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Buona lettura,

Lorenzo Fazio Direttore editoriale Chiarelettere

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principio attivoInchieste e reportage

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Ali Agca, Michele Ainis, Tina Anselmi, Claudio Antonelli, Franco Arminio, Avventura Urbana Torino, Andrea Bajani, Bandanas, Gianni Barbacetto, Stefano Bartezzaghi, Oliviero Beha, Marco Belpoliti, Eugenio Benetazzo, Daniele Biacchessi, David Bidussa, Paolo Biondani, Nicola Biondo, Tito Boeri, Caterina Bonvicini, Beatrice Borromeo, Alessandra Bortolami, Giovanna Boursier, Dario Bressanini, Carla Buzza, Andrea Camilleri,Olindo Canali, Davide Carlucci, Luigi Carrozzo, Gianroberto Casaleggio, Andrea Casalegno, Antonio Castaldo, Carla Castellacci, Giuseppe Catozzella, Giulio Cavalli, Mario José Cereghino, Pasquale Chessa, Massimo Cirri, Giuseppe Ciulla, Marco Cobianchi, don Virginio Colmegna, Fernando Coratelli, Alex Corlazzoli, Carlo Cornaglia, Mauro Corona, Roberto Corradi, Pino Corrias, Andrea Cortellessa, Riccardo Cremona, Gabriele D’Autilia, Andrea De Benedetti, Vincenzo de Cecco, Luigi de Magistris, Andrea Di Caro, Franz Di Cioccio, Stefano Disegni, Gianni Dragoni, Paolo Ermani, Duccio Facchini, Giovanni Fasanella, Davide Ferrario, Massimo Fini, Fondazione Fabrizio De André, Dario Fo, Fondazione Giorgio Gaber, Goffredo Fofi, Giorgio Fornoni, Nadia Francalacci, Massimo Fubini, Valentina Furlanetto, Milena Gabanelli, Vania Lucia Gaito, Giacomo Galeazzi, don Andrea Gallo, Bruno Gambarotta, Andrea Garibaldi, Pietro Garibaldi,Claudio Gatti, Mario Gerevini, Gianluigi Gherzi, Salvatore Giannella, Francesco Giavazzi, Stefano Giovanardi, Franco Giustolisi, Didi Gnocchi, Peter Gomez, Beppe Grillo, Luigi Grimaldi, Giuseppe Gulotta, Dalbert Hallenstein, Guido Harari, Stéphane Hessel, Riccardo Iacona, Ferdinando Imposimato, Roberto Ippolito, Karenfilm, Alexander Langer, Giorgio Lauro, Alessandro Leogrande, Marco Lillo, Felice Lima, Stefania Limiti, Giuseppe Lo Bianco, Saverio Lodato, Carmelo Lopapa, Daniele Luttazzi,Paolo Madron, Vittorio Malagutti, Ignazio Marino, Antonella Mascali, Antonio Massari, Giorgio Meletti, Luca Mercalli, Lucia Millazzotto, Davide Milosa, Alain Minc, Fabio Mini, Angelo Miotto, Letizia Moizzi, Giorgio Morbello, Edgar Morin, Anna Maria Morsucci, Loretta Napoleoni, Natangelo, Alberto Nerazzini, Gianluigi Nuzzi, Raffaele Oriani, Sandro Orlando, Max Otte, Massimo Ottolenghi, Antonio Padellaro, Pietro Palladino, Gianfranco Pannone, Arturo Paoli, Antonio Pascale, Walter Passerini, David Pearson (graphic design), Maria Perosino, Simone Perotti, Roberto Petrini, Renato Pezzini, Telmo Pievani, Ferruccio Pinotti, Paola Porciello, Mario Portanova, Marco Preve, Rosario Priore, Emanuela Provera, Sandro Provvisionato, Sigfrido Ranucci, Luca Rastello, Ermete Realacci, Marco Revelli, Piero Ricca, Gianluigi Ricuperati, Sandra Rizza, Iolanda Romano, Vasco Rossi, Marco Rovelli, Claudio Sabelli Fioretti, Andrea Salerno, Giuseppe Salvaggiulo, Laura Salvai, #salvaiciclisti, Ferruccio Sansa, Evelina Santangelo, Michele Santoro, Michele Sasso, Roberto Saviano, Luciano Scalettari, Matteo Scanni, Roberto Scarpinato, Gene Sharp, Filippo Solibello, Giovanni Spinosa, Riccardo Staglianò, Franco Stefanoni, Luca Steffenoni, theHand, Bruno Tinti, Gianandrea Tintori, Marco Travaglio, Gianfrancesco Turano, Elena Valdini, Vauro, Mario Vavassori, Concetto Vecchio, Gianluca Versace, Giovanni Viafora, Francesco Vignarca, Anna Vinci, Carlo Zanda, Carlotta Zavattiero, Luigi Zoja.

