Le Ceneri Di Gramsci

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Vico Acitillo - Poetry WaveLa Poesia

Le ceneri di Gramsci

Pier Paolo Pasolini

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Vico Acitillo: La Poesia 

La Poesia

 Vico Acitillo - Poetry [email protected]

Napoli, 2011

La manipolazione e/o la riproduzione (totale o parziale) e/o la diffu-sione telematica di quest’opera sono consentite a singoli o comunque asoggetti non costituiti come imprese di carattere editoriale, cinemato-grafico o radio-televisivo.

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

Le ceneri di Gramsci

Pier Paolo Pasolini

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L’Appennino

I

Teatro di dossi, ebbri, calcinati,muto, è la muta luna che ti vive,tiepida sulla Lucchesia dai prati

troppo umani, cocente sulle rivedella Versilia, così intera sul vuoto

del mare - attonita su stive,

carene, vele rattrappite, dopo viaggi di vecchia, popolare pescatra l’Elba, l’Argentario...

La luna, non c’è altra vita che questa.E vi si sbianca l’Italia da Pisasparsa sull’Arno in una morta festa

di luci, a Lucca, pudica nella grigialuce della cattolica, superstitesua perfezione...

Umana la luna da queste pietreraggelate trae un caloredi alte passioni... È, dietro

il loro silenzio, il morto ardoretraspirato dalla muta origine:il marmo, a Lucca o Pisa, il tufo

a Orvieto...

II

  Non vi accendela luna che grigiore, dove azzurrigli etruschi dormono, non pende

che a udire voci di fanciulli

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dai selciati di Pienza o di Tarquinia...Sui dossi risuonanti, brulli

ricava in mezzo all’AppenninoOrvieto, stretto sul colle sospesotra campi arati da orefici, minia-

ture, e il cielo. Orvieto illesotra i secoli, pesto di mura e tettisui vicoli di terra, con l’esodo

del mulo tra pesti giovinettiimpastati nel tufo.Chiusa nei nervi, nel lucido passo,tra sgretolate muraglie e scoscesecase, la bestia sale su dal basso

con ai fianchi le tinozze d’accesauva, sotto il busto di Bonifacioprossimo a farsi polvere, difeso

da barocca altezza nella medioevalenicchia della muraglia.

III

È assente dal suo gesto Bonifacio,dal reggere la fionda nella grossamano Davide, e Ilaria, solo Ilaria...

Dentro nel claustrale transettocome dentro un acquario, son di marmorassegnato le palpebre, il petto

dove giunge le mani in una calmalontananza. Lì c’è l’aurorae la sera italiana, la sua grama

nascita, la sua morte incolore.Sonno, i secoli vuoti: nessunoscalpello potrà scalzare la mole

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tenue di queste palpebre.

Jacopo con Ilaria scolpì l’Italiaperduta nella morte, quandola sua età fu più pura e necessaria.

IV 

Sotto le palpebre chiuse ridetra i pidocchi il mammoccio di Cassino

comprato ai genitori; per le rive

furenti dell’Aniene, un assassinoe una puttana lo nutrono, nellecoloniali notti in cui Ciampino

abbagliato sotto sbiadite stelle vibra di aeroplani di regnanti,e per i lungoteveri che sentinelle

del sesso battono in spossantiattese intorno a terree latrine,da San Paolo, a San Giovanni, ai canti

più caldi di Roma, si sentono supinesuonare le ore del millenovecento cinquantuno, e s’incrina

la quiete, tra i tuguri e le basiliche.Nelle chiuse palpebre d’Ilaria tremal’infetta membrana delle nottiitaliane... molle di brezza, serenadi luci... grida di giovanotticaldi, ironici e sanguinari... odoridi stracci caldi, ora bagnati... motti

di vecchie voci meridionali... coriemiliani leggeri tra borghi e maceri...Dalla provincia viziosa ai cuori

bianchi dei globi dei bar salaci

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delle periferie cittadine,la carne e la miseria hanno placidi

ariosi suoni. Ma nelle velinee massicce palpebre d’Ilaria, nullache non sia sonno. Forme mattutine

che, precoce, la morte alla fanciullalegò al marmo. All’Italia non restache la sua morte marmorea, la brulla

sua gioventù interrotta...

Sotto le sue palpebre, nel suosonno, incarnata, la terra alla lunaha un vergine orgasmo nell’argenteo buio

che sulla frana dell’Appennino sfumascosceso verso coste dove imperlail Tirreno o l’Adriatico la spuma.

Dentro il rotondo recinto di pellie di metallo, isolato tra le frattein cerchio in una radura d’erba

 verdissima sui dossi del Soratte,dorme un umido, annerito gregge,e il pastore con le membra contratte

nel calcare.

 V 

Sotto le sue palpebre chiuse Luniall’addiaccio, e le trepidecittà dove l’Appennino profuma

più umano nelle cesellate siepi,tra i caldi arativi della Toscana,o dove più selvaggio le vecchie pievi

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assorbe nell’etrurio - s’allontananosull’ala dei vergini, chiarisuoni serali. Ed essa si dipana,

la catena, nei solchi secolaridelle vene del Serchio, dell’Ombronee, dietro rudi imbuti e terrei fari

d’albore, il Tevere, nel polveroneappenninico, pagano ancora...

Roma, dietro radure di peoni,

ruderi alessandrini e barocchi indoraalla luna, e disfatte borgateirreligiose, dove tutto si ignora

che non sia sesso, grotte abitateda feci e fanciulli; i lungofiumidal Pincio, all’Aventino, alle scarpate

dello spoglio San Paolo dove i lumiingialliscono la calda atmosfera,risuonano dei passi che le umide

pietre macchiano, e la romana seraecheggiandone, come una membranagrattata da un vizioso dito, svela

più acuto l’odore dell’orina.

 VI

Un esercito accampato nell’attesadi farsi cristiano nella cristianacittà, occupa una marcita distesa

d’erba sozza nell’accesa campagna:scendere anch’egli dentro la borgheseluce spera aspettando una umana

abitazione, esso, sardo o pugliese,

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dentro un porcile il fangoso descoin villaggi ciechi tra lucide chiesenovecentesche e grattacieli.

Sotto le sue palpebre chiuse questoassedio di milioni d’animedai crani ingenui, dall’occhio lesto

all’intesa, tra le infette maranedella borgata.

 VII

Si perde verso il bianco Meridione,azzurro, rosso, l’Appennino, assortosotto le chiuse palpebre, all’alone

del mare di Gaeta e di Sperlonga...

Dietro il Massico stende Sparanisecandelabri di ulivi, tra festonidi piante rampicanti sulle elisie

radure, dove lucono i lampionia San Nicola... Si spalanca il golfoaffricano di Napoli, nazione

nel ventre della nazione...

E non più Jacopo (più recente è il sonnodi Ilaria) sotto le palpebre fondein civile forma il popolare mondoitaliano, e contro gli sfondidel suo paesaggio, non più scarniscein luce di intelletto - che non nasconde

la buia materia - una mano che uniscea Dio il povero rione. Quaggiùtutto è preumano, e umanamente gioisce,

contro il riso del volgare fu

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ed è inutile ogni paroladi redenzione: splende nella più

ardente indifferenza dei coloriseicenteschi, quasi che al soleo all’ombra non bastasse che la sola

sfrontata presenza, di stracci, d’ori,con negli occhi l’incallito risodei bassi digiuni d’amore.

Ragazzi romanzi sotto le palpebrechiuse cantano nel cuore della speciedei poveri rimasta sempre barbara

a tempi originari, esclusa alle vicendesegrete della luce cristiana,al succedersi necessario dei secoli:

e fanno dell’Italia un loro possesso,ironici, in un dialettale risoche non città o provincia ma ossessopoggio, rione, tiene in sé inciso,se ognuno chiuso nel calore del sesso,sua sola misura, vive tra una gente

abbandonata al cinismo più veroe alla più vera passione; al violentonegarsi e al violento darsi; nel mistero

chiara, perché pura e corrotta...

Se ognuno sa, esperto, l’ingenuo linguaggiodell’incredulità, della insolenza,dell’ironia, nel dialetto più saggio

e vizioso, chiude nell’incoscienzale palpebre, si perde in un popoloil cui clamore non è che silenzio.

1951

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Il canto popolare

Improvviso il mille novecentocinquanta due passa sull’Italia:solo il popolo ne ha un sentimento

 vero: mai tolto al tempo, non l’abbagliala modernità, benché sempre il piùmoderno sia esso, il popolo, spantoin borghi, in rioni, con gioventùsempre nuove - nuove al vecchio canto -

a ripetere ingenuo quello che fu.

Scotta il primo sole dolce dell’annosopra i portici delle cittadinedi provincia, sui paesi che sannoancora di nevi, sulle appenninichegreggi: nelle vetrine dei capoluoghii nuovi colori delle tele, i nuovi

 vestiti come in limpidi roghidicono quanto oggi si rinnoviil mondo, che diverse gioie sfoghi...

 Ah, noi che viviamo in una solagenerazione ogni generazione

 vissuta qui, in queste terre oraumiliate, non abbiamo nozione

 vera di chi è partecipe alla storiasolo per orale, magica esperienza;e vive puro, non oltre la memoriadella generazione in cui presenzadella vita è la sua vita perentoria.

Nella vita che è vita perché assuntanella nostra ragione e costruitaper il nostro passaggio - e ora giuntaa essere altra, oltre il nostro accanitodifenderla - aspetta - cantando supino,accampato nei nostri quartieria lui sconosciuti, e pronto finodalle più fresche e inanimate ère -il popolo: muta in lui l’uomo il destino.

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E se ci rivolgiamo a quel passatoch’è nostro privilegio, altre fiumanedi popolo ecco cantare: recuperatoè il nostro moto fin dalle cristianeorigini, ma resta indietro, immobile,quel canto. Si ripete uguale.Nelle sere non più torce ma globidi luce, e la periferia non parealtra, non altri i ragazzi nuovi...

Tra gli orti cupi, al pigro solicello Adalbertos komis kurtis!, i ragazzinid’Ivrea gridano, e, pei valloncellidi Toscana, con strilli di rondinini:Hor atorno fratt Helya!  La santa

 violenza sui rozzi cuori il clerocalca, rozzo, e li asserva a un’infanziaferoce nel feudo provinciale l’Imperoda Iddio imposto: e il popolo canta.

