche per i cosiddetti ceti medi. An­che qui sarà utile distinguere tra i segmenti sociali che compongono nei vari paesi in epo­che diverse il variegato mondo della classe media e un tratto, singolare, astratto, e na­zionale che potremmo chiamare la cetimedie­tà. Per esempio, è alla cetimedietà che face­vano riferimento i contemporanei quando parlavano di un’attrazione “fatale” tra ceti medi e fascismo, ma è questo stesso carattere paradigmatico che non ritroviamo più allor­ché analiticamente andiamo a osservare le vi­cende specifiche dei ceti medi italiani durante il fascismo. Anzi, come ha recentemente os­servato Heinz G. Haupt, concludendo una sua rassegna storiografica, nel caso dello stu­dio dettagliato della piccola borghesia fran­cese e tedesca tra le due guerre “la ricerca si rivela tanto più fruttuosa quanto più abban­dona il legame tra classi medie e fasci­smo...”6. La cetimedietà è dunque un attri­buto che non necessariamente è appannag­

5 Enzo Collotti, Fascismo, fascismi, Firenze, Sansoni, 1989.Heinz O. Haupt, La petite bourgeoisie en France et en Allemagne dans l ’entre-deux-guerres, in Horst Moller, G.

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gio esclusivo dei ceti medi sociologicamente intesi; di più, cetimedietà in questo contesto è una sorta di idealtipo negativo, una proie­zione dall’esterno sulla classe media “socio­logica”; quest’ultima del resto è sempre og­getto e mai soggetto attivo in qualsivoglia fi­losofia sociale, sia liberale che marxista (a differenza, come si noterà, della classe ope­raia e della stessa borghesia). Eppure è la ce­timedietà quella sorta di Idea (platonica) su cui riflettevano i primi esponenti del poco fortunato filone di teorici del nesso ceti me­di-fascismo. Quanto si vuole qui affermare è che l’interesse delle interpretazioni attente al ruolo delle classi medie (tutte circoscritte ai primi anni venti) sta nell’intreccio tra le due Idee di cetimedietà e di fascismo, nell’inter- rogarsi contemporaneamente sull’una e sul­l’altra, prodotti entrambi, ma su questo tor­neremo, della crisi sociale e politica della de­mocrazia italiana: l’una e l’altra categoria, in sostanza, ricevono illuminazione dall’es­sere poste in relazione reciproca.

Non è dunque un caso che sia ancora la forte presenza, nel dibattito nazionale degli anni venti, del riferimento alla cetimedietà che viene a legittimare, in un filone della storiografia degli anni settanta e oltre (il ter­zo scenario qui esaminato), la tesi della “pe­culiarità” nazionale del fascismo. La cetime­dietà, infatti, in quanto prodotto tipico e pe­culiare delle “anomalie” storico-sociali del­l’Italia, non sarebbe altro che il volto este­riore della cosiddetta “via particolare” (o Sonderweg) nazionale al fascismo. Come ta­

le essa ha anche ispirato innovative ricerche sui suoi “precedenti” e sulla sua genealogia culturale nel corso del cinquantennio postu­nitario7. Merita pertanto tutta la nostra at­tenzione, una volta che si sia chiarita la sua non coincidenza con la categoria sociologica di ceti medi, protagonista invece del secondo filone di ricerca storiografica relativa agli anni del regime fascista. Vediamone dunque gli esordi e le caratteristiche fondanti nel primo scenario qui evocato.

Gli anni venti: la piccola borghesia

“Il popolo delle scimmie riempie la crona­ca, non crea storia, lascia traccia nel gior­nale, non offre materiali per scrivere li­bri”8. La citazione di Gramsci riassume be­ne un clima generale di disprezzo per la piccola borghesia. Qui non si può ancora parlare di ceti medi: la piccola borghesia è un concetto eminentemente politico-cultu­rale, non sociologico. È politico in quanto sta ad indicare la base politica di un centro che non c’è e che non trova la sua consti­tuency; è politico, soprattutto, in quanto segnala una crisi delle élite politiche nazio­nali.

Quanto si vorrebbe ricordare è che il ter­mine “piccola borghesia” non è nel contesto del primo dopoguerra una definizione che abbia diretta attinenza con il concetto di classe (e dunque con le sue relazioni con le altre classi sociali), indicando bensì un’area

Raulet, Andreas Wirsching, Gefahrdete Mitte? Mittelschichten und politische Kultur zwischen den Weltkriegen: Italien, Frankreich und Deutschland, “Beihefte der Francia”, Paris, Sigmaringen, Deutsches Historisches Institut, 1993, p. 55. Egli stesso tuttavia si serve della tipologia utilizzata da Theodore Geiger per spiegare lo stato di “pani­co del ceto medio” nel 1930, alla vigilia dell’ascesa del nazismo. Quanto si vuole qui ricordare è che, se le tre inter­pretazioni avanzate da Geiger — la proletarizzazione delle classi medie, la sopravvivenza corporativa e la depriva­zione relativa —, sono poi state variamente e proficuamente utilizzate dagli storici del Mittelstand weimariano, esse sembrano scarsamente o solo parzialmente applicabili allo stato di marasma politico culturale della piccola borghe­sia italiana nel primo dopoguerra.7 Silvio Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia 1870-1925, Venezia, Marsilio, 1979.8 Antonio Gramsci, Il popolo delle scimmie, “L’Ordine nuovo”, 2 gennaio 1921, in Id., Sul fascismo, a cura di En­zo Santarelli, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 98.

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politico-culturale: essa ha tuttavia una va­lenza nazionale (in una fase in cui anche la classe operaia fatica ad acquisire questa di­gnità), che è data non da una condizione so­cioeconomica, ma da un atteggiamento ter­ritorialmente diffuso di rigetto del sistema politico, riflesso dello “sfacelo dello Stato unitario”9. Insomma, la piccola borghesia esiste, occupa la scena nazionale, in quanto questa scena è dominata dalla “crisi morta­le” dello Stato nazionale: ecco perché i suoi tratti costitutivi (quelli salvatorelliani, per intenderci) li ritroviamo tanto nei ceti medi tradizionali quanto in quelli tecnici, nella burocrazia di Roma quanto nelle città di provincia10.

Che cosa significa “crisi mortale” dello Stato nazionale? Chiunque parli a quest’e­poca con disprezzo di piccola borghesia in­tende in realtà riassumere in questo termine il fallimento dei governi liberali sia nel tro­vare la loro base politico-elettorale, sia più in generale di affermarsi come élite. Piccola borghesia, dunque, è termine che indica non tanto disprezzo per un indistinto e frammen­tato aggregato sociale, bensì soprattutto condanna storica per le élite dirigenti liberali che si erano rivelate incapaci di costruire per i loro governi concrete alleanze sociali. In questo contesto piccola-borghesia è termine astratto, idea platonica, cetimedietà, non ce­ti medi: è una definizione di tipo culturale,

psicologico e politico, fa riferimento a un serbatoio di “naturale” acquiescenza tra­sformatasi in sovversivismo per circostanze eccezionali, il simbolo evidente della crisi di egemonia del sistema liberale che proprio in quegli strati intermedi aveva trovato in altri paesi le sue basi di consenso.

Se per i partiti degli ultimi anni della re­pubblica di Weimar è stata coniata l’indovi­nata espressione il centro morente, the dying middle (Larry E. Jones), dal quale si stac­cherebbero progressivamente le classi medie investite da processi di proletarizzazione e vittime di esperienze di deprivazione relativa (in confronto a miglioramenti precedente- mente goduti), in Italia si può parlare per questa fase di un non-born middle, di un centro abortito prima di nascere. Non c’è “proletarizzazione”, perché i ceti medi sono già proletarizzati, non c’è “deprivazione re­lativa” perché non c’è un periodo nella sto­ria dell’Italia unitaria che i ceti medi rim­piangono. C’è però, fortissimo, a livello so­ciale e territoriale, il senso di esclusione e di estraneità. Su questo piano la piccola bor­ghesia italiana si rivela particolarmente in­fluente sul dibattito nazionale. Nessun parti­to di massa si vuole espressione della piccola borghesia in quanto tale: comune a tutti gli osservatori (esclusi naturalmente i liberali) è però la critica di quella borghesia di cui l’ag­gettivo “piccola” rappresenta non un sem-

9 “Perché in Italia la crisi delle classi medie ha avuto conseguenze più radicali che negli altri paesi ed ha fatto na­scere e portato al potere dello Stato il fascismo? Perché da noi, dato lo scarso sviluppo dell’industria e dato il carat­tere regionale deU’industria stessa, non solo la piccola borghesia è molto numerosa, ma essa è anche la sola classe “territorialmente” nazionale: la crisi capitalistica aveva assunto negli anni dopo la guerra anche la forma acuta di uno sfacelo dello Stato unitario e aveva quindi favorito il rinascere di una ideologia confusamente patriottica e non c’era altra soluzione che quella fascista, dopo che nel 1920 la classe operaia aveva fallito al suo compito di creare coi suoi mezzi uno Stato capace di soddisfare anche le esigenze nazionali unitarie della società italiana (A. Gramsci, La crisi delle classi medie, “L’Unità”, 26 agosto 1924, in Id., Sul fascismo, cit., p. 248).

E noto che Salvatorelli, nella piccola borghesia, distingueva la categoria (numericamente ancora ridotta) dei pro­fessionisti tecnici dalle masse degli impiegati dello Stato e dei professionisti liberali, da lui globalmente definite “piccola borghesia umanistica”: quest’ultima, caratterizzata dal possesso di una cultura “retorica” — basata cioè su di una infarinatura storico-letteraria fatta di nozioni formali e di esaltazione patriottica — sarebbe stata la più pronta a recepire il mito, astratto e trascendente, della Nazione da contrapporre alle odiate classi produttrici (Luigi Salvatorelli, Nazionalfascismo, Torino, Einaudi, 1977, p. 15).