Autori e amici dichiarelettere

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pretesto 1 f pagina 6

“ Lo Stato convive con la mafia sin dai suoi albori unitari. È qui la verità, in questo rapporto perverso, patologico. Ecco perché è così complicato, se non impossibile, scriverla nelle sentenze giudiziarie.”

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pretesto 2 f pagine 38-39, 114

“Fatto venire in casa mia il più rinomato dei camorristi, gli dissi che era mia intenzione chiamare i migliori di essi a far parte della novella forza di polizia.”

Liborio Romano, prefetto di polizia e ministro dell’Interno borbonico (poi ministro dell’Interno e deputato del Regno d’Italia), spiega come sedò

i disordini a Napoli prima dell’arrivo di Garibaldi.

“ La mafia si candidò come forza occidentale contro i comunisti.”

Relazione conclusiva del senatore Luigi Carraro, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, 4 febbraio 1976.

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pretesto 3 f pagine 12, 172

“ Negli anni Settanta, quando è iniziata la politica di avvicinamento tra Dc e Pci, la P2 è finita sotto l’ombrello americano, è diventata una specie di Lega dei ‘super atlantici’. Questa era la P2. Davvero si crede che il capo di stato maggiore della Difesa, il comandante dell’Arma dei carabinieri, i capi dei due servizi segreti, il segretario generale del Cesis e altre persone di questo livello prendessero ordini da Gelli? Ma siamo diventati matti?”

Francesco Cossiga in una conversazione con l’autore, 1999.

“ Fu un depistaggio. Andreotti parlò per allontanare i giudici da un’altra pista, quella su un’altra struttura segreta, probabilmente i Nuclei di difesa dello Stato.”

Francesco Gironda, capo di Gladio in Lombardia, a proposito della scelta di Andreotti di svelare l’esistenza di Gladio nell’ottobre del 1990.

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pretesto 4 f pagine 198, 207

“ Fra i documenti dell’inchiesta sulla strage di via dei Georgofili ho appunti in cui i miei successori proponevano al ministro Conso una serie di revoche del 41bis. Uno di questi è del 29 luglio 1993. Nei due giorni precedenti c’erano stati

gli attentati di Roma e Milano.”

Nicolò Amato, ex direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, rimosso il 4 giugno 1993, due giorni dopo la scoperta dell’autobomba vicino a Palazzo Chigi.

“ Data la situazione in Italia, a Roma ci serve proprio uno come lei, un diplomatico di carriera, un professionista con il suo curriculum.”

Il segretario di Stato Warren Christopher al futuro ambasciatore americano in Italia Reginald Bartholomew, maggio-giugno 1993. Il difficile compito di Bartholomew era quello di evitare che l’Italia si spezzasse in due sotto il peso delle bombe e delle trame golpiste.

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pretesto 5 f pagine 214, 214-215

“ Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ’ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando.”

Gianfranco Miglio, ideologo della Lega Nord, 1999.

“ La convivenza pacifica con una mafia discreta, affaristica, separata dal suo braccio malavitoso, non dev’essere sembrato un prezzo troppo esoso. Tanto più se l’alternativa era veder saltare in aria un paese. Ma quanto può reggere uno Stato sotto il ricatto delle bombe?”

