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magazine n. 17 settembre 2010 Rrose Sélavy GIANCARLO CUCCÙ

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Rrose Sélavy

GIANCARLOCUCCÙ

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Il titolo scelto per questa mia presentazione è legato a un’immagine. Mi ricordo che, durante la visita alla sua bella casa di Fermo, Giancar-lo Cuccù ci invitava a salire su per i quattro piani che raccolgono la storia della sua opera, anticipando che dal suo atelier avremmo visto “e quinci il mar da lungi

e quindi il monte”.

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Siamo arrivati in cima, sul terrazzo che spalancava davanti ai nostri occhi una vista da togliere letteralmente il fiato, sulla stupenda campagna dell’ascolano, e si spingeva a sud fino al Gran Sasso e a Nord verso l’entroterra anconetano ben al di là del Monte San Vicino. Il mio titolo è anche un riferimento per contrasto al suo catalogo del 2008, I colori dell’anima, che io avrei chiamato piuttosto La quiete e la tempesta. Ma non sono un criti-co, io; solo un appassionato d’arte e faccio un mestiere - lo psichiatra, lo psicoanalista - che ha con la creazione artistica qualche piccola e marginale attinenza. Così per orien-tarmi nello stile generoso e spumeggiante di Giancarlo, ho sfogliato questo album e ho trovato il punto di appoggio che cercavo in alcune note da lui scritte in appendice. L’album si apre con una frase di Gilles Deleuze, rigorosa e garbata, nella quale ho intro-dotto una sottolineatura: “Quando scrivo su un autore, il mio ideale sarebbe di riuscire a non dire nulla che potesse rattristarlo… Pensare a lui con tanta forza che non possa più essere un oggetto e che non sia neanche più possibile identificarsi con lui. Evitare la doppia ignominia dell’erudizione e della familiarità. Restituire a un autore un po’ di quella gioia, di quella forza… di quell’amore che lui ha saputo donare, inventare”.

La quiete e la tempesta

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RS Nel catalogo,

Giancarlo Cuccù esprime le stesse idee a modo suo:

“Amo il colore dato in spessore quasi sensuale, che

abbia un valore plastico. Preferisco gli impasti densi,

procedere strato su strato con ostinazione…La pittura si fa

faticosa, ardua, lenta, procede a sprazzi… E’ una specie di

guerra fra te e la tela bianca… Quando vuoi trasferirci sopra i

tuoi dubbi, le tue paure, i pensieri, i sogni, le angosce, si avverte una certa resistenza

da parte della superficie bianca. Preferisco dipingere

su… un supporto duro, perché devo sentire un punto d’appoggio per il pennello. Ho

l’impressione che scivoli meglio e non affondi”.

In quelle note poi egli ci parla delle inquietudini che la

pittura gli genera: la guerra del dipingere; la distruzione

volontaria delle sue opere forse per insoddisfazione; il suo tornare ossessivamente

sul suo lavoro per correggerlo e cambiarlo; infine il tormento

di non essere mai a capo d’opera: quando è veramente

finito un quadro? Anche in queste righe ho introdotto

una sottolineatura che rimanda a Deleuze:

tra familiarità e… tela bianca. Giancarlo vi enuncia una poetica, cioè un modo di intendere l’arte e la vita.

E un’estetica, sia nella figurazione che

nell’espressione. Partiamo dalla guerra e dalla

distruzione che è compagna non accidentale ma strutturale

della creazione. Noi siamo abituati a pensare alla

creazione artistica come un processo positivo in cui si dà

qualcosa che prima non c’era.

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RS In apparenza, niente è più evidente, specie nella pittura. E sicuramente è così. Però, nella scultura, per esempio, la cosa si presta a qualche dubbio se diamo retta a Michelangelo che procedeva per via di togliere: la statua finita era già nel blocco di marmo e si trattava solo di tirarla fuori. Non è precisamente questo il senso che ho in mente. Comunque, in apparenza il pittore si pone davanti alla tela e vi deposita dei segni, vi accumula materiali e colori riempiendo, tanto o poco il fondo bianco. Ma allora, ci potremmo chiedere, il taglio che squarciava le tele di Fontana? Anche esso rientra in questa operazione? E perché le squarciava? È qui che l’accostamento delle due citazioni ci torna utili. Perché invece, fra familiarità con se stesso ed erudi-zione, anche il pittore procede per sottrazione: in un primo e preliminare momento, che ritorna ancora e ancora finché il quadro non è finito, il pittore lavora per togliere. E questo vuol dire che la tela, all’inizio, sarà pure bianca, ma non è affatto vuota. Anzi, è piena e il pennello vi affonda e si smarrisce in quell’angoscia non solo del vuoto, ma del troppo pieno: ansia di non potersi staccare da ciò che è stato già detto.

Dunque, da una parte c’è l’erudizione, cioè tutta la storia dell’arte. C’è quel sapere che devi pur possedere se vuoi dipingere. Ci sono tutte le immagini che hai visto, di cui ti sei nutrito, lo stile dei pittori che hai amato e studiato, la tradizione che devi conoscere ma solo per dimenticarla, per liberartene. Ci vuole audacia e un po’ di eccentricità al limite della follia, che però non basta: perché la follia dei folli è disperazione; e l’ eccentricità a tutti i costi è solo una piccola presunzione. Del resto, la fedeltà al conosciuto, al fami-liare, al già detto è solo un modo per cavarsela, per esor-cizzare il vero vuoto che il pittore scava, per arrivare a ciò che non conosce e che appun-to crea con tantissima fatica.

