ROMA CITTÀ CAPOFILA GIORNATA EUROPEA CULTURA … · Il 6 settembre Giornata Europea della Cultura...

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N° 05/06/07 - mag-giu-lug. 2020 - ANNO LI - CONTIENE I.P. E I.R. - Una copia € 6,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in A:P: D:L: 353/2003 (conv.in 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 Roma maggio giugno luglio |2020 ROMA CITTÀ CAPOFILA GIORNATA EUROPEA CULTURA EBRAICA 2020 Incontri, eventi, iniziative culturali e artistiche il prossimo 6 settembre in novanta località italiane. Un’occasione, anche per chi vuole rimanere a casa via web, per conoscere meglio vita e tradizioni di una minoranza presente in Italia da oltre duemila anni

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ROMA CITTÀ CAPOFILA GIORNATAEUROPEA CULTURA EBRAICA 2020Incontri, eventi, iniziative culturali e artistiche il prossimo 6 settembre in novanta località italiane. Un’occasione, anche per chi vuole rimanere a casa via web, per conoscere meglio vita e tradizioni di una minoranza presente in Italia da oltre duemila anni

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S H A L O M M A G A Z I N EB

L’ A L T R A C O P E R T I N A

Sinagoghe a porte aperte per sconfiggere vecchi e nuovi antisemitismi

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Il 6 settembre Giornata Europea della Cultura ebraica, nell’anno della pandemia e della crescita sul web di idee e pregiudizi contro gli ebrei.

Il prossimo sei settembre, in Italia e in molti altri Paesi europei, si terrà la XXI Edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica.Come negli scorsi anni, in decine e decine di località si apriranno le porte delle sinagoghe e dei musei ebraici, si terranno, dibattiti, presentazioni di libri, manifestazioni musicali e gastronomiche, si visiteranno antichi siti arche-ologici. Tutto alla riscoperta delle profonde radici ebraiche che sono alla base della cultura europea, ed italiana in particolare, e alla comprensione e presa di coscienza di quanta influenza il pensiero e la tradizione ebraica abbiano avuto nella costruzione del modello sociale e culturale, oltre che etico, del mondo occidentale.Quest’anno, a causa della necessità di contenere la pandemia, molte occasioni di incontro si svolgeranno in forma digitale, consentendo a chi preferisce rimanere a casa, la possibilità comunque di assistere alla kermes via web, con dirette sui diversi social network.La Comunità ebraica di Roma è stata scelta come città capofila e al Palazzo della Cultura, nel quartiere ebraico, prende-ranno avvio ufficialmente le manifestazioni, che si svilupperanno in un ricchissimo programma, che al momento in cui va in stampa il giornale è in via di definizione.Le ragioni e le motivazioni con cui ventuno anni fa si decise di dare vita a questa Giornata, sono ancora tutte valide ed attualissime: far conoscere gli ebrei, il loro stile di vita, la loro cultura, i valori religiosi e spirituali che vengono tramandati da millenni. Si tratta di una giornata di incontri, con la risposta del pubblico sempre positiva, che costituisce il miglior modo per cercare di cancellare i pregiudizi antisemiti, per dare una immagine genuina senza barriere del mondo ebraico, delle sue tante e complesse sfaccettature, ma soprattutto per far conoscere il grande contributo che gli ebrei danno allo sviluppo del Paese.Siamo una piccola minoranza che però porta su di se la responsabilità di essere sentinelle sempre pronte a denunciare ogni scivolamento della società verso atteggiamenti di xenofobia, di razzismo, di omofobia, di pregiudizi verso i diversi, di intolleranza verso stranieri e migranti. Non ultimo siamo costretti a presidiare il grande tema della Memoria della Shoah, come se fosse una questione prettamente ebraica, mentre costituisce invece il modello con cui la società vuole formare e educare le nuove generazioni. Proprio il tema del modello di società aperta, tollerante, dialogante in tutte le sue anime si presenta quanto mai attuale, soprattutto in un periodo così difficile come quello della gestione della pandemia che, oltre a scatenare stati di ansia e di preoccupazioni economiche, ha dato sfogo alla diffusione sul web delle più assurde teorie complottiste, in particolare accusando gli ebrei di avere sviluppato e diffuso il virus. “Anche nel periodo della pandemia - ha spiegato nella sua prima relazione Miena Santerini, coordinatrice per la lotta contro l’antisemitismo - almeno il 15% dei tweet sull'argomento ebrei-virus alludeva a un complotto ebraico. Abbiamo continuamente notizia di scritte vandaliche, insulti contro Liliana Segre, sopravvissuta all'Olocausto, minacce al deputato Emanuele Fiano, diffamazione online da parte di gente comune e azione di gruppi organizzati".“Sono stati 251 gli atti di antisemitismo in Italia segnalati al CDEC lo scorso anno - ha ricordato la Santerini - in netto au-mento rispetto al 2018 quando erano stati 197. Dobbiamo contrastare questa forma di odio in tutte le sue manifestazioni, l'antisemitismo puo' esprimersi come neonazismo e negazione della Shoah, o come odio verso Israele o antichi pregiudizi". La crescita dell’odio contro gli ebrei e la diffusione di teorie complottistiche attraverso i social network è un fenomeno diffuso in tutta Europa, soprattutto in Germania dove il numero di reati legati all'antisemitismo è aumentato del 20% nel 2018, e malgrado non vi siano ancora i dati relativi all'anno in corso secondo gli specialisti la cifra non è certo diminuita e l'epidemia non ha aiutato. Stesso discorso per la Francia che ha visto finire nel mirino dei social l'ex ministro della Sanità, Agnes Buzyn e il marito, il virologo Yves Levy, accusati di aver favorito la diffusione del virus. Assistiamo al prepotente ritorno del mito medievale dell'ebreo untore, accompagnato dalla tendenza da parte dei no-vax e di altri gruppi di estrema destra a considerarsi i "nuovi ebrei perseguitati" e ad indossare magliette con la stella gialla dei deportati dei campi di sterminio, la cui vendita è accessibile persino su facebook.Ben vengano quindi le Giornate di cultura ebraica, per formate, informare ed istruire. Ma esse da sole non basterano.

Giacomo Kahn

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S P E C I A L E C O V I D

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C O P E R T I N A

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Roma sarà città capofila, ma di una celebrazione particolare nella quale, a causa della pandemia, eventi ed iniziative saranno organizzati fuori dagli schemi tradizionali e collaudati.

Giornata Cultura Ebraica 2020: percorsi ed itinerari nell’era del Covid19

La Giornata europea della cultu-ra ebraica ha celebrato nel 2019 il ventesimo anniversario, mai il

prossimo 6 settembre dovremo con-frontarci con un’edizione davvero par-ticolare. L’Italia ha sempre ricoperto un ruolo primario, del quale forse non tutti sono stati pienamente consapevoli: infatti il patrimonio culturale ebraico conservato nel nostro paese non cor-risponde davvero all’attuale, limitata consistenza numerica delle Comunità nel loro insieme. La ricchezza dei musei ebraici locali è straordinaria, a Roma e a Venezia soprattutto. Non è questa la sede per ripercorrere i momenti decisivi di una storia che ha lasciato luoghi, li-bri, manoscritti e oggetti di incompara-bile bellezza, gelosamente custoditi per secoli nello spazio ristretto dei ghetti, delle singole case, di biblioteche poco visibili dal mondo esterno. Una ricchez-za di cultura di fatto interdetta dall’au-torità politica alla frequentazione di chi non fosse ebreo. Quest’anno, virus ed elezioni regionali a parte, sarà anche l’anno di una succes-siva, ravvicinata celebrazione. Un seco-lo e mezzo è trascorso da quando Roma e il Lazio furono uniti al neonato Re-gno d’Italia con l’apertura della celebre breccia il 20 settembre del 1870 e con-segnati ai regnanti piemontesi, a casa Savoia. Qualche decina di cannonate e non pochi caduti, da una parte e dall’al-tra. Più che celebrare con l’inevitabile e tradizionale retorica autoincensante, sarà invece opportuno ragionare a men-te fredda su quell’evento lontano, per proporre forse alla fine qualche conclu-sione sorprendente. Si accavalleranno le date, dunque, e poiché per la tradizio-ne ebraica numeri e coincidenze sono importanti, dobbiamo anche ricordare che il 20 settembre 2020 coincide con il primo giorno del mese di Tishrì 5781. Dunque Rosh ha-Shanà, il capodanno ebraico. Si sottolinea questa serie di eventi, an-ziché soffermarsi soltanto sulla XXI Giornata, poiché dovremo tutti condi-viderli con un ospite indesiderato, e

cioè Covid19. Con l’estate le precauzioni risultano allentate e rilassate, mentre pattuglie di esperti - voces clamantium in deserto - si affannano a prospettare pericolose seconde e terze ondate della pandemia in Italia. Attirandosi ovvia-mente l’accusa di “gufare”, nel migliore dei casi, oppure di essere agenti segre-ti di “Big Pharma” nel peggiore. Inutile tradurre il gergo, e anche l’inglese. Lo scorso anno gli ebrei d’Europa propo-nevano la propria tradizione forse un po’ esoterica del sogno, dalla mistica scala di Giacobbe fino agli affanni er-meneutici di Sigmund Freud. Dunque, furono appunto “Sogni, una scala verso il cielo”. Restando con i piedi saldamen-te piantati in terra, si sarebbe potuta proporre l’assegnazione retroattiva del Premio Nobel per l’economia ad un ebreo residente nell’Egitto dei faraoni. Quel sogno di Giuseppe con sette anni di vacche grasse, e poi il seguito inevita-bile di sette anni di vacche magrissime, individuava infatti con chiarezza stra-ordinaria la natura dei cicli economici. Passata la famigerata crisi del 2007 eravamo finalmente approdati in tempi di veloce espansione planetaria dell’e-conomia, talmente veloce da far uscire dalla tomba lo spettro del dazio e delle sanzioni contro i competitors troppo forti, quando all’improvviso è arrivato il virus a rovesciare malamente il ciclo economico. Ci rimanda indietro, secon-do i meno pessimisti, di sette anni a dir poco. Da notare, tanto per restare nella storia del popolo ebraico in Egitto, che l’angelo della morte inviato per colpire i primogeniti – era trascorso qualche secolo dalla vicenda di Giuseppe so-vrintendente del suo sovrano per gli affari economici - passò oltre le case degli ebrei chiusi in lockdown strettis-simo, nell’attesa di lasciare per sempre l’Egitto. La prossima giornata del 6 settembre 2020 porta il titolo ufficiale, in inglese, di “Jewish Journeys”. Viaggi, percorsi, tragitti. In Italia si è deciso di tradurre con “Itinerari ebraici”. Scelta felice dopo una proposta di lavoro e organizzazio-

ne che potrebbe apparire incauta, ma certamente messa a punto prima del-la diffusione del virus. Tutti dovranno dare fondo alle proprie capacità d’im-maginazione, uscendo da schemi con-solidati e collaudati. Francamente an-cora a metà luglio non si hanno notizie di convocazioni e riunioni a distanza, tanto per non scivolare nel nuovo lessico e negli abissi insondabili del webinar. Dopo mesi di blocco dei voli, con i video (ovviamente) virali di centinaia di ae-rei parcheggiati su piste e piazzali, con treni veloci che viaggiano semivuoti e perfino le navi da crociera ormeggiate probabilmente fino a primavera 2021, ebbene occorre molta immaginazione per ripensare i molteplici itinerari di una cultura che ha fatto del movimento un simbolo della propria esistenza nel tempo e nello spazio. Anche nell’Italia apparentemente sedentaria dei ghetti con fama di blocco perenne, soprattutto a Roma, gli ebrei hanno infaticabilmen-te continuato a muoversi. E proprio agli ebrei romani si deve il proverbio più si-gnificativo in materia, ovvero “spacchi ‘na noce e ce trovi un giudìo”. Proprio in questo difficilissimo momento, alla Comunità di Roma è toccato l’onore e l’onere di rappresentare la Città Capo-fila per l’Italia. Vedremo dunque visite virtuali, citazioni e grande infografica per antichi viaggiatori entrati nel mito come Beniamino di Tudela, proposte di alta cucina e passeggiate con i necessa-ri e prescritti strumenti di protezione, e forse cinema all’aperto se gli spazi di-sponibili ed il meteo lo consentiranno. Tra gli itinerari ci permettiamo di sug-gerire, 80 anni dopo l’invasione nazista dell’Europa occidentale, una ricostru-zione delle vie di fuga che restarono in qualche modo praticabili verso la Spa-gna e il Portogallo. E nell’estate di una sostanziale immobilità forzata, forse si potrebbero utilizzare i supporti infor-matici per far viaggiare velocemente testi, musiche, immagini. Anche in con-corso, se appena possibile. Forse però si è già fuori tempo massimo. [Piero Di Nepi]

Stiamo vivendo un’esperienza che sembrava appartenere ad un lontanissimo passato della Storia dell’umanità.Credevano di essere in grado di risolvere tutti i problemi e ci siamo scoperti fragili. La sfida è ripensare la modernità e sarà interessante osservare come anche le istituzioni ebraiche riusciranno a coglierla.