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plice diminutivo, ma anche un dispregiativo (ben diverso dall’inglese lower middle class). E questo è sicuramente un dato specifico del caso italiano: il ripudio globale di cinquan- t ’anni di storia, degli unici cinquant’anni di storia unitaria, non la denuncia di singoli er­rori commessi dagli ultimi governi in carica o il rimpianto per qualche golden age per­duta.

È impressionante, se ci si pone caso, la sintonia che si ritrova in autori molto di­stanti da ogni punto di vista quando essi af­frontano la storia del Risorgimento e dei suoi sviluppi nell’Italia postunitaria: facile citare, oltre a Gramsci, Gobetti, Rosselli, Ansaldo, Dorso, ma si pensi anche a liberali come De Ruggiero e Omodeo, o si leggano in Ferrari le pagine di denuncia del “male oscuro del compromesso” che aveva caratte­rizzato i presidenti del Consiglio da Depretis a Giolitti, la lucida analisi della debolezza delle istituzioni pubbliche e della sostanziale “indifferenza” (su questo l’autore torna in­sistentemente) per la vita democratica di una popolazione che non aveva mai lottato per

essa, ma che deliberatamente era stata sem­pre tenuta lontana dai pubblici affari11.

Questa sintonia nella cultura di denuncia dei fallimenti della borghesia domina il pa­norama degli oppositori al regime fascista nei primi anni venti: ma non ne è affatto un tratto esclusivo. Anzi, il clima culturale tipi­camente romantico di stigmatizzazione della “decadenza” della borghesia rispetto agli ideali risorgimentali accomuna anche alcuni giovani intellettuali antidemocratici che ri­verseranno sul fascismo le loro ansie di ri­scatto morale, conservando fino alla fine, si noti, un bisogno di “distinzione” rispetto al­la borghesia liberale, un tratto inconsueto nel panorama ormai mutato degli anni tren­ta12. Il tramite per questo passaggio cultura­le è solo in parte romantico: è piuttosto la sociologia politica di Pareto, è Michels, ma è anche Sombart, o Sorel, più in generale una singolare convergenza tra l’elitismo del­la sociologia politica italiana e un certo dif­fuso spenglerismo avant lettre.

Si pensi alle pagine di Nello Quilici sulla borghesia italiana, stigmatizzata per il suo

11 Francesco L. Ferrari, Le régime fasciste italien, Paris, Spes, 1928. Illuminanti le ultime pagine del libro: “eppure questo regime eserciterà un influsso benefico perché il nazionalismo fascista ha sbarazzato il terreno dalle illusioni: in Italia si pensava di essere in regime rappresentativo perché esisteva il Parlamento, si pensava di godere di libertà analoghe agli altri paesi europei perché non vi era censura contro una propaganda scioccamente sovversiva... Il fa­scismo ha dissipato queste illusioni. Ha mostrato che in Italia, dietro apparenze democratiche si nascondeva una oligarchia di mediocri incapaci persino di difendere seriamente i propri privilegi, ha fatto sparire le illusioni dei re- tori sul miracolo dell’educazione politica del popolo italiano dopo il Risorgimento. ...H a mostrato e insegnato al popolo italiano che cos’è la libertà mostrando ciò che è la vita di un popolo sotto un regime che dogmaticamente nega la libertà in ogni cam po...” (F. Ferrari, Le régime fasciste, cit., p. 362).12 Negli anni postunitari “la borghesia italiana si addormenta, perde slancio, rinuncia allo sforzo. Si direbbe che si è esaurita nel cinquantennio della rivolta. Si dà agli ozi commemorativi... Certa piccola borghesia urbana, trion­fante dopo le guerre dell’indipendenza, credette che un carattere non meno ‘signorile’ le spettasse di rigore come ‘classe dirigente’. E ‘borghesi’ apparvero soltanto coloro che esercitassero una professione ‘liberale’, l’avvocatura, la medicina, la letteratura — e magari la scartoffia burocratica. Il rond de cuir diventava un ideale di superiorità sociale” (Nello Quilici, La borghesia italiana. Origini, sviluppo e insufficienza, Milano, Ispi, 1942, p. 365). “Certo fu salvato, dopo vent’anni, il bilancio dello Stato... Certo si consolidò, con l’aiuto del tempo, grande alleato, la malcementata unità interna. Ma a prezzo dell’originalità delle genti italiane, col sacrificio degli ideali stessi del Ri­sorgimento, che aveva auspicato ben altro! Fu il trionfo della fame dignitosa e del cattivo gusto. Quella ‘piccola borghesia’ chiuse i quadri. Impedì la formazione delle élite. Oppose una resistenza ostinata alle grandi trasforma­zioni economiche. Portò l’agricoltura del Mezzogiorno all’orlo del fallimento e l’industria del Nord alla liquidazio­ne. Strozzò i commerci. Anemizzò il credito. Mise all’Italia le pantofole e la nutrì di camomilla”. (N. Quilici, La borghesia italiana, cit., p. 367).

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venir meno a quei tratti di destino eroico che pure l’avevano contraddistinta in epoca ri­nascimentale e ancora nella Lombardia di Pietro Verri, l’ambizione, il disprezzo per l’economia13. O si pensi a Camillo Pellizzi che esplicitamente si contrappone con il suo primo titolo famoso, Fascismo-aristocrazia, alla tradizione liberale. Alla figura del bor­ghese ottocentesco (cui si confà la costruzio­ne e selezione graduale di una rappresentan­za politica) egli oppone il mito dell’eroe, dell’aristocràta (come scrive Pellizzi ancora in un saggio del dicembre 1941), e infine del tecnico: tutte figure che, come nella migliore cultura soreliana, non si scelgono ma si im­pongono14. E si vedano anche in G. Volpe le pagine relative alle affinità (del tutto specifi­che dell’Italia) tra due movimenti, altrove distinti, come il sindacalismo rivoluzionario e il nazionalismo, concordi nell’ostilità alla

democrazia politica e nel richiedere spazio e riconoscimenti per i nuovi quadri produttivi della nazione15.

Piccoloborghese è in tutti questi autori il tratto peculiare dell’Italia liberaldemocrati- ca, il sostituto linguistico dispregiativo per la mancata egemonia di una borghesia che vor­rebbe diventare élite ma che non ci riesce, il segno della sua non raggiunta grandezza, dei suoi insuccessi economici e politici.

Sono rarissimi i casi di uno studio attento (come si andava invece facendo in Germa­nia, soprattutto in ambiente sindacale e so­cialista negli anni della repubblica di Wei­mar) e preciso dei ceti medi. L’unica ecce­zione in questo senso è la serie di articoli di Rodolfo Mondolfo su “La critica sociale” nel 192416 che chiariscono bene, nella defini­zione delle “funzioni” sociali della classe media, come in realtà in Italia si stesse di-

13 “Mancano i quadri di comando della classe dirigente, abbonda fino all’esuberanza la borghesia minuta, al cui numero sempre crescente accrescono contingenti nuovi ogni anno le selezioni operate nelle classi lavoratrici dai so­cialisti, e dai cattolici entrati ormai a vele spiegate nella lotta politica, tra le classi artigiane e tra i piccoli affittuari e mezzadri della campagna, ove di preferenza si svolge la loro propaganda. Espressione vera del tempo è il governo giolittiano, che non solo non ostacola, anzi favorisce codesta moltiplicazione di genterella borghese, tendenzial­mente progressista, istintivamente democratica, amante del giusto mezzo, perché essa costituisce una docile massa elettorale, non ha pretese, paga regolarmente le imposte, sostiene con convinzione la causa della pace ad ogni co­sto. Sono i famosi ‘ceti medi’, borghesi bensì ma espressione perfetta della formazione insufficiente, monca, ritar­data della coscienza borghese in Italia: ‘popolo di cinesi’ — come furono definiti — bene educati e ben vestiti, ma cinesi: privi, cioè, di una robusta costituzione morale, poveri di coraggio, poveri, in sostanza, di un vero e proprio orgoglio di classe.” (N. Quilici, La borghesia italiana, cit., p. 404).14 Camillo Pellizzi, Fascismo-aristocrazia, Milano, La Grafica moderna, 1925; Id., Una rivoluzione mancata, Mi­lano, Longanesi, 1949. Si rammenti, tuttavia, che in campo fascista la rottura del linguaggio è soprattutto evidente e precoce in Mussolini. Mario Chieregato (Aspetti quantitativi della struttura e del vocabolario mussoliniano, “Mo­vimento operaio e socialista”, 1984, n. 1) ha calcolato che negli scritti di Mussolini del periodo socialista “borghe­se” è la terza parola in ordine di frequenza (superata solo da “socialismo” e “classe”). Adrian Lyttelton (Il linguag­gio del conflitto politico nell’Italia prefascista, “Problemi del socialismo”, 1988, n. 1) rilevando che la stessa parola non compare, invece, fra le prime venti usate dai socialisti riformisti Turati e Treves, osserva come Mussolini, no­minando con forza l’antagonista, intenda soprattutto, a differenza di questi ultimi, enfatizzare il conflitto (p. 178). Più tardi, nei discorsi del periodo interventista, dietro gli attacchi retorici alla “borghesia”, si delinea un mutamen­to semantico per cui l’antagonismo fondamentale socialista tra “proletariato” e “borghesia” viene sostituito da quello fra “combattenti” e “borghesi” e (sulla scorta di Pareto e dei nazionalisti) tra “borghesia parassitaria” e “borghesia produttiva” (p. 183). È nel filone nazionalista che si colloca del resto Pellizzi.

Gioacchino Volpe, Genesi del fascismo, in Luigi Lojacono (a cura di), Le corporazioni fasciste, Milano, Hoepli, 1935, pp. 23-44. Volpe qui riprendeva le tesi di Mario Missiroli (v. nota successiva).

