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RECENSIONI G aetano S alvemini, Scritti sul fascismo (vol. I), Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 677, L. 4800. Se non ci fosse un Salvemini, biso- gnerebbe certo inventarlo. A questa po- sitiva conclusione si finisce inevitabil- mente per approdare ogni volta che del- lo storico pugliese si leggono gli scritti, tanto è l’interesse che essi sempre su- scitano, mai disgiunto dalla profonda le- zione di coscienza etica e di onestà in- tellettuale che in essi si può costante- mente ritrovare. Non fa naturalmente eccezione que- sto primo volume di Scritti sul fascismo che Roberto Vivarelli ha curato nell’am- bito della felice iniziativa editoriale vol- ta a dare alle stampe l’intera produzio- ne salveminiana : anzi mai come qui, forse, sullo storico in senso stretto — inteso cioè come colui che, con ope- ra di storia, vuole fare « un’opera mossa da interessi più mediati e indirizzata a fini meno contingenti, nel cui giudizio complessivo sia possibile mantenere un distacco maggiore » — prevale il mae- stro di etica, nella sua lucida intransi- gente condanna del fascismo. Condanna che però, prima ancora che dalla sal- dezza delle convinzioni e dalla forza dei principi, scaturisce irresistibile dalla lo- gica del buon senso e dallo svolgimento dei fatti così come ce li presenta il Sal- vemini, sorretti cioè dal costante con- tributo di una documentazione la più ampia e la più obiettiva possibile, e dalla pacatezza del ragionamento di chi non si accontenta di vincere ma so- prattutto mira a convincere. Ecco, in fondo, svelato il segreto di quel famoso realismo salveminiano che, essendo svin- colato dalla rigida sudditanza a qualsiasi arido schema precostituito, anzi proprio per questo, riesce particolarmente a farsi valere in modo tanto positivo quanto più controversa appare la materia di- battuta. E’ appunto il caso del fascismo, la cui nascita e il cui avvento al potere — svolta decisiva della nostra storia — hanno fin qui logicamente costituito e ancora costituiscono motivo di attenta analisi e insieme oggetto di aspra con- tesa, con il risultato che la passione di parte spesso prende il sopravvento su una più equilibrata visione degli eventi che tenga necessariamente conto di una molteplicità di elementi e di circostanze. Inutile sottolineare che per il Salve- mini il problema non si pone affatto, tale è l’assoluto predominio dello stori- co, o quanto meno — come nel primo saggio del presente volume, La ditta- tura fascista in Italia, originalmente scritto per il pubblico anglosassone nel- l’esclusivo polemico intento di ribattere con prove inoppugnabili le menzogne e le falsificazioni che il noto propagan- dista del regime Luigi Villari, figlio del celebre storico Pasquale, aveva diffuso con il suo libro The Awakening of Italy — del cronistorico e del narratore documentato, sul partigiano fazioso (da non confondersi però con lo studioso moralmente impegnato). Ciò gli permette, ad esempio, di ri- conoscere tranquillamente le gravi re- sponsabilità dei socialisti nel preparare il clima in cui maturò e prosperò la vio- lenza fascista — in modo particolare dei massimalisti, che egli accusa di « men- talità infantile » perchè convinti che « tutto ciò che veniva ad indebolire il Parlamento, istituto del mondo capita- listico, affrettava il crollo totale di quel mondo » —, ma al tempo stesso, e quin- di con ancora maggiore autorevolezza, di denunciare altrettanto implacabilmen- te le colpevoli connivenze delle autorità militari (un intero capitolo delle sue Le- zioni di Harvard vi dedica il Salvemini), delle forze di polizia, del potere giudi- ziario, in una parola della classe diri- gente, dove si distinsero, nell’assidua opera di più o meno aperto e diretto favoreggiamento del regime, gli stessi presidenti del Consiglio Giolitti e Bo- nomi, per tacere di Facta, il Romolo Augustolo dell’Italia liberale ovvero — nota il Salvemini con impietosa cru- dezza — « uno dei maggiori idioti di tutti i tempi e di tutti i paesi ». Non è questo naturalmente il solo drastico giudizio dello storico pugliese : Vittorio Emanuele III, ad esempio, dopo il 3 gennaio 1925, diventa « le roi fai- néant » ossia « l'ultimo dei Merovingi », mentre il Gabriele d’Annunzio delle « giornate radiose », « questo dilettante di sadiche emozioni », è un uomo mo- ralmente tarato i cui scritti di quegli anni « fanno pensare ai sogni di gloria, di ricchezza, di sangue e di concupi- scenza di un cameriere ». Brevi squarci, in realtà, seppur sfol- goranti di vis polemica, di un più vasto

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Gaetano Salvemini, Scritti sul fascismo(vol. I), Milano, Feltrinelli, 1961,pp. 677, L . 4800.

Se non ci fosse un Salvemini, biso- gnerebbe certo inventarlo. A questa po­sitiva conclusione si finisce inevitabil­mente per approdare ogni volta che del­lo storico pugliese si leggono gli scritti, tanto è l ’ interesse che essi sempre su­scitano, mai disgiunto dalla profonda le­zione di coscienza etica e di onestà in­tellettuale che in essi si può costante- mente ritrovare.

Non fa naturalmente eccezione que­sto primo volume di Scritti sul fascismo che Roberto Vivarelli ha curato nell’am­bito della felice iniziativa editoriale vol­ta a dare alle stampe l’ intera produzio­ne salveminiana : anzi mai come qui,forse, sullo storico in senso stretto— inteso cioè come colui che, con ope­ra di storia, vuole fare « un’opera mossa da interessi più mediati e indirizzata a fini meno contingenti, nel cui giudiziocomplessivo sia possibile mantenere un distacco maggiore » — prevale il mae­stro di etica, nella sua lucida intransi­gente condanna del fascismo. Condanna che però, prima ancora che dalla sal­dezza delle convinzioni e dalla forza dei principi, scaturisce irresistibile dalla lo­gica del buon senso e dallo svolgimento dei fatti così come ce li presenta il Sal­vemini, sorretti cioè dal costante con­tributo di una documentazione la più ampia e la più obiettiva possibile, e dalla pacatezza del ragionamento di chi non si accontenta di vincere ma so­prattutto mira a convincere. Ecco, in fondo, svelato il segreto di quel famoso realismo salveminiano che, essendo svin­colato dalla rigida sudditanza a qualsiasi arido schema precostituito, anzi proprio per questo, riesce particolarmente a farsi valere in modo tanto positivo quanto più controversa appare la materia di­battuta.

E ’ appunto il caso del fascismo, la cui nascita e il cui avvento al potere— svolta decisiva della nostra storia — hanno fin qui logicamente costituito e ancora costituiscono motivo di attenta analisi e insieme oggetto di aspra con­tesa, con il risultato che la passione di parte spesso prende il sopravvento su una più equilibrata visione degli eventi che tenga necessariamente conto di una molteplicità di elementi e di circostanze.

Inutile sottolineare che per il Salve- mini il problema non si pone affatto, tale è l ’assoluto predominio dello stori­co, o quanto meno — come nel primo saggio del presente volume, La ditta­tura fascista in Italia, originalmente scritto per il pubblico anglosassone nel­l’esclusivo polemico intento di ribattere con prove inoppugnabili le menzogne e le falsificazioni che il noto propagan­dista del regime Luigi Villari, figlio del celebre storico Pasquale, aveva diffuso con il suo libro The Awakening of Italy — del cronistorico e del narratore documentato, sul partigiano fazioso (da non confondersi però con lo studioso moralmente impegnato).

Ciò gli permette, ad esempio, di ri­conoscere tranquillamente le gravi re­sponsabilità dei socialisti nel preparare il clima in cui maturò e prosperò la vio­lenza fascista — in modo particolare dei massimalisti, che egli accusa di « men­talità infantile » perchè convinti che « tutto ciò che veniva ad indebolire il Parlamento, istituto del mondo capita­listico, affrettava il crollo totale di quel mondo » — , ma al tempo stesso, e quin­di con ancora maggiore autorevolezza, di denunciare altrettanto implacabilmen­te le colpevoli connivenze delle autorità militari (un intero capitolo delle sue L e­zioni di Harvard vi dedica il Salvemini), delle forze di polizia, del potere giudi­ziario, in una parola della classe diri­gente, dove si distinsero, nell’assidua opera di più o meno aperto e diretto favoreggiamento del regime, gli stessi presidenti del Consiglio Giolitti e Bo- nomi, per tacere di Facta, il Romolo Augustolo dell’Italia liberale ovvero — nota il Salvemini con impietosa cru­dezza — « uno dei maggiori idioti di tutti i tempi e di tutti i paesi ».

Non è questo naturalmente il solo drastico giudizio dello storico pugliese : Vittorio Emanuele III, ad esempio, dopo il 3 gennaio 1925, diventa « le roi fai­néant » ossia « l'ultimo dei Merovingi », mentre il Gabriele d’Annunzio delle « giornate radiose », « questo dilettante di sadiche emozioni », è un uomo mo­ralmente tarato i cui scritti di quegli anni « fanno pensare ai sogni di gloria, di ricchezza, di sangue e di concupi­scenza di un cameriere ».