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© Chiarelettere editore srlSoci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A.Lorenzo Fazio (direttore editoriale)Sandro ParenzoGuido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.)Sede: via Melzi d’Eril, 44 - Milano

ISBN 978-88-6190-432-3

Prima edizione: luglio 2013

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Giovanni Fasanella

Una lunga trattativa

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Giovanni Fasanella, giornalista, sceneggiatore e documentarista, è autore di molti libri sulla storia invisibile italiana, tra i quali ricordiamo Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro (con Giovanni Pellegrino e Claudio Sestieri, Einaudi 2000), Che cosa sono le Br (con Alberto Franceschini, Bur 2004), La guerra civile (con Giovanni Pellegrino, Bur 2005), I silenzi degli innocenti (con Antonella Grippo, Bur 2006), 1861. La storia del Risorgimento che non c’è sui libri di storia (con Antonella Grippo, Sperling & Kupfer 2010), Intrighi d’Italia. 1861-1915. Dalla morte di Cavour alla Grande guerra (con Antonella Grippo, Sperling & Kupfer 2012). Per Chiarelettere ha pubblicato con Gianfranco Pannone il Dvd+libro Il Sol dell’Avvenire (2009), insieme a Rosario Priore il libro Intrigo internazionale (2010), con Mario J. Cereghino Il golpe inglese (2011).

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Sommario

UNA LUNGA TRATTATIVA

Questo libro 3

Quei colloqui forieri di sciagure 7

L’aiuto mafioso allo sbarco dei Mille 27

La mafia moderna nasce con l’Unità italiana 45

Il mito del «Prefetto di ferro» creato dalla propaganda fascista 61

Il patto di sangue tra mafia e angloamericani 75

La mafia nell’apparato della «guerra non ortodossa» 95

La mafia nell’equilibrio della guerra fredda 115

Crepe nell’equilibrio 137

Falcone e le «menti finissime» 161

Il professionista americano 183

Fonti 217

Ringraziamenti 223

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una lunga trattativa

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Questo libro

La fragilità della verità giudiziaria

Un’avvertenza, innanzitutto. Questo non è un libro di storia, ma una ricostruzione giornalistica basata su testimonianze raccolte dall’autore in vari periodi della sua attività e poi incrociate con informazioni provenienti da fonti archivistiche, bibliografiche e giudiziarie.

Il tema è la cosiddetta «trattativa Stato-mafia» che avrebbe avuto luogo tra il 1992 e il 1993, nel traumatico passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica, quando le istituzioni sarebbero scese a patti con le cosche concedendo benefici ai boss per indurli ad abbandonare la strategia stragista. Da allora, ciò che accadde in quella fase tra le più tragiche della nostra storia è argomento al centro dell’attenzione pubblica. Riempie i fascicoli delle inchieste della magistratura e le pagine della cronaca giudiziaria. Alimenta i talk show televisivi. Arroventa le polemiche politico-mediatiche. Provoca durissimi scontri istituzionali. Ma non si è mai riusciti a venirne a capo: si trattò davvero? e chi trattò con chi? Né la giustizia né la politica hanno saputo o voluto dare una risposta. Almeno una risposta soddisfacente: non parziale, lacunosa o, peggio, di parte. Così, a molti anni di distanza dai fatti, resta un vuoto di verità.

L’idea di scrivere il libro è nata – e non a caso – subito dopo la clamorosa decisione della magistratura siciliana di chiedere la revisione dei processi per l’assassinio del giudice Paolo Borsellino perché le undici sentenze di condanna che erano state emesse

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Una lunga trattativa 4

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contro boss e killer mafiosi si basavano su false dichiarazioni di un finto pentito. Insomma, erano il frutto di un «colossale depistaggio». Poi, man mano che procedevamo nel nostro lavoro di ricostruzione, sono accadute tante altre cose che meritano di essere perlomeno citate, perché confermano quanto sia difficile districare sul piano giudiziario una matassa così complessa e sensibile qual è il rapporto Stato-mafia.

Mentre crollava il castello processuale sulla morte di Borsellino, il presidente della Commissione parlamentare antimafia, l’ono-revole Giuseppe Pisanu, già ministro dell’Interno, consegnava alle Camere e all’opinione pubblica la sua verità: non vi furono vere e proprie trattative, ma «parziali intese» tra boss mafiosi e ufficiali del Ros dei carabinieri, delle quali nulla sapevano gli alti vertici delle istituzioni, ha scritto nella sua relazione assolvendo la politica e scaricando l’intera colpa sulle solite «mele marce» degli apparati.