Un grande concerto di scalpellisul Campidoglio, sul nuovo Appennino,sui Comuni sbiancati dalle Alpi,suona, giganteggiando il travertinonel nuovo spazio in cui s’affrancal’Uomo: e il manovale Dov’andastù  jersera ... ripete con l’anima spantanel suo gotico mondo. Il mondo schiavitùresta nel popolo. E il popolo canta.

 Apprende il borghese nascente lo Ça ira,e trepidi nel vento napoleonico,all’Inno dell’Albero della Libertà,tremano i nuovi colori delle nazioni.Ma, cane affamato, difende il bracciantei suoi padroni, ne canta la ferocia,Guagliune ‘e mala vita!, in branchiferoci. La libertà non ha voceper il popolo cane. E il popolo canta.

Ragazzo del popolo che canti,

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qui a Rebibbia sulla misera rivadell’Aniene la nuova canzonetta, vantiè vero, cantando, l’antica, la festivaleggerezza dei semplici. Ma qualedura certezza tu sollevi insieme

d’imminente riscossa, in mezzo a ignarituguri e grattacieli, allegro semein cuore al triste mondo popolare?

Nella tua incoscienza è la coscienzache in te la storia vuole, questa storiail cui Uomo non ha più che la violenzadelle memorie, non la libera memoria...E ormai, forse, altra scelta non hache dare alla sua ansia di giustiziala forza della tua felicità,e alla luce di un tempo che iniziala luce di chi è ciò che non sa.

1952-53

Picasso

I

Nel tremito d’oro, domenicaledi Valle Giulia, la nazione è calda,silenziosa: la sua innocenza è pari

alla sua impurezza. Sembra ardadi popolare gioia, ed è una noiairreligiosa che solare si sparge

sui floreali gessi e i gran ventaglidegli scalini. Non è questoche l’atto in cui si sbriciola un’Italia

istituita, un anonimo ed onestoatto di civiltà... C’è chi lo compietra le aiuole infuocate e il fresco

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buio che le solca dai prorompentipini di Villa Borghese, chin’è riverberato nelle pompefestive di Piazza di Spagna e siconfonde in un brusio che trasaleintorno monotono e stupendo: qui

è più acceso il senso di un’Italia vibrante in un’antica notadi pace, in una morte dolce come l’aria,

dove la classe più alta regna immota.

II

E per la scalea l’anonimo, animasenza memoria, in un corpo immiseritoda secoli di sogni umilmente umani

di borghese esperienza, ormai è miticoin questa domenica doratache lo vede chiaro nel chiaro vestito.

Come d’improvviso appare ornata,la sua vita, di mite passione,e la sua mente (dominata

dentro il cuore dell’Istituzionedalla sua dignità dura e servile)come pare arda, immune testimone,

d’umile desiderio di capire...

III

La prima tela dalla scorza intensae rósa, in un gemmante arabescoquasi artigiano, dipinta con terra

e nascosto fuoco: ancora frescolo spirito del vecchio anteguerra

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 vi mescola scandalo e festa,

l’abnorme del pensiero e il puro dellatecnica, e ardente e affumicatala superficie i suoi toni inanella,

ceree corolle su zolla disseccata.Insegna della Francia più alta,quando il tramonto pareva un’infuocata

alba, e la disperazione espantapena del creare, e il frantumarsidel secolo un suo disegno araldico.

IV 

Ma già gli spumeggianti e crudi figliin nuvole di biancore, in acciarinicontorni, con purezza di gigli

e carnalità di cuccioli ferini,delineano pur nel lume di un’ideadegna di Velásquez, pur nelle trine,

l’eccesso di espressione che li crea.

 V 

L’espressione che sul pelo affioradel quadro, come da intimità viscerali,infetta di bruciante disamore,

e ne squassa la squama di tonalidolcezze, che, se resiste, e anziirrigidisce, è per materiali,

inebbrianti cagli. Ma tra i balzigraffianti del pennello, la zonadi quasi prativa luce, gli sfarzi

dei disaccordi, ecco l’Espressione:

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che s’incolla alla cornea e al cuore,irrichiesta, pura, cieca passione,

cieca manualità, impudico gonfioredei sensi, e, dei sensi, tersa noia.

 A nient’altro che a questo ateo furore

poteva, nella cadente Francia, Goyacedere la sua violenza. Qui, a esprimersi,sono pura angoscia e pura gioia.

 VI

Dentro l’ordinata processione,orda del sentire e del fare,non del credere, paesaggi, personesono scheletri in cui corporeo appareil loro perduto essere oggetti:esprimerli è esprimerne il male.

La civetta patrizia con sul pettoun avido verde o un viola che altrosenso non ha che infiammare se stesso,

o nell’occhio uno sgorbio, folle e scaltro,a tradire; i fiori che s’incarnanoa un feto o una seggiola e uno smalto

di toni che li incera nel compostoingranaggio; le spiagge dove gongolala gioia di un cadaverico agosto,

in cui l’inventare ha una mongola,monumentale libertà che nulla costa,una brutale libertà che il mondo

trasfigura per l’ignota forza

che ha il vizio, che ha la voluttàdell’esibirsi: tutto porta

ad una calma furia di limpidità. VII

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Quanta gioia in questa furia di capire!In questo esprimersi che rendealla luce, come materia empirea,la nostra confusione, che distendein caste superfici i nostri affettioffuscati! La chiarezza che ne accende

le forme interne, li fa nuovi oggetti, veri oggetti, né conta, anzi è coraggio,benché delirante, che si rifletta

in essi l’onta dell’uomo che appannaggiofa dell’Uomo, l’onta dell’uomo piùrecente, questo, questo che con saggio

calore guarda evidenziata salire sunelle atroci lastre la figuradi se stesso, la sua colpa, la sua

storia. Vede ridotte alla furia oscuradel sesso le esaltanti repressionidella Chiesa, e dispogliata in pura

chiarezza d’arte la chiara ragioneliberale; vede celebratain riverberanti figurazioni

la decadenza della snervataborghesia ancora avida nel mioperimpianto e nel cinismo...

Ma che lietezza profonda e quietanel capire anche il male; che infinitaesultanza, che vereconda festa,nell’accorata sete di chiarezza,nell’intelligenza, che compiuta attestala nostra storia nella nostra impurezza.

 VIII

Poi ecco, colmo, l’errore di Picasso:esposto sopra le grandi superficiche ne spalancano in pareti la bassa,

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fittile idea, il puro capriccio,arioso, di gigantesca e grassaespressività. Egli - tra i nemici

della classe che specchia, il più crudele,fin che restava dentro il tempo d’essa- nemico per furore e per babelica

anarchia, carie necessaria - escetra il popolo e dà in un tempo inesistente:

finto coi mezzi della vecchia stessa

sua fantasia. Ah, non è nel sentimentodel popolo questa sua spietata Pace,quest’idillio di bianchi uranghi. Assente

è da qui il popolo: il cui brusio tacein queste tele, in queste sale, quantofuori esplode felice per le placide

strade festive, in un comune cantoch’empie rioni e cieli, borghi e valli,lungo l’Italia, fino all’Alpi, spanto

per declivi falciati e giallifrumenti - nei paesi della smarritaEuropa - dove ripete i balli

e i cori antichi nell’anticaaria domenicale... Ed è, l’errore,in questa assenza. La via d’uscita

 verso l’eterno non è in quest’amore voluto e prematuro. Nel restaredentro l’inferno con marmorea

 volontà di capirlo, è da cercarela salvezza. Una societàdesignata a perdersi è fatale

che si perda: una persona mai.

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IX 

Sfortunati decenni... così vivida non poter essere vissutise non con un’ansia che li privi

di ogni quieta conoscenza, con l’inutiledolore di assisterne la perditanella troppa prossimità... Mutidecenni, di un secolo ancor verde,

e bruciato dalla rabbia dell’azionenon trascinante ad altro che a disperdere

nel suo fuoco ogni luce di Passione.Le ultime stanze gremisce la purapaura espressa in cristalline zone

d’infantile e senile cinismo: scurae abbagliata l’Europa vi proiettai suoi interni paesaggi. È matura

qui, se più trasparente vi si specchia,la luce della tempesta; i carnamidi Buchenwald, la periferia infetta

delle città incendiate, i cupi camionsdelle caserme dei fascismi, i bianchiterrazzi delle coste, nelle mani

di questo zingaro, si fanno infamantifeste, angelici cori di carogne:testimonianza che dei doloranti

nostri anni può la vergognaesprimere il pudore, tramandarel’angoscia l’allegrezza: che bisogna

essere folli per essere chiari.

1953

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Comizio

Qui è più puro, nel suo quietoterrore - se le sere ormai fondetremano agli ultimi brusii, poetici

di mera vita - l’incontro delle grondeurbane con il buio del cielo.E muri impalliditi, infeconde

aiuole, magri cornicioni, nel misteroche li imbeve dal cosmo, familiaree gaio fondono il loro. Ma stasera

un improvviso rovescio sulle ignarefantasie del passante frana, e gelail suo trasporto per le calde, care

pareti sconsacrate...

Non più, come un androne, di passi sonoriperché rari, di voci trasparentiperché quiete, tra splendorid’umile pietra, la piazza negli spentiangoli trasale: né solitariefrusciano le macchine dei potenti,

sfiorando il fianco del giovane pariache inebbria coi suoi fischi la città...Una smorta folla empie l’aria

d’irreali rumori. Un palco stasu essa, coperto di bandiere,del cui bianco il bruno lume fa

un sudario, il verde acceca, annerail rosso come di vecchio sangue. Aristao tetro vegetale guizza cerea

nel mezzo la fiammella fascista.

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Il dolore, inatteso, mi respingeindietro, quasi a non voler vedere.E invece con le lacrime che stingono

intorno il mondo così vivo, a seranella piazza, mi sospingo comedisincarnato in mezzo a questa fiera

di ombre. E guardo, ascolto. Romaintorno è muta: è il silenzio, insieme,

della città e del cielo. Non risuona voce su queste grida; il caldo semeche il maggio germoglia pur nel fresconotturno, un greve e antico gelo preme

sui muri preziosi, fatti mesticome nei sensi di un fanciulloangosciato... E più qui crescono

gli urli (e in cuore l’odio), più brullosi fa intorno il desertodove il consueto, pigro sussurro

s’è stasera sperduto...

Ecco chi sono gli esemplari vivi, vivi, di una parte di noi che, morta,ci aveva illuso d’esser nuovi - privi

d’essa per sempre. E invece, scortad’improvviso, in questa lieve piazzaorientale, ecco la sua falange, folta,

urlante - coi segni della razzache nel popolo è oscura allegriae in essa triste oscurità - che impazza

cantando la salute. E l’energiasua non è che debolezza, offesasessuale, che non ha altra via

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per essere passione, nella mente accesa,che azioni troppo lecite od illecite:e qui urla soltanto la borghese

impotenza a trascendere la specie,la confusione della fede chel’esalta, e disperatamente cresce

nell’uomo che non sa che luce ha in sé.

