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Rosa Corrado

Antonio Gramsci: teorico della traduzionee scrittore per l’infanzia

Un contributo allo sviluppo della fantasia dei bambinie alla formazione dei giovani

Copyright © MMVIIIARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, 133 A/B00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 978–88–548–2207–8

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: dicembre 2008

Ad Elisa,

mia dolce e meravigliosa nipotina

7

Desidero ringraziare la Direzione ed il personale della Fondazione An-

tonio Gramsci di Roma, nonché della Casa Museo di Antonio Gramsci di

Ghilarza (Oristano), per la disponibilità mostrata nell’accesso alla docu-

mentazione qui utilizzata.

Il mio riconoscimento va, inoltre, al Magnifico Rettore Alessandro Fi-

nazzi Agrò, ai Direttori del Dipartimento di Ricerche Filosofiche Prof.ssa

Marta Cristiani e Prof. Ignazio Volpicelli, agli amici e colleghi della Fa-

coltà di Lettere e Filosofia dell’Università Tor Vergata di Roma, per i pre-

ziosi suggerimenti nel corso della stesura del libro.

Voglio ricordare anche il compianto Prof. Luigi Borelli che mi ha so-

stenuta con vigore nella fase progettuale e di ricerca di questo lavoro.

Ringrazio inoltre, per la preziosa collaborazione, il Dott. Daniele Mo-

nacò, la Dott.ssa Luisa Carbone e la Dott.ssa Giulia Scavone.

Un particolare ringraziamento a mio genero Manuele Granato, per

l’abilità prestata nella realizzazione della copertina del libro, ed a mio

marito Francesco D’Alema, per l’affettuosa sollecitudine con cui mi ha

accompagnata in questo viaggio culturale, realizzando — tra l’altro — le

immagini fotografiche riprodotte nel libro. Il mio affettuoso pensiero va

ai miei figli Piero e Licia per avermi costantemente incoraggiata durante

la realizzazione di questo lavoro.

La mia gratitudine ed il mio affetto alla Dott.ssa Anna Serafini, Sena-

trice della Repubblica, per aver arricchito con la sua preziosa ed erudita

prefazione questo mio modesto lavoro.

Carissima Teresina,

[…] Ho tradotto dal tedesco, per esercizio, una

serie di novelline popolari proprio come quelle

che piacevano tanto quando eravamo bambini e

che anzi in parte rassomigliano loro, perché

l’origine è la stessa. Sono un po’ all’antica, alla

paesana, ma la vita moderna, con la radio,

l’aeroplano, il cine parlato, Carnera, ecc. non è

ancora penetrata abbastanza a Ghilarza perché il

gusto dei bambini d’ora sia molto diverso dal

nostro d’allora. Vedrò di ricopiarle in un qua-

derno e di spedirtele, se mi sarà permesso, come

mio contributo allo sviluppo della fantasia dei

piccoli.

Gramsci, Lettere dal carcere, 18 gennaio 1932

11

Indice

Prefazione a cura di Anna Serafini.............................................. 13 PARTE PRIMA Antonio Gramsci: la vita, gli affetti, le idee ......................... 19

Famiglia, formazione, impegno politico .................................. 21

Dal bambino alla matricola “7047” .......................................... 37

“Esprimere” l’“inesprimibile” oltre lo spazio e il tempo ......... 41

Dalla sua infanzia all’infanzia: per una pedagogia della comunicazione ................................ 45

Gramsci: padre ed educatore ................................................. 51 PARTE SECONDA Educazione ed istruzione: momenti di crescita e di elevazione culturale .................... 57

Antonio Gramsci: epistemologo e maestro attraverso le Lettere ........................ 59

Pari opportunità e diritto allo studio in una società del cambiamento .............................................. 69

Leggi, riforme e organizzazione scolastica: il punto di vista del nostro pensatore ...................................... 75

Spontaneità, creatività, disciplina: fattori essenziali del processo educativo ................................ 79 PARTE TERZA Antonio Gramsci: teorico della traduzione ......................... 85

Gramsci traduttore .................................................................. 87

Uno sguardo a Jacob e Wilhelm Grimm ................................. 95

12 Indice

C’era una volta… le fiabe dei Fratelli Grimm: dinamiche emozionali e riferimenti storico–ideologici alla base della scelta delle fiabe tradotte ................................ 101 PARTE QUARTA Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde .......................... 131

Gramsci scrittore per l’infanzia .............................................. 133

Quando scrivere diventa racconto ......................................... 135

“Avventura natalizia”: un racconto nel racconto ................... 141

“Che farò da grande?” ............................................................. 145

“Il topo e la montagna” ............................................................ 149

“Caccia alle rane” ..................................................................... 155

“L’albero del riccio” ................................................................. 159

“La volpe e il pulledrino” ......................................................... 165

“Lo scurzone” ........................................................................... 169

“Barbabucco: uno strano animale” ......................................... 173

“Un evento drammatico” ......................................................... 175 PARTE QUINTA Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni .......... 179

Antonio Gramsci, maestro di pensiero e di vita, al di sopra di ogni schema ideologico ..................................... 181

Dalla casa–museo di Ghilarza: documenti, materiale iconografico, oggetti… attraverso le immagini ............................................................. 185 BIBLIOGRAFIA ........................................................................ 217

Testi e pubblicazioni................................................................. 217

Convegni, atti e relazioni.......................................................... 219

Antonio Gramsci: annotazioni bibliografiche .......................... 220

13

Prefazione

a cura di ANNA SERAFINI∗

È il 1954 e a Roma, nel Cimitero Acattolico, davanti alla

tomba che custodisce le ceneri di un Gramsci “ancora confina-

to”, Pier Paolo Pasolini sente “tra le macerie finito il profondo

e ingenuo sforzo di rifare la vita” che pure aveva animato i

primi anni della ricostruzione. Il silenzio di questo “buio

giardino straniero” è rotto solo da “qualche colpo di incudine

dalle officine di Testaccio”. Questo rumore è come un segno

di deferente saluto che il mondo del lavoro, ripiegato sulla di-

fensiva, fa giungere al più prestigioso e lungimirante tra i suoi

storici dirigenti politici.

Nei decenni successivi la sinistra italiana, che pure ha con-

dotto e, a volte, vinto impegnative battaglie politiche, ha cer-

cato la strada per tornare a pensare davvero in grande. Il mon-

do è molto cambiato e sta obbligando tutti a ricercare affan-

nosamente nuovi punti di riferimento culturali e politici.

∗ Vicepresidente Commissione parlamentare per l’infanzia, Responsabile PD infanzia e adolescenza.

14 Prefazione

Qualche mese fa, esattamente il 2/6/2008, sul quotidiano La

Stampa, sotto il titolo Gramsci rispunta da destra, Lucia An-

nunziata ha scritto:

Nel 2007 il settantennio della sua morte ha mostrato quanto com-

plessa è la penetrazione del gramscismo. E qualcuno ha persino

detto, in quell’occasione, che oggi è proprio la destra l’erede vera

del gramscismo. Frase che in Italia sa di provocazione. Ma non ne-

gli Stati Uniti, se guardiamo ai neocon americani, ad esempio al

Project for the New American Century, che da Gramsci prende la

convinzione che l’agire politico è nella diffusione di idee nella so-

cietà civile, e che solo dopo viene il successo nella politica istitu-

zionale. O se guardiamo alla Francia di Nicolas Sarkozy, che in

un’intervista a Le Figaro, ripresa in Italia da il Giornale, ha detto:

«La mia lotta non è politica, ma ideologica. In fondo mi sono appro-

priato dell’analisi di Gramsci: il potere si conquista con le idee».

Una provocazione, appunto. Soprattutto considerando il

fatto che, secondo humanheventsonline.com, la rivista on line

che raccoglie le istanze culturali di fondo della destra statuni-

tense, i Quaderni di Gramsci sono nella classifica dei trenta li-

bri più dannosi al mondo.

Si può quindi comprendere il piacere con cui ho accolto e

ho letto il nuovo libro di Rosa Corrado Antonio Gramsci: teo-

rico della traduzione e scrittore per l’infanzia. Molto è stato

scritto a proposito del ruolo strategico assegnato da Gramsci

alla formazione dell’uomo, alla sua educazione e al modo in

cui si deve attuare per liberarlo dall’ignoranza e dalla subal-

ternità, mettendolo in grado di esercitare, a sua volta, un ruolo

Prefazione 15

attivo nel processo educativo di altri individui, chiamati come

lui a incidere nella storia, in quanto portatori di interessi uni-

versali, culturalmente egemoni.

Il pregio del libro di Rosa Corrado sta nel consentire al let-

tore un efficace approccio ad alcuni elementi di base del pen-

siero gramsciano, partendo prima dal Gramsci bambino e a-

dolescente, per arrivare all’adulto dalla forte carica umana,

venata di insicurezze e fragilità, quale fu il Gramsci padre di

famiglia, che non rinunciò mai a stabilire, anche dal carcere,

un rapporto educativo con i due figli attraverso la corrispon-

denza con la moglie, malgrado i numerosi ostacoli frapposti

dal regime. L’esercizio di quella “paternità vivente” dove, in

un intenso e ricco scambio reciproco, il bambino, guidato con

naturalezza, acquisisce «la forza di volontà, l’amore per la di-

sciplina e il lavoro, la costanza nei propositi… senza mortifi-

care la sua spontaneità».

Un educatore, Gramsci, saldo nei principi, ma umile

nell’ammettere i dubbi che lo accompagnano nelle scelte. In-

dicativi, a questo proposito, due esempi felicemente riportati

nel libro: la ferma difesa di “ogni fantasticheria arbitraria”

come maggior piacere dei bambini nella lettura di libri che li

stimolino a immaginare i personaggi descritti e non illustrati;

il dubbio se “un giocattolo moderno” sia da consigliare e se il

processo che attiva a livello intellettivo nel bambino sia utile

alla sua formazione. A difesa della fantasia infantile, Gramsci

arriva a sostenere «che sia stato bene che a Firenze non abbia-

no lasciato fare il monumento a Pinocchio; per i ragazzi fio-

16 Prefazione

rentini avrebbe significato imposizione dall’esterno di

un’immagine standard»; a proposito, invece, della scatola di

costruzioni “Meccano”, ha il dubbio che «renda l’uomo un po’

secco, macchinale, burocratico».

Quale ricchezza pedagogica Gramsci consegna al mondo.

Che abisso culturale lo separa dai nostalgici educatori da “Li-

bro e Moschetto”.

Noi, che ci poniamo ancora oggi l’obiettivo di pensare

all’infanzia come a un mondo nel quale collocare i bambini

con le loro piccole ma formative responsabilità, con i diritti e

i doveri che derivano loro dall’essere bambini e figli, nel rileg-

gere queste pagine ci rendiamo ancora più conto delle enormi

difficoltà che dobbiamo fronteggiare. Come salvaguardare la

fantasia nella “civiltà dell’immagine” dove qualsiasi storia è il-

lustrata in formato audiovideo e la lettura è ridotta alle istru-

zioni per l’uso? Quali giocattoli proporre a bambini “ipertec-

nologici” ma impegnati prevalentemente a cliccare?

Oggi che le bambole con i loro vestitini, l’aquilone, il mo-

nopattino, la spada, l’arco e le frecce, lo strumento per le bolle

di sapone, si comprano già fatti, al prezzo di una perdita ine-

stimabile di manualità, progettualità e impegno nei bambini,

Gramsci consiglierebbe il “Meccano” senza esitazione.

L’esigenza di ripensare l’enorme contributo pedagogico

gramsciano si manifesta in ogni pagina di questo libro e Rosa

Corrado ha il merito di proporlo all’attenzione del pubblico in

un momento in cui si tenta di considerare la formazione delle

nuove generazioni una semplice spesa e non un prezioso inve-

Prefazione 17

stimento. L’investimento sul capitale umano deve invece esse-

re l’investimento di una comunità. Esso va curato fin dalla

primissima infanzia. A questa premessa segue questa riflessio-

ne: la lettura è parte integrante dell’investimento sul capitale

umano.

La lettura è approfondimento, è mettersi dentro relazioni

più complesse. Leggere un libro, rispetto ad altri mezzi di

comunicazione, rende più attrezzati a decodificare sentimenti,

sensazioni, sfumature. E ciò è tanto più vero e importante per

le nuove generazioni.

Il libro, la lettura, sono valori. E tali devono essere per tutta

la comunità educativa che circonda un bambino o un adole-

scente. La diffusione della lettura del libro deve perciò diven-

tare un elemento fondamentale della nostra civiltà.

E i libri di Gramsci sono lì a ricordarcelo.

19

PARTE PRIMA

Antonio Gramsci: la vita, gli affetti, le idee

21

Famiglia, formazione, impegno politico

Nacque […] in un paese della Sardegna, che è terra aspra e feconda

di apostoli e di pastori, di poeti e di guerrieri, di contadini e di ar-

tigiani. Nacque in una povera casa a due piani, di tufo grigio, aper-

ta agli aspri venti che dal Monte Arci calano verso la piana del

Campidano1.

Antonio Gramsci nasce il 23 gennaio 1891 ad Ales, un pae-

sino dedito all’agricoltura in provincia di Cagliari, da France-

sco Gramsci e Giuseppina Marcias.

Una caduta, non aveva che due anni, lo segna nel fisico e gli

impedisce in seguito di godere a pieno la spensieratezza e le

gioie dell’infanzia. La sua giovane vita risente anche delle gra-

vi difficoltà economiche in cui la famiglia viene a trovarsi. Il

padre Francesco, vincitore di concorso, viene destinato a Ghi-

larza, zona centrale della Sardegna, per dirigere l’Ufficio del

Registro; nel corso della sua attività è soggetto a continui spo-

stamenti: ad Ales, a Sorgono, ed infine di nuovo Ghilarza.

1 A. Gramsci, L’albero del riccio, a cura di G. Ravegnani, Editori Riuniti.

22 PARTE I – Antonio Gramsci: la vita, gli affetti, le idee

Scoperto un piccolo ammanco nell’Ufficio del Registro,

Francesco Gramsci, prima sospeso dal servizio e poi accusato

di peculato, concussione e falsità in atti d’ufficio, viene arre-

stato e condannato a più di cinque anni di reclusione da scon-

tare nel carcere di Gaeta. Questo episodio, oltre a riempire di

sgomento la famiglia Gramsci, provoca su di essa notevoli ri-

percussioni: viene a mancare quella agiatezza che lo stipendio

del padre aveva consentito e, al tempo stesso, tutte le respon-

sabilità e le preoccupazioni di un consistente nucleo familiare

(sette figli) vanno a gravare sulla madre. Ella affronta e risolve

con grande dignità i tanti problemi esistenziali che quotidia-

namente la sua famiglia si trova a vivere: vende il piccolo ap-

pezzamento di terra che possiede, tiene a pensione il veterina-

rio Vittore Nessi ed inoltre, esperta nel cucito, confeziona capi

d’abbigliamento dalla cui vendita ricava qualche soldo; è co-

stretta a lavorare di notte, rinunciando al sonno, pur di poter

accudire i sette figli durante il giorno.

È questa “madre coraggio”, riservata e schiva, la donna che

Gramsci pone al centro del suo universo affettivo:

Saremmo capaci di fare ciò che ha fatto la mamma? Di porsi Lei so-

la, povera donna, contro una terribile bufera e di salvare sette figli?

La sua vita è stata esemplare per noi e ci ha mostrato quanto valga la

pertinacia per superare le difficoltà che sembrano insuperabili anche

a uomini di grande fibra2 (Lettera del 31 ottobre 1932).

2 A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio e E. Fubini, Ei-

naudi, Torino 1973.

Famiglia, formazione, impegno politico 23

Ha lavorato per noi tutta la vita, sacrificandosi in modo inaudito;

se fosse stata un’altra donna chissà che fine disastrosa avremmo

fatto tutti fin da bambini; forse nessuno di noi oggi sarebbe vivo3

(Lettera del 29 dicembre 1930).

Fin dalla scuola elementare Gramsci dimostra grande inte-

resse per la lettura e amore per la natura; quella natura fatta di

piante, di fiori, di animali, per lui rappresenta un bel libro tut-

to da leggere e da scoprire. Cerca sotto i massi le lucertole, os-

serva i ricci disporsi in fila indiana, radunarsi sotto un melo e

sdraiarsi sui frutti perché si infilzino ai loro aculei… e spesso

s’attarda a lungo, seduto su una roccia, ad ammirare la Valle

del Tirso: a vedere le gallinelle che s’aggirano tra i canneti, ad

osservare i salti dei pesci che cacciano le zanzare…

Ma nel suo cuore di bambino prima e di adolescente poi,

oltre all’amore per la natura, occupa tanto spazio il mondo dei

sentimenti, il legame con i compagni, con i familiari, con la

gente, semplice e comune, della sua terra.

Un amore profondo lo lega ai suoi fratelli, che a loro volta

nutrono per lui ammirazione, rispetto, ma anche una sorta di

timore per quel suo sguardo intenso che riesce a leggere fin

dentro l’anima, per quel suo carattere deciso e volitivo, per

quel senso della bontà e della giustizia, del bene e del male

che sin da bambino mostra di possedere e continueranno ad

essere valori essenziali di tutta la sua esistenza.

3 Ibidem.

24 PARTE I – Antonio Gramsci: la vita, gli affetti, le idee

All’età di undici anni il fratello maggiore Gennaro lo prende

con sé al catasto, procurandogli un guadagno di nove lire:

un’adolescenza negata e violata, diremmo oggi, ma l’unica

possibile per la situazione in cui la famiglia Gramsci versava.

«Me la passavo a muovere registri che pesavano più di me e

molte notti piangevo di nascosto perché mi doleva tutto il

corpo»4.

Più tardi, nel 1903, solo grazie all’aiuto economico offerto-

gli dalle sorelle, potrà riprende a studiare a Santulussurgiu, un

paese a diciotto chilometri da Ghilarza; frequenta «Un piccolo

ginnasio in verità molto scalcinato, in cui tre sedicenti profes-

sori sbrigavano, con molta faccia tosta, tutto l’insegnamento

delle cinque classi»5.

Nel 1908 si iscrive al Liceo “Giovanni Maria Dettori” di

Cagliari e, sin d’allora, il giovane Gramsci rivolge la sua atten-

zione prima alle letture storico–politiche e, più tardi, a pro-

blemi essenzialmente politici.

Bisogna però dire che, se inizialmente il suo interesse per

quegli aspetti socio–politici che investono la realtà in cui è

immerso è caratterizzato da una nota, talvolta polemica, di ri-

sentimento personale verso i “continentali”, più tardi riesce a

superare quel “percepirsi sardo, povero ed inquieto”, fino ad

appropriarsi di un “modo di sentire e di vivere nazionale ed

europeo”, sia pur attraverso quel travaglio interiore determi-

nato dal suo modo di essere sempre attento nell’osservare e

4 Ibidem. 5 Ibidem.

Famiglia, formazione, impegno politico 25

nel cogliere le luci e le ombre di quel mondo, “complicato e

difficile”, di cui si sente parte, ma di cui non condivide taluni

tratti dominanti.

Comincia, così, per Antonio Gramsci quell’impegno intel-

lettuale e morale, quella tensione rigida della volontà che ob-

bedisce implacabilmente al compito prefisso e che avrà solo

parziali e temporanee aperture affettive…

Non sfuggono a Piero Gobetti l’aspetto intellettuale e la fer-

rea volontà del compito, indubbiamente arduo, che Gramsci si

era posto nel volere uscire dalla Sardegna che, come egli stes-

so precisava, era quello di «sostituire (in se stesso) l’eredità

malata dell’anacronismo sardo con uno sforzo chiuso ed ine-

sorabile verso la modernità del cittadino»6; uno sforzo che la-

sciava intravedere la recente rottura e la rinuncia, ravvivate

dalla forza della disperazione di chi “ha respinto e rinnegato

l’innocenza nativa” per le “ricerche ascetiche” della cultura e

del pensiero e per “l’imperativo categorico” della modernità.

Verso i vent’anni (non perché stanco della terra d’origine),

spinto dal desiderio di approfondire gli studi intrapresi e spe-

rando di poter allargare le sue conoscenze a gente nuova e di-

versa, lascia la sua Sardegna, i suoi monti carichi di foreste, i

verdi pascoli delle valli, gli aspri massi della Gallura, le pitto-

resche monodie dei “cantadori” e sbarca in Italia.

6 S.F. Romano, A. Gramsci, UTET, Torino 1965.

26 PARTE I – Antonio Gramsci: la vita, gli affetti, le idee

«La navigazione da Porto Torres a Genova fu, per i suoi

giovani occhi, pari a quella degli antichi argonauti»7: immagi-

ne, questa, carica di stupore e di poesia.

Genova lo vede tra gente comune, tra i cantieri del porto ad

ascoltare i racconti dei giovani e dei vecchi lupi di mare…

Cominciò a sentire il battito della vita nei polsi degli uomini: di

fronte al mare, lungo le calate, ove più fervida batteva l’onda dei

traffici e più dure erano le pratiche di chi lavorava; di fronte a quel

mare che aveva visto Garibaldi partire coi Mille e Mazzini prendere

la via dell’esilio8.

Inizia, così, per Gramsci quella vita densa di emozioni, di

scoperte e di impegno sociale e politico che lo accompagne-

ranno nel corso degli anni.

Da Genova si trasferisce a Torino e quando, nel 1911, il

Collegio “Carlo Alberto” riserva agli studenti poveri delle Pro-

vince dell’ex Regno di Sardegna trentanove borse di studio da

settanta lire al mese, Gramsci possiede i requisiti per poter

superare la selezione iniziale ed essere ammesso alla facoltà

di Lettere e Filosofia. Nella graduatoria dei vincitori occupa il

nono posto, il secondo tocca a Togliatti, entrambi provengono

dalla Sardegna: da quel momento nasce fra i due una profonda

amicizia che sfocerà, dopo qualche tempo, in una comune

ricerca sulla struttura sociale della Sardegna.

7 A. Gramsci, L’albero del riccio, a cura di G. Ravegnani, Editori Riuniti,

Roma. 8 Ibidem.

Famiglia, formazione, impegno politico 27

L’impatto con la Torino industriale è duro: lo si evince dal-

la lettera indirizzata al padre del 20 dicembre 1911:

Carissimo papà,

ho ricevuto, l’altro giorno, il fagotto che mi avete mandato e rin-

grazio mamma della felice idea […]. Mi vedo costretto a pregarti

di mandarmi, prima della fine del mese, le venti lire che mi avevi

promesso: questo mese ho preso al collegio solo sessantadue lire,

delle quali ho dato quaranta lire alla padrona di casa per anticipo

ed ora, prima delle ferie, dovrò dare altre quaranta per saldare e

non saprei come fare se tu non mi mandi le venti lire che mi man-

cano […]. Passerò già un Natale molto magro e non vorrei renderlo

ancora più squallido con la prospettiva di un vagabondaggio attra-

verso Torino alla ricerca di uno stambugio, con questo po’ di fred-

do. Credevo, in questo mese, di potermi far fare il paltò perché

Nannaro [Gennaro, fratello maggiore di Antonio] mi ha mandato

nove lire, invece, perché mi hanno ritenuto nove lire non posso far

nulla e dovrò aspettare chissà quando: e credi pure che è un

bell’affare uscire di casa ed attraversare la città con i brividi e, poi,

al ritorno trovare una stanza fredda, e non potersi riscaldare […].

La preoccupazione del freddo non mi permette di studiare, perché

o passeggio nella camera per scaldarmi i piedi o devo stare imba-

cuccato, immobile perché non riesco a sostenere la penna gelata.

Auguro a tutti voi buone feste, non tremate almeno dal pericolo di

essere cacciati di casa o di dover galoppare per le stanze per riscal-

dare i piedi gelati9.

Molte lettere del periodo universitario, soprattutto quelle

indirizzate ai familiari, oltre ad essere percorse da una sottile

9 G. Fiori, Vita attraverso le lettere, Einaudi, Torino 1994.

28 PARTE I – Antonio Gramsci: la vita, gli affetti, le idee

nota di ironia (come la maggior parte degli scritti gramsciani),

evidenziano la provata condizione fisica e psichica di Gramsci

e mettono in luce il rapporto teso e conflittuale con il padre;

un rapporto che nasce dalla rabbia e dalla disperazione, dovu-

te all’aggravarsi del suo stato di salute che “gli devasta il cer-

vello”, e a quella “trascurataggine” paterna che pur egli perce-

pisce con grande amarezza se ancora, rivolgendosi al padre,

scrive, in una Lettera del novembre 1913:

Vorrei infondere in te l’ansia che sento io, un po’ della disperazio-

ne che mi tortura […]. Lottare e non vedere che si presenti una

speranza di migliori tempi, contemporaneamente contro tutte le

difficoltà finanziarie, di salute, di vita […] credi, non è cosa che si

possa sopportare a lungo10.

A Torino, durante i suoi studi universitari, avverte con mag-

giore impeto il bisogno di conoscere ed approfondire lo ster-

minato e complesso “mondo delle idee”, sente che aver inter-

rogato la natura non gli basta più: fervono in lui nuove intui-

zioni, nuove necessità spirituali e sociali. Decide, così, di se-

guire, come studente, i corsi di Scienza delle Finanze che, a

quell’epoca, avevano come docente Luigi Einaudi (più tardi

Presidente della Repubblica Italiana).

Allora come oggi, Torino si configura come città del lavoro

e delle lotte per l’occupazione, e Gramsci non è più il bambi-

no che amava “scoprire i ricci sotto il melo dell’orto”: è un

10 Ibidem.

Famiglia, formazione, impegno politico 29

uomo! Un uomo che avverte, in maniera sempre più impetuo-

sa ed intensa, la necessità di tradurre le sue idee in azione, in

“realtà”.

Ed è la consapevolezza dell’inutilità di qualunque teoria

non traducibile in pratica, come anche di qualsiasi azione non

supportata dalla teoria, a spingerlo fra gli operai, nel tentativo

di conoscerli meglio, fin quasi a voler scrutare nelle zone più

recondite della loro mente, del loro animo.

Ma quella di Gramsci non è solo curiosità, bensì desiderio

di conoscere per aiutare, per camminare e lottare insieme per

un mondo diverso, migliore.

“Originalità” e “concretezza” sono un binomio costante del

suo modo di essere e di proporsi agli altri, evidenziato ini-

zialmente attraverso l’intensa attività giornalistica che ha la

possibilità di svolgere durante il suo soggiorno a Torino: col-

labora all’edizione piemontese de L’Avanti, ma non firma qua-

si mai gli articoli:

La timidezza spingeva Gramsci a vivere impersonalmente, — anno-

ta Pasolini, — ma era solo ripugnanza per le forme esteriori ed av-

versione per ogni idolatria, compreso il culto del nome11.

Scrive sul settimanale Il Grido del Popolo (di cui per qual-

che tempo è redattore unico) e su La Città Futura, numero u-

nico pubblicato l’11 febbraio 1917; in quest’ultimo appaiono

11 Le annotazioni di Pier Paolo Pasolini sulla personalità di Gramsci sono contenute nella celebre raccolta di poemetti intitolata Le ceneri di Gramsci, a cura di G. Fiori, Garzanti, Milano 1957.

30 PARTE I – Antonio Gramsci: la vita, gli affetti, le idee

nitidamente alcuni tratti della sua personalità: vi si percepisce

la tensione di un uomo che sente il bisogno di combattere, di

schierarsi, la sua intransigenza verso gli avversari di classe, il

suo tono spesso “sarcastico ed ironico” nonché «la fiducia nel-

la volontà tenace dell’uomo come motore di storia ed il corri-

spondente fastidio innanzi alla superstizione dei Positivisti».

Ed anche l’“intelligenza”, amica e nemica, è per lui fonda-

mentale purché, però, onesta e disinteressata; accetta consensi

e, nello stesso tempo, rispetta chi dissente; ma “l’ingiustizia”,

tutte le ingiustizie, chiunque le compia, hanno in Antonio un

implacabile avversario.

Purtroppo la frenetica attività giornalistica limita la sua at-

tività all’interno del Partito, ed è forse questa la ragione per

cui gli vengono affidati incarichi locali: fa parte dell’esecutivo

della sezione socialista torinese, anche se la stessa maggioran-

za della sezione lo escluderà, poi, dalla lista per le Ammini-

strative del 1920.

Costituito il Partito Comunista d’Italia, non viene eletto

nell’esecutivo, ma entra a far parte del Comitato Centrale.

I comitati torinesi gli negano il loro appoggio anche in oc-

casione della sua candidatura alla Camera, nel maggio del

1921.

In occasione del II Congresso del Partito Comunista d’Ita-

lia, che si celebra a Roma dal 20 al 24 marzo 1922, Gramsci

presenta una relazione sulla “questione sindacale” e viene de-

signato a rappresentare il Partito a Mosca, nel Comitato esecu-

tivo dell’Internazionale Comunista.

Famiglia, formazione, impegno politico 31

Ciò segna una svolta decisiva nella sua esistenza logorata

dalle incomprensioni e dalle amarezze dovute molto spesso

alla sua stessa militanza politica, nonché ai patimenti fisici e

psichici sofferti sin dall’adolescenza.

Le sue condizioni di salute, già precarie, si aggravano e,

benché assistito da “alcune molto gentili persone”, come lui

stesso racconta, Grigorij Zinov’ev, Presidente dell’Internazio-

nale, vuole che si ricoveri nel sanatorio di Serebrjanyj Bor

(Bosco d’argento) alla periferia di Mosca.

Qui conosce Eugenia Schucht, appartenente ad una facolto-

sa famiglia antizarista, affetta da una grave forma di esauri-

mento psico–fisico.

Eugenia si invaghisce di Gramsci che, però, non ricambia il

suo amore: «Avevo molta stima di Genia, l’avevo conosciuta

quando non poteva muoversi dal letto, sapevo quanto aveva

sofferto», scrive Egli stesso.

Durante il ricovero a Serebriayj Bor, Gramsci conosce Giu-

lia (Julca), sorella di Eugenia, e ne rimane profondamente col-

pito. A quel primo incontro frettoloso ne seguono altri più si-

gnificativi: è l’inizio di un amore tormentato e felice insieme.

Carissima Julca,

non sono ancora certo se domenica potrò venire da lei […]. Deside-

ro molto di venire. Vorrei dirle tante cose. Ma ci riuscirò? Me lo

domando spesso, faccio dei disegni di lunghi discorsi. Ma quando le

sono vicino dimentico tutto. Eppure dovrebbe essere così semplice.

Semplice come noi, o come me, almeno. Ella si sbaglia nel trovare

tante complicazioni e tanti significati nelle mie parole. No, no le pa-

32 PARTE I – Antonio Gramsci: la vita, gli affetti, le idee

role riflettono stati d’animo molto pacati e sereni. Le voglio bene ed

ho la certezza che lei mi vuol bene12 (Mosca 13 febbraio 1923).