Poi è esploso il «caso Napolitano». Cioè l’intercettazione di conversazioni riservate tra Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno controllato dalla Procura di Palermo nell’ambito dell’ennesima inchiesta sulla «trattativa», e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, a cui Mancino si era rivolto. L’esistenza delle bobine, rivelata proprio dall’autore di questo libro in un articolo su «Panorama»,1 ha provocato uno scontro violento tra il Quirinale e i pm palermitani: il capo dello Stato, convinto che la procura avesse abusato del proprio potere ascol-tando illegalmente le sue telefonate, ha sollevato un conflitto di attribuzione di fronte alla Corte costituzionale, che gli ha dato ragione e ha ordinato la distruzione dei nastri. Così, l’opinione pubblica non saprà mai per quale ragione il responsabile del Viminale all’epoca delle stragi, sentendosi nel mirino della magistratura, si era rivolto al presidente della Repubblica: l’aveva fatto per chiedere consigli e protezione a un amico potente o per richiamare l’attenzione del Quirinale sull’estrema delicatezza

1 Giovanni Fasanella, Se il pm «ascolta» Napolitano, «Panorama», n. 27, 6/2012.

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5Questo libro

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delle inchieste palermitane e sui rischi per la tenuta delle stesse istituzioni, nel caso le indagini fossero proseguite?

Nell’incertezza, mentre il libro era pronto per andare in stam-pa, a Palermo si stava avviando a conclusione il secondo processo sulla «trattativa» (imputati alcuni boss mafiosi e responsabili del Ros) e un terzo stava avendo inizio (oltre ai mafiosi e agli ufficiali dei carabinieri, imputati anche diversi uomini politici, tra cui Mancino). Il tempo dirà se il terzo processo sarà anche quello definitivo o solo un episodio di un sequel infinito. Ma intanto, un ex procuratore di Palermo, poi capo della Direzione nazionale antimafia, Pietro Grasso, all’indomani delle elezioni politiche del febbraio 2013, è stato eletto presidente del Senato. Sin dal giorno del suo insediamento ha ripetuto pubblicamente che una verità non c’è, e bisogna continuare a cercarla attraverso una commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi mafiose e su tutte quelle compiute in Italia da piazza Fontana (1969) in poi: «Perché ci può essere un certo filo che collega le stragi di terrorismo politico e le stragi di terrorismo mafioso. Ci potrebbero essere ancora tante cose gravi da scoprire. E la cosa peggiore, per un magistrato, è intuire e non poter dimostrare, perché la verità giudiziaria non coincide con quella storica». Figurarsi con quella politica.

Il silenzio di Stato

Il quadro è desolante. A parte le frasi di circostanza pronun-ciate in occasione della celebrazione dei morti, di fronte alla tragedia del 1992-93 la politica appare del tutto indifferente o interessata a proteggere solo se stessa, mentre la magistratura e la prima carica della Repubblica si ritrovano al centro di un duro conflitto: l’ennesimo, nella storia giudiziaria italiana, tra le ragioni della giustizia e quelle dello Stato. Il risultato, appunto, è che ancora una volta l’opinione pubblica non sa il perché delle bombe e dei tanti morti e feriti. Pietro Grasso, che pure era un magistrato impegnato in prima linea, con all’attivo la cattura

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di centinaia di mafiosi, dubita fortemente che, per ricostruire la verità, basti da solo lo strumento della giustizia. Ed è difficile dargli torto. Il fatto è che, fra tutti i nervi scoperti, quello del rapporto Stato-mafia è di gran lunga il più sensibile. Perché, come ha lasciato intendere lo stesso presidente del Senato, è soltanto la punta di un iceberg, la cui parte sommersa si dilata negli abissi della storia italiana.

È un rapporto antico, quasi una tara genetica. Perché nasce e cresce con la stessa Italia. Si intreccia costantemente con le sue vicende politiche interne e con le dinamiche geopolitiche internazionali. Sin dal Risorgimento, entra con tutto il suo peso nei passaggi cruciali della vicenda unitaria, condizionando la vita pubblica e contaminando il tessuto economico-finanziario, la cultura e persino la psicologia di una nazione. Difficile ammet-terlo, però è così: lo Stato convive con la mafia, ora in modo conflittuale ora pacificamente, sin dai suoi albori unitari. Se ne serviva quando occorreva, garantendole favori e impunità; salvo poi scaricarla nelle fasi in cui diventava zavorra inutile e ingombrante. È qui la verità, in questo rapporto perverso, patologico. Ecco perché è così complicato, se non impossibile, scriverla nelle sentenze giudiziarie. Eppure la si può intravedere nitidamente se solo si prova ad allungare lo sguardo oltre le carte processuali. Se si colloca l’epicentro geografico del fenomeno, la Sicilia, nel suo contesto storico, politico e geopolitico. Perché è lì la chiave per aprire quelle porte che la magistratura trova sbarrate dal silenzio di Stato.