Resto in piedi tra questa folla quasiil gelo, che da Trinità dei Monti,dai duri vegetali del Pincio, rasi

contro le stelle e i chiusi orizzontispegne la città - mi spegnesse il petto,rendendo puro stupore i monchi

sentimenti, pietà, amarezza. Gettointorno sguardi che non mi sembran miei,tanto sono diverso. Non è l’aspetto

di gente viva con me, questo, neisuoi visi c’è un tempo morto che tornainaspettato, odioso, quasi i bei

giorni della vittoria, i freschi giornidel popolo, fossero essi, morti.Per chi è andato avanti, ecco, intorno,

il passato, i fantasmi, i risortiistinti. Questi visi giovaniliprecocemente vecchi, questi storti

sguardi di gente onesta, queste viliespressioni di coraggio. La memoriaera dunque così smorta e sottile

da non ricordarli? Tra i clamoricammino muto, o forse sono mutiessi, nella tempesta che ho nel cuore.

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E nel senso di perdita del propriocorpo, che dà un’angoscia improvvisa,in silenzio al fianco mi si scopre

un compagno. Con me, intento e indeciso,si muove tra la ressa, con me guardanei visi questa gente, con me il misero

corpo trascina tra petti che coccardecolmano di vile orgoglio. Poi su me

posa lo sguardo. Tristemente gli arde

col pudore che ben conosco; ed ècosì mio quello sguardo fraterno!così profondamente familiare, nel

pensiero che dà a questi atti senso eterno!E in questo triste sguardo d’intesa,per la prima volta, dall’invernoin cui la sua ventura fu appresa,e mai creduta, mio fratello mi sorride,mi è vicino. Ha dolorosa e accesa,

nel sorriso, la luce con cui vide,oscuro partigiano, non ventenneancora, come era da decidere

con vera dignità, con furia indenned’odio, la nuova nostra storia: e un’ombra,in quei poveri occhi, umiliante e solenne...

Egli chiede pietà, con quel suo modesto,tremendo sguardo, non per il suo destino,ma per il nostro... Ed è lui, il troppo onesto,

il troppo puro, che deve andare a capo chino?Mendicare un po’ di luce per questomondo rinato in un oscuro mattino?

1954

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

L’umile Italia

I

Qui, nella campagna romana,tra le mozze, allegre case arabee i tuguri, la quotidiana

 voce della rondine non cala,dal cielo alla contrada umana,a stordirla d’animale festa.

Forse perché già troppo pienad’umana festa: né mai mestaessa è abbastanza per la fresca

 voce d’una tristezza serena.

Cupa è qui la tristezza, comeè leggera la gioia: non hache atti estremi, confusione,la violenza: è ariditàil suo ardore. Invece è la passionemite, virile, che rischiarail mondo in una luce senzaimpurezze, che al mondo dà le carecivili piazzette, dove ignarerondini scatena l’innocenza.

Borghi del settentrione, dovedal ragazzo con fierezzae allegra umiltà nasce il giovane,e vive la sua giovinezzada vero adulto, benché piovail suo occhio chiaro e la sua biondatesta luce infantile: ma èquell’infanzia solo giocondaonestà: egli nella sua fonda

 vita il mondo matura con sé.

Perciò possono ancora le rondinicantarlo, gettandosi lievinelle piazzette dei girotondi,dei canti puerili, dove le nevi

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Vico Acitillo: La Poesia 

si dissolvono in biancospini,più pure, e questi si mutanoper la dolce foga della semenzain rose, in gigli: ché confinile stagioni non v’hanno, né incrinanuova esistenza l’esistenza.

Qui venti affricani l’assolatoinverno bruciano: nasconocarnai di fiori, è già estate.

I ragazzetti dentro taschegià impure infilano viziatele mani: la loro violenzainfantile resterà nella neraloro bellezza adulta. Esperienzaè ironica durezza: senzarondini, di cani urla la sera.

O, se rondini volano, alte vanno a stridere su tettidi grandi case dove l’artestraripante dei secoli elettiscolora come in vecchie carte:e anche il loro garrito,se girano in cielo, smuorein diversi spazi, in un miticoscenario. E su di esso sbiaditosi chiude un cielo di memorie.

La jungla delle anime scurecome la pelle e gli occhi, chela moderna vita nutre a durenecessità e bassezze, ormai èsu Roma, la stringe in impureconfusioni, in ciechi smarrimentidi stile, come una piena saleoltre i rotti argini: impotente

la Roma del potere ne sente,ancora plebe, l’ansia nazionale.

II

 Ah, rondini, umilissima voce

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

dell’umile Italia! Che festaalle pasquali fonti, alle focidei fiumi padani, alla mestaluce della piazzetta, dei noci,dei filari a festoni da gelso

a gelso, che ai vostri garriti verdeggiano più umani! che eccelsosignificato in quel vostro persogroviglio, nuovo, di gridi antichi.

È dentro il tempo dato al puro,allo struggente passare chelanciate con sopita furiaquei vostri gridi: in sé,quieto, li accoglie un già scurocielo primaverile, o un’alba,o un lieto mezzogiorno... E passa,con lo stupendo tempo che gli alberiingemma e spoglia, le ore scialbeaccende, raggela i caldi sassi.

È nel tempo puramente umano,accoratamente umano, ches’incide il vostro guizzo vanodi animale dolcezza, è- insieme prossimo e lontano -nel tempo che non torna, e tornasempre sopra il mondo che non harimpianti, a sprofondar la gornasolatia, l’acre aia, l’adornacampagna, quasi in perdute età.

È indifferenza o nostalgiail sentimento - anch’esso umanoe fuggitivo - di chi vi spia,in quel meriggio, in quel gramo

 vespro, perse in turchine scie...La natura vi dà e la natura

 vi esprime nel cuore che stordite.Il tempo che uguale s’infutura

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Vico Acitillo: La Poesia 

con sé vi trasporta nell’oscuramonotonia che rinnova le vite.

 Ah, non è il tempo della storia,questo, della vita non perduta,non sono questi gli alti, incoloriluoghi di una patria divenutacoscienza oltre la memoria.Ma dove meglio riconoscerliche in questi antichissimi incanti

in cui son più vicini? Fossilid’un’esistenza che ai commossiocchi, non si svela, si canta?

Dove meglio capire, intera,la natura che deve farsinazione, l’ombra che s’avveranella chiarezza? Ah dolci intarsiche nella vellutata seradella Venezia, della Lombardia,- terrorizzata quasi nellatroppa ebbrezza, nella pazziache troppo la trascina - piala rondine intreccia sulla terra.

Più è sacro dov’è più animaleil mondo: ma senza tradirela poeticità, l’originariaforza, a noi tocca esaurireil suo mistero in bene e in maleumano. Questa è l’Italia, enon è questa l’Italia: insiemela preistoria e la storia chein essa sono convivano, sela luce è frutto di un buio seme.

III

Imperlate già di nascentistelle, vibrano tra i castagnile rondini. Confuse le senti

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

lacerare l’aria sugli altagnisecchi, sui tiepidi spioventidella villa, e lo stradonecupo nel suo tenero asfalto;la famiglia tace, del padrone,ma i figli dei mezzadri, comenel vecchio mondo gridano alto!

Come si assiepa il secolareloro gridìo di servi indenni

da bassezza, nella popolaredignità dei rustici e solenniloro municipi settentrionali...Loro è la sera, loro è l’accentodella campana; s’è il dolce sabato,loro è l’allegrezza che il ventoda orti, aie, osterie, lentoe quasi religioso, dirada.

Ecco là, le loro macchie vividedi tigli, e in nude prospettivei gelseti che i giovinettiall’imbrunire sfogliano, e le rivedei fossi caldi di saggine.Ecco il sambuco, ecco il pioppoche sbianca, sulle rosse bambinea erba pei conigli, chinesotto le campane a doppio.

Ecco, a inazzurrare la pianura,le loro Alpi: cerchio silenteche se in morene e laghi oscurai suoi biancori, e i suoi sgomenti

 vi quieta, quasi impaurala sua serenità. Sfuma l’Italianegli smorti, eccelsi tonidi quei nevai: contro cui l’alacieca della rondine esalapiù vera le quotidiane passioni.

Più vera perché più espressa,

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Vico Acitillo: La Poesia 

libera: nel suo fragile arconon porta il peso dell’ossessarassegnazione - furente marchiodella servitù e del sesso -che il greco meridione fadecrepito e increato, sporcoe splendido. È necessitàliberarsi soffrendo, malottando soffrire, la storia.

È necessità il capiree il fare: il credersi voltial meglio, presi da un ardiresacrilego a scordare i morti,a non concedersi respirodietro il rinnovarsi del tempo.Eppure qualche cosa è piùforte del nostro ardore empioa maturare nella mentea fare della natura virtù.

E ci trascina indietro, al fresco,all’arso tempo, al tempo vano,assordato dalle vane festedell’umile gente, al tempo umano,al tempo allegramente terrestre,al tempo che vive il suo incanto,con le rondini, nel solatiopaese padano, nel fiancodei freschi colli, e che di schianto

 voi volgete, rondini, all’addio.

1954

Quadri friulani

Senza cappotto, nell’aria di gelsominomi perdo nella passeggiata serale,respirando - avido e prostrato, fino

a non esistere, a essere febbre nell’aria -

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Vico Acitillo: La Poesia 

l’argine sugli arazzi d’oro dei vigneti.

Ti ricordi di quella sera a Ruda?Quel nostro darsi, insieme, a un giocodi pura passione, misura della nostra cruda

gioventù, del nostro cuore ancora pocopiù che puerile? Era una lottabruciante di se stessa, ma il suo fuocosi spandeva oltre noi; la notte,

ricordi?, ne era tutta piena nel fresco vuoto, nelle strade percorse da frotte

di braccianti vestiti a festa,di ragazzi venuti in biciclettadai borghi vicini: e la mesta,

quotidiana, cristiana, piazzettane fiottava come in una sagra.Noi, non popolani, nella stretta

del popolo contadino, della magrafolla paesana, amati quantoci ardeva l’amare, feriti dall’agra

notte ch’era loro, del loro stancoritorno dai campi nell’odoredi fuoco delle cene... uno a fianco

all’altro gridavamo le paroleche, quasi incomprese, erano promessasicura, espresso, rivelato amore.