Nel dicembre del 1923 viene destinato a Vienna: vi rimane

per sei mesi, fino al suo ritorno in Italia, per scrivere e redige-

re, così come vuole il Partito italiano, una nuova edizione di

L’Ordine Nuovo, terza serie. Predominante è la sua attività

giornalistica, finalizzata alla formazione di un nuovo gruppo

dirigente sulla scia dell’Internazionale. Sono mesi di solitudi-

ne, durante i quali avverte un grande vuoto intorno a sé, vuoto

la cui immagine, intrisa di solitudine e malinconia, ci viene

data, ancora una volta, dalle Lettere:

Cara,

la mia vita è semplice e trasparente, trasparente (diceva Rimbaud)

come un pidocchio tra due lenti. Sto sempre in casa, o quasi, in

una via molto lontana dal centro, solo a leggere e a scrivere […].

La mia vita che aveva ripreso a rinverdire con te, per te, qualche

volta mi pare che nuovamente si dissecchi e sia amara tanto13

(Vienna, 13 gennaio 1924).

Nelle elezioni politiche del 6 aprile 1924, Gramsci viene

eletto Deputato nella Circoscrizione del Veneto e rientra in I-

talia da dove era rimasto lontano per due anni.

La situazione italiana gli appare particolarmente difficile: il

regime fascista dilaga sempre più, fino a trasformasi in ditta-

12 G. Fiori, Vita attraverso le lettere, Einaudi, Torino 1994. 13 Ibidem.

Famiglia, formazione, impegno politico 33

tura, e ciò lo spinge ad intensificare la sua attività come diri-

gente del Partito Comunista. In seguito al delitto Matteotti del

giugno 1924, il regime fascista adotta severi ed eccezionali

provvedimenti contro vari membri del gruppo comunista.

In quello stesso anno — 10 agosto —, nasce Delio, primo-

genito di Gramsci: tale evento riempie di gioia la sua vita, co-

me testimoniano le varie Lettere, inviate alla moglie Julca; la

lontananza dalle persone care, se da un lato lo segna e lo addo-

lora, dall’altro lo spinge a mantenere vivo questo legame attra-

verso lettere cariche di nostalgia, ma anche di tenerezza e di

amore per il piccolo Delio e per Julca:

Mi importa che il bambino sia un bambino vivente, sia nostro fi-

glio, e che noi ci vogliamo più bene di ieri perché vediamo in esso

noi stessi più forti e più felici. Devi scrivermi molto, molto perché

io possa immaginare la tua nuova vita. Gli elementi che sono a mia

disposizione per fantasticare non bastano: strilli, lamenti, sgambet-

tii, dita in bocca, e una serie di avvenimenti oggettivamente poco

gradevoli. Ma l’oggettività non è vita, è una fredda caricatura foto-

grafica della vita e tu, invece, vedi la vita vivente. Pazienza, aspet-

terò di condividere anch’io la tua gioia nell’assistere ai successivi

sviluppi della personalità del bambino. Un momento importante

mi pare sarà quello quando il piccolo si metterà un piedino in boc-

ca per la prima volta: dovrai informarmi subito di questo atto che

segnerà la presa di possesso dei limiti estremi del suo territorio na-

zionale […]14 (Roma, 8 settembre 1924).

14 Ibidem.

34 PARTE I – Antonio Gramsci: la vita, gli affetti, le idee

Il suo secondogenito, Giuliano, nasce il 30 agosto 1926, ma

Egli non avrà mai la possibilità di conoscerlo poiché, con

l’ulteriore peggioramento della situazione politica in Italia,

Gramsci, pur godendo, come parlamentare, dell’immunità, l’8

novembre del 1926 viene arrestato dalla polizia e rinchiuso a

Regina Coeli con altri dirigenti comunisti.

In seguito, confinato nell’isola di Ustica, vi rimane fino al

20 gennaio 1927, data in cui viene trasferito nel carcere di Mi-

lano per ordine del Tribunale Speciale per la Difesa dello Sta-

to, dove rimane fino all’11 maggio 1928, giorno in cui viene

tradotto nel carcere di Roma.

Dal 28 maggio al 4 giugno del 1928 si svolge il cosiddetto

“Processone”, così chiamato perché vi appare come imputato

l’intero gruppo comunista.

Antonio Gramsci viene condannato a vent’anni, quattro me-

si e cinque giorni di reclusione.

Dopo tale processo, visitato da uno specialista, risulta affet-

to da uricemia cronica e viene assegnato alla Casa penale spe-

ciale di Turi, presso Bari, dove rimane fino al 19 novembre

1933. Lo stesso giorno viene trasferito all’infermeria del car-

cere di Civitavecchia e, successivamente, sempre come dete-

nuto, nella clinica del dottor Cusumano a Formia.

Nell’ottobre del 1934 Gramsci inoltra domanda per ottene-

re la libertà condizionata, che gli viene accordata fino all’apri-

le del 1937. Ma la sera del 25 dello stesso mese le sue con-

dizioni di salute peggiorano e, colpito da emorragia cerebrale,

si spegne due giorni dopo.

Famiglia, formazione, impegno politico 35

È il 27 aprile del 1937.

Le sue ceneri, deposte dentro una cassetta di zinco ed in

un’altra esterna di legno, vengono inumate, dopo la Liberazio-

ne, nel Cimitero degli Inglesi a Roma.

37

Dal bambino alla matricola “7047”

Per conoscere ed apprezzare il pensiero di Gramsci sulla

Educazione ed il contributo che egli, come traduttore di Fiabe

e scrittore per l’infanzia, ha saputo offrire alla formazione ed al-

lo sviluppo della fantasia e del potenziale creativo nei bambini

e negli adolescenti, si rende necessario soffermarsi ulterior-

mente su alcune tappe fondamentali che hanno caratterizzato

la sua vita: in particolare il passaggio dalle prime esperienze in-

fantili alle lotte giovanili, fino al duro periodo detentivo.

Il bambino che si diverte a scoprire i ricci sotto il melo

dell’orto che, per ore, accovacciato su una roccia, osserva

quella specie di lago che si forma lungo le vallate del fiume

Tirso e le gallinelle che escono dai canneti, o i pesci che, sal-

tando, cacciano le zanzare…; il bambino che ama alcune pic-

cole bestiole che costituiscono lo scenario della sua modesta e

tranquilla esistenza, che si diverte a costruire velieri, consen-

tendo così alla fantasia ed al desiderio interiore di potersi af-

fermare… che ama disegnare e leggere, al punto da sentire

profondamente la mancanza di una biblioteca di famiglia…:

questo bambino sofferente, perché cagionevole di salute, dota-

38 PARTE I – Antonio Gramsci: la vita, gli affetti, le idee

to di una straordinaria sensibilità nei confronti delle reali dif-

ficoltà della famiglia e di una impareggiabile volontà riesce,

sin da piccolo, ad aprirsi un varco tra le barriere che conti-

nuamente ostacolano il percorso della sua difficile esistenza.

E saranno proprio i “limiti” che percepisce in modo netto e

chiaro sin da bambino, ed ai quali soggiace, talvolta malinco-

nicamente, a fornirgli, in età adolescenziale e poi matura, la

consapevolezza di possedere un’incalcolabile forza interiore,

un incrollabile coraggio. Quel coraggio che prima lo guida a

Torino come studente della Facoltà di Lettere, poi, durante la

detenzione, pur nel rispetto del duro regime penitenziario, lo

spinge alla ricerca di soluzioni che lo aiutino da un lato a su-

perare il rigido regolamento carcerario volto ad annientare la

dignità dell’uomo, dall’altro a mantenere vivi i legami con la

famiglia ed il mondo esterno, senza mai abbandonare quell’i-

dea di “unità” che, costante, gli occupa la mente.

Ma “limite” per Gramsci vuol dire anche non avere denaro

sufficiente per condurre un’esistenza modesta: avere un cap-

potto per l’inverno, nutrirsi in modo equilibrato, poter chia-

mare un medico in caso di necessità, potersi curare…

Con il passare degli anni a queste mancanze si aggiunge il

senso di “limite” come impossibilità di esprimere le proprie

idee, sia per la debilitazione psicofisica che una vita di stenti

inevitabilmente provoca, sia per l’impossibilità di lasciar cir-

colare pensieri “diversi” dalla linea ideologica dominante.

Così le sbarre della gabbia in cui non ha mai voluto rin-

chiudere i suoi passerotti, rinchiudono lui; ma, attraverso gli

Dal bambino alla matricola “7047” 39

spazi che separano una sbarra dall’altra, corrono i tanti fili che

lo legano ai figli, alla famiglia, agli amici, ai compagni di par-

tito.

Per tutte queste ragioni, se da un lato il carcere lo limita

nello “spazio”, costringendolo quasi all’immobilità fisica, lo

priva della possibilità di “dare una carezza” alla sua Julca, gli

nega la gioia che procura il veder crescere i propri figli,

dall’altro la sua mente mai cessa di conoscere, attraverso gior-

nali, annuari e libri consentiti dal regolamento carcerario, “il

quotidiano degli uomini liberi”.

E anche quando nella sua vita si addensano le ombre del

calvario detentivo, la cognata Tania gli fa pervenire medicina-

li, capi di vestiario, ma soprattutto, cosa molto importante per

Gramsci, fotografie: che, in quel luogo squallido e solitario,

rivestono una funzione fondamentale perché gli permettono

di leggere sui volti di ciascuno i segni del “tempo”.

Ma ciò non gli basta ancora: vuole cogliere le dinamiche re-

lazionali tra i suoi familiari, leggere la malinconia e la gaiezza

che traspare dai loro sguardi, capire la personalità ed il carat-

tere dei piccoli, penetrare nell’anima di ciascuno di loro, quasi

a voler condividere gioie e dolori della loro esistenza.

Anche la forza e la vitalità che lo caratterizzano diventano

“straordinarie” quando descrive la sua triste condizione di de-

tenuto, cercando di infondere fiducia nei suoi cari affinché

non soffrano e non cedano alla disperazione.

Il desiderio di vivere che riesce a trasmettere, scrivendo di

sé, delle sue quotidiane occupazioni, dei suoi interessi, dei

40 PARTE I – Antonio Gramsci: la vita, gli affetti, le idee

suoi stati d’animo, è tanto più evidente nelle lettere indirizzate

ai figli, Delio e Giuliano. Se questi ultimi avessero avuto la

possibilità di vivere con Lui avrebbero detto: «è un padre che

ama saper ascoltare», ma è anche un padre che non disdegna

di narrare della sua infanzia attraverso meravigliosi racconti

di cui si ha un saggio soprattutto nelle Lettere ai familiari. È

un padre che ama scrivere di sé ai figli, affinché possano cono-

scerlo meglio ed avvertire in modo meno doloroso quel senso

di vuoto e di abbandono che la lontananza crea.

Non sono “fiabe” quelle che Gramsci scrive ai suoi bambi-

ni; lui non vuole popolare la loro fantasia di fate e folletti; i

suoi sono racconti di vita vissuta, sono esperienze e ricordi

della sua infanzia, espressione di un lavoro intellettuale carico

di grande affettività.

Non un educatore si rivolge ai bambini, né un maestro che

fa sfoggio di cultura, ma un padre che chiede ai propri figli

quali sono i loro giochi preferiti, quali i libri cui tengono

maggiormente, come sono i loro amici ed i loro insegnanti,

quali le attività scolastiche preferite.

In questo rapporto epistolare non ci sono artifici retorici,

né atteggiamenti compiacenti per attirare l’attenzione: c’è solo

un uomo che mette a nudo la sua vera umanità.

C’è il desiderio di un padre che vuole raccontare la propria

vita ai figli, come a lui era apparsa nell’infanzia e nell’adole-

scenza a Ghilarza.

41

“Esprimere” l’“inesprimibile”

oltre lo spazio e il tempo

Gli scritti di Antonio Gramsci, dal 1926 al 1935, anche se

assoggettati fortemente alla censura ed al regolamento carce-

rario, rimangono gli unici veicoli che gli consentono di rien-

trare, sia pure parzialmente, nel vasto mondo della comunica-

zione.

Occorre nuovamente rilevare che, nel caso di Gramsci, il

pensiero, la capacità di fare progetti, la scrittura stessa, sono

fortemente segnati dai “limiti” che la detenzione comporta.

Quando si parla di limiti, non ci si riferisce soltanto ad e-

lementi esterni come la censura carceraria, la scarsità di mate-

riale e di testi concessi ai detenuti politici, ma anche a quel

sentire interiore, intimo, che si può definire autocensura e che

Egli stesso meglio definisce con il termine “pudore”

nell’esprimere i propri sentimenti. In tale situazione, scrivere

diventa, dunque, l’unica possibilità di “raccontare”, sia pure in

modo frammentario, ma sempre secondo un ordine cronolo-

gico, “passato” e “presente”. Se pensare al passato significa ri-

vivere con le persone care le esperienze e i ricordi legati alla

42 PARTE I – Antonio Gramsci: la vita, gli affetti, le idee

sua infanzia e alla sua adolescenza, scrivere il presente, per

lui, significa vivere in modo più consapevole la sua condizio-

ne di prigioniero politico, fatta di angosce, di tormenti, ma

anche di incrollabile speranza!

E questo lento scorrere del tempo fatto di ieri e di oggi si

concretizza nelle numerose Lettere e nelle pagine dei Quader-

ni. Sono pagine–diario che da un lato testimoniano che la “li-

bertà” è un valore fondamentale ed irrinunciabile, dall’altro

esprimono l’amarezza per essere riuscito ad instaurare un dia-

logo solo “frammentario” e incompleto con il mondo esterno,

con i propri cari e in particolare con la moglie.

Si sente tagliato fuori non solo dalla vita sociale, ma anche

dalla vita familiare. E lo smarrimento che prova quando si ac-

corge che durante la sua detenzione, al di là di quella prigione

«dalle quattro mura, dalla grata, dalla bocca di lupo»1 (Lettera

a Tatiana, 19 maggio 1930), la vita ha continuato a scorrere, si

trasforma in angoscia quando vede la propria immagine rifles-

sa nello specchio dopo tanto tempo:

Da dieci anni sono tagliato dal mondo (che impressione terribile

ho provato in treno2, dopo sei anni che non vedevo che gli stessi

tetti, le stesse muraglie, le stesse facce torve, nel vedere che duran-

te questo tempo il vasto mondo aveva continuato ad esistere coi

suoi prati, i suoi boschi, la gente comune, frotte di ragazzi, certi

alberi, certi orti, ma specialmente che impressione ho avuto nel

vedermi allo specchio dopo tanto tempo: sono ritornato subito vi-

1 G. Fiori, Vita attraverso le lettere, Einaudi, Torino 1994. 2 Durante il trasferimento da Turi a Civitavecchia, il 19 novembre 1933.

“Esprimere” l’“inesprimibile” oltre lo spazio e il tempo 43

cino ai carabinieri…). Non pensare che voglia commuoverti: voglio

dire che dopo tanto tempo, dopo tanti avvenimenti, che in gran

parte mi sono sfuggiti forse nel loro significato più reale, dopo

tanti anni di vita meschina, compressa, fasciata di buio e di miserie

grette, poter parlare con te da amico, mi sarebbe molto utile.

Ancora una volta sente che soltanto la scrittura può colmare

l’immenso vuoto che lo circonda ed impedire che tutti i lega-

mi con il mondo esterno vadano ad uno ad uno rompendosi,

come si legge nella Lettera del 25 gennaio 1936 indirizzata a

Giulia.

45

Dalla sua infanzia all’infanzia:

per una pedagogia della comunicazione

Le Lettere rappresentano la fonte ed il documento più im-

portante nel quale cogliere il sentimento di Gramsci per i

bambini.

Un sentimento dal carattere essenzialmente morale che na-

sce e si consolida in quella condizione di isolamento rappre-

sentata dal carcere, e si esplicita nel grande affetto per la fami-

glia che per lui significa responsabilità, dovere, impegno rigo-

roso con “la miglior parte di sé”.

La famiglia d’origine, i figli, la moglie e la cognata Tatiana

rappresentano la sola ed importante direzione verso la quale

far convergere la sua affettività, il solo modo possibile e con-

creto per uscire dal carcere e riannodare quei “fili” interrotti

con il mondo esterno. Questa esigenza, comune a tutti i carce-

rati, in Gramsci si fa più viva, più acuta, nella lettera alla mo-

glie Julca del 24 novembre 19361: «Cara, io sono così isolato

che le tue lettere sono come il pane per l’affamato».

1 Lettera datata in calce da altra mano.

46 PARTE I – Antonio Gramsci: la vita, gli affetti, le idee

Al centro di questo estenuante e continuo bisogno ci sono i

bambini: non a caso li troviamo nelle prime lettere e, sempre

non a caso, le Lettere dell’ultimo periodo si chiudono con la

fitta corrispondenza con i figli.

L’umanità di Gramsci è carica di affettività, di altruismo, ed

anche i suoi “lamenti” sono sempre controllati e pacati per

non pesare su chi legge e su quanti gli vogliono bene.

Ed anche quella tenerezza semplice, ma sempre “essenzia-

le”, che egli potrebbe esprimere più facilmente con una carez-

za, è destinata ad esaurirsi nella scrittura. Allora appaiono si-

gnificative frasi come:

Ti ringrazio di aver abbracciato forte forte la mamma per parte

mia: penso che devi farlo ogni giorno, ogni mattino. Io penso sem-

pre a voi, così immaginerò ogni mattino: ecco, i miei figli e Julca

pensano a me in questo momento. Tu sei il fratello maggiore, ma

devi dirlo anche a Julik: così ogni giorno avrete i cinque minuti del

babbo2.

Gramsci, spinto da un profondo amore paterno, avverte con

sempre maggiore impulso il bisogno di conoscere i figli.

Pur di riuscire a conquistare la loro “realtà lontana e proi-

bita” sa essere “bambino con i bambini”, e diventare “scrittore

per bambini”.

Il suo scrivere rispecchia il mondo dei bimbi, e, quasi per

magia, diviene linguaggio dell’infanzia.

2 A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio e E. Fubini, Ei-naudi, Torino 1973.

Dalla sua infanzia all’infanzia 47

Il suo discorso si fa sempre più articolato, più ricco, come

nella lettera a Delio in cui scrive:

Mi è piaciuto il tuo angoletto vivente con i fringuelli e i pesciolini.

Se i fringuelli scappano non bisogna afferrarli per le ali o per le

gambe, che sono delicate e possono rompersi e slogarsi: occorre

prenderli a pieno per tutto il corpo senza stringerli. Io da ragazzo

ho allevato molti uccellini e anche altri animali: falchi, barbagian-

ni, cardellini …; ho allevato una serpicina, una donnola, dei ricci,

delle tartarughe3.

Lo stesso discorso diventa racconto ne L’albero del riccio,

dove tutti gli elementi tanto cari alla fantasia dei bambini

(…le mele, il vento, i ricci, i rami che dondolano, le foglie, la

luna, la biscia che solleva la testa con la lingua di fuori, lo

squittio del riccio avido della preda…) trovano la giusta collo-

cazione.

Anche in altri racconti sono disseminati motivi fantastici

espressi in un linguaggio semplice e fresco. Ne La volpe e il

pulledrino colpisce la fusione tra la favola e la realtà; quel “pa-

re” che troviamo all’inizio, dove si legge «Pare che la volpe

sappia quando deve nascere un pulledrino e sta all’agguato»,

diventa realtà:

Eppure si vedono qualche volta per le strade della Sardegna dei ca-

valli senza code e senza orecchie. Perché? Perché, appena nati, la

3 Ibidem.

48 PARTE I – Antonio Gramsci: la vita, gli affetti, le idee

volpe, in un modo o nell’altro è riuscita ad avvicinarsi ed ha man-

giato la coda o le orecchie molli molli4.

Suggestiva e carica di tenerezza la conclusione autobiogra-

fica a tale racconto: egli ricorda quando, ancora bambino, un

vecchio venditore si serviva proprio di un cavallo per traspor-

tare olio, candele e petrolio da vendere, andando di villaggio

in villaggio.

Non mancano in Gramsci narrazioni che per la loro fre-

schezza richiamano alla mente immagini e situazioni simili a

quelle create da Collodi nella sua Storia di un burattino: «Coi

miei fratelli andai un giorno in un campo di una mia zia dove

erano due grandissime querce e qualche albero da frutta…»5.

Il mondo della favola in Gramsci tanto diverso appare da

quello ritratto dai noti favolisti (Fedro, Esopo, Rousseau): il

suo è un mondo naturale in cui animali, cose e persone si

muovono in modo concreto, reale, senza finzioni, allo scopo

di accrescere le conoscenze e ricreare la verità. E ciò non vuol

dire mortificare la fantasia, perché la realtà è ricca di sugge-

stioni, in tutti i suoi aspetti, nella sua stessa evoluzione:

La fantasia è dell’uomo e dell’individuo.

Ed è evidente che ogni individuo, ed anche l’artista, e ogni sua at-

tività, non può essere pensata fuori dalla società, di una società de-

terminata6.

4 La volpe e il polledrino, ibidem. 5 La prima volpe, ibidem. 6 A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1950.

Dalla sua infanzia all’infanzia 49

Dunque la fantasia non è esclusivamente “astrattezza”, e lo

stesso Gramsci in una lettera a Giulia si sofferma ad illustrare il

suo punto di vista su quella che egli definisce “fantasia concre-

ta”, intesa come attitudine a rivivere la vita degli altri così com’è

nella realtà: con le sue esigenze, con le sue necessità, con i suoi

bisogni…, per comprenderla meglio ed entrare in contatto in-

timo con essa, e non per rappresentarla da un punto di vista arti-

stico. Le cose e le situazioni sono già di per sé crudeli, non oc-

corre, dunque, che si aggiunga altro a questa loro crudeltà.

E sempre in una lettera a Giulia, del 14 gennaio 1929, si in-

forma sull’interpretazione che Delio attribuisce al gioco del

“Meccano”; perché non ha mai saputo decidere se il meccano,

che mortifica il personale spirito creativo del bambino, sia un

giocattolo moderno da consigliare:

Cosa ne pensi tu e cosa ne pensa tuo padre? In generale io penso

che la cultura moderna filo–americana della quale il meccano è

l’espressione, renda l’uomo un po’ secco, macchinale, burocratico e

crei una mentalità astratta (in un senso diverso da quello che per

“astratto” s’intendeva nel secolo scorso) [… ]

C’è stata l’astrattezza determinata da un’intossicazione metafisica e

c’è l’astrattezza determinata da un’intossicazione matematica.

Da ciò la necessità di essere attenti non solo ai giocattoli

che vengono proposti ai bambini, ma soprattutto diventa inte-

ressante osservare le reazioni e i processi che essi attivano a

livello intellettivo, prescindendo dal sentimento che lega il

bambino all’adulto.

51

Gramsci: padre ed educatore

“Essere padre” per Gramsci non è riducibile all’affettività

che lega padre e figlio, è qualcosa di molto più grande; e se

vogliamo assume un significato al quale noi non siamo

sempre abituati a pensare e di cui Gramsci ha una visione

chiara e ben definita: “Paternità vivente”, paternità che «di-

venti più concreta e sia sempre attuale, e non solo un fatto

del passato sempre più lontano»; «[…] aiutandomi così a

conoscere meglio la Julca di oggi che è Julca più Delio più

Giuliano, somma in cui il più non indica solo un fatto quan-

titativo, ma soprattutto una nuova persona qualitativa»,

conclude così una lettera indirizzata a Giulia (lettera del 9

febbraio 1931).

Nei figli già vede un mondo in cui ciascuno impara ed inse-

gna, prende e dà, guadagna e perde: ed in questa concezione

del mondo egli colloca anche i bambini con le loro responsa-

bilità, i loro doveri ed i loro diritti di essere bambini e di esse-

re figli.

All’educazione, sostiene Gramsci, è affidata una grande re-

sponsabilità sociale dalla quale l’adulto non può sottrarsi:

52 PARTE I – Antonio Gramsci: la vita, gli affetti, le idee

Io evito sempre di valutare chiunque, fondandomi su ciò che si

suole chiamare “intelligenza”, “prontezza di spirito” … perché so

che tali valutazioni sono ingannevoli. Più di tutte queste cose mi

pare importante la “forza di volontà”, l’amore per la disciplina e

per il lavoro, la costanza nei propositi, ed in questo giudizio tengo

conto più che del bambino, di quelli che lo guidano e che hanno il

dovere di fargli acquistare tali abitudini, senza mortificare la sua

spontaneità (Lettera riferita alla nipotina Mea).

E parlando di “dovere”, Gramsci non si stanca di ripetere

quanto sia importante che i bambini siano ben guidati e mai

abbandonati a se stessi. Già nella prima parte della lettera a

Giulia, datata 30 dicembre 1929, troviamo valide indicazioni

pedagogiche: è importante, Egli sostiene, conoscere i figli e

seguirli in tutto il processo di maturazione, in particolar mo-

do dopo l’apprendimento del linguaggio, ossia quando ha ini-

zio la fase delle rappresentazioni e dei nessi logici.

È altrettanto necessario non lasciarsi “accecare dai senti-

menti”, al punto da guardare al bambino come ad un’opera

d’arte, ricordando che egli si sviluppa intellettualmente in

modo molto rapido, assorbendo, fin dai primi giorni di vita,

una quantità straordinaria di immagini che sono ancora ricor-

date dopo i primi anni, e che lo supportano nella acquisizione

di giudizi più riflessivi.

Tali suggerimenti erano già riscontrabili in una lettera pre-

cedente, con il toccante esempio delle pianticelle:

A me ogni giorno viene la tentazione di tirarle un po’ per aiutarle a

crescere, ma rimango incerto tra le due concezioni del mondo e

Gramsci: padre ed educatore 53

dell’educazione: se essere roussoniano e lasciar fare la natura che

non sbaglia mai ed è fondamentalmente buona, o se essere volon-

tarista e sforzare la natura, introducendo nell’evoluzione la mano

esperta dell’uomo ed il principio di autorità.

I dubbi che accompagnano Gramsci non appartengono al

passato: oggi più che mai si guarda all’educazione con interes-

se, ma anche con preoccupazione poiché i figli e quindi i

bambini, come scrive Makarenko, «saranno futuri cittadini

del nostro Paese e futuri cittadini del Mondo»; perché «essi

creeranno la Storia, saranno futuri padri e future madri; sa-

ranno anch’essi educatori dei loro figli. Ma non è tutto: i nostri

figli saranno anche la nostra vecchiaia felice, mentre una cat-

tiva educazione significherà dolore e lacrime»1.

In “note sparse” del testo Gli Intellettuali e l’organizzazione

della cultura, dedicate ad “alcuni principi della pedagogia mo-

derna”, Gramsci sostiene che:

L’educazione intesa come “sgomitolamento” di un filo preesistente

poteva andare bene quando si contrapponeva alla scuola dei Gesui-

ti, oggi appare superata. Immaginare che nel bambino il cervello

sia come un gomitolo che il maestro aiuta a “sgomitolare” è

un’involuzione, dal momento che ogni generazione educa e forma

la nuova generazione, e che l’educazione è una lotta contro gli i-

stinti legati alle funzioni biologiche elementari e contro la natura

per dominarla e creare “l’uomo attuale alla sua epoca”2.

1 A.S. Makarenko, Consigli ai genitori, Roma 1952. 2 A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi, To-

rino 1949.

54 PARTE I – Antonio Gramsci: la vita, gli affetti, le idee

Inoltre la “scuola”, intesa come attività educativa diretta, è

solo una frazione della vita dell’alunno, che entra in contatto

sia con la società umana, sia con la societas rerum e, da queste

fonti “extrascolastiche”, molto più importanti di quanto co-

munemente si creda, si acquisiscono conoscenze e criteri va-

lutativi 3.

Gramsci non taglia col passato, perché il legame con la tra-

dizione è importante, a patto che ci si rifaccia a ciò che in esso

vi è di vivo e vitale. La differenza che intercorre tra il passato e

il presente è da intendersi solo da un punto di vista qualitati-

vo, riassumibile nelle capacità che l’uomo ha di dominare le

condizioni di vita di cui egli è l’espressione e la somma.

La formazione della personalità, precisa ancora Gramsci,

avviene se s’indirizza la propria volontà in modo determinato

e “razionale”, identificando i mezzi che ad essa danno concre-

tezza e contribuiscono a modificare l’insieme delle condizioni

che la rafforzano.

Migliorare i rapporti con gli altri, in un impegno comune

che trasformi il mondo, significa potenziare e sviluppare se

stessi; in quest’ottica è da intendersi la formazione dei bambi-

ni, di quegli stessi bambini che, divenuti uomini, contribui-

ranno alla formazione ed all’evoluzione della loro natura e

quindi della società. Concezione già espressa da J. Dewey in

Democrazia ed educazione:

3 Ibidem.

Gramsci: padre ed educatore 55

Tutta l’educazione che sviluppa la facoltà di partecipare effettiva-

mente alla vita dell’uomo è morale. Essa forma un carattere che

non solo compie quell’azione particolare che è socialmente neces-

saria, ma che si interessa a quel continuo riadattamento che è es-

senziale alla crescenza. L’interesse all’imparare da tutti i contatti

con la vita è l’essenziale interesse morale4.

4 J. Dewey, Democrazia ed educazione, La Nuova Italia, Firenze 1942.

57

PARTE SECONDA

Educazione ed istruzione:

momenti di crescita e di elevazione culturale

59

Antonio Gramsci:

epistemologo e maestro attraverso le Lettere

Il mondo è grande, terribile e complicato.

Ogni azione che viene lanciata nella sua

complessità sveglia echi inaspettati.

A. Gramsci

Se da un lato per il detenuto Gramsci le Lettere rappresen-

tano la sola possibilità di comunicare con le persone lontane,

dall’altro esse testimoniano la volontà di un uomo che conti-

nua a lottare per non recidere quei fili invisibili che lo legano

al mondo esterno.

E dal carcere il suo silenzio si fa voce e giunge fino ai figli

Delio e Giuliano, attraverso la corrispondenza con la moglie

Julka:

Carissima Julka, scrivimi a lungo sulla vita tua e dei bambini. Ap-

pena è possibile mandami la fotografia di Giuliano.

Delio ha fatto ancora molti progressi? Gli sono cresciuti nuova-

60 PARTE II – Educazione ed istruzione

mente i capelli? La malattia ha lasciato in lui qualche conseguen-

za? Scrivimi molto di Giuliano1

Quelle destinate ai figli sono indubbiamente Lettere di note-

vole importanza, non soltanto per la carica affettiva di cui so-

no permeate, ma perché ci permettono di conoscere il suo

pensiero nell’ambito educativo ed i suoi interessi per la Scien-

za, la Letteratura, l’Etica e la Politica, che traspaiono anche

quando scrive di cose semplici che riguardano la quotidianità.

Gramsci chiede a Julca di poter condividere l’interesse per

l’ambito scientifico, al fine di impadronirsi della metodologia

generale e della scienza epistemologica, dal momento che esse

rappresentano il riflesso della vita intellettuale di Delio e Giu-

liano; Egli, in altre parole, esprime il desiderio di essere in-

formato con una certa sistematicità del contesto culturale e

scientifico entro il quale si inserisce la scuola frequentata dai

figli, per meglio comprendere e valutare ciò che la moglie rie-

sce a comunicargli solo in parte.