Dopo il coronavirus il mondo sarà diverso. Se migliore dipenderà da noi

In questi mesi abbiamo imparato pa-role nuove - lockdown, smart working - e parole di etimologia antica hanno

assunto invece una sciagurata attualità: pandemia, quarantena, isolamento. Un'e-sperienza sconosciuta per la nostra gene-razione ha evocato memorie di nascon-dimenti e richiamato vecchi fantasmi. Le libertà individuali sono state limitate. Ciò nonostante non per tutti è andata allo stesso modo: connessione internet veloce e stabile, cellulari e computer hanno con-sentito ai fortunati di rimanere in contatto con il mondo, di contenere la solitudine e l'isolamento. Anche la dimensione delle case e la distribuzione degli spazi dome-stici hanno contribuito a fare la differen-za. Uno scarto di opportunità a cui ha dato il suo apporto una libreria familia-re ben fornita e l'accesso a piattaforme di intrattenimento streaming, serie tv o spettacoli, la capacità degli insegnanti di realizzare una vera didattica a distanza che non fosse la sola attribuzione di com-piti a casa. Sono tutti strumenti che hanno aiutato a riempire il vuoto, ma, appunto, per chi non ha avuto accesso a queste ri-sorse le cose sono andate molto peggio: i dati sulla dispersione scolastica sono al-larmanti, quelli sull'esclusione dei giovani dalla scuola e dal mondo del lavoro si sono impennati, l'avvicinarsi alla soglia della povertà di interi settori della popolazione è spaventoso. Il dato andrebbe analizza-to per regioni, per settori di attività, per fasce di età ed una ricognizione sarebbe doverosa anche all'interno del mondo ebraico. Anche se ancora non ci sono dati precisi per la comunità di Roma ci si aspetta una stagione di difficoltà e sarà necessario un'impegno severo a sostegno delle fasce deboli. Ma adesso che stiamo ripartendo - anche se gli scongiuri sono d'obbligo - a parte la primavera e il caldo precoce, non troveremo lo stesso mondo che abbiamo lasciato all'inizio del blocco della mobilità e dello stop all'istruzione e alle attività produttive. E non è detto che sia un male. Eppure sono passati solo due mesi: in quelle settimane il silenzio ha invaso le città, è salito alle nostre fine-stre invadendo le nostre case. L'assenza di

smog ha reso l'aria di nuovo respirabile e ce ne siamo resi conto, la natura si è riaffacciata nelle strade, animali selvatici sono stati avvistati in molti centri urbani. L'erba e le margherite hanno contornato i marciapiedi. I fortunati che ne avevano la possibilità hanno partecipato a corsi e a occasioni sociali online, i ragazzi hanno sofferto di solitudine e hanno imparato a studiare a distanza, i rabbanim di tutta Italia hanno contribuito con moltissime lezioni raggiungendo anche un pubbli-co nuovo e inaspettato. Si sono formati gruppi di studio di diversa provenienza geografica e anche di fasce di età diverse e composite. Anche se con qualche diffi-coltà molti anziani di solito esclusi dall'u-tilizzo della tecnologia hanno imparato a servirsi di alcune applicazioni per stare in contatto con la famiglia, gli amici, le lezioni. Abbiamo trascorso un Pesach si-curamente differente. Adesso però che 'siamo ripartiti' per le strade è ricomparsa la spazzatura, il traf-fico e i rumori hanno di nuovo campo e turbano le giornate. Accanto a persone attente ai dispositivi di contenimento del contagio si vedono ragazzi e adulti con la mascherina alla cintura, assembramenti di fronte al pescivendolo o al locale degli aperitivi. Il centro è di nuovo luogo di stru-scio e di movida. Una frenesia compulsiva ci induce alla riparazione di quanto patito e urge 'tornare al mondo di prima'. Ep-pure non è possibile. Non è possibile per coloro che per la crisi Covid hanno perso il lavoro e hanno difficoltà a mantenere la

famiglia o per coloro ai quali l'isolamen-to ha indotto una sofferenza destinata a durare nel tempo. Nemmeno per i mala-ti usciti dall'incubo dell'ospedale, della malattia e della quarantena. Tornare in-dietro non è un'opzione, e la promessa di cambiamento che il lockdown aveva fatto baluginare si sta corrodendo sotto i nostri occhi: la prospettiva di un'economia più green e attenta all'ambiente, la solidarietà con i deboli e i colpiti dalla malattia, il sostegno a medici e infermieri in prima fila nell'adempimento del dovere di cura, l'ipotesi di una ridistribuzione delle ri-sorse che portasse più eguaglianza, la consapevolezza di un mondo sempre più inevitabilmente collegato. Sembrava ad un passo quando stavamo tutti chiusi a casa, anzi sembrava che avessimo già fatto il primo passo. Ci sarà invece molto da riflettere e ragionare su quanto acca-duto in questi mesi. Bisognerà elaborare il lutto di tante morti improvvise. Bisognerà capire quanto siamo cambiati, quanto il Covid ha modificato nel profondo le nostre abitudini, quali innovazioni ha introdot-to nel mondo del lavoro e dell'istruzione. Forse il Coronavirus potrebbe lasciare ol-tre ai morti e ai poveri una nuova consa-pevolezza, forse. Ha lanciato sicuramente una sfida a ripensare la modernità e sarà interessante osservare come anche le isti-tuzioni ebraiche riusciranno a coglierla. Ma 'il mondo di prima' ha molta fretta di ricominciare la sua corsa, sta a noi tutti ragionare verso quale mondo vogliamo tornare. [Lia Tagliacozzo]

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S H A L O M M A G A Z I N E 76

S P E C I A L E C O V I DS P E C I A L E C O V I D

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Non era mai accaduto che venissero chiusi i luoghi di culto e limitati i funerali. Per gli ebrei italiani è stato impossibile raggiungere anche Israele che per la prima volta nella sua storia ha chiuso i confini alla diaspora.

L’isolamento sociale di una Nazione e di una Comunità

Certo, la nostra Comunità ebraica è una comunità resiliente. Resi-lienza, resiliente. Sono in molti a

pensare che siano termini arrivati dalla dilagante moda dell’inglese. Invece no, sono parole antiche. Antiche quanto la presenza ebraica in questa città, come spiegano i lessicologi dell’Accademia della Crusca. Infatti il verbo latino re-silire indicava un subitaneo ritrarsi con il successivo rimbalzo, ove possibile. E così già tre secoli fa si definiva resi-lienza la caratteristica di un solido che assorbe gli urti improvvisi senza spez-zarsi, per poi reagire con forte energia. E dunque sì, siamo resilienti. La nostra storia sta a dimostrarlo. Senza le capacità di resilienza del po-polo ebraico non esisterebbe lo Stato di Israele. Gli ebrei romani sono stati ca-paci di resistere a cinque anni di leggi razziste e poi a nove mesi di occupazio-ne nazista. Sono poi arrivati a mostrarci un mondo ebraico nuovo per noi quanti vollero stabilirsi in città, approdandovi dalle terre di una ostjudentum che di

fatto non esisteva più se non nell’Unio-ne Sovietica, chiusa allora dalla guerra fredda. Infine, gli ebrei dispersi dalla violenza del nazionalismo arabo, i li-bici soprattutto, hanno dato prova di resilienza straordinaria con la propria capacità di inserirsi creativamente sia nella comunità che nel tessuto econo-mico di Roma ai tempi del “miracolo italiano”. Ma con il virus, con Covid 19, le cose stanno diversamente, purtroppo. Fos-se solo il lockdown, ma sarebbe meglio chiamarlo confinamento e blocco, an-che di questo ne sappiamo qualcosa. Il lockdown degli ebrei romani è durato infatti 315 anni, gli anni del ghetto: dal 1555 al 20 settembre del 1870. Tuttavia con il Papa Re si poteva trattare, come anche con la sua Camera Apostolica de-legata alla sorveglianza della Natione Hebrea confinata dall’alba al tramonto tra Ponte quattro capi e la fontana di Piazza Giudìa. Col virus non si tratta, non può trattare nessuno. Abbiamo obbedito alle regole che ci ha impo-

sto. La città è stata colpita con durezza estrema. Deve inventare qualcosa per fare in modo che la ferita non sia mor-tale, poiché aveva vissuto e prosperato dentro una struttura di ricchezza vul-nerabile: fondata sul turismo e sulla proprietà immobiliare che lo sostiene, cioè alberghi e case vacanze. Meetings e convegni, fiere e passerelle resteranno sul web. Il telelavoro (working mica tan-to smart) è troppo conveniente per chi lo distribuisce. Toglierà occasioni di ven-dite e acquisti, consolidando la distri-buzione sulle piattaforme informatiche. In attesa che si riparta, altro termine molto discutibile, le categorie esposte non sono soltanto quelle dei venditori ambulanti e degli urtisti, delle guide turistiche e dei taxi. I turisti torneran-no, ma in numeri e modi diversi. Usciti dall’arca dopo il diluvio, non ci saranno occasioni di ripartenza nel senso che gli ottimisti incorreggibili tentano di immaginare. L’ottimismo della volontà fa bene alle anime, ma il realismo per-mette di sopravvivere.

Gli ebrei romani dovranno creare qual-cosa di assolutamente nuovo sotto il profilo, appunto, della resilienza del proprio lavoro e delle strutture eco-nomiche necessarie al sostentamento famigliare. È l’immagine che abbiamo di noi stessi ad essere sotto pressione. Pensiamo al rapporto con Israele. Lo Stato ebraico è rimasto a lungo del tut-to irraggiungibile per gli ebrei che non siano in possesso di regolare passapor-to e cittadinanza. Figli e figlie, fratel-li e sorelle, affari, proprietà, visite al Kotel per sciogliere impegni, soggiorni di studio, di lavoro, di preghiera. Nul-la è servito a nulla. Negli ultimi anni del Mandato britannico si poteva rag-giungere a remi una spiaggia. Israele è stata impenetrabile per gli ebrei delle diaspore. Non era mai accaduto dopo il 14 maggio del 1948. Le nostre sina-goghe sono rimaste interdette al culto. I nostri musei non accessibili. Anche i funerali hanno dovuto subire limita-zioni al limite della clandestinità. La battuta più celebre Ma a bottega chi ce sta? ha dovuto assumere un significato nuovo e inquietante. Non ci stava pro-prio nessuno. Fortunatamente siamo creativi. Siamo capaci di attraversare il deserto, alla fine ci sarà il meglio,

ma intanto ci si prepara al peggio. E ci si abitua. Infatti: se non ora, quando? Prendere le occasioni, poi sarà tardi. È luogo comune che la nostra sia una comunità poco propensa al reddito fis-so. È cosa vera soltanto parzialmente. I legami famigliari sono fortissimi, e i nonni pensionati, sia pure a distanza, hanno garantito la sopravvivenza. La nascita del Liceo Renzo Levi, nel 1973, ha consentito l’accesso alle professio-ni di ragazzi e ragazze per i quali la

tradizione business non lasciava pre-vedere quei successi straordinari che la comunità ha saputo apprezzare e va-lorizzare. La crisi finanziaria è senza precedenti, per le nostre istituzioni e per le famiglie. Il silenzio delle auto-rità, dispiace dirlo, al momento in cui scriviamo è assordante. Forse si lavora e si agisce dietro le quinte, con tutta la necessaria discrezione. Sarebbe il caso di uscire allo scoperto.[Piero Di Nepi]

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S H A L O M M A G A Z I N E 98

S P E C I A L E C O V I DS P E C I A L E C O V I D

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Sulle origini del contagio sono esplose le teorie complottiste più demenziali. I cospirazionisti forniscono spiegazioni elementari a problemi di enorme complessità.

Coronavirus, ovvero la pandemia delle fake news

Nell’incertezza economica e sociale in cui il coronavirus ha gettato il mondo, è emerso un aspetto molto chiaro. La pandemia ci ha confermato come, di fronte a un problema

complesso, sia facile credere a teorie che forniscono spiegazio-ni elementari, ancora di più se individuano un colpevole ben preciso. Negli ultimi anni le teorie complottiste più disparate e improbabili hanno trovato un veicolo straordinario nel web e un terreno politico fertile nell’affermazione del fronte populista. Con la pandemia si è creata la situazione perfetta per il proliferare di fake news e di teorie pericolose. La teoria del complotto più diffusa è che il SARS-CoV-2 sia sta-to prodotto dagli scienziati cinesi nei laboratori dell’Istituto di virologia di Wuhan, la città dove è scoppiato il primo focolaio. Una bufala originata dalla pubblicazione a inizio febbraio di un articolo non sottoposto ad alcuna verifica di due ricercatori indi-pendenti cinesi sul social network per accademici ResearchGate. Un testo in cui i due autori sostenevano la possibilità che il virus potesse essere sfuggito al laboratorio, ma non che fosse stato creato dall’uomo. La notizia però è stata rilanciata come certa da diversi media, per primi i quotidiani britannici Daily Mail, The Sun ed Express, e poi cavalcata senza alcuna precauzione da molti politici, su tutti Donald Trump. A poco è servito che sin da subito la comunità scientifica abbia negato la possibilità dell’origine umana del virus o che il 17 marzo Nature Medicine abbia pubblicato uno studio che dimostra come SARS-CoV-2 sia il risultato di un’evoluzione naturale, irripetibile in laboratorio. Ormai il dubbio che scienziati cinesi avessero causato la pan-demia era stato istillato e si era diffuso. A inquinare ancora di più il dibattito è arrivato ad aprile il video del virologo ottanta-settenne Luc Montagnier, nel 2008 insignito del premio Nobel per la Medicina per il contributo alla ricerca sull’Hiv. Anche Montagnier sostiene che il nuovo coronavirus sia stato manipo-lato in laboratorio. Tra l’altro la credibilità del virologo francese era da tempo in discussione, dopo che aveva sostenuto diverse

teorie antiscientifiche, tra cui quella che lega vaccini e autismo. Altro grande colpevole della pandemia sarebbe il 5G, il nuovo standard tecnologico della telefonia mobile. Secondo la teoria cospirazionista, le onde elettromagnetiche del 5G abbasserebbe-ro le difese immunitarie, innalzando le probabilità di contagio. C’è addirittura chi è convinto che il virus viaggi attraverso il 5G, anche se non si sa bene in che modo. Sono invece legate all’origine del virus le deliranti teorie intorno a Bill Gates, fondatore di Microsoft e filantropo, che con la sua Melinda & Bill Gates Foundation da anni è in campo nella diffu-sione dei vaccini. Altra “colpa” di Gates secondo i complottisti è quella di essere il secondo maggior finanziatore dell’Organizza-zione Mondiale della Sanità. Ecco perché è stato additato come la “mente” dietro la pandemia, un’ipotesi avanzata inizialmente dal gruppo dell’alt-right americana QAnon (lo stesso gruppo che ritiene che Hillary Clinton sia stata a capo di una setta di pedofili che si riuniva in una pizzeria di Washington). C’è da dire che su Bill Gates i cospirazionisti si sono sbizzarriti: c’è chi sostiene che sia il creatore del virus, chi che ne fosse già a conoscenza da anni e che l’avrebbe tenuto nascosto per poter sviluppare per primo il vaccino. In ogni caso avrebbe avuto un unico obiettivo: arricchirsi ulteriormente con il business dei vaccini.D’altra parte negli ambienti dei teorici del complotto c’è una costante, un fantomatico «Nuovo Ordine Mondiale» composto da potenti oligarchi che tramano nell’ombra per dominare la terra. In questa realtà i «poteri forti» sono spesso ebrei, come tradizione che si trascina dalla bufala dei Protocolli dei Savi di Sion. È così che in molti paesi d’Europa così come negli Stati Uniti in questi ultimi mesi l’odio antisemita ha fatto leva sul co-ronavirus. In Iran e in Turchia si è arrivato ad accusare Israele di aver creato e diffuso il virus, un «piano sionista» per ridurre la popolazione mondiale. Vecchie teorie complottiste intrise di odio anti-ebraico, che hanno trovato nuova linfa vitale. [Luca D’Ammando]

Sono oltre dodicimila, di ogni ordine e grado e la loro eventuale chiusura, anche parziale, sarebbe un colpo al pluralismo culturale e alla libera scelta di quale modello educativo offrire ai propri figli. Ne uscirebbe indebolita persino l’identità del nostro Paese.