E poi le canzoni, i poveri bicchieridi vino sui tavoli dentro la buiaosteria, le chiare faccie dei festeggeri

intorno a noi, i loro certi occhi suinostri incerti, le scorate armonichee la bella bandiera nell’angolo piùin luce dell’umido stanzone.

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Ora, lontano, diverso, nel vento quasinon terrestre che smuovendo l’ariaimpura, trae vita da una stasi

mortale delle cose, rivedo i casali,i campi, la piazzetta di Ruda;su, le bianche alpi, e giù, lungo i canali,

tra campi di granoturco e vigne, l’umidaluce del mare. Ah, il filo misterioso

si dipana ancora: e in esso, nuda,

la realtà - l’irreale Qualcosache faceva eterna quella sera.L’aria tumefatta e festosa

dei tuoi primi quadri, dov’erail verde un verde quasi di bambinoe il giallo un’indurita cera

di molle Espressionista, e le chinespigolatrici, spettri del caldo sessoadolescente - brulicava al confine

di quel luogo segreto, dove oppressoda un sole eternamente arancio,dolcissimo è il meriggio estivo, e in essoarde una crosta di profumi, un glaucoafrore d’erbe, di sterco, che il ventorimescola...

Tu lo sai quel luogo, quel Friuliche solo il vento tocca, ch’è un profumo!Da esso scende sopra i tuoi oscuri

suonatori di flauto, il dolce grumodei neri e dei violetti, e si espandeda esso iridescente il bitume

sui tuoi Cristi inchiodati tra faldedi luce franata dai transetti d’Aquileia,

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Vico Acitillo: La Poesia 

e reduci da esso, nelle calde

sere riverberanti della Bassa o neibianchi mattini gelati nei canali,

 vanno i tuoi pescatori verdi di veglie,

a cui arrossa le rozze rughe il sale,o giovanili nereggiano i bracciantisulle scarpate del traghetto serale,

appoggiati ai manubri, stanchi,bruciati, mentre la notte già s’annuncianel triste borgo con le luci e i canti.

E il vento, da Grado o da Triesteo dai magredi sotto le Prealpi,soffia e rapisce dalle meste

 voci delle cene, qualche palpitopiù puro, o nel brusio delle paludiqualche più sgomento grido, o qualche

più oscuro senso di freschezza nell’umidodeserto degli arativi, dei canneti,delle boschine intorno ai resultumi...

Sono sapori di quel mondo quietoe sgomento, ingenuamente persoin una sola estate, in un solo vecchio

inverno - che in questo mondo diversospande infido il vento. Ah quandoun tempo confuso si rifà terso

nella memoria, nel vero tempo che sbandaper qualche istante, che sapore di morte...Non ne stupisco, se a questi istanti

di disfatta e di veggenza, mi portanoanni consumati in una chiarezzache non muta il mondo, ma lo ascolta

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nella sua vita, con inattiva ebbrezza...

Felice te, a cui il vento primaverilesa di vita; se hai scelto un’unica vitae, insieme più adulto e giovanile

del tuo amico, sordo all’infinitastagione di cui così imbevuto vivi,sordo al Qualcosa che ti invita

a ritornare ai tristi, ai sorgivisogni dell’esistenza - alla coscienzasquisita che svela il mondo in brividi

non umani - credi nel mondo senzaaltra misura che l’umana storia:nei colori in cui fiammeggia la presenza

di un Friuli espresso in speranze e dolorid’uomini interi, se pur fatti da oralerozza esperienza uomini, se pur con cuori

duri come le mani, e spinti a non parlarealtra lingua che il troppo vivo dialetto,persi in albe e vespri a lavorare

la loro vigna, il loro campetto,quasi non fosse loro, a festeggiarele lucenti domeniche col pettopieno del buio delle vecchie campane.

E quale forza nel voler mutareil mondo - questo mondo perdutoin malinconie, in allegrie pasquali,

giocondamente vivo anche se muto!Quale forza nel vederne le seree i mattini, chiusi nel rustico

lume, quasi sere e mattini di èrefuture, ardenti più di fede che d’affetto!

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Vico Acitillo: La Poesia 

È floridezza e gioia, questo volere

 violentemente essere espressoche, in roventi vampe d’evidenza,gonfia di spazio ogni umile oggetto.

Ne avvampano le incolori biciclettedi Cervignano, ammassate ai posteggidelle sagre, lungo i poveri muretti

scottati dal sole, o ai tarlati ormeggidei traghetti sui turchini canali;ne avvampano le camicie di tela, i greggi

calzoni degli allegri manovalidi Snia Viscosa, a file sugli asfaltidello stradone...E il polverone del sole e della pulache ammassa e sfregola arancio e gialloin un cantone perso nell’arsura

tra smunti salici, come in un ballodomenicale, confinato sulle rivedel Tagliamento, o tra le arse valli

delle bonifiche, o sulle risorgivelattee di magri fusti: dove assordantela trebbia scuote col massiccio brivido

tettoie e stalle, in un ringhio osannante,impastato di luce, di sudore umano,del puzzo del vecchio e innocente branco

dei cavalli ammassati in un fulgore di rame...L’amore di Ruda, gridato dal rossopalco di povere casse, rimane

puro nella tua vita. E chi, scossodalla paura di non essere abbastanza puro,aspira nel vento di primavera lo smosso

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

sapore della morte, invidia il tuo sicuroespanderti nei solenni, festanti coloridell’allegria presente, del sereno futuro.

1955

Le ceneri di Gramsci

I

Non è di maggio questa impura ariache il buio giardino stranierofa ancora più buio, o l’abbaglia

con cieche schiarite... questo cielodi bave sopra gli attici gialliniche in semicerchi immensi fanno velo

alle curve del Tevere, ai turchinimonti del Lazio... Spande una mortalepace, disamorata come i nostri destini,

tra le vecchie muraglie l’autunnalemaggio. In esso c’è il grigiore del mondo,la fine del decennio in cui ci appare

tra le macerie finito il profondoe ingenuo sforzo di rifare la vita;il silenzio, fradicio e infecondo...Tu giovane, in quel maggio in cui l’erroreera ancora vita, in quel maggio italianoche alla vita aggiungeva almeno ardore,

quanto meno sventato e impuramente sanodei nostri padri - non padre, ma umilefratello - già con la tua magra mano

delineavi l’ideale che illumina(ma non per noi: tu, morto, e noimorti ugualmente, con te, nell’umido

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Vico Acitillo: La Poesia 

giardino) questo silenzio. Non puoi,lo vedi?, che riposare in questo sitoestraneo, ancora confinato. Noia

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,solo ti giunge qualche colpo d’incudinedalle officine di Testaccio, sopito

nel vespro: tra misere tettoie, nudimucchi di latta, ferrivecchi, dove

cantando vizioso un garzone già chiude

la sua giornata, mentre intorno spiove.

II

Tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo.Scelte, dedizioni... altro suono non hannoormai che questo del giardino gramoe nobile, in cui caparbio l’ingannoche attutiva la vita resta nella morte.Nei cerchi dei sarcofaghi non fannoche mostrare la superstite sortedi gente laica le laiche iscrizioniin queste grige pietre, corte

e imponenti. Ancora di passionisfrenate senza scandalo son arsele ossa dei miliardari di nazioni

più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,le ironie dei principi, dei pederasti,i cui corpi sono nell’urne sparse

inceneriti e non ancora casti.Qui il silenzio della morte è fededi un civile silenzio di uomini rimasti

uomini, di un tedio che nel tediodel Parco, discreto muta: e la cittàche, indifferente, lo confina in mezzo

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a tuguri e a chiese, empia nella pietà, vi perde il suo splendore. La sua terragrassa di ortiche e di legumi dà

questi magri cipressi, questa neraumidità che chiazza i muri intornoa smorti ghirigori di bosso, che la serarasserenando spegne in disadornisentori d’alga... quest’erbetta stentae inodora, dove violetta si sprofonda

l’atmosfera, con un brivido di menta,o fieno marcio, e quieta vi preludecon diurna malinconia, la spenta

trepidazione della notte. Rudedi clima, dolcissimo di storia, ètra questi muri il suolo in cui trasuda

altro suolo; questo umido chericorda altro umido; e risuonano- familiari da latitudini e

orizzonti dove inglesi selve coronanolaghi spersi nel cielo, tra praterie

 verdi come fosforici biliardi o come

smeraldi: “And O ye Fountains...” - le pieinvocazioni...

III

Uno straccetto rosso, come quelloarrotolato al collo ai partigianie, presso l’urna, sul terreno cereo,

diversamente rossi, due gerani.Lì tu stai, bandito e con dura eleganzanon cattolica, elencato tra estraneimorti: Le ceneri di Gramsci... Tra speranzae vecchia sfiducia, ti accosto, capitato

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Vico Acitillo: La Poesia 

per caso in questa magra serra, innanzi

alla tua tomba, al tuo spirito restatoquaggiù tra questi liberi. (O è qualcosadi diverso, forse, di più estasiato

e anche di più umile, ebbra simbiosid’adolescente di sesso con morte...)E, da questo paese in cui non ebbe posa

la tua tensione, sento quale torto- qui nella quiete delle tombe - e insiemequale ragione - nell’inquieta sorte

nostra - tu avessi stilando le supremepagine nei giorni del tuo assassinio.Ecco qui ad attestare il seme

non ancora disperso dell’antico dominio,questi morti attaccati a un possessoche affonda nei secoli il suo abominio

e la sua grandezza: e insieme, ossesso,quel vibrare d’incudini, in sordina,soffocato e accorante - dal dimesso

rione - ad attestarne la fine.Ed ecco qui me stesso... povero, vestitodei panni che i poveri adocchiano in vetrinedal rozzo splendore, e che ha smarritola sporcizia delle più sperdute strade,delle panche dei tram, da cui stranito

è il mio giorno: mentre sempre più radeho di queste vacanze, nel tormentodel mantenermi in vita; e se mi accade

di amare il mondo non è che per violentoe ingenuo amore sensualecosì come, confuso adolescente, un tempo

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

l’odiai, se in esso mi feriva il maleborghese di me borghese: e ora, scisso- con te - il mondo, oggetto non appare

di rancore e quasi di misticodisprezzo, la parte che ne ha il potere?Eppure senza il tuo rigore, sussisto

perché non scelgo. Vivo nel non voleredel tramontato dopoguerra: amando

il mondo che odio - nella sua miseria

sprezzante e perso - per un oscuro scandalodella coscienza...