Da tale esigenza nasce la richiesta che Egli rivolge a Julca

di essere più ordinata e coerente nell’esporre le sue riflessioni,

al fine di padroneggiare meglio la sua volontà scientifica e le

sue capacità critico–analitiche:

Dovresti naturalmente fare un vero lavoro, e non solo scrivere del-

le lettere: cioè fare un’inchiesta e prendere degli appunti, organiz-

zare il materiale raccolto ed esporre i risultati con ordine e coeren-

1 Da «Nuova Rivista Pedagogica», 5–6, dicembre 1953.

Antonio Gramsci: epistemologo e maestro attraverso le Lettere 61

za. […] Mi interessa molto, per esempio, sapere come è stato inse-

rito nella scuola primaria il principio delle brigate d’assalto e degli

angoletti specializzati, e quale scopo pedagogico si propone di rag-

giungere.

Il suo contributo, invece, potrebbe essere quello, ad esem-

pio, di trasmettere a Delio le sue esperienze infantili sugli es-

seri viventi:

O gli sembreranno favole vedere le lepri danzare sotto la luna, o la

famiglia del riccio andare a far provviste di mele al chiaro della lu-

na autunnale?2

Parlando di “inclinazioni”, Gramsci ritiene che si debba at-

tribuire poco peso a quelle dei bambini perché, con la cresci-

ta, esse sono destinate a mutare, proprio come era accaduto a

lui che da piccolo, all’età di sette anni, aveva letto Robinson e

L’isola misteriosa, ma non ricordava di aver avuto particolari

preferenze letterarie.

Gramsci si rende anche conto che una vita infantile come

quella di trent’anni fa oggi sia impossibile perché i bambini,

quando nascono, sembrano già adulti: le innovazioni tecnolo-

giche, il progresso culturale e scientifico… hanno distrutto per

sempre il “robinsonismo”, che ha rappresentato il modo di

fantasticare di tante generazioni.

2 A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio ed E. Fubini, Ei-

naudi, Torino 1965.

62 PARTE II – Educazione ed istruzione

La stessa invenzione del meccano testimonia il modo pre-

coce del bambino di intellettualizzarsi; pertanto «il suo eroe

non può essere Robinson, né il poliziotto o il ladro scienziato,

almeno nell’Occidente»3.

In tutti i bambini sussistono interessi e tendenze sia verso

l’attività pratica, sia verso la teoria o la fantasia e, quindi, sa-

rebbe opportuno guidarli verso un atteggiamento capace di

armonizzare le facoltà intellettuali e pratiche, che potranno

specializzarsi solo quando loro avranno raggiunto quella for-

mazione integrale della personalità e del carattere, quale fina-

lità essenziale dell’educazione.

Gramsci affronta con grande interesse e intuito pedagogico

il “problema della scrittura”, sostenendo che non ha senso

“scrivere per scrivere”; è importante scrivere soltanto ed uni-

camente quando si ha qualcosa da dire: quando il cuore consi-

glia e detta e, sempre, Egli sostiene, il cuore dovrebbe consi-

gliare e dettare.

Per tale ragione vuole che i bambini gli raccontino tutto ciò

che vedono e sentono: le loro esperienze, i loro vissuti, le loro

emozioni…

Ancora una volta Egli ritorna con il pensiero alla sua infan-

zia e ricorda la delusione che aveva provato, osservando la

“materializzazione” di Pinocchio creata dall’autore Massimi,

perché tanto diversa da quell’immagine che del burattino egli

era riuscito a creare a livello fantastico:

3 Ibidem.

Antonio Gramsci: epistemologo e maestro attraverso le Lettere 63

Perciò mi pare che sia stato bene che a Firenze non abbiano lascia-

to fare il monumento a Pinocchio; per i ragazzi fiorentini avrebbe

significato imposizione dall’esterno di un’immagine standard che

avrebbe impedito ogni fantasticheria arbitraria. Ma non è in que-

sto arbitrio della fantasia il maggior piacere dei bambini nel leggere

i libri come Pinocchio?4 (Lettera a Delio del novembre 1936).

E scrivendo a Delio gli chiede non soltanto se sia stato pia-

cevole leggere Pinocchio, ma, soprattutto, se le figure del libro

corrispondono all’immagine che egli si era fatto del burattino.

Soffermandosi sulla narrativa per ragazzi cita Kipling e si

sofferma sulla Capanna dello zio Tom con dei suggerimenti

che ritiene essenziali, data la giovane età dei lettori; a proposi-

to di questo libro vorrebbe che qualcuno, certamente un adul-

to, lo spiegasse al bambino.

«Storicisticamente, collocando i sentimenti e la religiosità

di cui il libro è impregnato nel tempo e nello spazio»5 (Lettera

a Julka, 8 agosto 1933).

Bisogna aggiungere, sempre a proposito della Capanna dello

zio Tom, che Gramsci, rileggendo il testo, modifica positiva-

mente il giudizio espresso in precedenza:

Ho riletto pochi giorni fa La Capanna dello zio Tom, e mi ha fatto

un’impressione migliore di quanto non fossero i ricordi della lettu-

4 A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio ed E. Fubini, Ei-

naudi, Torino 1965. 5 Ibidem.

64 PARTE II – Educazione ed istruzione

ra passata. Ho trovato, pur in mezzo a tanta convenzionalità e arti-

ficio propagandistico, dei tratti abbastanza robusti6.

Da qui emerge come sia importante contestualizzare qual-

siasi scritto o opera d’arte prima ancora di sottoporla a qual-

siasi giudizio.

In riferimento ad autori, come Cecov e Puskin, citati da De-

lio in una lettera, Gramsci gli chiede cosa lo spinga a leggere

questi scrittori e cosa egli abbia scoperto di “buono” e di “bel-

lo” nei loro scritti.

La sua non è solo curiosità, è piuttosto il tentativo di saggia-

re la capacità di pensiero critico e razionale del figlio, per ac-

certarsi che sia in grado di “discernere il vero dal falso, il certo

dal possibile e dal verosimile”.

Egli avverte la comune difficoltà di chi deve giudicare o-

biettivamente le persone che ama e si preoccupa dunque di

rassicurare Delio: «Io conosco la tua età, la tua preparazione e

quindi saprò giudicare obiettivamente»7.

A proposito di letture, Gramsci sostiene che, tanto i ragazzi

quanto gli adulti, non devono mai leggere un’opera con amore:

i classici si devono leggere con un certo distacco, vale a dire

per i loro valori estetici; amarli significherebbe invece sposar-

ne l’ideologia.

Sostiene inoltre che si debba amare il “proprio” poeta,

mentre si potrà esprimere ammirazione per l’artista in genera-

6 Ibidem. 7 Ibidem.

Antonio Gramsci: epistemologo e maestro attraverso le Lettere 65

le. Tuttavia è importante che il ragazzo “ami” opere dal conte-

nuto fantastico e nello stesso tempo abbia la facoltà di fanta-

sticare anche per proprio conto.

Parlando di discipline di studio, affronta anche il tema del

dialetto e il suo rapporto con la Lingua Italiana; in una lettera

destinata alla sorella Teresina8, riferendosi all’educazione dei

suoi nipoti ed in particolare alla nipotina Edmea, sostiene che

è stato un grande errore averle impedito, sin da quando era

bambina, di esprimersi liberamente in dialetto sardo, perché,

Egli argomenta, il sardo, benché non corredato da una lettera-

tura, non è un dialetto, ma una lingua a sé; impedire, dunque,

ai bambini di esprimersi nel proprio dialetto, significa morti-

ficare la loro fantasia e nuocere al loro sviluppo intellettuale.

Auspica che i bambini imparino più Lingue e raccomanda

Teresina di lasciare che i suoi figli “succhino tutto il sardismo

che vogliono” e possano svilupparsi e crescere spontaneamen-

te nell’ambiente in cui sono nati perché da esso deriverebbero

sicuramente esperienze utili e significative per il loro futuro.

E, sempre a sostegno dell’apprendimento delle lingue stra-

niere, appare pertinente e positivo il riferimento al figlio De-

lio: questi aveva iniziato a parlare la lingua della madre sin da

piccolo, come era naturale e necessario, ma rapidamente ave-

va imparato anche la lingua italiana, sapeva cantare delle can-

zoncine in francese, senza confondere le parole dell’una e

dell’altra lingua.

8 Lettera 26 marzo 1927.

66 PARTE II – Educazione ed istruzione

Rammenta inoltre di non aver potuto insegnare a Delio una

canzonetta in dialetto sardo, “lassa sa figu, puzone”9 traducibi-

le in “lascia il fico, o uccello”, perché i suoi familiari, ed in

particolar modo le zie, si erano opposte in modo energico per

l’ambiguità a cui la frase avrebbe potuto dare adito…

Ma il grande narratore non cessa di raccontare le esperien-

ze legate alla sua infanzia: storielle vere alle quali aggiunge al-

tre inventate, tante altre fino a formare un libro.

E leggerle, o raccontarle, significa guardare con occhi di-

versi il meraviglioso mondo della natura: dal cinguettio degli

uccelli, al mormorio delle acque di un ruscello, ai colori e al

profumo dei fiori, ai suoni, alle risate dei bimbi, allo sparo di

un fucile. Sono racconti che aiutano l’infanzia a capire il me-

raviglioso e fantastico mondo della natura, dove anche i fiori

sembrano esseri umani ed i sassi del fiume avere un’anima.

Tra le altre materie di studio, Gramsci affronta l’insegna-

mento della Storia, sostenendo che bisogna studiare la Storia

reale, quella che si basa su documenti precisi e concreti.

Avendo Delio chiesto delle spiegazioni su una pagina di

Storia e “che cosa sarebbe accaduto se…”, Gramsci gli rispon-

de che non bisogna fantasticare su ipotesi scientifiche, poiché

risulta già estremamente difficile studiare la storia realmente

accaduta in quanto di gran parte di essa si è perduto ogni do-

cumento.

9 A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio ed E. Fubini, Ei-

naudi, Torino 1965.

Antonio Gramsci: epistemologo e maestro attraverso le Lettere 67

Esprime un certo ottimismo quando scrive:

Io penso che la Storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la

tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda

gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del

mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano, e lot-

tano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra

cosa10.

Per l’educatore la Storia deve essere una sociologia indiret-

ta, vale a dire uno studio della società che metta a nudo il pro-

cesso del suo divenire e i modi della sua organizzazione11.

Finalità, dunque, dell’insegnamento della Storia è far sì che

i ragazzi apprezzino i valori della vita sociale per visualizzare

non soltanto le forze che favoriscono e rendono possibile una

reale cooperazione tra gli uomini, ma anche i tratti essenziali

che la ostacolano.

È importante, sostiene ancora Dewey, concepire la Storia

“come dinamica e in movimento”, perché così facendo se ne

accentua l’aspetto economico e produttivo.

La storia della produzione umana non è riconducibile ad

un discorso materialistico ed esclusivamente utilitario, testi-

monia il lungo processo attraverso il quale l’uomo imparò a

pensare, a prevedere le conseguenze e a trasformare il suo

modus vivendi radicalmente.

10 Lettera a Delio XXXVI. 11 J. Dewey, Scuola e società, La Nuova Italia, Firenze.

68 PARTE II – Educazione ed istruzione

Ma la Storia è anche, dal punto di vista morale, il risultato

delle situazioni “create dagli uomini per raggiungere i propri

fini”.

Senza dubbio il modo migliore per avvicinare il ragazzo al

materiale storico è l’opportunità di conoscere come vivono e

come vissero gli esseri umani, gli strumenti che maneggiaro-

no, le nuove invenzioni di cui l’uomo fu artefice, gli stessi mu-

tamenti di vita che furono il risultato della potenza e del be-

nessere raggiunti.

Tutto questo accende e stimola nei ragazzi il desiderio di

ripetere analoghi processi, ricostruire gli utensili, riprodurre i

procedimenti e maneggiare nuovamente i rudimentali mate-

riali di un tempo.

Attraverso questi percorsi il ragazzo acquista coscienza dei

problemi e dei processi, ma nello stesso tempo si rende conto

degli aiuti e degli ostacoli che la Natura offre all’uomo: i mon-

ti, gli oceani, i campi, le foreste, le piante e gli animali diven-

tano elementi di studio di grande interesse per l’ uomo e viene

a determinarsi, nei processi di apprendimento, quella sinergia

necessaria tra la conoscenza della Natura e lo studio della

Storia.

In ciò, sostiene Dewey, consiste la naturale “correlazione”

tra Storia e Scienza.

Una visione, dunque, dinamica e in movimento della Storia

in grado di accentuarne l’aspetto economico e produttivo, ol-

tre che culturale, sì da essere mezzo e strumento per l’arricchi-

mento della vita umana.

69

Pari opportunità e diritto allo studio

in una società del cambiamento

La scuola occupa un posto importante nei pensieri di

Gramsci, sia perché la crisi che la travaglia non è riconducibi-

le a difficoltà di ordine tecnico–politico, sia perché essa non

riesce ad uniformarsi a quel processo di trasformazione de-

mocratica che investe la società.

Ciò che Egli ravvisa è la mancanza di una progettualità pe-

dagogica ed istituzionale che dia delle indicazioni concrete e

capaci di soddisfare le esigenze delle classi popolari del Paese.

È necessario prima di tutto combattere l’analfabetismo, che

non significa “obbligatorietà dell’istruzione” bensì “desiderio”

di frequentare la scuola, “bisogno di sapere”, necessità di usci-

re dal proprio ambiente per arricchirsi interiormente e mi-

gliorarsi fino ad approdare a un mondo più vasto che è patri-

monio di tutti gli esseri umani, e di quel mondo condividere

delusioni e speranze.

Questo ideale appare difficilmente raggiungibile dal mo-

mento che la scuola e la cultura sono “privilegio di pochi”, di

quei pochi che godono di una certa agiatezza economica.

70 PARTE II – Educazione ed istruzione

Gramsci giudica anacronistica questa situazione e vorrebbe

che a tutti i giovani fossero date “pari opportunità” per poter

raggiungere quei gradi di istruzione commisurati alle possibi-

lità intellettive, alla perseveranza e alle capacità di ciascuno.

L’ipotesi avanzata da Gramsci è quella di una scuola uguale

per tutti, che tenga conto di particolari situazioni sociali e crei

per tutti una rete di istituzioni parascolastiche capaci di inte-

grare le carenze ambientali e culturali (fa riferimento ai ra-

gazzi che non vivono in famiglie intellettualmente elevate o

che non vivono in città).

Egli auspica una scuola unica di base di cultura umanistica

e formativa, che contemperi allo stesso tempo lo sviluppo e

l’acquisizione di competenze da spendere nel mondo del lavo-

ro. Da questo tipo di scuola unica, attraverso ripetute espe-

rienze di orientamento professionale, si passerà ad una scuola

specializzata o ad un lavoro produttivo.

Nello specifico ipotizza una scuola unitaria, di formazione

umanistica di cultura generale, con la finalità di guidare i gio-

vani, dopo che abbiano raggiunto maturità e competenze, ver-

so attività sociali e lavorative.

Tale scuola dovrebbe corrispondere al periodo rappresenta-

to oggi dalla scuola dell’obbligo — elementare e media —, che

andrebbe tuttavia riorganizzata sia per i contenuti che per le

metodologie di insegnamento.

Una scuola “unitaria obbligatoria” rappresenta per Gramsci

una condizione essenziale e necessaria per realizzare una vera

democrazia politica.

Pari opportunità e diritto allo studio 71

La scuola professionale di una volta non fa che mantenere

le distinzioni di classe e, quindi, per ogni gruppo sociale un

tipo di scuola; al contrario,

se si vuole strappare questa trama, occorre, dunque, non moltipli-

care e graduare tipi di scuola professionale, ma creare un tipo uni-

co di scuola preparatoria/elementare–media, che conduca il ragaz-

zo alla soglia della scelta professionale, formandolo nel contempo

come persona capace di studiare, di dirigere e di controllare chi di-

rige1.

È evidente che la “scuola unica”, nel suo significato più pro-

fondo, secondo il nostro pensatore, è strumento essenziale per

la formazione della nuova generazione; per questa ragione lo

Stato deve organizzarla in modo da superare ogni divisione di

classe sociale e di ceto e, in quanto frequentata da tutti, rende-

re possibile il reclutamento di coloro che, per impegno e ca-

pacità, sono destinati a formare il gruppo degli “intellettuali” e

dei “dirigenti”.

L’aspetto formativo–umanistico che deve caratterizzare

l’inizio di una scuola uguale per tutti, deve rappresentare il

motivo di fondo anche della scuola professionale, la quale non

può e non deve limitarsi all’ambito informativo e pratico–

manuale, considerando che la formazione dell’uomo passa an-

che attraverso la cultura professionale.

1 A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi, To-

rino 1948.

72 PARTE II – Educazione ed istruzione

Scuola umanistica e scuola professionale distinte ma non

contrapposte: una scuola che consenta al bambino prima, e

all’adolescente poi, di crescere, di farsi uomo, di acquisire

quei criteri generali che concorrono alla formazione integrale

della personalità e del carattere.

È pur vero che il mondo del lavoro richiede specifiche

competenze, ma sarebbe riduttivo per l’individuo limitare

all’ambito professionale la sua preparazione che deve, invece,

collocarsi nel quadro di una ideale formazione umanistica,

nella quale istruzione generale e formazione umana vengono a

sintetizzarsi nell’uomo adatto al proprio tempo.

È innegabile l’importanza che Gramsci attribuisce alla cul-

tura umanistica nella formazione dell’uomo, ma si tratta di un

umanesimo lontano da quello erudito e letterario di stampo

tradizionalista.

Il Suo è un umanesimo storico, innovativo, che affonda le

sue radici nell’uomo, nei suoi limiti, nella sua attività: un uo-

mo che da soggetto passivo diventi via via protagonista e arte-

fice della Storia.

Ciò non significa rifiuto aprioristico delle esperienze acqui-

site, ma ripresa, rivalorizzazione e ritrasposizione di esse nel

mondo di oggi, perché nella tradizione che una millenaria e-

laborazione di pensiero ci ha tramandato, ci sono dei “valori”

che non debbono essere misconosciuti né dimenticati.

Egli vede l’ideale dell’uomo moderno in Leonardo da Vinci,

come si evince dalla lettera alla moglie Julka del 1 agosto

1932:

Pari opportunità e diritto allo studio 73

L’uomo moderno dovrebbe essere una sintesi di quelli che vengono

ipostatizzati come caratteri nazionali: l’ingegnere americano, il filo-

sofo tedesco, il politico francese, ricreando, per dire così, l’uomo

italiano del Rinascimento, il tipo moderno di Leonardo da Vinci,

divenuto uomo–massa, o uomo collettivo pur mantenendo la sua

forte personalità e originalità individuale2.

In sintesi, nel concetto di umanesimo sono contemperati i

valori dell’uomo con le esigenze della moderna industrializ-

zazione, al fine di infrangere quell’aspetto unilaterale della

cultura tradizionale, appannaggio di pochi privilegiati separati

dal popolo–nazione, perché diventi patrimonio di tutti.

Se pure Gramsci avverte la necessità di una trasformazione

della struttura scolastica, da vecchia scuola umanistica a scuo-

la meglio rispondente ai mutamenti socio–culturali, la sua in-

tuizione non può andare oltre perché le sue particolari condi-

zioni di detenuto politico non gli consentono di avere una vi-

sione chiara e sistematica della struttura della Scuola nuova.

La lettera si conclude con un riferimento al Metodo Dalton,

ideato da Elena Parkhurst e diffusosi soprattutto in Inghilter-

ra, che suddivide la scuola in laboratori (ceramica, intaglio, fa-

legnamerie …), dove ogni alunno può lavorare liberamente,

seguendo le proprie inclinazioni.

Gramsci, a differenza di Giulia, non crede nelle inclinazioni

generiche e precoci di Delio e Giuliano perché, a suo avviso,

2 A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio ed E. Fubini, Ei-

naudi, Torino 1965.

74 PARTE II – Educazione ed istruzione

in ciascun bambino, compresi i figli, coesistono tutte le ten-

denze sia verso la teoria e la fantasia, sia verso l’attività

pratica.

Da tale teorizzazione, la necessità di una formazione armo-

nica di tutte le facoltà intellettuali e pratiche che diventeranno

specialistiche solo quando la personalità del bambino risulte-

rà integrale e totalitaria.

75

Leggi, riforme e organizzazione scolastica:

il punto di vista del nostro pensatore

Nel momento in cui esponenti della cultura tradizionale

cercano di risolvere in modo positivo la profonda crisi che

travaglia la scuola italiana, attuando la “Riforma Gentile”,

Gramsci tenta una seria analisi della situazione scolastica e ri-

volge la sua critica alla stessa “riforma”, la quale avrebbe ac-

centuato la frattura tra la scuola e la vita, facendo registrare

una certa regressione rispetto alla stessa Legge Casati.

Legge che, a parer suo, ha comunque una sua efficacia for-

mativa da ricercarsi nel suo essere espressione di una tradi-

zione morale ed intellettuale diffusa nella società italiana. I-

noltre, anche se discutibile per alcuni aspetti, tale legge non

manca certo di “democraticità”, dal momento che — in quan-

to scuola di cultura generale — consente l’accesso agli studi

scientifici superiori; e la stessa scuola tecnica risponde a crite-

ri di modernità per i suoi riferimenti all’economia moderna

ed alle esigenze dello sviluppo industriale italiano.

Con la Riforma Gentile la scuola tecnica diventa scuola

specialistica e di secondaria importanza, con il risultato di ac-

76 PARTE II – Educazione ed istruzione

centuare la frattura esistente tra i vari tipi di scuola ed in par-

ticolar modo tra le scuole primarie e secondarie.

La Pedagogia idealista rimarca la distinzione tra educazio-

ne ed istruzione in modo esagerato, distinzione ritenuta da

Gramsci “assurda ed impossibile”, perché considera chi ap-

prende un essere passivo, un “recipiente meccanico” di nozio-

ni astratte.

Riforma che Egli giudica “antistorica ed astratta”, perché

presenta un nuovo schema culturale–scolastico che ignora

quei fenomeni di trasformazione e di produzione presenti nel-

la società e, inoltre, non tiene conto dei legami nuovi e diversi

che intercorrono tra la vita e la Scienza proprio nel momento

in cui si avverte una massiccia partecipazione dei cittadini alla

vita sociale.

Discutibile anche la figura del maestro “filosofo ed esteta”

che talvolta trascura le “conoscenze concrete” e privilegia

formule e parole che per l’alunno sono prive di significato e

destinate a cadere nel vuoto.

«La lotta contro la vecchia scuola», osserva ancora Gramsci,

«era giusta, ma la Riforma non era così semplice come pareva,

non si trattava di schemi programmatici, ma di uomini e no

degli uomini che immediatamente sono maestri, ma di tutto il

complesso sociale di cui gli uomini sono espressione»1.

La Riforma del 1923 appare, dunque, astratta in quanto:

«non affonda le sue radici nell’humus sociale circostante, la

1 A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi, To-

rino 1948.

Leggi, riforme e organizzazione scolastica 77

scuola gira a vuoto e l’allievo sarà portato ad ordinare un ba-

gaglio di nozioni pressoché inesistenti»2.

Sostanzialmente condivide l’idea che la scuola fornisca an-

che un bagaglio di nozioni, dal momento che per cultura si in-

tende anche saper ordinare un certo contenuto, e ciò non può

esser fatto con il “nulla”.

Secondo il suo pensiero, aver voluto eliminare il dogmati-

smo dalla scuola primaria e secondaria di primo grado è stato

un errore, poiché nell’ambito dell’apprendimento e dell’istru-

zione non si può prescindere da esso: ci sono “nozioni” fon-

damentali che vanno acquisite e interiorizzate attraverso lo

studio, l’esercizio, l’approfondimento… giacché non sono né

innate, né già conosciute.

Egli esprime il suo dissenso e lo legittima, sostenendo che

la democraticità di una scuola non si manifesta nel fatto che

un manovale possa diventare operaio specializzato, ma nella

possibilità che la società ponga, sia pure in astratto, ogni citta-

dino nella condizione generale di poter diventare un “gover-

nante”.

Purtroppo ciò non sussiste neppure al livello ipotetico, per-

ché quella scuola che si propone come scuola per il popolo si

organizza sempre più in modo da relegare la base del ceto go-

vernante ad un ambito socio–politico che accentua, nella vita

reale, quella divisione di ordini giuridicamente già fissati e

cristallizzati.

2 Ibidem.

78 PARTE II – Educazione ed istruzione

Ma non è forse vero che una scuola che si voglia caratteriz-

zare per la sua “democraticità” deve essere rivolta a tutti? De-

ve tendere ad obiettivi principalmente formativi e farsi garan-

te dell’istruzione? E deve altresì contribuire concretamente al-

la crescita dell’individuo e contemporaneamente fornirgli

quella preparazione tecnica e specifica perché possa diventare

anche un buon “governante”?

Sono queste, a parer mio, le riflessioni sulle quali dobbia-

mo dirigere la nostra attenzione.

79

Spontaneità, creatività, disciplina:

fattori essenziali del processo educativo

Si immagina quasi che nel bambino il cervello sia come un gomito-

lo che il maestro aiuta a sgomitolare. […] Non si tiene conto che il

bambino, da quando incomincia a “vedere” e a “toccare”, forse da

pochi giorni dopo la nascita, accumula sensazioni ed immagini che

si moltiplicano e diventano complesse con l’apprendimento del

linguaggio1.

Gramsci, pur riconoscendo che spontaneità e creatività esi-

stono nel bambino, non ne accetta l’assolutezza, né le conside-

ra naturale evoluzione: sono un punto di arrivo più che un

punto di partenza.

Egli sostiene e vede la spontaneità come fantasia, come ca-

pacità di essere originali, come manifestazione della persona-

lità del bambino. Ma per raggiungere questo traguardo è ne-

cessario guidarlo lungo il delicato percorso formativo che lo

porterà ad “essere uomo”, non attraverso interventi coercitivi,

1 A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi, To-

rino 1948.

80 PARTE II – Educazione ed istruzione

ma perseguendo modalità che gli consentano di acquisire una

più vasta conoscenza di ciò che l’ambiente esterno gli propo-

ne, affinché interagisca con esso fino ad appropriarsene.

In tal modo la partecipazione si carica di significato, in

quanto si fa mezzo e premessa per la creatività: e la scuola da

“attiva” diviene “creativa”, che non vuol dire necessariamente

scuola di inventori o scopritori: essa indica una fase e un me-

todo di ricerca e di conoscenza e non un pregresso predeter-

minato con l’obbligo della originalità e della innovazione a

tutti i costi.

“L’attivismo” per Gramsci non è fine a se stesso, né è un “fa-

re disordinato”: è l’attività dello scolaro diretta e guidata dal

docente, al quale spetta un ruolo insostituibile nella forma-

zione, dal momento che l’autonomia è una capacità che si

conquista attraverso un processo di crescita graduale e perma-

nente. L’educazione equivale all’acquisizione di una disciplina

intellettuale e morale, raggiungibile attraverso lo sforzo, per-

ché solo “la conoscenza” che è stata conquistata con lo “sfor-

zo” è veramente significativa e proficua.

Non si tratta, come taluni hanno voluto intendere, di una

posizione contro l’Attivismo, ma contro le sue storture, contro

l’attivismo del neoidealismo che considerava l’attività del

bambino in modo astratto.

Il “come fare scuola” o “come insegnare” investe tutto il

processo educativo e il rapporto tra la vita e la scuola, e trova

le sue ragioni solo se sa rendere i bambini capaci di guardare

alla vita in modo critico ed autonomo, in modo nuovo!

Spontaneità, creatività, disciplina 81

A questo punto si pone la necessità di definire la metodolo-

gia per raggiungere gli obiettivi formulati in sede di pro-

grammazione.

Gramsci affronta il problema metodologico, sostenendo la

necessità di una disciplina che porti all’apprendimento di abiti

comportamentali interiori e a nuove conoscenze, naturalmen-

te tutto ciò comporta sforzo intellettuale e anche fatica fisica

nel bambino:

Il fanciullo che si arrabatta con barbare e baralipton — egli scrive

— si affatica, certo, e bisogna cercare che egli debba fare la fatica

indispensabile e non più, ma è certo che dovrà sempre faticare per

imparare a costringere se stesso a privazioni e limitazioni di movi-

mento fisico, cioè a sottostare ad un tirocinio psicofisico. Occorre

persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere faticoso,

con uno speciale tirocinio oltre che intellettuale, anche muscolare–

nervoso. […] Molti pensano che le difficoltà siano artificiose, per-

ché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro ma-

nuale2.

È fondamentale, secondo la sua visione pedagogica, che fra

necessari schemi educativi, astrazioni dogmatiche (es. regole

della grammatica, della logica) e il bambino nella sua interez-

za vi sia un rapporto attivo e creativo, come attivo e creativo è

il rapporto tra l’operaio ed i suoi utensili di lavoro:

2 Ibidem.

82 PARTE II – Educazione ed istruzione

Un calibro è un insieme di astrazioni anche esso, eppure non si

producono oggetti reali senza la calibratura, oggetti reali che sono

rapporti sociali e contengono implicite delle idee3.

È importante educare il pensiero anche attraverso la vec-

chia logica formale — depurata della tradizione che caratte-

rizza la vecchia classe degli intellettuali — per creare una cul-

tura nuova su nuovi fondamenti sociali.

Se i ragazzi appartenenti a famiglie colte imparano la lingua

colta anche senza particolari esercizi è, sostiene Gramsci, per-

ché questi ragazzi si trovano inseriti in un blocco intellettuale

tradizionale, per cui assimilano l’elemento di tirocinio della

logica quasi naturalmente, insieme ai contenuti culturali.

Dove l’ambiente è carente o privo di stimoli il problema di-

venta più complesso e va risolto attraverso le esercitazioni di

logica formale e gli studi umanistici, come la Storia, la Lette-

ratura, la Filosofia, che rivestono una valenza formativa supe-

riore rispetto agli studi scientifici.

Ogni processo storico è determinato, nella sua evoluzione,

da meccanismi e leggi che vanno attentamente analizzati e

compresi per poter cogliere l’identità oltre quelle diversità

che, talvolta, sono solo delle parvenze o delle apparenze.

3 Ibidem.

Spontaneità, creatività, disciplina 83

Nell’ambito più strettamente educazionale fare ciò equivale

ad aiutare le giovani menti ad acquisire una coscienza cultura-

le che faciliti loro il passaggio da un pensare regionale ad un

pensare nazionale ed europeo.

Formare i giovani significa partire dalle loro “radici”, dal

loro bagaglio esperenziale e culturale, lasciando ampio spazio

alla loro creatività (ciò viene espresso nella Lettera del 26

marzo 1927 alla sorella Teresina, in riferimento all’educa-

zione sarda dei suoi nipoti).