Brevi squarci, in realtà, seppur sfol­goranti di vis polemica, di un più vasto

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affresco destinato a inchiodare il fasci­smo alla propria colpevolezza con tutto il suo carico di violenze e sopraffazioni, di lutti e rovine: fondamentali a que­sto proposito risultano soprattutto tre capitoli della Dittatura fascista —• in particolare quello dedicato al delitto Matteotti — , dove l’ agile e brillante narrazione salveminiana cede il passo a una semplice e magari arida (ma quanto drammatica!) elencazione di fatti dolo­rosi e dei loro responsabili (qualcuno tuttora vivente e tranquillamente in li­bertà come il famigerato torinese Piero Brandimarte, o da poco defunto come il non meno famigerato fiorentino Arco- novaldo Bonaccorsi), che tuttavia rap­presenta il più schiacciante atto d’accu­sa nei confronti del fascismo, del suo capo, dei suoi accoliti, e (perchè no?) di quanti, più o meno conniventi, col- laborarono all’instaurazione della ditta­tura. La quale — e il Salvemini giusta­mente mette in rilievo questa sacrosanta « verità storica » — « non significò af­fatto la medicina contro la malattia bol­scevica », ma « fu una nuova ed ancor più terrificante malattia — la guerra ci­vile — che si sostituì all’esaltazione rivoluzionaria, quando questa volgeva già al tramonto; o era piuttosto una fase nuova ed ancor più terrificante di quella stessa malattia di cui più o meno soffrivano tutti i paesi: la nevrasteniadel dopoguerra ».

Ovvero un mito — il fascismo sal­vatore di un’Italia fatalmente destinata alla bolscevizzazione — distrutto com­pletamente, e sulle rovine una grande indimenticabile lezione storica di impe­gno civile e di ammaestramento mo­rale: un’eredità preziosa alla quale non sarà inutile, ma anzi necessario, ri­farci nella costante difesa di quegli ideali di libertà che sempre furono in cima ai pensieri e alle preoccupazioni di Gaetano Salvemini.

G iorgio G ualerzi.

David T . Cattell, I comunisti e laguerra civile spagnola. Milano, Fel­trinelli, 1962, pp. X-329, L . 3000.

David Treadwell Cattell è un gio­vane americano, autore di due opere sulla guerra civile spagnola (Communism and the Spanish Civil War, Berkeley Los Angeles, University of California Press, 1955; Soviet Diplomacy and the Spanish Civil War, Berkeley, Los An­

geles, University of California Press, Ï957), che hanno acquistato in breve tempo un posto di primo piano tra la letteratura anglosassone sull’argomento. La prima delle due (si annuncia anche la prossima pubblicazione del volume sulla diplomazio sovietica) ci viene ora presentata in una buona traduzione dal­l’editore Feltrinelli.

Il Cattell affronta, per la prima volta sul piano storiografico, il problema del­l’azione comunista in Spagna nel pe­riodo 1936-1939, e si avventura brava­mente su una specie di campo minato, con risultati tutto sommato non disprez­zabili. Infatti, se i criteri generali cui l'opera è ispirata e la sua impostazione metodologica possono prestarsi a più d'una critica, è comunque doveroso ri­conoscere l'onestà del ricercatore, la sua scrupolosità, l’ assenza di prevenzioni, anche là dove, per mancanza di dati certi, egli è costretto a procedere per via di ipotesi, o addirittura a tentoni.

11 merito maggiore dell’opera del Cattel è il frutto delle sue doti di ri­cercatore: il puro lavoro sul documento e l’accurata ricostruzione del fatto por­tano quasi sempre a risultati accetta­bili nelle loro linee essenziali e permet­tono tra l'altro all’autore di eliminare una volta per tutte i numerosi elementi spuri, che con tenacia ancora resistono (quando non prosperano) quasi in ra­gione della loro banalità. Così il pre­sunto tentativo di colpo di stato comu­nista prima del luglio 1936, le manovre del Comintern, i brogli delle sinistre alle elezioni di febbraio o l’ alibi fasci­sta del pericolo bolscevico da affrontare nel nome della civiltà occidentale, dei valori cristiani, ecc. E ’ vero che non mancano le ingenuità e le annotazioni affrettate (si afferma, ad esempio, che nel 1932 Andrés Nin e Joaquin Maurfn abbandonarono il partito comunista «non essendo riusciti ad ottenere dal Comin­tern un atteggiamento più liberale, che consentisse loro maggiore libertà di azione »), ma i veri difetti del lavoro del Cattell ci sembrano altri; potremmo dire una non completa e maturata co­noscenza della storia e dei problemi del movimento operaio europeo.

All'inizio del volume si afferma che la guerra spagnola « fu innanzi tutto provocata dall’esplosione dei numerosi conflitti interni, che si erano andati ac­cumulando da anni, piuttosto che dalla manovra di una potenza straniera »; e

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il giudizio è indubbiamente esatto. Ma, se la guerra è da considerarsi come la conclusione inevitabile di una profonda crisi sociale, possiamo avanzare parecchi dubbi sulle possibilità di riuscita di una analisi storica che, intendendo prendere in esame l’azione dei comunisti, la ri­duca ad un puro fenomeno di tattica politica. Il Cattell si rende parzialmente conto di ciò e scrive della impossibilità di « isolare l’azione dei comunisti dalla complicata rete dei loro rapporti con gli altri gruppi della Spagna repubblicana », affermando che tale separazione avreb­be dato soltanto una « mezza verità non priva di distorsioni »; ma Ja completezza cui egli aspira è da intendersi in senso tutto esteriore e meccanico. E ’ evidente che non si possono fare considerazioni sulla politica di un partito senza tener conto dei suoi rapporti con gli altri par­titi, ma pensiamo che in primo luogo si dovrebbe parlare della « rete dei rap­porti » tra i partiti stessi e la mutevole realtà del paese, problema questo al quale il precedente è necessariamente subordinato.

In questo modo, tutta la prima parte del volume, quella che tratta delle par­ticolarità economiche e sociali della si­tuazione spagnola e delle forme di lotta delle organizzazioni e dei partiti operai, viene ridotta ad un semplice riassunto introduttivo, mentre, a nostro parere, avrebbe dovuto inevitabilmente essere l’ impostazione generale di una proble­matica che non può in nessun caso es­sere trascurata se non si vuole limitare lo studio sul comuniSmo alla pura ana­lisi di atti politici considerati a se; la problematica cioè relativa ai rapporti tra le organizzazioni socialiste e la ancor primitiva situazione delle campagne, alle tradizioni della jacquerie contadina, alle espressioni sociali di un capitalismo po­co evoluto, alle caratteristiche del fa­scismo agrario e ai tentativi di rottura operate dalle moderne forme di lotta del partito comunista (con tutte le eventuali limitazioni di cui, in un paese come la Spagna, lo stesso comuniSmo poteva ri­sentire).

Fuori da questa prospettiva i giudizi non possono che essere incerti ed ap­prossimativi, a volte del tutto inaccet­tabili. Ad esempio, quando si afferma: " A causa del basso livello di vita che rasentava la fame, non c’è da meravi­gliarsi che i.I proletariato ed j contadini ricorressero alla violenza e aderissero

volentieri a quegli schemi utopistici, co­me l’anarchismo, che promettevano la libertà e l'equiparazione delle enormi differenze tra loro e i proprietari ». Con questo si potrebbe essere indotti a cre­dere che gli « schemi utopistici » siano il prodotto delle società « a basso livello di vita » o a spiegare l ’anarchismo sem­plicemente con la fame. Con simili sbri­gative definizioni non si possono spie­gare dei fenomeni sociali (come l’anar­chismo spagnolo) che devono essere in­vece valutati in tutta la loro portata se si vuole rendere intellegibile qualsiasi discorso sulla vita politica del paese, an­che se tale discorso riguarda soltanto i socialdemocratici, i comunisti o i car- listi.

In questo senso ij Cattel ci sembra incapace di cogliere nella loro pienezza tutti i rapporti esistenti tra il grado di sviluppo economico e sociale di un pae­se e le forme della lotta politica : l’a­zione di un partito operaio sembra per lui chiusa entro un’alternativa ferrea, il riformismo o Ja guerra civile, ma sia nell’un caso che nell’ altro i complessi fattori che in tali forme trovano espres­sione politica non sono per nulla consi­derati. Certe valutazioni non possono quindi che lasciare perplessi, come quan­do, parlando dei socialisti, egli scrive: « la U. G. T ., insieme ai sindacati cat­tolici, era forte anche nei centri indu­striali del nord, poiché faceva una po­litica moderata e non ricorreva a me­todi terroristici »; affermando poi, nelle righe seguenti: « ma la moderazione e il parlamentarismo non potevano anda­re molto lontano in un paese come la Spagna dove le elezioni erano control­late da un sistema di caciques, ossia di caporioni politici, e dove la violenza era legge. Di conseguenza, il program­ma moderato dei socialisti che tentavano di seguire la strada della democrazia in una situazione rivoluzionaria allontanò molti lavoratori spingendoli nelle brac­cia degli anarchici ». Frasi che si per­dono in un labirinto di affermazioni contradditorie e che rivelano con molta chiarezza la mancata penetrazione dei problemi fondamentali.

Un altro problema che non ci sem­bra sia stato trattato in maniera ade­guata è quello costituito dalla politica dei fronti popolari (che determina diret­tamente l’azione dei comunisti in Spa­gna).