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Quei colloqui forieri di sciagure

Un Muro caduto troppo in fretta

Non era mai accaduto di assistere in diretta televisiva alla fine di un’era. E quella notte berlinese del novembre 1989, seguita in tv da milioni di persone in tutto il mondo, cambiò davvero il corso della storia. La folla accalcata al di qua del Muro, in un piazzale della parte ovest della città, attendeva impaziente un evento che solo fino a qualche settimana prima sarebbe stato inimmaginabile. All’improvviso, dall’altro lato, quello est, comparve la testa di un uomo che si stava arrampicando a fatica. In migliaia lo salutarono con applausi scroscianti, lacrime e urla di gioia, incitandolo a compiere l’ultimo sforzo. Indos-sava un casco giallo. E quando finalmente riuscì a emergere da oltre il Muro, dalla divisa si capì che era un militare. Aveva in mano un piccone, e con quello cominciò a battere sul cemento armato, che si sbriciolò come un pannello di polistirolo. Si aprì una breccia. E attraverso quella feritoia, il soldato, uno dei famigerati VoPos (Volkspolizei, la polizia popolare) che per anni avevano vigilato lungo la Cortina di ferro per impedire ai tedeschi della Germania comunista di fuggire in Occidente, oltrepassò la vecchia linea di confine, ormai solo immaginaria. A ovest venne accolto con un abbraccio e una vigorosa stretta di mano da un commilitone della Germania federale.

Quella scena suggellò la fine della guerra fredda, preannun-ciando l’imminente riunificazione delle due Germanie e il repentino collasso dell’impero comunista, del Patto di Varsavia

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e della stessa Unione Sovietica. Tutto accadde nel giro di qualche settimana, a una velocità impressionante.

Diverse, molto diverse, le scene che in quello stesso periodo si svolgevano nel chiuso ovattato delle stanze di un palazzo del pote-re italiano, il Quirinale, sede della presidenza della Repubblica.

Capo dello Stato era Francesco Cossiga. Colui che undici anni prima, nella primavera del 1978, da ministro democristia-no dell’Interno non era riuscito a salvare l’amico Aldo Moro, sequestrato dalle Brigate rosse e assassinato dopo 55 giorni di prigionia perché aveva teso la mano ai comunisti di Enrico Berlinguer. Travolto dal senso di colpa, Cossiga si era dimesso. Aveva capito che le aperture di Moro erano avvenute con trop-po anticipo sui tempi della storia. E, soprattutto, su quelli di alcune cancellerie dell’Occidente democratico e dell’Oriente comunista, nemiche sul fronte strategico della guerra fredda, ma con interessi tattici convergenti su uno stesso obiettivo: il mantenimento a ogni costo dell’equilibrio del Muro, basato sulla rigida divisione del mondo in due aree di influenza. Per questo, pur covando un sordo rancore nei confronti di chi aveva armato la mano delle Br, Cossiga aveva scelto il silenzio, sacrificando i propri sentimenti personali sull’altare della «ragion di Stato»: quell’interesse «superiore» che spesso può condurre uomini di governo e delle istituzioni, anche quelli di specchiata moralità, ad assumere posizioni non sempre limpide e a tenere compor-tamenti non sempre lineari. Il suo silenzio, che ad alcuni era sembrato omertoso, era stato comunque premiato. Rientrato ben presto dall’esilio volontario in cui si era rifugiato dopo la morte di Moro, aveva scalato i vertici del potere: presidente del Consiglio, poi presidente del Senato e infine presidente della Repubblica.

Era al Quirinale da quattro anni quando crollò il Muro di Berlino. Ma era troppo esperto delle segrete cose della politica interna e internazionale per non sapere che la fine della guerra fredda, in Italia, non sarebbe stata così festosa e rapida come a Berlino e nel resto d’Europa: da noi era tutta un’altra storia. Proprio questo cercava di spiegare ai nemici di mezzo secolo, i

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9Quei colloqui forieri di sciagure

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comunisti, che dopo la fine dell’era sovietica si apprestavano a cambiare il nome e il simbolo del partito; e che Cossiga aveva preso a «coccolare», convinto com’era che fosse giunta l’ora di una pacificazione nazionale.