IV 

Lo scandalo del contraddirmi, dell’esserecon te e contro te; con te nel cuore,in luce, contro te nelle buie viscere;del mio paterno stato traditore- nel pensiero, in un’ombra di azione -mi so ad esso attaccato nel calore

degli istinti, dell’estetica passione;attratto da una vita proletariaa te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenariasua lotta: la sua natura, non la suacoscienza; è la forza originaria

dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,a darle l’ebbrezza della nostalgia,una luce poetica: ed altro più

io non so dirne, che non siagiusto ma non sincero, astrattoamore, non accorante simpatia...

Come i poveri povero, mi attacco

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Vico Acitillo: La Poesia 

come loro a umilianti speranze,come loro per vivere mi batto

ogni giorno. Ma nella desolantemia condizione di diseredato,io possiedo: ed è il più esaltante

dei possessi borghesi, lo statopiù assoluto. Ma come io possiedo la storia,essa mi possiede; ne sono illuminato:

ma a che serve la luce?

 V 

Non dico l’individuo, il fenomenodell’ardore sensuale e sentimentale...altri vizi esso ha, altro è il nome

e la fatalità del suo peccare...Ma in esso impastati quali comuni,prenatali vizi, e quale

oggettivo peccato! Non sono immunigli interni e esterni atti, che lo fannoincarnato alla vita, da nessuna

delle religioni che nella vita stanno,ipoteca di morte, istituitea ingannare la luce, a dar luce all’inganno.

Destinate a esser seppellitele sue spoglie al Verano, è cattolicala sua lotta con esse: gesuitiche

le manìe con cui dispone il cuore;e ancor più dentro: ha bibliche astuziela sua coscienza... e ironico ardore

liberale... e rozza luce, tra i disgustidi dandy provinciale, di provincialesalute... Fino alle infime minuzie

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in cui sfumano, nel fondo animale, Autorità e Anarchia... Ben protettodall’impura virtù e dall’ebbro peccare,

difendendo una ingenuità di ossesso,e con quale coscienza!, vive l’io: io,

 vivo, eludendo la vita, con nel petto

il senso di una vita che sia oblioaccorante, violento... Ah come

capisco, muto nel fradicio brusio

del vento, qui dov’è muta Roma,tra i cipressi stancamente sconvolti,presso te, l’anima il cui graffito suona

#Shelley#... Come capisco il vorticedei sentimenti, il capriccio (greconel cuore del patrizio, nordico

 villeggiante) che lo inghiottì nel ciecoceleste del Tirreno; la carnalegioia dell’avventura, estetica

e puerile: mentre prostrata l’Italiacome dentro il ventre di un’enormecicala, spalanca bianchi litorali,

sparsi nel Lazio di velate tormedi pini, barocchi, di giallognoleradure di ruchetta, dove dorme

col membro gonfio tra gli stracci un sognogoethiano, il giovincello ciociaro...Nella Maremma, scuri, di stupende fogne

d’erbasaetta in cui si stampa chiaroil nocciòlo, pei viottoli che il butterodella sua gioventù ricolma ignaro.

Ciecamente fragranti nelle asciutte

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Vico Acitillo: La Poesia 

curve della Versilia, che sul mareaggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,

le tarsie lievi della sua pasqualecampagna interamente umana,espone, incupita sul Cinquale,

dipanata sotto le torride Apuane,i blu vitrei sul rosa... Di scogli,frane, sconvolti, come per un panico

di fragranza, nella Riviera, molle,erta, dove il sole lotta con la brezzaa dar suprema soavità agli olii

del mare... E intorno ronza di lietezzalo sterminato strumento a percussionedel sesso e della luce: così avvezza

ne è l’Italia che non ne trema, comemorta nella sua vita: gridano caldida centinaia di porti il nome

del compagno i giovinetti madidinel bruno della faccia, tra la genterivierasca, presso orti di cardi,

in luride spiaggette...

Mi chiederai tu, morto disadorno,d’abbandonare questa disperatapassione di essere nel mondo?

 VI

Me ne vado, ti lascio nella serache, benché triste, così dolce scendeper noi viventi, con la luce cerea

che al quartiere in penombra si rapprende.E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,

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intorno, e, più lontano, lo riaccende

di una vita smaniosa che del rocorotolìo dei tram, dei gridi umani,dialettali, fa un concerto fioco

e assoluto. E senti come in quei lontaniesseri che, in vita, gridano, ridono,in quei loro veicoli, in quei grami

caseggiati dove si consuma l’infidoed espansivo dono dell’esistenza -quella vita non è che un brivido;

corporea, collettiva presenza;senti il mancare di ogni religione

 vera; non vita, ma sopravvivenza

- forse più lieta della vita - comed’un popolo di animali, nel cui arcanoorgasmo non ci sia altra passione

che per l’operare quotidiano:umile fervore cui dà un senso di festal’umile corruzione. Quanto più è vano

- in questo vuoto della storia, in questaronzante pausa in cui la vita tace -ogni ideale, meglio è manifesta

la stupenda, adusta sensualitàquasi alessandrina, che tutto miniae impuramente accende, quando qua

nel mondo, qualcosa crolla, e si trascinail mondo, nella penombra, rientrandoin vuote piazze, in scorate officine...

Già si accendono i lumi, costellando Via Zabaglia, Via Franklin, l’interoTestaccio, disadorno tra il suo grande

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Vico Acitillo: La Poesia 

lurido monte, i lungoteveri, il nerofondale, oltre il fiume, che Monteverdeammassa o sfuma invisibile sul cielo.

Diademi di lumi che si perdono,smaglianti, e freddi di tristezzaquasi marina... Manca poco alla cena;

brillano i rari autobus del quartiere,con grappoli d’operai agli sportelli,

e gruppi di militari vanno, senza fretta,

 verso il monte che cela in mezzo a sterrifradici e mucchi secchi d’immondizianell’ombra, rintanate zoccolette

che aspettano irose sopra la sporciziaafrodisiaca: e, non lontano, tra casetteabusive ai margini del monte, o in mezzo

a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzileggeri come stracci giocano alla brezzanon più fredda, primaverile; ardenti

di sventatezza giovanile la romanescaloro sera di maggio scuri adolescentifischiano pei marciapiedi, nella festa

 vespertina; e scrosciano le saracineschedei garages di schianto, gioiosamente,se il buio ha reso serena la sera,

e in mezzo ai platani di Piazza Testaccioil vento che cade in tremiti di bufera,è ben dolce, benché radendo i capellacci

e i tufi del Macello, vi si imbevadi sangue marcio, e per ogni doveagiti rifiuti e odore di miseria.

È un brusio la vita, e questi persi

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

in essa, la perdono serenamente,se il cuore ne hanno pieno: a godersi

eccoli, miseri, la sera: e potentein essi, inermi, per essi, il mitorinasce... Ma io, con il cuore cosciente

di chi soltanto nella storia ha vita,potrò mai più con pura passione operare,se so che la nostra storia è finita?

1954

Récit

Com’era nuovo nel sole Monteverde Vecchio!Con la mano, ferito, mi facevo specchio

per guardare intorno viali e strade in salita vivi di gente nuova nella sua vecchia vita.

Giunsi nella piazza, accaldato e tremante,ché gelo e sole insieme il quartiere accecante

sbiancavano con muta ed estasiata noia.Ricco era il quartiere, ma popolana gioia

ne invadeva interrati ed attici con voci vaghe ma violente, canti lieti e feroci

di garzoni, di serve e d’operai perdutisu bianche impalcature, tra bianchi rifiuti.

Come non sentire, con la vita il cuoreesser diverso e uno, essere gelo e sole?

Come non sentire ch’è pura gratitudineper il mondo anche l’essere umiliati e nudi?

Mi aspettava nel sole della vuota piazzettal’amico, come incerto... Ah che cieca fretta

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Vico Acitillo: La Poesia 

nei miei passi, che cieca la mia corsa leggera.Il lume del mattino fu lume della sera:

subito me ne avvidi. Era troppo vivoil marron dei suoi occhi, falsamente giulivo...

Mi disse ansioso e mite la notizia.Ma fu più umana, Attilio, l’umana ingiustizia

se prima di ferirmi è passata per te,

e il primo moto di dolore che

fece sera del giorno, fu pel tuo dolore.Intanto nulla era mutato sotto il fresco sole.

 Anzi, l’indorarsi quieto del mezzogiornopareva eternare ogni cosa all’intorno.

Rifui solo: seguii con l’occhio l’autosparire con lui, nell’aria che ogni smalto

aveva perso ed era aria, soltanto aria,l’aria in cui si vive, ignorati ed amari,

ogni giorno, mangiando silenziosi la vita,sia ripugnante o dolce, lieta o nemica.

Com’era estraneo ora, ogni allegro grido,per chi, ora, andava lungo un diverso lido.

Il guizzo di rossore che al sole occhieggiavada una maglia o uno straccio per la sperduta strada,

era sangue colante dal petto feritod’un ignaro animale, stanato, inseguito...

Ché intanto il più recente giorno del creatodorava il quartiere dolcemente gelato

di un sole mattutino ridestato dal fondodei più antichi giorni che dorarono il mondo.

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

Come portando sole la carretta spingeval’erbivendolo greve sopra il fango lieve;

radendolo il garzone, con un fischio d’amores’alzava sui pedali, cantava: Anema e core...

Tutto Monteverde tremava di martellida assolati cantieri ad assolati sterri.

Ma era solo un fervore di gente umiliata:

era solo la pace che una città occupata

spande nella sua luce come un tempo pura,rassegnata a esser vinta, a brulicare oscura.

Meridionali voci, risa di vecchia gentehanno allora un clamore che la storia non sente:

dove guizza più vivo uno straccio, uno sguardolì più morta al sole la natura riarde.

Ed ecco la mia casa, nella luce marinadi via Fonteiana in cuore alla mattina:

la mia tana, indifesa, cieca di speranza,dove bruciare l’ultima remora che mi avanza.

Entro e mi rinchiudo, muto e spento comeun impiccato solo col suo corpo e il suo nome.

E con quanta dolcezza nella mia stanza colal’olio dardeggiante dello svenato sole!

 Ah, lo so che le cagne, con il loro latrato,ridestano ignare il Dio dimenticato:

sento come sono, ricordo come fui, visto dallo sguardo improvviso di Lui.

Ma anche all’uomo più ingenuo nel petto feritoil sangue si annera, anche all’uomo più mite

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Vico Acitillo: La Poesia 

nello stupito occhio si annera il dolore.Più fu un tempo tenero, più s’indurisce il cuore.