Secondo il Cattell, l’ interpretazione

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della situazione europea elaborata dal VII Congresso dell’Internazionale avreb­be condotto a stabilire che « era stata la debole politica borghese della social- democrazia e la inefficienza dei comu­nisti » a permettere l’avvento del fasci­smo; e che quindi, « per ritorcere la si­tuazione contro il fascismo », era neces­sario « incrementare la forza e l’ influen­za dei comunisti attraverso la collabo- razione con altri gruppi proletari ». In conclusione, il Congresso avrebbe pro­posto alle sezioni dell’ Internazionale un « nuovo schema d’azione » per prepa­rare la rivoluzione e la dittatura del pro­letariato: « Il programma stabiliva det­tagliatamente le tappe da seguire: pri­mo, Fronte Unico; secondo, Fronte Po­polare; terzo, governo di Fronte Unico o di Fronte Popolare; quarto, unità sin­dacale e partito unico del proletariato ». Il Cattell avverte che il piano non era tuttavia da considerarsi come « qualcosa di rigido e di obbligato », ma semplice­mente come « uno schema del possibile sviluppo degli avvenimenti ».

Si perpetua in tal modo un errore, quello che consiste nel concepire l’ in­tera azione comunista semplicemente co­me una tattica, più o meno elasticamen­te applicata, mentre ci pare che la po­litica dei fronti popolari non potrebbe essere intesa nel suo giusto significato se non come un gigantesco sforzo, com­piuto tra tentennamenti ed errori, per costituire un rapporto più diretto ed immediato tra le masse e il partito: non una manovra, ma quasi il tentativo di una moderna interpretazione dello svi­luppo delle forze sociali, destinato ad informare l’ azione quotidiana dei comu­nisti per tutto un periodo storico. Così la guerra civile spagnola diventa un fe­nomeno scarsamente comprensibile se la si considera dal punto di vista degli im­mediati rapporti delle forze in presenza e non come Io sbocco di mezzo secolo di storia del movimento operaio eu­ropeo.

I limiti dell’opera risultano evidenti nella parte finale, quando il Cattel cer­ca, in verità con molte incertezze, di trarre delle conclusioni e non riesce a stabilire con precisione se gli obbiettivi dei comunisti consistessero nella realiz­zazione del « piano prestabilito », in una politica di resistenza ad oltranza al fascismo o nell’ appoggio della politica estera sovietica; mentre tutti questi ele­menti non dovrebbero essere conside­

rati a sè, ma visti in funzione della po­litica dei fronti popolari, cioè nel qua­dro di una visione nuova dei rapporti tra il proletariato e gli altri strati della società.

Pur con queste manchevolezze il la­voro del Cattell presenta, come abbia­mo detto, dei meriti incontestabili e sotto molti aspetti risulta per il momen­to insostituibile. La parte avuta dai co­munisti attraverso le varie fasi della evoluzione dello Stato repubblicano, la ricostruzione delle giornate del mag­gio 1937, la posizione del partito verso i problemi della ricostruzione dell’eser­cito o a proposito del dibattito sulla questione delle realizzazioni rivoluziona­rie, sono sempre il frutto di un’analisi sobria e precisa. E se lo sforzo del Cat­tell si fosse limitato a questo lavoro « analitico », il volume potrebbe di buon grado essere considerato un modello. Ma le intenzioni erano altre: quella di crea­re una sorta di tipologia della tattica comunista, quasi per servire a fini poli­tici immediati. Sorge spesso infatti nel lettore il sospetto che tutta l’opera sia il frutto di un'esigenza nascosta, e ma­gari inconfessata, quella di studiare il comuniSmo al solo scopo di poterlo me­glio combattere. Ma anche in questo caso, e pur tralasciando le riserve che sul piano storiografico si sogliono ad­durre in simili circostanze, non credia­mo si possano ottenere risultati sicuri riducendo complessi fenomeni sociali a semplici problemi di tattica politica.

G iorgio Rùvida.

Ignazio S ilone, La scuola dei dittatori,Milano, Mondadori, 1962, pp. 300,L . 2200.

La scuola dei dittatori non vorrebbe essere, come assunto, la storia di come andarono al potere Mussolini e Hitler, ma un compendio generale delle male arti, dispiegando le quali maestri di scuola e imbianchini, purché di buona stoffa, possono arrivare a racchiudere nelle loro mani la somma del potere. Di fatto, però, i riferimenti che qua e là si trovano a Lenin, Napoleone, Pie­tro il Grande e altri sono marginali e insufficienti a giustificare una teoria ge­nerale della dittatura, valida come tale anche in situazioni diverse da quelle dei grandi paesi dell’Europa occidentale nel­la prima metà del XX secolo. Diciamo della prima metà, e non perchè l’ azione

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del libro è supposta svolgersi nel 1939 (il che potrebbe essere un semplice espe­diente letterario), ma perchè gli elementi in esso addotti sono effettivamente in­sufficienti a spiegare il più importante e pericoloso dei fenomeni dittatoriali nella seconda metà del secolo, ossia la dittatura di De Gaulle, che è al tempo stesso molto più « classista » di quelle di Mussolini e di Hitler e, per altri aspetti, molto più nuova e inquietante.

In teoria, la parola dittatura dovreb­be indicare la pura forma di governo— ossia il potere personale di un uomo, o di un gruppo ristretto, che esercitano il potere senza controllo, se non pro­prio senza il consenso, dei governati — e prescindere da ogni implicazione rela­tiva alla concreta azione di governo che il supposto dittatore esercita. Ciò di cui si parla in questo libro dovrebbe valere sia per le dittature di destra che per quelle di sinistra, e persino per quella che l ’A . chiama, con apparente para­dosso, dittatura democratica, ossia « un totalitarismo di tipo giacobino, schietta­mente democratico nell’ ideale e antide­mocratico nel metodo, a causa delle con­dizioni arretrate delle masse » (p. 67); di fatto, l’A . sembra escludere la possi­bilità di una dittatura che non sia di destra, quando dice che « strada facen­do, il mezzo si sostituisce al fine» (p. 68).

In realtà, i protagonisti e quasi i soli personaggi dell’indagine finiscono con l’essere Mussolini e Hitler, ossia due dittatori di destra, di umile estrazione, di tendenze demagogiche, che svolgono la loro azione a partire da una situa­zione di base caratterizzata dalla pre­senza al potere di una borghesia mode­rata, già minacciata sul fianco da una robusta destra tradizionale e impegnata frontalmente da un partito rivoluzio­nario.

Partendo da questi dati di base, gli aspiranti dittatori riescono a conseguire il loro scopo adottando il programma della destra tradizionale e sottraendo, con l ’aiuto di circostanze eccezionali— guerra, per l’Italia; crisi economica, per la Germania — , parte delle sue na­turali milizie al partito rivoluzionario.

Diciamo subito che il Silone ci sem­bra aver colto un punto fondamentale, ossia che, malgrado il loro talento de­magogico, la loro organizzazione para- militare, gli errori degli avversari, nè Mussolini nè Hitler sarebbero comun­que riusciti ad andare al potere se coloro

cui istituzionalmente spettava il com­pito di difendere le istituzioni esistenti avessero avuto una minima volontà di resistere (si veda il capitolo: « Sui peri­coli dei complotti e delle rivolte senza l'appoggio della polizia e dell’esercito »). E su un altro punto ancora ci sem­bra che egli abbia colto nel segno, ed è quando osserva che i servitori dello Stato non avrebbero potuto assolvere così male il proprio compito se il po­polo che glielo aveva affidato non fosse stato, malgrado Je istituzioni ufficial­mente democratiche, psicologicamente preparato alla dittatura. Ma, su questo punto, ci sembra che egli abbia fatto male a mettere troppo in ridicolo il personaggio del prof. Pickup, che parla come Barrés e Gobineau e rappresenta, nel libro, il fascismo libresco, intinto di fisime aristocratiche e irrimediabil­mente inefficiente, in contrapposizione alla spregiudicata tattica demagogica del vero dittatore. Per che cosa crede Si- Ione che Mussolini montasse a cavallo e volasse, se non per la platea dei prof. Pickup e dei loro allievi, abbe­verati alle fonti immortali dell’esteti­smo? Certo, un prof. Pickup che cre­desse veramente alle scemenze che dice sarebbe più d'impiccio che d ’utilità a un aspirante dittatore che ne facesse il proprio consigliere; ma, per un’azione a lunga scadenza, un prof. Pickup ca­pace di far credere quelle cose agli altri è una manna per il regime.

Il lato più criticabile del libro, in compenso, ci sembra consistere nell’ a- ver pressoché per intero trascurato il carattere classista delle dittature consi­derate. E ’ vero che, secondo il suo as­sunto, il libro avrebbe dovuto fornire una chiave d ’interpretazione valida per tutte le dittature, e quindi anche per la dittatura del proletariato, o di chi la esercita in nome del proletariato, ma poiché, di fatto, si parla solo di Mus­solini e di Hitler, tanto varrebbe allora parlarne fino in fondo. Se questi ulti­mi, in linea di principio aperti a tutte le avventure, disposti a tutti i program­mi, di fatto trovarono da allearsi solo alle forze della destra tradizionale, non ci sembra che questo possa essere con­siderato un semplice fenomeno collate­rale. Se anche si può contestare che il fascismo sia stato solo la reazione ar­mata dei ceti industriali e agrari, come sostenne, allora, il Partito socialista, e come sostiene, oggi, la storiografia di

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ispirazione marxista, resta tuttavia da spiegare il fatto che industriali, agrari, clero ed esercito si accomodarono be­nissimo nella nuova situazione, e che la politica interna ed estera del fascismo fu tutta volta, guarda caso, a realizzare quei postulati che quei gruppi di pres­sione avevano sottoposti ai governi ita­liani del dopoguerra. Questo signfica, se non altro, che la dittatura come mez­zo di governo era meno incompatibile con gli interessi di quei gruppi di quan­to non lo fosse con quelli di altri grup­pi e di altre classi sociali.