Emergenza Covid: senza adeguati aiuti le scuole paritarie rischiano di morire

Un patrimonio di inestimabile valore, quello delle scuole paritarie italiane - e in particolare quelle ebraiche, espressione massima di tutela e valorizzazione di ogni

minoranza e di qualsivoglia differenza - che rischia di di-sperdersi a fronte di una situazione economica che potrebbe pregiudicarne la stessa sopravvivenza e per salvare il quale a poco contribuiscono le forme di sostegno presenti nel De-creto Rilancio.Del miliardo e mezzo di euro messi a disposizione dal Go-verno per l’intero sistema scolastico nazionale, infatti, solo 150 milioni di euro verranno stanziati per le oltre dodicimila scuole paritarie italiane di ogni ordine e grado sparse sul tutto il territorio nazionale. A poco è servito il lungo braccio di ferro prodottosi all’inter-no della stessa maggioranza e timida è stata la risposta alle numerosissime proteste provenienti dal mondo delle scuole pubbliche paritarie e in particolare dalla Cei che di quelle scuole gestisce circa il 64%. Va detto, il Governo alla fine si è mosso. Così che nell’ultima versione del decreto Rilancio, quella poi firmata dal Presidente della Repubblica, all’articolo 233 è stato inserito un nuovo stanziamento di 70 milioni, a titolo di sostegno economico “in relazione alla riduzione o al mancato versamento delle rette o delle compartecipazioni comunque denominate, da parte dei fruitori fino ai sedici anni di età, determinato dalla sospensione dei servizi in presenza a seguito delle misure adottate per contrastare la diffusione del Covid-19”. Un piccolo passo in avanti rispetto ai 65 milioni di euro per le scuole materne paritarie, anche questi a copertura del mancato versamento delle rette, già presenti nella prima versione del decreto e ai 15 milioni di incremento del Fondo nazionale per il Sistema integrato di educazione e di istruzione, che porta il totale dei contributi per i servizi tra 0 e 6 anni a 80 milioni di euro. Infine, agli istituti non statali, andrà anche una parte dei 39,23 milio-ni di euro stanziati per garantire il «corretto svolgimento» degli esami di Stato, «assicurando la pulizia degli ambienti secondo gli standard previsti e la possibilità di utilizzare, ove necessario, dispositivi di protezione individuale da parte degli studenti e del personale scolastico durante le attivi-tà in presenza». Queste ulteriori risorse, si legge nel testo del decreto, saranno ripartite «tenendo conto del numero di studenti e di unità di personale coinvolti» nello svolgimento dell’esame di Maturità.Al momento, dunque, per le scuole paritarie, dall’infanzia alla secondaria di secondo grado (ma soltanto fino ai 16 anni), sarebbero stati previsti stanziamenti per 150 milioni di euro. Sempre troppo poco se si considera peraltro che nel Decre-to - ancora in attesa di approvazione - risultano essere del tutto insufficienti gli aiuti economici alle famiglie le quali saranno costrette giocoforza a iscrivere i propri figli nelle scuola statali. Gli effetti saranno a catena e disastrosi: molte paritarie saranno costrette a chiudere e il sistema scolastico pubblico (che su ogni alunno iscritto alle paritarie risparmia 7mila euro annui) si troverà a dover assorbire un esubero di

circa 1 milione di studenti. “Si tratta - afferma Chiara Iannelli dell’Associazione Articolo 26 - di un’ingiustizia inaccettabile, che viola un diritto fondamentale riconosciuto dalla nostra Costituzione e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Uma-ni proprio all’articolo 26: il diritto alla libertà di educazione e quindi di scelta della scuola per i figli da parte dei genitori. È infatti chiaro a tutti che i genitori non potranno più sceglie-re le scuole paritarie perché in mancanza di concreti aiuti economici diretti alle famiglie ed eventualmente alle scuole, in particolare in questo tempo di coronavirus, esse saranno costrette a chiudere”. Con la chiusura di molte paritarie sarebbe colpito non solo il pluralismo culturale ma anche il diritto alla libertà educativa, il diritto di scegliere la scuola dove far studiare i propri figli. Non si tratta però solo né essenzialmente di un pur necessario rispetto per le minoranze. Attraverso il riconoscimento del ruolo delle scuole paritarie passa la definizione stessa dell'i-dentità del Paese, di un'unità nazionale fondata non solo sul riconoscimento delle differenze ma sul loro fecondo intreccio.Ciò è tanto più vero per la comunità ebraica italiana il cui peso sulla cultura nazionale è stato enorme: basti pensare al ruolo degli ebrei nel Risorgimento e poi nella costruzione dello Stato italiano oppure al dialogo interreligioso, la cui importanza travalica in confini nazionali. La cultura ebraica, però, non è fatta solo di testi e parole. Per il Popolo del Libro, essenziali sono anche e soprattutto le festività, le tradizioni, la specifica articolazione del tempo scandita dalle esigenze e dalla intensità del culto. Tutti elementi che rendono indi-spensabile una scuola che sappia conservare e trasmette-re alle nuove generazioni l'eredità della cultura ebraica ed ebraico-italiana.Proprio le dimensioni numericamente limitate delle comunità italiane, oltretutto fra le più penalizzate dalla crisi Covid-19, rendono difficilissimo far sì che esse possano mantenere in modo autonomo le proprie scuole. Gli aiuti stanziati dal dl Rilancio, che ci auguriamo possano essere incrementati dal Parlamento in fase di conversione, sono senza dubbio un passo nella giusta direzione. Non ancora sufficiente...[Iaia Vantaggiato]

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dei dati offerti dalle autorità russe sembra essere dimostrato dalla pubblicazione alla metà di maggio dei dati assoluti dei morti registrati ufficialmente dal Municipio della capitale per il mese di aprile. Ne risulta che rispetto all'anno scorso il numero dei morti è stato superiore di 1855 persone, cioè circa il triplo dei morti registrati ufficialmente per coronavirus nello stesso mese (658). Novaya Gazeta ritiene che il bilancio delle vittime potrebbe essere assi più alto in quanto in Russia le autorità di-storcono spesso le statistiche sulla mortalità. “A causa dei decreti di maggio, le statistiche sulle cause della morte in Russia hanno smesso di riflettere la realtà. Il presidente ha annunciato obiettivi di guarigione impossibili, pertanto i ministeri regionali della sanità hanno iniziato a distorcere le cifre”, afferma un anonimo funzionario di Stato. Secondo Moscow Times del resto, il numero di morti sarebbe molto più alto di quello ufficiale non solo nella capitale ma in diverse regioni: a Sverdlovsk del 233%, a Saratov del 200% e a Ryazan del 60%. In questo quadro fortissime ten-

sioni sociali, sfociate in manifestazioni di massa, sono emerse in alcune zone della Russia. A Vladikavkaz, capitale della Ossezia settentrionale, il 20 aprile un fiume di povera gente, donne e anziani si è riversata nella piazza dove ha sede il governo della repubblica gridando «Fame! Fame!», rivendicando la riapertura delle aziende in lockdown e le dimissioni del governo. Sei giorni dopo, all'altro capo della Russia, nella Jacuzia siberiana, sono entrati invece in sciopero i contingenti della classe operaia di Gazprom. Nella zona di Chayandinskoye che alimenta il gasdotto “Forza della Siberia” hanno incrociato le braccia 10.500 operai e tecnici sparsi in 34 villaggi dove si trovano i giacimenti di gas, una forza-lavoro di un settore strategico per garantire le indispensabili esportazioni per l’economia russa. I lavoratori rivendicavano protezioni basilari contro il virus come guanti e mascherine e «l'approntamento di ospedali mobili vicino alle case e ai dormitori». [Yuri Colombo, giornalista freelance e ricercatore a Mosca [email protected]]

Il Covid19 ci ha ricordato una volta di più che le catastrofi non conoscono i confini umani nel scegliere le vittime e tanto-meno le etnie, le religioni e le appartenenze politiche. Fortu-

natamente però anche chi è determinato davvero a prestare il proprio aiuto non si pone di questi limiti. L'esperienza del Magen David Adom, il servizio nazionale di emergenza pre-ospedaliera israeliana, nella sua guerra al Covid19 è forse il miglior esempio di come un’organizzazione al servizio della popolazione possa affrontare una crisi trasformandola in un modello utile a tutto il mondo, Italia compresa. Un aspetto emerso anche durante la celebrazione on line organizzata da Magen David Adom Italia onlus per festeggiare i 90 anni dalla fondazione di MDA a Tel Aviv. Una serata che ha visto la partecipazione di interventi istitu-zionali come quelli di Gianluigi Benedetti, Ambasciatore d’Italia in Israele e Dror Eydar, Ambasciatore d’Israele in Italia, Noemi Di Segni, Presidente dell'UCEI, Yonathan Yagodovsky, Direttore Dipartimento Fundraising e Relazioni Internazionali del Magen David Adom, Sami Sisa, Presidente di Magen David Adom Italia Onlus, e di una delegazione di MDA Roma formata da Cesare Efrati, responsabile della sezione MDA nella capitale, Alessandro Piperno, Francesca Benozzo, Daniele Terracina e Alessandra Guggenheim. Nel corso del collegamento è stato spiegato come l'organizzazione abbia affrontato la lotta al Covid come fosse una “guerra”, utilizzando tutti i mezzi a disposizione e un sano pragmatismo per affrontare i problemi che quotidianamente si presentavano, ma anche come sia stato importante il dialogo con l'Italia, non solo sul piano della solidarietà e dell’impegno morale. Il nostro Paese, investito per primo dalla pandemia, ha potuto trasmettere dati fondamentali che hanno contribuito a rendere efficace la lotta in Israele e ora MDA trasmette quanto ha impara-to in termini di contrasto, prevenzione e tracciamento del virus.L'esperienza di Magen David Adom nella lotta a Covid-19 è sin-tetizzabile in una serie di numeri impressionanti. Se in tempi "normali" MDA utilizzava 80 volontari per rispondere a 6.000 chiamate di emergenza al giorno, a metà marzo ha mobilitato 500 operatori che sono arrivati a rispondere fino a 82.000 chiamate

giornaliere. Ad oggi si è arrivati a più di 2 milioni di chiamate totali. I test sono un altro punto di forza nel contrastare il virus: al 31 maggio ne erano stati effettuati 300.000. MDA ha messo in servizio 120 ambulanze modificate appositamente per il traspor-to di pazienti Covid-19 positivi, ha realizzato 94 centri di controllo mobili per effettuare in soli 4 minuti i test “Drive Through”; ha trasformato i container in test center per collocarli velocemen-te ovunque ce ne fosse bisogno. Nella complessa realtà etnica e sociale di Israele, nessuno è stato lasciato solo. Un impegno che è stato determinante nel salvare vite umane come ricono-sciuto dalle autorità di Israele, dai media, dalla gente comune e persino dalle star del mondo dello spettacolo che hanno voluto ringraziare pubblicamente MDA attraverso i social. Ma forse, come dimostra il fatto che MDA sia volata persino in Congo per allestire una postazione Drive Through, il valore più grande di questa attività consiste proprio nel patrimonio di esperienze da condividere, nello spirito più sincero di questa organizzazione e nel suo impegno verso la vita, ovunque.

Magen David Adom in prima linea contro il CovidSono state messe in servizio 120 ambulanze appositamente modificate, realizzati 94 centri di controllo mobili che effettuano il tampone in soli 4 minuti. Un’esperienza messa al servizio anche di Paesi esteri.

Magen David Adom Italia ONLUS IBAN: IT05X0325001600010000011165

Tra gli Stati cosiddetti “non trasparenti” rispetto alle di-mensioni e alle ricadute della pandemia, un posto parti-colare spetta ai paesi slavi ex-sovietici Russia, Ucraina e

Bielorussa. Quest'ultimo è uno dei pochissimi paesi in Europa a non aver preso, dall'inizio della crisi, nessuna misura per combattere il coronavirus. Sin da gli inizi di marzo il presidente Alexander Lukashenko, padre-padrone da ormai 30 anni del piccolo paese slavo, ha rilasciato dichiarazioni sorprendenti, se non grottesche sulla crisi in corso. Secondo Lukashenko infatti “ci vogliono vodka, sauna e molto lavoro per sconfiggere il virus”. I rischi e i contagiati per il suo paese “sono praticamente nulli”, tanto è vero che scuole e fabbriche sono restate sempre aperte e persino il campionato di calcio nazionale - con tanto di pubblico assiepato sugli spalti - è iniziato regolarmente. Egli ha accusato anche gli Stati europei di “alimentare psicosi”. «Ne ammazza più il panico che tutto il resto", ha sostenuto il «lider maximo». Tuttavia malgrado queste boutade e gli scarsi collegamenti con il mondo esterno che il paese ha da decenni, il virus si è diffuso lo stesso. Secondo i dati ufficiali alla fine di maggio ci sarebbero stati circa 35 mila casi di infezione e poco meno di 200 decessi. Cifre che in realtà sarebbero lontane dal vero. L'associazione medici bielorussi parla per esempio di “indegna farsa del go-verno”. Un medico di Vitebsk, in condizione di anonimato, ha confermato che “ci sono tanti pazienti già deceduti e non sono sempre anziani. In terapia intensiva, le persone muoiono di “pol-monite” e non viene riconosciuto che sia coronavirus. A livello amministrativo viene sussurrato: "qui è crittografalo in modo diverso per non rovinare le statistiche"”. E i 4 ospedali della città, appositamente convertiti per il trattamento della polmo-nite, sono pieni di pazienti. Secondo tale fonte i casi di infezione sono almeno il doppio dei casi segnalati di polmonite rispetto al solito. La stessa difficile situazione ci sarebbe a Minsk e Brest. Diverso discorso deve essere fatto per l'Ucraina che in quan-to membro associato all'Unione Europea non può sottrarsi ad alcuni criteri minimi di valutazione e di gestione della crisi. Inizialmente il paese - schiacciato da una cronica crisi economi-ca - ha reagito con un cocktail emotivo in cui si sono mischiate esasperazione, povertà, disperazione, pregiudizio e razzismo. Alla fine di febbraio è scoppiata una vera e propria rivolta a Novy Sanjarye nella provincia di Poltava, per impedire a un gruppo di concittadini provenienti da Wuhan di raggiungere il sanatorio della zona per sottoporsi alla quarantena. La popolazione di Novy Sanjarye è scesa in strada scontrandosi con i reparti della polizia. Il messaggio degli abitanti era chiaro: “Non vogliamo nessun infettato qui, abbiamo già i nostri problemi!”, “Gli pia-ceva la Cina, che ci restino!”, “Portateli a Cernobyl” gridavano gli abitanti. Poi dal 18 marzo il governo di Zelensky ha imposto un lockdown che nelle prime settimane è stato praticamente assoluto. Chiuse le aziende, niente mezzi pubblici compresa la metrò di Kiev, chiuse le rimesse degli autobus e le stazioni ferro-viarie. I dati attuali sembrano aver dato ragione all'ex-comico. Le infezioni registrate sono poco sopra le 20 mila. Tutto bene quin-di? Non proprio. L'azione delle autorità è stata particolarmente stringente in relazione alle temute conseguenze della diffusione del virus in un paese totalmente impreparato ad affrontarlo. Se si fuoriesce dalla capitale le strutture sanitarie sono in condizioni