Il saggio di R. Mondolfo si presentava esplicitamente come una sorta di conclusione del dibattito che nei due an­ni precedenti aveva occupato le pagine di “Rivoluzione liberale”, con interventi di Salvatorelli, Ansaldo e Monti: si tratta degli autori più noti e spesso citati per i quali si rinvia, oltre che alle pagine della Antologia della “Rivoluzio­ne liberale" a cura di Nino Valeri, Torino, De Silva, 1948, sez. 8, all’antologia citata di R. De Felice e a Nicola

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scutendo di rinnovamento delle élite più che di “proletarizzazione” del Mittelstand.

Il problema del ricambio delle élite ha una duplice manifestazione. Da un lato, la pic­cola borghesia, come dice il termine stesso, è quell’insieme di individui caratterizzato da aspirazioni e insoddisfazioni di status più che da condizioni di lavoro e di reddito. Dall’altro lato, la peculiarità italiana è che queste aspirazioni occupano un vuoto di di­rezione politica del centro che caratterizza il primo dopoguerra.

Come è stato osservato, il nemico di que­sto nucleo sociale che risulterà sovrarappre- sentato nel partito fascista (studenti, inse­gnanti, disoccupati, excombattenti) non è tanto il capitalismo industriale quanto il si­stema politico italiano: si tratta più di outsi­der del sistema politico che di nostalgici di una golden age perduta17. Qui sta la diffe­renza rispetto al “rimpianto” che ha sempre caratterizzato il Mittelstand weimariano nei confronti delle antiche certezze bismarc- kiane.

Dietro l’uso dispregiativo del termine pic­cola borghesia si nasconde un attacco straordinariamente generalizzato alla demo­crazia e ai suoi meccanismi rappresentativi: oltre a quello socialista (sulla base della mo­tivazione di classe), si annovera quello dei nazionalisti che l’accusano di debolezza e mediocrità, degli idealisti per l’eccesso di materialismo e di scetticismo, dei cattolici per ragioni molto simili, degli scienziati poli­tici e degli economisti attraverso l’influenza di Pareto. Arrivarono dunque con la loro anti-democrazia buon ultimi i fascisti che, in realtà — come già osservava Herbert Wal- lance Schneider nel 192818 — presero questa posizione non perché la democrazia fosse il loro principale nemico in pratica, ma perché volevano qualcosa di già impopolare da at­taccare... E per questo raccolsero i frutti di un diffuso malcontento politico oltre che so­ciale nei confronti di tutta la storia patria.

Per riassumere, nei primi anni venti, ter­mini come democrazia, borghesia, piccola borghesia e, talvolta ma più raramente, clas-

Tranfaglia, Dallo Stato liberale al regime fascista, Milano, Feltrinelli, 1973. Mondolfo in questo saggio si richiama­va all’intervento di Augusto Monti che, partendo dalla constatazione che in Italia non era ancora esistito un vero ceto medio — essendo mancata una rivoluzione liberale e una classe borghese capace di difendere la libertà, come in Francia, Inghilterra e Germania — ne vedeva l’embrione nascente nel proletariato industriale organizzato, cioè nel Quarto Stato diventato Terzo Stato. Tesi paradossale, osserva Mondolfo, da ricollegare a un concetto caro a Missiroli, secondo il quale alle vecchie classi medie intellettuali altre nuove starebbero sostituendosi, venute su dal cooperativismo e dalla organizzazione economica promossa dai socialismo (cfr. M. Missiroli, Il fascismo e la crisi italiana, Bologna, Cappelli, 1921) e che inoltre si affidava troppo a una definizione di classe basata sul tenore di vi­ta e sul grado di sviluppo della coscienza politica. A parere di Mondolfo l’espressione classe media (cioè l’insieme di una molteplicità irriducibile e ben differenziata di ceti medi) significa l’occupazione di una posizione intermedia fra proletariato e borghesia. La medietà della posizione non sta nella misura dei mezzi, o del tenore di vita, di cui gli appartenenti al ceto medio dispongono — misure variabili e oscillanti, ma sta invece nel genere della funzione sociale esercitata, nelle condizioni che essa implica, nei rapporti che viene a generare con le altre classi sociali, e in­fine nell’orientamento spirituale che viene a determinare (“Critica sociale”, 1924, p. 120).17 Cfr. David D. Roberts, Petty Bourgeois Fascism in Italy: Form and Content, in Stein U. Larsen et al., Who we­re the fascists? Social Roots o f European Fascism, Oxford, University press, 1981, p. 341. Il saggio di Roberts si inserisce nel filone delle scienze sociali attento al ruolo delle classi medie nelle crisi di rappresentanza del sistema li­berale: le masse meno integrate sotto la guida di intellettuali socialmente disinseriti compaiono in Ideologia e uto­pia di Karl Mannheim (1929; trad. it. 1968, Bologna, Il Mulino), come pure in Seymour M. Lipset, L ’uomo e la politica (1960; trad. it. 1963, Milano, Ed. Comunità), e in maniera ancora più articolata in Gino Germani, Autori­tarismo, fascismo e classi sociali, Bologna, Il Mulino, 1975: Germani ha infatti applicato allo specifico caso italia­no un modello che vede in una radicale situazione di spostamento (in cui determinante è anche il fatto che la mobi­litazione sia secondaria, si attui cioè su gruppi già “partecipanti”, anche se “spostati” o resi marginali da fattori ec­cezionali) giocare contemporaneamente masse disponibili, élite disponibili e ideologie disponibili.18 Herbert W. Schneider, Making the Fascist State, New York, H. Ferting, 1928, p. 102.

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si medie fanno tutt’uno col generale clima di stanchezza e disprezzo che copre l’incapaci­tà dei governi liberali del dopoguerra di al­largare la loro constituency ai battaglieri ceti medi aggregatisi a seguito di inurbamento, mobilitazione bellica, inquadramento statale di servizi produttivi e assistenziali, urgenza di ripresa edilizia, ecc.

Si noti che questi ceti (penso soprattutto a quelli urbani) non sono affatto globalmente cresciuti rispetto a vent’anni prima19, ma la rottura delle tradizionali gerarchie a seguito dello spostamento tra settori tradizionali e moderni, della mobilitazione interventista e della guerra li ha resi improvvisamente fisi­camente vicini e visibili, li ha, per dirla con Gino Germani, “mobilitati”; li ha, per ri­prendere ancora Gramsci, unificati, sotto il segno del patriottismo, sull’intero “territo­rio nazionale” .

È la loro giovane età, la loro visibilità fi­sica (nelle piazze, nelle strade, nei seggi elettorali) prima ancora che politica, che, nel mentre risveglia l’interesse degli osser­vatori, rende anche i protagonisti consape­voli di una forza inaspettata. Una forza

che viene riversata sul movimento politico più lontano dal sistema tradizionale, sul quale puntare non solo per uscire da un gioco, economico, da tutti considerato a somma zero, proletari contro capitalisti20, ma per rientrare in una partita politica che sembra offrire inaspettate prospettive di mobilità (sul territorio, nella scala sociale, nella gerarchia di status).

L’insieme di questi elementi fa sì che il te­ma della piccola borghesia/ceti medi, dopo essere stato al centro della riflessione di tutti gli osservatori contemporanei (dai liberali ai soreliani, dai sindacalisti ai socialisti) sia di­ventato nella ripresa degli studi sul fascismo degli anni settanta patrimonio quasi esclusi­vo della storiografia di matrice liberale. Evi­dentemente, rilevare l’estraneità della classe media nei confronti del sistema politico (tale da porla nel primo dopoguerra in posizione di exit), induce a interrogarsi sul mancato funzionamento del meccanismo di selezione delle élite politiche, che in quella classe tro­vano in ogni sistema liberale la propria fon­te di stabilità21. Si spiega così il nesso ceti medi — potere politico — cultura di massa

19 Secondo le stime di Paolo Sylos Labini (L’Italia: la struttura sociale, in Id., Le classi sociali negli anni ’80, Bari, Laterza, 1986, p. 20) le classi medie urbane tra il 1881 e il 1921 conoscono un vero e proprio calo, dovuto soprat­tutto alla contrazione nel settore degli artigiani.20 Sul mutamento di mentalità economica che accompagna in Europa la crisi dei sistemi liberali ha richiamato l’at­tenzione Charles S. Maier già in un saggio del 1970, Between Taylorism and Technocracy: European Ideologies and the Vision o f Industrial Productivity in the 1920s, “Journal o f Contemporary History”, n. 2. Il tema è stato ri­preso più recentemente in un saggio su The Politics o f Time: Changing Paradigms o f Collective Time and Private Time in the Modern Era, in Ch. S. Maier (a cura di), Changing Boundaries o f the Political: Essays on the Evolving Balace Between the State & Society, Public & Private in Europe, Cambridge, University press, 1987.21 Questo del rinnovamento delle élite, come si sa, è l’altro grande tema che accompagna, soprattutto in Italia e per la voce di alcuni grandi pensatori, la crisi del meccanismo rappresentativo liberale già dalla fine del secolo. Il riget­to del gradualismo, la negazione della mediazione, vedono intrecciarsi negli oppositori del liberalismo il disprezzo per il “meccanismo” rappresentativo, con il suo tipico smussamente dei conflitti, e quello per i soggetti sociali che ne sono i principali fruitori. Senza ricorrere al più esplicito Sorel (di cui si veda la recente edizione di Le illusioni del progresso, con prefazione di Andrea Saisano, Torino, Bollati Boringhieri, 1992), converrà ricordare come sul tema delle élite ritorni Filippo Burzio nel 1945 con Essenza e attualità del liberalismo, Torino, Utet. Ancora una volta, anche se in termini rovesciati, il nesso è ribadito; dopo aver ricordato che l’ideale del liberalismo non deve essere criticato prendendolo nelle sue forme, ormai superate, ottocentesche, Burzio aggiunge: “questo ideale di mo­derata ineguaglianza nella ripartizione delle ricchezze, in cui concordano quasi tutti i liberali d’oggi — e basti ricor­dare la bella formula di un nostro insigne esponente, l’Einaudi: società liberale è una società di uguali in diritto e di moderatamente disuguali in fatto — è un ideale che fa qualificare il liberalismo, non senza una venatura di insuffi­cienza e di disprezzo, di dottrina e di mentalità ‘piccolo-borghese’: e ciò, sia da parte dei nostri avversari di sinistra,

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— consenso, che ha animato la ricerca (e il dibattito) storiografico su questi temi nel­l’ultimo ventennio.