Con tutto ciò, è un peccato che il libro si fermi al 1939. Perchè ad un’ana­lisi un po’ approfondita non può sfug­gire quanto, in definitiva, di peculiare e irripetibile vi fu nella dittatura di Mussolini e, più ancora, in quella di Hitler, mentre nuove forme di ditta­tura si insinuano nella nostra malferma democrazia. Per esempio, l’A . di que­sto libro cita, giustamente, fra le cause che diminuiscono la resistenza psicolo­gica dell’uomo della strada, il condizio­namento cui è sottoposto dalle moderne forme di propaganda, anche commer­ciale. Non si può dire, peraltro, che questi fenomeni fossero molto svilup­pati nell’ Italia del 1922, e nemmeno nella Germania di dieci anni dopo: è oggi che essi si manifestano a livello di massa. Anche il punto in cui si con­trappone l’ individualismo dell’operaio ot­tocentesco, psicologicamente ancora un artigiano, al livellamento dell’operaio nella grande industria moderna, è in certa misura contestabile. In realtà, si potrebbe anche sostenere che il fatto di riunire grandi masse di lavoratori in un solo luogo agisca invece in senso positivo, conferendo loro coscienza della propria forza e facilitandone l ’organiz­zazione, anche in senso rivoluzionario, e che, semmai, il pericolo della spoliti- cizzazione delle masse ricompaia proprio attraverso quell’altro modo di ricosti­tuire l’ isolamento che si ottiene attra­verso una disposizione urbanistica che rende difficile alle classi inferiori la vita associativa al di fuori delle ore di la­voro. Nei paesi più progrediti, l ’ope­raio passa la sera a tu per tu con la televisione, che è l’occhio e la voce del governo. Infine, non bisogna dimenti­care che nessuna delle condizioni di estremo disagio — la guerra, la mise­ria — che caratterizzavano l’ Italia e la Germania alla vigilia della loro trasfor­

mazione in dittature si verifica, per esempio, nella Francia d ’oggi, allo stes­so modo che due dittatori — Franco e Salazar — sono riusciti fino ad oggi, e niente lascia credere che non possano farlo in perpetuo, ad evitare lo scoglio su cui un tempo sembrava dover neces­sariamente finire ogni dittatura, e cioè la guerra. Se, dunque, per certi versi l’esperienza di Mussolini e di Hitler non può essere trasportata di peso nel mon­do di oggi, riacquistano invece valore certi elementi tradizionali della dittatu­ra, cui Mussolini e Hitler in parte sfug­givano. De Gaulle è molto più « uomo del destino » di quanto lo sia mai stato alcun altro dittatore degli ultimi cin­quantanni, tanto più che, a differenza, del dittatore ipotizzato e in parte ridi­colizzato da Silone, le cui imprese al servizio della patria erano sempre, o almeno in gran parte, inventate, la glo­ria di De Gaulle è reale. Nessuno po­trebbe dire di De Gaulle che è un av­venturiero; ma ciononostante egli è un dittatore, come lo erano Pietro il Gran­de e Luigi X IV, che pure erano nati sui gradini del trono. Se alcuni degli elementi che hanno caratterizzato le dit­tature degli anni tragici — la guerra, la fame, l ’odio di classe esasperato — vengono meno, è la dittatura pertanto si spoglia del suo alone sanguinoso, si perde la violenza e rimane la tirannia. II dittatore è diventato monarca; la bre­ve avventura wagneriana si dissolve: l’unico punto debole di tutta la faccen­da è che i re possono durare dei secoli.

A ldo G iobbio.

Franco C atalano, L ’Italia dalla ditta­tura alla democrazia 1919-1948, Le- rici editori, pp. XII-869, L . 5000.

Questa nuova poderosa fatica del Ca­talano si diversifica da quella di argo­mento analogo data recentemente in luce per i tipi dell’U T E T grazie a caratte­ristiche che l’A . stesso, in una introdu­zione affabilmente discorsiva (come lim­pida, modesta, direi candida, è sempre la presenza dello scrittore in queste pa­gine) si premura di chiarire. Esse sono essenzialmente due, lo svolgimento as­sai più largo dedicato agli avvenimenti posteriori al 1940 e la preminente at­tenzione rivolta agli elementi economici e sociali nel corso del quindicennio pre­cedente. Quest’ impostazione fa sì che l’opera del Catalano, facendo forza in

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parte — nè l’A . lo nasconde — alle stesse sue intime inclinazioni, si pro­spetti come un’analisi di rapporti e con­trasti di forze, con un rilevantissimo impegno politico, sempre però trasceso su piano prammatico, obiettivo, senza soverchia indulgenza per le suggestioni culturalistiche e dell’ interpretazione di costume. Su queste basi, gran parte del­la pubblicistica antifascista dell’emigra­zione, accentrata sulle note polemiche del tono, dello stile, del rigore, sulla traccia gobettiana, e dell’ Amendola « aventiniano » (e del Matteotti « go- bettiano ») risulta rapidamente sfuocata, priva d’un distinto e concreto contenuto politico, d'un peso valutabile con cer­tezza nel quadro d’una politica di po­tenza. E ’ proprio qui, ancora una volta, che la guerra di Spagna assume un ca­rattere decisivo di spartiacque, asse­gnando definitivamente all’antifascismo un suo ruolo internazionale schiettamen­te politico, che travalica di gran lunga le rissosità spesso inconcludenti dell’e­migrazione di Parigi, che toglie una volta per sempre agli esuli la qualità o il sospetto di rami secchi asportati dal grand’albero rigoglioso, per trascenderli ed inserirli in uno sfondo europeo e mondiale, in una prospettiva di potere, di società, di civiltà. In un certo senso, questo slargamento ed irrobustimento smisurato dell’ antifascismo, posteriore al suo momento di maggiore e più sterile depressione (ed immiserimento provin- cialesco) susseguente alla guerra etiopica, potrebbe richiamare alla mente la for­tuna dell’ alternativa democratica e re­pubblicana su piano europeo all’indo­mani del colpo di Stato buonapartista del 2 dicembre, anche qui dopo lo sfi­lacciato disgregamento e le recrimina­zioni del 1849. Nell’un caso come nel­l’ altro, in Mazzini come in Rosselli, al di là dei risultati immediati, conta la dignità nuova, il respiro nuovo che l’ e­migrazione italiana assume, a contatto operoso con le correnti più avanzate e consapevoli della politica europea, con gli esuli russi o con gli operai catalani, nelle pieghe stesse dell’azione di gover­no, a spronarla, a correggerla, a fornire ad essa obiettivi più vasti e più coscienti che non la mera tecnica diplomatica. In questo modo — ma soltanto allora — il fascismo diventa qualche cosa di più e di diverso che non un elemento del­l’equilibrio, del gioco di potenza, si po­ne come sottofondo comune, come so­strato accumulato da decenni di propa­

ganda, d ’incultura, di diseducazione po­litica, in buona parte della media opi­nione pubblica europea. Soltanto allora ogni Stato scopre in sè un proprio fa­scismo, e nasce la vocazione di limi­tarlo, di combatterlo: ed è una scoperta tragicamente feconda, non destinata cer­to ad esaurirsi tra le case diroccate della Berlino primavera 1945.

Giolitti, i socialisti, gli interventisti, campeggiano intanto, com’è naturale, al­l’ inizio della ricostruzione del Catalano. E si dovrà dare atto a lui di aver sotto- lineato con finezza la vocazione paci­fista, e non neutralista del socialismo italiano. Si tratta di due termini, l’uno assoluto e di principio, l'altro tattico e contingente, non scambiabili a volontà: l ’uno nega l'esistenza della guerra, l’al­tro si limita a negarne l’opportunità. Come tutte le dichiarazioni di fede, pe­raltro, il pacifismo reca in sè una gra­ve carenza politica : e su ciò vorreifermare l’attenzione. 11 pacifismo dei socialisti italiani, privo di sbocchi con­creti circa il disarmo o soltanto la distensione internazionale, si limita ad essere un atto del tutto individuale di moralismo umanitario, un'obiezione di coscienza, nella quale possono tranquil­lamente convergere uomini delle più disparate provenienze politiche : ilpremio Nobel per la pace è andato al radicale Moneta, ed il conservatore Bonghi è stato promotore instancabile di congressi per la pace. Il pacifismo, come ogni atto di fede, non si difende, diceva bene Mussolini all’inizio del Popolo d ’Italia, se non con argomenti assoluti: una crepa fa crollare l’ interoedificio : chi tutto ha negato si trovaa dover tutto concedere. Questo spiega lo stato di subordinazione politica in cui il socialismo italiano si trovò a dover versare lungo tutta la guerra, la sua incapacità a riprendere l’ inizia­tiva su formule e prospettive nuove, l’ incomprensione che lo divise dalle masse rivoltesi ad esso per delusione ed esasperazione di quella guerra, per esser state magari ingannate nei loro propositi di rinnovamento e purifica­zione. Giacché — Catalano è il solo socialista, che io sappia, che abbia avuto il coraggio di dirlo — in seno alla minoranza che affrontò consape­volmente la guerra italiana gli imperia­listi rappresentavano un’entità trascu­rabile, forse inferiore anche a quegli interventisti democratici che andavano

