Saggio Fiandraca Trattativa Foglio(1)

7
ANNO XVIII NUMERO 128 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 1 GIUGNO 2013 Questo saggio è stato appena pubblica- to sull’Annuario di scienze penalistiche Criminalia (anno 2012). Edizioni ETS. 1. Premessa La vicenda giudiziaria relativa alla co- siddetta trattativa stato-mafia, assai nota anche per l’ampia copertura ricevuta dai media, offre lo spunto per riflessioni che si collocano su piani diversi e, in parte, convergenti. Ci sono ragioni per conside- rare tale vicenda come una sorta di me- tafora emblematica di una serie di com- plesse, e per certi versi patologiche, inte- razioni tra un certo uso antagonistico del- la giustizia penale, il sistema politico-me- diatico e il tentativo di fare maggiore chia- rezza, sotto l’aspetto storico-ricostruttivo, su alcuni nodi assai drammatici della no- stra storia recente. Da questo punto di vi- sta, non si rinnova soltanto, con toni forse ancora più enfatizzati, quel conflitto fra politica e giustizia che nell’ultimo venten- nio ha disturbato il funzionamento della democrazia italiana. Nello stesso tempo, a tornare in discussione è l’interrogativo di fondo circa gli scopi del processo penale, come pure il connesso problema relativo al ruolo della magistratura, considerato anche nella percezione soggettiva che ne hanno in particolare alcuni magistrati d’accusa molto combattivi e pubblicamen- te esposti. Ci sono sul tappeto, inoltre, impegnati- ve questioni tecnico-giuridiche che hanno a che fare con quella che dovrebbe costi- tuire la normale premessa di una indagi- ne, prima, e di un processo penale, dopo: cioè la previa individuazione di plausibili figure di reato. Questo è in realtà un pun- to non controvertibile, ma nel caso della trattativa probabilmente trascurato – o non sufficientemente lumeggiato – specie nell’ambito della comunicazione mediati- ca. Si è, invero, assistito a un insistente bombardamento televisivo accreditante l’idea della trattativa come un crimine gra- vissimo. Ma, se questo è il messaggio più o meno confusamente arrivato al grosso pub- blico, le cose stanno in verità alquanto di- versamente sul piano dell’ipotesi accusa- toria formulata dai pubblici ministeri. L’organo dell’accusa, muovendo pregiudi- zialmente da un giudizio di grave disap- provazione etico-politica della presunta trattativa, si è infatti imbattuto – come me- glio vedremo in seguito – in una oggettiva difficoltà tecnica: nella difficoltà cioè di trasporre questa “precomprensione” in una cornice criminosa idonea a coinvolge- re insieme, avvinti anche simbolicamente come complici di un medesimo delitto, boss mafiosi e membri delle istituzioni. Da qui la ricerca, nella complessa e oscura trama delle vicende oggetto di giudizio, di qualche momento o frammento fattuale che fosse suscettibile di assumere parven- ze di illecito penale; una ricerca tutt’altro che semplice, come è confermato dal fatto che altri uffici giudiziari (in particolare di Firenze e Caltanissetta) che si sono occu- pati delle medesime vicende nel più am- pio contesto delle indagini sulle stragi, non hanno ritenuto di ravvisare ipotesi di rea- to tecnicamente gestibili. Nonostante la difficoltà dell’impresa, i pubblici ministeri palermitani – coordina- ti dal procuratore aggiunto Antonio In- groia – si sono spinti fino a oltrepassare la soglia dinanzi alla quale i colleghi di altre sedi si sono arrestati: la tesi accusatoria, infine escogitata dalla procura di Palermo, ipotizza che alcuni specifici momenti del- la cosiddetta trattativa configurino un con- corso criminoso nel reato di violenza o mi- naccia a un corpo politico (art 338 c.p.). Ipotesi plausibile in termini tecnico-giu- ridici? 2. Una vicenda storico-politica molto com- plessa e ambigua, suscettibile di valutazio- ni non univoche (anche alla luce del princi- pio della divisione dei poteri) Non è questa la sede per ricostruire in dettaglio l’insieme eterogeneo dei fatti su- scettibili di essere ricondotti sotto l’eti- chetta di una “trattativa”, o di più “tratta- tive” che sarebbero intercorse fra la ma- fia e lo stato nei primissimi anni Novanta dello scorso secolo: con il duplice obietti- vo – secondo l’ipotesi ricostruttiva dell’ac- cusa – di un “ammorbidimento” della stra- tegia di contrasto della criminalità mafio- sa (grazie, ad esempio, a una attenuazione del rigore carcerario per i condannati sot- toposti al regime di cui all’art 41 bis ord. penit.) e, più in generale, della stipula di un nuovo patto di convivenza, di una nuo- va intesa compromissoria tra stato e Cosa nostra (nel solco, peraltro, di una tradizio- ne storica di “non belligeranza” risalente al secondo Ottocento). In sintesi, l’ipotesi storico-ricostruttiva privilegiata dal grup- po di pubblici ministeri guidati da Antonio Ingroia – ribadita in scritti o interviste del- lo stesso Ingroia e, altresì, recepita nel- l’ambito di una letteratura saggistica “fian- cheggiatrice” (1) – è riassumibile nel modo seguente. Dopo la conferma in Cassazione il 30 gennaio 1992 delle pesanti condanne in- flitte dai giudici del maxiprocesso, la qua- le ha avuto l’effetto di mettere in crisi, an- che simbolicamente, la tradizionale im- punità dei boss, Cosa nostra avrebbe rea- gito ideando e in parte realizzando un pro- gramma stragista avente come fine ultimo la ricostruzione di un rapporto di pacifi- ca convivenza tra il sottomondo mafioso e il mondo politico-istituzionale: le stragi costituivano, in questa prospettiva, uno strumento necessario per piegare psicolo- gicamente il ceto politico di governo, nel senso di indurlo a desistere da una lotta a tutto campo contro la mafia, in vista di nuove intese basate sulla vecchia logica della reciprocità dei favori. Secondo fon- ti informative di matrice segreta, questo piano stragista – iniziato con l’omicidio del parlamentare siciliano Salvo Lima nel marzo del 1992 – prevedeva l’uccisione di importanti uomini politici come Giulio Andreotti, Claudio Martelli, Calogero Mannino e altri: tutti colpevoli di aver vol- tato le spalle a Cosa nostra, di averla tra- dita e di non aver mantenuto le promesse di “aggiustamento” del maxiprocesso presso la Corte di cassazione. E’ in questo fosco e angosciante orizzonte, denso di mortali minacce incombenti e nello stes- so tempo imprevedibili, che nascerebbe l’iniziativa dei carabinieri del Ros – solle- citata, secondo la prospettazione accusa- toria dei pm, da uno dei politici minac- ciati (cioè Calogero Mannino) – di contat- tare l’ex sindaco di Palermo Vito Cianci- mino come possibile tramite di comunica- zione con il vertice mafioso corleonese. Questa presa di contatto sfociata in più in- contri, e ammessa peraltro nel corso del- le indagini dagli stessi ufficiali dei cara- binieri (Mori e De Donno) che ne sono sta- ti protagonisti, avrebbe avuto uno scopo esplorativo finalizzato a tentare qualche strada per far desistere la mafia dal por- tare a termine le azioni criminali pro- grammate. In termini più espliciti: tastare il terreno per verificare cosa i capimafia potessero richiedere e cosa lo stato, dal canto suo, potesse ragionevolmente “con- cedere” per bloccare le minacce stragiste. Quanto fin qui succintamente accenna- to delinea lo scenario complessivo in cui si colloca la cosiddetta trattativa stato-ma- fia, nel cui ambito – co- Palermo, omicidio Mangione (foto di Nicola Scafiti) L’organo dell’accusa muove da un pregiudizio di grave disapprovazione etico-politica della presunta trattativa Un piano stragista che prevedeva l’uccisione, dopo Salvo Lima, di altri uomini politici: Andreotti, Martelli, Mannino L’individuazione di possibili figure di reato: un punto non controvertibile, ma in questo caso probabilmente trascurato L’ipotesi di una nuova intesa nel solco di una tradizione storica di “non belligeranza” che risale al secondo Ottocento Un saggio lo fa a pezzi IL PROCESSO SULLA TRATTATIVA E’ UNA BOIATA PAZZESCA Giovanni Fiandaca,tra i più autorevoli studiosi di Diritto penale,considerato un maestro anche da Ingroia, sostiene che manca il movente,mancano le prove e che non è chiara nemmeno la formulazione dei reati di Giovanni Fiandaca (segue nell’inserto IV)

description

essay

Transcript of Saggio Fiandraca Trattativa Foglio(1)

ANNO XVIII NUMERO 128 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 1 GIUGNO 2013

Questo saggio è stato appena pubblica-to sull’Annuario di scienze penalisticheCriminalia (anno 2012). Edizioni ETS.

1. PremessaLa vicenda giudiziaria relativa alla co-

siddetta trattativa stato-mafia, assai notaanche per l’ampia copertura ricevuta daimedia, offre lo spunto per riflessioni chesi collocano su piani diversi e, in parte,convergenti. Ci sono ragioni per conside-rare tale vicenda come una sorta di me-tafora emblematica di una serie di com-plesse, e per certi versi patologiche, inte-razioni tra un certo uso antagonistico del-la giustizia penale, il sistema politico-me-diatico e il tentativo di fare maggiore chia-rezza, sotto l’aspetto storico-ricostruttivo,su alcuni nodi assai drammatici della no-stra storia recente. Da questo punto di vi-sta, non si rinnova soltanto, con toni forseancora più enfatizzati, quel conflitto frapolitica e giustizia che nell’ultimo venten-

nio ha disturbato il funzionamento dellademocrazia italiana. Nello stesso tempo, atornare in discussione è l’interrogativo difondo circa gli scopi del processo penale,come pure il connesso problema relativoal ruolo della magistratura, consideratoanche nella percezione soggettiva che nehanno in particolare alcuni magistratid’accusa molto combattivi e pubblicamen-te esposti.

Ci sono sul tappeto, inoltre, impegnati-ve questioni tecnico-giuridiche che hannoa che fare con quella che dovrebbe costi-tuire la normale premessa di una indagi-ne, prima, e di un processo penale, dopo:cioè la previa individuazione di plausibilifigure di reato. Questo è in realtà un pun-to non controvertibile, ma nel caso dellatrattativa probabilmente trascurato – onon sufficientemente lumeggiato – specienell’ambito della comunicazione mediati-ca. Si è, invero, assistito a un insistentebombardamento televisivo accreditantel’idea della trattativa come un crimine gra-vissimo. Ma, se questo è il messaggio più omeno confusamente arrivato al grosso pub-blico, le cose stanno in verità alquanto di-versamente sul piano dell’ipotesi accusa-toria formulata dai pubblici ministeri.L’organo dell’accusa, muovendo pregiudi-zialmente da un giudizio di grave disap-provazione etico-politica della presuntatrattativa, si è infatti imbattuto – come me-glio vedremo in seguito – in una oggettivadifficoltà tecnica: nella difficoltà cioè ditrasporre questa “precomprensione” inuna cornice criminosa idonea a coinvolge-re insieme, avvinti anche simbolicamentecome complici di un medesimo delitto,

boss mafiosi e membri delle istituzioni. Daqui la ricerca, nella complessa e oscuratrama delle vicende oggetto di giudizio, diqualche momento o frammento fattualeche fosse suscettibile di assumere parven-ze di illecito penale; una ricerca tutt’altroche semplice, come è confermato dal fattoche altri uffici giudiziari (in particolare diFirenze e Caltanissetta) che si sono occu-pati delle medesime vicende nel più am-pio contesto delle indagini sulle stragi, nonhanno ritenuto di ravvisare ipotesi di rea-to tecnicamente gestibili.

Nonostante la difficoltà dell’impresa, ipubblici ministeri palermitani – coordina-ti dal procuratore aggiunto Antonio In-groia – si sono spinti fino a oltrepassare lasoglia dinanzi alla quale i colleghi di altresedi si sono arrestati: la tesi accusatoria,infine escogitata dalla procura di Palermo,ipotizza che alcuni specifici momenti del-la cosiddetta trattativa configurino un con-corso criminoso nel reato di violenza o mi-naccia a un corpo politico (art 338 c.p.).

Ipotesi plausibile in termini tecnico-giu-ridici?

2. Una vicenda storico-politica molto com-plessa e ambigua, suscettibile di valutazio-ni non univoche (anche alla luce del princi-pio della divisione dei poteri)

Non è questa la sede per ricostruire indettaglio l’insieme eterogeneo dei fatti su-scettibili di essere ricondotti sotto l’eti-chetta di una “trattativa”, o di più “tratta-tive” che sarebbero intercorse fra la ma-fia e lo stato nei primissimi anni Novantadello scorso secolo: con il duplice obietti-vo – secondo l’ipotesi ricostruttiva dell’ac-cusa – di un “ammorbidimento” della stra-tegia di contrasto della criminalità mafio-sa (grazie, ad esempio, a una attenuazionedel rigore carcerario per i condannati sot-toposti al regime di cui all’art 41 bis ord.penit.) e, più in generale, della stipula diun nuovo patto di convivenza, di una nuo-va intesa compromissoria tra stato e Cosanostra (nel solco, peraltro, di una tradizio-ne storica di “non belligeranza” risalenteal secondo Ottocento). In sintesi, l’ipotesi

storico-ricostruttiva privilegiata dal grup-po di pubblici ministeri guidati da AntonioIngroia – ribadita in scritti o interviste del-lo stesso Ingroia e, altresì, recepita nel-l’ambito di una letteratura saggistica “fian-cheggiatrice” (1) – è riassumibile nel modoseguente.