disastrose così come le condizioni socio-sanitarie dei cittadini del Tridente. Secondo i dati forniti dalla banca mondiale qualche mese fa, l'aspettativa media di vita stagna a 71,4 anni, la popola-zione continua a ridursi (41,5 milioni nel 2019, 10 milioni persi dai tempi dell'Urss) e un tasso di mortalità del 14/1000. In un quadro simile, segnato ancora da molte produzioni inquinanti e nocive alla salute come l'estrazione di carbone, è del tutto chiaro perché si sia fatto di tutto per frenare il contagio. Non a caso la percentuale dei decessi sul numero dei casi è alta: oltre il 3%.Ma sicuramente i fari sono accesi soprattutto sulla situazione nella Federazione Russa. Fino al 26 marzo, giorno in cui Vladi-mir Putin ha deciso la messa in quarantena dell'intero paese, sembrava che il Covid-19 non esistesse. I casi accertati fino ad allora erano solo 500, i morti 2 e la gente a Mosca prosegui-va la vita di sempre senza prendere alcuna precauzione. Un comportamento dovuto anche a un approccio “minimalista” di stampa e televisione sulla diffusione e le conseguenze del virus. Un approccio paradossale in un paese che ha 4500 chilometri di confine con la Cina.Poi dal 27 marzo le cose sono iniziate a cambiare, seppur con-fusamente. In primo luogo sono iniziati i controlli con i tamponi e la curva del numero degli infettati ha iniziato ad impennarsi. Alla fine di maggio i contagiati in Russia sono oltre 320 mila (di cui il 50% concentrati a Mosca) e il “picco” sembra superato. Anastasia Vasilevna, leader del sindacato dei lavoratori della sanità ritiene che in realtà il virus sia iniziato a propagarsi ben prima di marzo e mancherebbero all'appello molti deceduti: “A gennaio l'Ufficio di statistica statale ha registrato un numero di polmoniti del 37% superiore rispetto all'anno precedente, ma già a febbraio il dato è diventato top-secret”. Resta anche da capire quali siano stati i criteri per definire i decessi per coronavirus visto che i morti sarebbero solo l'1% dei casi all'interno di un quadro della sanità di un paese che fuori dagli oblast europei può contare su un servizio sanitario non certo efficiente. La viscosità

Addio trasparenza. Il coronavirus fa dimenticare la parola ‘Glasnost’In Russia, Ucraina e Bielorussia i numeri ufficiali del contagio non tornano.In alcuni casi è persino vietato parlare di epidemia.

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La pandemia in corso ha messo sotto scacco le relazioni sociali, economiche e gli affetti, ci ha ca-

ricati del peso della solitudine e della frustrazione per una quanto mai ago-gnata attesa alla normalità. Chiusi in casa a impastare la pizza, gli italiani hanno fatto i conti con i propri demo-ni: gli stessi che cantavano felici dai balconi i primi giorni di marzo sono quelli che il 25 aprile hanno scelto di non sprecare nemmeno una parola cantata per commemorare la Libe-razione dell’Italia dal nazifascismo. Tutti siamo impauriti, timorosi delle conseguenze che questo fenomeno la-scerà sulle nostre vite, tutti sbuffiamo quando dobbiamo aspettare trenta mi-nuti davanti al supermercato, quando i nostri guanti lottano con la cerniera del portafoglio per pagare la spesa alla cassa.Ci sono però alcune persone più fragi-li, che richiedono assistenza in giorni normali, figuriamoci in un periodo ec-cezionale come questo. Un pensiero a pandemia inoltrata è andato a coloro che lottano contro ogni forma di dipen-denza, ritrovati ad affrontare i propri problemi da soli, con molto tempo a di-sposizione e con il rischio di impazzire. Un altro è andato al mio amico Luca, ventisei anni, e a suo fratello Simone, ragazzo autistico di ventisette anni che è stato costretto, insieme alla sua fami-glia, a cambiare in poco tempo la pro-pria routine. La quarantena infatti non ha più permesso a Simone e ad altri ragazzi come lui di svolgere le attività che ogni giorno li tenevano impegnati. La ‘Cooperativa Garibaldi’ sull’Ardea-tina - un grande casale che fa parte di un istituto tecnico agrario - è il luogo in cui generalmente un gruppo di ragazzi autistici guidati da alcuni operatori si incontra per coltivare assieme la terra dalla mattina al primo pomeriggio. A causa dell’epidemia la cooperativa è stata chiusa. Simone non va più al ‘Garibaldi’ ma due operatori, che hanno deciso di con-tinuare a lavorare nonostante l’emer-genza sanitaria, vanno da lui. Molte

altre famiglie, analoghe a quella di Simone, continuano a ricevere sup-porto, altre invece scelgono di gestire la faccenda senza aiuti esterni data la delicatezza della situazione. Durante le prime settimane di qua-rantena c’era la possibilità di andare a passeggiare a Pomezia, tra il verde e gli animali del maneggio; da quando i controlli si sono irrigiditi le passeggia-te sono state circoscritte al quartiere e a zone limitrofe dalle nove di mattina all’una. Luca ci racconta che per passare da una routine all’altra è stato necessario raccontare al fratello ogni cosa. “L’in-formazione sui vari passaggi è neces-saria affinché i ragazzi non si agitino, Simone è collaborativo, comprende lo stato di emergenza e non si lamenta. A volte incontra difficoltà nel mantenere dei ritmi di sonno e pasti regolari ma nulla di più”. Non molto dissimile da ciò che avviene nelle nostre case, dove mangiamo, impastiamo, inforniamo e dormiamo più del dovuto. Simone gira

per casa per sgranchirsi un po’ e non reca alcun fastidio. È stato bravo a cogliere il cambiamento e consapevo-le della situazione e del suo posto nel mondo si è adattato alle misure impo-ste. Le espressioni sul suo viso mostra-no però un certo disagio: camminare per le strade di Roma vuote procura sgomento. I weekend trascorsi a Fiumi-cino con il papà alla guida non esistono più, ora ci sono solo i giri in macchina intorno al quartiere, ma Simone non sembra soffrirci più di tanto.Sono gli occhi indiscreti di chi giudica e gli insulti velenosi sulle foto di Fa-cebook che ritraggono Simone in una Roma deserta quelli che più feriscono Luca, e f ino a quando bere una Co-ca-Cola al bar o fare una passeggiata al parco con un fratello autistico vorrà dire catturare gli sguardi inopportuni dei passanti, sappiamo che qualcosa andrà cambiato, bisogna solo capire da dove cominciare. [Marta Spizzichino]

L’editoria, nel corso del '900, è sempre stata caratterizzata da periodi di espansione e di con-

trazione economica che andavano di pari passo con le fasi storiche dell'Ita-lia e ancor più in generale dell'Europa. A causa del Coronavirus ci sono state molte ripercussioni negative sull'eco-nomia mondiale e, quindi, anche nel settore editoriale. Abbiamo intervista-to Shulim Vogelmann, amministratore della casa editrice Giuntina, per saper-ne di più.Con l’arrivo del Covid in che fase possiamo posizionare l’editoria italiana attuale?Secondo i dati AIE nei due mesi di chiusura il calo del fatturato per l'edi-toria italiana è stato in media attorno all'80%. Nei mesi seguenti e in prospet-tiva il calo è previsto del 35%. Si tratta di una situazione difficile dalla quale purtroppo molte case editrici faranno fatica ad uscire, sempre secondo i dati AIE. Tuttavia, i libri pur non essendo necessari come altri prodotti hanno il potere di far uscire dalla realtà condu-cendo il lettore in mondi sconosciuti. Un viaggio molto salutare nel periodo attuale, e a ottimi prezzi. Per cui, ho la speranza che i lettori non mancheran-no mai del tutto.Che bisognerebbe fare per incentivare l’italiano medio alla lettura, nonostante il periodo di crisi attuale?In Italia si legge poco a prescindere dal Covid. I lettori forti (almeno un libro al mese) sono circa 5 milioni. Il 25% dei lettori sono nella provincia di Milano mentre tutto il sud, isole comprese, raggiunge a mala pena il 10%, princi-palmente per la mancanza di librerie. Due direzioni su cui puntare sono il sostegno alle librerie da parte dello Stato e naturalmente lavorare con gli studenti a scuola andando oltre le let-ture del classico "programma".Molte case editrici hanno fallito proprio a causa dei mancati guadagni durante il periodo di quarantena. Le persone non potevano spendere i propri soldi per il piacere della lettura vista la crisi economica che il Covid ha

causato. Le piccole e grandi case editrici come hanno deciso di reinventarsi?Per quanto riguarda la Giuntina ab-biamo deciso di sfruttare il periodo di chiusura per rinnovare il nostro sito web (che sarà pronto tra un mese) e abbiamo aperto nuovi canali di co-municazione come Telegram https://t.me/giuntina e Whatsapp (per iscriversi bisogna inserire in rubrica il nostro numero 389 5895910 e inviare un sms), e soprattutto abbiamo razionalizzato il programma editoriale 2020-2021.Vede sostanziali differenze di vendita tra editoria scolastica ed editoria di varia? Si è visto come nel corso degli anni è stata sempre quest’ultima a subire i danni di ogni contrazione economica, mentre la prima è forte del fatto che l’istruzione obbligatoria prevede l’uti-lizzo di libri scolastici. Naturalmente la scolastica può fare affidamento a un pubblico sicuro e alla certezza del-le tirature. Chi pubblica libri di varia non potrà mai sapere se un libro avrà successo o se sarà un fallimento. Ma questo è anche il bello dell'editoria, ossia essere parte di un mercato che non si basa esclusivamente sul concet-to di domanda e offerta. Nonostante le mie convinzioni, non ho mai la certez-za su quale libro sarà il più venduto e

apprezzato dai lettori, e molto spesso vengo smentito, ma non è affatto una sensazione spiacevole.In un contesto di crisi economica, secondo lei l’ebook si inserirà ancor più prepotentemente nel commercio per i bassi costi o rimarrà una semplice alternativa al cartaceo?Durante il confinamento c'è stata una crescita della vendita di ebook, ma non eccezionale come si potrebbe pensare e ora sta tornarno ai normali livelli di sempre, attorno all'8% rispetto al car-taceo. Sicuramente in questo periodo sono nati nuovi lettori digitali, ma cre-do che per i prossimi anni rimarremo sempre attorno all'8-10% - il libro di carta rimane imbattibile, almeno per me.Come vede il futuro dell’editoria da qui a qualche anno?I grandi gruppi che dovessero trovar-si in crisi si uniranno ad altri gruppi, anche di altri paesi, creando multina-zionali dell'editoria. Le piccole e medie case editrici o saranno inglobate nei grandi gruppi oppure resisteranno da indipendenti, ma solo puntando sulla qualità e portando avanti progetti ben definiti capaci di creare un nocciolo duro di lettori affezionati.[A cura di Miriam Spizzichino]

Pandemia, le strade deserte e un ragazzo che le attraversa

Editoria, economia e Covid: come la Giuntina affronta la crisi

L’isolamento sociale ha costituito per molte persone un problema psicologico e comportamentale, soprattutto per chi deve affrontare problemi di disabilità. La storia di Simone.

Intervista a Shulim Vogelmann amministratore delegato della casa editrice fiorentina.

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Pace è una delle parole più abusate, il cui significato può variare a seconda di chi la pronuncia. Dittatori e movimenti terroristi la usano per giustificare stragi

e genocidi, nelle istituzioni internazionali viene sempre in-vocata dai rappresentanti dei regimi più criminali quando intervengono per accusare Israele di essere responsabile della mancata pace con i palestinesi. Poco importa che la storia ci insegni che il rifiuto è da attribuire alle decisioni di chi vorrebbe una ‘soluzione’ in grado di cancellare lo Stato ebraico. È almeno dal ’67 che colloqui, incontri hanno dato risultati negativi, non avendo Israele nessuna intenzione di suicidarsi. Le uniche novità sono il risultato del lavoro diplomatico di Benjamin Netanyahu, con l’intermediazione di Donald Trump, che ha dato origine ad una apertura po-sitiva con l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo. A questo inizio promettente è seguito il progetto voluto fortemente dal presidente americano, di un cambiamento che garantisse da un lato la piena sicurezza di Israele, dall’altro la nascita di una entità statale palestinese nei territori contesi di Giudea e Samaria, dove non vi sono ebrei.Ancora una volta, la risposta di Abu Mazen è stata un NO, rendendo visibile la reale intenzione delle posizioni pale-stinesi. Quali sono state le reazioni? Nel mondo islamico, decisamen-te tiepide nella realtà, anche se accompagnate verbalmente da espressioni solidali. E le democrazie occidentali? Come sempre schierate dalla parte palestinese, nulla di nuovo, anzi, no, una novità c’è e riguarda l’Italia, in particolare il governo, con una lettera inviata al Presidente del Consi-

glio, firmata da 70 parlamentari di maggioranza, per esse-re chiari 5Stelle e PD. Poteva esserci anche la firma della Lega Araba, si sarebbe trovata in buona compagnia. Ecco in sintesi il contenuto: “Tale decisione (il progetto Usa, nda) è in aperta violazione del diritto internazionale e delle riso-luzioni delle Nazioni Unite e che essa, qualora realizzata, porrebbe una pietra tombale su ogni rilancio del processo di pace in Medio Oriente e sulla prospettiva di due popoli e due Stati che convivano in pace e sicurezza reciproca”. Ogni commento dovrebbe essere superfluo, il fatto che Isra-ele sia circondato da paesi che ne chiedono apertamente la distruzione non è stato degno di citazione da questi 70 amanti della pace. Che appartengano ai due partiti di go-verno avrebbe dovuto suscitare qualche intervento. Invece nulla nei media più importanti, nulla nei TG così come nei talk show. Non sappiamo neppure quale è stata la risposta - sempre che ci sia stata - da parte del governo. La lettura integrale della lettera è molto istruttiva, in specie per chi conosce la storia del Medio Oriente. [Angelo Pezzana]

Un commento alla lettera di 70 deputati italiani che ‘dimenticano’ che Israele è circondata da nemici che ne vogliono la distruzione.

Pace: mai parola fu più abusata

Si condanna lo Stato ebraico e si ignorano le minacce mortali dell’Iran.