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alle armi con una visione mazziniana delle nazionalità europee affratellate. Questi ultimi comunque si trovarono idealmente concordi in un comune im- pulso etico con la terza, e maggiore, frazione della minoranza di cui si di­scorreva, quella cioè che poneva alla guerra, la quarta e suprema del nostro Risorgimento, l’obiettivo del compi­mento delle nostre frontiere nazionali. Anche qui giova comunque distinguere nell’ ambito di questa che potrebbe dirsi interpretazione patriottica della guerra. Anche Salandra se ne mostrava fautore, con la sua formula del « sacro egoismo » (anticipata, lo si è visto nel recente convegno di Spoleto, da certa pubblicistica cattolica). Ma i giovani i cui propositi vennero condivisi e rac­colti da Adolfo Omodeo non pensa­vano certo ad un ammodernamento della politica sabauda del carciofo, la cui ultima porzione restasse ormai da divorare. In essi riviveva soprattutto lo spirito liberatorio, l’ istinto civile e latamente umanistico del Risorgimen­to, in ciò tanto affine alla Resistenza, in un filone sotterraneo che percorre tutta la storia italiana dell’ultimo se­colo: istinto che trapela anche nelparticolare peso e nell'accezione parti­colare che in questi episodi culminanti del nostro recente passato assume lo straniero: lo straniero che non è na-zionalisticamente inteso come il bar­baro nemico che occorre schiacciare, bensì come una sorta di remora oscu­ra, d ’impaccio oppressivo al libero espandersi della vita civile della nazio­ne, il momento dialettico della tene­bra da cui occorre liberarsi soprattutto per purificare sè stessi.

La valutazione che il Catalano offre del Giolitti e della sua politica non mi lascia viceversa del tutto soddi­sfatto. Si tratta di un rilievo critico che si può estendere un po’ a tutte le personalità dominanti del volume, da Nitti a Mussolini fino, più vistosa­mente e forse più seriamente, a De Gasperi ed a Togliatti. Questi perso­naggi vengon fuori con un ruolo decisivo di protagonisti, all’incirca co­me l’Eracle del F ilottete di Sofocle ed in genere come tutti i dii ex machina della tragedia classica o classicheggian­te. Essi appaiono subito all’opera, in media re, senza che risaltino a suffi­cienza le basi culturali e politiche, spesso complesse e remote, del loro operare. Ciò conduce inevitabilmente

ad una certa eccessiva semplificazione del giudizio, soprattutto a danno di quelle figure, come appunto, e soprat­tutto, il Giolitti e il De Gasperi, nei cui confronti l ’atteggiamento dell’A . è fortemente critico, spesso incline all'aperta censura polemica e ad un acerbo biasimo. Chi scrive condivide appieno la massima parte di questi giudizi particolari: ma reputa cheavrebbe giovato ad una più esatta in­telligenza della vita pubblica italiana sotto l’ egemonia di quei due statisti un esame più approfondito del loro passato, delle loro tradizioni, delle re­sistenze da essi incontrate, degli osta­coli superati, senza affidarsi alla facile formula stroncatoria del « trasformi­smo » che, per voler dire tutto, dice poco o nulla. Senza dubbio, sia il Giolitti che il De Gasperi hanno svolto opera consapevolmente e spesso pe­santemente antisocialista, con l’ azione di rottura, di assimilazione esteriore e di svuotamento sostanziale da essi per­seguita nei riguardi di determinate, malleabili e ben individuate frazioni del movimento operaio (la « corruzio­ne» ed il selezionalismo di Salvemini): un’opera a lungo termine antidemo­cratica, con l’avvilimento profondo in­flitto alle istituzioni parlamentari, alla funzione educatrice della stampa, alla cultura militante (essi erano d ’altron­de uomini d’assemblea alla Cavour cioè rigorosamente deferenti alla mae­stà del parlamento soltanto in quanto docile cassa di risonanza dell’opera dell’esecutivo: strano a dirsi, il solo uomo di Stato che si sia creato con le proprie forze le proprie fortune, giorno per giorno, anno per anno, nell'assem­blea, è stato quello passato alla storia con la maggior taccia di autoritario, Francesco Crispil). Detto e riconosciu­to ciò, occorre tuttavia scendere nel fondo del loro « trasformismo », che non è semplice manipolazione pro­grammatica nè ottusa resistenza fron­tale di classe, bensì l’ interpretazione, la direttiva e l’espressione ad un tem­po di tutto un vastissimo movimento civile e sociale non soltanto della bor­ghesia, movimento che nè Giolitti nè De Gasperi hanno creato, ma che hanno contribuito a suscitare, padro­neggiandolo ed indirizzandolo a deter­minati obiettivi piuttosto che ad altri sulla base di certi presupposti ed at­traverso strumenti di propaganda e di pressione ben precisi. Lo stesso di-

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casi (qui più sul piano culturale ed ideo­logico che non su quello di governo) a proposito dell’entrata in scena di Togliatti, che reca sempre in sè alcun­ché di romanzesco, un evento impre­veduto ed incomprensibile, che rove­scia di punto in bianco, e radicalmente la situazione. Anche qui, dietro il ge­sto clamoroso di Togliatti, ci sono vent’anni di dichiarata ed ininterrotta tattica sovietica e comunista d’inseri­mento, di contatti, di alleanze, di fronti, con una valutazione realistica di potenza assolutamente spregiudica­ta : e ci sono soprattutto (non lo sidovrebbe mai dimenticare) vent’anni di lavoro all’interno, di propaganda capillare, che, pur tra alti e bassi, for­niscono al partito comunista, unico fra i partiti o le consorterie clientelari ita­liane, la coscienza e pressoché la sicu­rezza di poter disporre di quadri e di seguaci abbastanza efficienti da non dissolversi e da non deflettere dal loro specifico obiettivo per mutamenti tat­tici, pur sconvolgenti, di vertice. Una lezione, anche questa, che i comunisti non avevano appreso dalle meditazioni intellettuali di Gramsci (o almeno non solo da esse) ma dall’evidenza dei fatti, dalla realtà postbellica di un partito socialista incapace di reinserire le masse smobilitate, con nuovi compi­ti, nella società, d ’ intenderle spesso nelle loro miserie e nelle loro grettez­ze, di fornire ad esse una parola d ’or­dine che non fosse quella logora e stanca della negazione della guerra, già finita, e tanto sterilmente, un obietti­vo che non fosse quello millenaristico di una rivoluzione « a tempo oppor­tuno ».

Ottime riflessioni avanza il Cata­lano a proposito del carattere premi­nente (e grave più di ogni altro) di sedizione militare da attribuirsi alla impresa di Fiume e sulla genericità dell’appello di Nitti agli operai ed ai

contadini, a torto inteso, anche di re­cente, come un’apertura profondamen­te democratica dello Stato alle masse popolari, al di là degli stessi partiti. Nè esiterei a condividere, ancorché appaia un po’ salomonico nella punti­gliosa ricerca ed assegnazione del di­ritto e del torto fra comunisti e rifor­misti, il giudizio sulla scissione di Li­vorno. E lo stesso dicasi allorché l ’A . esattamente individua nella collabora­zione tra popolari e socialisti (ma con

quale presidente, essendo Nitti esau­torato?) la sola logica e possibile solu­zione della crisi seguita alla caduta del primo ministero Facta : o quandoscorge nella mancata fiducia nell’ini­ziativa popolare da parte dell’Aventino la causa principale del meritato falli­mento di quest’ultimo, in critica cor­retta ma severa delle note opinioni di Amendola (una nota di costume: ipieni poteri dopo la marcia su Roma vennero concessi da un’assemblea un terzo della quale, comprese parecchie decine di deputati dell’estrema, erano assenti! Non per nulla Mussolini e la pubblicistica fiancheggiatrice individua­rono subito il vero cadavere del 28

ottobre nel parlamento, che Amendola con caratteristica deformazione formali­stica, s ’illudeva d ’aver nobilitato e vi­talizzato in un’astensione che non sboccava nè nell’autonoma Costituente popolare nè nell’attiva ed assidua op­posizione parlamentare alla legislazione fascista, che cominciava a toccare si­stematicamente le istituzioni).