Le coccole di Cossiga al Pci

Segretario del Pci – prossimo a chiamarsi Pds, Partito democra-tico della sinistra, e a sostituire la vecchia falce e martello con una quercia – era Achille Occhetto. Diversi suoi «ambasciatori», in quel periodo di mutamenti convulsi, facevano la spola tra via delle Botteghe oscure, dov’era allora la sede nazionale, e il Quirinale. Due, però, erano quelli che salivano segretamente sul Colle con più frequenza, perché formalmente autorizzati a parlare in suo nome: il primo era Giorgio Napolitano, che aveva una sorta di delega per i problemi di politica estera; l’altro era Luciano Violante, al quale erano state affidate invece le «grane» interne. E che grane stavano per arrivare!

L’argomento delle conversazioni era, appunto, come arrivare a stipulare una pace tra Dc e Pci, dopo decenni di feroce odio ideologico e di guerre sotterranee combattute senza esclusione di colpi e talvolta con metodi poco ortodossi. Diversi anni dopo, Cossiga affidò all’autore di questo libro la ricostruzione del punto di vista sostenuto in quei colloqui riservatissimi. Eccola:

La mia vita è sempre stata dominata da un rapporto di amore e odio nei confronti del Pci. Un rapporto che ha una radice an-tica, essendo io nato ed essendo stato educato in una famiglia repubblicana antifascista, a Sassari. Il Pci ha suscitato su di me un grande fascino, come su molti altri ragazzi della borghesia sassare-se, per esempio i miei cugini Enrico e Giovanni Berlinguer. Può sembrare strano ma, quando all’età di sedici anni decisi di impe-gnarmi in politica, sono stato incerto se iscrivermi alla Dc o al Pci.Con gli anni ho avuto scontri violenti con i comunisti. Però sono stato subito favorevole a una politica di ricomposizione del corpo

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Una lunga trattativa 10

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civile e politico della nazione, non appena mi sono convinto della sincerità della scelta eurocomunista di Berlinguer, consacrata poi dallo strappo da Mosca. Ricordo un convegno della Base, la cor-rente della sinistra democristiana, alla Camera di commercio di Roma, nei primissimi anni Settanta: fui incaricato di tenere la re-lazione introduttiva e feci un discorso di apertura al Pci, di fronte a un esterrefatto Forlani. Sono stato poi un convinto sostenitore della politica di Moro e della solidarietà nazionale. Poi, da presi-dente della Repubblica, molti anni dopo, pronunciai un famoso discorso al congresso della Cgil, in cui commemorai, primo non comunista, i caduti di Portella della Ginestra... Alla fine fui ap-plaudito entusiasticamente. Occhetto aveva appena annunciato la svolta della Bolognina e si congratulò subito con me. La mattina dopo, alle sette, mi chiamò per ringraziarmi ancora del discorso e mi disse: «Abbiamo trovato il presidente del nuovo partito pro-gressista. Se verrai da noi, alla fine del tuo mandato, ti accogliere-mo a braccia aperte».1

Cossiga affrontava quei colloqui usando la sua arma migliore, la seduzione. Si sforzava di apparire convincente. Tendeva la mano ai vecchi nemici ricordando il suo passato moroteo. E manifestando il suo desiderio di voler rimuovere finalmente il famigerato «fattore K», la discriminante anticomunista che nel corso della guerra fredda aveva chiuso al Pci le porte di accesso al governo. Spiegava ai suoi interlocutori:

Da noi la Cortina di ferro l’abbiamo avuta dentro il paese. Cer-to, c’era una democrazia incompiuta, ma era l’unico tipo di democrazia possibile per rimanere in Occidente. Noi eravamo costretti a fare una politica di effettiva restrizione degli spazi politici dell’opposizione. Questo l’ho sempre ammesso: la di-scriminazione nei confronti dei comunisti è stata una cosa reale,

1 Conversazione registrata dall’autore nella primavera del 1999 e in parte riportata in Giovanni Fasanella, D’Alema, l’ex comunista amato dalla Casa bianca, Baldini & Castoldi, Milano 1999.