Dopo la conferma in Cassazione il 30gennaio 1992 delle pesanti condanne in-flitte dai giudici del maxiprocesso, la qua-le ha avuto l’effetto di mettere in crisi, an-che simbolicamente, la tradizionale im-punità dei boss, Cosa nostra avrebbe rea-gito ideando e in parte realizzando un pro-gramma stragista avente come fine ultimola ricostruzione di un rapporto di pacifi-ca convivenza tra il sottomondo mafioso eil mondo politico-istituzionale: le stragicostituivano, in questa prospettiva, unostrumento necessario per piegare psicolo-gicamente il ceto politico di governo, nelsenso di indurlo a desistere da una lotta atutto campo contro la mafia, in vista dinuove intese basate sulla vecchia logicadella reciprocità dei favori. Secondo fon-ti informative di matrice segreta, questopiano stragista – iniziato con l’omicidiodel parlamentare siciliano Salvo Lima nelmarzo del 1992 – prevedeva l’uccisione diimportanti uomini politici come GiulioAndreotti, Claudio Martelli, CalogeroMannino e altri: tutti colpevoli di aver vol-tato le spalle a Cosa nostra, di averla tra-dita e di non aver mantenuto le promessedi “aggiustamento” del maxiprocessopresso la Corte di cassazione. E’ in questofosco e angosciante orizzonte, denso dimortali minacce incombenti e nello stes-so tempo imprevedibili, che nascerebbe

l’iniziativa dei carabinieri del Ros – solle-citata, secondo la prospettazione accusa-toria dei pm, da uno dei politici minac-ciati (cioè Calogero Mannino) – di contat-tare l’ex sindaco di Palermo Vito Cianci-mino come possibile tramite di comunica-zione con il vertice mafioso corleonese.Questa presa di contatto sfociata in più in-contri, e ammessa peraltro nel corso del-le indagini dagli stessi ufficiali dei cara-binieri (Mori e De Donno) che ne sono sta-ti protagonisti, avrebbe avuto uno scopoesplorativo finalizzato a tentare qualchestrada per far desistere la mafia dal por-tare a termine le azioni criminali pro-grammate. In termini più espliciti: tastareil terreno per verificare cosa i capimafiapotessero richiedere e cosa lo stato, dalcanto suo, potesse ragionevolmente “con-cedere” per bloccare le minacce stragiste.

Quanto fin qui succintamente accenna-to delinea lo scenario complessivo in cuisi colloca la cosiddetta trattativa stato-ma-fia, nel cui ambito – co-

Palermo, omicidio Mangione (foto di Nicola Scafiti)

L’organo dell’accusa muove da un pregiudizio di gravedisapprovazione etico-politicadella presunta trattativa

Un piano stragista cheprevedeva l’uccisione, dopo SalvoLima, di altri uomini politici:Andreotti, Martelli, Mannino

L’individuazione di possibilifigure di reato: un punto noncontrovertibile, ma in questo casoprobabilmente trascurato

L’ipotesi di una nuova intesanel solco di una tradizione storicadi “non belligeranza” che risaleal secondo Ottocento

Un saggio lo fa a pezzi

IL PROCESSOSULLA

TRATTATIVAE’ UNA BOIATA

PAZZESCAGiovanni Fiandaca, tra i più autorevoli studiosi di Diritto

penale, considerato un maestro anche da Ingroia,sostiene che manca il movente, mancano le prove e che

non è chiara nemmeno la formulazione dei reati

di Giovanni Fiandaca

(segue nell’inserto IV)

ANNO XVIII NUMERO 128 - PAG IV IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 1 GIUGNO 2013

me si è anticipato – i pubblici ministeripalermitani hanno ritenuto di poter rav-visare, a carico dei protagonisti coinvolti(da un lato boss mafiosi, dall’altro ufficia-li dei carabinieri e uomini politici), un’i-potesi di concorso criminoso nel reato dicui all’art. 338 c.p. Ma, prima di entrarenel merito di questa specifica contesta-zione, siano consentite alcune considera-zioni a carattere preliminare, che hannoa che fare con la logica della divisione deipoteri istituzionali.

La prima considerazione da cui pren-dere le mosse, e che potrebbe anche ap-parire superfluo esplicitare, è questa: ilperseguimento dell’obiettivo di far cessarele stragi, in sé considerato, mai potrebbeessere giuridicamente qualificato come il-lecito; al contrario, esso può apparire do-veroso sotto un profilo sia politico che giu-ridico. E, in base al principio della divi-sione dei poteri, compete al potere esecu-

tivo e alle forze di polizia ricercare le stra-tegie di intervento necessarie a prevenirela commissione di atti criminosi o a inter-romperne la prosecuzione. Senza che, pe-raltro, la legittimità di tali interventi possaconsiderarsi condizionata a forme di pre-ventiva autorizzazione o di preventivo as-senso da parte dell’autorità giudiziaria. Amaggior ragione in momenti di grave edrammatica emergenza, connotati da undiffuso e imprevedibile rischio stragista(come furono, appunto, quelli vissuti nel’92-’93) rientra nella discrezionalità politi-ca del governo valutare i pro e i contro, intermini di bilanciamento costi-benefici,della scelta di fare eventuali “concessioni”ai contropoteri criminali in cambio dellacessazione delle aggressioni mortali.

Posto che una simile scelta politica ri-sulterebbe – piaccia o non piaccia – pe-nalmente non censurabile (tranne, ovvia-mente, che si incorra in violazioni palesi ein ogni caso ingiustificabili della legalitàpenale), sembra per questa stessa ragionedifficile ipotizzare che ricadrebbe in un’a-rea di illiceità penale il comportamento diquanti a vario titolo, sul versante politico-istituzionale, prestano un contributo allarealizzazione di iniziative finalizzate ad ar-ginare la violenza mafiosa. Ma in proposi-to i magistrati della procura di Palermomanifestano un convincimento contrario,cioè incline alla criminalizzazione di que-gli esponenti politico-istituzionali cheavrebbero avuto un ruolo nel favorire lapresunta trattativa (o le presunte trattati-ve). Assai verosimilmente, una simile pro-pensione criminalizzatrice muove – come

già accennato – da una “precomprensione”etico-politica (e ancor prima emotiva)orientata nel senso di una assoluta disap-provazione: sino al punto di avvertire ogniipotesi di possibile trattativa come unaeventualità da far “rabbrividire” (2). Inquesta ottica di incondizionata condannapolitica e morale, il rispetto del principiocostituzionale della divisione dei poterinon trova alcuno spazio; e l’unica legalitàpossibile finisce con l’essere quella rita-gliata sul modello di una lotta alla mafiache vede come unica istituzione compe-tente la magistratura, stigmatizzando comeinterferenza illecita ogni intervento auto-nomo di ogni altro potere istituzionale.Sulla base di questi presupposti, implici-tamente diventa dunque la magistratural’unico organo depositario del potere distabilire cosa competa (o non competa) algoverno e agli organi di polizia per salva-guardare anche in forma preventiva l’or-dine pubblico, fronteggiando il rischio difuture aggressioni criminali. Ogni devia-zione da questo schema, oltre a essere cen-surabile sul piano etico-politico, non po-trebbe non risultare altresì sindacabile al-la stregua di una legalità penale concepi-ta però – come vedremo – in un’ottica più“sostanzialistica”, che rispettosa dei vin-coli formali della tipicità delle fattispecie

que trovati di fronte a scelte politico-di-screzionali imputabili a soggetti istituzio-nali in qualche modo e misura competen-ti, ancorché operanti in modo poco traspa-rente. Ma, se di opzioni politico-istituzio-nali pur sempre riconducibili a organicompetenti ad adottarle si è davvero trat-tato, ancora una volta non si vede – ap-punto – come si possa pretendere di eser-citare un sindacato penale con riferimen-to anche alle sole attività preparatorie chehanno precostituito il terreno favorevolead un esercizio di discrezionalità politico-governativa pro-negoziato.

Rimane, peraltro, da chiedersi a questopunto quali concessioni lo stato abbia inconcreto finito col fare all’esito del tortuo-so percorso trattativista, e quali effettivivantaggi ne abbia tratto Cosa nostra. Pro-prio in un’ottica di risultato, quel che ri-mane sfumato e che i pubblici ministerinon si sono sforzati di chiarire è se i di-versi approcci finalizzati allo scellerato

patto abbiano prodotto frutti sostanziosi, osiano rimasti allo stadio di tentativi prividi esiti tangibili (5). Per quanto se ne sa, sec’è un beneficio concreto che la mafia haconseguito, questo viene dall’organo del-l’accusa individuato nella revoca di alcu-ni provvedimenti ex art. 41 bis ord. penit.disposta dal ministro della Giustizia Gio-vanni Conso nell’anno 1993 nei confronti dicirca trecento mafiosi di livello però tuttosommato modesto. Non risultano, per il re-sto, altre forme di cedimento riconducibi-li a decisioni del governo o di suoi espo-nenti. La montagna ha dunque partoritoun topolino? Tanto rumore per nulla?

Ma, per comprendere meglio il sensocomplessivo dell’impostazione accusatoriadei pubblici ministeri, bisogna in realtàcompiere un passo indietro e spiegare an-che la intrigante genesi dell’indagine giu-diziaria sfociata infine nella richiesta dirinvio a giudizio per i presunti protagoni-sti della trattativa.

3. Un passo indietro: l’ambiziosa inquisitiogeneralis sui “sistemi criminali integrati”

L’indagine predetta ha come retroterrauna cornice investigativa ben più ampia eambiziosa, intitolata dagli stessi pubbliciministeri “sistemi criminali”. Questa inso-lita e curiosa intitolazione faceva riferi-mento a una investigazione dai confini as-sai estesi – una vera e propria inquisitiogeneralis, che andava alla ricerca di (assaipiù di quanto non prendesse le mosse da)ipotesi specifiche di reato – incentrata,precisamente, su di un lungo arco tempo-rale che partiva dalla seconda metà degli

anni Ottanta e giungeva quasi alla fine de-gli anni Novanta, includendo dunque fasiantecedenti e successive alle stragi mafio-se: l’intuizione di fondo sottostante a que-sta grande indagine (poi, invero, sfociata indiversi provvedimenti di archiviazione)consisteva nell’idea di un intreccio e diuna interazione tra un sistema criminalemafioso e un sistema criminale non mafio-so, costituito da “massoneria deviata, fi-nanza criminale, destra eversiva e frangedei sevizi segreti” (6). Questa coesistenzadi sistemi criminali diversi avrebbe avutoalla base, più che un’unica regia, una “con-vergenza di interessi” in vista del comuneobiettivo di “rifondare il rapporto con lapolitica”. Sicché, pur trattandosi di entitàcriminali autonome, si sarebbe assistito auna oggettiva confluenza e integrazione dipiù sistemi criminali in un unico sistemacriminale complesso. In questo tessutocomposito, avrebbero rivestito un ruolochiave di elementi di collegamento uomi-ni-cerniera come Marcello Dell’Utri (7).

Per completare il quadro, rimane a que-sto punto da aggiungere che, nella visionedei pubblici ministeri, una funzione deci-siva sarebbe spettata alla nascita e all’af-fermazione del nuovo soggetto politicorappresentato da Forza Italia. Nel sensoche questa forza emergente avrebbe finito

Omicidio Mineo (foto di Nicola Scafiti)

L’obiettivo di far cessare lestragi, di per sé, non potrebbe maiessere giuridicamente qualificatocome illecito

Non si capisce se i diversiapprocci finalizzati al pattoscellerato abbiano prodotto fruttisostanziosi o siano rimasti tentativi

In un’ottica di incondizionatacondanna politica e morale, ilrispetto della divisione dei poterinon trova alcuno spazio

L’idea di un intreccio tra unsistema criminale mafioso e unono (“massoneria deviata, finanzacriminale, destra eversiva”)

incriminatrici.E’ vero che si potrebbe a questo punto

obiettare che l’enfasi fin qui posta sulprincipio della divisione dei poteri nontiene conto di un dato: cioè che le inizia-tive volte a venire in qualche modo a pat-ti con Cosa nostra,lungi dall’essere deli-berate in forma uffi-ciale dal governo, sa-rebbero state realiz-zate in maniera oc-culta, e avrebberoavuto, per di più, co-me presunti registi ointerlocutori perso-naggi politici cheavevano anche un in-teresse egoistico asalvare la propriapelle (come, ad esem-pio, nel caso emble-matico di CalogeroMannino, che rientra-va nel novero dei po-litici direttamente minacciati di morte) o,comunque, a ripristinare rapporti di inte-ressata convivenza con la mafia (come sa-rebbe stato il caso di Marcello Dell’Utri,anche nel ruolo di fondatore della na-

scente Forza Italia e dunque di possibilecollegamento politico con Silvio Berlu-sconi). Ora, che elementi di forte ambi-guità e interessi non sempre nobili abbia-no contribuito a rendere meno chiaro etrasparente lo scenario trattativista, è

molto verosimile. Maciò basta a modifica-re il carattere di in-trinseca liceità (senon di doverosità)dei tentativi di argi-nare il rischio stragi-sta, trasformando inegoziatori istituzio-nali in una cricca pri-vata in combutta conla mafia per il perse-guimento di interessiegoistici e ignobili?Verosimilmente, nonbasta. Che il contestotrattativista abbiapresentato, nonostan-te tutto, momenti ine-

vitabili di coinvolgimento dei piani altidelle istituzioni, sono gli stessi autori del-l’indagine giudiziaria a metterlo in evi-denza, a cominciare dal procuratore ag-giunto Antonio Ingroia, il quale espressa-

mente sostiene: “Appena la trattativa vie-ne avviata la necessità di salvare i politi-ci (e con essi si ha la pretesa di salvare laRepubblica) assumeuna grande rilevanzaistituzionale, e lo sta-to si attiva per rimuo-vere tutti i possibiliostacoli al riguardo”(3). Ma, se così si dàper scontato un im-pegno dello stato inquanto tale, per altroverso ignoranza e in-certezza tornano aprevalere rispetto siaall’esistenza di unaregia unitaria deitentativi di accordocon la mafia, sia al-l’individuazione ditutti i co-protagonistiimpegnati nelle cor-rispondenti attivitàpreparatorie. In baseagli elementi di co-noscenza disponibili,sembrano consentite soltanto congetture oipotesi. Tra queste, quella di una entratain campo dei servizi di sicurezza unita-

mente a un intervento dell’allora capo del-la polizia Parisi, il quale avrebbe – a suavolta – ricercato e rinvenuto “un’autore-

vole sponda istituzio-nale” nel presidentedella RepubblicaScalfaro. E si sospet-ta un possibile ruoloproprio del presiden-te Scalfaro nel far sìche Giuliano Amato,da lui incaricato nelgiugno del 1992 di for-mare un nuovo gover-no, sostituisse i pre-cedenti ministri del-l’Interno e della Giu-stizia Scotti e Martel-li (mostratisi troppocombattivi contro lamafia) con i nuovi mi-nistri Mancino e Con-so, considerati più di-sponibili ad allentareil rigore antimafioso(4). A ben vedere, ipotesi

ricostruttive di questo tipo confermereb-bero in realtà che, pur in un quadro pocochiaro da arcana imperii, ci si è comun-

L’inventoreRoberto Scarpinato. Dal febbraio scorso

procuratore generale di Palermo, è il ma-gistrato che ha legato gran parte del suolavoro all’istruzione di un’inchiesta prati-camente senza fine e senza confini: quellasui cosiddetti “sistemi criminali”. Un con-tenitore dove sono finiti, a varie riprese,boss e uomini politici, massoni e servizi se-greti deviati. A parte i sistemi criminali,che hanno assorbito gran parte del suo im-pegno professionale, Scarpinato viene pu-re ricordato per avere sostenuto, con Gui-do Lo Forte e Gioacchino Natoli, l’accusaal processo Andreotti.