E conosce i geli, le indifferenze, i mutie scorati disgusti di chi ormai si rifiuti

a vibrare ancora, e sotto essi celila sperduta violenza dei suoi affetti veri.

E a dare, egli innocente, ai colpevoli scandalo,

china muto lo sguardo, o ragiona tremando

- il duro disprezzo e lo spaurito risoconfondendo nel vecchio ed infantile viso -

rozzo e cavilloso, sgraziato e squisito.E, se questo è orgoglio, per questo è punito.

Sconta in esperienze disperate ed oscurel’inesperienza chi in essa resta impuro.

O sole che inondi d’un pasquale alborela mia povera stanza, e mi bruci sul cuore,

nella tiepida onda con cui piovi dal cielofai qui dentro spirare fatto puro e leggero

l’urlo delle cagne, che strozzate e stoltepromettono disprezzo, disperazione e morte...

Ma perché costringermi ad odiare, ioche quasi grato al mondo per il mio male, il mio

essere diverso - e per questo odiato -pure non so che amare, fedele e accorato?

Non sono ancora vivi e presenti uominiche sono per vent’anni vissuti di passioni

soffocate in petto perché nemiche al mondo,brucianti perché estranee a ogni triste e giocondo

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

atto della nazione, a ogni pena o festache più è ignara, più, per l’escluso, è onesta?

Uomini vissuti per vent’anni col cuore,così fecondo, arso da infecondo rancore?

Ecco lì, dietro il lume fragrante del soletra sterri e impalcature, l’oleato fulgore

d’una periferia nuda come un inferno,

un fiume di terrazze contro lo sfatto schermo

dell’agro nella cui vampa diffusa fiatatra le gru la Permolio la vampa ranciata;

e infossa il divorato vallo la Ferro-Betontra frane di tuguri, qualche marcio frutteto,

e file di cantieri già vecchi nel mattino.Quasi allegri, è vero, con il loro destino

per vie calde d’asfalto, contro baracche e prati,garzoni, operai, serve, disoccupati

brulicano al più recente giorno del creatoche dora il quartiere dolcemente gelato

di un sole mattutino ridestato dal fondodei più antichi giorni che dorarono il mondo...

E, però, lo so bene!, se smaniano angosciosii latrati in quel sole, tra i rioni festosi,

e minacciano morte, sordidamente ossessicontro chi tradisce perché è diverso, essi,

nell’aria troppo dolce, nell’umana innocenzanon sono che i messi della mia coscienza.

1956

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Vico Acitillo: La Poesia 

Il pianto della scavatrice

I

Solo l’amare, solo il conoscereconta, non l’aver amato,non l’aver conosciuto. Dà angoscia

il vivere di un consumatoamore. L’anima non cresce più.

Ecco nel calore incantato

della notte che piena quaggiùtra le curve del fiume e le sopite

 visioni della città sparsa di luci,

echeggia ancora di mille vite,disamore, mistero, e miseriadei sensi, mi rendono nemiche

le forme del mondo, che fino a ierierano la mia ragione d’esistere.

 Annoiato, stanco, rincaso, per neri

piazzali di mercati, trististrade intorno al porto fluviale,tra le baracche e i magazzini misti

agli ultimi prati. Lì mortaleè il silenzio: ma giù, a viale Marconi,alla stazione di Trastevere, appare

ancora dolce la sera. Ai loro rioni,alle loro borgate, tornano su motorileggeri - in tuta o coi calzoni

di lavoro, ma spinti da un festivo ardore -i giovani, coi compagni sui sellini,ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

chiacchierano in piedi con vocialte nella notte, qua e là, ai tavolinidei locali ancora lucenti e semivuoti.

Stupenda e misera città,che m’hai insegnato ciò che allegri e ferocigli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezzadella vita in pace si scopre, come

andare duri e pronti nella ressa

delle strade, rivolgersi a un altro uomosenza tremare, non vergognarsidi guardare il denaro contatocon pigre dita dal fattorinoche suda contro le facciate in corsain un colore eterno d’estate;

a difendermi, a offendere, ad avereil mondo davanti agli occhi e nonsoltanto in cuore, a capire

che pochi conoscono le passioniin cui io sono vissuto:che non mi sono fraterni, eppure sono

fratelli proprio nell’averepassioni di uominiche allegri, inconsci, interi

 vivono di esperienzeignote a me. Stupenda e miseracittà che mi hai fatto fare

esperienza di quella vitaignota: fino a farmi scoprireciò che, in ognuno, era il mondo.

Una luna morente nel silenzio,che di lei vive, sbianca tra violenti

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Vico Acitillo: La Poesia 

ardori, che miseramente sulla terra

muta di vita, coi bei viali, le vecchie viuzze, senza dar luce abbaglianoe, in tutto il mondo, le riflettelassù, un po’ di calda nuvolaglia.È la notte più bella dell’estate.Trastevere, in un odore di paglia

di vecchie stalle, di svuotate

osterie, non dorme ancora.Gli angoli bui, le pareti placide

risuonano d’incantati rumori.Uomini e ragazzi se ne tornano a casa- sotto festoni di luci ormai sole -

 verso i loro vicoli, che intasanobuio e immondizia, con quel passo blandoda cui più l’anima era invasa

quando veramente amavo, quando veramente volevo capire.E, come allora, scompaiono cantando.

II

Povero come un gatto del Colosseo, vivevo in una borgata tutta calcee polverone, lontano dalla città

e dalla campagna, stretto ogni giornoin un autobus rantolante:e ogni andata, ogni ritorno

era un calvario di sudore e di ansie.Lunghe camminate in una calda caligine,lunghi crepuscoli davanti alle carte

ammucchiate sul tavolo, tra strade di fango,muriccioli, casette bagnate di calce

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

e senza infissi, con tende per porte...

Passavano l’olivaio, lo straccivendolo, venendo da qualche altra borgata,con l’impolverata merce che pareva

frutto di furto, e una faccia crudeledi giovani invecchiati tra i vizidi chi ha una madre dura e affamata.

Rinnovato dal mondo nuovo,libero - una vampa, un fiatoche non so dire, alla realtà

che umile e sporca, confusa e immensa,brulicava nella meridionale periferia,dava un senso di serena pietà.

Un’anima in me, che non era solo mia,una piccola anima in quel mondo sconfinato,cresceva, nutrita dall’allegria

di chi amava, anche se non riamato.E tutto si illuminava, a questo amore.Forse ancora di ragazzo, eroicamente,e però maturato dall’esperienzache nasceva ai piedi della storia.Ero al centro del mondo, in quel mondo

di borgate tristi, beduine,di gialle praterie sfregateda un vento sempre senza pace,

 venisse dal caldo mare di Fiumicino,o dall’agro, dove si perdevala città fra i tuguri; in quel mondo

che poteva soltanto dominare,quadrato spettro giallognolonella giallognola foschia,

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Vico Acitillo: La Poesia 

bucato da mille file ugualidi finestre sbarrate, il Penitenziariotra vecchi campi e sopiti casali.

Le cartacce e la polvere che ciecoil venticello trascinava qua e là,le povere voci senza eco

di donnette venute dai montiSabini, dall’Adriatico, e qua

accampate, ormai con torme

di deperiti e duri ragazzinistridenti nelle canottiere a pezzi,nei grigi, bruciati calzoncini,i soli africani, le piogge agitateche rendevano torrenti di fangole strade, gli autobus ai capolinea

affondati nel loro angolotra un’ultima striscia d’erba biancae qualche acido, ardente immondezzaio...

era il centro del mondo, com’eraal centro della storia il mio amoreper esso: e in questa

maturità che per essere nascenteera ancora amore, tutto eraper divenire chiaro - era,

chiaro! Quel borgo nudo al vento,non romano, non meridionale,non operaio, era la vita

nella sua luce più attuale: vita, e luce della vita, pienanel caos non ancora proletario,

come la vuole il rozzo giornaledella cellula, l’ultimo

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

sventolio del rotocalco: osso

dell’esistenza quotidiana,pura, per essere fin troppoprossima, assoluta per essere

fin troppo miseramente umana.

III

E ora rincaso, ricco di quegli annicosì nuovi che non avrei mai pensatodi saperli vecchi in un’anima

a essi lontana, come a ogni passato.Salgo i viali del Gianicolo, fermoda un bivio liberty, a un largo alberato,

a un troncone di mura - ormai al terminedella città sull’ondulata pianurache si apre sul mare. E mi rigermina

nell’anima - inerte e scuracome la notte abbandonata al profumo -una semenza ormai troppo matura

per dare ancora frutto, nel cumulodi una vita tornata stanca e acerba...Ecco Villa Pamphili, e nel lume

che tranquillo riverberasui nuovi muri, la via dove abito.Presso la mia casa, su un’erba

ridotta a un’oscura bava,una traccia sulle voragini scavatedi fresco, nel tufo - caduta ogni rabbia

di distruzione - rampa contro radi palazzie pezzi di cielo, inanimata,una scavatrice...

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Vico Acitillo: La Poesia 

Che pena m’invade, davanti a questi attrezzisupini, sparsi qua e là nel fango,davanti a questo canovaccio rosso

che pende a un cavalletto, nell’angolodove la notte sembra più triste?Perché, a questa spenta tinta di sangue,

la mia coscienza così ciecamente resiste,si nasconde, quasi per un ossesso

rimorso che tutta, nel fondo, la contrista?

Perché dentro in me è lo stesso sensodi giornate per sempre inadempiteche è nel morto firmamento

in cui sbianca questa scavatrice?

Mi spoglio in una delle mille stanzedove a via Fonteiana si dorme.Su tutto puoi scavare, tempo: speranze

passioni. Ma non su queste formepure della vita... Si riducead esse l’uomo, quando colme

siano esperienza e fiducianel mondo... Ah, giorni di Rebibbia,che io credevo persi in una luce

di necessità, e che ora so così liberi!

Insieme al cuore, allora, pei difficilicasi che ne avevano sperdutoil corso verso un destino umano,

guadagnando in ardore la chiarezzanegata, e in ingenuitàil negato equilibrio - alla chiarezza

all’equilibrio giungeva anche,

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

in quei giorni, la mente. E il ciecorimpianto, segno di ogni mia

lotta col mondo, respingevano, ecco,adulte benché inesperte ideologie...Si faceva, il mondo, soggetto

non più di mistero ma di storia.Si moltiplicava per mille la gioiadel conoscerlo - come

ogni uomo, umilmente, conosce.Marx o Gobetti, Gramsci o Croce,furono vivi nelle vive esperienze.