L ’analisi del periodo fascista, come s’è detto, si accentra su un esame dettagliato e documentatissimo degli elementi sociali ed economici della si­tuazione, riportati, com'è naturale, ai termini internazionali di quest’ultima e ad essi costantemente collegati. La po­litica mussolinana viene così a perdere buona parte di quel colorito chiuso e provincialesco all’ interno, inquieto ed inconcludente all’ estero, con la quale la si vuole sommariamente valutare per trovare le sue giustificazioni o al­meno i suoi moventi sempre in riso­nanze, più o meno pronte e cospicue, di avvenimenti internazionali. Si dile­gua in tal modo l’immagine cara a certa pubblicistica deteriore così di parte fascista come antifascista di una Italia sequestrata dal mondo circostan­te, ripiegata su sè stessa a consumare una propria esperienza particolarissima ed irripetibile. Appare sempre più chiaro che l'Italia fascista, fino, come si diceva, allo choc violento e rivela­tore della guerra di Spagna, non è stata affatto un elemento abnorme e neppure perturbatore nel quadro del concerto europeo fra le due guerre, nel quale si è inserita armonicamente, ade­guandosi alle necessità quando queste fossero in contrasto con le premesse ini­ziali (la politica di difesa della lira), dibattendosi in difficoltà salariali e di

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sovraproduzione comuni agli altri paesi capitalistici, pur se in Italia, naturai' mente, mancava quella vivacità di pressione e di denunzia propria di at­tivi ed autentici sindacati. Quanto d’altronde alla politica estera nella sua accezione tecnica, il problema delle ori­gini e del fallimento del patto a quat­tro, suprema ed effimera misura di

equilibrio conseguita da Mussolini, re­sta tuttora aperto, nè possono sotta­cersi le responsabilità obiettive della Francia, impigliata nel suo sistema di garanzie che le impedivano una visione effettivamente e coraggiosamente inno­vatrice dèlia realtà europea. Sicché, scontata la bontà del metodo (del quale aveva peraltro offerto importanti anticipazioni Giampiero Carocci), resta da augurarsi che su questa via si pro­segua, spostando magari l ’angolo d’os­servazione, esaminando cioè il fascismo dall’esterno, la componente fascista nella politica europea di Londra o di Parigi. A questo arricchimento di pro­spettive dovrà finalmente accompa­gnarsi l'analisi sistematica delle com­ponenti interne del fascismo. Si ha in­fatti l ’ impressione che il fenomeno, nelle sue grandi linee, e dopo gli ine­vitabili sbandamenti iniziali, abbia tro­vato rapidamente una sua dimensione storiografica nella quale convengono un po’ tutti gli studiosi. Il metodo di far parlare i fatti, le cifre, le statisti­che, le testimonianze dei competenti, si è rivelato efficacissimo per tracciare diciamo così, il rendiconto, il consun­tivo del fascismo nella vita italiana. Ora sarebbe però tempo di tornare ai programmi, alle intenzioni, agli uomi­ni, in una parola: di mettere in chiaro che cosa il fascismo abbia voluto esse­re, ora che sappiamo, più o meno in­contestabilmente, che cosa sia stato. Scriveva Salvemini, maestro insuperato di realismo storiografico, che il credere di essere è spesso non meno importante dell’ essere. Ed a noi interessa (mi sia consentito dire « a noi giovani », non per amore del vuoto cliché della gene­razione ma per il ricordo effettivamente sbiadito e nebbioso che abbiamo del fa­scismo « visto dal di dentro ») conoscere che cosa il fascismo abbia creduto di essere.. Il libro di Zangrandi che, avreb­be detto il generoso e caustico Luigi Russo, tanti petti ha scosso e inebriato (e tanti piedi d ’argilla, aggiungo io, ha rotto e pestato), ha avuto appunto que­sto gran merito, che trascende la perso­

na dello scrittore e dei suoi pochi e stra­lunati amici d’un tempo: quello d ’aver tastato il polso del fascismo nel suo es­sere quotidiano, in un continuo susse­guirsi di fantasmi, di ricordi, di spe­ranze. Questo è il lavoro che ora an­drebbe fatto : scendere giù dai primitivi bestioni archeologici del diciannovismo, dai Pasella e dai Terzaghi, giù per i tanti rivoli del fascismo repubblicano, sociale, sindacale, anticlericale, e poi an­cora del nazionalismo fascista, del cle- rico-fascismo, della monarchia fascista, liberisti fiancheggiatori e socializzatori utopisti, i razzisti e gli internazionali­sti, i vecchi intellettuali, i filosofi posi­tivisti, e l’ irrazionalismo, e la nuova po­litica scolastica, e Bottai, e Spirito, e così via via, nell’immenso calderone, senza pretendere di mettere un ordine che non c’è, ma conoscendo però il di­sordine, prestando orecchio alle voci di­scordi e contraddittorie, che sono in fin dei conti voci della nostra storia, del nostro recente passato, e quindi appar­tengono indissolubilmente a noi stessi.

Senza dubbio l’ analisi dei fenomeni economici non esaurisce il quadro del condizionamento internazionale del fa­scismo e non vale a motivare intera­mente la politica del fascismo. Il Cata­lano si rende conto benissimo di ciò ed è proprio lui ad avvicinare, senza che tra le due posizioni si possa stabi­lire un rapporto rigoroso da causa ad effetto, le responsabilità anglo-america­ne nel traffico mondiale alla volontà di guerra del fascismo nell’ impresa etiopica (una volontà dunque che ha le sue sca­turigini autoctone in quel gran ribolli­mento cui si accennava dianzi, e che conduce direttamente al momento di frattura della guerra di Spagna, una frattura unanimemente auspicata dal fa­scismo, ma con una gamma infinita di sfumature, di giustificazioni, che mette­rebbe conto indagare). Questa volontà di guerra, d’altronde, con la politica autarchica ad essa connessa, sposta obiet­tivamente l’economia nazionale ad una fase più avanzata dello sviluppo capita­listico, con l’ inizio della curva descensio- nale dell’economia agricola, che non si arresterà più fino ai giorni nostri, con l’espandersi della concentrazione mono­polistica (e qui sarebbero da vedersi le infiltrazioni di questi colossi nella strut­tura burocratica e legislativa dello Sta­to), col passaggio in primo piano, con funzione egemonica non più di élite ma di massa, degli operai metalmeccanici

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dei vecchi scioperi torinesi rispetto al resto del proletariato.

A partire dalle vicende del 25 luglio, dopo una narrazione chiara ed equili­brata di quelle belliche (a proposito del­le quali, forse, non c’è più gran che da aggiungere : notevoli le riserve del-l’A . circa il patto russo-tedesco, valu­tato comunque, com’è indiscutibile, sot­to il mero profilo della politica di po­tenza sovietica, senza alcuna preoccupa­zione ideologica) l ’opera del Catalano si rende assai particolareggiata ed a noi converrà perciò sottolineare maggior­mente qualche spunto da suggerire co­me ipotesi di lavoro. Così dicasi innanzi tutto per la sfumatura che separa Gran­di da Bottai nell’opposizione a Musso­lini. Dal sabotaggio del patto di paci­ficazione del 1921 fino a questa soluzione di autoritarismo monarchico, attraverso la politica anglofila diretta in funzione antibolscevica, Grandi è costantemente l ’uomo di una conservazione aggressiva, l’esponente di ben precisi interessi so­ciali ed economici che non rifuggono dal terrorismo pur di mantenere ad ogni costo i loro privilegi. Grandi e Balbo rappresentano le due faccie di una me­desima violenza sistematica padana: ed ecco una nuova concordia discors la cui storia ventennale varrebbe la pena di ricostruire accuratamente! Bottai è vice­versa un fascista tipico, tout court, un mussoliniano, si direbbe, ed è al tempo stesso un genuino e tradizionale uomo di cultura. Tutta la politica culturale, burocratica o militante, di Bottai si po­ne come uno dei temi più fascinosi a cui urge cominciare ad attendere: e si può prevedere cosa ardua lo sceverare in essa le parti riportabili ad una fronda stancamente velleitaria ed intellettuali­stica nei confronti del fascismo, o ad una captatio propagandistica degli intel­lettuali di professione, o ad un appro­fondimento e potenziamento coerente di posizioni tipiche del fascismo, o ad un’oasi di civile ed urbana tolleranza culturale più o meno disinteressata, od infine ad un sottofondo politico che mantenesse una circolazione europea nel- la_ cultura italiana e, di conseguenza, un contatto d’ incontri e di scontri con le correnti più vive della cultura mili­tante o addirittura dell’antifascismo po­litico.

Argomento di molto interesse è an­che quello concernente i programmi di pacificazione ventilati a lungo da Mus­

solini durante la repubblica sociale, non tanto magari nel circoscritto ambito ita­liano (dove questa politica aveva chiare caratteristiche di disperato recupero, e venne comunque respinta con fermezza e con chiara coscienza politica dalle masse lavoratrici) quanto nella prospet­tiva di una compatta resistenza italiana all’ invadenza germanica. Scontati gli ele­menti della compressione brutale eser­citata dal comando tedesco suH’ammini- strazione civile e militare della repub­blica di Salò, e della funzione assoluta- mente complementare e subordinata ri­servata a quest’ultima, in prevalente funzione terroristica anti-partigiana, re­stano però da studiare nel dettaglio, in sede locale, gli atteggiamenti delle auto­rità fasciste nei confronti della cittadi­nanza da un lato e dei tedeschi dal­l’ altro, quando non addirittura della stessa Resistenza (penso soprattutto alla deportazione di operai italiani in Ger­mania, alla salvaguardia del patrimonio artistico e culturale, e soprattutto di quello industriale, alla protezione di ri­serve monetarie, di istituti, ecc.). In questo quadro due altri interlocutori, il ceto capitalistico e l’episcopato, andreb­bero tenuti attentamente presenti. E — last but non least — si dovrebbe ri­volgere un'attenzione, diciamo così, più individualizzante ai tedeschi, presentati fin qui impersonalmente come una sorta di Unni o di leones, e che bisognerebbe cominciare a studiare nei loro partico­lari atteggiamenti, nelle situazioni locali e così via. E ’ cosa singolare che a que­st’esigenza si siano dimostrate più sen­sibili la narrativa e la cinematografia che non la storiografia : una figura de­licata e complessa, espressione di tutta una tradizione culturale ed ambientale che non si può liquidare con un tratto di penna, come quella dell’ indimentica­bile colonnello tedesco del Generale Della Rovere non si è fin qui ripetuta in un’opera di storia.