Gli anni trenta: il regime e i ceti medi

Di questo secondo atto vorrei soprattutto sottolineare la rapidità con cui lo scenario prima delineato muta nel momento in cui il fascismo si afferma come regime. La “pic­cola borghesia” esce di scena, nel mentre rapidamente ci si inoltra in quel vero vivaio di quadri/ceti medi che è stata l’organizza­zione sindacale22, corporativa e partitica fa­scista (e tutta la legislazione connessa): la chiave di volta per soddisfare l’ansia di “di­stinzione” della piccola borghesia.

È attraverso questa via, l’inquadramento dall’alto sul luogo di lavoro e nel tempo li­bero, che la “piccola borghesia” umanisti- co-retorica salvatorelliana trova accesso alla categoria di “ceto medio” di matrice orga­nizzativo e occupazionale: esce dall’archeti­po politico-culturale della cetimedietà per entrare nello specifico statistico-economico di una “moderna” classe media. O, per ri­prendere ancora i termini di Germani, è per questa via che avviene la reintegrazione e la smobilitazione di gruppi sociali prima in­tensamente contestativi; e, in termini poli­tologici, l’integrazione di élite prima margi- nalizzate o periferiche. A questo punto ceti i

medi diventa termine sinonimo di quadri sindacali, di élite periferiche variamente col­legate al centro, di correnti di partito: è so­ciologicamente una classe. La “piccola bor­ghesia” resterà ancora a lungo nella pubbli- cistica popolare come un target negativo per battaglie culturali, di parte fascista e non, ma i suoi contorni sociali e culturali andran­no sfumandosi sempre più fino a sparire in una massa indistinta, per ripresentarsi pun­tualmente nel secondo dopoguerra, sempre come fantasma emblematico di una “ano­malia” nazionale, di una tara delle origini. Ma su uno sfondo ormai mutato23.

Se la piccola borghesia in quanto cetime­dietà non perde, anzi acquista come prota­gonista letteraria forza e spessore negli anni del fascismo (grazie alle numerose occasioni che gli uomini e le istituzioni del regime sa­pevano offrire ad autori come il Gadda di Eros e Priapo), i ceti medi in quanto gruppi organizzati, statisticamente distinguibili e giuridicamente riconosciuti vanno assumen­do una fisionomia nuova e comparabile con quella di altri paesi europei negli stessi anni. Quali i tratti comuni e quali quelli specifici? Sono questi gli interrogativi che guidano un secondo filone di ricerca storiografica, più recente rispetto al primo, dal quale si distin­gue per la prevalente attenzione agli aspetti socioeconomici piuttosto che a quelli politi­co simbolici. Numerosi sono gli elementi di fatto che avvalorano e legittimano questo

i socialcomunisti, i quali aspirano a proletarizzare la società, sia da parte degli avversari di destra, i quali hanno delle élite un concetto esageratamente ereditario-plutocratico, oppure cesaristico-fazioso” . (F. Burzio, Essenza e at­tualità, cit., pp. 67-68).22 Si tratta di un vivaio costituitosi già in età giolittiana (come segnalavano M. Missiroli e G. Volpe): si vedano gli autori citati da Bruno Dente e Sabino Cassese, Una discussione del primo ventennio del secolo: lo Stato sindacale, “Quaderni storici”, n. 18, 1971, tra i quali particolarmente interessante, ai fini di quanto si prende qui in esame e per il rilievo dell’autore, l’intervento di Gaetano Mosca del 1925 in cui, contraddicendo precedenti posizioni, lo scrittore siciliano giunge ad affermare che la soluzione più facile alla crisi dello Stato in atto sarebbe stata la sosti­tuzione “nelle assemblee legislative della rappresentanza di classe e di mestiere all’attuale rappresentanza individua­le”, cioè lo Stato sindacale (p. 954).23 Non è un caso che Silvio Lanaro, dopo averne tracciato la geneaologia in Nazione e lavoro la ritrovi negli apòti del qualunquismo postbellico, nella sua recente Storia dell’Italia repubblicana: dalla fine della guerra agli anni no­vanta, Venezia, Marsilio, 1992.

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spostamento di ottica, a partire dal momen­to in cui il fascismo diventa regime: ci limi­tiamo qui a ricordarne alcuni, già oggetto o suscettibili di nuovi sviluppi di ricerca.

Le Internazionali della classe media. Sul pia­no dei fatti storici, non si tratta solo di con­statare che si costituisce una Internazionale delle classi medie, di cui possiamo citare un congresso a Berna nel 1924 (nel quale non si segnala peraltro la presenza di partecipanti italiani, ma neppure francesi o inglesi) e uno a Roma nel 1927, ma di rilevare un precisar­si di obiettivi e un loro aggiornarsi nel corso dei due incontri internazionali.

Al centro del primo congresso troviamo il problema delle abitazioni, anche perché la prevalente presenza di Svizzera, Belgio, Olanda, spinge verso una definizione di clas­si medie tutta piegata verso la salvaguardia dei lavoratori indipendenti. Non è un caso (la “scuola” di Vienna lasciava evidente­mente qualche segno anche sugli organizza­tori dell’unione delle classi medie) che pro­prio dal rappresentante austriaco venga in­vece un grido di allarme per le classi medie costrette a vendere il loro lavoro manuale e intellettuale, mentre le proposte non si limi­tano alla richiesta di assicurare alimenti e abitazione, ma anche istruzione (ingresso gratuito a biblioteche, musei, conferenze), vista come mezzo indispensabile per conser­vare la posizione sociale perduta con la fine della proprietà. Timidamente, in chiusura, si configura anche la speranza di un movi­mento comune per ottenere un vero e pro­prio sussidio di disoccupazione, finanziato con ritenute sullo stipendio e il contributo dei datori di lavoro24.

Pochi anni dopo, al quinto congresso del­l’Istituto internazionale per le classi medie (Roma 1927), le richieste si sono precisate:

vi si parla di accordare protezione alle classi medie, di provvidenze sociali sulle assicura­zioni e sull’assistenza economica, di riorga­nizzazione dell’insegnamento professionale e di formazioni sindacali comprendenti le categorie professionali delle classi medie. In questa circostanza Giuseppe Bottai ha un buon gioco nel rilevare che quanto è richie­sto dal congresso, cioè in sostanza la parifi­cazione degli interessi della classe media con quelli della classe operaia, è già stata realiz­zato dal fascismo: Bottai elenca la Carta del lavoro, il riconoscimento delle categorie professionali, nonché la facoltà di organiz­zarsi e di essere rappresentate negli organi­smi corporativi. Il tutto, all’interno della nuova filosofia fascista che non prevede “doveri” dello Stato verso i cittadini, bensì la subordinazione di questi ultimi agli inte­ressi generali25.

Al di là dell’ostentata sicurezza di Bottai quando annuncia la non esistenza delle clas­si medie nel regime fascista, che ha procla­mato l’uguaglianza di tutte le classi, trovia­mo ancora un segno di coincidenza tra l’au­torappresentazione sociale del regime (una società ordinata e inquadrata in sindacati, associazioni professionali e corporazioni) e lo sguardo degli oppositori. Anche da parte di questi ultimi non ci si interroga più sulla “piccola borghesia” nazionale, ma semmai sul consenso al regime di singole categorie intermedie, tutte organizzate e ugualmente munite di segni di riconoscimento specifici, come un bollettino di informazione e propa­ganda, un consiglio di rappresentanti negli organismi associativi, assicurazioni sociali, casse mutue, fiere di artigianato o tessere ferroviarie...

L ’Italia fuori d ’Italia. Per comprendere lo spostamento che nel corso degli anni del re-

"4 Cfr. Internationaler Mittelstands-Kongress, Kongressbericht, Berna, 1-4 settembre 1924, pp. 521-522.Cfr. Giuseppe Bottai, Esperienza corporativa, Roma, Edizioni del diritto del lavoro, 1929, pp. 381-385 (vi è ri­

prodotto il testo del suo intervento al congresso di Roma, il 24 ottobre 1927).

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girne interviene tra la categoria di “piccola borghesia” e quella di “classe media” , con tutte le implicazioni interpretative che que­sto comporta, non, si può non far riferimen­to agli osservatori stranieri. Mi limiterò qui a citare pochi testi significativi per il ragio­namento che voglio svolgere e cioè il passag­gio da un clima di prevalente attenzione al rapporto cittadino-Stato e alla confisca delle libertà politiche operate dal regime fascista — tipico degli anni successivi alle leggi ecce­zionali — al clima completamente mutato degli anni trenta. Se in un primo tempo, co­me abbiamo visto, il giudizio più diffuso è quello di un Sonderweg nazionale caratteriz­zato da un liberalismo di nome più che di fatto e da un gruppo sociale, la piccola bor­ghesia, dotata di tradizioni e cultura partico­lari (e incomparabili), dopo la svolta del 1929-1930 l’esperienza comune a tutti i paesi industrializzati di una crisi economica pro­fonda, e la vittoria del nazismo in Germa­nia, inducono a prendere in considerazione le scelte del regime fascista in materia eco­nomica come qualcosa di meno “tipicamen­te” italiano. Si tratterà dunque di corporati­vismo ma anche di “terza via” , di costruzio­ni legislative originali, forse non funzionan­ti, ma pertinenti e da non accantonare come espressione del folklore mediterraneo26.