Mutò la materia di un decennio d’oscura vocazione, se mi spesi a far chiaro ciòche più pareva essere ideale figura

a una ideale generazione;in ogni pagina, in ogni rigache scrivevo, nell’esilio di Rebibbia,

c’era quel fervore, quella presunzione,quella gratitudine. Nuovonella mia nuova condizione

di vecchio lavoro e di vecchia miseria,i pochi amici che venivanoda me, nelle mattine o nelle sere

dimenticate sul Penitenziario,mi videro dentro una luce viva:mite, violento rivoluzionario

nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva.

IV 

Mi stringe contro il suo vecchio vello,che profuma di bosco, e mi posa

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Vico Acitillo: La Poesia 

il muso con le sue zanne di verro

o errante orso dal fiato di rosa,sulla bocca: e intorno a me la stanzaè una radura, la coltre corrosa

dagli ultimi sudori giovanili, danzacome un velame di pollini... E infatticammino per una strada che avanza

tra i primi prati primaverili, sfattiin una luce di paradiso...Trasportato dall’onda dei passi,

questa che lascio alle spalle, lieve e misero,non è la periferia di Roma: “#Viva##Mexico!#” è scritto a calce o inciso

sui ruderi dei templi, sui muretti ai bivii,decrepiti, leggeri come osso, ai confinidi un bruciante cielo senza un brivido.

Ecco, in cima a una collinafra le ondulazioni, miste alle nubi,di una vecchia catena appenninica,

la città, mezza vuota, benché sia l’oradella mattina, quando vanno le donnealla spesa - o del vespro che indora

i bambini che corrono con le mammefuori dai cortili della scuola.Da un gran silenzio le strade sono invase:

si perdono i selciati un po’ sconnessi, vecchi come il tempo, grigi come il tempo,e due lunghi listoni di pietra

corrono lungo le strade, lucidi e spenti.Qualcuno, in quel silenzio, si muove:qualche vecchia, qualche ragazzetto

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

perduto nei suoi giuochi, dovei portali di un dolce Cinquecentos’aprano sereni, o un pozzetto

con bestioline intarsiate sui bordiposi sopra la povera erba,in qualche bivio o canto dimenticato.

Si apre sulla cima del colle l’ermapiazza del comune, e fra casa

e casa, oltre un muretto, e il verde

d’un grande castagno, si vedelo spazio della valle: ma non la valle.Uno spazio che tremola celeste

o appena cereo... Ma il Corso continua,oltre quella famigliare piazzettasospesa nel cielo appenninico:

s’interna fra case più strette, scendeun po’ a mezza costa: e più in basso- quando le barocche casette diradano -

ecco apparire la valle - e il deserto. Ancora solo qualche passo verso la svolta, dove la strada

è già tra nudi praticelli ertie ricciuti. A manca, contro il pendio,quasi fosse crollata la chiesa,

si alza gremita di affreschi, azzurri,rossi, un’abside, pèsta di volutelungo le cancellate cicatrici

del crollo - da cui soltanto essa,l’immensa conchiglia, sia rimastaa spalancarsi contro il cielo.

È lì, da oltre la valle, dal deserto,

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Vico Acitillo: La Poesia 

che prende a soffiare un’aria, lieve, disperata,che incendia la pelle di dolcezza...

È come quegli odori che, dai campibagnati di fresco, o dalle rive di un fiume,soffiano sulla città nei primi

giorni di bel tempo: e tunon li riconosci, ma impazzitoquasi di rimpianto, cerchi di capire

se siano di un fuoco acceso sulla brina,oppure di uve o nespole perdutein qualche granaio intiepidito

dal sole della stupenda mattina.Io grido di gioia, così feritoin fondo ai polmoni da quell’aria

che come un tepore o una lucerespiro guardando la vallata......................................

 V Un po’ di pace basta a rivelaredentro il cuore l’angoscia,limpida, come il fondo del mare

in un giorno di sole. Ne riconosci,senza provarlo, il malelì, nel tuo letto, petto, coscie

e piedi abbandonati, qualeun crocifisso - o quale Noèubriaco, che sogna, ingenuamente ignaro

dell’allegria dei figli, chesu lui, i forti, i puri, si divertono...il giorno è ormai su di te,

nella stanza come un leone dormente.

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

Per quali strade il cuoresi trova pieno, perfetto anche in questamescolanza di beatitudine e dolore?

Un po’ di pace... E in te ridestaè la guerra, è Dio. Si distendonoappena le passioni, si chiude la fresca

ferita appena, che già tu spendil’anima, che pareva tutta spesa,

in azioni di sogno che non rendono

niente... Ecco, se accesoalla speranza - che, vecchio leonepuzzolente di vodka, dall’offesa

sua Russia giura Krusciov al mondo -#ecco che tu ti accorgi che sogni#.Sembra bruciare nel felice agosto

di pace, ogni tua passione, ognituo interiore tormento,ogni tua ingenua vergogna

di non essere - nel sentimento -al punto in cui il mondo si rinnova.

 Anzi, quel nuovo soffio di vento

ti ricaccia indietro, doveogni vento cade: e lì, tumoreche si ricrea, ritrovi

il vecchio crogiolo d’amore,il senso, lo spavento, la gioia.E proprio in quel sopore

è la luce... in quella incoscienzad’infante, d’animale o ingenuo libertinoè la purezza... i più eroici

furori in quella fuga, il più divino

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Vico Acitillo: La Poesia 

sentimento in quel basso atto umanoconsumato nel sonno mattutino.

 VI

Nella vampa abbandonatadel sole mattutino - che riarde,ormai, radendo i cantieri, sugli infissi

riscaldati - disperate

 vibrazioni raschiano il silenzioche perdutamente sa di vecchio latte,

di piazzette vuote, d’innocenza.Già almeno dalle sette, quel vibrarecresce col sole. Povera presenza

d’una dozzina d’anziani operai,con gli stracci e le canottiere arsidal sudore, le cui voci rare,

le cui lotte contro gli sparsiblocchi di fango, le colate di terra,sembrano in quel tremito disfarsi.

Ma tra gli scoppi testardi dellabenna, che cieca sembra, ciecasgretola, cieca afferra,

quasi non avesse meta,un urlo improvviso, umano,nasce, e a tratti si ripete,

così pazzo di dolore, che, umano,subito non sembra più, e ridiventamorto stridore. Poi, piano,

rinasce, nella luce violenta,tra i palazzi accecati, nuovo, uguale,urlo che solo chi è morente,

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

nell’ultimo istante, può gettarein questo sole che crudele ancora splendegià addolcito da un po’ d’aria di mare...

 A gridare è, straziatada mesi e anni di mattutinisudori - accompagnata

dal muto stuolo dei suoi scalpellini,la vecchia scavatrice: ma, insieme, il fresco

sterro sconvolto, o, nel breve confinedell’orizzonte novecentesco,tutto il quartiere.... È la città,sprofondata in un chiarore di festa,

- è il mondo. Piange ciò che hafine e ricomincia. Ciò che eraarea erbosa, aperto spiazzo, e si fa

cortile, bianco come cera,chiuso in un decoro ch’è rancore;ciò che era quasi una vecchia fiera

di freschi intonachi sghembi al sole,e si fa nuovo isolato, brulicantein un ordine ch’è spento dolore.

Piange ciò che muta, ancheper farsi migliore. La lucedel futuro non cessa un solo istante

di ferirci: è qui, che bruciain ogni nostro atto quotidiano,angoscia anche nella fiducia

che ci dà vita, nell’impeto gobettiano

 verso questi operai, che muti innalzano,nel rione dell’altro fronte umano,

il loro rosso straccio di speranza.

1956

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Vico Acitillo: La Poesia 

Una polemica in versi

Buio è quasi il meriggio nel lucoreterreo del coppedè vivacee del marmo fascista, già incolore

quasi disusata divisa d’orbacedi cinici antemarcia non più di primo pelo,in una sporca fotografia; giace

schermato il sole come in un velodi grassi, di carta carbone,di polvere alzata dagli urti sul nero

fondo dei tricicli, dalle gommedei filobus che ansando ai semaforiscendono soffici in una pressione

avara, pazzi per mafiao nevrastenia: e svoltano verdiper via Quattro Novembre, nell’afa...

È la sera che scende, ancor lontana:come una tempesta, quando addensaa un tratto le nuvole, ma le dipana

poi lentamente - della sua violenzaabbandonando in cielo la minaccia.Scolorato il sole fa più intensa

la sua luce, e ogni strada, ogni piazzaquasi in silenzio brulica al frastuonod’una gente, ch’è solo folla, razza.

“L’ora è confusa, e noi come perdutila viviamo...”, mi mormoravi, amaro,disilluso di ciò che hai avuto

per dieci anni dentro, così chiaroche tra mondo e mente quasi era un idillio:e ha la tua stanchezza - un po’ volgare -

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

una smorfia di vecchio figliodi immigrati meridionaliaffamati e vili dietro il cipiglio

di poveri arrivati, d’ingenui dottrinari.Hai voluto che la tua vita fosseuna lotta. Ed eccola ora sui binari

morti, ecco cascare le rossebandiere, senza vento. Hai

quarant’anni, con sorriso e mosse

- come quelle di chi non spegne maiil vecchio fuoco - giovanili.E, spento, regredito ai padri, ti dai

a me, con la confidenza dei febbrilimoti dell’amicizia, e con il calcolodi chi, inconscio, invano non si umili.

E io... io cedo: posso soltantoappassionarmi, come sempre: pazzo,ché dovrei tacere, non offrire il fianco,

non confessare che sono un ragazzo,ancora, eternamente indifeso;che non sempre la passione è grazia.

Lo so, spesso ciò che ho avuto ho resocon un atto che non è diversodall’arsione del lampo al magnesio.

Ho fissato col mio occhio inespertodiventato atrocemente esperto - umilefotografo che la notte inerte

batte dietro l’immoto miraggio del costume -gli inutili angoli sperdutidel mondo, con qualche grido, qualche lume,

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Vico Acitillo: La Poesia 

qualche parola di uomini vendutinei più scuri mercati della vita.Ne ho riportato attestati muti

d’allegria in cuore a una città nemica.Grande, di questa città, è la notte,e misera: mille fiati di scheletrita

luce getta il flash su file dirottedi gioventù, torrenti di motori,

laghi d’angoli bui tra palpitanti grotte

e inanimati grattacieli. Ma, in cuore,ognuno dei mille atti è lo stesso.Uno, delle mille allegrie, il dolore.