Il registaAntonio Ingroia. E’ l’aggiunto che, su

delega del procuratore Francesco Messi-neo, ha coordinato il pool dell’inchiestasulla presunta trattativa tra i boss mafiosie alcuni uomini delle istituzioni. Nel no-vembre scorso, quando l’imponente fasci-colo doveva ancora andare al giudice Pier-giorgio Morosini, chiamato a decidere suirinvii a giudizio, Ingroia lascia Palermo eparte per il Guatemala, chiamato dall’Onua organizzare un servizio di contrasto allacriminalità di quel paese. Ma ci resta pocopiù di un mese perché decide di fondare unpartito, Rivoluzione civile, e di candidarsipremier alle elezioni nazionali del 24 e 25febbraio. Non raggiunge il quorum e rien-tra in magistratura. Il Csm lo assegna adAosta, lui non accetta e si mette in ferie. Ciresterà fino al 20 giugno.

Il bluff della Trattativa

MA IL CAPOD’IMPUTAZIONE

NON REGGE“Grandi boss della mafia e uomini della politicae delle istituzioni non possono essere accomunati

quali complici dello stesso reato”

(segue dall’inserto III)

ANNO XVIII NUMERO 128 - PAG V IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 1 GIUGNO 2013

per interpretare, facendosene carico, quel-la esigenza di rinnovato compromesso trapolitica e poteri criminali che la strategiastragista aveva violentemente manifestatoa suon di bombe. Non a caso, l’iter argo-mentativo sviluppato fino in fondo dai pub-blici ministeri perviene alla conclusioneche la strategia stragista della mafia si sa-rebbe infine arrestata, per il progressivoesaurimento delle sue ragioni ispiratrici,proprio con l’avvento del governo berlu-sconiano: il quale, secondo questa sugge-stione accusatoria, avrebbe infatti assoltola funzione di dare rappresentanza o difornire copertura legale a interessi crimi-nali di natura eterogenea ma convergente.E, in questo quadro ricostruttivo a tinte as-sai fosche, ha perfino fatto capolino il so-spetto di un possibile coinvolgimento nel-le azioni stragiste del ’93-’94 (di Roma, Fi-renze e Milano) degli stessi Marcello Del-l’Utri e Silvio Berlusconi. Un’ipotesi accu-satoria così enorme, infine archiviata (8),

aveva in origine una sua autentica plausi-bilità o era soprattutto frutto di un pregiu-dizio demonizzante? In effetti, a meno dicedere a una incoercibile tentazione dileggere gli eventi secondo un’ottica omni-criminalizzatrice, non sembrano esservimotivi oggettivamente forti per supporreche il passaggio dal vecchio assetto di po-tere basato sulla Dc a quello nuovo (im-personato da Berlusoni) avesse bisogno distragi come condizione necessaria del suocompimento (9).

Non c’è, forse, bisogno di essere storici opolitologi di professione per diagnostica-re nel tipo di narrazione sviluppata dallamagistratura requirente un eccesso (perdir così) di precomprensione “mafiocen-tirca” e, più in generale, criminalizzatrice.L’arco temporale di storia italiana fatta og-getto di inquisitio generalis nell’ambito del-l’indagine sui “sistemi criminali” può es-sere davvero ricostruito in una chiave pe-nalistica, così finendo col trascurare lacomplessità e l’eterogeneità dei fattori dicontesto che contribuivano a spiegare, inquesto come del resto in quasi tutti i pe-riodi storici, l’avvicendamento delle forzepolitiche al potere e dei relativi protago-nisti? La tentazione giudiziale di rileggerele dinamiche storico-politiche del nostropaese come se la loro chiave di volta fosseda rinvenire nell’influenza soverchianteesercitata dai poteri criminali riflette, ve-rosimilmente, una tendenza semplificatri-ce frutto di una sorta di deformazione pro-fessionale tipica della magistratura piùimpegnata sul fronte dell’antimafia. Sitratta, del resto, di forzature interpretative

già stigmatizzate da valorosi storici di pro-fessione (come Salvatore Lupo), i qualimettono criticamente in guardia dalla fa-cile propensione a dare per scontato l’in-tervento di poteri e mandanti occulti (maiperaltro provato in sede giudiziaria) e acongetturare legami sistemici tra questipoteri e l’universo mafioso (10). In propo-sito, è stato significativamente osservatoproprio da Salvatore Lupo: “Continuo anon capire, per fare un esempio, per qua-le ragione i grandi poteri affaristico-poli-tici, spesso chiamati in causa avrebberodovuto affidare a Cosa nostra il mandatoper la strage degli Uffizi”. Sarebbe fintroppo facile, proseguendo nella critica al-la tendenza giudiziale a evocare perversiquanto indefiniti intrecci tra poteri crimi-nali ed entità occulte (servizi segreti, mas-soneria deviata, finanza criminale et simi-lia), avanzare il sospetto che neppure i ma-gistrati dell’accusa siano immuni da quel-la sindrome nota come “ossessione delcomplotto”, che incessantemente alimenta– di epoca in epoca – le teorie cosiddettecospirative della storia: le quali tendono aspiegare avvenimenti che hanno causeplurime e complesse, e perciò difficili daindividuare, come se fossero appunto frut-to di diabolici disegni e di strategie unita-rie nelle mani di Signori del male o del cri-

al potenziamento di una cultura antima-fiosa e non si è certo impegnata per l’af-fermazione del primato della legalità (15).Ma è altrettanto vero, per altro verso, chenessun colpo demolitore è stato inferto al-la legislazione antimafia; e che, nonostan-te l’aspro e duraturo conflitto esploso frapolitica e giustizia, alla magistratura pe-nale non è stato affatto impedito di prose-guire nella sua attività repressiva, né le èstato impedito di dirigere e portare a ter-mine indagini che hanno condotto alla cat-tura di boss anche di prima grandezza. Ciò,sul piano dei fatti, non va trascurato: latrattativa, da questo punto di vista, non hain realtà procurato ai mafiosi i vantaggisperati.

Alla fine di tutti i rilievi che precedono,ci sono motivi per prospettare – volenti onolenti – questo interrogativo di fondo al-quanto imbarazzante: è stato opportunoimmettere e diffondere nella sfera pubbli-ca gli assai infamanti sospetti giudiziari di

possibili connessioni fra lo stragismo ma-fioso e l’affermazione politica di SilvioBerlusconi, e ciò prima che si procedessea una approfondita verifica (anche pre-ventiva) del loro grado di fondatezza? Inrealtà, si è creata una interazione crimi-nalizzatrice all’insegna dell’antiberlusco-nismo tra settori della magistratura dipunta, settori del sistema mediatico incli-ni a un lavoro di sponda e settori dell’op-posizione politica, la quale ha provocatoun effetto perverso: quello di esacerbareoltremisura il conflitto politico, veicolandocome dimostrata l’ipotesi, in realtà tutta dadimostrare, dell’orrenda complicità diBerlusconi e Dell’Utri nello stragismo.Questa micidiale tossina, capace di avve-lenare il funzionamento della democraziaitaliana, provocando atteggiamenti di sfi-ducia e di delegittimazione reciproca fra iversanti politici in conflitto, non è stata ef-ficacemente contrastata nemmeno dallaparte più vigile e critica del mondo intel-lettuale. E’ come se la cultura di orienta-mento antiberlusconiano, inclusa quellauniversitaria, avesse in larga misura pre-ferito non impegnarsi sul serio nel dibat-tere pubblicamente la credibilità degliscenari sconvolgenti azzardati nei labora-tori giudiziari, così sottraendosi al disagiodi prendere di petto questioni molto dram-matiche e imbarazzanti, o talvolta pre-stando fede con corrività alle verità osce-ne congetturate nel chiuso delle procure(16).

Comunque, l’impressione complessiva èche, all’esterno dei recinti della magistra-tura antimafia, l’ipotesi di un Berlusconi

complice delle stragi non sia riuscita a im-porsi come verità accettabile da parte diun’ampia maggioranza di cittadini. E nonsoltanto perché si sarebbe trattato di qual-cosa di inaccettabile per un senso comunediffuso. A prestar fede all’idea di un cri-minoso connubio tra stragismo mafioso esuccesso politico berlusconiano, come con-tinuare a convivere con un governo gene-rato dal crimine, seguitando a osservaretranquillamente i riti di un’apparente nor-malità democratica? Fuori da ogni cinismoipocrita, di fronte a una così intollerabileabnormità, coerenza e sensibilità etico-po-litica avrebbero imposto di scendere nel-le piazze e di combattere il criminale alpotere con ogni mezzo, perfino con le armi(17).

4. La scarsa plausibilità della specifica fi-gura di reato (art. 338 c.p.) ipotizzata a cari-co dei protagonisti della trattativa

Il quadro fin qui riassunto, per quantocarente degli elementi di dettaglio, deli-nea l’orizzonte in cui viene a collocarsil’indagine più specifica sfociata nella ri-chiesta di rinvio a giudizio di dodici pre-sunti protagonisti della trattativa per ilreato di violenza o minaccia a un corpo po-litico dello stato (art. 338 e 110 c.p.).

Va subito rile-

Omicidio Bonanno (foto di Nicola Scafiti)

Ha fatto capolino anche ilsospetto di un possibilecoinvolgimento di Dell’Utri eBerlusconi nelle stragi del ’93-’94

Un’interazione criminalizzatriceall’insegna dell’antiberlusconismotra settori della magistratura, delsistema mediatico e dell’opposizione

Gli storici mettono in guardiadalla facile propensione a dareper scontato l’intervento di poterie mandanti occulti

All’esterno dei recinti dellamagistratura antimafia non èstata accettata l’ipotesi di unBerlusconi complice delle stragi

mine (12). Comunque sia, è forse superfluo a que-

sto punto esplicitare che, agli occhi di ungiurista sensibile ai principi, un’indaginegiudiziaria di così grande ampiezza comequella incentrata sui “sistemi criminali”non può non appari-re poco “ortodossa”(se non proprio ab-norme). Sarebbequindi il caso che visoffermassero la loroattenzione critica glistudiosi del processopenale, e ciò allo sco-po di verificare i li-miti di compatibilitàdi imprese investiga-tive di tale vastitàcon le regole che di-sciplinano il proces-so penale nell’attua-le ordinamento. Chein proposito potesse sorgere qualche pro-blema non è certo sfuggito a un espertomagistrato dell’accusa come Antonio In-groia, il quale ha a questo riguardo am-messo: “Era un’indagine molto ambiziosa,che spingeva fino al limite le potenzialitàdello strumento della giurisdizione pena-

le. E forse anche per questo non siamo riu-sciti ad arrivare fino in fondo con un pro-cesso. Occorreva trovare prove concretenei confronti di persone determinate ri-spetto a reati specifici e non ci siamo riu-sciti” (13). Come sembra comprovato da

questa franca ammissione, l’avvio di inda-gini ad amplissimo spettro secondo il mo-dello dell’inquisitio generalis, lungi dalmuovere dalla previa individuazione diipotesi specifiche di reato, funge da sondaesplorativa diretta in primo luogo ad ac-certare fenomeni criminali di cui si con-

gettura l’esistenza, mentre la possibilità discoprire concreti fatti illeciti e i relativiautori rimane un obiettivo eventuale edincerto. Da questo punto di vista, l’ap-proccio ricostruttivo appare più simile aquello di uno storico o di un sociologo im-

pegnati nello studio di contesti di ampiorespiro, che non a quello di un magistra-to vincolato alle regole e alle finalità del-l’indagine giudiziaria e del processo pe-nale concepito in senso stretto.

Ma, per tornare ancora alla questionecruciale del tipo di copertura che il go-

verno berlusconiano avrebbe finito colfornire ai poteri criminali, in particolarea quelli a carattere mafioso, viene da chie-dersi: che cosa effettivamente sta dietroalla tesi – per dirla ancora una volta conIngroia – di una “legalizzazione degli in-

teressi criminali pas-sata attraverso l’azze-ramento della vec-chia classe politica”?(14). Una tale legaliz-zazione andrebbe in-tesa in senso effettua-le o in un senso (perdir così) simbolico-culturale? E’ verosi-mile che sia più per-tinente la seconda ac-cezione, che può es-sere esplicitata neiseguenti termini: lacultura politica delberlusconismo, privi-

legiando il libero dispiegamento dell’in-dividualismo egoistico e dispregiando diconseguenza il valore delle regole, ha difatto alimentato un clima propizio aldiffondersi degli illegalismi, cagionandoun gravissimo decadimento dell’etica pub-blica; in questo senso ha poco contribuito

Non più di dieci o undici mesi fa, quando il professore Fiandaca,autore di questo saggio, manifestò in pubblico le sue perplessità sul-la consistenza giuridica del processo sulla Trattativa, il procurato-re Antonio Ingroia – che di quel processo è stato il maestro compo-sitore, concertatore, arrangiatore e direttore d’orchestra – fece buonviso a cattivo gioco: “Se il professore Fiandaca, che io considero unmio maestro, sostiene che la trattativa in sé non è un reato io nonposso che essere d’accordo con lui”. Ma Giovanni Fiandaca, titola-re di Diritto penale all’Università di Palermo, non è considerato un“maestro” solo da Ingroia. Ha rappresentato e rappresenta tuttoraun punto di riferimento, oltre che per il mondo accademico, anche

e soprattutto per la cultura di sinistra. Basti pensare che, nel 1994,su indicazione dell’area progressista, viene nominato all’unanimitàdal Parlamento membro laico del Consiglio superiore della magi-stratura.

Le sue pubblicazioni non si contano, il manuale di Diritto pena-le più diffuso nelle università e nelle aule di giustizia porta la sua fir-ma. E’ tra gli studiosi di scienze giuridiche più conosciuti in Italia.Il mondo della sinistra, in particolare, lo ha sempre considerato unsuo fiore all’occhiello e, in materia di Diritto penale, gli attribuiscela stessa autorevolezza per esempio riservata, in materia di Dirittocostituzionale, a Valerio Onida.

Ritratto di Fiandaca, che anche Ingroia chiamava “maestro”

Il bluff della Trattativa

UNA RIEDIZIONEDEI “SISTEMICRIMINALI”

“Le minacce mafiose erano oggettivamente tali da potercondizionare il governo, annullandone il potere di libera

determinazione, o da turbarne comunque l’attività?”