Come al solito su Israele due pesi e due misure

Una lettera di settanta parlamentari al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte - prima firmataria Laura Bol-drini - non chiede di rispettare il voto del Parlamento

europeo e della Camera dei Deputati, che chiese al Governo di accogliere la definizione IHRA di antisemitismo, come ha fatto il mondo civile. Chiede, invece, di condannare Israele perché vorrebbe includere nella propria giurisdizione alcuni insediamenti ebraici in Cisgiordania, detta anche West Bank oppure Giudea e Samaria.L’ebraismo italiano, malgrado il sanguinoso attentato subito nel 1982, ripose grandi speranze negli Accordi intervenuti fra Israele e l’OLP, in quanto consentivano di confidare in una fine del conflitto arabo israeliano. Quella speranza andò delusa, in seguito al rifiuto delle proposte di pace presentate da Ehud Barak a Yasser Arafat e da Ehud Olmert a Mahmoud Abbas. Prima della Guerra dei Sei Giorni, nel 1967, Gaza faceva parte dell’Egitto e la West Bank della Giordania. Nessuna organiz-zazione palestinese aveva mai chiesto di costituire uno Stato palestinese negli attuali territori contesi, perché quei territori ricadevano nella giurisdizione giordana ed egiziana. La ‘libe-razione’ poteva, quindi, riguardare il solo territorio d’Israele. Dopo 53 anni dalla Guerra dei Sei Giorni, e dopo che Israele ha fatto la pace con la Giordania e con l’Egitto, restituendo la maggior parte dei territori rimasti in mano israeliana dopo tale conflitto, ed alla luce del fallimento del processo di Oslo, dovuto sia ai molteplici rifiuti che ad una costante violenza, appare evidente che il quadro non può rimanere stagnante per sempre. Ciò posto, le Comunità Ebraiche italiane non sono par-titi politici, ed essendo strutture democratiche, ospitano al loro interno tutte le posizioni politiche possibili, anche sul conflitto arabo - palestinese. Il che non significa che siano indifferenti alle sorti dei sei milioni di ebrei israeliani, perché sarebbe come dire che, ad esempio, le Comunità Ebraiche americane, potessero assistere nella massima indifferenza al massacro degli ebrei europei per mano nazifascista. Rivendichiamo per-tanto il diritto dello Stato ebraico all’autodeterminazione ed alla sua incolumità.Quegli insediamenti ebraici che Israele vorrebbe far rientrare nella propria sovranità, rientrano nell’area C degli Accordi di Oslo, ma naturalmente ogni interpretazione al riguardo è benvenuta. A patto che non si dimentichi il 20% abbondante di cittadini arabi d’Israele, che ovviamente godono di parti diritti, i quali notoriamente si tengono gelosamente quella cit-tadinanza, che secondo le inchieste d’opinione, non vorrebbero cambiare per qualsivoglia altra cittadinanza. Al contempo, gli ebrei sono stati espulsi dai Paesi arabi, ed il numero di rifugiati ebrei era ben superiore a quello dei rifugiati arabi. I rifugiati ebrei non sono stati mai risarciti né hanno mai chiesto alcunché a nessuno.Ora i parlamentari firmatari della suddetta dichiarazione, chiedono al Presidente del Consiglio di condannare - letteral-mente - una prospettiva ("non soltanto di condannare nel modo più esplicito la prospettiva del Governo israeliano”). Poiché non risulta che costoro abbiano mai raccolto delle firme fra di loro per richiedere la condanna di qualsiasi altro Stato, nemmeno di chi un giorno sì e l’altro pure invoca l’annien-

tamento d’Israele, è opportuno far presente che la cennata definizione IHRA di antisemitismo, approvata dal Parlamento europeo e dalla Camera dei Deputati italiana, vieterebbe l’a-dozione di due pesi e due misure nei riguardi di Israele. Di tale dichiarazione Palazzo Chigi ha accolto la prima frase, assolutamente ininfluente, tralasciando tutto il suo contenuto. Visto che, come detto, i parlamentari hanno emanato una Ri-soluzione per chiedere al Governo di accogliere la definizione IHRA di antisemitismo, sarebbe stato opportuno che ne chie-dessero l’ottemperanza anziché impegnarsi in una condanna, avendo ben altri strumenti a disposizione. Passare dalla difesa, abortita, degli ebrei italiani, alla richiesta di condanna tout court d’Israele, e non di chi ne minaccia l’esistenza, dimostra che il rapporto con l’ebraismo italiano si sta limitando alla commemorazione degli ebrei uccisi 75 anni addietro e non alla salvaguardia dei vivi.Infine, l’invocazione continua della soluzione dei due popoli due Stati, incontra due obiezioni: a) la mancanza della volontà di porla in essere; b) la rimozione inaccettabile del fatto che in Israele vivono due popoli, mentre nella controparte ne dovreb-be vivere uno solo. Intendiamoci, lo sguardo del Parlamento italiano verso l’estero appare indispensabile, anche in chiave di politica legislativa; al riguardo, basterebbe esaminare, ad esempio, quanto emerse dal numero monografico dell’Annua-rio di Diritto comparato e di Studi Legislativi del 2014, intento ad esaminare l’influenza del diritto italiano in Europa, oppure, nell’ambito domestico, dalla valutazione d’efficacia della no-stra legislazione (D. Achille, Riv. Critica d. privato, dicembre 2019). Tutto ciò dovrebbe attirare la nostra attenzione sull’e-sigenza sempre più sentita di un ammodernamento del nostro sistema, alla luce della concorrenza fra ordinamenti (vedi le conclusioni dell’avvocato generale La Pergola del 16 luglio 1998 nella causa C-212/97). Quale legittimazione potremmo avere per chiedere al Par-lamento di aprirsi al mondo per allacciare rapporti anziché pronunciare condanne? Forse quella che deriva da una crisi che costringe questa Comunità Ebraica a distribuire derrate alimentari fra i suoi iscritti che versano in maggiore difficoltà. Snellire l’ordinamento, unificare i sistemi, confrontarsi con le esperienze di altre giurisdizioni, tornare ad essere un Paese ammirato ed invidiato, anziché puntare preferenzialmente in sede domestica ed internazionale il solo Stato d’Israele, come se i suoi vicini fossero democrazie esemplari ed amanti della pace. Quanto ai rapporti con l’ebraismo italiano, sarebbe auspicabile che la democrazia italiana non consideri che l’invocazione della Memoria esaurisca i suoi compiti, perché sul piano le-gislativo e politico vi è un vuoto che non si riscontra in altri ordinamenti, come dovrebbe emergere dai pregevoli seminari svolti dalla Scuola Superiore della Magistratura. Non sarà la retorica degli incontri protocollari e delle commemorazioni delle leggi razziali - dove si riscontrano ancora lacune di non poco momento - a sopperire ai molti equivoci ed alle troppe disinvolte soluzioni giuridiche, che fanno bella mostra su alcu-ni siti ufficiali. Da parte nostra, non ci sono malintesi, perché abbiamo inteso benissimo. [Emanuele Calò]

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Intervista a Giuliana Sgrena rapita a Bagdad nel 2005 e liberata dai servizi segreti italiani in circostanze drammatiche, in cui perse la vita Nicola Calipari.

Per gestire un ostaggio non c’è bisogno necessariamente della violenza fisica. Bastano i condizionamenti psicologici

Giornalista del quotidiano “Il Manifesto”, Giuliana Sgrena viene rapita il 4 febbraio 2005 mentre si trova a Baghdad, in Iraq, per realizzare una serie di reportage per il suo

giornale. È stata liberata dai servizi segreti italiani il 4 marzo, in circostanze drammatiche che hanno portato al suo ferimento e all'uccisione di Nicola Calipari, dirigente dei servizi di sicu-rezza italiani (SISMI), che dopo lunga trattativa era riuscito ad ottenerne la liberazione avvenuta, secondo varie fonti, a fronte del pagamento di un cospicuo riscatto.Da cronista, ha realizzato numerosi resoconti da zone di guer-ra, tra cui Algeria, Somalia ed Afghanistan. Tra i suoi numero-sissimi libri, ci piace qui ricordarne uno in particolare: “Il prez-zo del velo. La guerra dell’Islam contro le donne” (Feltrinelli). Shalom l’ha incontrata.Giuliana anche a te, come a Silvia Romano, è stato chiesto in tono polemico: “Ma cosa ci facevate lì”? Cosa rispondi?“Io ero lì, cioè in Iraq, perché facevo il mio lavoro di giornali-sta. Quando sono stata rapita ero andata in un piccolo campo di profughi accampati vicino a una moschea che si trovava all’interno di un campus universitario a Baghdad. Erano fuggiti da Falluja - simbolo dell’opposizione irachena all’occupazione americana - dopo l’attacco militare ed io volevo capire quali fossero stati gli effetti dei bombardamenti”. E invece sei stata rapita.“Sì, mi hanno bloccata all’uscita dell’università e mi hanno sequestrata. Era un venerdì, c’erano pochissime persone in giro quindi hanno agito con la massima facilità. Erano in quattro. Mi hanno portata in una casa che si trovava all’interno di una villetta a schiera, non lontana dal luogo del rapimento, e da lì non mi sono mai mossa”.Perché ti hanno rapita?“Volevano usarmi come arma per chiedere il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq. Una richiesta che era irragionevole pensare potesse essere ottemperata”.Quindi sei stata liberata a fronte del pagamento di un riscatto. E da qui le polemiche, come nel caso di Silvia Romano. Vedi, tra i tanti, gli attacchi di Salvini.“Sappiamo benissimo che i riscatti vengono pagati da tutti gli Stati. A volte sono riscatti in soldi, altre volte liberazione di detenuti. Anche gli Stati Uniti lo fanno e spesso anche per il tramite degli italiani. Ora non si capisce perché tutto questo venga messo in discussione solo quando si paga per liberare delle donne”.Si diceva che ti fossi attardata troppo dentro una madrassa.“Non sono mai andata in una madrassa non foss’altro che in quel periodo, a Baghdad, di madrasse non c’erano. L’Iraq era governato sì da un dittatore ma laico e quindi non esistevano scuole coraniche. Può darsi che io sia rimasta un po’ troppo a lungo all’interno del Campus ma non era facile parlare con i profughi, erano molto diffidenti. Per fortuna ad avvicinarsi sono state le donne che hanno voluto raccontarmi le loro storie. Storie terribili, di morte e distruzione. Non potevo lasciarle così. Non potevo non ascoltarle”.

A Silvia hanno detto: “Ma perché non si è fatta gli affari suoi”?“Io penso che quando è una donna a trovarsi in quella situa-zione è sempre lei che “se l’è andata a cercare”. Anche a me è capitato. Molti colleghi giornalisti - che pure erano stati solida-li con me durante il rapimento - quando sono stata rilasciata hanno dichiarato che, appunto, “me l’ero andata a cercare”. Persino Enzo Biagi ha affermato che se fossi rimasta a casa non mi sarebbe successo niente. Affermazioni di questo tipo non si sono mai sentite quando ad essere rapito è stato un giornalista maschio”. Tu, Silvia, le due Simone e anche le due volontarie ita-liane rapite ad Aleppo, in Siria…Il commento è sempre lo stesso: “ve la siete andata a cercare”.“Le “Simone” erano volontarie in Iraq e sono state sequestrate dentro casa loro. Quando sono arrivate in Italia dopo il rilascio erano sorridenti e questo ha dato fastidio a molti come se non fosse ovvio che dopo un’esperienza del genere si è solo felici di tornare a casa. Le hanno definite “Vispe Terese”. Le altre due ragazze italiane rapite in Siria, definite “oche giulive”, sono state addirittura accusate di essere state le “puttane” dei loro stessi rapitori. Quello che dà fastidio è che le donne possano fare quello che gli uomini fanno normalmente”.Tu però non eri felice quando sei tornata.“Non potevo esserlo. Ero ferita…e Nicola Calipari era stato ucciso”. In una trasmissione di Andrea Purgatori andata in onda di recente, hai affermato di non sentirti responsabile della morte di Nicola Calipari. “Tra le tante cose di cui sono stata accusata c’è anche questa: aver causato la morte di Calipari. E per questo, dopo anni, vengo ancora minacciata di morte. Ora, non sono stata io a premere il grilletto contro Calipari però la sua morte è una cosa che mi porto dentro perché non posso dimenticare che per la mia liberazione lui è morto ed ha pagato un prezzo altissimo come ha pagato un prezzo altissimo la sua famiglia. Per questo io non potrò mai essere felice per la mia liberazione perché è costata la morte di un uomo. Il 4 marzo non è il giorno della mia liberazione ma è il giorno della morte di Calipari”. A quella trasmissione era presente anche Rosa Calipari.“Sin dall’inizio l’atteggiamento di Rosa Calipari nei miei con-fronti mi ha aiutata molto così come quello dell’intera squa-dra diretta da Calipari. Loro capivano che io ero lì per fare il mio mestiere e che dovevano liberarmi. E pensare che io ero convinta che i “servizi” fossero qualcosa di completamente lontano dal nostro mondo. Invece lì ho trovato intelligenza e comprensione”. È stata incauta Silvia Romano nel decidere di andare in Kenya?“Fare il volontario in Africa, in Kenya, non è particolarmente pe-ricoloso. Il problema è che in molte di queste zone girano i mili-ziani islamici di al Shabab. E loro sì che sono estremamente peri-colosi: sono terroristi, sono violenti, organizzano sequestri”.