Il “sardo” non è un dialetto, egli afferma, ma una Lingua a

sé, ed è bene dunque che i bambini colgano questa distinzio-

ne; nello stesso tempo consiglia che essi apprendano e parlino

sia il dialetto che l’italiano, in modo da conservare la ricchez-

za culturale dello spirito sardo, senza essere costretti a comu-

nicare solo nel proprio ambiente.

Gramsci, a sostegno della valenza formativa della Logica

formale, fa notare che non può essere sostituita dalla Matema-

tica, giacché essa si basa essenzialmente sulla serie numerica,

cioè su un’infinita serie di uguaglianze (1 = 1) che possono es-

sere combinate in modo infinito.

A suo avviso anche la “mentalità scientifica”, come fenome-

no di cultura popolare, risulta debole e tale debolezza è ri-

scontrabile fra gli stessi scienziati che posseggono, sì, una

“mentalità scientifica”, ma di natura tecnica e riferibile esclu-

sivamente al loro ambito scientifico.

Lo scienziato comprende il suo particolare metodo astratti-

vo ma non quello delle altre Scienze. Invece è necessario sa-

84 PARTE II – Educazione ed istruzione

pere che esistono vari tipi di astrazione e che è scientifica

quella mentalità che riesce ad abbracciare ed a giustificare di-

versi tipi di astrazione.

Anche il problema del metodo, dunque, non può essere vi-

sto in termini astratti, bensì deve rapportarsi a colui che ap-

prende, ai contenuti educativi, al tipo di scuola e al contesto

entro il quale l’intero processo si articola e si realizza.

85

PARTE TERZA

Antonio Gramsci: teorico della traduzione

87

Gramsci traduttore

Due culture nazionali espressioni di due

civiltà fondamentalmente simili […] sono

traducibili reciprocamente, riducibili l’una

all’altra. Questa traducibilità non è “per-

fetta” certamente […] ma lo è nel fondo.

A. Gramsci

Antonio Gramsci si colloca nel quadro storico della Lette-

ratura per l’infanzia per aver tradotto, dal 1929 al 1931,

dall’intero Corpus dei fratelli Grimm, ventiquattro fiabe e per

aver scritto dal carcere numerose Lettere ai familiari nelle

quali trovano spazio favole, racconti, apologhi di grande valore

pedagogico e culturale.

L’intento primario era di riprendere a far pratica di tradu-

zione dal tedesco, lingua al cui studio si era dedicato durante

la giovinezza.

Inoltre, Egli desiderava inviare tale manoscritto ai figli del-

la sorella Teresina. In una lettera a lei indirizzata, in data 18

gennaio 1932 così scriveva:

88 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

Carissima Teresina. […].

Ringrazio tutti i tuoi bambini e non so proprio immaginare che co-

sa fare per dimostrare il mio affetto per loro. […]. Forse farò così.

Ho tradotto dal tedesco, per esercizio, una serie di novelline popo-

lari proprio come quelle che ci piacevano tanto quando eravamo

bambini e che anzi in parte rassomigliano loro, perché l’origine è la

stessa. Sono un po’ all’antica, alla paesana, ma la vita moderna, con

la radio, l’aeroplano, il cine parlato, Carnera ecc. non è ancora pe-

netrata abbastanza a Ghilarza benché il gusto dei bambini d’ora sia

molto diverso dal nostro d’allora. Vedrò […] di spedirtele […],

come un mio contributo allo sviluppo della fantasia dei piccoli.

Forse il lettore dovrà metterci un pizzico di ironia e compatimento

nel presentarle agli ascoltatori1

In un passo dei Quaderni, commentando positivamente il

lavoro della pedagogista Formaggini–Santamaria, che insiste-

va ripetutamente sull’importanza pedagogica delle Favole e

novelle tipo Fratelli Grimm, Gramsci sottolinea che una auten-

tica Letteratura nazionale–popolare, intesa anche come stru-

mento di guida e di educazione delle masse, deve necessaria-

mente corrispondere nei contenuti agli “interessi mentali del

popolo”2, ove per “popolo”, in tal caso, si intende naturalmen-

te la figura del fanciullo.

Considerando che Gramsci aveva già acquisito, sia pure

parzialmente, una chiara visione delle dinamiche dello svi-

luppo psichico del bambino3, la corrispondenza diretta alla

1 A. Gramsci, Lettere, ed. cit. 2 A. Gramsci, Quaderni, ed. cit. 3 In una lettera al fratello Carlo, datata 25 agosto 1930, discutendo sugli

Gramsci traduttore 89

sorella mette in evidenza quanto l’intellettuale sardo abbia

colto dello spirito universale delle fiabe.

Pur preoccupandosi dell’avvento della radio, di Carnera,

etc., le caratteristiche meta–temporali e meta–spaziali della

fiaba fanno sì che essa sia in grado di suscitare interesse in o-

gni fanciullo, indipendentemente che si tratti di un giovane

tedesco, del giovane Gramsci (nella lettera dichiara la comune

origine popolare tra le fiabe e le favole sarde) o dei suoi gio-

vani nipoti.

La fiaba può così erigersi da una parte, purché venga pre-

sentata «con un pizzico di ironia e compatimento…», a veico-

lo universale di precetti educativi e morali, dall’altra divenire

quel «contributo allo sviluppo della fantasia dei fanciulli» da

lui auspicato e condiviso da esperti e studiosi dell’infanzia.

Purtroppo, quando Gramsci venne a conoscenza del divieto

di spedire manoscritti al di fuori del carcere, decise di so-

spendere questa opera.

Le fiabe, tradotte in italiano, rimasero così rinchiuse nei

Quaderni, in mezzo ai vari appunti di Sociologia, Storia della

Cultura ed Economia.

Il totale delle fiabe tradotte da Gramsci è di ventiquattro,

più precisamente ventitré complete ed una interrotta a poche

righe dal termine. Certamente aver sospeso anzitempo il lavo-

ro di traduzione e poter disporre solamente di una edizione

economica e non interamente completa della raccolta dei

atteggiamenti educativi da adottare con la nipote Mea, egli pone alcune inte-ressanti osservazioni sull’iter formativo dei fanciulli.

90 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

Grimm (stampata dall’editore tedesco Reclam4) condizionaro-

no Gramsci nella scelta delle fiabe da tradurre. Non è possibi-

le, inoltre, sapere se Egli avesse deciso di tradurre, o meno,

l’intera raccolta. Alcuni dati fondamentali ci fanno però sup-

porre che egli abbia volutamente preferito una personale sele-

zione delle fiabe da riportare in lingua italiana.

Innanzitutto l’ordine con le quali sono state trascritte le

bozze delle fiabe nei Quaderni non corrisponde a quello

dell’edizione della Reclam; inoltre, l’inizio della trascrizione

in bella copia della fiaba Rumpelstilzchen, presenta numerosi

miglioramenti stilistici, segno che egli aveva deciso di sotto-

porre ad un minimo di revisione gli originali scritti in brutta.

Rumpelstilzchen, infine, è la prima (ed anche unica) fiaba

trascritta in bella copia sul manoscritto che Gramsci avrebbe

voluto inviare ai propri nipoti.

La comparazione tra le traduzioni gramsciane e le versioni

originali in lingua tedesca delle Fiabe dei Grimm apre

un’interessante prospettiva ermeneutica, mostrando come per

Gramsci l’operazione di traduzione non ha significato sempli-

cemente un esercizio di perfezionamento linguistico, ma an-

che la conoscenza e l’interpretazione personale di un impor-

tante patrimonio della cultura germanica, mediato dai dati

della realtà storica sarda ed italiana.

Questa analisi, se da un lato evidenzia quanto grande e fon-

damentale fosse l’interesse di Gramsci per i problemi lingui-

4 La raccolta si intitola Brüder Grimm, Fünfzig Kinder und Hausmärchen,

Verlag von Ph. Reclam Jun., Leipzig s.d.

Gramsci traduttore 91

stici, dall’altro mostra quanto questo “esercizio” di traduzione

sia stato condotto “organicamente” ed in perfetta simbiosi con

i propri ideali politici e pedagogici.

Un traduttore qualificato dovrebbe essere in grado non solo

di tradurre letteralmente, ma di tradurre i termini, anche con-

cettuali, di una determinata cultura nazionale nei termini di

un’altra cultura nazionale, cioè un tale traduttore dovrebbe

conoscere criticamente due civiltà ed essere in grado di far

conoscere l’una all’altra, servendosi del linguaggio storicamen-

te determinato di quella civiltà alla quale fornisce il materiale

d’informazione.

Due culture nazionali, espressioni di due civiltà fondamentalmente

simili […] sono traducibili reciprocamente, riducibili l’una all’altra.

Questa traducibilità non è “perfetta” certamente […] ma lo è nel

fondo5.

Due strutture fondamentalmente simili hanno superstrutture “e-

quivalenti” e reciprocamente traducibili, qualunque sia il linguag-

gio particolare nazionale.

Queste citazioni tratte dai Quaderni e dalle Lettere esplici-

tano con sufficiente chiarezza i criteri da impiegare e le fina-

lità da perseguire nelle operazioni di traduzione linguistica.

Prendiamo, ad esempio, la fiaba Rumpelstilzchen: rispetto

all’originale tedesco, essa subisce due adattamenti linguistici

5 A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino 1975.

92 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

al fine di creare delle assonanze con la lingua sarda e rendere

il testo più familiare ai nipotini sardi; per tale ragione i nomi

del folletto suggeriti dal messo reale Rippenbiest, Hammel-

swade e Schnürbein, vengono rispettivamente tradotti con

Catarrino, Saltamontone e Trombatore; poco più avanti «um

die Waldecke kam, wo Fuchs und Has sich gute Nacht sa-

gen…» viene tradotto con il fantasioso «nel paese di Pastinac-

ca, dove la Volpe augura la buona notte alle galline»6: Gram-

sci, tramite l’invenzione del nome dal sapore fortemente ru-

rale “Pastinacca” e tramite la sostituzione di Has (in tedesco

Lepre) con le più domestiche galline, rimpiazza l’atmosfera

dei nebbiosi boschi dell’Assia con un’immagine paesana e

familiare mediterranea, facilmente recepibile dai destinatari

delle sue traduzioni.

Un altro esempio di adattamento del testo germanico al

“linguaggio storico italiano” lo troviamo nei Dodici fratelli;

nello scritto originale, si parla di una rot flagg (in italiano

“bandiera rossa”) che la principessina innalzerà in segno di

pericolo; ebbene Gramsci sostituisce il colore rosso con il ne-

ro che, oltre a rendere meglio l’idea di morte, lascia trasparire

una evidente allusione alla situazione politica nazionale.

6 La prof.ssa Lucia Borghese, docente di Filologia germanica presso

l’Università di Firenze, suggerisce di considerare Pastinarca come connubio di “Arca” e “Pastinare” (dal lat. pastinare = rivoltare, divellere la terra; con continuatori popolari in quasi tutti i dialetti meridionali, inclusa la lingua sarda) (L. Borghese, Tia Alene in bicicletta, in «Belfagor», 64, 1981).

Gramsci traduttore 93

Oltre agli adattamenti di natura “ambientale” e “politica”, la

revisione più evidente alla quale Gramsci sottopone i Märchen

grimmiani è sicuramente quella sui contenuti religiosi.

Ogni riferimento o invocazione alla divinità, alla trascen-

denza ed al provvidenzialismo, anche se indiretto, viene gra-

datamente epurato dalla versione italiana e, se non del tutto

eluso, semplicemente sostituito con espressioni che si richia-

mano alla sfera della natura, definibili in termini di ratio.

Il processo di “laicizzazione” delle novelline è graduale, i-

nizia in maniera quasi sperimentale per poi divenire sistema-

tico e minuzioso dalla quindicesima fiaba in poi (Fratellino e

sorellina). Se in Mignolino (sesta fiaba in ordine di traduzione)

troviamo espressioni come Ach Gott! (In italiano O Dio!) rese

con un “pagano” Per Bacco! o con un quasi dissacratorio Per

Dio! ed omissioni di raccomandazioni alla provvidenza (un

befahl sich Gott non tradotto in italiano), accanto ad una gran

parte di espressioni religiose ancora assolutamente inviolate,

nelle ultime otto fiabe tutte le invocazioni a Dio ed alla Cele-

ste Pietà vengono integralmente soppresse o semplicemente

tradotte con Ahimé o Per carità!

Persino alcuni passi, nei quali l’atteggiamento dei Grimm

sembra avvallare la presenza di una volontà metastorica che

determina i destini dei personaggi, vengono epurati dal testo

in modo da restituire la giusta dignità all’azione ed alla volon-

tà umana7.

7 Sempre nel saggio Tia Alene in bicicletta, pp. 655 ss., ed. cit., troviamo

94 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

La rivisitazione delle fiabe operata nel processo di tradu-

zione appare perfettamente in linea con la pedagogia gram-

sciana. Epurando la fiaba dai suoi riferimenti religiosi, senza

tuttavia tradirne lo spirito ludico ed i propositi educativi,

Gramsci offre ai suoi bambini la possibilità di conoscere a-

spetti della cultura popolare e del “folklore” adatti alle loro

giovani menti ma, al tempo stesso, in grado di orientarli verso

una concezione del mondo priva di elementi superstiziosi o

metafisici, fondata principalmente su una solida visione della

realtà intesa come prodotto della volontà umana.

un elenco esauriente delle omissioni e delle sostituzioni dei concetti religiosi effettuate da Gramsci traduttore dei Grimm.

95

Uno sguardo a Jacob e Wilhelm Grimm∗

Il nome dei fratelli Jacob (1785–1863) e Wilhelm (1786–

1859), dal 1812, anno di edizione del primo volume di Kinder

und Hausmarchen, è apparso legato non tanto alla storia della

cultura tedesca, quanto e soprattutto alla nascita ed allo svi-

luppo della fiaba.

I Grimm, filologi e linguisti autorevoli, nonché studiosi di

folklore, oltre a rappresentare per la Germania dei punti di ri-

ferimento importanti nell’ambito culturale e politico, a livello

europeo hanno fortemente caratterizzato il modo di intendere

la fiaba.

Era il periodo in cui, da una parte alcuni studiosi dell’edu-

cazione «sconsigliavano di raccontare Marchen ai bambini

[…] perché avrebbero potuto far nascere nel loro cuore desi-

deri e bramosie che la vita reale non poteva soddisfare»1,

dall’altra il poeta Novalis sosteneva che

∗ Questo breve capitolo è propedeutico al successivo. 1 D. Richter, Contenuti sociali delle fantasie fiabesche nel corso del muta-

mento storico, in Aa.Vv., Tutto è fiaba. Atti del Convegno Internazionale di stu-dio sulle fiabe, Emma edizioni, Milano 1980.

96 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

la fiaba è quasi il canone della poesia. Ogni cosa poetica deve esse-

re fiabesca. Il poeta adora il caso.

In una buona fiaba tutto deve essere meraviglioso, misterioso o in-

coerente; tutto animato. Sempre in modo diverso […]. Il mondo

delle fiabe è il mondo esattamente opposto al mondo della verità e

appunto perciò le somiglia tanto, quanto il caso somiglia alla crea-

zione perfetta. […]. Il genuino poeta di fiabe è un veggente

dell’avvenire2.

Le Marchen dei fratelli Grimm emergono inizialmente come

sintesi di una ricerca filologica oltre che come voce di un mo-

vimento culturale, il cui primordiale impulso si può ricercare

in quell’analogo fenomeno inglese, la cui massima espressione

— la raccolta di antiche ballate scozzesi ed inglesi, Reliques of

ancient english poetry (1765) di Percy — richiamò l’interesse di

molti filosofi europei sulla poesia popolare.

Prima dei Grimm, riscuotono grande interesse Heder

(1744–1803), con l’importante raccolta di canti popolari di

tutti i Paesi, Stimmen Der Volker in Liedern, ed autori come

Schegel, Schiller, Schwab, che rifiutano la mitologia classica

e la poesia aulica del Settecento per far ritorno alle antiche

rozze fonti medievali ed alla mitologia germanica.

Tra i precursori degli autori di Fiabe meritano, pure, un po-

sto d’onore, come ricercatori di antiche saghe e leggende ger-

maniche, Clemens Brentano (1778–1842) e Ludwig Von Ar-

nim (1781–1831).

2 Novalis, Frammenti, Rizzoli, Milano 1987.

Uno sguardo a Jacob e Wilhelm Grimm 97

Le fiabe dei fratelli Grimm hanno da sempre esercitato un

grande fascino su adulti e bambini, non perché la loro raccolta

fosse condotta con maggiore rigore pedagogico, non per una

più accurata scelta dei contenuti (anzi, non va dimenticato che

tale raccolta, nella mente dei due autori, non era destinata ai

fanciulli), bensì perché Jacob e Wilhelm, desiderando che la

loro opera nell’ambito letterario rappresentasse quel patrimo-

nio popolare del Medioevo germanico, fino allora conservato

attraverso la tradizione orale, procedettero con un metodo che

riuscì particolarmente valido ed efficace nel far ritenere la

raccolta un testo per l’infanzia.

I Grimm, infatti, non utilizzarono altre fonti che non fosse-

ro i ricordi della propria infanzia o di quella degli amici: at-

tinsero alle narrazioni dalla viva voce della gente comune che

loro stessi andavano interrogando, astenendosi dall’introdurvi

motivi moralistici o politici e cercando di conservare il più

possibile inalterata la tradizione popolare nei temi e nei modi.

Proprio alla “gente comune” apparteneva quella Katherina

Wiehmannin, contadina di un villaggio vicino a Kassel, che

rappresentò per i due fratelli, la fonte più importante e prezio-

sa3.

3 Di lei Wilhelm scrisse: «Questa donna, che è ancora vigorosa e che ha

da poco passato la cinquantina, ha un viso energico e piacente, uno sguardo chiaro e penetrante, ed è probabile che sia stata bella nella sua giovinezza. Conserva scolpite nella memoria queste vecchie leggende e questo, essa dice, è un dono che non è concesso a tutti […]. Racconta con sicurezza riflessiva e con molta vivacità, provando lei stessa piacere alla narrazione, dapprima svelta e poi, se lo si desidera, ripetendo lentamente, così chiaramente che con un pò di allenamento si può scrivere sotto la sua dettatura. Più di un pas-saggio è stato riportato testualmente, in modo tale che non si può fare a meno

98 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

Tuttavia, l’organizzazione del materiale evidenziò sempre

quella sensibilità artistica e letteraria che permise loro di

giungere ad una schematizzazione elementare della fiaba, fino

a conferirle quei caratteri specifici che sono propri della nar-

rativa per l’infanzia.

Il linguaggio, ad esempio, da un’edizione all’altra della rac-

colta, fu via via depurato dalle “espressioni forti” che si teme-

va potessero turbare la sensibilità dei piccoli lettori (della fia-

ba di Biancaneve, ad esempio, si conoscono tre diverse reda-

zioni successive).

E la “schematicità” si tradusse essenzialmente in una perce-

zione adialettica e mitologica del reale, che è tipica della co-

scienza popolare e fanciullesca; in una idealizzazione quasi

eroica del bene e del male, in una semplificazione estrema

della connessione dei fatti legati fra loro attraverso un sempli-

ce procedimento causa–effetto.

Ovviamente si vuole intendere un accostamento tra popolo

e fanciullo e non una loro identificazione.

A tal proposito Olga Visentini, nella introduzione al suo vo-

lume Libri e ragazzi scrive:

la leggenda è del popolo, la fiaba è per il fanciullo: ma l’uno e

l’altro si somigliano fin quasi ad identificarsi; infatti i popoli nelle

loro origini storiche e le creature nella loro infanzia vedono il

mondo con lo stesso sguardo.

meno di rivelarne il tono di verità» (K. Schriften, Saggi minori, vol. I, Guter-slok, 1881).

Uno sguardo a Jacob e Wilhelm Grimm 99

Forse ripetitivo, ma ugualmente affascinante e misterioso, è

il paesaggio che fa da sfondo a quasi tutte le fiabe: sterminate

foreste, alberi maestosi i cui rami frondosi si intrecciano fino

a sembrare mani tese che si cercano e si allacciano per lascia-

re, a volte, all’improvviso, intravedere «una casina fatta di pa-

ne e coperta di focaccia, dalle finestre di zucchero trasparen-

te…»: si tratta della casina della strega in Hansel e Gretel, o del-

la casetta dei “sette nani” o, ancora, della casa della nonna in

Cappuccetto Rosso.

Accanto a questi caratteri tipicamente nordici del paesag-

gio, che pure conferiscono tanto fascino alla produzione fia-

besca, trova spazio quanto di più genuino e spontaneo si ri-

scontra nel genere popolaresco: il profumo della terra appena

smossa, il calore delle pietre del forno, il sapore di pane casa-

lingo, l’aspro odore della birra in fermento…

La varietà di situazioni, la molteplicità dei personaggi che

popolano il mondo delle fiabe dei Grimm, sono descritte in

modo avvincente dall’etnologo siciliano Giuseppe Cocchiara4:

I protagonisti dei Marchen sembrano vivere in un tempo lontano

che li idealizza. Il loro confine è l’infinito. E su tale sfondo: il cie-

lo, la luna, il mare, le montagne, la foresta insomma. Ma in quella

natura, diremmo, così naturale, ecco la natura stessa dell’uomo. E

ciascun Marchen è un quadro di vita dove gli uni e gli altri sembra-

no vivere in un regno di poesia e di incanto. Gli uomini sono re,

4 G. Cocchiara, Il linguaggio della poesia popolare, Palombo, Palermo 1961.

100 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

orchi, nani, piccola gente adibita a piccoli mestieri, ma chiamata

ad imprese che sbalordiscono.

Lo stesso è delle principesse, delle streghe, di tutte quelle povere

ed amabili creature che si chiamano Cenerentola e Biancaneve.

Gli animali, a loro volta, appartengono a tutte le specie e

parlano e vivono come gli uomini. Con gli stessi pregi e gli

stessi difetti.

Fra gli uomini e gli animali: le piante, il sole, la luna, le

stelle. Ciascuno con la sua voce.

La religione e la magia accompagnano le azioni di tutti quei

protagonisti. E l’una e l’altra, la religione e la magia, nel mo-

mento in cui rendono la natura piena di vita e di animazione,

non solo ci fanno accettare il carattere sovrumano e mi-

racoloso delle azioni cui sono chiamati gli uomini, gli animali

o le piante, ma pare quasi che sciolgano i nodi stessi della re-

altà in un gioco di atmosfere, dove la gioia ed il fervore della

vita si intrecciano con la miseria e col dolore del mondo.

La maggior parte delle fiabe che ancora oggi alcuni adulti

leggono o raccontano ai bambini e che continuano ad eserci-

tare un certo fascino, trae origine dalla raccolta Kinder und

Hausmarcher (Fiabe per bambini e famiglie), che i fratelli

Grimm pubblicarono in tre volumi, tra il 1812 ed il 1822, di

cui il terzo dedicato all’esposizione critica del materiale, delle

fonti, dell’indagine comparata svolta relativamente ai temi

comuni alla tradizione di popoli diversi. Sono esattamente

duecento fiabe e dieci leggende religiose.

101

C’era una volta… le fiabe dei Fratelli Grimm:

dinamiche emozionali e riferimenti storico–ideologici

alla base della scelta delle fiabe tradotte

Questo capitolo, oltre a spiegare le motivazioni che spingo-

no Gramsci a tradurre le Fiabe dei Fratelli Grimm, cerca, at-

traverso il continuo riferimento alle Lettere, di scoprire le si-

tuazioni e le dinamiche emozionali che hanno determinato la

scelta di alcune di esse1.

Il desiderio di tradurre in scrittura emozioni, sentimenti ed

idee legate a quel mondo che Antonio Gramsci conosce solo

in parte, non lo abbandona neppure nei difficili anni trascorsi

in carcere.

Si può immaginare in quale ardua condizione: condannato

dal regime fascista per le sue idee di comunista, gli viene nega-

ta non solo la libertà, ma anche il necessario per scrivere: die-

tro quelle sbarre anche la carta e la penna, anche un libro…

rappresentano concessioni che non si ottengono facilmente!

1 Nel rivisitare le fiabe tradotte e nel pur modesto tentativo di volerle

interpretare, non si è tenuto conto dell’ordine seguito da Gramsci.

102 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

La censura carceraria mette a disposizione del “detenuto”

solo pochi libri e per parenti ed amici diventa talvolta impos-

sibile fargli pervenire qualunque tipo di materiale, fonte di let-

tura, quali riviste, quotidiani, testi importanti…

Le Fiabe dei Grimm, fortunatamente, non sono fra i libri

vietati e Gramsci può averle nel carcere di Milano, dove è de-

tenuto prima di essere processato.

Sono in tedesco, e comincia a tradurle con l’intento di per-

fezionare la conoscenza delle lingue europee, a cominciare

dal tedesco e dal russo, per “farsi la mano”2, cimentandosi con

autori ritenuti esemplari per semplicità e chiarezza.

Le Fiabe lo seguiranno anche nel carcere di Turi, dove co-

mincia a tradurle ed a trascriverle su di un album da disegno,

catalogato come Quad. D (XXXI) del 1932.

Le traduzioni delle ventiquattro Fiabe dei Grimm vengono

presentate secondo l’ordine che Egli stesso aveva scelto, non

seguono né l’ordine dell’antologia originale, né quello di tra-

duzione.

Gramsci, infatti, comincia a trascrivere la fiaba di Rumpel-

stilzchen, che doveva servire da apertura, mentre nell’edizione

Reclam è alle pagine 185–188.

Per comprendere meglio perché abbia scelto proprio que-

ste ventiquattro fiabe e non altre, appare significativo ripensa-

re alla sua lunga storia di solitudine e di libertà, che trova am-

pio respiro in una sua citazione indirizzata al figlio:

2 A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio ed E. Fubini, Ei-

naudi, Torino 1965.

C’era una volta… le fiabe dei Fratelli Grimm 103

Ogni testo, si sa, nasce da un rapporto e insieme lo produce e lo

riproduce. Solo il contesto può farci capire la totalità: tutto è col-

legato e intessuto strettamente e se un elemento del tutto viene a

mancare o fa difetto, l’intiero si spappola3.

Le “Novelline” dei Grimm, così le chiama, Gramsci le aveva

acquistate da tempo come elementare testo di lingua, ma le

riprende a leggere solo nel maggio del 1927, anno in cui, spin-

to dai ricordi della sua infanzia, compone un poemetto burle-

sco per i nipotini, con protagonisti paesani come la mendican-

te di Mogoro4 che prometteva di arrivare «con due cavalli

bianchi e due cavalli neri» in cerca del tesoro difeso dalla

“mosca maghedda”.

Appare evidente, attraverso la rivisitazione di molti suoi

scritti, quale importanza emotiva ed affettiva rivesta per lui la

scrittura, allorquando si serve di essa per strappare un sorriso

alla madre lontana o, come talvolta accade, per consolare, sia

pure con tono umoristico, la cognata Tania, alla quale pure si

rivolge con tenerezza mista a spirito paternalistico.

Infatti in molte Lettere si coglie, sia pure in modo velato,

quel rapporto dolce e tormentato nello stesso tempo che lega

Gramsci a Tania; sentimento represso per diverse ragioni: da

un lato a causa dei dettami della censura, che impongono che

ogni lettera venga letta dal direttore del carcere, dall’altro per

3 Lettere dal carcere, ed. cit. 4 Lettere dal carcere, ed. cit.

104 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

quella sorta di “autocensura” che egli esercita su se stesso e

sulla sua vita privata gelosamente custodita.

Ma ciò che Egli stesso definisce “Romanticismo carcerario”

non sempre riesce a rimanere nel buio, se nella lettera a Tania

del 12 settembre 1927 si legge:

Carissima, aspetto il nuovo colloquio, anche se non possiamo ne-

anche stringerci la mano.

A proposito, sai che per lungo tempo avevo pensato di darti qual-

che fiore cresciuto nella mia cella? Ma le piante sono ormai essic-

cate e così non ho potuto mantenere nessuno dei 5 o 6 fiorellini

che erano sbocciati, bruttini alquanto, a dire il vero.

Sempre attraverso le Lettere, in quella del 30 novembre

1931 indirizzata alla moglie Julca, Egli lamenta quanto sia

diventato difficile e penoso non solo scriverle, ma anche con-

tinuare a credere in una certa comunanza nella loro vita e in

quella dei figli.

Se da un lato questa lettera testimonia l’amaro distacco dal-

la moglie, dall’altro vuole essere un nuovo tentativo per rian-

nodare le loro vite, sì da poter dare vita a Julka nel momento

stesso in cui la riconosce morta nell’amore.

Non si esclude l’ipotesi che Gramsci voglia risolvere il suo

rapporto con Giulia, concedendole la possibilità di divorziare

e rifarsi una vita:

Mi pare che noi siamo diventati dei fantasmi l’uno per l’altro, degli

esseri irreali fuori del tempo e dello spazio, dei convenzionali e

C’era una volta… le fiabe dei Fratelli Grimm 105

pallidi ricordi (cristallizzati) di un breve spazio di tempo vissuto in

comune.

Questa minuta è nel Quaderno B (XV) ed è scritta dopo la

Fiaba dei Grimm Millepelli, ove un re vedovo ritrova la sua fe-

licità nella sola donna che, come ultima volontà di sua moglie,

avrebbe dovuto sposare; una donna alla quale ella rassomi-

gliasse. Questa è individuabile in sua figlia che, alla fine, è

l’unica a renderlo felice.

Millepelli richiama, nell’epilogo, alcuni aspetti di fiabe ricon-

ducibili a tematiche folkloristiche. Ma il motivo della scelta

potrebbe risiedere nella possibilità di Gramsci di vivere questa

fiaba come un sogno o come un desiderio inconscio.

Non stupisce la scelta di alcune fiabe come Rumpelstilzchen

o la leggenda La figlia di Maria, se in esse si colgono aspetti

umani e rassicuranti nello stesso tempo.

Rumpelstilzchen narra di un folletto ciarlatano, smascherato

nella sua malignità e ridotto alla disperazione: e ciò non per

l’intervento di un essere diabolico più potente di lui, ma perché

il messaggero reale ne ha appreso l’inaudito nome dalla sua stes-

sa bocca e lo riferirà alla regina che vincerà l’atroce scommessa e

riuscirà a strappare il principino dai sanguinari appetiti del fol-

letto, falso protettore del focolare domestico. Il lieto fine non è

dovuto ad interventi soprannaturali, dunque, ma al suggerimen-

to del nome del folletto da parte del messo reale.

Una duplice motivazione potrebbe averlo spinto a tradurre

La figlia di Maria: smascherare il bigottismo cattolico di per-

106 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

sone a lui familiari e sottolinearne la morale che Egli, comu-

nista, aveva adottato per il suo giornale, sintetizzata nel motto

“la verità è rivoluzionaria”.

Utile il riferimento al Vangelo secondo Giovanni, quando

sostiene che la Verità, intesa come rivelazione divina per i

credenti, rende liberi.

Tale fiaba, pur permeata da motivi religiosi, giustificati dal

fatto che la maggior parte di essi nascono in periodi in cui la

Religione è una componente importante della vita (del resto

anche le novelle delle Mille e una notte sono ricche di riferi-

menti alla Religione Islamica), viene tuttavia dimenticata.