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Dall’altra parte c’è quello che l’artista crede di conoscere di se stesso e pensa di voler esprimere: dubbi, paure, emozioni, pensieri... In realtà non lo conosce mai fino a quando non mette mano ai pennelli e al disegno. E allora…E allora quello che ha espresso forse non è quello che voleva dire… o forse non l’ha detto fino in fondo... E allora bisogna correggere e ricorreggere, tornare sul quadro, martoriarlo, in un equilibrio incerto dove il rischio è “perdere il quadro”, come diceva Pollock. Cioè perdersi, perché improvvisamente ci si accorge non tanto che l’oggetto al quale si è lavorato con rabbia, amore e accanimento, è imitazione di qualcun altro - la storia dell’arte è un prestito continuo ai limiti del furto –; ma piuttosto che il quadro d’un colpo diventa un oggetto qualunque, insignificante, un niente: un rifiuto. La pittura, dopo tutto, è solo qualche macchia di colore su una tavola. Questo è l’abisso con cui il pittore si confronta. Dal sublime al ridicolo non c’è che un passo, ma a saperlo rischiare, si arriva a volte alle più alte espressioni della creazione umana. Questo lavoro contro la tradizione e la storia espone l’atto creativo all’instabilità, è come camminare sul vuoto facendo a meno di tutto quello che sappiamo e che siamo stati per poterlo recuperare nell’opera. E’ uno stato che oscilla violentemente nell’esaltazione fra precarietà e identità assolute. Ecco allora che le tele di Cuccù sono il teatro in cui si svolge questa guerra, che per lui è una bufera di colori, il battito della materia, lo spasmo della vita che si propaga come un’onda, secondo la bella espressione di Roberto Calasso. E sedimenta gli stati della materia e gli strati della pittura. Cioè, gli strati della memoria, delle sensazioni, delle impressioni, delle gioie, del dolore che lottano per trovare la forma adatta. E gli strati delle immagini, degli oggetti, del paesaggio, delle persone così come l’immaginario artistico li ha colti. Suggestioni ricche ed eclettiche nei quadri di Cuccù, perché, come mi ha detto lui stesso, non c’è un pittore al quale lui deve più che ad altri – il che può essere un pregio, ma anche un difetto: Soutine, certamente, ma anche tutta la sensibilità francese fra ’800 e ’900: Cézanne e Van Gogh, per l’impasto dei colori, per la pennellata ampia e forte, il corpo a corpo con la materia, sofferto, elaborato, dove paesaggio e figura umana si compenetrano; e Bonnard per lo scintillio delle tinte. E poi, specie per la figurazione, la sensibilità tedesca dell’espressionismo, Munch soprattutto, con quelle figure che vengono verso lo spettatore, Kirchner e Nolde per l’uso del colore in forma espressiva ed evocativa, Ensor. E poi tanta pittura italiana da Scipione, a Morandi, a Sironi. Insomma, ciascuno di voi avrà il piacere di ritrovare nella mostra le suggestioni, le sensazioni, le immagini che più si confan-no alla propria cultura e sensibilità. Un’ultima parola sulla deformazione delle figure e degli oggetti che non è un espediente. La deformazione è la propagazione della tensione della pittura nello spazio della tela, fra distruzione e generazione degli oggetti. E’ la narrazione del tempo che fa e disfa le cose, le cambia. Un’esplorazione delle tracce, dei segni, delle rovine che il tempo lascia e accumula nel paesaggio che ci è familiare, negli oggetti che usiamo, nei corpi che amiamo, nell’Io che siamo. Come in uno scavo archeologico. Deformazione dell’identità per accumulo telescopico degli strati di cui il visibile è fatto. Perché nella pittura, come nella musica del resto, non si tratta di riprodurre o di inventare delle forme, quanto di captare delle forze che non sono visibili, né udibili. Per questo nessuna arte è figurativa: il desiderio del pittore non è dell’ordine del visibile. La ricerca di quelle forze, di quelle tensioni fa pensare a un altro grande di tutta la pittura, a Bacon, che ammucchiava nel suo studio cumuli di fotografie e di immagini che spesso utilizzava solo per bruciarle. E che nei suoi trittici coglieva la trasposizione temporale degli stati della materia lavorando sul colore, deformando l’identico nella figura umana, cercando di andare sempre più a fondo. Ora, lo psicanalista sa bene che non c’è fondo. Non si tocca mai questo punto finale, se non nella morte, ma, come dicono saggiamente dalle nostre parti, a pagare e a morire c’è sempre tempo. Allora si capisce che il problema più grande per un pittore sia stabilire quando il quadro è finito. E, anche, allon-tanare questo momento per godere e patire ancora un po’ nella conquista di un oggetto che sfugge. Cuccù ci indica il tempo che passa e fa della storia dell’umana creazione il potenziale accumulo di splendide vanità.

Piero Feliciotti