L’immagine di Silvia Romano che, lasciandosi alle spalle 535 giorni d’incubo, scende dall’aereo con

indosso un jilbab verde è forse il mag-gior successo propagandistico degli Al Shabaab somali. Come ha scritto Dome-nico Quirico, l’inviato della Stampa che ha vissuto di persona l’esperienza del sequestro, in quell’abito verde - il colo-re dell’Islam - che la cooperante «non ha voluto lasciare dietro, c’è il mondo dell’islamismo radicale con i suoi co-dici, le sue parole d’ordine, i territori segreti, l’incubo dei predicatori che sanno ispirare l’animo alla follia (ah poveretti, voi non sapete quanto sono abili in questo), la sua manovalanza e suoi gerarchi».Perché la vicenda di Silvia Romano, e il suo esito, danno ad Al Shabaab un riconoscimento fin qui mai ottenuto. L’immagine di una ragazza occiden-tale, sorridente dopo aver passato 18 mesi in ostaggio, che dichiara di essersi convertita senza costrizione e che anzi fa sapere di essere stata trattata bene dai suoi carcerieri, conferisce al gruppo

jihadista somalo una (falsa) immagine quasi compassionevole. C’è poi l’aspetto economico, con un riscatto milionario quasi certamente incassato - e poco cambia che siano i quattro milioni ipotizzati da Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera o il milione e mezzo di cui parlano Stam-pa e Messaggero. Soldi che si vanno ad aggiungere ai proventi dei taglieggia-menti e dei sequestri che il gruppo ha compiuto con regolarità in questi anni e che hanno costretto i jihadisti ad aprire decine di banche nel quartiere somalo di Nairobi, solo per investire i soldi en-trati nelle loro casse. Nato nel 2006 dopo la sconfitta dell’U-nione delle corti islamiche, oggi Al Shabaab conta almeno seimila uomi-ni, forse diecimila, guidati da Ahmed Oumar Dirieh, detto Abu Ubaydah, che ha preso il posto di Ahmed Abdi Goda-ne (alias Mukhtar Abu Zubair), ucciso in un raid di un drone americano nel 2014. Rispetto a gran parte delle fazioni jihadiste africane, ha aderito ad Al Qa-eda nel 2012, mantenendo però sempre

una certa autonomia. Dal 2008 è nella lista statunitense delle organizzazioni terroristiche. Il gruppo che professa la sharia si è radicato in gran parte del paese somalo grazie a un governo, un fisco, sistema scolastico e giudiziario paralleli a quelli di Mogadiscio. Ma Al Shabaab non colpisce solo in Somalia. Negli anni ha dimostrato di sapere agire con efficacia anche oltre confine, come dimostrano le ripetute prese d’ostaggio in Kenya. Tra gli attentati più sangui-nosi, quello dell’aprile 2015 contro un campus universitario in Kenya, quando persero la vita 147 persone, e quello del dicembre 2018 quando un’autobomba che a Mogadiscio causò 85 morti. In un momento in cui l’Isis è impegnato in Iraq a riconquistare terreno e pote-re, i talebani sono divisi nella trattativa con gli Stati Uniti e Al Qaeda è ancora priva di un leader, con il rapimento e il rilascio della cooperante italiana che ora si fa chiamare Aisha Al Shabaab si è conquistato un posto da protagonista al tavolo del jihadismo mondiale. [Luca D’Ammando]

La conversione e la trasformazione da Silvia Romano in Aisha Al Shabaab, dà una immagine quasi compassionevole di un gruppo islamista fanatico e sanguinario.

Quel velo verde un successo per la propaganda jihadista

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Identikit di uno dei gruppi islamisti più fanatici che ha gestito il rapimento della volontaria italiana Silvia Romano.

Brutalità, violenza, stragi e Corano. Chi sono i terroristi di Al-Shabab

Dopo la liberazione del 9 maggio scorso di Silvia Romano, passati 18 mesi di prigionia, in molti si

sono chiesti chi siano gli Al-Shabab, un nome che ai più richiama un gruppo non ben identificato di terroristi che si confonde tra i mille che formano la ga-lassia islamista. Al-Shabaab (Harakat al-Shabaab al-Mujahiddeen) significa “Movimento dei giovani combattenti per la Jihad” e nasce in Somalia intor-no al 2005 come movimento militante emerso dalla frantumazione delle corti islamiche somale in un contesto di for-te instabilità politica e in una società settaria basata sui clan. Al-Shabaab emerge inizialmente come una nuova realtà somala che appare in grado di so-stituirsi all’assenza dello Stato, ma che presto si rivela in tutta la sua violenza e perde il consenso della popolazione or-mai provata da decenni di guerra civile e di crisi. Il modus operandi è quello di brutali attentati terroristici che pren-dono di mira i cristiani, che vengono identificati con l’occidente in genera-le, e i musulmani che non si piegano all’imposizione fondamentalista della sharia che, secondo il gruppo, deve es-sere instaurata in Somalia. Espulso da Mogadiscio nell'agosto 2011 e dal porto di Kismayo nel settembre 2012, il mo-vimento islamico controlla ancora zone rurali nel sud e nel centro del Paese.Gli Al-Shabaab figurano dal 2008 nella lista delle organizzazioni terroristiche degli Usa e nel 2012 hanno giurato fe-deltà ad al-Qaeda. Sono stati protago-nisti e firmatari di sanguinosi attenta-ti, tra cui quello al centro commerciale Westgate a Nairobi che, nel settembre del 2013, costò la vita a 67 persone. Due anni dopo compirono una strage in un campus universitario in Kenya: all’al-ba del 2 aprile 2015 un loro commando fece irruzione sparando all’impazzata nel campus di Garissa, una città del Kenya orientale, impadronendosi di una parte degli edifici e prendendo in ostag-gio tutti gli studenti. Il loro portavoce, Ali Mohamud Tage, dopo qualche ora informò la Bbc che i miliziani stavano separando gli studenti cristiani da quel-li musulmani con l’intenzione di tenere

in ostaggio i primi e lasciar andare i secondi. “I kenyani - disse - saranno scioccati quando alla fine entreranno nell’Università di Garissa”. Poco dopo uno studente, Collins Wetangula, che riuscì a scappare gettandosi da una fi-nestra, spiegò il significato delle parole del jihadista: “Quando i terroristi sono entrati nel mio ostello li ho sentiti aprire tutte le porte una dopo l’altra e chiedere alla gente nascosta nelle stanze se era-no musulmani o cristiani. I cristiani li hanno uccisi sul posto. A ogni colpo di fucile ho pensato che stavo per morire anch’io. Nessuno gridava, per paura di far sapere dove si trovava”.Nel dicembre 2018 un loro attentato condotto con un’autobomba a Mogadi-scio, vicino alla sede del Ministero degli Esteri, ha ucciso 85 persone. In un recente rapporto dell’Africa Cen-tre for Stategic Studies (Acss) che ha sede a Washington, si evidenzia come in Africa, nel 2019, i gruppi islamisti ab-biano fatto registrare un ritmo record di attività, con 3.471 eventi violenti regi-strati, il 14% in più rispetto al 2018, ma addirittura il doppio rispetto al 2013. Questa escalation riguarda soprattutto l’area del Sahel, anche se rimane mol-to consistente l’attività di Al Shabaab. “L’attività violenta collegata ad al Sha-baab - si legge nel report - rappresenta ora circa il 38% di tutti gli eventi mili-tanti di gruppi islamisti in Africa (ri-spetto al 50% per gran parte dell’ultimo

decennio) e quasi il 27% delle vittime dichiarate legate a tali eventi”. Il 2019 in Somalia è finito con l’ennesi-ma strage perpetrata dai terroristi isla-mici proprio nel centro della capitale Mogadiscio: il bilancio di un attentato dello scorso 28 dicembre è stato di 92 morti e 130 feriti. Per capire la capacità logistica e militare degli Shabab basti pensare che il 5 gennaio di quest’anno sono stati capaci di compiere un’azione nel vicino Kenya, paese da tempo nel raggio d’azione e in cui è stata seque-strata Silvia Romano, attaccando la base americana di Camp Simba, pres-so la base navale di Manda Bay, nella provincia di Lamu. Tre americani, di cui un militare e due “contractor” sono rimasti uccisi, oltre a sette kenyoti, seb-bene poi i terroristi siano stati respinti dalla reazione dell’esercito kenyota. Ma la strategia del terrore viene perpetrata anche grazie ad infiltrazioni di spie e agenti nel tessuto sociale e fin dentro le strutture pubbliche. Il 24 luglio 2019 gli Shabab hanno inviato una donna kamikaze nella sede del municipio di Mogadiscio, grazie alla probabile com-plicità di altri infiltrati rimasti ignoti, riuscendo a farle superare i controlli all’ingresso. La detonazione ha ucciso sul colpo sei persone, oltre all’attenta-trice, colpendo gravemente il sindaco Abdirahman Omar Osman, poi morto la settimana successiva per per le gravi ferite riportate. [Nicola Zecchini]

Cosa hai pensato quando hai visto Silvia scendere dall’a-reo con indosso un abito islamico?“La prima cosa che ho pensato è che ero felice per la sua libe-razione. Quando lotti per la liberazione di qualcuno lotti per la sua libertà. Silvia è tornata ed è libera. Direi una bugia se dicessi che non mi ha sorpreso il fatto che lei avesse un abito islamico. E tuttavia non mi sento di giudicare una scelta che sicuramente è fatta in condizioni di non libertà. Io sono rima-sta sotto sequestro per un mese. E se penso che Silvia è stata nelle mani degli al Shabab per 18 mesi veramente non riesco a condannare nessuna scelta”.Della sua vera o presunta conversione si è parlato molto. Che ne pensi?“Penso che solo quest’anno quattro uomini che erano stati se-questrati e poi liberati sono tornati in Italia convertiti e nessuno ha detto niente. Ma erano uomini”.Pensi che sia stata costretta con la violenza?“Non è così semplice. Pare che i rapitori non abbiano usato violenza nei suoi confronti - anche nel mio caso non c’è stata una violenza fisica - ma è chiaro che c’è una violenza psicolo-gica fortissima di cui a volte non percepisci nemmeno tutto il significato. Almeno finché sei lì e cerchi solo di proteggerti”.Tu hai subito pressioni psicologiche?“A volte la sera i mei rapitori venivano a parlare con me. Una volta mi chiesero: “ma tu la diresti una preghiera?” Io risposi: “sì, perché no?”, mentre quello che io chiamavo il mio body-guard diceva: ma cosa vuoi che dica una preghiera lei che è una senza Dio. Perché per loro il fatto che io lavorassi per un quotidiano comunista stava sicuramente a significare che fossi senza Dio”. Ma alla fine la preghiera l’hai recitata?“Sì, mi sono messa una sciarpa in testa e l’ho recitata anche se non era la formula con cui ci si converte all’Islam. È stata l’unica volta in cui abbiamo parlato di religione e anche l’unica in cui sono stata col capo coperto. Ma loro non erano fonda-mentalisti islamici”. Non credi che quel vestito sia stato interpretato come il segno di una “differenza” che è difficile accettare e che fa sempre paura?“Non so se è paura. C’è qualcosa che scatena sentimenti ostili per esempio nei confronti di chi va a fare volontariato”.I volontari come simbolo di diversità?“Se vai a fare il volontario sei già dentro a una cultura diver-sa e hai un atteggiamento diverso, di apertura nei confronti dell’”altro”. In questo caso parliamo dei bambini del Kenya ma lo stesso succede in altre parti del mondo martoriate dalla guerra come l’Iraq o l’Afghanistan”. È la cultura della solidarietà che fa paura?

“Quelli che si sono scatenati contro Silvia sono soprattutto co-loro che non accettano il diverso, l’immigrato e vedono nella religione qualcosa di pericoloso che può mobilitare. Quelli che invece dicono… che importa se è diventata islamica… sono coloro che si sono spesi per la sua libertà punto e basta. Nel suo caso l’accanimento c’è stato anche perché è tornata con un abito che non era quella con cui era partita. Io sono ritornata “vestita” nello stesso modo e allora a che cosa si sono attaccati? Al fatto che io “me la sono andata a cercare””. Sei tornata com’eri?“La mia vita è cambiata completamente da allora ma la mia visione del mondo è la stessa”.Una volta tornata a casa, Silvia è stata costretta di nuovo a nascondersi. Per difendersi, questa volta, da chi tra gli italiani l’ha criticata e giudicata.“Silvia non ha potuto assolutamente godere della sua libertà. Poi lei è una ragazza giovane - io avevo già una certa età - e immagino avesse voglia di conoscere, di aiutare gli altri. Poi subisce questa cosa tremenda, un sequestro lunghissimo in mano agli al Shabab e poi torna a casa e si presenta con il suo sorriso. Sai quando torni da una esperienza del genere nes-suna espressione è incondizionata perché da una parte c’è lo choc che non esaurisci in un giorno e poi c’è l’adrenalina della liberazione. Il tuo comportamento è condizionato”. Quanto peserà su di lei questa accoglienza così violenta e ostile? “Silvia si è trovata di fronte delle persone che l’hanno giudicata anche nel minimo dettaglio. Dal sorriso, al vestito, alla pancia…forse è incinta. È una violazione totale delle cose più intime, una violenza gratuita. Viceversa questo avrebbe dovuto essere il momento in cui godere finalmente della libertà e anche forse riflettere sulle scelte che ha fatto. Ma questa ostilità, questo odio nei suoi confronti peserà anche sulla elaborazione del dramma che ha vissuto, del lutto che l’ha attraversata”. In Parlamento è stata paragonata ai suoi rapitori mentre il direttore di Libero ha affermato di non aver mai conosciuto un ebreo tornato dai campi e diventato nazista. “Io non so dove arriva l’ignoranza e dove arriva l’odio. Di certo il mix è tremendo. Io vorrei vedere uno dei nostri parlamentari in mano a questi gruppi per 18 mesi. Venderebbe anche l’anima per uscire da lì libero”. A Silvia che dici?“Spero di poterla conoscere un giorno perché confrontarsi con qualcuno che ha avuto la tua stessa esperienza a me ha aiutato molto. Quando io sono tornata prima ho incontrato le due Si-mone che già conoscevo, poi Clementina Cantoni che era stata rapita in Afghanistan e infine, quando è stata liberata, sono andata a trovare Florence a Parigi. Siamo state insieme un giorno intero per condividere le nostre esperienze. Lo stesso è successo con la Presidente del Cile Michelle Bachelet che aveva conosciuto le prigioni di Pinochet”.Pensi che Silvia confermerà la sua conversione?“È una scelta personale, deciderà lei come viverla e se rima-nere o meno ferma nel suo proposito. Per fortuna in Italia c’è la libertà di religione anche se sembra non ci sia quando vedi certe reazioni. Non siamo tutti cattolici in Italia e per fortuna non siamo obbligati ad esserlo. Mi ricordo di una volta che mi hanno intervistata alla televisione tedesca per parlare di una donna che era stata rapita in Iraq e aveva deciso di tornare in Iraq. Come la giudica?, mi chiesero. Risposi che avevo lottato per la sua liberazione ma che non potevo giudicare la sua vita. Se tu ottieni la liberazione di una persona questa persona deve essere libera”. [A cura di Iaia Vantaggiato]

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Ricordare tutte le vittime italiane in guerra e missioni di pace e dare un nome a tutti i caduti. Il lavoro svolto per identificare le vittime delle Fosse Ardeatine, lo spiega il Generale di Corpo d'Armata Alessandro Veltri a cui è affidata la responsabilità del Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti dell’Esercito Italiano

La memoria dei caduti che va custodita e onorata

La Memoria va custodita, preser-vata, ma in alcuni casi anche restituita. Non tutte le vittime

sono sempre riconoscibili ed è talvolta necessaria un’attività specifica e sofi-sticata di individuazione. Un esempio è quanto accaduto nella Strage delle Fosse Ardeatine: dopo l’attentato parti-giano di Via Rasella, nel quale persero la vita 33 soldati tedeschi, fu organiz-zata una rappresaglia. Dieci italiani sarebbero dovuti morire per ogni te-desco ucciso. Furono così caricati 335 uomini (vennero sbagliati i conti, ma i cinque in più furono ugualmente tru-cidati), di cui 76 di religione ebraica. I rastrellamenti partirono già nel tardo pomeriggio e proseguirono nel corso della nottata: vennero portati via pri-gionieri già arrestati e su cui pendeva una probabile sentenza di morte, de-tenuti di Regina Coeli e di via Tasso, anche grazie alla collaborazione della polizia fascista. Dopo le esecuzioni, fu deciso di minare gli accessi alle gallerie, sbarrando le entrate e facendo saltare tutto. In que-sto modo il colonnello Kappler inten-deva mantenere l’assoluta segretezza sull’eccidio. Questo rese molto diffici-le il riconoscimento delle vittime, reso possibile dall’enorme e gravoso lavoro svolto dal professor Attilio Ascarelli, che coordinò l’équipe di esumazione, identif icazione e ricomposizione di gran parte delle salme, svolgendo un lavoro difficilissimo anche in un con-testo di grande rabbia e di dolore delle famiglie. Poveri resti, spesso resi rico-noscibili solo da oggetti o particolari.Oggi questo arduo compito, per quan-to concerne tutte le vittime italiane in guerra e missioni di pace, spetta al Commissariato Generale per le Ono-ranze ai Caduti, che si occupa sia di gestire, manutenere, custodire i sepol-cri e le zone monumentali, in Italia ed all'estero, sia di ricercare, recuperare, rimpatriare i caduti italiani non ancora individuati, dando notizie ai congiunti.Per capire come lavora questo parti-colare Ente del Ministero della Dife-

sa Shalom ha intervistato il Generale di Corpo d'Armata Alessandro Veltri, Commissario Generale per le Onoranze ai Caduti del Ministero della Difesa.