Le motivazioni, pur discutibili, potrebbero risiedere nei

mutamenti socioculturali che percorrono il nostro tempo, ma

anche nella consapevolezza che alcune tematiche religiose

non suscitano riflessioni significative né a livello personale, né

in senso universale. Eppure questa fiaba inizia esattamente

come Hansel e Gretel: «Al limitare di una grande foresta viveva

un taglialegna e sua moglie».

Anche in questa fiaba, i genitori sono tanto poveri da non

riuscire a sfamare neppure la loro figlioletta di tre anni. Ma,

commossa da tali ristrettezze, la Vergine Maria appare loro e

si offre di prendersi cura della bambina, che porta con sé in

cielo. Lassù la piccola vive una vita meravigliosa.

All’età di quattordici anni la Vergine le affida le chiavi di

tredici porte: ella potrà aprirle tutte, fuorché la tredicesima.

La fanciulla non sa resistere alla tentazione e mente. Per puni-

zione viene rimandata sulla Terra, priva della parola. Deve su-

C’era una volta… le fiabe dei Fratelli Grimm 107

perare terribili prove e soltanto quando sta per essere messa al

rogo e desidera confessare la sua bugia recupera la parola.

Confessa di aver mentito e la Vergine le restituisce la felicità.

Il messaggio è molto chiaro: la voce usata per mentire con-

duce alla perdizione e sarebbe, dunque, preferibile esserne

privati, come succede alla protagonista della fiaba.

Ma la “voce” usata per pentirsi, per ammettere i propri er-

rori e per affermare la verità, non può che redimere e condur-

re alla salvezza.

Tra le fiabe dei Grimm, Gramsci decide di tradurre anche

novelle di stile comico, sia per il gratificante lieto fine, sia per

la piacevolezza delle stesse vicende.

Con tale scelta appaga un’esigenza che aveva già manifestato

da bambino e che ora riconferma, convinto che il «comico

possa educare efficacemente attraverso gli exempla di eroi ne-

gativi»5.

Potrebbe essere questa la ragione per cui egli abbia scelto

tre storielline di “furbi”, detti così in senso ironico: Elsa, da

Elsa la furba; Gianni da Gianni e la felicità; e Caterina, da Gente

furba.

In Gente furba emerge la figura di Caterina, alla quale il

marito affida la vendita del bestiame con la minaccia di ba-

stonarla se lei si fosse lasciata imbrogliare. Ma Caterina cade

vittima di un furbo mercante al quale cede due delle tre muc-

che, senza averne nulla in cambio; malgrado ciò, ella non su-

5 Lettere dal carcere, ed. cit.

108 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

birà alcuna violenza da parte del marito che, mosso da pietà,

si consolerà della perdita economica con il denaro offertogli

da una “vedovella babbea”, nella quale si imbatte casualmente,

che, credendolo disceso dal cielo, gli offrirà del denaro da

portare al marito defunto.

Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, è quest’ul-

timo il personaggio che si colloca al vertice di questa serie di

protagonisti “furbi”.

Al contrario, le vicissitudini di Elsa sono attraversate da

una nota di crudele comicità: ritenuta dal marito una moglie

giudiziosa, una burla mette in luce la sua vera natura di donna

inetta. Involontariamente, il consorte provoca una crisi di i-

dentità nella povera moglie deficiente, che fugge di casa e non

dà più sue notizie.

Ci troviamo di fronte ad un racconto triste nel suo epilogo,

ma significativo perché vuole essere un invito a riflettere sul

delicato problema di taluni soggetti “diversamente abili”.

Si potrebbe ipotizzare che nella scelta di Gianni e la felicità

siano adombrati elementi ideologici, ma anche riferimenti di

speculazioni fallimentari vissute dalla famiglia Gramsci (cfr

Lettere dal carcere, ed. cit.). Tuttavia colpisce la positività del

protagonista: Gianni, uomo semplice e laborioso, che riesce a

cogliere la felicità nel lavoro, pur passando attraverso espe-

rienze di vita che gli offrono l’opportunità di diventare ricco. I

ripetuti baratti ritenuti dal protagonista sempre vantaggiosi,

tali non sono, perché dal pezzo d’oro ottenuto come buonusci-

ta, alle pesanti pietre che rotolano e affondano nella sorgente

C’era una volta… le fiabe dei Fratelli Grimm 109

dove voleva riposarsi e ristorarsi, egli ritorna alla felice pover-

tà di sempre.

Siamo, dunque, di fronte al capovolgimento di quella vi-

sione del pensiero dominante che guarda alla ricchezza come

alla massima realizzazione dell’essere umano.

Nel racconto La contadinella furba la contadina è furba dav-

vero, come testimoniano le sue vicissitudini: salva il padre dal

carcere e diventa regina; salva da una ingiusta condanna un con-

tadino e riconquista l’amore del suo sposo, dopo averne rischia-

to il ripudio. La positività di questo personaggio è facilmente ri-

scontrabile nella sua intelligenza attiva e liberatrice, oltre che

nella capacità di intervenire con tempestività continua.

Anche la vicenda de Le tre filatrici ha un epilogo molto posi-

tivo: il figlio della regina sposerà la pigra fanciulla grazie alla

operosa bontà di tre donne sconosciute e dall’aspetto ripu-

gnante, le tre filatrici, che le offrono il loro aiuto, filando tutto

quel lino che farà di lei una donna dal destino felice.

Di questa fiaba colpiscono alcuni elementi: la richiesta delle

tre filatrici di offrire il loro aiuto per filare il lino in cambio

dell’invito alle nozze «Se tu ci inviterai alle tue nozze, non avrai

vergogna di noi, e ci chiamerai tue zie, facendoci sedere alla tua

mensa»; dell’accettazione, sia pure per infingardaggine, da parte

della fanciulla della “diversità” che caratterizzava le tre parche

benigne nonché dell’onestà della stessa nel mantenere fede alla

promessa fatta alle sconosciute.

Ciò che caratterizza la fiaba I tre omini della foresta e che

colpisce il lettore, sono i tanti elementi disseminati nelle altre

110 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

fiabe dei Grimm: la cattiveria della matrigna di Cenerentola,

l’insolenza delle sorellastre, la generosità dei nani di Bianca-

neve, per non parlare di altre figure quali il re ed ancora

dell’apparizione dell’anitra, che esercita la sua arte magica tra-

sformandosi nella vera regina per allattare il principino.

Come ne Le tre filatrici la fanciulla accetta l’aiuto che le vie-

ne offerto da tre donne dall’aspetto sgradevole, così ne I tre

omini solo la più gentile d’animo delle due sorellastre, incu-

rante dell’aspetto dei tre “nani” (così definiti dai Grimm), di-

vide con loro il suo pezzetto di pane.

Le sue doti di gentilezza e generosità vengono ripagate:

— Che diventi più bella ogni giorno — disse il primo omino.

[…]

— Che le cadano di bocca monete d’oro ad ogni parola che dice

— aggiunse il secondo […].

E il terzo: — Che venga un re e la sposi.

Ed ancora possiamo cogliere in questa fiaba, come ne Le tre

filatrici, elementi di grande valore pedagogico, il trionfo del

bene sul male, l’accettazione della diversità come superamen-

to di ogni pregiudizio, ma anche l’impegno nel mantener fede

a quanto promesso.

Nell’epilogo de I tre omini della foresta, se da un lato c’è la

punizione per chi si adopera nel danneggiare gli altri, dal-

l’altro si assiste al trionfo del bene su qualsivoglia cattiveria.

A questo punto ci viene da ipotizzare che, per l’infanzia par-

ticolarmente difficile e tormentata vissuta da Gramsci (per mo-

C’era una volta… le fiabe dei Fratelli Grimm 111

tivazioni legate alla difficile situazione economica in cui la fa-

miglia era venuta a trovarsi a causa della condanna del padre,

alla salute cagionevole, alle privazioni, al lavoro precoce…),

non sia da escludere che la scelta di alcune fiabe possa essere

stata determinata dalla sua identificazione con taluni protago-

nisti: ne sono un esempio Mignolino e Mignoletto.

Mignolino, benché menomato dalla sua minuscola statura,

trionfa in ogni sua impresa per la sua acuta e vivace intelligen-

za: si serve della sua diversità, che diventa il suo punto di for-

za, per dare gioia ai genitori, migliorare la loro condizione

economica, affrancandosi da due forestieri che lo avevano

comprato per sfruttarlo come attrazione nelle grandi città e, in

ultimo, per riuscire a liberare l’intero paese da una banda di

ladri che voleva servirsi di lui come complice.

Particolarmente suggestivo e tenero l’incipit:

— Come è triste non avere bambini!

Nelle altre case c’è tanta allegria […]. Avessimo un solo bambi-

no e fosse anche piccolo come il dito mignolo, lo ameremmo di

tutto cuore. […] Dopo sette mesi nacque un bambino non più alto

del dito mignolo […] — è proprio come lo abbiamo desiderato e

sarà il nostro caro bambino — e per la sua statura i genitori gli det-

tero il nome di Mignolino.

Accanto a questa fiaba, per affinità di contenuto e come ri-

vincita dei deboli e dei “piccoli”, degli umiliati e degli offesi

dalla natura e talvolta dalla stessa società, si colloca Il pellegri-

naggio di Mignoletto, una micro–epopea burlesca, in cui il

112 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

protagonista, Mignoletto, se ne va in giro per il mondo in cer-

ca di avventure, armato di un grosso ago da cucito che funge

da spada per difendersi.

Il fiero Mignoletto, dopo strane e burrascose avventure,

torna a casa dal padre che è ben felice di riabbracciarlo.

Particolarmente significative la tenacia e la forza del prota-

gonista nel non rassegnarsi alla situazione di reietto cui la

malvagia natura lo aveva relegato.

Nella scelta di Gramsci non mancano racconti nei quali la

“solidarietà” diventa il vero protagonista e i deboli si uniscono

tra loro per lottare insieme ed aiutarsi a vicenda.

Tutto ciò è facilmente desumibile ne I quattro musicanti di

Brema, Il lupo e i sette caprettini e Il cane ed il passero, fiabe

che, oltre a presentare motivi di fondo molto simili, risultano

significative per il messaggio morale che in esse risulta abba-

stanza esplicito.

Appare evidente la tendenza gramsciana nel voler identifi-

care il mondo animale con gli individui socialmente più debo-

li; infatti i soggetti che cooperano per punire il padrone sfrut-

tatore, il ladro, o comunque la malvagia fiera predatrice, sono

quasi sempre animali domestici o da “cortile”, che normal-

mente vengono utilizzati nelle fattorie per i lavori pesanti.

Gli animali da cortile, si sa, differiscono in maniera netta da

quelli selvatici grazie al millenario processo di addomestica-

mento che, in sintesi, coincide con l’assunzione di una man-

sione specifica, con l’incorporamento di una vera e propria

quantità di sapere tecnico, sia pure sedimentato a livello istin-

C’era una volta… le fiabe dei Fratelli Grimm 113

tivo e meccanico. Anche se in forma primitiva, questa diversa

organizzazione mentale dell’animale domestico lo “eleva” al

di sopra della fiera selvatica, che è votata unicamente alla lo-

gica del predatore o del branco di predatori.

L’animale da “soma” è partecipe di una vera e propria for-

ma di lavoro organizzato ed è proprio questo grado superiore

di organizzazione “sociale” che renderà possibile una coope-

razione intelligente tra i quattro aspiranti Musicanti di Brema,

un asino, un cane, un gatto ed un gallo che, scampati al destino

di “vecchi da liquidare”, si insediano in una capanna di brigan-

ti e, orchestrando le proprie voci, spaventano chi, per profes-

sione, saccheggia e terrorizza il prossimo.

Analoga riflessione scaturisce da Il lupo ed i sette caprettini, in

cui mamma capra (animale domestico), grazie alla testimonian-

za del figlio più piccolo, riuscirà a punire con un’operazione

“intelligente” (uso delle forbici), l’ingordo nemico: il lupo.

In Gramsci appare evidente una certa predilezione per gli

epiloghi allegri e divertenti offerti talvolta da immagini simbo-

liche che vogliono rappresentare il trionfo del bene sul male,

come nella “danza” dei caprettini intorno al lupo morto.

La simpatia del nostro pensatore per il genere zoo–epico ri-

sulta anche nella scelta de Il cane e il passero, fiaba in cui un

piccolo ma fiero passero, simbolo di libertà e di spirito

d’iniziativa, solidarizza con un buon mastino costretto ad ab-

bandonare, per fame, un padrone poco generoso: dapprima

aiuta il povero vecchio cane a sfamarsi, poi lo vendica della

misera fine causatagli da un arrogante vetturale che lo investe

114 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

con il suo carro, nonostante il piccolo volatile lo abbia ripetu-

tamente scongiurato di non farlo: «Vetturale non farlo, o ti ri-

durrò in miseria» il povero cane finisce stritolato dalle ruote.

La massima espressione della solidarietà, unitamente ad un

forte senso di fratellanza, sono racchiusi in quel «caro fratello

vieni con me in città e ti farò saziare» e nell’urlo finale del

passero «hai ammazzato il mio fratello cane e ciò ti costerà

carro e cavalli».

Ancora una volta, attraverso la lettura della fiaba Il Forasie-

pe e l’orso, assistiamo a quel “mutuo soccorso” che caratteriz-

za i deboli che devono difendersi dagli oltraggi dei più forti. I

piccoli scriccioli si uniscono per vendicare il loro onore di

uccelli offesi e muovono guerra all’orso e al lupo, suo fraterno

amico, mobilitando zanzare, calabroni e mosche. Il lupo e

l’orso, nonostante l’aiuto di altri quadrupedi, sono sconfitti e

quest’ultimo, umiliato, deve chiedere scusa ai piccoli volatili.

Il fatto che Gramsci abbia aggiunto nella traduzione, a “re

di macchia”, il nome di “forasiepe” è quasi a voler esaltare la

fierezza di questo minuscolo uccello che, per le sue piccole

dimensioni, è detto anche “scricciolo”.

Tra le fiabe classiche a lieto fine, sei si collocano fra le più

conosciute. Esse si succedono intervallate a quelle meno note;

ma la scelta — non tanto di ordine psicoanalitico, pur ricono-

scendo il valore liberatorio che esse assumono oggi, alla luce

della psicologia del profondo — è determinata dall’interesse

di Gramsci verso problematiche pedagogiche, nonché dai ri-

cordi della sua fanciullezza.

C’era una volta… le fiabe dei Fratelli Grimm 115

La fiaba, Fratellino e Sorellina, se da un lato riassume

l’esperienza personale ed il non comune rapporto con la sorel-

la Teresina, dall’altro sottolinea i legami affettivi verso il fra-

tello maggiore, Gennaro.

Questi due fratelli non conoscono rivalità e gelosia, il loro

rapporto si basa sulla solidarietà e sulla collaborazione, e tut-

to ciò che accade nella fiaba dei Grimm si ritrova nella vita

reale dei fratelli Gramsci.

Potrebbe a questo punto risultare interessante riportare il

pensiero di Bettelheim, allorquando sostiene che il valore edu-

cativo del racconto sta nel fatto che l’integrazione della persona-

lità non si può raggiungere se non eliminando tutto ciò che in

noi può essere asociale, ingiusto, distruttivo. Ed è appunto la no-

stra sollecitudine per chi ci ama — sostiene ancora Bettelheim

— a liberarci di quegli elementi che turbano il sereno equilibrio,

sino a far prevalere l’io ed i valori del super–io sugli altri.

Nella fiaba de I dodici fratelli si racconta di Beniamino, il

più piccolo della famiglia che, sorretto dall’amore materno,

non soltanto riesce a salvare sé ed i suoi fratelli dal proposito

omicida del padre, il quale vorrebbe lasciare tutta l’eredità al-

la sua unica figlia, ma riesce, nello stesso tempo, ad impedire

ai fratelli di uccidere la sorellina.

Sarà proprio la sorellina, nella seconda parte del racconto,

a liberare i fratelli dalla condizione di corvi, nella quale lei

stessa aveva inconsciamente contribuito a trasformarli: la pic-

cola consegue la liberazione, con uno straordinario trionfo del

suo io e del suo super–io perfettamente consolidati.

116 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

Fiaba di fame e di miseria può essere definita Giannino e

Ghitina: i protagonisti, due bambini abbandonati nella foresta

per volere di una matrigna cattiva e di un padre debole, con-

sapevoli del loro destino, riescono tuttavia a sfuggire alla stre-

ga malefica, che li avrebbe divorati.

I due piccoli personaggi si sostengono e si rincuorano vi-

cendevolmente, anche se a prendere le iniziative necessarie af-

finché la loro triste avventura abbia un lieto fine è sempre

Ghitina. Alla fine, l’intervento magico di una piccola anitra

generosa consentirà loro di attraversare il guado e di raggiun-

gere la casa paterna, dove troveranno ad attenderli solamente

il triste padre (la matrigna, intanto, era morta).

L’epilogo positivo evidenzia il valore educativo che rivesto-

no le fiabe a lieto fine: «Tutte le preoccupazioni ebbero fine

da allora; ed essi vissero insieme in grande gioia», per aver ri-

trovato il vecchio padre e per le perle e le gemme che avevano

sottratto dalla casetta della strega malvagia e che permetteva-

no loro di superare quello stato di miseria iniziale che aveva

spinto i genitori ad abbandonarli nel bosco.

La fiaba di Nevina, meglio conosciuta con il titolo di Bian-

caneve e i sette nani, mette in evidenza la graduale maturazione

della protagonista, Nevina, che attraverso situazioni e perso-

naggi diversi, visualizza e supera quei conflitti interiori che

sono propri di quel processo evolutivo di crescita che caratte-

rizza ciascun individuo, e si concludono con una appropria-

zione delle emozioni fino ad una maggiore coscienza di sé e

ad una integrale formazione del carattere e della personalità.

C’era una volta… le fiabe dei Fratelli Grimm 117

Né la cattiveria della regina, intrisa di un’implacabile gelosia

per il fiorire della fanciulla, né l’incapacità del cacciatore di riu-

scire a garantirle protezione e salvezza, impediranno alla pro-

tagonista, se pur attraverso un iter laborioso e difficile, di vince-

re sulla morte e di rinascere alla vita grazie ad un amore felice.

In questa fiaba il principe azzurro rappresenta il premio alla

forza di volontà e al senso di responsabilità espressi da Nevina

in un mondo popolato da “nani”, creature nobili e laboriose ma

private di ogni possibilità di sviluppo “staturale”.

Il lieto fine della fiaba non ci impedisce di ritenere che, per

taluni aspetti, ci si trova di fronte ad una fiaba “degli uomini e

non già dei bambini”: degli uomini che si rendono conto che

la giovinezza, come la felicità, non sono eterne, perché la mor-

te non solo annienta speranze e delusioni, sogni e dolori, gio-

ventù e bellezza, ma anche ogni sorta di cattiveria umana:

E la malvagia regina appena entrò riconobbe Nevina, e per il dolo-

re e la paura non poteva più muoversi. […] Ella dovette infilare

quelle scarpe roventi ai piedi e ballare, ballare finché cadde a terra

morta.

Diverso appare il percorso attraverso il quale matura Rosa-

spina, ossia La bella addormentata nel bosco. La protagonista,

vittima di un malefico incanto ad opera di una donna vendica-

tiva (che non era stata invitata al banchetto organizzato per fe-

steggiare la sua nascita), a quindici anni, come predetto, si

punge ad un fuso e giace in un profondo sonno per cento anni.

118 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

La maledizione si diffonde in tutto il castello e avvolge uo-

mini e cose: tutto diventa immobile, persino la natura sembra

arrestare il suo ritmo…, si placano i venti…, tace lo stormire

delle fronde e il cinguettio degli uccelli…, tutto è avvolto da

una coltre di silenzio! All’occhio umano appare solo una fitta

siepe di spini che cresce a vista d’occhio e si erge fino a copri-

re la più alta torre del castello.

Occorreranno cento anni prima che il figlio di un re, pur

avendo saputo che altri avevano pagato con la morte il tentati-

vo di andare oltre gli spini, vinca ogni paura pur di sciogliere

l’incantesimo di cui era stata vittima la bella Rosaspina.

Come per incanto, quella siepe spinosa, trasformata in bel-

lissimi fiori, si inchina al passaggio del principe e gli consente

di raggiungere Rosaspina e di risvegliarla con un bacio.

Ancora una volta, sia pure per magia, assistiamo al trionfo

dell’amore: la vita vince sulla morte e ogni cosa riprende il suo

ritmo. L’epilogo della fiaba è positivo e consolatorio:

Con grande magnificenza furono festeggiate le nozze del figlio del

re con Rosaspina ed essi vissero contenti fino alla morte.

La narrazione coinvolge emotivamente bambini ed adulti

per la carica suggestiva che scaturisce dagli eventi, dalle de-

scrizioni e da quella magia che la pervade.

Tutti gli elementi e i significati che si possono cogliere nel-

la fiaba, risultano cari a Gramsci: dalle descrizioni particola-

reggiate e realistiche tracciate dai Grimm, al suo interesse per

C’era una volta… le fiabe dei Fratelli Grimm 119

l’infanzia e l’adolescenza, quella adolescenza che viene vissuta

dalla protagonista come incertezza, ma anche come un sentire

fatto di fiducia e di profonde riflessioni interiori.

Anche Rosaspina, come tutti gli adolescenti, si abbandona

al torpore adolescenziale, protetta dal mondo degli adulti,

come la rosa appena sbocciata viene protetta “dalle spine della

siepe”.

L’adolescenza va vissuta, anche secondo Gramsci, senza

forzature né anticipazioni, affinché risulti positiva per lo svi-

luppo e la strutturazione della personalità dell’individuo pri-

ma ancora che si affacci alla vita e all’amore.

Non poteva mancare nella scelta di Gramsci la più popolare

e certamente la più amata delle fiabe, Cenerentola, forse per il

modo semplice di trasmettere dei messaggi morali altamente

significativi che non sfuggono all’attento lettore: il trionfo del-

la bontà di una fanciulla alla quale la vita non risparmia alcu-

na sorta di sofferenza: dalla morte della madre all’abbandono

del padre, sino all’odio e alla gelosia della matrigna e delle

malvagie sorellastre.

A questa fiaba va anche l’interesse dell’illustre studioso,

Bettelheim, che, avvalendosi del contributo di psicanalisti

come Klein ed Erikson, tenta di analizzarla negli aspetti più

profondi e nei conflitti psicologici più comuni — il lutto, la

tristezza, l’angoscia, il complesso edipico, l’angoscia sessua-

le — che incarnano i vari stadi della vita, dall’infanzia

all’adolescenza, fino alla maturazione ed oltre ancora. Gli

“stadi delle specifiche crisi psicosociali” di cui parla Eri-

120 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

kson6 inducono Bettelheim ad analizzare le vicissitudini di

Cenerentola attraverso un’analisi approfondita che inizia

con la fiducia di fondo, che nasce dal rapporto positivo con

la madre, per passare a quella autonomia che non è altro

che accettazione del proprio ruolo nella fase in cui deve rie-

laborare il lutto riparatore in memoria della madre buona,

amata ed insieme odiata a livello inconscio, come rivale nei

confronti del padre; per snodarsi, in seguito, attraverso l’ini-

ziativa, rappresentata dalla forte richiesta d’amore rivolta al

padre, e simboleggiata dal virgulto di nocciolo.

In questo percorso, vissuto in chiave evolutiva, anche il la-

voro, sia pure frutto di ripetute e umilianti richieste da parte

della matrigna e delle sorellastre, contribuirà a ritemprare il

carattere di Cenerentola; e, non ultima, quella crisi di identità

personale che vive negativamente negli abiti cenciosi che è co-

stretta ad indossare, la porterà a riappropriarsi di quell’iden-

tità personale positiva, attraverso il bellissimo abito da sposa e

le scarpette d’oro.

La positività del messaggio che le vicissitudini di Ceneren-

tola ci trasmettono è nella consapevolezza che anche il dolore,

come il lutto, fanno parte della vita stessa dell’uomo; è bene,

6 Erik Erikson (1950) sostiene che la vita dell’uomo può essere concepita

come una serie di stadi, ciascuno contrassegnato da un dilemma cruciale che deve essere risolto per passare allo stadio successivo: il dilemma che caratte-rizza l’adolescenza è quello espresso dalla tensione tra identità e diffusione della identità. La nozione di identità assunta da Erikson è situata nel quadro di una teoria evolutiva della personalità che si differenzia da quegli orienta-menti psicologici che definiscono la personalità umana in termini statici.

C’era una volta… le fiabe dei Fratelli Grimm 121

dunque, che talune situazioni emozionali, sia pure traumati-

che e dolorose, siano vissute come esperienze significative per

la crescita e il rafforzamento della personalità.

Infatti, sarà Cenerentola la donna che alla fine saprà con-

quistare il Principe. E le bianche colombe che le avevano of-

ferto il loro aiuto “gratuito” in tutta la fiaba, per ripagarla del-

la sofferenza e delle umiliazioni subite, puniranno, invece,

con la cecità le malvagie sorellastre per la loro cattiveria e sle-

altà, beccando loro gli occhi proprio durante la celebrazione

del matrimonio di Cenerentola col figlio del Re.

Prima ancora di parlare di Cappuccetto Rosso, occorre ri-

badire che tale fiaba esiste in molte e diverse versioni: la più

popolare è sicuramente quella dei fratelli Grimm, ma la sua

storia letteraria inizia con C. Perrault (1628–1703), autore di

Histoire et contes du temps passé.

Ma mentre la storia di Perrault risulta priva di salvezza e

consolazione, perché termina con la vittoria del lupo, e per ta-

le ragione non poteva considerarsi adatta all’infanzia, i fratelli

Grimm ci forniscono due versioni della stessa fiaba, ponendo-

ne in luce il valore educativo, attraverso un epilogo ottimisti-

co e rassicurante, motivazione che deve avere spinto Gramsci

a collocarla tra le fiabe classiche da lui tradotte.

Il tema centrale della fiaba resta, tuttavia, la minaccia di es-

sere divorati. Essa evidenzia, in modo simbolico, alcuni pro-

blemi che sono propri dell’età scolare. La protagonista appare,

fin dall’inizio, incerta tra il principio del piacere e quello della

realtà, ossia tra il voler obbedire alle istanze dell’Io–realtà e ai

122 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

doveri del Super–Io, e il desiderio di potersi abbandonare alle

richieste inconsce delle sue pulsioni.

In questo dualismo, in questa scelta tra una realtà di cui la

protagonista non ha paura, anzi ne riconosce la bellezza, e il

piacere:

Come sono belli i fiori intorno a te… non senti neppure come can-

tano bene gli uccellini… tu cammini composta, … mentre ogni

creatura nel bosco è gioconda,

appaiono evidenti i messaggi del lupo seduttore che, secondo

un processo naturale, “divora per nutrirsi”.

«Camminare come si deve e non deviare dalla strada…», so-

no gli avvertimenti di sua madre, ma Cappuccetto, come tutti i

bambini, è curiosa e, talvolta, disobbediente, combattuta tra il

desiderio di voler fare ciò che piace, e ciò che si deve fare.

Sarà la spaventosa avventura nel bosco a condurla alla so-

glia della morte o, come evidenzia l’epilogo aggiunto, alla ri-

nascita.

La fiaba precisa, inoltre, che nonna e nipotina non sono

morte; ciò risulta evidente dal comportamento di Cappuccetto

Rosso al momento in cui viene liberata: «la bambina saltò

fuori dicendo fra le lacrime: ah, che paura! Che buio c’era den-

tro il corpo del lupo», ma solo se si è vivi si può avere paura, e

ciò significa una condizione che si oppone alla morte. E la

paura che Cappuccetto Rosso prova del buio nella pancia del

lupo, è quella del bambino che sa di essersi comportato male,

C’era una volta… le fiabe dei Fratelli Grimm 123

o che non si sente abbastanza protetto dai suoi genitori; è una

paura che presuppone una richiesta di aiuto, ma anche la pos-

sibilità di fare ulteriori esperienze, anche sconvolgenti, per

continuare a crescere, per non avere più paura.

Nella versione dei fratelli Grimm, la fiaba si conclude con

la morte del lupo, dalla cui pancia un cacciatore, operando al-

cuni tagli, mette in salvo nonna e nipotina, trangugiate semivi-

ve. Nell’azione del cacciatore, la violenza ha una valenza posi-

tiva, giustificata dalla necessità di salvare la nonna e la nipoti-

na. Oltre alla funzione liberatrice, ciò che appare pure impor-

tante, nella parte aggiuntiva dei Grimm, è che Cappuccetto

riesce a salvarsi anche successivamente, con il valido aiuto

della nonna e senza bisogno dell’intervento del cacciatore, che

aveva esercitato un evidente ruolo paterno.

Significativa la conclusione della fiaba, sotto forma di dia-

logo interiore:

Mai più devi lasciare la tua strada, per correre nella foresta, quan-

do la mamma te l’ha proibito.

Essa testimonia il bisogno di lasciarsi guidare da “figure

adulte” che rappresentano e incarnano valori universali, e po-

co importa che siano il padre e la madre, per poter crescere ed

affrontare le diverse problematiche esistenziali.

La decisione di tradurre la terza fiaba dei Grimm, Storia di

uno, che se ne andò in cerca della paura, titolata da Gramsci

Storia di uno, Giovannin Senzapaura, che partì di casa per im-

124 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

parare cos’è la pelle d’oca si pone in relazione con alcune espe-

rienze esistenziali ed intellettuali da cui Egli stesso non riuscì a

sottrarsi. Altra ragione potrebbe risiedere nelle vicende biogra-

fiche del lontano 1917, quando il giovane giornalista sardo, an-

cora in forza alla redazione torinese dell’Avanti!, utilizzò l’im-

magine di quel contadinello “sempliciotto”, per un ironico ed

assai pungente articolo contro l’allora sindaco di Torino Teofi-

lo Rossi7, il quale veniva accusato di comportamento sciocco

ed ipocrita a causa della propria decisione di imporre alla po-

polazione le tessere annonarie quando, già, da giorni, le risorse

alimentari erano assai scarse.

Viene da chiedersi a quale Giovannin Senzapaura voglia al-

ludere Gramsci: forse a quel Giovannin che è se stesso durante

l’infanzia, che si era costruito un “abito di freddezza”, facendo

ricorso a quelle difese che gli permisero di sembrare molto

più forte di quello che fosse, costruendosi una personalità te-

nace, ma arida come una “selce” (così si autodefinisce in una

lettera datata 26 marzo 1928, indirizzata alla madre)?

O forse a se stesso, adulto, consapevole di non aver del tut-

to rimosso le sue angosce sessuali, se pensiamo a quella let-

tera nella quale si legge «sono abituato a pensare che esista

una impossibilità assoluta, quasi fatale, a che io possa essere

amato»8?

7 A. Gramsci, Le tessere e la favola del furbo, in “Avanti!”, 28 febbraio 1917.

L’articolo è incluso in A. Gramsci, La città futura, Einudi, Torino 1982. 8 Lettera del 13 febbraio 1923 da Mosca.