Muti attestati di un popolo oppressoe non conscio, diviso in scantinati,tuguri, lotti - proletariato che il sesso

e il terrore tengono attaccatoalle sue strade di fango: ma, per stradenuove - ancora ignote - a lui segnato

da avidità e cinismo, l’anima invadela fame della storia. È già vecchioil piano di lotta di ieri, cade

a pezzi sui muri il più fresco manifesto.Muta, in una qualunque notte, il congegnoche fa la conoscenza luce dell’oggetto.

E la vita riappare più viva: segnoche qualcosa, in chi la viveva, muore.Essa è proceduta nel disegno

che non ha fine: ma il vostro doloredi non esserne più sul primo fronte,sarebbe più puro, se nell’ora

in cui l’errore, anche se puro, si sconta,

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

aveste la forza di dirvi colpevoli.Ma troppo fonda è, in voi, l’impronta

della lotta compiuta, nel grande e brevedecennio: vi siete assuefatti,

 voi, servi della giustizia, leve

della speranza, ai necessari attiche umiliano il cuore e la coscienza.

 Al voluto tacere, al calcolato

parlare, al denigrare senzaodio, all’esaltare senza amore;alla brutalità della prudenza

e all’ipocrisia del clamore. Avete, accecati dal fare, servitoil popolo non nel suo cuore

ma nella sua bandiera: dimentichiche deve in ogni istituzionesanguinare, perché non torni mito,

continuo il dolore della creazione.Come altri compagni di strada,il mistico rigore d’un’azione

sempre pari all’idea, non vi chiedo: si paga,anche questo, con l’aridità. Chi è ossessodal timore di essere ciò che fu nei gradi

del suo cammino, ciò che espressein ingenui ritorni al popolo, in amorid’inerme umanitario, in regressi

alla carità - non è. È all’erroreche io vi spingo, al religiosoerrore... Si riapre, nel rosso sole

del meriggio d’autunno ancora afoso,in un’aria di morte, la vostrafesta. Misero e fazioso

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Vico Acitillo: La Poesia 

è il brusio. Sparge in una chiostrafra i tronchi freddi falsamente vivace,le superfici candide la mostra

dei dieci anni d’ingiallite audacie.Cento baracchette - dove quanto piùciò che al popolo umilmente piace

cinicamente appare inattuale virtùdi plebe, tanto più è esaltato,

con ingenua ipocrisia, - su

per le misere gobbe, i bagnatipendii di Villa Glori, empiono l’ariaprimaverile della morente estate

di antichi frastuoni di sagraalla deriva... A migliaia gli iscritti,piovendo dai rioni dei paria,

 vengono all’assalto, si accampano, fitti,animosi. Snodati i ragazzidentro i panni festivi, ricchi

di nastri, fazzoletti, sono come pazzidi pregustata gioia sotto i cappellimessicani, rossi come sangue, e tra spiazzi

e albereti, si muovono in drappellidisordinati, in branchi, soli,masticando gomma americana, nella

loro generosità senza pudore.Gli uomini, già perduti in un’abbiettaubriachezza, nascosta come un dolore,

si portano dietro la famiglia, strettaintorno alla sporta della merenda,quasi guide verso la povera vetta...

E là in cima, sotto una tenda

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

investita dall’incendio senza caloredi cui metà del cielo risplende,

il palco, vuoto. Nulla accorapiù di questa innaturale festa.Tra i gridi più alti, affiora

fondo il silenzio. Nulla restadi vivo: neanche i colpi acerbidei giovincelli pugili, in questa

arena tra i pini, improvvisata, superbisopra il piccolo ring, ai grididel pubblico accecato da diverbi

ironici e cattivi, allegri e infidi.Eppure all’appressarsi del momentopiù atteso della sera, ha un brivido

umano questo irretimentodi morte: ma non sai ancorase a più intenso dolore o a più intenso

amore. D’improvviso, nell’aria ormai viola,la folla nel parco sfiguratoè perduta in silenzi ed in clamori

d’altra vita, di sterminatoesercito, acclamante o in disfatta,nell’ombra di un vespro dimenticato.

Come un tremito o una cieca risaccapassa sulla folla disordinata tra i clivi,i prati senza erba, le baracche,

una musica intonata dalle bandesparse qua e là, luccicando l’ottonetra magliette e coccarde rosse,

nell’ingorgo del fiume senza nome.Ed ecco, incerto, un vecchio si leva

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Vico Acitillo: La Poesia 

dalla testa bianca il berretto,

afferra nella nuova ventata di passioneuna bandiera retta sulle spalleda uno che gli è davanti, al petto

se la stringe, e poi mentre cantanotutti, affratellati intorno alle gialletrombe paesane, si pianta

sulle vacillanti gambe, e scuoteal tempo la bandiera a lui santasopra le teste cantando con voce

rauca, di povero manovale ubriaco.Poi il canto, che s’era levatogioioso, disperato, cessa, e il vecchio

lascia cadere la bandiera, e lento,con le lacrime agli occhi,si ricalca in capo il suo berretto.

Su questa baraonda della Villa, il buioche sommerge la disperata allegria,è, forse, più l’ombra del dubbio

che la precoce notte. È la nostalgiadei vecchi tempi, la paura, pur bandita,dell’errore, che spira tanta malinconia

- non l’aria d’autunno, o una sopitapioggia - sulla sfiorita festa.Ma in questa malinconia è la vita.

1956

La Terra di Lavoro

Ormai è vicina la Terra di Lavoro,qualche branco di bufale, qualchemucchio di case tra piante di pomidoro,

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

èdere e povere palanche.Ogni tanto un fiumicello, a pelodel terreno, appare tra le branche

degli olmi carichi di viti, nerocome uno scolo. Dentro, nel trenoche corre mezzo vuoto, il gelo

autunnale vela il triste legno,gli stracci bagnati: se fuori

è il paradiso, qui dentro è il regno

dei morti, passati da dolorea dolore - senza averne sospetto.Nelle panche, nei corridoi,

eccoli con il mento sul petto,con le spalle contro lo schienale,con la bocca sopra un pezzetto

di pane unto, masticando male,miseri e scuri come canisu un boccone rubato: e gli sale

se ne guardi gli occhi, le mani,sugli zigomi un pietoso rossore,in cui nemica gli si scopre l’anima.

Ma anche chi non mangia o le sue storienon dice al vicino attento,se lo guardi, ti guarda con il cuore

negli occhi, quasi, con spavento,a dirti che non ha fatto nulladi male, che è un innocente.

Una donnetta, di Fondi o Aversa, cullauna creatura che dorme nel fondod’una vita d’agnellino, e la trastulla

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Vico Acitillo: La Poesia 

- se si risveglia dal suo sonnodicendo parole come il mondo nuove -con parole stanche come il mondo.

Questa, se la osservi, non si muove,come una bestia che finge d’esser morta;si stringe dentro le sue povere

 vesti e, con gli occhi nel vuoto, ascoltala voce che a ogni istante le ricorda

la sua povertà come una colpa.Poi, riprendendo a cullare, cieca, sorda,senza neanche accorgersi, sospira.Col piccolo viso scuro come torba,

in un muto odore di ovile,un giovane è accanto al finestrino,nemico, quasi non osando aprire

la porta, dare noia al vicino.Guarda fisso la montagna, il cielo,le mani in tasca, il basco di malandrino

sull’occhio: non vede il forestiero,non vede niente, il colletto rialzatoper freddo, o per infido mistero

di delinquente, di cane abbandonato.L’umidità ravviva i vecchiodori del legno, unto e affumicato,

mescolandoli ai nuovi, di chiassettifreschi di strame umano.E dai campi, ormai violetti,

 viene una luce che scopre anime,non corpi, all’occhio che più crudodella luce, ne scopre la fame,

la servitù, la solitudine. Anime che riempiono il mondo,

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

come immagini fedeli e nudedella sua storia, benché affondinoin una storia che non è più nostra.Con una vita di altri secoli, sono

 vivi in questo: e nel mondo si mostranoa chi del mondo ha conoscenza, greggedi chi nient’altro che la miseria conosca.

Sono sempre stati per loro unica legge

odio servile e servile allegria: eppurenei loro occhi si poteva leggere

ormai un segno di diversa fame - scuracome quella del pane, e, comequella, necessaria. Una pura

ombra che già prendeva nomedi speranza: e quasi riacquistatoall’uomo, vedeva il meridione,

timida, sulle sue greggi rassegnatedi viventi, la luce del riscatto.Ma ora per queste anime segnate

dal crepuscolo, per questo bivaccodi intimiditi passeggeri,d’improvviso ogni interna luce, ogni atto

di coscienza, sembra cosa di ieri.Nemico è oggi a questa donna che cullala sua creatura, a questi nericontadini che non ne sanno nulla,chi muore perché sia salvain altre madri, in altre creature,

la loro libertà. Chi muore perché ardain altri servi, in altri contadini,la loro sete anche se bastarda

di giustizia, gli è nemico.

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Vico Acitillo: La Poesia 

Gli è nemico chi straccia la bandieraormai rossa di assassinî,

e gli è nemico chi, fedele,dai bianchi assassini la difende.Gli è nemico il padrone che spera

la loro resa, e il compagno che pretendeche lottino in una fede che ormai è negazionedella fede. Gli è nemico chi rende

grazie a Dio per la reazionedel vecchio popolo, e gli è nemicochi perdona il sangue in nome

del nuovo popolo. Restituitoè così, in un giorno di sangue,il mondo a un tempo che pareva finito:

la luce che piove su queste animeè quella, ancora, del vecchio meridione,l’anima di questa terra è il vecchio fango.Se misuri nel mondo, in cuore, la delusionesenti ormai che essa non conducea nuova aridità, ma a vecchia passione.

E ti perdi allora in questa luceche rade, con la pioggia, d’improvvisozolle di salvia rossa, case sudice.

Ti perdi nel vecchio paradisoche qui fuori sui crinali di lavadà un celeste, benché umano, viso

all’orizzonte dove nella bavagrigia si perde Napoli, ai meridianitemporali, che il sereno invadono,

uno sui monti del Lazio, già lontani,l’altro su questa terra abbandonataagli sporchi orti, ai pantani,

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Pasolini: Le ceneri di Gramsci 

ai villaggi grandi come città.Si confondono la pioggia e il solein una gioia ch’è forse conservata

- come una scheggia dell’altra storia,non più nostra - in fondo al cuoredi questi poveri viaggiatori:

 vivi, soltanto vivi, nel calore

che fa più grande della storia la vita.Tu ti perdi nel paradiso interiore,

e anche la tua pietà gli è nemica.

1956