(segue nell’inserto VI)

ANNO XVIII NUMERO 128 - PAG VI IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 1 GIUGNO 2013

INGROIA, IL PM CHE DIVENTA vato che la prospettazione di quest’ipotesicriminosa è frutto di una escogitazione aposteriori e in via residuale, nel senso cheessa è sembrata apparire ai pubblici mi-nisteri l’unico ancoraggio per conferireuna veste delittuosa ad alcuni segmenti diuna vicenda molto articolata e complessa,ma irriducibile a qualificazioni penalisti-che sicure e univoche alla stregua di pa-radigmi di incriminazione meno eccentri-ci rispetto a quello infine escogitato. In ter-mini più semplici ed espliciti: per dare le-gittimazione giuridica al preconcetto del-la sostanziale illiceità della trattativa, unaqualche figura di reato cui ancorarsi do-veva essere rinvenuta a ogni costo, e dun-que anche al prezzo di possibili forzature.Che si tratti di una imputazione strumen-tale a obiettivi di pregiudiziale incrimina-zione è, d’altra parte, comprovabile me-diante una rigorosa analisi della imposta-zione accusatoria e delle argomentazionisottostanti.

Orbene, si imputa in sintesi ad alcuniesponenti di vertice di Cosa nostra (Riina,Provenzano, Brusca, Bagarella e Cinà), atre alti ufficiali del Ros (Subranni, Mori eDe Donno) e a due uomini politici (Manni-

no e Dell’Utri) di avere insieme concorsoa turbare la regolare attività del governoitaliano con minacce consistite nel pro-spettare l’organizzazione e l’esecuzione diomicidi e stragi (alcuni dei quali effettiva-mente commessi), e finalizzate a esercitarepressioni psicologiche in vista dell’acco-glimento di benefici richiesti da Cosa no-stra (18). Una imputazione così congegna-ta è tale da giustificare davvero una sus-sunzione del fatto sotto l’ipotizzata fatti-specie incriminatrice di cui all’art. 338c.p.? A ben guardare, sono avanzabili obie-zioni critiche sul duplice versante dell’e-lemento oggettivo e dell’elemento sogget-tivo.

Ma, prima di esplicitarle, è appena il ca-so di avvertire che nei confronti dei con-correnti mafiosi la prospettazione del rea-to predetto si traduce in una modalità diincriminazione aggiuntiva rispetto allaben più pesante forma di responsabilitàpenale che su di essi già comunque gravaper le azioni stragiste alla cui realizzazio-ne hanno a vario titolo contribuito; mentreil ricorso all’art 338 c.p. assolverebbe unafunzione incriminatrice primaria solo neiconfronti degli altri protagonisti della trat-tativa estranei all’universo mafioso: percui è soprattutto la perseguita punibilità diquesti ultimi a spiegare l’escogitazione, al-trimenti poco spiegabile, di una forma diimputazione così eccentrica. In aggiunta,non è forse superfluo tornare a evidenzia-re l’effetto simbolico di forte etichetta-mento censorio di un’accusa che consentedi accomunare, quali complici di uno stes-so reato, da un lato grandi boss mafiosi edall’altro soggetti appartenenti al mondodella politica e delle istituzioni.

4.1. Fatte queste premesse, allo scopo dianalizzare più da vicino il ragionamentogiudiziale sviluppato per giustificare l’ap-plicabilità della fattispecie di cui all’arti-colo 338 c.p., è utile fare riferimento alleargomentazioni contenute nella memoriadel 5 novembre 2012, che la procura di Pa-lermo ha presentato a sostegno della ri-chiesta di rinvio a giudizio.

Questa memoria (non particolarmentelunga: una ventina di pagine) contiene unaprima parte a carattere più generale, doveprevalgono considerazioni di sfondo di ti-po storico-politico e socio-criminologicovolte a inserire il tema della trattativa inun contesto ben più ampio, inclusivo del-le presunte implicazioni che la caduta delMuro di Berlino avrebbe avuto sulle dina-miche del rapporto mafia-politica; e unaseconda parte, nella quale viene più di-rettamente affrontata la “sostanza giuridi-ca” (sic!) della contestazione.

Per quanto più generale e generica, an-che la prima delle due parti va letta con at-tenzione perché – a prescindere dalla con-divisibilità delle interpretazioni storico-politiche prospettate – concorre a spiegarela logica sottostante all’imputazione, spe-cie dove i pm cercano di chiarire che cosaintendano per ‘trattativa’. Invero, comin-ciando dall’arco temporale di riferimento,quest’ultima si sarebbe dispiegata in piùfasi collocate nel biennio 1992-1994. Ciòsolleva immediatamente il dubbio, se sipossa parlare di una trattativa unica, o dipiù trattative avvinte da un qualche dise-gno o nesso unificante. La risposta dipen-de, ovviamente, dal tipo di angolazione vi-suale che si presceglie; e da tale scelta pos-

chieste di benefici, in termini di alleggeri-mento della pressione repressiva da partedello stato, in cambio dei quali Cosa nostraavrebbe posto fine alla strategia omicidia-ria avviata nel 1992), si sarebbe verificatanella stessa fase tem-porale un’“altra trat-tativa”, apparente-mente autonoma e di-stinta, ma in realtàconnessa alla prima,avente come specifi-co oggetto – questavolta – la promessa daparte della mafia direstituire al patrimo-nio pubblico pregia-tissime opere d’arterubate e, come con-tropartita, la conces-sione degli arresti do-miciliari ad alcuniboss di vertice.

Orbene, dall’insie-me di tutti questi ri-ferimenti contenutinella memoria redat-ta dall’accusa si desu-me un quadro tratta-tivista molto comples-so e articolato, che sipresta in verità a let-ture non univoche già in punto di fatto.Non ci troviamo di fronte a vicende su-scettibili di essere ricondotte, con un gra-do di certezza al di là di ogni ragionevoledubbio, a una sola e unitaria narrazione

processuale; la possibilità di più lettureparrebbe non esclusa, in particolare, ri-spetto alla controvertibile esistenza di ununico e coerente disegno, condiviso neicontenuti da tutti i protagonisti, capace

davvero di fungereda “colla” idonea atenere insieme tenta-tivi di intesa che siframmentano in epi-sodi diversi, si collo-cano in contesti tem-porali differenziati esi impersonano, divolta in volta, in atto-ri mutevoli. Non è uncaso che siano glistessi pubblici mini-steri – come si è visto– a mettere in eviden-za la propensione diCosa nostra ad adat-tare i suoi piani diazione ai cambia-menti contingenti delcontesto di riferi-mento, al di fuori dischemi rigidi e pre-determinati in antici-po.Se le cose stanno co-sì, ne deriva allora

come possibile risvolto tecnico-giuridicoun notevole incremento di difficoltà nelgiustificare, non ultimo sul piano dell’ele-mento soggettivo, la configurabilità di unconcorso penalmente rilevante da parte

dei presunti attori politico-istituzionalinelle minacce o violenze realizzate dai ma-fiosi ai danni del governo. In termini piùespliciti: i protagonisti esterni a Cosa no-stra erano costantemente consapevoli de-gli obiettivi via via perseguiti dalla mafiacon una chiarezza tale da rendere plausi-bile un loro dolo di concorso nelle minac-ce rivolte al governo? (v. anche infra, 4.5).

4.2. Ma procediamo per gradi, a partiredall’elemento oggettivo del reato contesta-to.

A questo scopo, è utile richiamare la se-conda parte della memoria dell’accusa,quella in cui – come anticipato – si proce-de alla costruzione della impalcatura giu-ridica dell’imputazione, preliminarmentepuntualizzando: “Il presente procedimen-to non ha per oggetto in senso stretto latrattativa. Nessuno è imputato per il solofatto di aver trattato. Non ne sono imputa-ti i mafiosi e neppure gli uomini dello sta-to”. Piuttosto, seguitano a precisare i pub-blici ministeri, la contestazione si riferiscea “precise e specifiche condotte di reatorealizzate nell’ambito della trattativa” edattribuite, rispettivamente, a soggetti in-tranei ed estranei alla mafia.

Ai primi (cioè ai mafiosi di vertice Rii-na, Provenzano, Brusca, Bagarella e al “po-stino” Cinà), si imputa in realtà un ruolodi “autori immediati del delitto principa-le, in quanto hanno commesso, in tempi di-versi, la condotta tipica di minaccia a uncorpo politico dello stato, in questo caso ilgoverno, con condotte diverse, ma avvinte

da un medesimo disegno criminoso”. Ora,volendo sorvolare su una certa approssi-mazione di linguaggio tecnico, quel chel’accusa sembra voler dire è che gli uomi-ni di mafia chiamati in causa sarebberostati gli esecutori di condotte tipiche di mi-naccia. Ma è lecito chiedersi: mediantequali modalità esecutive concrete? In ef-fetti, a prendere sul serio l’esigenza di pre-cisione della contestazione, innanzituttoquale riflesso del principio penalistico ditipicità, sarebbe onere dell’accusa circo-scrivere anche in dettaglio i fatti addebi-tati. Ma quest’onere nel caso di specie nonrisulta assolto così come in teoria si do-vrebbe.

Invero, in base a quanto è dato com-prendere, le condotte realizzate dai ma-fiosi avrebbero una valenza minacciosa inun primo tempo implicita e, successiva-mente, anche esplicita.

L’inizio della strategia criminale di con-dizionamento del governo, secondo i pub-blici ministeri, coincide con l’assassiniodell’europarlamentare siciliano Salvo Li-ma nel marzo del 1992: ma in questa fasesembrerebbe trattarsi di una minaccia ma-nifestata in forma non espressa, simbolica,per facta concludentia. Nessun dubbio sul-

la configurabilità in punto di diritto di mi-nacce attuate anche in forma implicita; so-lo che, al di là della forma di manifesta-zione utilizzata, la valenza e la direzioneminacciosa del fatto dovrebbero in ogni ca-so poter essere colte in maniera sufficien-temente univoca. E’ così anche nel caso deldelitto Lima? In effetti, se si considera lafase temporale in cui quest’omicidio si col-loca, insieme con la catena di eventi cheimmediatamente lo precede, la sua obiet-tiva leggibilità in chiave di manifesto an-nuncio di una strategia del terrore ten-dente a piegare lo stato mediante la pro-spettazione di omicidi futuri di altri uomi-ni politici (prospettazione che si vorrebbeimplicita nella presunta valenza in questosenso simbolica del medesimo delitto Li-ma), appare tutt’altro che scontata. Piutto-sto, nel marzo 1992 (e cioè a poca distanzadal passaggio in giudicato delle severecondanne inflitte nel maxiprocesso), l’eli-minazione di Lima poteva ben essere in-terpretata come una punizione a carattereretrospettivo, cioè come una semplice ven-detta per il mancato “aggiustamento” inCassazione dei pesantissimi esiti repressi-vi del lavoro giudiziario di Falcone e Bor-sellino: una ritorsione, dunque, anche perla umiliante smentita della tradizionale fa-ma di impunità dei boss.

Nella narrazione ricostruttiva dell’accu-sa, alla presunta minaccia implicita neldelitto Lima avrebbero fatto seguito mo-menti di minaccia anche espressa, coinci-denti in particolare con la predisposizio-ne e l’inoltro del c.d. “papello”, cioè del te-sto contenente le richieste dei benefici cheil governo avrebbe dovuto concedere incambio dell’interruzione degli attacchistragisti. Secondo i pubblici ministeri, l’i-noltro di tale documento costituirebbe “unulteriore momento esecutivo della condot-ta tipica” (in mancanza di ulteriori preci-sazioni, è da presumere della condotta ti-pica ai sensi dell’art 338 c.p.). Sennonché,a questo punto sorge un problema di qua-lificazione penalistica che sembra sfuggireai magistrati palermitani. Cioè, se è veroche la trattativa è in se stessa priva di ri-levanza penale; e se è vero che una tratta-tiva per aver svolgimento presuppone unoscambio comunicativo fra le parti, finaliz-zato ad accertare le rispettive condizionidell’intesa da stipulare, come può alloral’inoltro del papello costituire, di per sé,momento esecutivo di una minaccia pe-nalmente rilevante?

Riprendendo il filo della narrazione ac-cusatoria, dopo la presentazione delle ri-chieste mafiose si sarebbero succeduti ul-teriori episodi di minaccia realizzati dinuovo in forma implicita, e di entità gra-vissima, perché sfociati (oltre che nell’uc-cisione prima di Giovanni Falcone e poi diPaolo Borsellino, nel maggio e nel luglio1992) in attentati mortali in luoghi pubbli-ci ai danni di vittime innocenti nel corsodel 1993. Al riguardo, è appena il caso di ri-levare che – sebbene la memoria dei pub-blici ministeri si astenga dal fare le dovu-te precisazioni in proposito – i capi di Co-sa nostra menzionati nel capo di imputa-zione difficilmente potrebbero essere tut-ti ugualmente qualificati come esecutorimateriali di condotte violente riconduci-bili (oltre che a ben più gravi figure di rea-to, anche) alla fattispecie incriminatrice dicui all’art. 338 c.p.: delle condotte violentein questione, tradottesi in eventi stragisti-

sono anche derivare indicazioni sul mododi ricostruire le condotte candidabili adassumere rilievo penale.