C’era una volta… le fiabe dei Fratelli Grimm 125

Il protagonista della fiaba dei Grimm è temerario più per

condanna che per virtù, si induce a conoscer la pelle d’oca ma,

nonostante l’incontro con gatti e cani neri, cadaveri penzolanti

e teschi rotolanti, il suo animo non conosce paura.

Ed alla fine della fiaba, attraverso il superamento di prove e

pericoli, Giovannin Senzapaura vince ogni sorta di insicurez-

za e si riappropria della sua vera identità; epilogo ironico e

ambiguo, che consente al protagonista di conoscere la “pelle

d’oca” come reazione al contatto con un secchio d’acqua gelata

e non come paura effettiva.

L’ultima parte della raccolta di fiabe dei Grimm tradotte da

Gramsci, presenta il ciclo tematico dello “sposo animale”, una

serie di racconti caratterizzati da un elemento comune: uno

dei due protagonisti si presenta in un primo momento sotto le

spoglie di animale, per poi assumere, nell’epilogo, le sembian-

ze di essere umano.

Tra questi racconti si colloca Il principe ranocchio o Enrico

di ferro che Gramsci trasforma in Il principe dei ranocchi, e-

liminando “o Enrico di ferro”, che fra l’altro riguarda un per-

sonaggio marginale della vicenda, il fedele servo del re.

Un’altra variante è la soppressione dell’incidentale «quando

desiderare serviva ancora a qualche cosa», decisione significa-

tiva dal momento che l’incanto delle fiabe risiede proprio nel-

la capacità che esse hanno di trasformare i desideri in realtà.

La fiaba racconta della più giovane figlia di un Re che, per

obbedire al padre, accetta di mantenere la promessa di trattare

come essere umano e di tenere con sé, il ranocchio che le ave-

126 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

va riportato la pallina d’oro che le era sfuggita dalle mani ed

era caduta nello stagno.

Gli elementi significativi che emergono dall’ analisi di que-

sta fiaba sono tanti. Le parole del Re alla figlia:

Quel che hai promesso, devi mantenerlo; và dunque e apri […]

Non devi disprezzare chi ti ha aiutato nel momento del bisogno.

Nella fiaba non mancano gesti e momenti di tenerezza:

Ella prese la bestia, la portò di sopra e la mise in un angolo.

né momenti di estrema crudeltà:

La principessa andò in collera, lo prese e lo gettò con tutte le sue

forze contro la parete: — Adesso starai zitto, brutto ranocchio!

Ed ecco che il ranocchio si trasforma in un bellissimo

Principe dagli occhi ridenti: la fiaba si carica di magia.

E non è l’epilogo delle nozze, afferma Bettelheim, che ca-

ratterizza una fiaba come questa, bensì il superamento del-

l’aspetto ripugnante ed animalesco che può assumere il sesso,

che in questo racconto è simboleggiato dal ranocchio.

Bettelheim evidenzia alcune caratteristiche tipiche del ci-

clo dello “sposo–animale”: si ignora come e perché lo sposo

sia stato trasformato in animale; la responsabile della meta-

morfosi è solitamente una strega che, tuttavia, non viene puni-

ta per i suoi misfatti; altro elemento caratterizzante è il padre,

C’era una volta… le fiabe dei Fratelli Grimm 127

che obbliga o spinge la protagonista ad unirsi alla “bestia”, ed

ella accetta per obbedienza o per amore verso il genitore.

Nelle fiabe di questo ciclo, inoltre, le madri, apparentemen-

te assenti, sono presenti sotto le sembianze della strega, che

spinge la bambina a guardare al sesso come a qualcosa di be-

stiale. E se torniamo con il pensiero al nostro, non lontano,

passato, non ci può sfuggire che per molti genitori il sesso era

considerato un tabù, reso lecito unicamente dal vincolo ma-

trimoniale.

Le riflessioni di Bettelheim trovano riscontro anche nella

fiaba La Bella e la Bestia, attraverso le parole della Bestia:

Una fata cattiva mi aveva condannato a rimanere sotto quelle

sembianze, finché una vergine bellissima non avesse acconsentito a

sposarmi.

E se alla fine della storia la strega che trasforma lo sposo in

animale non viene punita, ciò è dovuto a quello scenario del-

l’educazione, ove, in un modo o nell’altro, entrambi i genitori

— non solo la madre — inducono il bambino a guardare al

sesso come qualcosa di animalesco: dal momento che tale

“scelta educativa” viene ritenuta naturale, è inevitabile che es-

sa non vada punita.

Una teoria che potrebbe risultare interessante riguarda

l’evoluzione della specie: essa ci riporta al millenario lonta-

nissimo mondo animale, del quale l’uomo — “antico animale”

— fa parte, per condurci attraverso una lunga e differenziata

evoluzione storica, ad un passato non troppo lontano in cui

128 PARTE III – Antonio Gramsci: teorico della traduzione

l’“antico animale” è diventato un “animale sociale”, consape-

vole di quanto sia importante il rapporto con tutti gli altri es-

seri viventi. Si può ipotizzare che tale teoria abbia, in qualche

modo, indotto Gramsci ad ulteriori riflessioni, dal momento

che, consapevole dei conflitti che Egli stesso aveva vissuto nel-

la sfera dei rapporti sessuali di coppia e nell’ambito della fa-

miglia, non si ferma a ricercare una soluzione a tali problemi,

ma va ben oltre: deve lottare per uscire dal contesto culturale

chiuso e provinciale della sua Sardegna, fino a scontrarsi con

la realtà industriale di Torino, durante gli anni degli studi uni-

versitari e della sua attività giornalistica.

Per Gramsci è naturale ricorrere ad apologhi e metafore le-

gate al mondo della natura. Non è soltanto una polemica nei

confronti della stampa borghese, reazionaria e clericale, ma è

anche un modo per colorare ed arricchire il suo immaginario

di scrittore e di “giornalista libero”:

Io sono nato in villa per grazia del destino. Sono un inurbato, e ne

sono lietissimo, perché ho accumulato nella mia infanzia di monel-

lo tante esperienze e tante sensazioni che un ragazzo nato in città

non può neppure immaginare…

Per esempio, non può immaginare il piacere che si prova quando

dopo una serata di scalmana sotto il solleone semitropicale, si ri-

torna a casa tirandosi dietro una mezza dozzina di cornacchie stra-

mazzanti e rabbiose; non può immaginare il piacere che si prova a

stare in agguato dietro un fosso, dietro un mucchio di paglia,

quando l’orizzonte si picchietta di nero per una volata di neri uc-

cellacci, e questi piombano nell’aia abbandonata e saltellano nella

pula con le loro mosse sgraziate, e dopo aver abboccato all’esca

C’era una volta… le fiabe dei Fratelli Grimm 129

preparata (una fava legata ad un sasso con un cordino) cercano di

divincolarsi, gracchiando, stridendo, con quella loro vociaccia di

malaugurio.

Chi non immagina il piacere che si prova a queste monellesche av-

venture, non può immaginare neppure il piacere che io provo agli

starnazzamenti, ai dimenamenti sgraziati di quel buacciolo che nel

Momento, da un paio di giorni, suona la campana a gloria per la

nostra fuga, per la nostra sconfitta. Poverino! Abbiamo voluto di-

vertirci un po’, e ci siamo riusciti.9

9 Le cornacchie e il buacciolo, in “Cronache torinesi 1913–1917”, Torino

1980.

131

PARTE QUARTA

Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

133

Gramsci scrittore per l’infanzia

Oltre alle traduzioni delle fiabe dei Grimm, il contributo

più noto che Gramsci ha lasciato nell’ambito della Letteratura

per l’infanzia è rappresentato da brevi racconti e novelline dis-

seminati in tutta la sua produzione epistolare indirizzata ai fi-

gli Delio e Giuliano.

Non sono “fiabe” quelle che Gramsci scrive ai suoi bambi-

ni; lui non vuole popolare la loro fantasia di fate e folletti; i

suoi sono racconti di vita vissuta, sono esperienze e ricordi

della sua infanzia, espressione di un lavoro intellettuale carico

di affettività. Si tratta principalmente di storie popolari legate

alla sua amata Sardegna e di stralci biografici riguardanti la

sua infanzia di “monello”. L’esposizione è condotta con uno

stile semplice, efficace e diretto, grazie anche ad un “ritmo”

narrativo sempre costante ed alla capacità di catturare facil-

mente l’attenzione del lettore.

È innegabile che la sua attività giornalistica, con tutte le e-

sigenze mediatiche e le sue peculiari modalità linguistiche,

abbia influenzato in maniera significativa lo stile narrativo di

Gramsci.

134 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

Egli, infatti, nella maggior parte dei casi tralascia la descri-

zione degli ambienti come semplice preambolo introduttivo

delle storie e dedica ampio spazio alle azioni, alle dinamiche

e ai processi che determinano talune situazioni e agli aspetti

emozionali dei protagonisti.

Fanno eccezione alcuni racconti di natura biografica riferiti

in gran parte alla sua infanzia: al bambino che si diverte a sco-

prire i ricci sotto il melo dell’orto, che, per ore, accovacciato

su una roccia, osserva quella specie di lago che si forma lungo

le vallate del fiume Tirso e le gallinelle che escono dai canne-

ti, o i pesci che, saltando, cacciano le zanzare…; al bambino

che ama alcune piccole bestiole che costituiscono lo scenario

della sua modesta e tranquilla esistenza, che si diverte a co-

struire velieri, consentendo così alla fantasia ed al desiderio

interiore di potersi affermare. Si tratta di racconti in grado di

offrire al giovane lettore un bellissimo ed assai coinvolgente

scorcio della Sardegna di inizio secolo; sono lo specchio di

uno dei luoghi più suggestivi del nostro Mediterraneo, una

terra che, ancora oggi come cent’anni fa, rimane sospesa tra la

modernità incalzante e la tradizione rurale, tra la globalizza-

zione e l’amore incondizionato per la propria lingua, le pro-

prie radici e le proprie tradizioni.

Ma riflettono anche l’immagine dell’animo di Gramsci, un

intellettuale progressista della Torino postbellica e neo–indu-

strializzata con lo sguardo verso la neonata Unione Sovietica

ancora non corrotta dagli orrori staliniani, e con il cuore

tenacemente saldato alla sua Ghilarza.

135

Quando scrivere diventa racconto

I racconti di Sardegna, disseminati nelle Lettere ai figli De-

lio e Giuliano, alla moglie Giulia, alla cognata Tania… oltre a

voler trasmettere le esperienze della sua infanzia con una na-

turalezza comunicativa e secondo forme che erano appartenu-

te alla tradizione orale del passato, rappresentano una sfida

all’usura del tempo, al “velo della memoria”.

Gramsci scrive e racconta con partecipazione emotiva e con

estrema consapevolezza la sua infanzia, esercitando nel con-

tempo una funzione pedagogica che da un lato sottolinea quel-

la “paternità vivente” tante volte ricorrente nei suoi scritti,

dall’altro testimonia la sua attenta sensibilità e il suo impegno

etico verso il delicato mondo dell’infanzia e dell’adolescenza.

Dai Quaderni e dalle Lettere dal carcere emerge l’uomo co-

noscitore della Letteratura, della Storiografia sulla Sardegna,

della Storia… l’esperto “affabulatore” che, quale “custode del

tempo”, affida ai figli, agli adolescenti, ai giovani il difficile

compito di custodire e trasmettere le antiche memorie. Egli

crea, attraverso semplici narrazioni, un clima di compar-

tecipazione, di appartenenza e, nel contempo, di attualizza-

136 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

zione del passato. Appare dunque che il ruolo dello scrittore si

intrecci con quello del narratore, che da un lato commenta i

significati e il valore degli eventi e delle esperienze vissute,

dall’altro riflette sulle implicazioni soggettive di un “percorso

compiuto” che prende corpo e sopravvive attraverso il “rac-

contare e raccontarsi”… Allora accade qualcosa di suggestivo,

di magico: le leggende, i miti, i racconti, radicati nell’imma-

ginario popolare, si mescolano alle esperienze ghilarzesi e si

rivestono di iridescenze fiabesche.

È altresì importante evidenziare che la rivisitazione delle

brevi narrazioni gramsciane permette di tracciare un profilo

di ricerca alternativo a quello tradizionale, formalmente più

legato all’analisi dei Quaderni. Ciò che emerge è sì l’immagine

di un grande intellettuale, ma anche più semplicemente di un

uomo di grande sensibilità, testimoniata dal suo profondo

amore per la natura, per gli animali; questi ultimi sono, infatti,

spesso protagonisti delle narrazioni, come si evince dalla sto-

ria de I due passerotti:

Ti racconterò la storia dei miei passerotti1. Devi dunque sapere che

ho un passerotto e che ne ho avuto un altro che è morto, credo

1 «Gramsci amava profondamente le bestie» ricorda Leonida Rèpaci che lo

conobbe negli anni torinesi. «Tra le bestie egli prediligeva gli uccelli, e infat-ti una delle sue soste preferite, se passava sotto i portici, era la vetrina di uc-celli che sorgeva in una botteghina di legno davanti all’albergo Europa; là, più straordinari esemplari di bestie imbalsamate si alternavano con quelli vivi nelle voliere che pigliavano la luce del sole dalla parte di Piazza Castello. Non posso dimenticare gli occhi umanissimi, pieni di dolce fantasticheria, di Gramsci, mentre guardava le bestioline vive e morte» (L. Rèpaci, Ricordo di Gramsci, Macchia, Roma 1942).

Quando scrivere diventa racconto 137

avvelenato da qualche insetto (blatta o un millepiedi). Il primo

passerotto era molto più simpatico dell’attuale.

Dal racconto2 emerge il sommesso colloquio con le “cose”

quotidiane che assume nella realtà carceraria un valore meta-

fisico. La vera sofferenza di Gramsci è la consapevolezza di

poter definire con nettezza oggettiva il suo presente e di essere

invece costretto a vivere l’“assenza” sia degli affetti che della

vita sociale. Quindi una condizione esistenziale drammatica

di fronte alla quale l’uomo–Gramsci può trasformare il pro-

prio dolore in scrittura e i due particolari “compagni” di cella

possono essere gli strumenti della rappresentazione conflit-

tuale dell’anima divisa eternamente tra bene e male.

La narrazione della vita dei due passeri avviene su due livel-

li differenti sia per l’uso del tempo narrativo, che alterna pas-

sato/presente, sia per gli elementi antitetici usati nella descri-

zione. Da una parte il primo passerotto:

Era molto fiero e di grande vivacità.

Dall’altra:

L’attuale è modestissimo, di animo servile e senza iniziativa.

Le parole di Gramsci riportano alla memoria i versi leo-

pardiani del Passero Solitario:

2 Lettera n. 40, 8 agosto 1927, a Tania.

138 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

D’in su la vetta della torre antica

passero solitario alla campagna

cantando vai finché non more il giorno

ed erra l’armonia per questa valle.

Ma, mentre nella poesia di Leopardi il passero si distacca

dai suoi simili e “dalla vetta della torre antica” osserva quel

che accade…, nel suo racconto, Gramsci, attraverso i due pas-

seri, diviene osservatore di se stesso, intimamente sdoppiato

in spettatore e attore:

Il primo divenne subito padrone della cella. Credo che avesse uno

spirito eminentemente goethiano, come ho letto in una biografia a

proposito dell’uomo biografato. Ueber all Gipfeln. Conquistava tut-

te le cime esistenti nella cella e quindi si assideva per qualche mi-

nuto ad assaporarne la sublime pace.

Salire sul tappo di una bottiglietta di tamarindo era il suo perpe-

tuo assillo; e perciò una volta cadde in un recipiente pieno dei ri-

fiuti della caffetteria e fu lì lì per affogare.

Ciò che mi piaceva in questo passero è che non voleva essere toc-

cato. Si rivoltava ferocemente, con le ali spiegate e beccava la ma-

no con grande energia. Si era addomesticato, ma senza permettere

troppe confidenze. Il curioso è che la sua relativa familiarità non

fu graduale, ma improvvisa. Si muoveva per la cella, ma sempre

all’opposto a me. Per attirarlo gli offrivo una mosca in una scato-

letta di fiammiferi; non la prendeva se non quando io ero lontano.

Una volta, invece di una nella scatoletta erano cinque o sei mo-

sche; prima di mangiarle danzò freneticamente intorno per qual-

che secondo; la danza fu ripetuta sempre per le mosche numerose.

Un mattino, rientrando dal passeggio, mi trovai il passero vicinis-

simo; non si staccò più, nel senso che da allora mi stava sempre vi-

Quando scrivere diventa racconto 139

cino, guardandomi attentamente e venendo ogni tanto a beccarmi

le scarpe per farsi dare qualcosa. Ma non si lasciò mai prendere in

mano senza rivoltarsi e cercare subito di scappare.

È morto lentamente, cioè ha avuto un colpo improvviso, di sera,

mentre era accovacciato sotto il tavolino, ha strillato proprio come

un bambino, ma è morto solo il giorno dopo: era paralizzato dal

lato destro e si trascinava penosamente per mangiare e bere, poi di

colpo morì.

Il primo compagno di cella, se pure si presta ad essere in-

terpretato attraverso i versi goethiani:

Su tutte le vette / regna la calma / tra le cime

degli alberi / non avverti spirare un alito / nel bosco

gli uccellini stanno silenziosi. / Aspetta un poco!

Presto / anche tu avrai riposo,

presenta molte affinità con il carattere “sardesco” di Gramsci:

il suo “beccare” e il “rivoltarsi” rispecchiano la volontà di ri-

bellarsi all’abbrutimento del carcere. Allegoricamente questo

passero diviene la rappresentazione dell’ego del carcerato: per

una tragica coincidenza Gramsci morirà paralizzato al «lato

sinistro, braccia e gamba» dopo «un ultimo respiro rumoroso

e sopravvenne il silenzio senza rimedio».

“L’attuale passero” viene invece definito da Gramsci “di una

domesticità nauseante”:

vuole essere imboccato, quantunque mangi da sé benissimo; viene

sulla scarpa e si mette nella piega dei calzoni: se avesse le ali intiere

volerebbe sul ginocchio; si vede che vuol farlo perché si allunga,

140 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

freme, poi va sulla scarpa. Penso che morirà anch’esso, perché ha

l’abitudine di mangiare le capocchie bruciate dei fiammiferi oltre

al fatto che il mangiare sempre pane mollo deve procurare a questi

uccellini dei disturbi mortali. Per adesso è abbastanza sano, ma

non è vivace; non corre, sta sempre vicino e si è già involontaria-

mente preso alcune pedate.

Lo stato d’animo di questo particolare detenuto inquieta

Gramsci che, come spettatore ne percepisce l’indolenza, la

mancanza di interesse e il rifiuto all’impegno.

Sempre in chiave allegorica, le definizioni attribuite al pas-

sero riflettono il particolare stato dell’alter ego di Gramsci, la-

cerato dall’accidia del carcere che logora lentamente la mente

e il corpo. L’alter ego è logorato fino al “servilismo”, caduto in

uno stato d’animo di passività che sovrasta l’ego e i suoi estre-

mi tentativi di combattere il distacco dalla vita:

Ed ecco la storia dei miei passerini.

Entrambi rappresentano il dramma di essere travolto e

schiacciato dal sistema carcerario: Gramsci avverte il fuoco

della vita troppo lontano, ne può ricevere la luce, ma non il

calore, i fiammiferi sono quindi inservibili contro l’oblìo car-

cerario che si insinua attraverso lo sdoppiamento per arrivare

alla disgregazione dell’essere. Tuttavia Egli unisce in sé le due

anime contraddittorie, “fiera e modestissima”, e nonostante le

sue ali siano state tarpate, il suo pensiero, attraverso la lettura

e la scrittura, vive nella memoria storica degli uomini.

141

“Avventura natalizia”: un racconto nel racconto

(Lettera a Tania – 26 dicembre 1927)

Si tratta di una lettera particolare: un racconto nel raccon-

to, scritta nel periodo natalizio durante la detenzione di

Gramsci nel carcere milanese.

Egli racconta a Tania due episodi: il primo legato al suo

presente e, quindi, alla sua difficile condizione di detenuto; il

secondo, invece, riguarda il passato, un divertente episodio

della sua adolescenza1.

Nella prima parte della Lettera, Gramsci descrive il giorno

di Natale all’interno del carcere: esso viene vissuto come un

“evento straordinario”, colmo di attese, di speranze, di slan-

ci…; un susseguirsi di attimi e di gesti che rendono tutto più

umano e vitale.

Ma, per molti, l’eccezionalità consiste soltanto in una ra-

zione di cibo diversa dal solito:

1 Nell’edizione L’albero del riccio di G. Ravegnani la lettera viene errone-

amente indirizzata a Delio e a Giuliano.

142 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

Una porzione di pasta asciutta e un quarto di vino che l’ammini-

strazione passa tre volte all’anno invece della solita minestra: ma

che avvenimento importante è questo, tuttavia.

Non credere che io me ne diverta o ne rida. L’avrei fatto, forse,

prima di aver fatto l’esperienza del carcere. Ma ho visto troppe

scene commoventi di detenuti che si mangiavano la loro scodella

di minestra con religiosa compunzione, raccogliendo con la molli-

ca di pane anche l’ultima traccia di unto che poteva rimanere at-

taccata alla terraglia! Un detenuto ha pianto perché in una caserma

di Carabinieri, dove eravamo di transito, invece della minestra re-

golamentare, fu distribuita solo una doppia razione di pane; era da

due anni in carcere e la minestra calda era per lui il suo sangue, la

sua vita.

Si capisce perché nel Pater Noster è stato messo l’accenno al “pane

quotidiano”2.

Le parole di Gramsci esprimono una duplice tensione emo-

tiva: l’amarezza e lo sdegno per la reale durezza a cui sono sot-

toposti i detenuti; la profonda sofferenza che Egli prova per

quelle immagini che desidera cancellare dalla sua mente.

Tuttavia, quasi a voler dimenticare le sue angosce, decide di

raccontare un episodio “quasi natalizio della sua fanciullez-

za”…

Avevo quattordici anni e facevo la 3a ginnasiale a Santulussurgiu,

un paese distante dal mio circa 18 chilometri e dove credo esista

ancora un ginnasio comunale, in verità molto scalcinato.

2 LC.

“Avventura natalizia”: un racconto nel racconto 143

Con un altro ragazzo, per guadagnare 24 ore in famiglia, ci met-

temmo in istrada a piedi il dopo pranzo del 23 dicembre invece di

aspettare la diligenza del mattino seguente.

Cammina, cammina, eravamo circa a metà viaggio, in un posto

completamente deserto e solitario; a sinistra, un centinaio di metri

dalla strada, si allungava una fila di pioppi con delle boscaglie di

lentischi3.

Non mancano, nel racconto, elementi che sono propri della

fiaba:

Cammina cammina, la fila di pioppi con della boscaglia di lenti-

schi, gli spari ripetuti di un fucile, il silenzio della notte, la casa…

Lo scenario entro il quale si snodano le azioni creano una

sorta di suspense nel lettore, che si sente immerso in questo

viaggio avventuroso e fantastico, ma … colpo di scena:

Ci spararono un primo colpo di fucile in alto sulla testa; la pallot-

tola fischiò a una decina di metri in alto.

Credemmo a un colpo casuale e continuammo tranquilli. Un se-

condo ed un terzo colpo più bassi ci avvertirono subito che erava-

mo proprio presi di mira e allora di buttammo nella cunetta, rima-

nendo appiattiti per un pezzo.

Quando provammo a sollevarci, altro colpo e così per circa due o-

re… con una dozzina di colpi che ci inseguivano, mentre ci allon-

tanavamo strisciando, ogni volta che tentavamo di ritornare sulla

3 Ibidem.

144 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

strada. Certamente era una comitiva di buontemponi che voleva

divertirsi a spaventarci; ma che bello scherzo, eh?4

L’atteggiamento di Gramsci appare indubbiamente ironico

nei confronti del racconto («ma che bello scherzo, eh?»), ma

nel contempo dalle sue parole traspare una sorta di orgoglio

fanciullesco per aver condiviso “eroicamente” con il suo com-

pagno di viaggio il segreto di quella avventura natalizia:

Arrivammo a casa a notte buia, discretamente stanchi e infangati e

non raccontammo la storia a nessuno per non spaventare la fami-

glia, ma ci spaventammo granché, perché alle prossime vacanze di

Carnevale il viaggio a piedi fu ripetuto senza incidenti di sorta5.

E sottolineano fermamente la veridicità dell’evento.

Ma la storia è proprio vera; non è affatto una storia di briganti!6

4 Ibidem. 5 Ibidem. 6 Ibidem.

145

“Che farò da grande?”

(Lettera a Tania – 2 gennaio 1928)

Questa Lettera, indirizzata alla cognata Tania, è un mirabile

intreccio tra presente e passato, fra la sofferenza dell’adulto

che vede i suoi sogni “ingabbiati” (vorrebbe, ma non riesce a

fare progetti per il futuro):

Bisognerebbe fare dei programmi di vita nuova, secondo l’usanza;

ma per quanto abbia pensato un tale programma non sono riuscito

a combinarlo

e le aspirazioni che accompagnano il bambino fin dai primi

anni di attività “raziocinante”.

Anche Gramsci da bambino sarà stato «grande architetto

dalle mani piccine che ha saputo mescolare l’acqua del desi-

derio con la terra della possibilità… senza mai rinunciare alla

fantasia»1 se, da adulto, attinge al suo passato e alla sua espe-

rienza scolastica per raccontare di “una questione ardua” che

1 M.R. Parsi, Pensiero Bambino, Mondadori, Milano 1991.

146 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

egli dovette affrontare all’età di otto anni e che pensò di risol-

vere scegliendo la professione del “carrettiere”.

«Nelle scuole elementari ogni anno, di questi tempi asse-

gnavano come tema di componimento la questione: “Che cosa

farete nella vita”».

Egli riteneva che la professione del carrettiere racchiudesse

in sé tutte le caratteristiche dell’utile e del piacevole:

Schioccava la frusta e guidava i cavalli, ma nello stesso tempo

compiva un lavoro che nobilitava l’uomo e gli procurava il pane

quotidiano.

Sono immagini che ritraggono luoghi, cose e persone che

appartengono a quel mondo semplice che ha fatto da cornice

all’infanzia di Gramsci.

Più tardi saranno aspirazioni e desideri mutevoli: vulnera-

bili e capricciosi come i pensieri dei bambini, come i loro

giochi e le loro fantasie…; e non ci sorprenderà se nella stessa

Lettera si legge che la più viva aspirazione di Gramsci–bam-

bino era quella di diventare un usciere di Pretura:

Perché in quell’anno era venuto nel mio paese, come usciere della

pretura, un vecchio signore che possedeva un simpaticissimo cagnet-

to nero sempre in ghingheri: fiocchetto rosso alla coda, gualdrappina

sulla schiena, collana verniciata, finimenti da cavallo in testa.

Ma dovrà rinunciare, non senza rammarico, ad essa perché

durante la Scuola Elementare il suo studio si era limitato alle

“Che farò da grande?” 147

nozioni di “diritti e doveri del cittadino” contenute nel libro

di testo, tralasciando la conoscenza degli “ottantaquattro arti-

coli dello Statuto”; tutto questo per lui era imperdonabile e

rendeva irrealizzabile anche il desiderio di possedere quel

meraviglioso cagnolino che rappresentava un tutt’uno con il

suo padrone, l’usciere di Pretura.

Io proprio non riuscivo a dividere l’immagine del cagnetto da quel-

la del suo proprietario e dalla professione sua. Eppure rinunziai,

con molto rammarico, a cullarmi in questa prospettiva che tanto

mi seduceva. Ero di una logica formidabile e di una integrità mora-

le da fare arrossire i più grandi eroi del dovere.

Sì, mi ritenevo degno di diventare usciere di pretura e, quindi, di

possedere cagnetti così meravigliosi: non conoscevo a memoria gli

84 articoli dello Statuto del regno!

Anche l’episodio riferito al corteo commemorativo al quale

Egli pure aveva partecipato, con in mano un lampioncino ve-

neziano, gridando insieme agli altri: «Viva il leone di Caprera!

Viva il morto di Staglieno!»2, lo aveva segnato profondamente

fino a renderlo consapevole dei propri limiti nell’ambito legi-

slativo.

Queste riflessioni lo spingeranno ad esaltare ancora una

volta le caratteristiche del semplice carrettiere che «può avere

2 Per tutti gli Italiani il “leone di Caprera” è Giuseppe Garibaldi e il “mor-

to di Staglieno” è Giuseppe Mazzini. Staglieno è il cimitero di Genova che accoglie la tomba e il monumento a Mazzini.

148 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

un cane anch’egli, sia pure senza fiocchetto e senza gualdrap-

pa».

Nella parte conclusiva Gramsci affronta in modo serio e ri-

goroso la “formazione dell’uomo e del cittadino” intesa come

presa di coscienza delle problematiche che investono la socie-

tà: dalle Leggi costituzionali a quelle socio–economiche.

Avverte i limiti di una scuola rigida e precostituita nei Pro-

grammi, scarsamente ancorata alla realtà che crea inevitabili

ripercussioni negative in chi “ha una vigile coscienza del do-

vere” ed auspica che le “idee” possano tradursi in “azione” e la

“ricchezza inventiva” dell’uomo possa agire sulla realtà già e-

sistente, nel tentativo di modificarla.

«Cara Tania, ti pare che abbia un po’ menato il can per l’aia?

Ridi e perdonami».

È una citazione che traduce la profonda amarezza dello

scrittore, che può descrivere il rapporto che si instaura tra la

vita individuale e le “leggi storiche” che regolano e modifica-

no la realtà, ma avverte e sa di non poter realizzare progetti fu-

turi.

Invita Tania a sorridere ed intanto si rifugia nei ricordi del

passato, quasi a voler ripercorrere le attese e le speranze che

hanno caratterizzato la sua infanzia.

149

“Il topo e la montagna”

(Lettera a Giulia – 1° giugno 1931)

Il tema centrale di questa lettera è l’interesse di Delio per i

racconti di Puskin (1799–1837), uno dei massimi rappresen-

tanti della Letteratura russa, noto per il suo spirito libero ed

anticonformista, per il suo temperamento romantico, ma so-

prattutto per quella sua forza innovatrice nell’ambito lettera-

rio, capace di ritrarre con grande realismo il volto del mondo

russo, al punto da imporlo come modello classico a tutta la

cultura successiva:

Tania mi ha trasmesso l’“epistola” di Delio (adopero la parola più

letteraria) con la dichiarazione del suo amore per i racconti di Pu-

skin e per quelli che si riferiscono alla sua vita giovanile.

Mi è piaciuta molto e vorrei sapere se questa espressione l’ha pen-

sata Delio spontaneamente o se si tratta di una reminescenza lette-

raria. Vedo anche con una certa sorpresa che adesso tu non ti spa-

venti delle tendenze letterarie di Delio; mi pare che una volta eri

persuasa che le sue tendenze fossero piuttosto da… ingegnere che

da poeta, mentre ora prevedi che leggerà Dante addirittura con

amore.