Aggrovigliato viluppo è anche quello costituito dalle conseguenze della famo­sa « mossa » di Togliatti che poteva an­che avere come effettivo obiettivo quel­lo di screditare ed indebolire il mini­stero Badoglio, mostrandolo incondizio­natamente succube della politica anglo- americana ed incapace d'una energica iniziativa autonoma nei confronti della monarchia, salva l'uscita definitiva del partito comunista dallo stato di semi- illegalità e di semi-clandestinità in cui

Recensioni 91era vissuto, si può dire, sin dall'imme- diato domani di Livorno. La politica comunista, lo ripetiamo, era legata te­nacemente a determinate prospettive in­ternazionali contingenti (la politica di potenza mediterranea dell’Unione Sovie­tica nella primavera 1944), ad un for­malismo legalitario scrupolosamente os­servato (l’ ingresso nel ministero) ed in­fine ad un remoto obiettivo di propa­ganda popolare di massa, da esercitarsi da quadri già addestrati ed efficienti (la polemica, una volta accantonato l’osta­colo della monarchia, contro un gabi­netto nel quale le forze tradizionali del liberalismo erano largamente ed autore­volmente rappresentate, e potevano ve­nir descritte come incapaci ad affermare il rinnovamento nazionale post-fascista e l’indipendenza dinanzi allo straniero). Può sembrare di trovarsi di fronte ad esigenze incoerenti e contraddittorie, af­fastellate fra di loro in precario equi­librio: e può essere così: ma può an­che esservi un disegno organico, nella varietà ed ambiguità di piani sfuggenti caratteristiche della tattica comunista quale corrispettivo di una sostanza for­tissima ostinatamente sviluppata e per­seguita : e varrebbe la pena di esplo­rarlo: svolgendo ad esempio, per i suoi riflessi con l'epurazione, con la giustizia penale, con l’ indipendenza e la riforma della magistratura (tutti problemi cen­trali non solo della ricostruzione ma un po’ di tutta la vita democratica italiana) una ricerca monografica sul biennio dei guardasigilli comunisti Togliatti e Gullo, affiancata magari da una consimile sui rapporti e i conflitti, al controllo della finanza italiana, tra Scoccimarro ed i liberali Soleri e Corbino (e qui una pic­cola parentesi : una ricerca del genere andrebbe compiuta su un altro biennio, quello nel corso del quale ministri po­polari hanno ininterrottamente presie­duto all’agricoltura italiana, mettendo in raffronto l’azione legislativa del 1920-22 con i programmi del partito, con la tradizionale sollecitudine cattolica per i problemi agricoli, con la particolarissi­ma situazione delle campagne nel primo dopoguerra).

Ma qui facciamo punto, che l’opera del Catalano davvero ci provoca e ci pungula con una serie di stimolanti spunti, che auguriamo poter essere rac­colti dai giovanissimi, dall’opposizione di socialisti ed azionisti al primo mini­stero De Gasperi alla preparazione elet­

torale del referendum, al « re di mag­gio » e così via. Catalano, che è uno storico ed un democratico militante, ri­conoscerà in questo fervore di lavoro che mi si è venuto delineando nella mente leggendo il suo libro, e che cer­tamente era ben più limpido e pulsante in lui nello scriverlo, la lode più sin­cera e spontanea alla sua fatica, ed il premio migliore che egli potesse atten­dersene e — non ne dubitiamo — a buon diritto se ne attendeva.

Raffaele Colapietra.

Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi edi­tore, Torino, 1961, pp. XL - 968, L . 6000.

L ’interesse che muove l'A ., per sua esplicita dichiarazione nella Prefazione, è un interesse da storico : apportare un contributo alla storia del fascismo, più precisamente dare un esempio concreto di quella « indagine per singoli aspetti » di tale storia, che egli giustamente ri­tiene sia ormai necessaria e matura. Che il fascismo possa e debba essere oggetto di serena indagine storica, come qual­siasi altro fenomeno o periodo delle vi­cende umane, ci pare non doversi nep­pure mettere in discussione; ma appun­to perciò non bastano a soddisfare le molte e complesse esigenze della cono­scenza storica le storie generali (tipo l’ottima Storia d ’Italia nel periodo fa­scista del Salvatorelli e del Mira) o al­cune indagini particolari, vertenti so­prattutto, come dice l’A ., su « l’appro­fondimento dei primi anni del fascismo, dall’intervento al delitto Matteotti in specie, e di aspetti particolari della po­litica estera fascista ».

Per capire, insomma, che cosa sia stato il fascismo in atto occorre stu­diare la « società italiana durante il fascismo»: partire quindi, soggiungia­mo noi, non dalla teoria dell’ improvvisa invasione degli Hyksos, ma da quella opposta, ed unica esatta, che vede nel fascismo un prodotto della moderna sto­ria d’ Italia. E vogliamo chiarire, di pas­saggio, che non intendiamo questa spie­gazione nel senso « panfascistico » del Mack Smith, ma nel senso che la strut­tura della società italiana portava in se, come un germe latente, il fascismo, pronto a svilupparsi, come infatti av­venne, quando avesse trovato il terreno

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di coltura propizio (la reazione della classe dirigente, politica ed economica, alla Rivoluzione d’ottobre ed alla crisi del dopoguerra). Il merito preliminare del De Felice è dunque di proporre que­sto metodo di studio della storia ita­liana nel periodo fascista, esemplifican­dolo, con scelta veramente indovinata, nella presente opera sugli ebrei italiani sotto il fascismo.

Gli ebrei infatti, come dice l’A. (sempre nella Prefazione) si prestano an­cora meglio di altri settori della società italiana — p. es., la burocrazia, l’eser­cito, la borghesia o il proletariato in ge­nere, etc. etc. — a illustrare i rapporti tra il fascismo e la società stessa. Pur avendo l’ ebraismo italiano « tutta una serie di sue peculiarità », « esso ha avu­to però altrettanto indubbiamente con il fascismo dei rapporti ed un compor­tamento che possono dirsi tipici. In un certo senso, l’ ebraismo è stato una pic­cola grande città, con i suoi interessi ed i suoi maggiorenti, i suoi istituti am­ministrativi, ì suoi rapporti con il resto del paese e con l’estero, la sua vita politica e sociale ». Se poi si tiene pre­sente, come del resto il De Felice fa, « lo spiccato carattere borghese dell’e­braismo italiano » (p. 87), il valore in­dicativo dei rapporti ebraismo-fascismo per il problema generale dei rapporti società italiana-fascismo ne risulta ac­cresciuto, poiché è noto che il fasci­smo fu essenzialmente un fenomeno borghese.

Gli ebrei italiani, dunque, erano de­gli italiani come tutti gli altri loro con­cittadini; erano, in altri termini, degli italiani di religione ebraica (per coloro che la professavano) e con certe loro tradizionali caratteristiche di gruppo sociale, come tanti altri gruppi della estremamente varia e composita società italiana. Per il fatto di trovarsi a vive­re in un paese nel quale « sin dalla seconda metà del XVIII secolo non esi­steva più... una questione ebraica », la tendenza alla assimilazione venne enor­memente favorita, sicché « gli ebrei italiani si inserirono rapidissimamente nella nuova società italiana» (pp. 16-7). Senza seguire nei particolari la convin­cente e documentata dimostrazione che di ciò dà l’A ., si può pertanto conclu­dere che, quando apparve il fascismo, gli ebrei si comportarono, nè più nè meno, come gli altri italiani. E questo è un punto fermo acquisito dall’ inda­

gine del De Felice, veramente capitale per le conseguenze che ne discendono.

Anzitutto, precisamente come la comune degli italiani cui si erano assi­milati, gli ebrei non compresero il fa­scismo per quello che realmente era, come invece videro subito esigue mino­ranze e come noi oggi, a tragedia consumata, sappiamo benissimo. Al contrario, il fascismo trovò « tra gli ebrei un vasto seguito; forse più vasto di quanto si credeva »; ed il motivo è esattamente colto, subito dopo, dal De Felice, nel « carattere classista del fa­scismo delle ” origini ” » e nel già citato « carattere spiccatamente borghe­se dell’ebraismo italiano » (p. 87). Inconcreto, un agrario ferrarese, fosse ebreo o non, reagiva egualmente di fronte al fascismo: scorgeva in esso un elemento d ’« ordine » contro i <> sovver­sivi » e plaudiva, ed anche peggio, alle squadracce di Balbo e compagni. Se Bal­bo (e così gli altri capi fascisti) oggetti­vamente fu lo strumento cui i « pa­droni » commisero l’esecuzione delle bas­se opere a tutela dei loro interessi, si spiega il filosemitismo del quadrumviro, proveniente da una città del cui ceto padronale facevano parte numerosi ebrei. Il che, è doveroso aggiungere, non smi­nuisce il coraggio col quale Balbo si op­pose alla legislazione antisemitica e si battè, nella seduta del Gran Consiglio del 6 ottobre, contro Mussolini e la qua­si totalità dei membri del Gran Consi­glio (gli unici altri a parlare contro fu­rono Federzoni e De Bono).