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11Quei colloqui forieri di sciagure

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[...] la nostra è stata una storia di odio ideologico feroce che ha prodotto anche dei mostri. Da una parte e dall’altra. [...] Credo che ci sia stato un momento in cui parte dell’apparato dello Stato abbia ritenuto – come dire? – che si dovesse mettere al si-curo l’atlantismo del nostro paese. Questo è avvenuto negli anni dell’avvicinamento tra Dc e Pci, durante la politica di solidarie-tà nazionale. Come posso spiegare? Vediamo, faccio un esem-pio. Durante la Seconda guerra mondiale il governo svizzero ha avuto anche atteggiamenti filotedeschi, così come non ha per-messo la creazione di un partito nazista svizzero. Un gruppo di ufficiali, tutti ufficiali di complemento, preoccupati che il loro governo permettesse ai tedeschi di passare in Svizzera, si costi-tuirono in un’associazione segreta chiamata Lega del Gottardo e si accordarono, certo in modo illegale, ma si accordarono per disubbidire agli ordini delle gerarchie politiche e militari se si fossero schierate con i tedeschi. Qualcosa del genere è avvenuto anche in Italia negli anni della solidarietà nazionale.2

La vita segreta di Dc e Pci

Cossiga sapeva benissimo quali erano i tasti più dolenti. E li toccava senza alcuna remora. Uno dei più delicati era la P2, la famigerata loggia massonica segreta diretta da Licio Gelli. Era a quella che Cossiga si riferiva quando citava l’esempio della Lega del Gottardo. Con gli «ambasciatori» di Occhetto ne parlava in totale libertà. Senza tralasciare nulla delle sue inquietanti ramificazioni, delle sue articolazioni di potere, del suo ruolo nella storia italiana e in particolare nella fase del compromesso storico tra Moro e Berlinguer. Diceva:

Sì, la P2. In Italia pochi hanno davvero capito che cos’era la P2. Quella loggia è sempre esistita, Giuseppe Zanardelli, all’inizio del Novecento, ne è stato uno dei capi. Era la loggia dove venivano

2 Ibidem.

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Una lunga trattativa 12

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trasferiti i grandi esponenti della politica, militari e altro, quan-do la massoneria era la religione laica dello Stato. Era una loggia regolare, collegata al Gran maestro. Negli anni Settanta, quando è iniziata la politica di avvicinamento tra Dc e Pci, la P2 è finita sotto l’ombrello americano, è diventata una specie di Lega dei «super atlantici». Questa era la P2. Davvero si crede che il capo di stato maggiore della Difesa, il comandante dell’Arma dei carabi-nieri, i capi dei due servizi segreti, il segretario generale del Cesis [Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza, che all’epoca coordinava l’attività dell’intelligence militare e di quella civile, nda] e altre persone di questo livello prendessero ordini da Gelli? Ma siamo diventati matti? Gelli era soltanto una specie di segretario amministrativo della P2, in alto, molto più in alto c’era qualcun altro.3

Un personaggio che «oggi è ancora nell’esercizio delle pro-prie funzioni» spiegava Cossiga agli emissari del Pci.4 E pro-seguiva:

Io non mi scandalizzo del fatto che la P2 fosse una lega dei «super atlantici». Come non mi scandalizzo del fatto che esistesse an-che una «rete rossa». Non è un mistero che i comunisti, temendo un colpo di Stato, avessero approntato con l’aiuto dei sovietici una struttura di «esfiltrazione». Era così, mica mi scandalizzo. Le formazioni paramilitari sono esistite anche dopo la fine della Re-sistenza e della guerra. Quelle comuniste e quelle bianche. [...] Questa era la situazione. E Togliatti e De Gasperi fecero un «com-promesso storico». Togliatti disse: «Non faccio la rivoluzione e voi non ci mettete fuori legge». E De Gasperi accettò: «Ok, non vi mettiamo fuori legge, ma voi non fate la rivoluzione». La politica italiana si è retta per diversi decenni su quel compromesso. Però ognuna delle due parti ha continuato ad avere una vita segreta. Io, quand’ero ministro dell’Interno, avevo in tempo reale i resoconti

3 Ibidem.4 Frase riferita all’autore dall’onorevole Luciano Violante.

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13Quei colloqui forieri di sciagure