150 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

Io spero che non avverrà mai, pur essendo molto contento che a

Delio piaccia Puskin e tutto ciò che si riferisce alla vita creativa

che sbozzola le prime forme.

Gramsci affronta in modo ricorrente tematiche legate alla

creatività dei bambini e alla formazione dei giovani, preoccu-

pandosi di sottolineare la necessità che l’uomo, qualunque età

abbia, non sprofondi nella passività intellettuale.

Ribadisce l’importanza della lettura dei classici, pur soste-

nendo che occorre un certo distacco da parte del lettore se si

vogliono acquisire gradualmente quei valori estetici di cui essi

sono rappresentativi.

Dal suo punto di vista si ama il “proprio” poeta, si ammira

l’artista in generale; ma l’amore per la lettura, se pure è ade-

sione al contenuto ideologico della poesia, è anche, a mio av-

viso, quella sorta di “magia” che nasce tra l’autore ed il lettore

ed, ancora, è l’incanto che nasce dal susseguirsi delle parole

che scorrono sotto il nostro sguardo, stimolano i nostri sensi,

alimentano la nostra fantasia… e tutto prende corpo fino ad

apparire reale.

Anche il piccolo Delio predilige i racconti fantastici ed ama,

come tutti i bambini, correre sulle ali della fantasia, ma ciò, ag-

giunge Gramsci, non esclude che da grande egli possa diventare

un grande ingegnere o un costruttore di grattacieli…

Dunque, sono contento che Delio ami le opere di fantasia e fanta-

stichi anche per conto proprio; non credo che, perciò, egli non

possa diventare lo stesso un grande “ingegnere” costruttore di grat-

“Il topo e la montagna” 151

tacieli o di centrali elettriche, anzi. Puoi domandare a Delio, da

parte mia, quali racconti di Puskin ama di più; io veramente ne

conosco solo due: Il galletto d’oro e Il pescatore. Conosco, poi, la

storia della “catinella” con cuscino che salta come un ranocchio, il

lenzuolo che vola via, la candela che va balzelloni a nascondersi

sotto la stufa, ecc.; ma non è di Puskin.

Te ne ricordi?

È palese in Gramsci il continuo tentativo di costruire un

“ponte” tra la tradizione favolistica russa e quella sarda, e vi

riesce raccontando ai figli le “storie” ascoltate durante

l’infanzia:

Vorrei raccontare a Delio una novella del mio paese che mi pare

interessante. Te la riassumo e tu gliela svolgerai, a lui e a Giuliano.

Obbligato a tradurre l’oralità in scrittura, riesce a conserva-

re e a tradurre la struttura dinamica della narrazione e a “sin-

tetizzarla”nel racconto Il topo e la montagna:

Un bambino dorme. C’è un bricco di latte pronto per il suo risve-

glio. Un topo si beve il latte. Il bambino, non avendo il latte, strilla

e la mamma strilla. Il topo disperato si batte la testa contro il mu-

ro1, ma si accorge che non serve a nulla e corre dalla capra per a-

vere il latte.

1 Nell’edizione L’albero del riccio di G. Ravegnani c’è un errore di trascri-

zione: «e la mamma che non serve a nulla corre dalla capra per avere il lat-te».

152 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

Il protagonista della storia è dunque un topo, che inizial-

mente si appropria per istinto del latte del bambino, poi le ur-

la lo portano a pentirsi e a rimediare al danno causato.

L’azione del topo innesca una vera e propria catena di soli-

darietà:

La capra gli darà il latte se avrà l’erba da mangiare. Il topo va dalla

campagna per l’erba e la campagna arida vuole acqua.

Il topo va alla fontana. La fontana è stata rovinata dalla guerra e

l’acqua si disperde: vuole il mastro muratore che la riattivi.

Il topo va dal mastro muratore: vuole le pietre. Il topo va dalla

montagna.

A questo punto la storia sta per trovare il suo epilogo e

Gramsci interviene a commentare l’incontro:

Avviene un sublime dialogo tra il topo e la montagna che è stata

disboscata dagli speculatori e mostra dappertutto le sue ossa senza

terra. Il topo racconta tutta la storia e promette che il bambino

cresciuto ripianterà pini, quercie, [sic]castagni, ecc.

Il lettore si trova immerso in un racconto delicato e poeti-

co, in cui l’amore per la natura si intreccia e si armonizza con

la solidarietà fino a diventare poesia nel meraviglioso dialogo

tra il topo e la montagna che è stata disboscata da uomini sen-

za scrupoli e mostra ormai solo il suo scheletro.

Il topo, dunque, ipotizza un processo capace di ristabilire

l’equilibrio della natura attraverso una vera e propria catena di

solidarietà.

“Il topo e la montagna” 153

Così la montagna dà le pietre ecc.2 e il bimbo ha tanto latte che si

lava anche col latte.

Cresce, pianta gli alberi, tutto muta; spariscono le ossa della mon-

tagna sotto nuovo humus, la precipitazione atmosferica ridiventa

regolare perché gli alberi trattengono i vapori e impediscono ai

torrenti di devastare la pianura ecc.

Insomma, il topo concepisce una vera e propria pjatiletka3.

È una novella propria di un paese rovinato dal disboscamento.

Il messaggio è facilmente comprensibile: tutto ruota attor-

no alla capacità di educare i bambini alla solidarietà, al rispet-

to e all’amore per la natura.

La forza del singolo, ma soprattutto la capacità di comuni-

care (si pensi al dialogo significativo tra il topo e la montagna)

possono attivare quei processi capaci di ricostruire il futuro

sulle macerie del passato.

Analizzando più a fondo questa “novellina” (come lo stesso

Gramsci la definisce) è facile cogliere in essa delle affinità con

altri generi letterari: con l’apologo, perché animali e cose ina-

nimate sono rappresentate come personaggi reali capaci di

trasmettere con vivacità ed immediatezza particolari messaggi

etici; con la parabola, perché di essa ha la semplicità e la capa-

cità di adombrare valori inseriti in un ordine universale e so-

prannaturale.

2 Metaforicamente si potrebbe considerare anche la “Teoria degli alimen-

ti” di Feuerbach. 3 Pjatiletka, in russo, “piano quinquennale”. In questo periodo (giugno

1931) Gramsci riceve l’estratto dell’“Economist” sul piano quinquennale so-vietico.

155

“Caccia alle rane”

(Lettera a Giulia – 31 agosto 1931)

Una delle cose che più mi hanno interessato nella tua lettera

dell’8–13 agosto è la notizia che Delio e Giuliano si occupano di

acchiappare le rane.

Prima di analizzare il racconto, che potremmo definire un

divertente ed esaustivo trattato sulle “rane”, mi pare interes-

sante trascrivere la parte che lo precede, per il modo spiritoso

ed epigrammatico con cui Lady Nancy Astor1 affronta e giudi-

ca il comportamento degli adulti nei confronti dei bambini

russi.

Sembrerebbe che l’eccessiva ansia di vedere puliti i bambi-

ni negherebbe loro persino il tempo, e quindi la possibilità, di

insudiciarsi.

Ancora più divertente appare lo scrittore dell’articolo citato

da Gramsci quando esprime la sua preoccupazione nei con-

1 Nancy Astor (1879) fu la prima donna eletta alla Camera dei Comuni (1919). Appartenente al partito conservatore, si occupò dei problemi sociali della donna e dell’infanzia. Il viaggio nell’Unione Sovietica di Shaw, lord Lo-thian e la Astor era avvenuto nella seconda quindicina di luglio di quello stesso anno.

156 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

fronti di quei bambini che, sottoposti all’autoritarismo e alla

coercizione degli adulti, da adolescenti potrebbero tuffarsi nel

fango come reazione individuale liberatoria.

Gramsci, pur temendo che Giulia possa condividere le idee

di Lady Astor, guarda in modo positivo alla possibilità che i

figli, Delio e Giuliano, possano insudiciarsi per acchiappare

rane.

Qualche giorno fa ho visto in un articolo di rivista un giudizio di

lady Astor sul modo come in Russia sono trattati i bambini (lady

Astor accompagnò G.B. Shaw e lord Lothian nella loro recente e-

scursione): a quanto pare, dall’articolo, la sola critica che lady A-

stor muove al trattamento fatto ai bambini è questa: che i russi

sono talmente ansiosi di tener puliti i bambini, che non lasciano

loro neanche il tempo di insudiciarsi. […].

In ogni modo mi piace che Delio e Giuliano abbiano qualche op-

portunità di insudiciarsi acchiappando le rane. Vorrei sapere se si

tratta o no di rane commestibili, ciò che darebbe alla loro attività

di cacciatori un carattere pratico e utilitario da non disprezzarsi.

Le osservazioni di Gramsci hanno molte affinità con gli

studi sul “modo di vivere e di pensare” del pedagogista ameri-

cano John Dewey in merito a due concetti fondamentali: la di-

sciplina e la libertà.

Dewey considera la disciplina «qualcosa di positivo e di

costruttivo», allorquando si trasforma in «un potere di con-

trollo dei mezzi necessari per raggiungere un fine» e la defi-

nisce, senza dubbio, un «potere di valutazione e di controllo

dei fini».

“Caccia alle rane” 157

Inoltre sostiene che «l’acquisto di capacità implica pratica

ed esercizio che, tuttavia, non prendano forma di addestra-

mento privo di significato, bensì di una pratica dell’arte».

Le stesse considerazioni vengono fatte per la “libertà”, che

«non consiste nell’esplicare una non ostacolata ed ininterrotta

attività esterna, ma nel raggiungere qualcosa attraverso il su-

peramento, tramite la riflessione personale delle difficoltà che

ostacolano l’immediato sfogo nell’azione ed il successo spon-

taneo»2.

In entrambi gli autori è presente il rispetto per l’infanzia,

ma anche l’attenzione verso la funzione degli educatori.

L’educazione viene intesa da entrambi come “Filosofia del

vivere”, che persegue l’integrazione della teoria e della prassi.

Per Gramsci diventa fondamentale istituire «un tipo unico

di scuola preparatoria (elementare–media) che conduca il gio-

vane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo

nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di

dirigere o di controllare chi dirige»3.

Gramsci, oltre ad essere un attento osservatore del mondo

dell’infanzia, in questo testo si dimostra anche un “virtuoso”

conoscitore di rane:

Non so se tu vorrai prestarti, perché probabilmente avrai contro le

rane le stesse aristocratiche prevenzioni di lady Astor (gli inglesi

chiamano sprezzatamene i francesi “mangiatori di rane”), ma do-

2 J. Dewey, Come pensiamo? 3 Q 4, § 55.

158 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

vresti insegnare ai bambini a distinguere le rane commestibili dalle

altre: quelle commestibili hanno il ventre completamente bianco,

mentre le altre hanno il ventre rossastro. Si possono prendere met-

tendo nella lenza, invece dell’amo, un pezzo di cencio rosso che es-

se addentano: bisogna avere un brocchetto e metterle dentro dopo

aver tagliato loro, con le forbici, la testa e le zampe.

e dell’arte culinaria, poiché fornisce autentiche indicazioni sul

modo di prepararle:

Dopo averle scuoiate, si possono preparare in due modi: per fare

del brodo squisito e in questo caso dopo averle bollite a lungo coi

soliti condimenti, si passano allo staccio in modo che tutto passi

nel brodo eccetto le ossa; oppure si friggono e si mangiano dorate

e croccanti.

In un caso o nell’altro sono un cibo molto saporito, ma special-

mente molto nutriente e di facile digestione.

Le argomentazioni di Gramsci terminano con una nota di-

vertente sul futuro dei suoi figli.

Egli sostiene che Delio e Giuliano potrebbero, fin dall’at-

tuale loro tenera età, entrare nella storia della cultura russa,

introducendo questo nuovo “alimento”, le rane, nel costume

popolare, facendo così realizzare parecchi milioni di rubli di

nuova ricchezza umana, togliendola al monopolio dei corvi,

delle cornacchie e delle serpi.

159

“L’albero del riccio”

(Lettera a Delio – 22 febbraio 1932)

Il suggestivo racconto de L’albero del riccio, contenuto in

una lettera indirizzata a Delio, è in realtà un episodio legato

all’infanzia di Gramsci, divenuto molto popolare nel secondo

dopo guerra1:

Io da ragazzo ho allevato molti uccelli e anche altri animali: falchi,

barbagianni, cuculi, gazze, cornacchie, cardellini, canarini, frin-

guelli, allodole, ecc.; ho allevato una serpicina, una donnola, dei

ricci, delle tartarughe.

Ancora una volta è evidente il tentativo, da parte dell’autore,

di accrescere l’amore e l’interesse di Delio per gli animali e

per la natura, come si evince sia dagli elementi paesaggistici

che fanno da cornice, sia dai protagonisti–animali che si avvi-

cendano in tutta la narrazione:

1 Di questo racconto l’emittente nazionale televisiva svedese SVT1 ha per-

sino realizzato una versione in cartone animato (L’albero del riccio, colore, SVT Sverige Television prd. Stoccolma 1987. Regia e disegni animati marì Marten–Bias).

160 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

Ecco come ho visto i ricci fare la raccolta delle mele.

Una sera d’autunno quando era già buio, ma splendeva luminosa la

luna, sono andato con un altro ragazzo, mio amico, in un campo

pieno di alberi da frutto, specialmente di meli.

Ci siamo nascosti in un cespuglio, controvento.

Le parole gramsciane sussurrano a Delio l’avventura affa-

scinante di una notte senza tempo. Il racconto crea un rappor-

to di complicità tra padre e figlio e aumenta la tensione del-

l’attesa di sapere cosa accade nel campo:

Ecco, a un tratto, sbucano i ricci, cinque, due più grossi e tre pic-

colini. In fila indiana si sono avviati verso i meli, hanno girellato

tra l’erba e poi si sono messi al lavoro.

La descrizione di Gramsci è minuziosa, si sofferma anche

sui più piccoli particolari per soddisfare l’immaginazione del

figlio:

Aiutandosi coi musetti e con le gambette, facevano ruzzolare le

mele, che il vento aveva staccato dagli alberi, e le raccoglievano in-

sieme in uno spiazzetto, ben bene vicine una all’altra. Ma le mele

giacenti per terra si vede che non bastavano; il riccio più grande,

col muso per aria, si guardò attorno, scelse un albero molto curvo

e si arrampicò, seguito da sua moglie.

Le parole di Gramsci “disegnano” perfettamente tutte le se-

quenze delle azioni dei ricci sotto l’albero del melo. L’estrema

precisione nel descrivere la scena (i movimenti dei ricci,

“L’albero del riccio” 161

l’atmosfera notturna, ecc.) accentua il mistero della scoperta

della natura:

Si posarono su un ramo carico e incominciarono a dondolarsi rit-

micamente; i loro movimenti si comunicarono al ramo, che oscillò

sempre più spesso, con scosse brusche e molte altre mele caddero

per terra. Radunate anche queste vicino alle altre, tutti i ricci,

grandi e piccoli, si arrotolarono, con gli aculei irti, e si sdraiarono

sui frutti, che rimanevano infilzati: chi aveva poche mele infilzate

(i riccetti), ma il padre e la madre erano riusciti a infilzare sette o

otto mele per ciascuno. Mentre stavano ritornando alla loro tana,

noi uscimmo dal nascondiglio, prendemmo i ricci in un sacchetto e

ce li portammo a casa.

Ancora una volta Gramsci ricorre a momenti divertenti e al-

legri del passato per presentare ai suoi figli uno scorcio natu-

ralistico della Sardegna:

Io ebbi il padre e due riccetti e li tenni molti mesi, liberi nel cortile;

essi davano la caccia a tutti gli animaletti, blatte, maggiolini, ecc. e

mangiavano frutta e foglie d’insalata. Le foglie fresche piacevano lo-

ro molto e così li potei addomesticare un poco; non si appallottola-

vano più quando vedevano la gente. Avevano molta paura dei cani.

Io mi divertivo a portare nel cortile delle bisce vive per vedere co-

me i ricci le cacciavano. Appena il riccio si accorgeva della biscia,

saltava lesto lesto sulle quattro gambette e caricava con molto co-

raggio. La biscia sollevava la testa, con la lingua fuori e fischiava; il

riccio dava un leggero squittio, teneva la biscia con le gambette

davanti, le mordeva la nuca e poi se la mangiava pezzo a pezzo.

Questi ricci un giorno sparirono: certo qualcuno se li era presi per

mangiarli.

162 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

Il racconto in questione rappresenta un mirabile esempio

di cooperazione intelligente e solidale tra esseri della stessa

specie: i ricci più grandi, guardandosi intorno, scelgono un al-

bero sul quale salire per scrollarlo e far cadere le mele.

Nei tre ricci si possono adombrare le sembianze di Antonio

e dei suoi figli. Ancora una volta Egli si serve della narrativa

non solo perché il ricordo di sé come padre rimanga vivo nei

figli, ma anche per continuare con loro quel dialogo che gli

consenta di “ristrutturare” il suo immaginario, ripercorrendo

le sensazioni, o per meglio dire, i vissuti della sua infanzia:

Ti scriverò un’altra volta sul ballo delle lepri e su altri animali, ti

voglio raccontare altre cose che ho visto e sentito da ragazzo: la

storia del polledrino, della volpe e del cavallo che aveva la coda so-

lo nei giorni di festa, la storia del passero e del kulak2, del kulak e

dell’asinello, dell’uccello tessitore e dell’orso, ecc.

Mi pare che tu conosci la storia di Kim; conosci anche le Novelle

della Giungla e, specialmente, quella della foca bianca e di Rikki–

Tikki–Tawi3?

E Giuliano è anche lui un udarnik4? Per quale attività?

Ti bacio Papà.

Un’ultima considerazione: i termini russi che spesso si ri-

scontrano nelle narrazioni di Gramsci hanno una duplice mo-

tivazione: la difficoltà di Delio e Giuliano, che vivono a Mo-

sca, nel comprendere la lingua italiana; e l’esigenza di coin-

2 In russo: contadino ricco. 3 Sono tutti titoli di fiabe e di libri scritti da Kipling. 4 In russo: lavoratore scelto, d’avanguardia.

“L’albero del riccio” 163

volgere Julca nel processo di crescita e di maturazione dei fi-

gli: «Perché puoi parlare loro secondo l’immagine che essi si

sono fatti di me»5.

5 LC.

165

“La volpe e il pulledrino”

(Lettera a Delio – 10 ottobre 1932)

Siamo all’interno di una lettera di Gramsci indirizzata di-

rettamente a Delio:

Ho saputo che sei stato al mare e che hai visto delle cose bellissime.

Vorrei che tu mi scrivessi una lettera per descrivermi queste bellezze. E

poi, hai conosciuto qualche nuovo essere vivente? Vicino al mare c’è

tutto un brulichio di esseri: granchiolini, meduse, stelle marine, ecc.

Gramsci trae spunto dalle immagini che Delio gli descrive

per via epistolare, per approfondire con lui tematiche legate

alla natura in generale e, nello specifico, al mare e alle mera-

vigliose creature che lo popolano.

Ed è proprio l’interesse che Delio mostra per il mondo

scientifico–naturalistico che lo spinge non solo a rivolgergli

ulteriori domande, ma anche a narrargli due nuovi racconti, al

fine di arricchire ulteriormente le sue conoscenze:

Molto tempo fa avevo promesso di scriverti alcune storie sugli a-

nimali che ho conosciuto io da bambino, ma poi non ho potuto.

166 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

Adesso proverò a raccontartene qualcuna: per esempio, La storia

della volpe e del pulledrino. Pare che la volpe sappia quando deve

nascere un polledrino e sta in agguato. E la cavallina sa che la vol-

pe è in agguato. Perciò, appena il polledrino nasce, la madre si

mette a correre in circolo intorno al piccolo che non può muoversi

e scappare se qualche animale selvatico lo assale. Eppure si vedono

qualche volta, per le strade della Sardegna, dei cavalli senza coda e

senza orecchie. Perché? Perché appena nati, la volpe, in un modo o

nell’altro, è riuscita ad avvicinarsi ed ha mangiato loro lo coda e le

orecchie ancora molli molli.

Quando io ero bambino uno di questi cavalli serviva a un vecchio

venditore di olio, di candele e di petrolio, che andava di villaggio

in villaggio a vendere la sua merce (non c’erano, allora, cooperative

né altri modi di distribuire la merce), ma di domenica, perché i

monelli non gli dessero la biada, il venditore metteva al suo cavallo

coda finta e orecchie finte.

In questa prima narrazione Gramsci presenta gli aspetti ca-

ratteristici del mondo favolistico legato all’archetipo della

volpe: da una parte il coraggio della madre cavalla che difende

il suo “pulledrino”, e dall’altra l’astuzia della volpe che alle

volte ha il sopravvento: ancora una volta, di fronte agli occhi

di Delio, e ai nostri, si svolge l’eterna battaglia per la sopravvi-

venza. Il racconto è reso ancora più interessante, per il riferi-

mento autobiografico alla vita del villaggio: la domenica,

giorno di festa, viene ricordata attraverso le urla gioiose e

scherzose dei bambini che scorazzano liberamente, incuranti

del mondo adulto intriso, secondo il loro punto di vista, di

strane chiacchiere e di commercio.

“La volpe e il pulledrino” 167

Ora ti racconterò come ho visto la volpe per la prima volta.

Coi miei fratellini andai un giorno in un campo di una zia dove e-

rano due grandissime querce e qualche albero da frutta; dovevamo

fare la raccolta delle ghiande per dare da mangiare a un maialino.

Il campo non era lontano dal paese, ma tutto era deserto intorno

e si doveva scendere in una valle. Appena entrai nel campo, ecco

che sotto un albero era tranquillamente seduta una grossa volpe

con una bella coda eretta come una bandiera. Non si spaventò

per nulla; ci mostrò i denti, ma sembrava che ridesse, non che

minacciasse.

Noi bambini eravamo in collera che la volpe non avesse paura di

noi; proprio non aveva paura! Le tirammo dei sassi, ma essa si sco-

stava appena e poi ricominciava a guardarci beffarda e sorniona.

Ci mettevamo dei bastoni alla spalla e facevamo tutti insieme:

bum! Come fosse una fucilata, ma la volpe ci mostrava i denti sen-

za scomodarsi troppo.

D’un tratto si sentì una fucilata sul serio, sparata da qualcuno nei

dintorni. Solo allora la volpe dette un balzo e scappò rapidamente.

Mi pare di vederla ancora, tutta gialla, correre come un lampo su

un muretto, sempre con la coda eretta e sparire in un macchione.

Questo racconto, per i suoi aspetti descrittivi minuziosi e

realistici, riesce a trasmettere al lettore trepidazione ed e-

mozione: la prima creata dall’attesa di poter osservare la

volpe e la sua spettacolare coda; la seconda è quella sorta di

emozione che lo stesso Antonio, ancora bambino, aveva

provato nel trovarsi di fronte al fiero e beffardo animale:

«Appena entrati nel campo, ecco che sotto un albero era

tranquillamente seduta una grossa volpe, con la bella coda

eretta come una bandiera».

168 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

La narrazione raggiunge il suo apice con il “bum”: Gramsci

descrive la beffa ai danni dei bambini che vogliono imitare i

loro padri nella caccia alla volpe. Ma la magia di questo biz-

zarro mondo, che ruota attorno al gioco della volpe con i

bambini, scompare del tutto con la vera fucilata.

L’ultima immagine del fotogramma gramsciano è la coda

eretta della volpe che sparisce “in un macchione”, quasi ad e-

videnziare la sua vittoria sull’uomo.

Ancora una volta, il racconto si conclude con l’invito pater-

no ed affettuoso che Gramsci rivolge a Delio: «Carissimo De-

lio, raccontami ora dei tuoi viaggi e delle novità che hai visto».

169

“Lo scurzone”

(Lettera a Tania – 2 giugno 1930)

Ancora una volta, Gramsci scava nella sua memoria per ri-

portare alla luce immagini e vissuti della sua infanzia e lo fa

attraverso la narrativa. Le sue descrizioni, sempre molto atten-

te e ricche di particolari, tentano di offrire al lettore l’imma-

gine di un simpatico “animaletto”, lo scurzone, le cui origini

sono sconosciute e avvolte da mistero. Egli analizza questo

strano rettile con lo stesso rigore e medesimo procedimento

del quale si serve per discutere di Economia e Sociologia nei

Quaderni:

Sfogliando il piccolo Larousse1 mi è ritornato alla memoria un

problema abbastanza curioso.

Da bambino io ero un infaticabile cacciatore di lucertole e di serpi,

che davo da mangiare ad un bellissimo falco che avevo addomesti-

cato. Durante queste cacce [sic] nelle campagne del mio paese

(Ghilarza), mi capitò tre o quattro volte di trovare un animale

1 Larousse è il nome di un grande editore parigino. Ma qui si vuole indi-

care l’enciclopedia che, concepita e pubblicata appunto dal Larousse, ne pre-se il nome. Tra le varie enciclopedie è una delle più antiche e celebri.

170 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

molto simile al serpe comune (biscia), solo che aveva quattro zam-

pette, due vicino alla testa e due molto lontane dalle prime, vicino

alla coda (se si può chiamare così): l’animale era lungo 60–70 cen-

timetri, molto grosso in confronto della lunghezza, la sua grossez-

za corrisponde a quella di una biscia di 1 metro e 20 o 1 metro e

50. Le gambette non gli sono molto utili, perché scappava stri-

sciando molto lentamente.

Al mio paese questo rettile si chiama scurzone, che vorrebbe dire scor-

ciato (curzu vuol dire corto) e il nome si riferisce certamente al fatto

che sembra una biscia scorciata (bada che c’è anche l’orbettino, che al-

la poca lunghezza unisce la proporzionata sottigliezza del corpo).

Questo racconto lo riporta all’epoca della scuola, a Santu-

lussurgiu, dove aveva frequentato le tre ultime classi del gin-

nasio, e gli pare di ricordare, come fosse un episodio recente,

la domanda che rivolse al professore di Storia Naturale (era

un vecchio ingegnere del luogo), sul nome dello scurzone in

lingua italiana. Il professore rise e gli rispose che si trattava di

un animale immaginario, l’aspide o il basilisco, e che non co-

nosceva nessun animale simile a quello.

Ricorda pure che alcuni compagni di Santulussurgiu spiega-

rono che nel loro paese scurzone era appunto il basilisco, e che

l’animale da lui descritto si chiamava coloru (col uber latino),

mentre la biscia si chiamava colora al femminile, ma il profes-

sore aggiunse che si trattava di superstizioni legate al mondo ru-

rale e contadino e che non esistevano bisce con le zampe. Non a

caso Gramsci nel suo racconto fa riferimento alla scuola, vista

come luogo in cui si incontrano la cultura “nozionistica” del-

l’insegnante e la cultura popolare degli studenti.

“Lo scurzone” 171

Un esempio di intreccio tra due “civiltà” diverse, quella cit-

tadina e quella rurale, e tra due mondi, quello dello studente,

dalla fervida immaginazione, e quello dell’insegnante, che

troppo spesso dimentica di essere stato egli stesso bambino:

Tu sai come faccia rabbia a un ragazzo sentirsi dar torto quando

invece sa di aver ragione o addirittura essere preso in giro come

superstizioso in una questione di cose reali; penso che a questa re-

azione contro l’autorità messa a servizio dell’ignoranza sicura di se

stessa è dovuto, se ancora mi ricordo, l’episodio.

Le riflessioni di Gramsci evidenziano la capacità dello stu-

dente di ribellarsi alle spiegazioni superficiali e, talvolta, erra-

te degli adulti–educatori, che con queste “strategie” tentano di

mascherare i loro vuoti culturali, incuranti di mortificare la

sete di conoscenza che anima tanti ragazzi.

Infatti, nella seconda parte del racconto, Gramsci da una

parte ribadisce che le sue conoscenze non nascono da super-

stizioni popolari, dall’altra ricorre a testi di specifico contenu-

to scientifico — Larousse — per fornire reali informazioni sul-

lo scurzone. Si può anticipare che ciò che ne viene fuori è una

minuziosa ed interessante lezione di scienze.

Al mio paese, poi, non avevo mai sentito parlare delle qualità ma-

lefiche del basilisco–scurzone, che però in altri paesi era temuto e

circondato di leggende. Ora, appunto, nel Larousse ho visto nella

tavole dei rettili uno sfuriano, il seps, che è appunto una biscia con

quattro zampette (il Larousse dice che abita la Spagna e la Francia

meridionale, è della famiglia degli scincidés il cui rappresentante

172 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

tipico è lo scinque (forse il ramarro?). La figura del seps non corri-

sponde molto allo scurzone del mio paese: il seps è una biscia rego-

lare, sottile, lunga, proporzionata, e le zampette sono attaccate al

corpo armonicamente; lo scurzone, invece, è un animale repellente:

la sua testa è molto grossa, non piccola come quella delle bisce

[sic]; la “coda” è molto conica; le due zampette d’avanti sono trop-

po vicine alla testa e sono, poi, troppo lontane dalle zampe di

dietro; le zampe sono bianchicce [sic], malsane, come quelle del

proteo e danno l’impressione della mostruosità, dell’anormalità.

Tutto l’animale, che abita in luoghi umidi (io l’ho sempre visto do-

po aver rotolato grossi sassi), fa un’impressione sgraziata, non co-

me la lucertola e la biscia, che a parte la repulsione generica

dell’uomo per i rettili sono in fondo eleganti e graziose.

Vorrei ora sapere della tua sapienza di storia naturale, se questo a-

nimale ha un nome italiano o se è noto che in Sardegna esiste questa

specie che deve essere della stessa famiglia del seps francese. È pos-

sibile che la leggenda del basilisco abbia impedito di ricercare l’ani-

male in Sardegna; il professore di Santulussurgiu non era uno stupi-

do, tutt’altro, ed era anche molto studioso; faceva collezioni minera-

logiche ecc., eppure non credeva che esistesse lo scurzone come real-

tà molto pedestre, senza alito avvelenato e occhi incendiari.

Certo questo animale non è molto comune: io l’ho visto non più di

una dozzina di volte e sempre sotto dei massi, mentre bisce [sic]

ne ho viste a migliaia senza bisogno di muovere sassi.

Questi riferimenti di Gramsci possono considerarsi dei veri

e propri “trattati” di storia naturale. Le descrizioni finemente

curate e particolareggiate, dimostrano l’attenzione e la curiosi-

tà dell’uomo verso il misterioso e fantastico mondo della na-

tura.

173

“Barbabucco: uno strano animale”

(Lettera a Delio – novembre 1936)

Gramsci spiega a Giuliano che per disegnare bene non basta

applicarsi, è altresì importante osservare attentamente ciò che

si vuole riprodurre perché esso risulti fedele all’originale:

Io da ragazzo disegnavo molto, ma i disegni erano piuttosto lavoro

di pazienza; nessuno mi aveva insegnato.

Riproducevo, ingrandendoli, le figure e i quadretti di un giornali-

no. Cercavo anche i colori fondamentali con un mio sistema non

difficile, ma che domandava molta pazienza.