E’ da notare che in proposito la letturadella memoria scritta della procura evi-denzia qualche oscillazione (se non pro-prio incoerenza) nel modo di argomentaredell’accusa. Per un verso, i pubblici mini-steri affermano che le prove raccolte ap-paiono sufficienti “per ricostruire la tramadi una trattativa, sostanzialmente unitaria,omogenea e coerente, ma che lungo il suoiter ha subito molteplici adattamenti, hamutato interlocutori e attori, da una partee dall’altra, allungandosi fino al 1994, al-lorquando le ultime pressioni minacciosefinalizzate ad acquisire benefici e assicu-razioni hanno ottenuto le risposte attese”(quali tipi di risposte appaganti i mafiosiabbiano ricevuto, e in particolare da par-te di chi non viene però esplicitato; e que-sta non è certo una omissione irrilevantein un contesto argomentativo che dovreb-be sorreggere una imputazione penale).Mentre in una parte successiva della stes-sa memoria si legge: “la stipula del pattopolitico-mafioso si dispiegò attraverso va-ri tentativi in successione […]. Nel pianocriminale di quella stagione non ci fu unaprogressione rigidamente predeterminata,almeno da parte di Cosa nostra, che dimo-strò al contrario la capacità di adattarsiagli eventi, secondo la sua migliore tradi-zione”. Ancora, in un altro passo del me-desimo testo si sostiene che, in aggiunta al-la trattativa in cui si inserisce la vicendadel cosiddetto “papello” (contenente le ri-

La trattativa si sarebbedispiegata in più fasi nel biennio1992-’94. Una premessa storicasulla caduta del Muro di Berlino

L’inizio della strategia criminaledi condizionamento del governo,secondo i pm, coincide conl’omicidio di Salvo Lima

“Un ruolo ambivalente. Una tale visione del ruolo del pubblico ministero è etichettabile in

L’omicidio di Paolino Riccobono, 13 anni. Il 19 gennaio 1961 a Tommaso Natale, borgata di Palermo (foto di Nicola Scafiti)

La sovrapposizione del profilo politicocon quello giuridico nel processo pe-

nale risale all’ultimo periodo dell’anticaRoma repubblicana, praticamente è vec-chio come il mondo, nota a un certo pun-to del suo saggio il professore Fiandaca,ma realisticamente mostra di non crederenella soluzione del problema attraverso ilrecupero di una astratta purezza del di-ritto. Sembrerebbe una astruseria e fini-rebbe per relegare il giudizio penale inun campo marginale specie di questi tem-pi in cui il magistrato dell’accusa semprepiù tende a presentarsi “come attore po-litico-mediatico” come dimostra anche la“singolare evoluzione professionale” deldottore Ingroia. Però c’è un limite a tuttoe nel caso del processo sulla cosiddettatrattativa è stato largamente superato co-

me Fiandaca dimostra, a cominciare dalcapo di imputazione faticosamente rita-gliato a partire non da un singolo fatto mada un comportamentoritenuto degno di inda-gine a prescindere, sul-la base di un pregiudi-zio che vuole assegnataalla magistratura lacompetenza unica dellalotta alla mafia, così daconsiderare “una illeci-ta interferenza” qualsia-si altro intervento. Laradice del processo che,come ha detto il procu-ratore Messineo, deveoccuparsi di fatti illumi-nando le ombre, sta tut-

ta qui. E da qui parte il ragionamento delprofessore Fiandaca che però non si fer-ma alla descrizione di un conflitto di at-

tribuzione di poteri mane coglie la ragione ul-tima in una teoria co-spirativa della storia as-sunta dall’accusa nellasua variante “mafiocen-trica”. Una chiave dilettura, ricorda il giuri-sta di sinistra, forte-mente criticata dal la-voro di uno storico di si-nistra come SalvatoreLupo. Tutto, per l’accu-sa, deve convergere inuna sintesi e non è az-zardato vedere nella

ascesa al governo di Berlusconi la sinte-si cui, al di là di chi siede sul banco de-gli imputati, punta la macchinosa inqui-sizione. A questa tesi in fondo i fatti so-no piegati. La spiegazione di una scon-fitta politica con la cospirazione di so-verchianti e onnipotenti forze del male,capaci di costruire nel fronte del benepericolose “quinte colonne”. Lo schemaesige lo sminuzzamento dei fatti e laestrapolazione solo di alcuni di essi e laloro concatenazione fino a falsare il qua-dro generale. Schema antico, perfeziona-to da chi sa proporlo davanti a una tele-camera. Tutto considerato, la lectio ma-gistralis del professore Fiandaca non èsolo una eccellente arringa difensiva. E’anche un saggio politico.

Massimo Bordin

Tutto per l’accusa deve convergere in una sintesi (e sembra proprio il Cav.)

Il pm nei pasticciNino Di Matteo. E’ il magistrato che, con

Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, so-sterrà in aula l’accusa al processo per lapresunta trattativa tra la mafia e alcuni uo-mini dello stato. Di Matteo, che prima di ap-prodare a Palermo è stato pm a Caltanis-setta in uno dei quattro processi per la stra-ge di via D’Amelio dove fu massacrato Pao-lo Borsellino, è stato il rappresentante del-l’accusa anche nei due processi contro l’exgenerale dei Ros Mario Mori: il primo, quel-lo per la mancata perquisizione al covo diRiina, si è già concluso con l’assoluzione. Ilsecondo è ancora in corso: il pm ha già chie-sto una condanna a nove anni di carcere.

Di Matteo è oggi sotto procedimento di-sciplinare, assieme al procuratore France-sco Messineo, per le intercettazioni traGiorgio Napolitano e Nicola Mancino: ilpm ne avrebbe confermato ai giornali l’e-sistenza e il capo non glielo avrebbe conte-stato.

(segue dall’inserto V)

Professor Giovanni Fiandaca

ci dotati pur sempre secondo l’accusa divalenza coartante rispetto alle decisionidel governo, i grandi capi di Cosa nostrasono stati verosimilmente mandanti, piut-tosto che esecutori materiali. Ed è semprein veste di concorrenti morali, e non già diesecutori, che potrebbero essere chiamatia rispondere non solo di omicidi e stragi insé considerati, ma altresì di omicidi e stra-gi interpretati come violenza o minaccia aisensi dell’art. 338 c.p..

Non è da escludere che queste distin-zioni tecniche siano state pretermesse nel-la sintetica memoria dei pubblici ministe-ri perché forse considerate implicite e,perciò, superflue. Ciò non toglie, tuttavia,che l’approccio complessivo dell’accusa ri-sulti in molte parti generico e approssi-mativo nel descrivere le condotte oggettodi imputazione (con conseguente sottova-lutazione del principio di tipicità penale,anche nei suoi risvolti garantistici a carat-tere processuale); e, sotto alcuni aspetti,assai carente. Tra i profili non secondaritrascurati, rientra ad esempio quello rela-tivo al potenziale di idoneità delle minac-ce mafiose: erano oggettivamente tali dapoter condizionare il governo, annullan-done o riducendone il potere di autonoma

e libera determinazione, o da turbarne co-munque l’attività? Per verificare in positi-vo tale idoneità, senza darla presuntiva-mente per scontata, occorrerebbe in realtàprendere in considerazione più analitica-mente i singoli episodi violenti realizzatinelle diverse fasi della strategia mafiosa eaccertare se in ciascuno di essi possa dav-vero riconoscersi un significato intimida-torio nei diretti confronti del governo, per-cepibile come tale da soggetti istituzional-mente legittimati a impersonare il potereesecutivo. E’ tutt’altro che dimostrato in-fatti che, nella situazione drammatica e og-gettivamente confusa di quell’angosciantebiennio, all’interno delle compagini go-vernative che si sono succedute fosserosempre percepibili in termini chiari e uni-voci gli obiettivi perseguiti con la strategiastragista, peraltro nel dubbio – allora comeoggi irrisolto – circa la fonte e la regia uni-che o plurime (mafia, servizi segreti de-viati, gruppi della destra eversiva, entitàesterne con interessi convergenti non me-glio definite, ecc.) delle aggressioni crimi-nali che si succedettero nel tempo. Insom-ma, guardando agli eventi con la prospet-tiva di allora, non è affatto detto che emer-gesse con sufficiente chiarezza che le ri-petute azioni criminali avrebbero perse-guito sempre il medesimo obiettivo – come,con logica ex post, ha ipotizzato l’accusa –di piegare i governi di turno a venire a pat-ti col potere mafioso. Ma, se non si è sicu-ri al di là di ogni ragionevole dubbio chea quel tempo questo tipo di chiarezza vifosse, manca in realtà il presupposto perpotere verificare il grado di idoneità og-gettiva della strategia intimidatrice mafio-sa. Tanto più che il destinatario delle mi-nacce non sarebbe stato un semplice con-siglio comunale o una commissione di con-corso, bensì il governo della Repubblicaitaliana: cioè un organo costituzionale, do-tato di poteri, di competenze, di risorse edi forze anche militari tutt’altro che inido-nee (almeno in teoria) a contrastare ancheattacchi di tipo stragista.

4.3. Ma vi è di più. Secondo il modo di ra-gionare sviluppato dall’organo dell’accusa,la valenza minacciosa della strategia stra-gista di Cosa nostra, così come avviata coldelitto Lima, avrebbe avuto due destinata-ri più immediati (rispetto al governo cometale) nelle persone di Giulio Andreotti eCalogero Mannino, entrambi componentidel governo allora in carica: il primo nel-la qualità di presidente del Consiglio, il se-condo nel ruolo di ministro per gli Inter-venti straordinari nel mezzogiorno, non-ché “successiva e ormai designata vittimadel progetto omicidiario in danno dei po-litici che non avevano mantenuto i patti”.

Orbene, alla stregua di una simile rico-struzione, il governo finisce col fungere dadestinatario indiretto delle intimidazionimafiose: lo diviene cioè attraverso il tra-mite rappresentato dalle persone dei duerappresentanti governativi Andreotti eMannino. Il che in effetti non contrasta conl’interpretazione dominante dell’art. 338c.p., la quale ritiene sufficienti che la con-dotta tipica sia indirizzata a singoli com-ponenti dell’organo collegiale, ma a unacondizione: purché la violenza o minacciasiano dirette a incidere sul funzionamen-to dell’organo come tale. Esiste nel nostrocaso la prova che i mafiosi intendevanoinequivocabilmente indirizzare le loro mi-

ANNO XVIII NUMERO 128 - PAG VII IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 1 GIUGNO 2013

nacce all’istituzione-governo in quanto ta-le? A parte i possibili dubbi in proposito,la complessiva impostazione accusatoriaincappa, con specifico riferimento all’allo-ra ministro Mannino, in una vistosa con-traddizione il cui peso è tale da avvalora-re l’assunto della scarsa plausibilità del-l’intero ricorso alla fattispecie di cui al-l’art. 338 c.p. A ben vedere, la contraddi-zione risiede nel fatto che l’accusa, argo-mentando così come ha argomentato, fini-sce con l’attribuire a Calogero Mannino ildoppio ruolo di vittima e complice di unostesso reato: cioè egli rivestirebbe, da unlato, la condizione di soggetto passivo del-le minacce mafiose rilevanti ex art. 338 c.p.(nonché, di persona fisica ‘privata’ minac-ciata di morte) e, dall’altro, il ruolo di con-corrente nella realizzazione del medesimoreato di violenza o minaccia al governo.Come spiegare questo pirandelliano sdop-piamento di Mannino, che da (per dir co-sì) delinquente privato contribuirebbe arealizzare un reato ai danni di se stessonella funzione di ministro? Il paradossotroverebbe spiegazione nel fatto che, se-condo la ricostruzione accusatoria, Manni-no si sarebbe attivato “per sollecitare ipropri terminali nel territorio per richie-dere a Cosa nostra la contropartita per in-terrompere la strategia di frontale attaccoalle istituzioni politiche, così di fatto pro-ponendosi come intermediario dell’orga-nizzazione mafiosa nella ricerca di nuoviequilibri con la politica”: proprio questoruolo di intermediazione – secondo il ra-gionamento giuridico dei pubblici mini-

steri – si tradurrebbe in un contributo ati-pico di sostegno, penalmente rilevante exart 110 e ss. c.p., alle condotte tipiche diviolenza o minaccia realizzate diretta-mente dai mafiosi (questo schema di re-sponsabilità concor-suale basato sul ruolodi intermediazionevarrebbe, oltre cheper Mannino, ancheper Marcello Dell’U-tri come esponentepolitico intervenutoquale intermediarioin fasi successive,nonché per gli uffi-ciali dei carabinieriSubranni, Mori e DeDonno). A supporto diuna tale costruzionegiuridica, che appareinvero ben lungi dal-l’esibire cogenza epersuasività imme-diate, la stessa accusaprospetta una pre-sunta analogia con lapunibilità a titolo diconcorrente – ammes-sa in giurisprudenza– dell’intermediariodi una estorsione: nel senso che così comeconcorre in quest’ultimo reato colui il qua-le trasmette alla vittima le richieste del-l’estorsore, analogamente concorrerebbe-ro nel reato di cui all’art 338 c.p. quanti siincaricano di far pervenire al governo le

richieste minacciose di Cosa nostra.A ben vedere, l’analogia è più apparen-

te che reale (a parte l’inammissibilità, inlinea di principio, di una analogia in ma-lam partem). A differenza che nell’estor-

sione, in cui l’estra-neo che funge da tra-mite di solito condi-vide l’obiettivo illeci-to perseguito dall’e-storsore, gli interme-diari non mafiosi del-la trattativa stato-ma-fia agivano sorrettidalla prevalente in-tenzione di contribui-re a bloccare futuriomicidi e stragi: unobiettivo, dunque, insé lecito, addiritturaistituzionalmente do-veroso. E ancora: sela trattativa in sé – co-me ammesso daglistessi pubblici mini-steri – non può assu-mere come tale rilie-vo penale, come puòinvece risultare pe-nalmente vietata unaattività di interme-

diazione funzionale a una trattativa in sélecita?

D’altra parte, che la funzione di inter-mediazione svolta dagli esponenti politicie dagli ufficiali dei carabinieri mirasse al-l’obiettivo salvifico di porre argine alle

violenze mafiose – e non già di supportareCosa nostra nei suoi attacchi contro lo sta-to – sembra confermato proprio da quellache sarebbe stata l’evoluzione politica de-gli eventi secondo gli stessi pubblici mini-steri. Dopo l’attivazione degli apparati disicurezza e la loro presa di contatto conl’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino,nei piani alti delle istituzioni avrebbe pre-so sempre più piede il progetto di metterein salvo i politici contingentemente mi-nacciati e le potenziali vittime innocenti,sollecitando ogni azione utile a rimuoverepossibili ostacoli e a favorire il consegui-mento dell’obiettivo (dalla sostituzione del“rigido” ministro dell’Interno VincenzoScotti col presuntamente più “morbido”Nicola Mancino, all’attenuazione, nel 1993,del regime di cui all’art. 41 bis ord. penit.a opera di Giovanni Conso, succeduto nelruolo di ministro della Giustizia al più in-transigente Claudio Martelli, ecc.) (19).