Shalom. Quale è la missione del Commissariato Generale per le Ono-ranze ai Caduti?Veltri. Il Commissariato Generale è un Ente interforze e interministeriale alle dirette dipendenze del Ministro della Difesa composto da personale civile e militare. È stato istituito nel 1919 al f ine di dare adeguata sistemazione ai circa 550.000 Caduti della Grande Guerra, ma nel tempo sono stati asse-gnati ulteriori compiti, estendendone le responsabilità su tutti i Caduti, dal-le guerre preunitarie fino alle recenti missioni di pace. In sintesi, La “missio-ne” si poggia su tre pilastri:- i CADUTI: provvedendo alla loro ri-cerca, individuazione, riconoscimento, esumazione, traslazione, rimpatrio, onori solenni, resa ai familiari o tu-mulazione presso i Sacrari;- i SACRARI/LUOGHI DELLA MEMO-RIA: attraverso la loro gestione, ma-nutenzione e valorizzazione;- la DOCUMENTAZIONE PERSONALE: provvedendo alla loro conservazione, gestione, valorizzazione.

Shalom. Quali sono i Luoghi della Memoria gestiti dal Commissariato Generale?Veltri. l l Commissariato ha diretta competenza su oltre 1000 siti in Ita-lia e 89 siti stranieri in Italia di varie nazionalità. Tali Luoghi della Memoria sono gestiti direttamente o mediante l'apporto di altri Enti e Istituzioni. I Sacrari sotto diretto control lo del Commissariato Generale sono gestiti e valorizzati attraverso 7 Direzioni di Sacrario di cui 6 dislocate sul territorio nazionale e 1 all’estero in Egitto. I ri-manenti li gestiamo attraverso accordi e convenzioni con le Autorità locali, le Associazioni, le Fondazioni, gli Istituti religiosi e, quelli all’estero, attraverso le Autorità Diplomatiche e le nostre

omologhe organizzazioni straniere. I nostri Sacrari sono costituiti da impo-nenti complessi monumentali realizza-ti, in parte, nel periodo successivo al primo conflitto mondiale, fra il 1925 ed il 1937, in parte dopo il secondo con-flitto. Tra questi ultimi annoveriamo le Fosse Ardeatine, il Sacrario dei Caduti d'oltremare di Bari, il Sacrario di Mi-gnano Montelungo e quello di EI Ala-mein in Egitto. Si tratta di costruzioni di varia tipologia, tutte comunque di massima rilevanza storica, artistica e architettonica, che vengono visitati e studiati per i loro altissimi valori etici e morali e che contribuiscono a consolidare e diffondere il "culto della memoria" dei Caduti per la Patria.

Shalom. Quali sono le tipologie di Caduti che rientrano nelle compe-tenze del Commissariato Generale e perché le Forze Armate si occupano delle Vittime delle Fosse Ardeatine, considerato che sono prevalente-mente vittime civili?Veltri. Il Commissariato ha quale va-lore centrale della propria missione la figura del Caduto. Tra i Caduti si anno-verano civili, militari e militarizzati, appartenenti a qualsiasi formazione che, dalle guerre preunitarie alle mis-

sioni di pace, passando per le due guer-re mondiali, hanno donato la vita per la Patria. I Caduti, sia noti che ignoti, sono sistemati nei Sacrari/Cimiteri Mi-litari in Italia e all’estero, oltre che nei cimiteri comunali. Al momento sono ancora oltre 200.000 i nostri Caduti dispersi, nei cui confronti continuia-mo una costante attività di ricerca, per poi passare, ove possibile, al loro riconoscimento e quindi al rimpatrio, alla tumulazione nei Sacrari o, se ri-

chiesto, alla restituzione ai familiari. Il tutto dopo aver reso loro i dovuti ono-ri solenni. Abbiamo inoltre la compe-tenza anche su “tutti i civili deceduti dopo l'8 settembre 1943 quali ostaggi o per atti di rappresaglia”, tra cui sono annoverate le 335 Vittime delle Fosse Ardeatine. In tale quadro, al Commis-sariato Generale fu affidata, sin dalla sua edificazione, la cura, la custodia e la gestione del Mausoleo delle Fosse, la cui inaugurazione avvenne il 24 marzo 1949 in occasione del quinto anniver-sario dell’eccidio.

Shalom. Quali sono le attività che si pongono in atto per dare identità ai Caduti ignoti?Veltri. L’attività del Commissariato Generale nel campo della ricerca dei Caduti si concretizza attraverso un complesso studio della ricca documen-tazione storica presente nei nostri ar-chivi e negli archivi di Enti ed Istituzio-ni pubbliche e private, corroborata, ove possibile, da testimonianze e, quando si trovano utili elementi di riscontro, si provvede ad effettuare le ricerche in Italia e all’estero nel tentativo di recu-perare, rimpatriare e, se possibile, ri-

consegnare i Resti dei Caduti ritrovati ai familiari o, in alternativa, inumarli in Sacrari/Cimiteri Militari. In par-ticolare per ridare identità ai Caduti non immediatamente riconoscibili, ove esistano i presupposti, facciamo anche ricorso alle più moderne tecnologie. L’ultimo esempio è il riconoscimento del Caduto Marian Reicher, della cui inumazione presso le Fosse Ardeatine, dalla documentazione storica, si aveva certezza ma che, all’epoca, non era sta-

to possibile distinguere da altri Cadu-ti ignoti inumati nel Mausoleo. È stata una grande emozione entrare in con-tatto con il figlio David che oggi vive in Israele. Abbiamo con ansia seguito le analisi condotte presso il Reparto Inve-stigazioni Scientifiche (RIS) dell’Arma dei Carabinieri, ed è con comprensibile soddisfazione che abbiamo appreso il positivo esito di tale esame, che ho per-sonalmente riferito telefonicamente al figlio, col quale ho condiviso momenti di profonda emozione e gratitudine.

Shalom. Quanti sono i Caduti ancora dispersi in generale, e quante sono le Vittime non riconosciute presso le Fosse Ardeatine?Veltri. Degli oltre 900.000 Caduti che ha sofferto la nostra Patria, sono cir-ca 230.000 quelli tuttora “dispersi”. Per quanto attiene le Fosse Ardeati-ne, dopo l'esumazione delle Vittime e la loro ricomposizione, ne rimasero inizialmente 12 da identif icare, per le quali cioè, si aveva certezza della presenza all’atto dell’eccidio, ma non si poté effettuare con certezza l’abbi-namento “nome - Resti mortali”. Nel 2012, a seguito della nota attività di

riconoscimento tramite esame del DNA, svolta dal Commissariato Gene-rale con il supporto tecnico scientifico del Reparto Investigazioni Scientifi-che (RIS) dell’Arma dei Carabinieri, furono identificate 3 delle 12 Vittime (La Rosa, Moscati e Partito) lasciando senza nome i resti mortali di altri 9 Caduti. Allo stato attuale, considerato il riconoscimento da poco effettuato del Caduto Marian Reicher, il numero dei resti mortali ancora da identificare è di 8 Caduti. Ovviamente, è sempre viva la speranza di poterne identificarne altri.

Shalom. Perché è così importante la Memoria dei nomi? Perché con-segnare alle nuove generazioni il ricordo dei Caduti?Veltri. La missione del Commissariato Generale costituisce dovere primario della nazione nei confronti delle fami-glie che hanno sofferto la perdita di un congiunto per gli ideali della Patria. Tale missione attraverso la perenne va-lorizzazione del culto della memoria, riunisce ed interpreta i più alti aspetti valoriali che sono a fondamento della Nazione e, ponendosi come elemento di collegamento tra le generazioni, di fatto fornisce i capisaldi grazie ai quali uno Stato viene, dai propri cittadini, soprattutto delle nuove generazioni, vissuto come Patria (Terra dei Padri). In tale contesto, l’attività del Com-missariato Generale nel campo della ricerca e del recupero dei Caduti è in-cessante e continuerà con lo stesso spi-rito, confortata dalla forza del quadro normativo nazionale ed internazionale che regola lo specifico settore. Risulta fondamentale, inoltre, il sostegno e la vicinanza che le più alte cariche del-lo Stato assicurano al Commissariato Generale, attraverso la loro sentita partecipazione alle cerimonie per la resa degli Onori solenni ai Caduti in occasione dei più importanti anniver-sari per la Nazione come nei singoli eventi. Un particolare ringraziamento sento di esprimere all'Onorevole Gue-rini, al Ministro della Difesa, da cui il Commissariato Generale direttamente dipende, per la sincera quanto convin-ta vicinanza e per la sempre massi-ma sensibilità con cui interpreta la nostra missione che, oltre a costituire un dovere della nazione, esprime un sentimento di vissuta vicinanza con le famiglie dei Caduti tutti.[A cura di Luca Clementi]

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N A Z I O N A L E

È emerso chiaramente che buona parte della popolazione non è disposta a subire più le spinte “progressiste” che miravano a disarticolare l’identità politica e sociale che aveva vinto nazifascismo e comunismo.

Tra vecchi e nuovi consensi: cresce la radicalizzazione e la contrapposizione sociale

In moltissimi paesi democratici negli ultimi cinque o dieci anni è avvenuto un grande divorzio politico, uno di quegli smottamenti che segnano un passaggio storicamente signifi-

cativo: una parte consistente dell’elettorato si è staccato da quel grande consenso dei maggiori partiti politici, dei media e degli intellettuali che li aveva governati in precedenza, affermandosi qualche tempo dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Possiamo chiamarlo “consenso progressista”: una coalizione sostanziale di partiti formalmente concorrenti che si era realizzato col passaggio alla “moderazione” dei vecchi comunisti e la simme-trica svolta a sinistra dei partiti anticomunisti, come la CDU in Germania che aveva preso posizioni di sinistra sull’immigra-zione e altri temi, i reduci della DC in Italia confluiti nel partito democratico, i pallidi conservatori inglesi dell’era post-Tatcher egemonizzati dai laburisti di Blair, i repubblicani americani della famiglia Bush. In Israele questa svolta era avvenuta pri-ma, con la convergenza dell’ex Likud Sharon sulle posizioni della sinistra sullo sgombero degli insediamenti e la successiva sconfitta del suo partito Kadima dopo la sua malattia, ad opera di NetanyahuChe il problema fosse l’Europa contro la sovranità nazionale, il favoreggiamento o il contrasto dell’immigrazione, l’affermazio-ne degli interessi nazionali o l’esaltazione indiscriminata della globalizzazione, l’adesione alla “comunità internazionale” o il perseguimento degli interessi e dell’identità di ciascun paese, le forzature della tematica del gender o la difesa della famiglia tradizionale, l’ideologia della “terra in cambio di pace” o la lotta al terrorismo... - da qualche tempo è emerso chiaramente che buona parte della popolazione non era disposta a subire più le spinte “progressiste” che miravano a disarticolare l’identità politica e sociale che aveva vinto nazifascismo e comunismo. Questo divorzio ha portato alla Brexit, all’affermazione eletto-rale parziale ma rilevante dei cosiddetti sovranisti in Europa, all’elezione di Trump, Bolsonaro, Johnson, Modi, Shinzō Abe, al lunghissimo e fruttuoso incarico di Netanyahu come primo ministro. La controspinta quasi disperata del vecchio consenso è ve-nuta con una durissima guerra mediatica e politica, che ha impegnato giornali, televisioni, intellettuali nel tentativo di squalificare personalmente i nuovi leader, dando loro dei paz-zi, criminali, ubriaconi, inventando complotti russi e trame criminali fantasiose. Siamo ora in una nuova fase, in cui la guerra scatenata dalla vecchia egemonia progressista ha dato nuovo respiro agli estre-misti di sinistra che in passato si dicevano extraparlamentari, perché lottavano anche contro i partiti comunisti e oggi invece sono protetti e fiancheggiati dal “consenso progressista”, cui peraltro non si piegano. Succede negli Usa, in Italia, in Francia. A livello dei rapporti fra gli Stati, avviene con l’Unione Europea che appoggia in vario modo le organizzazioni terroriste contro Israele. C’è insomma una radicalizzazione crescente, in cui sono saltate le vecchie barriere che una volta separavano la sinistra di governo e gli anarchici, i cultori del caos, gli anti-semiti militanti.