Interessante per il primo tempo, e sicura­mente originale nel panorama complessivo degli ultimi anni venti, è il volume di H.W. Schneider, Making Fascists (1929), che se­gue di un anno il suo più noto Making the Fascist State-, prodotto, come il primo, al­

l’interno del National Social Science Re­search Council e su esplicito incarico del suo presidente, Ch. E. Merriam, Making fascists si colloca all’interno di una collana di ricer­che dedicate ai diversi sistemi nazionali di educazione e di controllo della lealtà civica. L’interesse di questo saggio è dato dalla pun­tualizzazione di un tema (il rapporto del “cit­tadino” con le istituzioni politiche nazionali) che, continuamente evocato nel dibattito sul­la piccola borghesia umanistica e retorica dei primi anni venti, non costituirà più un ogget­to di ricerca, se non in parte nelle Lezioni di Togliatti, da parte dell’antifascismo, una volta trasformatosi il fascismo in regime.

Si tratta degli interrogativi nuovi posti da una élite politica volta non solo a censurare la voce e le opinioni degli oppositori, ma an­che a costruire una etica nazionalista attra­verso il ricorso a strumenti vecchi e nuovi: così troviamo accanto alla burocrazia e alla scuola pubblica, all’educazione militare, an­che il partito e il sindacato, la stampa, le or­ganizzazioni patriottiche, nonché l’uso del simbolismo e delle tradizioni, indagate come tecniche per valutare la forza coesiva della lealtà civica. Sotto il fuoco dell’analisi è più in generale il tema della cittadinanza e del­l’opinione pubblica (scuola e stampa) con un occhio implicito al peso che queste dove­vano rivestire in un regime democratico. In­vece, nel regime fascista, conclude Schnei­der, l’idea di cittadinanza era completamen­te rovesciata27: inoltre, data la concorrenza in atto sullo stesso terreno (morale, spiritua­le e finanziario) tra Chiesa e Stato, l’autore

26 È proprio da considerazioni simili che muove la ricerca di Marco Palla, Fascismo e Stato corporativo. Un’in­chiesta della diplomazia britannica, Milano, Angeli, 1991, sul “successo” della propaganda corporativa nei paesi europei investiti dalla crisi economica.27 Se nei paesi democratici infatti queste istituzioni funzionano come agenzie per preparare il singolo cittadino a formarsi e a esprimere un’opinione, nel regime fascista “the school is essentially the place where a newcomer beco­mes initiated into the traditions of his people, and the press is the agency whereby the government informs the peo­ple o f ‘the national will’ and appeals to it for support” . Sono organi di propaganda, non di critica. “It follows that pubblic opinion is essentially a matter o f emotion rather than of informations”. Le issues politiche, essendo tecni­che, sono riservate ai competenti. Gli scopi politici, invece, sono pubblici e il popolo è chiamato a celebrarli. E in­teressante, osserva ancora Schneider, questa filosofia di benevolente dispotismo, questa divisione del lavoro basata

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prevedeva che il richiamo militante del fasci­smo, il suo indubbio successo rispetto ai predecessori nel fornire alla nazione simboli e forme per l’espressione della sua fede poli­tica, il suo appello alla lealtà nazionale avrebbero avuto successo solo fintanto che sarebbero apparsi giustificati dall’elevato li­vello di competizione internazionale.

Questi spunti interessanti di indagine sui metodi nuovi (i contenuti, si riconoscono, sono quelli dello Stato etico) utilizzati dal fascismo nel trasformare culturalmente la piccola borghesia, strutturalmente e cultu­ralmente legata a un mondo tradizionale, in quadri fascisti militanti si ritrovano rara­mente in altre indagini, se non, in una veste più giuridico-istituzionale nei volumi di Fer­rari e di Trentin.

Il clima cambia, in generale, negli anni trenta. L’attenzione, come detto, si sposta sui temi dell’economia e del corporativismo. Tra i libri sul fascismo entrati alla Biblioteca nazionale di Parigi, per esempio, la quota di tesi delle Facoltà di diritto dedicate alle cor­porazioni o alle leggi sindacali fasciste è di tutto rispetto, soprattutto se paragonata alla testimonianze e alle prese di posizione anti­fasciste28. Più in generale si nota a partire

dagli anni trenta una diffusa attenzione al tema del fascismo come “terza via” tra capi­talismo e socialismo, dunque ai successi/in- successi della sua politica economica all’in­terno di un quadro mondiale di difficoltà comuni a tutti i governi. Quello economico è un linguaggio facilmente traducibile: lo era molto meno quello politico-culturale che ri­schiava, come sappiamo, di diventare mero folklore. Sul terreno economico si può co­struire una interpretazione sociale del fasci­smo italiano che lo collochi su un piano di comparazione con gli altri esperimenti in corso di uscita dalla crisi.

In questo contesto la “piccola borghesia” scompare per lasciare il posto alle classi me­die e, semmai, alla loro “proletarizzazione” sotto la scure di un fascismo sempre più in­trecciato col capitalismo monopolistico. Gli studiosi stranieri, come quelli italiani, con­cordano nel ritenere queste classi “dominate dai grandi movimenti economici” : è quanto scrive Maurice Halbwachs, in sintonia con lo studio particolarmente puntuale di Louis Rosenstock Franck sulle classi medie italia­ne29, ma in questo stesso clima possiamo collocare anche i lavori di Guérin e di Gri­fone30.

sulla separazione tra mezzi e fini, applicata integralmente a istituzioni moderne. Questo comporta una radicale re­visione del concetto di cittadinanza: “Fascist citizenship is expressed, theoretically, not by the democratic machi­nery of public debate and suffrage on concrete issues but by an intelligent and industrious pursuit o f one’s own bu­siness. The government, theoretically, decides whether or not a given profession or business is valuable to the state and nation. It thus becomes more than a private enterprise, it is genuinely public service, and it is a political duty to perform this particular service or function well. In other words, just as the integration of the state is essentially eco­nomic (the corporative state) so the exercise o f citizenship is also economic.” (H.W. Schneider, Shepard B. Clough, Making Fascists, Chicago, The University o f Chicago press, 1929, pp. 200-201).~s Di successo all’estero dell’esperimento corporativo parla anche Federico Chabod nelle lezioni tenute a Parigi nel 1949 (cfr. Id., L ’Italia contemporanea (1918-1948), Torino, Einaudi, 1961, p. 88). Tra le schede censite alla voce Corporations negli anni 1925-1935 figurano per l’Italia sei tesi su otto titoli.29 Cfr. i saggi di Maurice Halbwachs e di Louis Rosenstock Franck in Raymond Aron et al., Inventaires. III. Clas­ses moyennes, Paris, Alcan, 1939 (il saggio del secondo è ora riprodotto nella raccolta antologica L. Franck, Il cor­porativismo e l ’economia dell’Italia fascista, a cura di N. Tranfaglia, Torino, Bollati, 1990). Di Franck è interes­sante anche Fascism and the Corporate State, “The Political Quarterly”, 1935, n. 3, in cui in poche pagine e piutto­sto precocemente si denuncia il divario esistente tra il meccanismo corporativo secondo Mussolini e la vita reale del­l’economia italiana.

Vorrei ricordare a questo proposito (vi si trovano anche brani di Guérin) la sempre utile e ricca antologia curata da Edda Saccomani, Le interpretazioni sociologiche del fascismo, Torino, Loescher, 1977.

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Welfare State all’italiana. Che si tratti di ce­ti medi corporativizzati o proletarizzati, che si guardi cioè al loro status o alla loro condi­zione di vita, si è in ogni caso usciti dall’a­malgama “piccola borghesia” e dalla sua ca­ratteristica di outsider del sistema politico istituzionale. Anche i ceti medi italiani sono ormai entrati nel sistema politico e nel pro­cesso di modernizzazione ed è sotto questo profilo che possono, da questo punto in poi, essere studiati all’interno di un quadro com­parato. Mentre la cultura piccolo borghese trionfa in ogni angolo d’Italia, nazionalizza­ta non più dall ’ apoliticismo ma da un regi­me che combina Minculpop e Strapaese, i gruppi sociali componenti la classe media acquistano in realtà fisionomie distinte, si ri­trovano in organizzazioni sindacali e Dopo­lavoro, partecipano di un processo di allar­gamento della classe media comune a tutte le società industrializzate.

A questo punto lo studio può procedere secondo modalità del tutto comparabili ri­spetto ad altri paesi: i ceti medi in epoca contemporanea si configurano ovunque, an­che in Italia, come splintered classes, classi frammentate, ha osservato recentemente uno studioso del periodo31, ma crescente- mente organizzate.

Qui una piccola digressione comparativa è

necessaria. Si tratta di una considerazione riguardante l’emergere, nel corso del proces­so di modernizzazione, dei ceti medi e delle loro organizzazioni negli Stati continentali europei (il caso anglosassone per ragioni ine­renti alla sua storia religiosa e burocratico- statale è molto diverso). I non numerosi stu­di esistenti mostrano con chiarezza come l’ansia di “distinzione” tipica di questi ceti trovi il suo principale placebo nella conqui­sta del “riconoscimento” statale: al titolo professionale, al diritto alla pensione o alla cassa mutua. Come risultato, in questi paesi la storia dei ceti medi si intreccia fortemente con la storia del modello di Stato assisten­ziale; si può anzi paradossalmente affermare che nel Novecento, dopo la prima guerra mondiale, contrariamente alla vulgata più diffusa (ed a quanto era avvenuto nell’Otto­cento) è la pressione dei ceti medi piuttosto che quella operaia la principale responsabile dei modi in cui lo Stato assistenziale viene forgiato dai singoli Stati nazionali32.