4.4. Tutto ciò premesso, rimane ancorada affrontare un nodo ermeneutico pernulla secondario, inerente sempre allastruttura oggettiva dell’art 338 c.p.: ci si ri-ferisce alla possibilità di far rientrare, inun concetto quale quello di “corpo politi-co”, un organo costituzionale come il go-verno (cioè l’organo appunto che, secondoil ragionamento dell’accusa, sarebbe statonel caso di specie destinatario ultimo del-le minacce stragiste). Infatti, secondo unaconsolidata interpretazione dottrinale egiurisprudenziale basata su argomenti siasemantici sia sistematici (20), la nozione di

La contraddizione: l’accusafinisce con l’attribuire a CalogeroMannino il doppio ruolo di vittimae complice di uno stesso reato

L’omicidio di Giovanni Giangreco. Il 5 settembre 1960 a Villabate, in provincia di Palermo (foto di Nicola Scafiti)

ATTORE POLITICO-MEDIATICOn termini di populismo giudiziario”. Giuste le critiche di Magistratura democratica e Anm

corpo politico non può ricomprendere gliorgani costituzionali (come il governo o leAssemblee legislative o la Corte costitu-zionale), dal momento che a essi apprestaesplicitamente tutela la diversa fattispeciedi cui all’art. 289 c.p.: la quale, così comemodificata dal legislatore del 2006 (21), sot-to la rubrica “attentato contro organi co-stituzionali e contro assemblee regionali”sanziona (con la reclusione da uno a cin-que anni) la commissione di atti violentidiretti a impedirne in tutto o in parte, an-che temporaneamente, l’esercizio dellefunzioni. Mentre la precedente formula-zione normativa di questa stessa fattispe-cie risultava in effetti di portata più ampia,e ciò per due ragioni: da un lato, perché ilfatto tipico era più genericamente indica-to con la formula “fatto diretto a…”, senzamenzione espressa del connotato della vio-lenza; dall’altro, era esplicitamente presoin considerazione (e sanzionato con penapiù lieve) anche l’effetto meno grave delmero turbamento dell’esercizio delle fun-zioni costituzionali. Orbene, è abbastanzaverosimile che a orientare i pubblici mi-nisteri a favore dell’applicabilità al caso dispecie (non già dell’art. 289, bensì) dell’art.338 c.p. sia stata, appunto, la constatazio-

ne della (sopravvenuta per effetto dell’in-tervenuta modifica normativa) impossibi-lità di ricondurre all’attuale e più ristret-to testo dell’art. 289 c.p. condotte di valen-za soltanto minacciosa, e idonee come talia turbare (più che a impedire) il funziona-mento di un organo quale il governo ovve-ro a influenzarne in qualche modo le deli-berazioni.

Ma l’intento accusatorio di attribuire ri-lievo penale alle “minacce”, cui i mafiosisarebbero ricorsi per esercitare pressionisul governo allo scopo di piegarlo alla trat-tativa, giustifica la palese forzatura erme-neutica di qualificare “corpo politico” lostesso governo, al pari di un consiglio co-munale o di una commissione elettorale?Contro una simile assimilazione interpre-tativa non depone soltanto il confronto te-stuale con l’art. 289 c.p., ma è altresì addu-cibile un argomento logico-sistematico dinotevole peso: cioè l’art. 393 bis c.p. preve-de espressamente l’applicabilità della scri-minante della reazione legittima al caso incui la violenza o minaccia a un corpo poli-tico (art. 338 c.p.) siano commesse per rea-gire a un atto arbitrario di un soggetto pub-blico, mentre una analoga causa di non pu-nibilità non è prevista in relazione al rea-to di cui all’art. 289 c.p. Questa differenza didisciplina, spiegabile considerando che sa-rebbe più difficilmente ipotizzabile unareazione legittima del privato contro un at-to arbitrario proveniente da un organo co-stituzionale come il governo, conferma in-direttamente in realtà che quest’ultimonon è sussumibile sotto la nozione di cor-po politico di cui all’art. 338 c.p.

4.5. I rilievi fin qui svolti consentono diaccennare in poche battute agli aspettiproblematici relativi all’elemento sogget-tivo: i quali emergono, in particolare, ri-guardo alla configurabilità di un vero eproprio dolo di concorso nel reato di cuiall’art. 338 c.p. in capo ai concorrenti “nonmafiosi”.

In termini più espliciti: è attribuibileagli esponenti politici e agli ufficiali deicarabinieri, interagenti nel ruolo di inter-mediari istituzionali della trattativa, unaautentica coscienza e volontà di concorre-re con i mafiosi nella realizzazione di vio-lenze e minacce ai danni del governo? Nonè un caso che, in proposito, l’accusa non sisforzi di fornire esplicite motivazioni, pre-ferendo implicitamente ripiegare su diuna sorta di dolo in re ipsa. Sennonché, ildolo di concorso andrebbe in questo casoaccertato senza presunzioni e con partico-lare scrupolo, e ciò per una ragione evi-dente che è forse superfluo esplicitare: lavolontà di svolgere ruoli di intermediazio-ne tendenti all’obiettivo (salvifico) di argi-nare le stragi, di per sé infatti non impli-ca – né direttamente, né indirettamente –la ulteriore volontà di supportare Cosa no-stra nella realizzazione della sua strategiacriminale volta alla trattativa.

D’altra parte, se tale ulteriore volontà ri-sultasse davvero provata, coerenza impor-rebbe di aggravare la qualificazione giuri-dica delle presunte condotte concorsualiin questione: nel senso, ad esempio, di ele-vare anche a carico di Mannino, Dell’Utri,Mori e De Donno un’imputazione di con-corso esterno nel-

L’art. 338 e l’idea di far rientrarein un concetto quale quello del“corpo politico” un organocostituzionale come il governo

(segue nell’inserto VIII)

La questione della presunta “trattativa”tra lo stato e la mafia ha avuto un effet-

to fragoroso e in qualche caso traumaticosul piano mediatico, politico e processua-le. E, tuttavia, c’è un altro livello piùprofondo che sottende a quelle dimensionicosì visibili e interferisce potentementecon esse, rendendole più complesse. In al-tre parole, il tema, così maldestramente po-sto dal corteo sudaticcio dei giustizialisti,richiama un importante dilemma di filo-sofia del diritto e la sua lacerante ricadu-ta nella sfera dell’etica pubblica. Adope-rarsi per prevenire violenze e morti permano di organizzazioni criminali può arri-vare a configurare un reato? Questo dubbioradicale sulla presunta “trattativa” correlungo questo testo di Giovanni Fiandaca. Insé, adoperarsi per evitare violenze e morti

è cosa buona. Ma non c’è cosa buona chenon possa essere contestata se, nel tentati-vo di perseguirla, dia luogo a illegalità,abusi, ingiustizie. Non a caso la tortura nonci piace (almeno, a me non piace): neanchenel caso di una ticking bomb, è legittimosottoporre a sevizie fisiche o morali i pre-sunti autori di un grave reato, che pure po-trebbe realizzarsi. Anche se “a fin di bene”,non smetterebbe di essere una grave ini-quità. E una lesione del diritto. Dunque,pure adoperarsi per prevenire violenze emorti per mano di organizzazioni crimina-li non è di per sé, sempre e comunque, le-gittimo né, tanto meno, esente da critiche econtestazioni (in ultima analisi, anche dinatura penalistica). Insomma, siamo anco-ra ai fondamentali quesiti etici: la bontàdel fine non giustifica qualsiasi mezzo.

Da qui può partire una riflessione seriasu quanto sottintende la materia trattata neldibattimento di Palermo e sull’interrogati-vo che lo percorre: seppure ispirata da giu-sti propositi (e non sempre, nemmeno diquesto, i pubblici accusatori sembrano con-vinti), la “trattativa” è stata condotta in mo-do tale da offendere beni giuridici rilevan-ti e costituzionalmente protetti? Qui si con-centra l’attenzione del giurista: quali sonole violazioni di beni o diritti fondamentaliche le parti avverse avrebbero compiutomediante quell’accordo, o quel tentativo diaccordo? In che cosa, e come, nel corso del-la “trattativa” si sarebbe realizzato l’atten-tato a un corpo politico dello stato, perse-guito dall’articolo 338 del codice penale,chiamato in causa dalla procura di Paler-mo? Alla serrata critica di Fiandaca, il rea-

to contestato sembra via via evaporare, la-sciando campo aperto alle motivazioni po-litiche della sua evocazione, plasticamenteevidenziate – a posteriori – dalla partecipa-zione alla competizione elettorale del suoportabandiera. A reggere l’intera ipotesi ac-cusatoria resta ben poco, quasi nulla. So-pravvive appena, e solitaria, quell’etichettamoralistica, che omologa tutto e tutti in unasorta di mistica della “lotta al compromes-so”, impedendo così di individuare quanti,con le mafie e grazie alle mafie, hanno dav-vero trattato e lucrato. E’ quella stessa eti-chetta moralistica, che definisce “collabo-razionisti” quanti, invece che alla prestidi-gitazione retorica, si affidano alla fatica ter-ribile e drammatica della politica, con tut-ta la sua impotenza e la sua miseria.

Luigi Manconi

L’etichetta moralistica che omologa tutti nella mistica della lotta al compromesso

Il bersaglio grossoGiorgio Napolitano. Il presidente della

Repubblica è il primo di una lunga lista ditestimoni, in tutto 172, che i pubblici mi-nisteri chiedono di convocare nell’aulabunker di Pagliarelli. Protagonista, tragiugno e dicembre dell’anno scorso, di unduro braccio di ferro con la procura di Pa-lermo per via delle intercettazioni nellequali erano finite alcune conversazioni tralui e l’ex ministro Mancino (la Consulta neha poi ordinato la distruzione), il capo del-lo stato, se la Corte deciderà di convocar-lo, dovrà chiarire un passaggio della lette-ra che il suo consigliere giuridico, LorisD’Ambrosio, gli aveva consegnato pochigiorni prima di morire. Tra i testi di peso ci-tati dall’accusa anche Pietro Grasso, pre-sidente del Senato, Carlo Azeglio Ciampi, ilprocuratore generale della Cassazione,Gianfranco Ciani, l’ex presidente del Con-siglio Giuliano Amato.

ANNO XVIII NUMERO 128 - PAG VIII IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 1 GIUGNO 2013

l’associazione mafiosa, analogamente aquanto contestato all’altro “intermedia-rio” Massimo Ciancimino. Ma vi è di più.Perché non spingersi sino al punto di ipo-tizzare forme di concorso nelle stesse azio-ni stragiste, se fosse vero che gli interme-diari – come l’accusa sostiene – avrebberocon il loro comportamento rafforzato in Co-sa nostra il convincimento che la prosecu-zione del suo programma criminoso vio-lento risultava efficace in vista della trat-tativa? Interrogativi come questi, proprioperché derivanti da un organico e coeren-te sviluppo logico delle stesse premesseaccusatorie, necessiterebbero di un piùadeguato vaglio giudiziale.

5. Le intercettazioni “indirette” del presi-dente della Repubblica, il conflitto di attri-buzione dinanzi alla Corte costituzionale eil conseguente “tormentone” politico-me-diatico

L’indagine sulla trattativa è stata ancheoccasione di un grosso “tormentone” poli-tico-mediatico-giudiziario protrattosi dalluglio 2012 alla fine dello stesso anno: cau-sa scatenante un’attività di intercettazionetelefonica nei confronti dell’ex ministroNicola Mancino, nell’ambito della qualevenivano “indirettamente” captate con-versazioni tra quest’ultimo e il capo dellostato. Il grave conflitto istituzionale deri-vatone non si è incentrato soltanto sulladelicata questione costituzionale relativaalla definizione delle prerogative del pre-sidente della Repubblica (in particolare,sotto il profilo di una legittima intercetta-bilità delle sue conversazioni per fini digiustizia), rispetto alla quale sono non a ca-so subito emersi nel pubblico dibattitoorientamenti contrastanti (22). Il contrastoè sfociato in una vera e propria contrap-posizione tra il Quirinale e gli uffici giudi-ziari palermitani in seguito alla decisione

del presidente Napolitano – che ha finitocon il cogliere di sorpresa i pm del capo-luogo siciliano (23) – di sollevare un con-flitto di attribuzione dinanzi alla Corte co-stituzionale. Tale decisione, oltre a esserepercepita dai magistrati siciliani come unainattesa dichiarazione di guerra istituzio-nale, è stata addirittura interpretata in al-cuni ambienti politico-giornalistici favore-voli alla procura di Palermo come sinto-matica di una inammissibile volontà di in-terferenza del capo dello stato, volta a met-tere al riparo dall’azione giudiziaria espo-nenti politici in qualche modo coinvoltinella vicenda della trattativa. Ecco che lacomplessa e controvertibile questione giu-ridico-costituzionale sul tappeto ha finito,così, con l’essere contingentemente stru-mentalizzata in vista di obiettivi politicipiù generali (precisamente, nel senso chela perseguita delegittimazione di GiorgioNapolitano risultava, al momento, funzio-nale a una più ampia contestazione del suocomplessivo ruolo politico-istituzionale,non ultimo quale ispiratore e garante delcosiddetto governo dei tecnici presiedutoda Mario Monti, inviso a più settori politi-ci non soltanto di sinistra) (24).

Il clima di esasperata contrapposizioneamplificava le già forti valenze politichedell’azione dei pm palermitani. In loro di-fesa, e contro un loro temuto isolamento,il Fatto quotidiano lancia un pubblico ap-pello che raccoglie centinaia di migliaia diadesioni (25). E seguono iniziative politi-che pubbliche cui partecipa il procuratoreaggiunto Antonio Ingroia nonostante che,nel corso del loro svolgimento, continui adaver corso la campagna di sospettose insi-nuazioni sul conto del capo dello stato (26).

Nell’aspro conflitto finiscono – volenti onolenti – con l’essere coinvolti esponentimolto qualificati della cultura giuridica dimatrice accademica, i quali, intervenendonel dibattito giornalistico, assumono posi-zioni ora di adesione ora di critica rispet-to alla scelta del presidente della Repub-blica di chiamare in causa la Consulta. Afavore della procura di Palermo si schie-rano in particolare Gustavo Zagrebelsky(27) e Franco Cordero (28), mentre in soc-corso della presidenza della Repubblicaprendono posizione – tra altri – AndreaManzella (29), Valerio Onida (30) e Gian-luigi Pellegrino (31).

Ma al di là del merito della questione

di contemporanea indagine giudiziaria: si-no al punto di illustrare (per dir così di-datticamente), in interviste rilasciate aimaggiori quotidiani o in pezzi scritti diproprio pugno, il senso e le finalità delprocedimento sulla trattativa, talvolta per-sino tentando di filosofeggiare su questio-ni ardue come quella dei rapporti tra giu-stizia e “ragion di stato” (37).

A lungo andare, questo eccesso di espo-sizione pubblica dall’impatto non pococonfusivo, tale da rendere viepiù evane-scente la distinzione tra un Ingroia-magi-strato d’accusa e un Ingroia-attore politicotout court, ha finito per suscitare (non èmai troppo tardi?) le reazioni critiche diMagistratura democratica (corrente di ori-ginaria appartenenza del Nostro), dell’As-sociazione nazionale magistrati e dellostesso Consiglio superiore della magistra-tura: reazioni invero convergenti nel sot-tolineare che il pur legittimo interventopubblico del magistrato non deve sovrap-porsi al lavoro giudiziario e deve, comun-que, essere svolto in modo da non offusca-re l’immagine di terzietà della giurisdizio-ne, specie quando si sia titolari di proce-dimenti penali su cui si concentra l’atten-zione della pubblica opinione (38).