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del Comitato centrale e della Direzione comunista. No, non dirò mai come mi arrivavano. Posso dire soltanto che le informazioni sul Pci erano di due origini: una direttamente di fonte democri-stiana, un’altra del ministero dell’Interno. Era illegale, certo, che io avessi spie e informatori dentro il Pci, lo so benissimo. Ma anche i comunisti avevano le loro spie nella Dc e nel ministero dell’Interno. Era logico in quel contesto. Questo non mi ha mai scandalizzato.5

Questa era la narrazione cossighiana della guerra fredda italia-na. Ancora più tragica della Cortina di ferro tedesca e capa-ce di scatenare pulsioni più violente. Perché segnata non solo dalla linea che separava fisicamente il nostro paese dal mondo comunista lungo la frontiera nordorientale con la Iugoslavia, ma anche da quel muro invisibile, eppure assai robusto, che attraversava l’Italia, dividendola in due al proprio interno. Due «mezze mele» separate da feroce odio politico-ideologico, spa-ventate l’una dall’altra e sempre sul punto di affrontarsi, de-terminando un contesto di incombente guerra civile. Certo, guerra civile a «bassa intensità», perché non è mai degenerata in un vero e proprio bagno di sangue.

Tuttavia, il «compromesso storico» tra Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, su cui si era a lungo retto l’equilibrio della deterrenza dopo il Secondo conflitto mondiale, non sempre era riuscito a tenere a freno le teste calde dei rispettivi campi: diverse schegge erano sfuggite al controllo provocando centinaia di morti e migliaia di feriti, con il corollario di intrighi e trame oscure. Tutto era iniziato proprio in Sicilia, il 1° maggio 1947, con la strage «mafiosa» di Portella della Ginestra. Poi, una lunga scia di sangue aveva attraversato per alcuni decenni la storia del paese. Ma adesso, diceva Cossiga agli emissari del Pci, naufragato sotto il piombo brigatista il tentativo di stipulare un secondo «compromesso storico» tra Moro e Berlinguer, dopo quello tra

5 Conversazione registrata nella primavera del 1999 e in parte riportata in G. Fasanella, D’Alema, l’ex comunista amato dalla Casa bianca, cit.

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Una lunga trattativa 14

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De Gasperi e Togliatti, caduto il Muro di Berlino, erano maturi i tempi per un terzo «compromesso storico». Questa volta tra il Quirinale e Occhetto, per lasciarsi alle spalle il passato con i suoi miasmi e i suoi fantasmi, e creare le condizioni per un passaggio possibilmente indolore a una nuova fase della storia politica italiana. Il presidente lasciava intendere che, se se ne fosse presentata l’occasione, avrebbe posto fine per sempre al «fattore K», affidando l’incarico per formare un nuovo governo a un postcomunista. Ma in cambio chiedeva che il nuovo par-tito che stava per nascere dalle ceneri del vecchio Pci mettesse da parte i vecchi rancori e rinunciasse a eventuali propositi di vendetta. Su questi presupposti si sarebbe dovuto fondare il patto tra ex nemici.

Napolitano, il comunista anglosassone

Cossiga trovava in Napolitano un interlocutore assai più «ricet-tivo» di Violante. D’altra parte, neppure le biografie dei due esponenti comunisti coincidevano in tutto e per tutto, e questo ne spiegava le diverse sensibilità. Il primo veniva dalla scuola comunista partenopea, quella di Giorgio Amendola, «conta-minata» dal liberalismo crociano. E si era formato durante il Secondo conflitto bellico negli ambienti politico-intellettuali napoletani legati al Pwb (Psychological warfare branch), la sezione propaganda e guerra psicologica dei servizi segreti allea-ti. E anche nei decenni successivi aveva mantenuto un legame speciale con il mondo anglosassone, garantendo i contatti del vertice Pci con Londra e Washington, persino nei momenti di maggiore acutezza dello scontro Est-Ovest. Di recente, lo stesso Napolitano, nella sua veste di capo dello Stato, ha confermato al direttore de «la Repubblica» Ezio Mauro l’esistenza di rapporti speciali con quel mondo in piena guerra fredda e durante il caso Moro. E uno dei canali di comunicazione tra lui e il mondo anglosassone era il presidente della Fiat Gianni Agnelli. Ecco il racconto di Napolitano:

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