Da questo punto di vista l’esito a cui giun­gono i ceti medi italiani non è diverso da quello di altri paesi europei: pensioni diffe­renziate per categoria, mutue finanziate da­gli occupati (cioè il cosiddetto modello “oc­cupazionale” di welfare). La principale dif­ferenza è che queste, alla fine degli anni ven-

31 Rudy Koshar (a cura di), Splintered Classes. The European Lower Middle Classes in the Age o f Fascism, New York, Holmes & Meier, 1990.32 Sui diversi modelli di Stato assistenziale compresi tra un polo “universalitico”, volto a coprire il cittadino, e uno “occupazionale” , sorto per pressione categoriale, si veda di Maurizio Ferrera, Modelli di solidarietà. Politiche e ri­forme sociali nelle democrazie, Bologna, Il Mulino, 1993, che sviluppa interessanti considerazioni sulle origini sto­riche dei diversi modelli. Il tema del rapporto tra formazione di gruppo sociale, in genere intermedio, e obiettivi di protezione sociale non è stato ancora messo a fuoco per il caso italiano (una eccezione è Raffaele Romanelli, Sulle carte interminate. Un ceto di impiegati tra privato e pubblico: i segretari comunali in Italia, Bologna, Il Mulino, 1989) mentre è stato tematizzato da Luc Boltanski, Les Cadres: la formation d ’un groupe social, Paris, Minuit, 1982. Si veda anche per una vicenda analoga (cioè il ruolo mobilitante dell’aspirazione al riconoscimento legale protettivo) Bernard Zarca, L ’artisanat français: du métier traditionnel au groupe social, Paris, Economica, 1986 e Steven M. Zdatny, The Politics o f Survival. Artisans in Twentieth Century France, Oxford, 1991. Molto generica­mente si può ricordare che, se nel corso dell’Ottocento le leggi di protezione sono comunque il frutto della centrali­tà delia “questione sociale” nei paesi industrializzati (sia che la legge sia il risultato della conquista di una categoria sindacale, o concessa, come nel caso di Bismarck, per prevenire l’inasprirsi del conflitto sociale e politico), dopo la prima guerra mondiale questo obiettivo diventa un forte fattore di mobilitazione proprio delle classi medie, facili­tandone l’organizzazione e la visibilità.

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ti, non sono conquiste, ma concessioni che uno Stato totalitario sancisce avendo di mira precisamente il malcontento di quella picco­la borghesia che alle origini l’aveva sostenu­to. Si può forse affermare che, come Bi­smarck aveva concesso le prime leggi pubbli­che di welfare per impedire che su questo obiettivo crescesse la forza organizzativa della classe operaia e della socialdemocra­zia, nel caso del fascismo italiano la conces­sione è rivolta precisamente a impedire che su questo obiettivo crescesse la forza orga­nizzativa dei ceti medi, realizzando, come altrove era avvenuto, una pericolosa allean­za con le organizzazioni dei lavoratori.

Il risultato è che, se come lamentavano osservatori cattolici e socialisti (Ferrari e Trentin), il popolo italiano non aveva sapu­to ottenere in virtù della propria forza la li­bertà e i conseguenti diritti di cittadinanza politica, si trovava ora a recepire formule organizzative da cittadinanza “sociale” sen­za, di nuovo, averle conquistate e quindi modellate, indirizzate33. Come stupirsi di uno spirito di cittadinanza monco, allora e dopo la caduta del fascismo?Sindacato, corporazioni, partito. Sempre in un’ottica comparativa, la peculiarità del ca­so italiano di costruzione della classe media

appare determinata dal peso del fattore “esterno” rispetto alla autoorganizzazione tipica di altri paesi. Si tratti, come sottolinea M. Berezin34, della cultura e dell’università come misura di mobilità sociale (ragione per cui la riforma Gentile si affrettò a chiudere gli accessi una volta che il fascismo era giun­to al potere, mentre la riforma De Stefani del pubblico impiego tentava di affermare una rigida gerarchia basata sul titolo di stu­dio), o della costruzione di segmentati orga­nismi sindacali il cui funzionamento doveva assorbire gli appartenenti al ceto medio in ogni provincia italiana35, il caso nazionale è del tutto inconsueto, ma anche molto chia­ro. Se altrove l’organizzazione associativa è il risultato di una “riuscita” del gruppo so­ciale sul mercato, in Italia è essa stessa mi­raggio costitutivo del gruppo sociale inter­medio: al posto del mercato vi è lo Stato co­me misura della raggiunta identità di grup­po. Ciò comporta che anche il meccanismo burocratico sia più in sintonia con la gerar­chia della Bildung (il merito, l’istruzione) che con la gerarchia (ben più moderna e a lungo andare ineludibile) della efficienza36. Sempre al fine di una maggiore definizione comparativa, notiamo che lo spirito corpo­rativo è forte sia in Germania che in Fran-

33 La distinzione tra cittadinanza civile, politica e sociale si deve a Thomas Humphrey Marshall, Cittadinanza e classe sociale, Torino, Utet, 1976. Sull’organizzazione del welfare negli anni del fascismo (e il suo mancato funzio­namento) si veda il volume di Domenico Preti, La modernizzazione corporativa. Economia, salute pubblica, istitu­zioni e professioni sanitarie, Milano, Angeli, 1987; e i saggi di Guido Melis e di Franco Bonelli in Novant'annì di previdenza in Italia: culture, politiche, strutture, atti del Convegno svoltosi a Roma 9-10 novembre 1988, Roma, Istituto nazionale della previdenza sociale, 1989.34 M. Berezin, Created Constituencies: the Italian Middle Class and Fascism, in R. Koshar, Splintered Classes, cit.3! Cfr. Pier Luigi Errani (in Pier Paolo D ’Attorre, P. L. Errani, Paola Morigi, La città del silenzio. Ravenna tra democrazia e fascismo, Milano, Angeli, 1988), sull’origine piccoloborghese di una leadership fascista, ristretta e compatta, che si afferma all’inizio degli anni venti e che egemonizza la vita politica e amministrativa per tutto il ventennio; come conferma della durata di questa leadership in provincia, cfr. la ricerca condotta da Maria Serena Piretti sulle élite dirigenti emiliane, La classe politica dell’Emilia Romagna durante il ventennio fascista, in Maurizio Degl’Innocenti, Paolo Pombeni, Alessandro Roveri (a cura di), Il Pnf in Emilia Romagna. Personale politico, quadri sindacali, cooperazione, Milano, Angeli, 1988; si veda anche M. Palla Fascisti di professione: il caso toscano, in Nanda Torcellan (a cura di), Cultura e società negli anni del fascismo, Milano, Cordani, 1982 e Vittorio Cappelli, Potere politico e società locali. Podestà e municipi in Calabria durante il fascismo, “Meridiana”, 1988, n. 2.36 Per una chiarificazione dei riferimenti bibliografici impliciti in questa contrapposizione, rinvio al mio II pubbli­co del simbolo, in Maurizio Vaudagna (a cura di), L ’estetica della politica, Roma-Bari, Laterza, 1989, p. 36.

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cia, ma nel primo caso esso, essendo frutto di sopravvivenze giuridico statali, accentua le fratture sociali e l’isolamento delle classi me­die dalla società moderna, nel secondo esso risponde a criteri di formazione delle élite so­ciali dettati dai monopoli meritocratici che il paese stesso si è dato (i “grands corps”, le “grandes écoles”)37. Nel caso italiano, dove10 spirito corporativo è meno forte, è invece allo Stato moderno che viene attribuito il compito di ricreare quelle che in Germania erano “sopravvivenze” corporative e in Francia riconoscimenti offerti al merito dalla società, nel tentativo di legittimare così le nuove élite dirigenti.

A partire dunque dalla centralità dello Sta­to nel caso italiano (uno Stato però minato dall’apoliticismo congenito della stessa pic­cola borghesia che a lui faceva appello), due sono i terreni di crescita dei ceti medi (e sui quali può trovare spazio la ricerca storiogra­fica): due circuiti spesso non comunicanti, quello di natura corporativa (le organizzazio­ni settoriali e parasindacali, il parastato eco­nomico e assistenziale) e quello della buro­crazia tradizionale. Su di essi — è questa l’al­tra peculiarità del caso italiano — estende il proprio dominio, dalla fine degli anni venti,11 partito nazionale fascista. Non si tratta so­lo di un controllo di tipo poliziesco o censo­rio, ma di merito, organizzativo, istituziona­le. Culturalmente, politicamente, prima an­cora che organizzativamente, la struttura del

partito occupa quel vuoto tra cittadino e Sta­to, quel divario tra piccola borghesia e Legge che aveva caratterizzato il primo ventennio del secolo38. Ai quadri sindacali, alle fanto­matiche corporazioni si affiancano, spesso per sostituirli, i quadri di partito: un partito, si noti, che si vuole soprattutto educatore, che si serve di propagandisti, giornalisti, ex miliziani, trasformati in “pubblici ufficiali”, per includere in una rete diretta dal centro, una provincia fortemente segnata da leader locali, restii a trasformarsi in quadri di una organizzazione nazionale. La ex-piccola bor­ghesia periferica entra per questa via nei mec­canismi dell’integrazione politico-sociale dai quali si era sentita esclusa, portando all’inter­no del sistema una faziosità che sembra con­traddistinguere, secondo i risultati delle an­cor poco numerose ricerche esistenti39, la vita politica nei fasci e nelle federazioni.

A livello teorico, quella del partito dovreb­be costituire l’agognata aristocrazia, termine che logicamente si contrappone alla tanto di­sprezzata “piccola borghesia” e che rivela co­me lungo tutto l’arco del ventennio permanga un problema di affermazione, ricambio, le­gittimazione delle élite. L’aristocrazia del partito la si vorrebbe addirittura ereditaria, una élite egemone perché “tecnica”, vuoi per competenza manageriale, vuoi per expertise di direzione politica40.