Cosi vi furono tra gli ebrei da un canto finanziatori del fascismo, dall’ al­tro squadristi, partecipanti alla « marcia su Roma », almeno cinque « sansepol- cristi » (tra i quali Cesare Goldmann che procurò la sala dell’Unione indu­striale in Piazza S. Sepolcro a Milano) e tre « martiri fascisti ». Di contro a costoro, appunto come avveniva all'in­terno della borghesia italiana, si ebbero politici ed intellettuali che furono de­cisamente antifascisti; come gli ebrei, nel periodo postrisorgimentale, si erano dispersi « nei partiti politici italiani di tutte le tendenze » (p. 23), così ritro­viamo ebrei nei partiti antifascisti (tran­ne, ovviamente, il cattolico). Ma i Tre­ves ed i Modigliani, solo per fare dei nomi, non erano antifascisti in quanto ebrei, bensì in quanto socialisti; per nulla differenti, ancora una volta, dagli altri italiani socialisti (o comunisti, libe­

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rali, etc.) che si opponevano al fascismo. Che vi fosse una « massiccia presenza di ebrei tra gli antifascisti » (p. 88) di­pende dal fatto che elevato era il nu­mero degli intellettuali e politici ebrei presenti ed attivi nella sinistra italiana.

Questo da parte degli ebrei alle ori­gini del fascismo. Da parte del fascismo e delle sue matrici ideologiche (naziona­lismo, irrazionalismo, attivismo) vi era una componente antisemita? Oppure il fascismo si atteggiò verso gli ebrei in maniera non dissimile da quella con cui prese posizione riguardo ad altri gruppi della società italiana? 11 De Felice ri­sponde nettamente nel secondo senso : « il fascismo... si è comportato con esso U’ebraismo italiano] in una maniera che possiamo pure definire tipica: diffiden­za verso le vecchie strutture e i vecchi uomini, tentativo di sfruttarlo ai suoi fini (e controtentativo di essere a sua volta sfruttato per altri fini), azione pe­riferica di fascistizzazione e quindi azio­ne diretta al « centro » per impadro­nirsene.,.» (Pref., p. XXXVI).

E invero, se il fascismo era un pro­dotto della società italiana, non poteva non derivare da essa anche la quasi to­tale assenza di razzismo e di antisemi­tismo. Quanto al razzismo, « tanto la psicologia popolare quanto la cultura (neppure quella media e più provin­ciale) non hanno mai veramente cono­sciuto in Italia l’ eccitamento razziale ed il razzismo » (p. 30). Quanto invece al­l ’antisemitismo, la questione è più com­plessa: mentre, per tutto il secolo scor­so, non vi fu in Italia un vero antise­mitismo di massa come in altri paesi (cfr. p. 35), si ebbe però, per tutta la seconda metà dell’Ottocento, l’antise- mitismo cattolico (cfr. p. 35 e segg.), al quale con il Novecento (venne progres­sivamente affiancandosi quello dei na­zionalisti e, via via, dei sindacalisti- rivoluzionari, dei fascisti » (p. 50). Di fatto, come giustamente osserva il De Felice, l’antisemitismo dei nazionalisti fu un motivo secondario ed accessorio della loro ideologia e della loro azione poli­tica, soprattutto per l’ inesistenza d’un problema ebraico veramente vivo in Ita­lia (cfr. pp. 50-1).

Ma in linea di principio il razzismo (e la sua specificazione, l’antisemitismo) è una componente connaturata all’ irra­zionalismo nazionalistico, in quanto dot­trina che nega l’ eguaglianza di tutti gli uomini e postula il diritto dei più forti,

la legge della violenza, la superiorità di alcuni individui o di una nazione sulla massa degli altri individui o sulle altre nazioni. Il fascismo, inteso in senso la­to, è tutto insieme e indivisibilmente nazionalismo, imperialismo, razzismo: che l’essere inferiore sia il proletario, lo slavo dell’Europa orientale, il negro0 il giallo delle colonie, l’ebreo, non fa una sostanziale differenza; si tratta sempre d ’una tipica soprastruttura della fase estrema (e degenerata) del capita­lismo, quando questo si ritiene minac­ciato di sopraffazione. Così nell’Italia delle « spedizioni punitive », così nella Germania nazista, così nell'Algeria dei paras, nell’Angola del moribondo colo­nialismo portoghese.

Pur non essendo questo il suo tema, forse il De Felice avrebbe dovuto alme­no accennare a questa situazione di fon­do; non per divagare dalla sua serrata ricostruzione documentaria in generali­tà, ma perchè, ci sembra, solo così si spiega il processo di involuzione che portò al razzismo ed all’antisemitismo in Italia. Non furono certo untorelli co­me il Preziosi che riuscirono infine a trascinare dalla propria Mussolini ed i dirigenti fascisti; fu invece lo sviluppo oggettivo della situazione, dalla guerra d’Etiopia a quella di Spagna all’alleanza con la Germania nazista, che inelutta­bilmente produsse la svolta in senso raz­zistico ed antisemitico dal 1936 alle leg­gi infami del ’38. Per quanto poco con­tasse in un regime totalitario come il fascista l’opinione pubblica, è tuttavia sintomatico che la svolta sia stata pre­ceduta da una campagna di stampa con­tro gli ebrei (cfr. pp. 238-57), guidata da un Farinacci, che certo non prende­va l’ imbeccata dal duce.

Fra le cause dell'evoluzione di Mus­solini verso il razzismo e l’antisemiti­smo l ’A . mette in particolare rilievo l’ influenza dell’entourage del duce e so­prattutto la nuova fase dei rapporti con1 nazisti (pp. 281 e segg.). Ora, appunto nell’ entourage si trovavano « molti fa­scisti della nuova generazione, non... esenti da forme più o meno marcate di antisemitismo » (p. 281); il che sa­rebbe da interpretarsi, secondo noi, nel senso che, mentre nella vecchia Italia delle origini del fascismo predominava ancora una mentalità del tutto estranea al razzismo e all’antisemitismo, nella nuova generazione invece, formatasi se­condo l’ ideologia nazionalfascista, que-

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sta aveva coerentemente dato i suoi frutti, anche quelli attossicati del raz­zismo e dell’antisemitismo. Si aggiunga l ’ influsso del nazismo ormai al potere e lo scoppio del razzismo fascista non apparirà più come un fulmine a ciel se­reno, ma come il portato della logica inesorabile del fascismo, qualche cosa, insomma, che esso portava naturalmente nel seno e che prima o poi, sollecitato da una od altra occasione, doveva finire col manifestarsi.

Il De Felice scrive che « non vi è dubbio... che la decisione fu presa so­stanzialmente da Mussolini e che su di essa queste pressioni non ebbero che un peso secondario » (p. 286); le pres­sioni sono quelle dei « vari Farinacci »); e che la decisione del duce « fu deter­minata essenzialmente dalla convinzione che per rendere granitica l’ alleanza ita- lo-tedesca fosse necessario eliminare ogni stridente contrasto nella politica dei due regimi » (ibidem). L'esattezza di queste asserzioni, che certamente riconosciamo, non toglie però valore al quadro gene­rale entro il quale esse vanno collo­cate; non per una nostra pretesa di spiegare la storia con una logica sovra- storica, anziché con i fatti concreti, ma perchè quella che abbiamo chiamato la logica del fascismo era ben intrinseca alla realtà storica del fascismo. Come la storia della Germania nazista, insomma, non si spiega con il satanismo o la follia di un solo individuo, Hitler, così pure la storia dell’Italia fascista, compreso il razzismo e l’ antisemitismo, non si spie­ga con le decisioni del duce, sia pure motivate da un preciso calcolo politico.

Un fulmine a ciel sereno, invece, i provvedimenti del ’ 38 furono per gli ebrei italiani, appunto perchè, in quan­to italiani, mai avrebbero potuto aspet­tarseli; e così egualmente avvenne per la stragrande maggioranza degli italiani.

Occorre ancora una volta osservare che, pure in questo caso, gli ebrei si dimo­strarono italiani come tutti gli altri, cioè colti di sorpresa dalle decisioni dei dirigenti fascisti. Ma questo aspetto del­la politica fascista dimostra altresì che il fascismo, per quanto prodotto dalla società italiana, non si identificava con essa; ne era, sì, una malattia endogena, ma non letale, poiché l'immensa mag­gioranza degli italiani, in definitiva, non era nè nazionalista (se non alla super­ficie) nè imperialista nè, meno che mai, razzista. Perciò « per moltissimi italiani la campagna antisemita scatenata nel 1938 fu il primo vero choc politico dopo il delitto Matteotti, fu il primo fatto che veramente fece aprire loro gli occhi sul conto del fascismo e segnò l'inizio del loro divorzio da esso » (p. 376). E il divorzio, com’è risaputo, fu ben presto consumato, sino alla lotta violenta della Resistenza, con la quale l’Italia espulse da sè il morbo fascista.

Ma intanto le persecuzioni fasciste avevano umiliato e fatto soffrire i no­stri fratelli ebrei, nell’ attesa che i na­zisti, serviti dagli sgherri della « re­pubblica sociale », ne avviassero una parte verso il martirio senza ritorno dei campi di concentramento e dei forni crematori. Inutile insistere su queste vi­cende dolorose e disumane, che il De Felice narra ampiamente e ottimamente, con la severità dello storico che non può non condannare, proprio per essere og­gettivo, il male senza scusante alcuna. Se pochi italiani, allora, si riscattarono aiutando gli ebrei a costo di rischi e della morte, a noi tutti, ebrei e non, tocca meditare la lezione che questo libro ci offre: ancora una volta la le­zione, non moralistica ma realistica, che il fascismo, sia pure il più bonario, al­l’ italiana, finisce sempre in barbara tra­gedia.

Ferdinando V egas.