Sennonché, queste critiche di indebitasovraesposizione mediatica incontrano laresistenza del magistrato che ne è direttodestinatario (39), e ciò per motivazioni difondo che sembra opportuno qui esplicita-re. Esse infatti si ricollegano alla partico-lare concezione che un pm come Ingroiaha maturato del proprio ruolo professio-nale, e che egli ha in qualche modo cerca-to anche di teorizzare. In sintesi, si trattadell’idea che il magistrato, in particolarequello d’accusa, sia nella realtà italiana dioggi chiamato a svolgere una funzione (chelo stesso Ingroia definisce) simile a quelladi un “tribuno del popolo” (sic): si alludea una figura di magistrato che interloqui-

sca direttamente con l’opinione pubblica,spieghi al popolo le collusioni tra poterepolitico e poteri criminali, educhi i citta-dini al rispetto della legalità e contribui-sca ad additare (agli stessi politici di me-stiere) i principi di una buona politica (40).

Una tale visione del ruolo del pubblicoministero, etichettabile – volendo – in ter-mini di “populismo giudiziario”, tradisceuna ideologia professionale che finisce, inogni caso, con l’esasperare la vocazionepolitico-pedagogica dei titolari dell’azionepenale. Ciò sino al punto, in effetti, di in-nescare rapporti di sostanziale contiguità(se non proprio continuità) tra agire giudi-ziario e agire politico: come se la differen-za tra la giustizia penale e la politica ri-guardasse più i mezzi impiegati, che non ifini ultimi presi di mira.

Una visione siffatta, che certamentecontrasta non poco con la concezione libe-raldemocratica del principio della divisio-ne dei poteri (almeno così come prevalen-temente intesa nel contesto europeo-con-tinentale), può probabilmente contribuirea spiegare un fenomeno “unico nella storiadell’Italia repubblicana: quello di un ma-gistrato che, in sostanziale continuità conla sua precedente attività, ha fondato unpartito, gli ha dato il suo nome e s’è can-didato alla guida del governo. Nessuna to-ga passata alla politica – e ce ne sono sta-te diverse, in tutte le epoche, fino a Di Pie-tro e De Magistris, per l’appunto – avevatentato un salto tanto ardito e repentino.Ingroia sì” (41).

Tanto ardimento non è, però, stato pre-miato dai cittadini elettori: alle elezioninazionali del 24 e 25 febbraio 2013, Rivo-luzione civile e il suo leader-simbolo An-tonio Ingroia non hanno raggiunto la sogliadi voti necessaria per fare ingresso in Par-lamento. E’ verosimile che questo falli-mento sia in realtà, e non a caso, dipesodalla percezione diffusa di un’ispirazioneeccessivamente “punitiva” del progettopolitico ingroiano (che dava infatti l’im-pressione di identificarsi con un program-ma repressivo incentrato su manette, se-questri e confische di patrimoni e di esse-re, viceversa, povero di proposte a conte-nute positivo e di ampio respiro).

Comunque, per l’ex procuratore aggiun-to elettoralmente sconfitto si prospetta, or-mai, il dilemma tra il ritorno in magistra-tura (ma non più come pm) e l’abbandonodefinitivo della toga per continuare a im-

Perché la contrapposizione trai pm di Palermo e il presidentedella Repubblica GiorgioNapolitano è finita alla Consulta

Nemmeno i suoi colleghi DiPietro e De Magistris eranoarrivati dove è arrivato Ingroia.Un salto ardito e repentino

Omicidio Borone, lo strazio della madre (foto di Nicola Scafiti)

Il bluff della Trattativa

L’INTERMEDIARIONON SEMPRE

E’ COME I BOSS“Esiste la prova che i mafiosi intendevano

inequivocabilmente indirizzare le loro minacceall’istituzione-governo e non a singoli ministri?”

(segue dall’inserto VII)

giuridico-costituzionale, considerata sia inse stessa sia nelle sue implicazioni di or-dine politico-istituzionale, vale la pena an-che qui segnalare un evento di più ampiaportata (per dir così) politico-culturale.Cioè un importante quotidiano di ispira-zione progressista come Repubblica, in ge-nere favorevole all’azione della magistra-tura inquirente, intorno alla querelle esti-va delle intercettazioni presidenziali sispacca invece in dueorientamenti con-trapposti: il fondato-re Eugenio Scalfari(32) duella contro l’il-lustre collaboratoree costituzionalista divaglia Gustavo Zagre-belsky, a difesa delpresidente Napolita-no sospettato di dele-gittimare i magistratid’accusa; mentre dalcanto suo il direttoreEzio Mauro (33), sen-za sconfessare nessu-no dei contendenti,ragiona sul problemadel grave conflitto trapolitica e giustizia,prospettando cometesi che un certo po-pulismo giudiziariodiffusosi anche nellacultura di sinistraavrebbe finito col farpropri mentalità,pulsioni e linguaggiche sarebbero ogget-tivamente di destra(34).

Senza potere quientrare nel meritodegli eterogenei fat-tori (anche culturali)che hanno più in ge-

nerale contribuito, nella storia italianadell’ultimo ventennio, a elevare notevol-mente il tasso di politicità dell’interventodella magistratura penale, quanto alla re-cente vicenda interna al quotidiano la Re-pubblica una cosa sembra fuori discussio-ne: essa testimonia dello stretto e perver-so intreccio che è venuto a stringersi traun’indagine giudiziaria come quella sullatrattativa, i divergenti giudizi sull’operato

di Giorgio Napolitanoquale promotore delgoverno Monti (re-sponsabile di una po-litica di “sacrifici”sofferti soprattuttodai ceti sociali più de-boli) e il modo di con-cepire l’azione delleforze di sinistra an-che nella difficile in-terazione tra politicae giustizia penale. Comunque sia, la spe-cifica questione og-getto del conflitto diattribuzione è statainfine sciolta con unverdetto costituziona-le (sent. 15 gennaio2013, n.1) che ha,com’è noto, ricono-sciuto in pieno la fon-datezza delle ragionisottostanti al ricorsodel presidente dellaRepubblica. Com’erada attendersi, questapresa di posizionedella Consulta è statadiversamente accolta,da commentatori diopposti versanti, sullabase di valutazioniche vanno ben al di làdel suo impianto mo-

tivazionale sul piano tecnico-giuridico.Non sorprende, quindi, che dal fronte piùvicino alle procure si sia levata l’accusa diuna Corte costituzionale “cortigiana” (35).E neppure sorprende molto che, per partesua, il procuratore aggiunto Ingroia abbianel corso di un’intervista dichiarato di sen-tirsi “profondamente amareggiato” a cau-sa di una sentenza costituzionale “bizzar-ra”, spiegabile soltanto grazie al prevale-re delle “ragioni del-la politica” su quelledel diritto (36).

Forse non è super-fluo puntualizzareche, al momento del-l’amara intervista, ilcoordinatore dell’in-dagine sulla trattativasi trovava già in Ame-rica centrale a rico-prire il nuovo incari-co, conferitogli dal-l’Onu, di capo dell’u-nità investigativa del-la commissione inter-nazionale contro l’im-punità in Guatemala.Ma, meno di due me-si dopo, l’ex procura-tore aggiunto di Pa-lermo faceva ritornoin Italia per parteci-pare, come candidatopremier di un nuovomovimento politico disinistra radicale (em-blematicamente de-nominato Rivoluzio-ne civile), alle elezio-ni nazionali del feb-braio 2013 (v. ancheinfra, par. 6).

Una singolare evo-luzione professionaleche ha, alla fine, por-

tato allo scoperto una vocazione politicain verità da qualche tempo sospettabile inun pm così combattivo e pubblicamenteesposto?

6. Il magistrato dell’accusa come attore po-litico-mediatico: un ruolo ambivalente tragiustizia e politica

Tra gli aspetti più interessanti e merite-voli di analisi del procedimento sulla trat-

tativa stato-mafiarientra, indubbia-mente, l’accentuatoattivismo politico-mediatico in partico-lare del magistratoche ha coordinato ilgruppo dei pubbliciministeri assegnataridell’inchiesta: il pro-curatore aggiuntoAntonio Ingroia, ap-punto. Questo ruoloiper-attivistico all’e-sterno delle aule giu-diziarie non si è tra-dotto soltanto – comeera già accaduto, for-se però non nellastessa misura, ad al-tri magistrati d’accu-sa divenuti ben notial grosso pubblico –in una frequente e in-sistita presenza neimedia scritti e parla-ti. La specificità del-l’interventismo di unmagistrato come In-groia è dipesa da fat-tori aggiuntivi, legatial convincimento didovere e potere pren-dere posizione inpubblico proprio su-gli stessi temi oggetto

L’icona delle pataccheMassimo Ciancimino. I 172 eccellentis-

simi uomini delle istituzioni (da Napolita-no a Ciampi) che l’accusa chiede di convo-care nell’aula bunker servono più a dareappariscenza al processo che non sostanza;almeno questa è la tesi di molti avvocati di-fensori. La testimonianza centrale di tuttol’impianto processuale è quella di MassimoCiancimino, figlio di quel don Vito, per po-chi mesi anche sindaco di Palermo, che tragli anni Ottanta e Novanta fu amico e con-sigliori dei più sanguinari boss corleonesi,da Totò Riina a Bernardo Provenzano. So-lo che, fino a questo momento, Massimuc-cio risulta impedito: i magistrati di Bolo-gna lo hanno arrestato per evasione fisca-le e associazione a delinquere. Non è la pri-ma volta che finisce in galera da quando,avendo l’impellente necessità di salvare ilpatrimonio miliardario accumulato dadonVito, ha deciso di trasformarsi in ven-triloquo del padre e di diventare, secondola definizione dello stesso Ingroia, una“icona dell’antimafia”. A un certo punto,però, con la tecnica del copia e incolla, hainserito in una lista di nomi, che don Vitoaveva predisposto per segnalare alcunifunzionari infedeli, quello di Gianni DeGennaro, ex capo della polizia. L’azzardogli è costato il carcere, l’incriminazione percalunnia e la conseguente qualifica di “pa-taccaro”.

Il bersaglio n. 2Nicola Mancino. L’ex ministro dell’In-

terno, ex presidente del Senato e del Con-siglio superiore della magistratura è l’im-putato (falsa testimonianza e nulla più)per il quale i pm hanno chiesto già, nellaprima udienza del processo, la formula-zione di un’aggravante. Mancino nonvuole sedere nello stesso banco accanto aiboss Giovanni Brusca, Totò Riina, NinoCinà e Leoluca Bagarella, imputati comelui ma di “violenza e minaccia a un cor-po politico dello stato”, il reato cardineper il quale sono stati rinviati a giudizioanche l’ex senatore del Pdl, Marcello Del-l’Utri, e tre ex alti ufficiali del Ros, il grup-po speciale dei Carabinieri per il contrastoalla criminalità organizzata: Antonio Su-branni, Mario Mori e Giuseppe De Donno.Calogero Mannino, ex ministro democri-stiano, colpito dalla stessa imputazione,ha chiesto e ottenuto il rito abbreviato. Sene parlerà al prossimo autunno.

Il presidente della corte d’Assise, Alfre-do Montalto, ha già fatto sapere, con gra-ve disappunto dei rappresentanti dell’ac-cusa, che né a Napolitano né a Mancinopossono essere rivolte domande relativealle conversazioni telefoniche che lorohanno avuto, che sono state intercettate,e che la Corte costituzionale ha ordinatodi distruggere, in quanto lesive delle pre-rogative del capo dello stato.

ANNO XVIII NUMERO 128 - PAG IX IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 1 GIUGNO 2013

pegnarsi nell’attività politica.

7. Il processo penale ‘polifunzionale’ (eil ruolo marginale del diritto?)

Quale che sarà il futuro destino del ma-gistrato coordinatore delle indagini, il pro-cesso sulla trattativa seguirà d’ora in avan-ti il suo corso sotto la gestione di altri ma-gistrati, non solo inquirenti ma anche giu-dicanti. Con decreto del 7 marzo 2013, ilGip del Tribunale di Palermo PiergiorgioMorosini ha infatti disposto il rinvio a giu-dizio di dieci imputati, chiamati a rispon-dere di concorso nel reato di violenza o mi-naccia a un corpo politico dello stato.

È da segnalare che il provvedimento dirinvio a giudizio, mentre si astiene dalprendere posizione sui problematici pro-fili di diritto penale sostanziale connessialla applicabilità nel caso di specie dell’i-potesi criminosa di cui all’art. 338 c.p. (v.supra, par. 4), muove invece critiche al-l’approccio dei pubblici ministeri in par-ticolare sotto l’aspetto di una mancata in-dicazione delle fonti di prova relative aidiversi e complessi temi della piattaformaaccusatoria e alle differenti posizioni giu-diziarie (a tale deficit cerca di supplire ilGip, provvedendo egli stesso a indicare,nelle trentaquattro pagine del decreto chedispone il giudizio, tutte le circostanzeconsiderate probatoriamente rilevanti, de-sumendole da novanta faldoni di materia-li probatori contenenti – a loro volta – unnumero di pagine abbondantemente supe-riori alle 300.000!).

Ad avviso di chi scrive, come rilevato inprecedenza, il lavoro dei pubblici ministe-ri risulta in realtà non meno deficitario an-che sotto il profilo preliminare di una man-cata contestazione di precise modalità dicondotta concorsuale a ciascuno dei pre-sunti protagonisti dell’intesa trattativista; erisulta, altresì, censurabile a causa delmancato approfondimento dei presupposti

di applicabilità della fattispecie di cui al-l’art. 338 c.p., non ultimo dal punto di vistadella legittima riconducibilità alla nozionedi “corpo politico” di un organo costituzio-nale quale il governo (cfr. supra, 4.4).

Come già detto, si riceve più in genera-le l’impressione che l’accusa sia venutameno all’impegno di mettere alla prova, inmaniera sufficientemente meditata, tuttele potenziali capacità di prestazione dellostrumentario penalistico al cospetto dellecomplesse e ambigue vicende più o menoforzatamente sussunte sotto la comoda eti-chetta della trattativa. Discutibile per leragioni tecniche già evidenziate, l’opzionequalificatoria prescelta in termini di con-corso nel reato di cui all’art. 338 c.p. ha, co-munque, consentito all’accusa di perse-guire un obiettivo politico-simbolico ine-dito nella storia giudiziaria italiana: chia-mare per la prima volta a rispondere in-sieme, come concorrenti di un medesimodelitto, ex ministri, alti ufficiali dei cara-binieri e boss mafiosi(42). Ma, al di là delformale (e discutibile) inquadramento giu-ridico-penale dei fatti, il senso sostanzialedell’addebito - come messaggio accusato-rio indirizzato soprattutto all’esterno delcircuito giudiziario - suona così: lo scelle-rato patto stato-mafia si è tradotto in un di-segno politico eversivo, è equivalso a undoloso tradimento della legalità democra-tica in vista della stipula di un rinnovatoaccordo di opportunistica convivenza trale istituzioni statali e il potere mafioso.