Al di sotto, dal punto di vista sociale, non vi sono le masse (le masse sono tali solo nel

37 Cfr. H.G. Haupt, La petite bourgeoisie en France, cit., p. 40.38 Su questi temi, qui brevemente accennati, mi permetto di rinviare al mio II regime e gli impiegati, Roma-Bari, Laterza, 1992.39 Cfr. Alberto De Bernardi e Luigi Ganapini, Mobilitazione delle masse e crisi del modello corporativo, “Storia in Lombardia”, n. 1-2, 1993 e i saggi di Ivano Granata, Elisa Signori, Ada Ferrari, Luigi Cavazzoli, in Maria Luisa Betri, A. De Bernardi, I. Granata, Nadia Torcellan, Il fascismo in Lombardia. Politica, economia e società, Mila­no, Angeli, 1989.40 Cfr. C. Pellizzi, Dell’aristocrazia fascista, “Dottrina fascista”, die. 1941 e sempre di Pellizzi, Il partito educato­re, Roma, 1941. Pellizzi, all’epoca ispettore del partito e da tempo deluso, a suo dire, dagli sviluppi corporativi, si fa portavoce della corrente favorevole al rafforzamento del partito nei confronti della classe dirigente tecnica (cioè, nel linguaggio del tempo, corporativa), sostenitore di una aristocrazia erede di una tradizione politica e detentrice del comando politico. In questi saggi Pellizzi teorizza la coincidenza della funzione educativa e della funzione rap­presentativa: “Il partito unico è il principale educatore politico del popolo secondo le direttive del regime, ed è il più diretto rappresentante del sentimento popolare presso il Governo” (C. Pellizzi, Il partito educatore, cit.,

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loro rapporto con il Capo), ma una generale e globale “classe media” , resa uniforme da una standardizzazione di guadagno mensile, di abitazioni, orari, divertimenti, consumi. Un manuale molto diffuso di costruzioni po­polari, quello di A. Lamaro del 1941, aveva come titolo La casa per le masse e l ’ideologia fascista: le masse a cui l’autore pensava era­no i lavoratori delle braccia e del cervello de­stinati a costruire “la classe media del fasci­smo, che si accrescerà con lento travaglio si­no ad accogliere in un’epoca futura difficil­mente precisabile la enorme maggioranza della popolazione”41. Classe media e masse sono a questo punto sinonimi, entrambe de­finite dall’uniformità dei costumi e dall’inca- pacità di scegliere rappresentanti in quanto, entrambe, bisognose di educatori.

La piccola borghesia, con la sua valenza tutta politico-culturale, esce di scena, una scena occupata da sostanziose classi medie in cerca di protezione economica e istitu­zionale: allorché il volto prevalente del fa­scismo è quello del ristagno e della guerra, la proletarizzazione delle classi medie non è una minaccia ma una realtà. E tale resterà anche nei decenni successivi, almeno fino al momento in cui il ciclo della crescita eco­nomica fondata su inflazione e beni di con­sumo, unitamente all’aumento di scolariz­zazione e di mobilità geografica e sociale, non tornerà a rendere attuale il tema della classe media, protagonista indiscussa, a questo punto, dei regimi politici democrati­ci. È all’interno di questi sviluppi che si riaffaccia l’interesse per i ceti medi e per la

loro particolare collocazione nella storia italiana. Quanto, si chiedono gli storici, di questa vicenda è specifico del nostro paese? Quanto invece è riconducibile a sviluppi analoghi in tutti i paesi occidentali?

Cinquant’anni dopo: due scuole storiogra­fiche?

Come già enunciato nella premessa, è mia im­pressione che le interpretazioni secondo cui il fascismo sarebbe un fenomeno specifico (an­zi, “tipico”) del nostro paese, da distinguersi da ogni altro caso di coevo o successivo regi­me fascistico, trovino il loro fondamento proprio nella rilevata esistenza in Italia di un nucleo sociale altrettanto peculiare e tipico, la “piccola borghesia” , definita in termini culturali o politici, che avrebbe nutrito e ali­mentato il fascismo nazionale: quel misto di retorica umanistica e aspirazioni tecnocrati- che, sovversivismo di piazza e “apoliticismo” (nel senso di antistatalismo, mancato domi­nio della Legge) che anche autori come Gramsci, Salvemini, Tilgher, oltre ad in­fluenti osservatori internazionali (come Churchill), vedevano ben impersonato nel primo movimento fascista42.

Sul piano storiografico, si tratta di una scuola di pensiero che, a partire dal suo, chia­miamolo così, “profeta” Salvatorelli, ha tro­vato in seguito i suoi frequentatori privilegia­ti soprattutto negli studiosi orientati a con­siderare l’ascesa del fascismo/nazismo co­me evento “rivelatore” dell’intera storia precedente e la Politica, la cultura politica,

p. 13). Nel 1946 Pellizzi traduce e pubblica The managerial Revolution di James Bumham riscontrando nel 1949 (Una rivoluzione mancata, cit.) affinità tra la polemica sindacalista di Fontanelli e il carattere tecnico-gerarchico au­spicato da Burnham (cfr. C. Pellizzi, La tecnica come classe dirigente. Le idee di James Burnham, The Managerial Revolution (1940). Le tesi di Luigi Fontanelli. Logica delle Corporazioni (1934), Roma, Lib. Frattina, s.d.ma 1969).

Anche su questo punto rinvio al mio L ’inutile salotto. L ’abitazione piccolo-borghese nell’Italia fascista, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.42 Cfr. R. De Felice, Il fascismo. Le interpretazioni, cit., p. 5; cfr. anche, per una recente messa a punto del dibat­tito Luca Baldissara, Vecchi e nuovi ceti medi nella storiografia sul fascismo italiano, in M. Salvati (a cura di) Per una storia comparata del municipalismo e delle scienze sociali, Bologna, Clueb, 1993; B. Groppo, Classe moyennes et fascisme italien: réflexions et analyses des contemporains, in H. Moller, R. Raulet, A. Wirsching, Gefahrdete Mini?, cit., pp. 19-34.

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quale principio ordinatore della società (il ca­poscuola internazionale essendo George Mosse). Si tratta, nel caso italiano, in primo luogo di Renzo De Felice, che, come già ri­cordato, alla metà degli anni sessanta poneva con forza il nesso ceti medi — crisi politica — fascismo. Questo filone di pensiero ha poi trovato singole e originali applicazioni in stu­di rivolti al rapporto elettorale della piccola borghesia col primo fascismo e alle soluzioni “politiche” della crisi istituzionale avanzate dal regime43.

Ciò che costituisce l’interesse di questi stu­di, ripeto, è la rilevazione della presenza nel nostro paese di un atteggiamento di tipo par­ticolare, di una “cultura” politica particolare (la cetimedietà) che contraddistingue i ceti medi, ma non solo. Salvatorelli, come sappia­mo, colpisce nel segno nel descrivere questo atteggiamento e la sua crucialità nel favorire l’ascesa del fascismo, anche se si trova poi in difficoltà quando deve rispondere alle obie­zioni di G. Ansaldo circa la diffusione di que­sto atteggiamento nei concreti ceti medi del tempo (come mai il fascismo trova i suoi primi e più convinti sostenitori nelle regioni e nei set­tori meno contraddistinti dalla presenza della piccola borghesia umanistica?). Eppure Salva­torelli aveva ragione: il fatto è che, come rile­vava Gramsci nella citata relazione al comita­

to centrale del Partito comunista del 1924, in Italia, la piccola borghesia era una classe non solo numerosa, ma anche la sola classe “terri­torialmente nazionale” , perché unificata da una cultura e da una collocazione politica più che da una funzione economica44. Come si è visto nel primo “scenario”, l’atteggiamento di distacco dalle istituzioni — di rigetto glo­bale della Legge, di “apoliticismo” ancora nel senso gramsciano45, di nazionalismo anti­statale — impersonato dalla piccola borghe­sia di cultura umanistica (o meglio dalle sue aspettative, frustrazioni, paure) rappresenta­va davvero il tratto tipico, costante e nazio­nale, della popolazione media italiana.

Quanto alla storiografia, si noterà come nel complesso in anni recenti questa endiadi fasci­smo e piccola borghesia sia sfumata in una va­lorizzazione dei caratteri piccolo borghesi del­la cultura fascista globalmente intesa, perden­do di vista l’individuazione, che alle origini esisteva, di un nucleo politico preciso (e del suo rapporto con le élite fasciste delle origini), nonché dei fenomeni di mobilitazione e di de­mobilitazione che l’avrebbero caratterizzato (ignorando in tal modo le sollecitazioni più in­teressanti dell’antologia defeliciana). Anche qui, al di là delle contrapposizioni di scuola, vale la pena di interrogarsi sulle cause di uno slittamento che non è certo solo semantico.

43 Tra questi rimane fondamentale il saggio di Jens Petersen, Elettorato e base sociale del fascismo negli anni ven­ti, “Studi storici”, 1975, n. 3, ma sviluppi collegabili all’interrogativo originario si trovano soprattutto in Emilio Gentile, Storia del partito fascista, 1919-1922, Roma-Bari, Laterza, 1989.44 A. Gramsci, La crisi delle classi medie, cit.45 “Questo carattere, naturalmente, è delle masse popolari, cioè delle classi subalterne. Negli strati superiori e do­minanti vi corrisponde un modo di pensare che si può dire ‘corporativo’, economico, di categoria. Una varietà di questo ‘apoliticismo’ popolare è il ‘pressappoco’ della fisionomia dei partiti tradizionali, il pressappoco dei pro­grammi e delle ideologie [...] Tra gli altri elementi che mostrano manifestamente questo apoliticismo sono da ricor­dare i tenaci residui di campanilismo e altre tendenze che di solito sono catalogate come manifestazioni del cosid­detto ‘spirito rissoso e fazioso’” (A. Gramsci, Apoliticismo, in Id., Sul fascismo, cit., p. 404). “Si osserva [...] che il popolo italiano è “individualista” [...] Ma questo ‘individualismo’ è proprio tale? Non partecipare attivamente alla vita collettiva, cioè alla vita statale (e ciò significa solo non partecipare a questa vita attraverso l’adesione ai partiti politici ‘regolari’), significa forse non essere ‘partigiani’, non appartenere a nessun gruppo costituito? [...]. Niente affatto. Significa che al partito politico e al sindacato economico ‘moderni’, come cioè sono stati elaborati dallo sviluppo delle forze produttive più progressive, si ‘preferiscono’ forme organizzate di altro tipo, e precisa- mente del tipo ‘malavita’; quindi le cricche, le camorre, le mafie, sia popolari sia legate alle classi alte” (A. Gram­sci, Caratteri italiani, in Id., Sul fascismo, cit., p. 402).