Anche in questo caso Gramsci fa ricorso ad un’esperienza

della sua infanzia per avvalorare la sua tesi, ma anche per pre-

sentare un nuovo racconto: Il caprone Barbabucco.

Si tratta di una descrizione briosa e divertente di un qua-

dretto, che gli era costato tre mesi di lavoro, che ritrae un con-

tadinello che, vestito di tutto punto, era caduto in un tino pie-

no d’uva, pronta per la pigiatura, e una simpatica contadinella

grassottella, che lo osservava impaurita e divertita nello stesso

tempo.

174 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

Il quadretto apparteneva a una serie di avventure in cui il

protagonista era il terribile caprone Barbabucco che, improv-

visamente, rincorreva e metteva in fuga gli altri animali e i ra-

gazzi che lo schernivano.

Nella lettera spiega le modalità con cui si divertiva a in-

grandire qualsiasi piccolo disegno: «misure col doppio deci-

metro e col compasso, prove riprove con la matita, ecc.».

L’abilità di Antonio stupiva anche la sua famiglia, egli infat-

ti ricorda con nostalgia, ma anche con amarezza che i fratelli e

le sorelle lo osservavano e ridevano, per poi lasciarlo ai suoi

disegni mentre loro riprendevano i loro giochi, correndo e

gridando.

In queste ultime riflessioni si coglie quel senso di solitudi-

ne e di abbandono che caratterizzano alcuni momenti dell’in-

fanzia in cui, spesso, ci si sente soli e inadeguati rispetto al

mondo dei “grandi” e, talvolta, sgomenti davanti all’immensità

dell’universo.

175

“Un evento drammatico”∗

(Lettera a Tania – 30 gennaio 1933)

Non mancano fra i suoi scritti, dedicati ai bambini in gene-

rale e, in particolare, ai figli e ai nipoti, burleschi raccontini

infantili che evidenziano in modo singolare quel gusto figura-

tivo che Egli stesso afferma di preferire sin da bambino, allor-

quando si divertiva a scrivere e ad illustrare le vicende del ter-

ribile Caprone Barbabucco.

Si tratta di produzioni semplici e ricche dal punto di vista

dell’immaginazione che, oltre a rievocare la sua infanzia lon-

tana e ad assumere una funzione liberatoria e consolatoria

verso se stesso, riescono a divertire i suoi piccoli interlocuto-

ri.

I primi racconti di contenuto ghilarzese sono quelli che

narra alla cognata Tania.

Da essi traspare la triste condizione della realtà carceraria e

nello stesso tempo le sofferenze fisiche e psicologiche del car-

cerato.

∗ Edizione parziale in Lettere, pp. 220–221.

176 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

Come un passero al quale viene tolta la libertà di spiccare

voli, e che inizialmente si dibatte con forza contro le sbarre di

quella gabbia nella quale è rinchiuso e lotta per non farsi ad-

domesticare, così Gramsci appare nella lettera n. 40 dell’8 a-

gosto 1927, indirizzata a Tania.

Quel passerotto all’inizio «molto fiero e di grande vivacità»

(racconto già analizzato), è consapevole che ci sarà un mo-

mento in cui non avrà più la forza di ricordare e raccontare di

sé, della sua infanzia vissuta a Ghilarza, ed allora pensa di rac-

contare ciò che ha avuto modo di vedere e che neppure il

tempo è riuscito a mitigare per la drammaticità dell’evento di

cui è stato spettatore:

Quando avevo 8 o 9 anni ho avuto una esperienza che mi è ritor-

nata chiaramente alla memoria leggendo il tuo consiglio.

Conoscevo una famiglia di un villaggio vicino al mio, padre, madre

e figlioli: erano piccoli proprietari ed esercivano un’osteria. Gente

energica, specialmente la donna. Sapevo (avevo sentito dire) che

oltre ai figli noti e conosciuti, questa donna aveva un altro figlio

che non si vedeva mai, del quale si parlava con sospiri come di una

gran disgrazia per la madre, un idiota, un mostro, o giù di lì. Ri-

cordo che mia madre accennava spesso a questa donna come ad

una martire, che tanti sacrifizi faceva per questo suo figlio e tanti

dolori sopportava.

Una domenica, verso le 10, io fui inviato da questa donna; dovevo

consegnarle certi lavori di uncinetto e riscuotere dei denari. La tro-

vai che chiudeva l’uscio di casa, vestita di festa per recarsi alla messa

solenne: aveva una sporta sotto il braccio. Al vedermi esitò un poco,

poi si decise. Mi disse di accompagnarla a un certo luogo […].

“Un evento drammatico” 177

Mi condusse fuori paese in un orticello ingombro di rottami e cal-

cinacci; in un angolo c’era una costruzione ad uso porcile, alta un

metro e venti, senza finestre o sportelli, con solo una robusta por-

ta di ingresso. Aprì la porta e subito si sentì un mugolio bestiale:

c’era dentro il suo figlio, un giovane di diciotto anni, di comples-

sione molto robusta, che non poteva stare in piedi e perciò stava

sempre seduto e saltellava sul sedere verso la porta, per quanto

glielo consentiva una catena che lo stringeva alla cintola ed era as-

sicurata a un anello infisso al muro.

Era pieno di sozzura, solo gli occhi rosseggiavano come quelli di

un animale notturno.

La madre gli rovesciò in un truogolo di pietra il contenuto della

sporta, del mangime misto di tutti gli avanzi di casa e riempì

d’acqua un altro truogolo, poi chiuse e andammo via.

Non dissi niente a mia madre di ciò che avevo visto, tanto ero ri-

masto impressionato e tanto ero persuaso che nessuno mi avrebbe

creduto. Neanche quando sentii parlare ancora dei dolori di quella

povera madre intervenni per correggere l’impressione e parlare del-

la disgrazia di quel povero relitto umano capitato con una madre

simile. D’altronde, cosa poteva fare quella donna?

Come vedi, è possibile fare dei paragoni concreti e consolarsi alla

maniera di Candido.

Ritengo che nessun lettore, giovane o adulto, riesca a rima-

nere indifferente di fronte alla tragedia umana e morale nella

quale, inconsapevolmente, si è imbattuto il piccolo Antonio.

Lo si evince dalla descrizione minuziosa con cui Egli rac-

conta quella realtà agghiacciante che ha dell’incredibile e di

cui rimase talmente sconvolto e addolorato da non avere né il

coraggio, né la forza di parlarne con sua madre.

178 PARTE IV – Racconti d’infanzia, ricordi e storie sarde

È pietas o rifiuto di giudicare uomini e situazioni?

A mio modesto giudizio entrambe le motivazioni coesisto-

no nel nostro pensatore; anche se, nel caso citato, con quel

«povero relitto umano capitato con una madre simile». Egli

non riesce a nascondere quella sorta di indignazione mista a

dolore, che prova qualsiasi lettore verso i comportamenti di-

sumani di questa madre, che agli occhi dei “paesani”, che i-

gnorano la verità, appare una madre martire e addolorata, che

si sacrifica e soffre per il figlio sventurato.

179

PARTE QUINTA

Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

181

Antonio Gramsci, maestro di pensiero e di vita,

al di sopra di ogni schema ideologico

Oggi, a distanza di tempo, mi accorgo che il mio interesse

per quel maestro di pensiero e di vita, capace di andare al di là

di ogni schema ideologico, non si esaurisce soltanto nella ri-

cerca teorica, né nello studio più o meno approfondito dei

Quaderni, delle Lettere e di altri suoi scritti ma va oltre, fino a

spingermi ad intraprendere un viaggio verso quei luoghi che

l’hanno visto bambino prima, e adolescente e giovane poi: da

Ales a Ghilarza, paesino sperduto a pochi chilometri da Ori-

stano, a Santulussurgiu, a Cagliari…

È innegabile il fascino che la Sardegna, da sempre, esercita

sul visitatore, ma io sono lì non per la bellezza paesaggistica,

non per quel mare dalle acque limpide e cristalline, né per gli

antichi Nuraghi sparsi qua e là; sono lì perché voglio scoprire

qualcosa di più della sua terra, della sua vita, della sua gente,

fino a risalire alle sue radici.

Per un momento mi sento un piccolo esploratore alla ricer-

ca delle pepite d’oro… mentre mille pensieri affiorano nella

mia mente, un po’ come le onde del mare che, nelle giornate

182 PARTE V – Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

di brezza, vanno, vengono, si rincorrono, si infrangono fino a

svanire per cedere il posto a sentimenti che trovano le loro ra-

gioni nel passato: tristezza e malinconia per quella “infanzia

negata” al piccolo Antonio dalle sofferenze fisiche e dalle pri-

vazioni economiche; orgoglio e ammirazione per il “giovane

Antonio” che, attraverso un linguaggio semplice, ma pur sem-

pre incisivo e diretto, aveva saputo conciliare, perfettamente e

con eguale intensità, affetti e ragioni politiche, al di là dei li-

miti posti dalla censura degli uomini, dall’angusta prigione,

dall’inesorabile scorrere del tempo.

Il sobbalzare della piccola automobile mi riporta alla realtà

e sposta la mia attenzione su quei luoghi tanto simili a quelli

della mia infanzia: Ghilarza, con le sue stradine strette e tor-

tuose, dai vicoli e balconi abbelliti da piante e fiori multicolo-

ri, nessun vocìo di bimbi, né quel frastuono assordante che ca-

ratterizza le grandi metropoli (forse perché è settembre e la

gente si è riversata nei luoghi di villeggiatura); pochi vecchi

seduti sui muretti o accanto all’uscio della propria abitazione

intenti a conversare…; alcuni passanti rallentano il passo e per

qualche momento si fermano per osservarmi, ne intuisco la

ragione: si chiedono chi possa essere “quella curiosa scono-

sciuta” che si aggira per quelle strade ed osa scrutare negli an-

goli più nascosti della loro terra, quasi a voler leggere tra le

pieghe della loro anima per saperne di più.

Ed ancora volti rugosi segnati dal tempo, dallo sguardo dif-

fidente che s’illumina d’improvviso quando, sorridendo, li av-

vicino e dico loro che sono lì per Antonio Gramsci, per scrive-

Antonio Gramsci, maestro di pensiero e di vita 183

re di Lui e della sua gente, ma soprattutto per conoscerlo me-

glio attraverso le loro testimonianze.

Allora tutto si vivacizza e ciascuno desidera raccontare ciò

che sa, ciò che ricorda: si esprimono in dialetto sardo ma rie-

sco ugualmente a seguire i loro discorsi e ad avere delle indi-

cazioni utili.

Gramsci per loro non era piccolo, era un gigante che aveva

tentato di uscire dal guscio sardo per superare il modo di vive-

re e di pensare arretrato, tipico della Sardegna del primo No-

vecento, per approdare ad un pensiero nazionale ed europeo.

Il merito maggiore che gli riconoscono risiede non solo nelle

sue idee e nella sua intelligenza, ma nella capacità di andare

oltre ogni ideologia, per parlare a tutti, pur mantenendo la sua

identità politica.

Alcuni mi parlano delle difficoltà economiche in cui la fa-

miglia Gramsci era venuta a trovarsi in seguito alle disavven-

ture giudiziarie del padre Francesco, altri sottolineano, con

una sorta di riverente ammirazione, il coraggio della madre

che, con grande dignità, aveva affrontato e risolto i numerosi

problemi esistenziali che quotidianamente la famiglia si tro-

vava a vivere.

Non mancano riferimenti al legame affettivo di Antonio

con il resto della famiglia e, in particolare, con la sorella Tere-

sina ed il fratello Gennaro.

Vorrei poterne sapere di più, ma si è fatta sera e devo con-

gedarmi da loro per continuare il mio viaggio. In segno di a-

micizia stringo loro le mani: la diffidenza, ormai scomparsa

184 PARTE V – Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

dai loro volti, cede il posto a timidi sorrisi e nei loro sguardi si

può scorgere una sorta di celata commozione.

Mi allontano, ma posso ancora scorgere le loro figure e le

loro mani che salutano in segno di gratitudine per l’attenzione

e l’interesse con cui avevo ascoltato i loro racconti.

185

Dalla casa–museo di Ghilarza: documenti, materiale

iconografico, oggetti… attraverso le immagini∗

Nella via principale di Ghilarza, a pochi chilometri da Ori-

stano, sorge la casa dove Antonio Gramsci, a partire dal 1898,

trascorse gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza.

Sono passati settanta anni dalla sua morte (27 aprile 1937)

e benché la casa abbia subito, al suo interno, modifiche strut-

turali che ne hanno mutato l’uso e la destinazione, non sfugge

all’attento visitatore che si sofferma ad osservare “quanto è

racchiuso fra quelle mura” l’immagine ancora viva e palpitan-

te di un’antica famiglia che, nonostante le difficoltà economi-

che e le avversità della vita, continuò a credere e a trasmettere

quei valori fondamentali di cui sono permeati gli scritti gram-

sciani.

∗ Le testimonianze sono state raccolte, trascritte e incise su un nastro,

oggi custodito nella Biblioteca della Casa Gramsci, da Mimma Paulesu Quer-cioli, figlia di Teresina Gramsci. I documenti, il materiale iconografico e gli oggetti riportati nel testo sono stati fotografati durante la mia visita alla Casa–Museo Gramsci e la mia permanenza in Sardegna, alla ricerca dei luoghi che hanno visto Gramsci bambino prima, e giovane studente poi (Ales, Ghi-larza, Santulussurgiu, ecc.).

186 PARTE V – Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

Casa–Gramsci conserva ancora quella semplicità e quella

dignità che caratterizzano la gente sarda. Dal punto di vista

strutturale l’abitazione si sviluppa su due piani e si affaccia ol-

tre che sulla via principale anche su una strada secondaria.

Dall’ingresso al piano terra, si entra nella sala, un tempo “la

camera buona” della famiglia Gramsci; in essa, su una parete,

è riprodotta una copia anastatica della Lettera che Gramsci

scrisse alla madre nel maggio del 1928, ricordando di essere

un detenuto politico per non aver voluto mutare le sue opi-

nioni (espressione che evidenzia la forza delle idee e la coe-

renza che accompagneranno Gramsci per tutta la vita).

Egli non ha nulla di cui vergognarsi; scrive ancora: «Vorrei

tanto abbracciarti stretta, stretta perché sentissi quanto ti vo-

glio bene e come vorrei consolarti di questo dispiacere che ti

ho dato, ma non potevo fare diversamente. La vita è così, mol-

to dura e i figli qualche volta devono dare grandi dispiaceri al-

le loro mamme, se vogliono conservare il loro onore, e la loro

dignità di uomini». Sono parole di alta poesia che esprimono

la sofferenza di Gramsci nell’aver cagionato alla madre tanto

dolore e nello stesso tempo testimoniano il suo profondo

rammarico per l’impossibilità di poterla consolare con un ab-

braccio.

Ancora una volta l’onore e la dignità umana hanno il so-

pravvento sull’amore.

Dall’ingresso si accede anche alla cucina di un tempo, dal

soffitto “a cannitzada” tipico delle antiche case sarde e con il

pozzo nascosto dietro uno sportello; oggi quella cucina è di-

Dalla casa–museo di Ghilarza 187

ventata luogo di incontro e di studio dotata di un grande tavo-

lo e di sedie.

L’antica cucina conduce alla biblioteca (ove sono custoditi

migliaia di volumi riguardanti la storia del movimento ope-

raio in Sardegna e nel mondo, nonché le opere di Gramsci

tradotte in varie lingue) e consente anche l’accesso al cortile

con le sue aiuole delimitate da sassi e tegole, dove ancora oggi

si possono ammirare rose e ortensie e sentire il profumo della

mentuccia e dell’alloro, un tempo luogo di giochi di Gramsci e

dei suoi fratelli. Non sfugge il piccolo spazio adibito a ufficio

che un tempo era “sa domo e su forru” (la casa del forno).

Attraverso una scala si accede al piano superiore dove è

possibile ammirare nelle varie stanze fotografie, effetti perso-

nali, articoli di giornali, certificati di studio… Si tratta di un

vero itinerario didattico che ripropone le tappe più significa-

tive della vita di Gramsci, elaborato da Elsa Fubini, curatrice

con Caprioglio de “le Lettere dal carcere”, Edizione Einaudi.

L’acquisizione di preziosi documenti e testimonianze, la lo-

ro sistemazione e la gestione della Casa, sono opera di Diddi e

Mimma Paulesu, figlie della sorella Teresina: grazie a loro og-

gi possiamo godere di questo prezioso patrimonio storico–

culturale.

Fra le stanze situate al piano superiore vi è la camera da let-

to dalla piccola finestra che dà sul cortile; essa conserva un ar-

redamento estremamente semplice ed essenziale: un antico

letto ricoperto da una linda coperta bianca, un comodino, un

cassettone, un lavabo dal supporto in ferro battuto.

188 PARTE V – Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

Sempre sullo stesso piano, vi è una sala nella quale sono di-

sposte delle teche che custodiscono effetti personali, fotogra-

fie, libri e vari oggetti usati da Gramsci durante la sua deten-

zione; non mancano oggetti che ricordano la sua adolescenza

come pure documenti, articoli di giornali e lettere che testi-

moniano il suo impegno giornalistico e politico.

La stessa stanza custodisce una nastroteca, preziosa per le

testimonianze orali di illustri antifascisti che condivisero con

Gramsci l’esperienza politica e la carcerazione: le voci di Per-

tini, Silone, Terracini ed altri.

Casa–Gramsci venne acquistata dal PCI nel 1965 e trasfor-

mata in Centro di Documentazione e Ricerca sull’opera gram-

sciana e sul movimento operaio, con il concorso di intellettua-

li e uomini di cultura sarda. All’inizio degli anni Ottanta venne

restaurata grazie al contributo di numerosi studiosi e artisti

nonché ex partigiani che avevano instaurato un valido rappor-

to di collaborazione con la già esistente Associazione “Amici

della Casa–Gramsci”. Oggi la Casa Museo rappresenta un im-

portante centro di documentazione, di ricerca e di attività

culturali di cui possono fruire visitatori e studiosi di tutto il

mondo per conoscere e approfondire l’opera e il pensiero di

Antonio Gramsci.

Dalla casa–museo di Ghilarza 189

Ales, la casa ove è nato A. Gramsci.

«In una modesta casa a due piani, di tufo grigio, battuta dai venti che dal

Monte Arci calano verso la Piana del Campidano, nacque Antonio Gram-

sci il 22 gennaio del 1891».

190 PARTE V – Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

Il liceo–ginnasio nel quale Gramsci frequentò le ultime classi ginnasiali

(dal 1908 al 1911 Gramsci frequenterà il Liceo “Dettori” di Cagliari).

Dalla casa–museo di Ghilarza 191

Ghilarza, Casa Gramsci, dal 1965 “Casa Museo di Antonio Gramsci”.

192 PARTE V – Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

Casa Museo Gramsci, ingresso e mappa.

N.B.: Le foto e le immagini che seguono state riprese nella Casa Museo.

Dalla casa–museo di Ghilarza 193

Camera da letto di A. Gramsci.

194 PARTE V – Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

Riproduzione del tipico carro sardo, ancora usato a quei tempi, costruito

per Giulia durante il soggiorno nel sanatorio Sieriebrianibor (Mosca) nel

1922. Donato al museo dal figlio Giulio e collocato in una teca posta

nell’ingresso della casa.

Dalla casa–museo di Ghilarza 195

La Sala “buona” con copia anastatica della lettera scritta da Gramsci per

la madre (maggio 1928).

La biblioteca.

196 PARTE V – Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

Una delle teche e, sotto, la nastroteca.

Dalla casa–museo di Ghilarza 197

Teche con immagini e oggetti vari.

198 PARTE V – Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

Teca con scatole di sigarette, fiammiferi, medicinali.

Dalla casa–museo di Ghilarza 199

Teca con vari oggetti e foto.

200 PARTE V – Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

Altre teche con foto e oggetti vari.

Dalla casa–museo di Ghilarza 201

Teca con una lettera al padre Francesco.

202 PARTE V – Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

Antonio Gramsci bambino

in braccio alla madre Giuseppina Marcias.

Dalla casa–museo di Ghilarza 203

Giulia Schucht.

Sposò Gramsci a Mosca nel 1924.

204 PARTE V – Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

Tatiana Schucht, cognata di Gramsci.

Dalla casa–museo di Ghilarza 205

Giulia con i figli Delio e Giuliano.

206 PARTE V – Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

La sorella Teresina.

Dalla casa–museo di Ghilarza 207

Teca con il “Certificato degli Esami di Proscioglimento

dall’obbligo dell’Istruzione Elementare inferiore” (24 luglio 1901).

208 PARTE V – Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

Il primo numero dell’“Ordine Nuovo”: 1° maggio 1919.

«Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza

Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo

Organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la nostra forza».

Dalla casa–museo di Ghilarza 209

Lettera alla madre del 6 giugno 1927.

210 PARTE V – Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

Antonio Gramsci (ultimo a destra vicino a un insegnante)

al ginnasio di Santulussurgiu.

Dalla casa–museo di Ghilarza 211

Gramsci a Mosca fra i delegati

del IV Congresso dell’Internazionale Comunista.

212 PARTE V – Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

Gramsci a Vienna nel 1923.

Dalla casa–museo di Ghilarza 213

Ustica, 1927, Gramsci con un gruppo di confinati.

214 PARTE V – Da “un’inviata speciale”: idee, immagini, emozioni

La casa di pena di Turi.

Dalla casa–museo di Ghilarza 215

Cella della casa di pena di Turi.

217

Bibliografia

Testi e pubblicazioni

Aa.Vv., Antonio Gramsci, l’Unità, Roma 1987.

Aa.Vv., Gramsci e la cultura contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1969.

Aa.Vv., Letture di Gramsci, a cura di A. Santucci, Editori Riuniti, Roma.

Bettelheim B., Il Mondo incantato, Feltrinelli, Milano 1984 (titolo origi-

nale The use of enchantment, the meaning and the importance of fairy

tales, Alfred a. Knopf, New York 1976).

Bettica R., Pensieri di pedagogia nelle Lettere dal carcere, in «Nuova Rivista

pedagogica», n. 5–6, 1953.

Boero P., De Luca C., La letteratura per l’infanzia, Laterza, Bari 1995.

Borghese L., Tia Alene in bicicletta, in «Belfagor», 64, 1953.

Cambi F., Cives G., Il bambino e la lettura, ETS, Firenze 1996.

Croce B., La letteratura della nuova Italia, Bari 1938 (I edizione economi-

ca 1974).

Dewey J., Democrazia ed Educazione, La Nuova Italia.

—, Scuola e società, Nuova Italia Editrice, Firenze 1942 (titolo originale

The school and society, University of Chicago Press, Chicago 1915).

Faeti A., Letteratura per l’infanzia, Nuova Italia Editrice, Firenze 1977.

Fiori G., Vita attraverso le lettere, Einaudi, Torino 1994.

—, Vita di Antonio Gramsci, Laterza, Bari 1981.

Gobetti P., Scritti politici, Einaudi, Torino 1960.

218 Bibliografia

Gramsci A., C’era una volta… Le più belle favole dei fratelli Grimm, Editori

Riuniti, Roma 1987.

—, L’albero del riccio, fiabe presentate da G. Ravegnani, Editori Riuniti,

Roma 1966.

—, Favole di libertà, a cura di E. Fubini e M. Paulesu, Vallecchi, Firenze

1980.

—, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio e E. Fubini, Einaudi, Torino

1973.

—, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975.

—, Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, Einaudi, Torino.

Lombardi F.V., Idee pedagogiche di A. Gramsci, La Scuola, Brescia 1969.

—, Problemi di pedagogia nel pensiero di A. Gramsci, in «Pedagogia e vi-

ta», 6, 1965.

Makarenko A.S., Consigli ai genitori, Roma 1952.

Manacorda M.A., Il principio educativo in Gramsci, Armando, Roma

1970.

Manacorda G., Muscetta C., Gramsci e l’unità della cultura, in «Società»,

1, 1954.

Marx K., Engels F., Scritti sull’arte, Laterza, Bari 1976.

Mastellone S., Gramsci: i Quaderni del carcere. Una riflessione politica in-

compiuta, UTET, Torino 1997.

Meocci A., Gramsci e i bambini, in «Rinascita», 8–9, 1951.

Natta A., Problemi della scuola negli scritti di A. Gramsci, in «Società», 4,

1957.

Panfili O., Gramsci e il suo pensiero in rapporto alla scuola e alla pedago-

gia, in «Problemi della pedagogia», 5–6, 1964.

Pasolini P.P., Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 1957.

Paulesu Quercioli M., Gramsci vivo, Feltrinelli, Milano 1977.

Paulesu Quercioli M., Forse rimarrai lontana…, Albatros–Editori Riuniti,

Roma 1987.

Propp V., Morfologia della fiaba, Newton & Compton, Roma 1976.

Bibliografia 219

—, Le radici storiche dei racconti di magia, Newton & Compton, Roma

1977.

Salinari C., Spinella M., Il pensiero di Gramsci, Editori Riuniti, Roma.

Santucci A., Le opere, Editori Riuniti, Roma 1997.

Spriano P., Gramsci e Gobetti, Einaudi, Torino 1967.

Zappa F., Raicich M., Lombardo Radice L., Bertoni Jovine D., Gramsci e

i problemi dell’educazione, in «Riforma della scuola», 5, 1961.

Convegni, atti e relazioni

Studi gramsciani. Atti del convegno (Roma, 11–13 gennaio 1958), Editori

Riuniti, Roma 1958.

Gramsci e la cultura contemporanea. Atti del convegno internazionale (Ca-

gliari, 23–27 aprile 1967), Editori Riuniti, Roma 1970.

Politica e storia in Gramsci. Atti del convegno internazionale (Firenze, 9–11

dicembre 1977), Editori Riuniti, Roma 1977.

Gramsci nel mondo. Atti del convegno internazionale (Formia, 25–28 otto-

bre 1989), Fondazione Istituto Gramsci, 1995.

Convegno su Gramsci dell’Istituto della Enciclopedia Italiana (Roma, 21

novembre 2002).

Gramsci, le dimensioni della politica (Ghilarza, 2 maggio 2004).

Gramsci: cultura, educazione, scuola (Torino, 23 aprile 2007).

Le lingue di Gramsci e delle sue opere. Scrittura, riscritture, letture in Italia e

nel mondo (Sassari, 24–26 ottobre 2007).

Antonio Gramsci, un sardo nel “mondo grande e terribile”. III Convegno

della IGS – International Gramsci Society (Cagliari–Ghilarza–Ales, 3–6

maggio 2007).

Gramsci nel suo tempo (Bari, 13–15 dicembre 2007).

220 Bibliografia

Antonio Gramsci: annotazioni bibliografiche

A conclusione di questo mio modesto scritto, ritengo utile aggiungere

una nota bibliografica su Antonio Gramsci quale strumento fondamenta-

le e indispensabile per la conoscenza e lo studio del suo pensiero.

SCRITTI 1914–1926

Scritti giovanili (1914–1918), Einaudi, Torino.

Sotto la Mole (1916–1920), Einaudi, Torino.

L’Ordine Nuovo (1919–1920), Einaudi, Torino.

Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo (1921–1922), Einaudi, Torino.

La casa editrice Einaudi, in collaborazione con l’Istituto Gramsci, ha

pubblicato l’edizione critica degli scritti precedenti i “Quaderni”:

Cronache torinesi (1913–1917), a cura di S. Caprioglio.

La città futura (1917–1918), a cura di S. Caprioglio.

Il nostro Marx (1918–1919), a cura di S. Caprioglio.

L’Ordine Nuovo (1919–1920), a cura di V. Gerratana e A.A. Santucci.

QUADERNI DEL CARCERE

Quaderni (6 volumi), pubblicati da Einaudi e da Editori Riuniti: Il mate-

rialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce; Gli intellettuali e

l’organizzazione della cultura; Il Risorgimento; Note sul Machiavelli, sul-

la politica e sullo Stato moderno; Letteratura e vita nazionale (compren-

de anche le Cronache teatrali pubblicate sull’Avanti! dal 1916 al

1920); Passato e presente.

Bibliografia 221

I quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V.

Gerratana, Einaudi, Torino, 4 volumi: I – Quaderni 1–5 (1929–1933);

II – Quaderni 6–11 (1930–1933); III – Quaderni 12–29 (1932–1935);

IV – Apparato critico, Note al testo, Indici, Tavola delle concordanze.

Quaderno 13. Noterelle sulla politica del Machiavelli, a cura di C. Donzelli,

Einaudi, Torino.

Quaderno 19. Risorgimento italiano, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino.

Quaderno 22. Americanismo e fordismo, a cura di F. De Felice, Einaudi,

Torino.

LETTERE

Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio e E. Fubini, Einaudi, Torino.

2000 pagine di Gramsci, a cura di G. Ferrata e N. Gallo, Il Saggiatore,

vol. II: Lettere edite e inedite (1912–1937).

Nuove lettere di Antonio Gramsci, a cura di A.A. Santucci, Editori Riuniti,

Roma.

ANTOLOGIE E RACCOLTE DI SCRITTI

Scritti 1915–1921, a cura di S. Caprioglio, Moizzi editore.

Per la verità. Scritti 1913–1926, con testi inediti, a cura di R. Martinelli,

Editori Riuniti, Roma.

Scritti politici, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti, Roma, 3 volumi.

La questione meridionale, Editori Riuniti, Roma.

Elementi di politica, a cura di M. Spinella, Editori Riuniti, Roma.

2000 pagine di Gramsci, a cura di G. Ferrata e N. Gallo, Il Saggiatore,

vol. I: Nel tempo della lotta (1914–1926).

L’albero del riccio, a cura di G. Ravegnani, Editori Riuniti, Roma.

222 Bibliografia

Marxismo e letteratura, a cura di G. Manacorda, Editori Riuniti, Roma.

Sul Risorgimento, a cura di G. Candeloro, Editori Riuniti, Roma.

Sul fascismo, a cura di E. Santarelli, Editori Riuniti, Roma.

Il Vaticano e l’Italia, a cura di E. Fubini, Editori Riuniti, Roma.

Dibattito sui Consigli di fabbrica, scritti di Gramsci e Bordiga, Samonà e

Savelli.

La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste: l’«Ordine Nuovo» (1919–

1920), a cura di P. Spriano, Einaudi, Torino.

La formazione dell’uomo, a cura di G. Urbani, Editori Riuniti, Roma.

AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI

Area 01 – Scienze matematiche e informatiche

Area 02 – Scienze fisiche

Area 03 – Scienze chimiche

Area 04 – Scienze della terra

Area 05 – Scienze biologiche

Area 06 – Scienze mediche

Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie

Area 08 – Ingegneria civile e Architettura

Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione

Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche

Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche

Area 12 – Scienze giuridiche

Area 13 – Scienze economiche e statistiche

Area 14 – Scienze politiche e sociali

Le pubblicazioni di Aracne editrice sono su

www.aracneeditrice.it

Finito di stampare nel mese di luglio del 2011dalla «Ermes. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. »00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15

per conto della «Aracne editrice S.r.l. » di Roma