Se tale è il senso sostanziale dell’ipote-si accusatoria, tra gli obiettivi di maggioreconoscenza da perseguire nella futura fasedibattimentale rientrerebbe, innanzitutto,una più approfondita verifica dell’insiemedei reali obiettivi presi di mira nel tenta-re di bloccare l’ escalation stragista, esplo-rando in contraddittorio l’effettivo ruolosvolto dai principali soggetti responsabilidell’azione di governo nei drammatici eoscuri primi anni Novanta. Si prospettadunque una sorta di processo alla politicagovernativa di allora, prima ancora che asingoli esponenti politico-istituzionali so-spettabili di comportamenti penalmenterilevanti. Ma questo tendenziale sovrap-porsi tra giudizio politico e giudizio pena-le è tutt’altro che nuovo nella storia e, piùin particolare, nella storia giudiziaria. In-vero, elementi di ambivalenza e ragioni diintreccio tra ottica repressiva e disappro-

vazione etico-politica tendono – sia pure inmisura differente a seconda dei diversi ca-si storici – a presentarsi come costanti ti-piche dei processi che coinvolgono vicen-de politicamente rilevanti, come è com-provato anche da esperienze processualidi un passato ormai lontano, tra le quali al-cune ben note risalenti agli ultimi secolidella Roma repubblicana(43). E non è cer-to un caso che l’interferenza tra paradig-mi politici e paradigmi penalistici di giu-dizio si sia da allora storicamente ripro-posta in pressoché tutti i casi, in cui si so-no celebrati importanti procedimenti giu-diziari aventi ad oggetto reali o presunteviolazioni del diritto commesse da espo-nenti politici o detentori di pubblici pote-ri nell’esercizio delle rispettive funzioni:come, per fare riferimento alla più recen-te storia italiana, nell’esperienza giudizia-ria per vari aspetti emblematica di ManiPulite(44).

Il rischio di forte sovrapposizione traprospettiva giudiziaria e prospettiva poli-tica si aggrava viepiù allorché, come pureè accaduto e continua ad accadere, pren-dono piede tendenze dichiaratamente po-pulistico-giustizialiste che teorizzano l’usodel potere punitivo come strumento di pa-lingenesi politico-sociale o come leva perpromuovere il ricambio delle classi diri-genti. Ma, anche fuori da ogni tentazione diesplicita finalizzazione politica dell’azionegiudiziaria, il pericolo che il processo fun-ga da strumento aperto a usi impropri (oche comunque il valore garantistico del-l’imparzialità venga sacrificato alla logicastrategica di una preconcetta opzione re-pressiva), è sempre latente in tutti i casi incui si tratta di far luce su complesse vi-cende storico-politiche di possibile macontrovertibile rilevanza criminale(45): co-me, appunto, nel caso della presunta trat-tativa stato-mafia. Far luce o maggior lucesu una vicenda siffatta vuol dire fare del

processo uno strumento di indagine stori-ca ad ampio spettro; e, nello stesso tempo,un laboratorio di analisi politologica, unteatro mediatico in cui si contrappongonodinanzi al grosso pubblico narrazioni con-trapposte di eventi oscuri e in cui, altresì,si proiettano immaginarie dietrologie di ti-po complottistico alimentate da ansie epaure collettive. Un sovraccarico funzio-nale del processo, dunque, che sarebbeperò illusorio pensare di poter azzerare,riguadagnando una completa separazione‘purista’ tra sfera giuridica in senso stret-to e angolazioni ‘altre’. Piuttosto, nella so-cietà della giustizia mediatizzata in cui vi-viamo, il diritto gestito in senso rigorosa-mente tecnico, oltre ad apparire una astru-seria concettuale per iniziati, rischia discadere a paradigma di giudizio seconda-rio, se non proprio marginale.

E’ nondimeno auspicabile che, nella fu-tura evoluzione del processo sulla trattati-va, la magistratura sia d’accusa che giudi-cante punti a un equilibrato contempera-mento tra l’ esigenza di ampliare l’oriz-zonte conoscitivo sugli scenari storico-po-litici di un ventennio addietro, e le ragio-ni del diritto (da tenere in conto nel ri-spetto dei limiti anche formali delle fatti-specie legali). Un maggiore impegno nel-l’affrontare, con coerenza e rigore, i com-plessi profili di diritto penale sostanzialepotrà giovare in più direzioni. Da un lato,ai fini di un più attento vaglio della plau-sibilità giuridica della contestazione in-centrata su di un’ipotesi di concorso nelreato di cui all’art. 338 c.p.; ma, dall’altro,anche in vista della ricerca di eventualiparadigmi criminosi alternativi più adattia inquadrare i fatti in questione. Ove unaverifica più approfondita, in punto di di-ritto penale sostanziale, dovesse invecesfociare nel riconoscimento dell’irrilevan-za penale dei fatti oggetto di giudizio, untale esito rischierebbe invero di frustrareaspettative di punizione indotte da unbombardamento informativo

sulla trattativa finora attuato secondoun taglio decisamente criminalizzatore.Ma questa preoccupazione, almeno in teo-ria, non dovrebbe da sola costituire motivosufficiente per avallare alla fine forme dipenalizzazione impropria.

E’ realistico auspicare che le ragioni deldiritto, come tali, facciano ancora sentirela loro voce e trovino in qualche misuraascolto?

Si ha l’impressione che l’accusasia venuta meno all’impegno dimettere alla prova tutte lecapacità dello strumento penale

E’ realistico auspicare che leragioni del diritto facciano sentirela loro voce e trovino in qualchemisura ascolto?

Il bluff della Trattativa

LA PUNIZIONECOME

PALINGENESI?Inaccettabili “le tendenze populistico-giustizialisteche teorizzano l’uso del potere punitivo come levaper promuovere il ricambio delle classi dirigenti”

(1) Cfr. INGROIA, “La ‘trattativa’. Giusto in-dagare”, nell’Unità del 20 giugno 2012; ID., Io so,libro-intervista a cura di G. Lo Bianco e S. Riz-za, Milano, 2012, 29 ss.; LO BIANCO e RIZZA,L’agenda nera della seconda Repubblica, Milano,2010, 17 ss.

Per un approccio non privo di dubbi criticinei confronti delle ipotesi ricostruttive dei ma-gistrati palermitani v., invece, DEAGLIO, Il vi-le agguato, Milano, 2012, 78 ss.

(2) In questi termini si esprime, da magi-strato con esperienza di lavoro presso la pro-cura nissena, TESCAROLI, “Se le bombe paga-no. Breve storia della trattativa stato-mafia”, inMicro-Mega, n. 8/2012, 61.

(3) INGROIA, Io so, cit., 29.

(4) INGROIA, Io so, cit., 30 ss. In merito allavicenda della sostituzione dei ministri dell’In-terno e della Giustizia si veda il libro autobio-grafico di SCOTTI, Pax mafiosa o guerra? A ven-ti anni dalle stragi di Palermo, Roma, 2012, 227 ss.

(5) In proposito, nella memoria della procu-ra di Palermo del 5 novembre 2012 si parla, inmodo molto generico, di “cedimento, seppureparziale, dello stato”.

(6) INGROIA, Io so, cit. 25.

(7) INGROIA, Io so, cit., 24 ss.

(8) Dopo una lunga indagine, è stata formu-lata una apposita richiesta di archiviazione indata 7 agosto 1998 a firma del procuratore ag-giunto di Firenze Francesco Fleury, dei sosti-tuti Gabriele Chelazzi, Giuseppe Nicolosi, Ales-sandro Crini e dell’allora sostituto procurato-re nazionale antimafia Pietro Grasso: per rife-rimenti a tale provvedimento archiviatorio cfr.LO BIANCO e RIZZA, L’agenda nera, cit., 403 s.

(9) Si veda MACALUSO, Politicamente scor-retto, intervista con P. Calderola, Roma, 2012, 36.

(10) LUPO, Potere criminale, intervista con G.Savatteri, Roma-Bari, 2010, 157 ss.

(11) LUPO, Potere criminale, cit., 169.

(12) Per recenti e lucidi riferimenti alle teo-rie cospirative cfr. PANEBIANCO, “Malati di

complottismo”, in Sette (Supplemento del Cor-riere della Sera) del 7 dicembre 2012.

(13) INGROIA, Io so, cit., 24.

(14) INGROIA, Io so, cit., 20.

(15) Cfr. GALLI C., Il diritto e il rovescio, Udi-ne, 2010.

(16) Emblematico di un simile atteggiamen-to, ad esempio, l’articolo della giornalista SPI-NELLI, “La patria dell’oblio collettivo”, nellaStampa del 6 giugno 2010.

(17) In senso analogo cfr. l’intervista del so-ciologo RICOLFI, “Compagnia di giro”, a curadi A. Calvi, nel Riformista del 18 dicembre 2009.

(18) Differenti, invece, gli addebiti rispetti-vamente relativi a: Massimo Ciancimino (figliodell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino),accusato di concorso esterno in associazionemafiosa per avere rafforzato Cosa nostra fun-gendo da tramite di comunicazione tra que-st’ultima, il proprio padre e i carabinieri delRos; Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno,sospettato di falsa testimonianza; l’ex ministrodella Giustizia Giovanni Conso, indagato perfalse informazioni al pubblico ministero.

(19) In proposito, più diffusamente, IN-GROIA, Io so, cit., 29 ss.

(20) Ci si limita a rinviare al quadro di dot-trina e giurisprudenza tracciato in CRESPI-FORTI-ZUCCALA’ (a cura di), Commentario bre-ve al codice penale, Padova, 2008, 830 s.

(21) Al riguardo v. NOTARO, “Modifiche alcodice penale in materia di reati di opinione”,in Legisl. pen., 2006, 401 ss.

(22) Nell’ambito del vivace dibattito subitoaccesosi nella stampa si è persino assistito –evento, certo, inconsueto – a un confronto di-retto tra le contrapposte posizioni del procu-ratore capo di Palermo e di un celeberrimogiornalista: cfr., rispettivamente, MESSINEO,“Le intercettazioni indirette non sono lesivedell’immunità” e SCALFARI, “Ma l’ordina-mento vieta di violare le prerogative del capodello stato”, entrambi nella Repubblica dell’11luglio 2012.

(23) Cfr. MARTINARO, “Ingroia: non miaspettavo il ricorso del Colle”, nel Corriere del-la Sera del 23 settembre 2012.

(24) Che la strumentalizzazione politico-me-diatica della questione delle intercettazioni in-dirette con Nicola Mancino tendesse a coin-volgere in senso delegittimante il Quirinale, èstato riconosciuto e denunciato dallo stessopresidente della Repubblica nell’ambito deldiscorso di inaugurazione della Scuola per ma-gistrati di Scandicci: per riferimenti al riguar-do cfr. la Repubblica del 16 ottobre 2012.

(25) Si veda il Fatto quotidiano dell’11 agosto2012 (e dei giorni successivi dello stesso mese).

(26) Si allude, ad esempio, alla partecipazio-ne di Antonio Ingroia alla Festa dell’Italia deivalori tenutasi a Vasto, durante il cui svolgi-mento venivano pubblicamente lanciate criti-che nei confronti del capo dello stato: cfr. PA-LAZZOLO, “Ingroia: la politica collusa bloccala verità”, nella Repubblica del 23 settembre2012.

(27) ZAGREBELSKY G., “Napolitano, la Con-sulta e quel silenzio della Costituzione”, nellaRepubblica del 17 agosto 2012; ID., “Il Colle, leprocure e lo spirito della Costituzione”, nel me-desimo quotidiano in data 23 agosto 2012.

(28) CORDERO, “La geometria del diritto”,nella Repubblica del 6 dicembre 2012.

(29) MANZELLA, “Conflitto di poteri. L’e-quilibrio smarrito”, nella Repubblica del 16 lu-glio 2012.

(30) ONIDA, “Il ruolo del Tribunale dei mi-nistri”, nel Corriere della Sera del 19 agosto2012.

(31) PELLEGRINO, “Quel conflitto da risol-vere”, nella Repubblica del 28 luglio 2012; ID.,“L’ambizione fisiologica dei poteri in lotta”,nella Repubblica del 23 agosto 2012.

(32) SCALFARI, “Perché attaccano il capodello stato”, nella Repubblica del 19 agosto2012.

(33) MAURO, “Un giornale, le procure e ilQuirinale”, nella Repubblica del 24 agosto

2012.

(34) Sulla divaricazione di posizioni all’in-terno di Repubblica cfr. anche PANSA, La Re-pubblica di Barbapapà. Storia irriverente di un po-tere invisibile, Milano, 2013, 19 ss.

(35) Cfr. l’editoriale del Fatto quotidiano del5 dicembre 2012.

(36) Intervista rilasciata a Salvo Palazzolo,nella Repubblica del 5 dicembre 2012.

(37) Cfr. ad esempio l’intervento dal titolo“La giustizia, la politica e la ragion di stato”, afirma di INGROIA nel Corriere della Sera del9 agosto 2012.

(38) Per riferimenti cfr., ad esempio, Corrie-re della Sera del 20 settembre e del 7 ottobre2012. In argomento, per un approccio più tec-nico v. LEONE, “La libertà di opinione del ma-gistrato: riflessioni sul ‘caso Ingroia’”, in Qua-derni costituzionali, n. 2/2012, 411 ss.

(39) Si veda l’intervista rilasciata a L. Milel-la, dal titolo “Ingroia verso il divorzio dalle ‘to-ghe rosse’. “Accuse offensive, Md non è più lastessa”, nella Repubblica del 10 ottobre 2012.

(40) Cfr. INGROIA, Io so, cit., 144 ss. A soste-gno si veda TRAVAGLIO, “Il pm imparziale èquello morto”, nell’Espresso del 27 settembre2012.

(41) Così, efficacemente, BIANCONI, “Di cer-to non mi ritiro dall’attività politica”, nel Cor-riere della Sera del 26 febbrario 2013.

(42) Sul versante giornalistico, questo aspet-to di novità è ad esempio sottolineato da BOL-ZONI, “Trattativa stato-mafia. Boss e politici aprocesso”, nella Repubblica dell’8 marzo 2013.

(43) Cfr. NARDUCCI, Processi politici nella Ro-ma antica, Roma-Bari, 1995.

(44) Si veda PORTINARO, Introduzione al vo-lume collettivo Processare il nemico, trad. it., acura di A. Demandt e P. P. Portinaro, Torino,1996, XI.

(45) Per acuti rilievi in proposito cfr. ancoraPORTINARO, Introduzione, cit., IX ss.

NOTE

Palermo, omicidio Borone (foto di Nicola Scafiti)