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L’altra direzione della storiografia, infatti, collegabile piuttosto al secondo “scenario” qui evocato, è quella che, volendo precisare innanzitutto l’epoca storica coincidente col fascismo, affronta il tema dei ceti medi in rap­porto a un più generale processo di moderniz­zazione economica e sociale e sullo sfondo dell’analogo e comparabile (al di là dei regimi politici) processo europeo. Quest’ultimo filo­ne è classicamente di pertinenza della storia sociale, o socio-istituzionale, nel migliore dei casi sintesi di approcci statistici e politico-isti­tuzionali: dunque, le condizioni e l’organiz­zazione dei diversi nuclei di ceti medi (possi­bilmente quantitativamente determinati e ter­ritorialmente delimitati) negli anni del regime fascista. Le ascendenze culturali non sono ne­cessariamente marxiste: se lo sono, si manife­sta comunque una tendenza, rispetto all’ipo­tesi originaria, a prendere molto più sul serio i ceti medi (che per il marxismo ortodosso era­no una specie di “aborto” sociale): il “moder­no” è accettato, anche se sotto forma di “nuova proletarizzazione”. Prevale in ogni caso l’attenzione al principio economico, an­ziché a quello politico-culturale, come base dell’ordine sociale; nei casi di più sensibile in­fluenza weberiana, poi, il principio economi­co si intreccia con quello istituzional-buro- cratico, rafforzandone l’approccio compara­tivo46. Non è un caso del resto che sia og­gi possibile collegare questo indirizzo storio­grafico a una produzione di ricerca relativa

al ruolo della borghesia in età liberale, in ge­nerale fortemente motivata da interrogativi di origine ideal-tipica e comparativa47.

È un approccio particolarmente influente nel campo specifico della storiografia dei ce­ti medi per la sua, in realtà solo apparente, chiarezza interpretativa e che continua a ispirare una ricerca puntuale e ancora ben lontana dalla completezza: qui è d’obbligo citare il saggio di Gabriele Turi del 1987 che, riprendendo un nobile filone di studi ri­salente per lo meno a Paolo Sylos Labini, auspica ricerche mirate sulle singole catego­rie, nel mentre avanza un’ipotesi interpreta­tiva globale sul nesso ceti medi — regime fa­scista48. Nella stessa linea si colloca un risve­glio recente di studi imperniati su singole si­tuazioni locali volti a esaminare l’impatto o gli intrecci che nella lunga durata il regime fascista stabilisce con le stratificazioni socia­li esistenti49.

Quanto si vorrebbe qui evidenziare è che entrambi i filoni (quello “culturale”, tenden­zialmente nazionale, e quello “sociale” , cate­goriale o locale) hanno numerose frecce al loro arco, anche se si collocano su piani di­versi: è infatti storicamente avvenuto che, nel mentre il paese accoglieva e si adattava al regime fascista, scorresse simultaneo anche il processo di modernizzazione e che cultural­mente e socialmente si rendesse necessario un travaso dall’una all’altra categoria analitica, da “piccola borghesia” a “ceti medi”. Come

46 L’approccio comparato alle modificazioni istituzionali intervenute in regime fascista è particolarmente evidente — su due diversi versanti di studio (la burocrazia e il partito) — in G. Melis, Due modelli di amministrazione tra li­beralismo e fascismo, Burocrazie tradizionali e nuovi apparati, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale dei beni archivistici, 1988 e in Paolo Pombeni, Demagogia e tirannide. Uno studio sulla forma par­tito del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1984 e E. Gentile, La natura e la storia del partito nazionale fascista nelle in­terpretazioni dei contemporanei e degli storici, “Storia contemporanea”, 1985, n. 3.

Esemplare della stretta collaborazione esistente con la parallela storia sociale tedesca in questo campo è la pre­senza dei saggi di R. Romanelli e di Marco Meriggi nel volume curato da J. Kocka, Borghesie europee dell’Otto­cento, Venezia, Marsilio, 1989.

La tesi è quella del progressivo svuotamento, nel corso del ventennio, degli ordini professionali a favore dei sin­dacati, con conseguente parallela perdita di consenso per il regime da parte dei professionisti (cfr. Gabriele Turi, La presenza del fascismo e le professioni liberali, in Nanda T orcellan (a cura di), Cultura e società negli anni del fa ­scismo, cit., ma si vedano in questo volume, tra gli altri, i saggi sulle singole professioni o categorie di M. Palla, Mario Isnenghi, D. Preti, Marco Soresina).

Introducendo i brani antologizzati per illustrare il giudizio storico sul fascismo, già nel 1969 R. De Felice (Le

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risultato, le dicotomie concettuali tipiche delle due scuole (cultura o economia, politica o istituzioni, opinione pubblica o classe) ten­dono oggi a integrarsi, piuttosto che a op­porsi. Non si può negare infatti che il comu­ne ricorso negli ultimi anni al paradigma del­la modernizzazione consenta ormai, da un lato un’attenzione simultanea ai fenomeni economici e a quelli politico-istituzionali (avendo in mente piuttosto il rapporto citta- dino-Stato globalmente inteso, così come del resto era già presente nelle opere di Ferrari, Schneider, Trentin), dall’altro, uno sguardo volto a cogliere le specificità nazionali in un quadro di comparazione internazionale, do­minato sì dalla presenza del fascismo ma an­che dalla “sfida” modernizzante.

Una ulteriore specificazione potrebbe ri­guardare, semmai, il favore offerto dall’una o dall’altra scuola storiografica alla catego­ria di nazionalizzazione, attraverso la quale sembra recuperabile anche quella di piccola borghesia, data la sua valenza, qui più volte sottolineata, eminentemente politico cultura­le. Questo significa che, collocata sullo sfon­do della storia dell’Italia postunitaria, la pic­cola borghesia umanistica, dopo aver rappre­sentato nella crisi del primo dopoguerra il

volto negativo di una borghesia che avrebbe voluto diventare élite senza riuscirci, dopo es­sersi trasformata in massa inquadrata al ser­vizio del Capo, assume, nel secondo dopo­guerra, sotto la veste pluralistica di “ceti me­di” , un ruolo positivo nel processo di omolo­gazione dell’opinione pubblica nazionale e di costruzione della cittadinanza.

Per concludere, ciò che appare significati­vo, nella vicenda del fascismo italiano, come già osservava Schneider, è la compresenza di modernità e tradizione, di contenuti da società agricolo-notabilare ottocentesca (folclore, ar­tigianato, piccolo commercio, battaglia del grano) e di forme organizzative da società in­dustrializzata e politicizzata (parastato, parti­to). L’effetto netto di questa vicenda è stato che, caduto il fascismo, e rinnovate, talvolta, le forme, i contenuti sono rimasti. Se la forma piccola borghesia ha perso nella nuova società a dominanza di mercato, la forma ceti medi ha vinto, ma conservando ancora, sotto le mo­derne apparenze, molti contenuti piccolo bor­ghesi (quali il rigetto della norma legale, la di­stanza dalle istituzioni pubbliche): non li ve­diamo infatti ricomparire ad ogni seria crisi dello Stato nazionale?

Mariuccia Salvati

interpretazioni del fascismo, cit., pp. 388-389) “lamentava” la tendenza monografica e analitica dei nuovi studi, che rischiava a suo avviso di esagerare le differenze tra i vari fascismi, fino a far dimenticare “il minimo comun de­nominatore” effettivamente esistito tra le due guerre mondiali tra i diversi fenomeni fascisti nazionali. Solo più tar­di, da un lato lo stesso De Felice, addentrandosi nelle minute ricerche sul caso italiano, sarebbe incorso nello stesso “errore” qui denunciato di sottovalutazione del minimo comun denominatore del fascismo europeo, dall’altro la tendenza monografica della storiografia si sarebbe più chiaramente collegata alla categoria di modernizzazione, as­sumendo — come si spiega nel testo — una nuova e più articolata valenza interpretativa (comparatismo, rapporto tra fascismo e realtà prefascista, attenzione ai fenomeni economici e politico-istituzionali, ecc.). Per una rassegna degli aspetti politici, sociali, economici della storiografia locale sul fascismo, si vedano Nicola Gallerano, Le ricer­che locali sul fascismo-, M. Palla, La presenza del fascismo. Geografia e storia quantitative-, P. P. D ’Attorre, Aspetti economici e territoriali de! rapporto centro/periferia, “Italia contemporanea”, n. 184, 1991.

Mariuccia Salvati insegna Storia dei partiti e dei movimenti sindacali presso l’Università degli studi di Bologna. Pubblicazioni recenti: Il regime e gli impiegati. La nazionalizzazione piccolo-borghese nel ventennio fascista (Roma-Bari, Laterza, 1992); L ’inutile salotto. L ’abitazione piccolo-borghese nell’I­talia fascista (Torino, Bollati Boringhieri, 1993). Di imminente pubblicazione: Alla ricerca di un nuo­vo equilibrio. Amministrazione pubblica, partiti e industria nella ricostruzione economica, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. I (Torino, Einaudi, 1994).