Un aspetto di questa guerra è giuridico. I giudici sono scelti in molti modi nei vari stati: con concorsi come da noi, che in sostanza sono forme di cooptazione; con nomine derivanti dal sistema politico come in Usa; con commissioni di selezioni mi-ste (ma in buona parte controllate dalla Corte Suprema) come in Israele. E’ chiaro a tutti che i giudici che devono essere indi-pendenti, perché questo fa parte delle condizioni fondamentali della democrazia (non così i pubblici ministeri, che nel mondo anglosassone sono organi politici posti su un piano di parità con la difesa); ma secondo il sistema liberale essi devono li-mitarsi ad applicare le leggi e i precedenti, perché la divisione dei poteri assegna solo al legislativo le scelte politiche che si traducono in legge. Se i giudici seguono un programma politico, potendo prendere decisioni immediatamente esecutive sulla libertà e le proprietà delle persone e non rispondendo delle loro scelte all’elettorato, il sistema democratico è già profon-damente sovvertito.Ma la maggior parte dei giudici attuali sono stati nominati dalla vecchia egemonia progressista e ne fanno parte culturalmen-te e socialmente, spesso anche politicamente. Quindi spesso esprimono pubblicamente disaccordo dalle leggi approvate dai governanti estranei al “consenso” e per lo più non si rasse-gnano ad applicarle né a riconoscere la piena legittimità della maggioranza che li hanno votati, presentati sui media e dai vecchi politici come abusivi. Accade così talvolta che i giudici usino il loro grandissimo potere o per perseguire più o meno pretestuosamente i politici “nemici” (come in Italia e in Israele) o cerchino di annullare le loro leggi, com’è accaduto negli Stati Uniti e anche in Israele con l’abrogazione da parte della Corte Suprema della “legge di regolazione” che ha regolarizzato molte costruzioni negli insediamenti in Giudea e Samaria. I giudici, amministrando la giustizia, ritengono di avere ragione per definizione. Quel che pensano è giusto, quel che non piace loro è “incostituzionale” o comunque “ingiusto”. Ma non è così, perché la sovranità del popolo, che è alla base della democrazia, si esprime proprio nella possibilità dei rappresentanti da loro eletti di decidere i temi controversi. Se la giustizia è una, i valori in gioco e in contrasto fra loro nella società moderna sono tanti e la democrazia consiste nel sistema che affida la conciliazione o la scelta fra questi valori non a un autocrate o a una casta di “saggi” o a un’”avanguardia rivoluzionaria”, bensì alle scel-te dell’elettorato: contare le teste invece di tagliarle, come ha scritto qualcuno. Il risultato della rivendicazione di un diritto di veto da parte di gruppi politici, intellettuali e giudiziari che si ritengono titolari della verità e della giustizia è un tendenziale scontro istituzionale, che in Israele è molto attuale e in Italia solo un po’ attutito dall’esistenza di una maggioranza parla-mentare fatta apposta per impedire l’espressione del divorzio fra elettorato e consenso progressista. Il grande tema della politica interna dei prossimi anni in tut-to il mondo è proprio questo, il conflitto fra rappresentanza popolare e pretesa al monopolio della verità, della stampa, della parte più servile degli intellettuali, anche da parte della magistratura. [Ugo Volli]

IL FUTURO HA UNA LUNGA STORIA

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Una f igura a tutto tondo, uno spirito forgiato dalla cultura millenaria cinese e dai grandi

classici del pensiero occidentale. È così che la propaganda di Pechino vuole accreditare agli occhi del mondo Xi Jinping, dipingendo l’immagine di un leader planetario che guarda e pensa in modo globale ben al di là della sola dottrina marxista. Ufficialmente la bi-blioteca di Xi va ben oltre i capisaldi del pensiero comunista, spaziando dai classici della filosofia greca ai pensa-tori del liberalismo, da Locke a Monte-squieu, da Confucio a Henry Kissinger, da Hemingway a Shakespeare.In occasione della Giornata mondia-le del libro, i media di regime cinesi hanno compilato un catalogo di titoli "consigliati" da Xi, quelli che ha citato o di cui ha parlato, mostrando che i suoi interessi e le sue letture abbrac-ciano tematiche universali anche se figurano pochi contemporanei e nes-suna donna. Ma chi si cela veramente dietro l’uomo più potente della Cina? Presidente della Repubblica Popolare dal 14 marzo 2013, ha guidato il suo popolo attraverso due obiettivi, uno in-terno e l’altro esterno: il sogno cinese e la nuova Via della Seta. Con il primo termine ha creato una narrazione che indica la resurrezione della nazione cinese dopo anni di delusioni e il con-seguente miglioramento delle condi-zioni economiche dei suoi cittadini; con il secondo si riferisce al progetto infrastrutturale che mira ad unire la Cina all’Eurasia e all’Africa. Xi è nato il 15 giugno 1953; questo, secondo lo zodiaco cinese, è l’anno del serpente, l’animale più astuto e intelligente dei 12 segni presenti. Secondo alcuni sa-rebbe nato nella contea di Fuping nella provincia dello Shaanxi, altri sosten-gono sia nato a Pechino.Xi fa parte della schiera dei “princi-pi rossi” - termine usato per contras-segnare i discendenti degli eroi che combatterono al fianco di Mao Zedong - essendo figlio di Xi Zhongxun, un ge-nerale che tra il 1934 e il 1936 prese parte alla Lunga Marcia e fu tra i fon-datori del partito comunista cinese e

vice-premier. La parabola ascendente di Xi Jinping è degna dei romanzi custoditi nella sua decantata biblioteca. Malgrado fosse un bambino che faceva parte dell’élite, negli anni '60 deve assistere alla disastrosa rovina della famiglia, colpita dalla rivoluzione culturale che porta all'imprigionamento del padre nel 1962. A 15 anni viene spedito nel-la campagna cinese per un periodo di "rieducazione" dove è costretto a lavori forzati in un remoto villaggio di Lian-gjiahe per sette anni. Nel 1974 entra nel partito iniziando la sua lenta e co-stante scalata. All'età di 25 anni Xi as-siste al rilascio del padre di cui riesce così a sfruttare i potenti collegamenti politici per spianare la sua scalata al potere.Quando diventa segretario del parti-to comunista cinese, pochi riescono a intuire, sia dentro che fuori la Cina, cosa sarebbe successo nei cinque anni successivi: i cambiamenti repen-tini che avrebbero investito il Paese. Da segretario locale del partito nella provincia di Hebei, arriva a occupare ruoli importanti, tra cui capo partito di Shanghai, la seconda città più grande della Cina. Dal novembre 2012 è se-

gretario generale del partito comunista cinese e presidente della Cina dal mar-zo 2013. Dalla fine del 2012 Jinping è anche a capo delle forze armate come presidente della commissione militare centrale.Nell'ottobre del 2017 il suo nome è iscritto nella carta fondamentale del partito comunista assieme al suo con-tributo ideologico, il pensiero sul so-cialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era, che dal marzo 2018 è entrato a fare parte anche della Costi-tuzione. In teoria il secondo mandato avrebbe dovuto coincidere con il limite massimo, ma sempre nel marzo 2018 il Congresso nazionale ha approvato la rimozione del limite ai due mandati presidenziali; Xi Jinping può dunque mantenere l’incarico di presidente a vita. In occasione della commemorazione dei 40 anni d'apertura e riforme alla base del “miracolo economico”, nel di-cembre del 2018 il presidente ha dato il via ad un nuovo miracolo, questa volta non solo economico ma anche politico e diplomatico, che ha aiutato a sollevare dalla povertà 740 milioni di persone e ha permesso a Pechino di diventa-re la seconda economia mondiale. Ma

XI JINPING: L’UOMO PIÙ POTENTE AL MONDOLa storia di un anonimo funzionario di partito diventato leader planetario

Legge i classici occidentali, conosce i valori del pensiero liberista ma comanda la Cina con pugno di ferro.

Xi Jinping: un presidente astuto come un serpente

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Le due superpotenze si fronteggiano in tutti i campi, ma hanno bisogno l’una dell’altra. Anche sulle origini della pandemia è in atto una guerra di narrazione

Stati Uniti e Cina: come due pugili che combattono abbracciati

Due pugili che combattono ab-bracciati. Sembra sia stato lo stesso presidente cinese Xi Jin-

ping a coniare questa metafora per de-scrivere presente e futuro del rapporto tra Stati Uniti e Cina, due potenze che si fronteggiano in un duello in cui l’u-na ha bisogno dell’altra. Un parados-so inconcepibile ai tempi della guerra fredda e una realtà strettamente ne-cessaria in un mondo contemporaneo costruito su rapporti fluidi e globaliz-zati. Una farfalla batte le ali a Pechino e a New York piove, mai quanto oggi la scelta delle due città per spiegare l’ef-fetto farfalla risulta efficace. Ai tempi del Coronavirus, con l’Oms che preme per un’inchiesta sulle origini e la dif-fusione del virus e la Cina che chiede di aspettare la fine della pandemia, è in atto una guerra di narrazione tra i due imperi per accaparrarsi la storia migliore da raccontare al mondo. Le relazioni tra le due superpotenze sono scese al livello più basso dai tempi del-la visita di Nixon in Cina, negli anni Settanta: Washington accusa Pechino di aver lasciato scappare il virus da un laboratorio di Wuhan mentre i media di regime cinesi rispondono colpo su colpo all'affondo del segretario di Stato Usa Pompeo sulla presunta colpa nella diffusione del Coronavirus accusando-lo di diffondere "teorie assurde e fatti distorti". La Casa Bianca sostiene di avere "enormi prove" che il Covid-19 sia uscito da lì, ma finora non le ha mai mostrate. Al momento gli indizi sono solo circostanziali e la maggior parte degli scienziati ritiene assai più

probabile l’ipotesi che il virus si sia trasmesso all'uomo in natura. Quello che è in gioco, tra Washington e Pechi-no, è l’accreditarsi come leader morale nei confronti del mondo: ogni impero ha bisogno di una legittimazione, di far credere ai propri sudditi di agire per il loro bene, soprattutto in un periodo di grande crisi come quella suscitata da una pandemia globale. Le accuse sull'origine del coronavirus a Wuhan solo sono un tassello nella nuova guerra fredda che coinvolge tutti i settori, dallo spionaggio ai fondi pen-sione, dalla guerra dei dazi alla tecno-logia fino alla difesa e alla sicurezza. Come ha spiegato in un’intervista ri-

lasciata al Sole 24 Ore Giuliano Noci, vice rettore per la Cina del Politecnico di Milano, “all’origine di tutto, c’è la competizione per la leadership del pia-neta, con gli Stati Uniti che si sentono sfidati come mai prima, soprattutto sul campo tecnologico dove però le due superpotenze sono troppo inter-dipendenti per rompere veramente”. Secondo Noci l’arrivo del Covid negli Stati Uniti “introduce una discontinu-ità, con il balzo della disoccupazione, che porta il presidente Trump alla re-torica del nemico esterno, la soluzione più agevole”, soprattutto pensando alla campagna presidenziale in vista delle elezioni in autunno.

l’espansionismo cinese non si limita alla sola Via della Seta con cui Xi Jin-ping punta a ridisegnare gli equilibri economici mondiali, mettendo la Cina moderna al centro dei traffici commer-ciali. Nel mirino c’è infatti il continente Africano con aiuti finanziari e investi-menti di 60 miliardi di dollari in tre anni. Finanziamenti, ha spiegato Jin-

ping, che serviranno a sostenere otto iniziative di cooperazione tra la Cina e l’Africa, in settori che vanno dalla sicu-rezza alle infrastrutture e alla sanità, fino allo sviluppo di tecnologie verdi. Il sogno affatto nascosto del presidente cinese è chiaro: far diventare il suo pa-ese la prima superpotenza mondiale, surclassando gli Stati Uniti.

E pensare che quando Xi Jinping sposò nel 1987 l'attuale First Lady, Peng Liyuan, in quegli anni una cantante affermata, nessuno nel suo Paese lo co-nosceva se non come un membro del Partito piuttosto timido e apparente-mente privo di personalità al punto da dire “Xi Jinping chi? Ah il marito di Peng Liyuan”. [Nicola Zecchini]

Xi Jinping, come tutti sanno, dovreb-be essere immune a questo genere di pressione politica. La Cina non è un paese democratico e Xi ha impiegato gli anni trascorsi fin qui al vertice della nazione per consolidare il suo potere con misure straordinarie. Persino la costosa guerra dei dazi con gli USA non è riuscita a scalfire minimamente il suo prestigio politico in patria. Ma le manovre di insabbiamento e depi-staggio sul Coronavirus messe in atto da Pechino sin dall’inizio della crisi, hanno provocato forti contraccolpi alla leadership cinese in patria e all’estero. Né ha dato buoni frutti la “diplomazia della crisi” avviata dalla Cina, dopo la scoperta che parte dei presidi sanitari spediti in soccorso ai paesi colpiti dal contagio si sono rivelati difettosi. Il virus ha messo Xi Jinping sulla grati-cola politica sia in patria che all’estero e per la prima volta non tutti danno per scontato il suo terzo mandato. È la debolezza interna dei due leader la causa della loro politica estera. È in quest’ottica che va inquadrato FOR-CE (Forging Operational Resistance to Chinese Expansion), un disegno di legge presentato da Tom Cotton, uno dei repubblicani più influenti al Sena-to nonché membro di tre commissioni chiave come quelle di Difesa, Intel-ligence, Finanze. Il piano prevede lo stanziamento iniziale di 43 miliardi per operazioni urgenti di costruzio-

ne di nuovi dispositivi militari insie-me agli alleati che circondano la Cina come Giappone, Corea del Sud, Taiwan. Altro capitolo fondamentale è quello che riguarda le trattative commerciali: le multinazionali USA, spinte dall’am-ministrazione, stanno già ripensando a nuove logiche di delocalizzazione per far tornare parte degli investimenti e dei posti di lavoro a casa per dipendere meno dal gigante asiatico. Produrre in Cina costa meno, ma ha costi sociali e ambientali altissimi, e rende il sistema produttivo americano vulnerabile. Intanto, qualche settimana fa, Il mini-stero della Sicurezza dello Stato cinese ha consegnato al presidente Xi Jinping un rapporto sull’aumento del senti-mento anti-cinese in tutto il mondo. L'analisi ha concluso che il "sentimento ostile" nei confronti della Repubblica Popolare a causa dell'attuale pandemia è salito ai massimi livelli dall'inciden-te di Piazza Tienanmen del 1989. Una crisi diplomatica che si sta allargando ad altri paesi: l'Australia ha richiesto un'indagine internazionale sulle ori-gini del virus e il Regno Unito, uno dei più stretti alleati degli Stati Uniti, ha suggerito che le relazioni con Pechino non torneranno a essere distese come qualche mese fa. Che sia l’inizio di una deglobalizzazione? Difficile crederlo. In un’intervista all’emittente repubbli-cana Fox News, Trump ha volutamente alzato i toni per accrescere il consenso

elettorale: “Che fine hanno fatto i glo-balisti? Quelli che pensano che dobbia-mo rendere più ricco il mondo a nostre spese? Quei giorni sono finiti - ha detto. Possiamo tagliare tutte le relazioni con la Cina. Se lo facessimo risparmierem-mo 500 miliardi di dollari”. Il ministro degli Esteri cinese invece si è lasciato andare a dichiarazioni quanto mai nette per un politico abituato a par-lare con la massima diplomazia: “La Cina e gli Stati Uniti sono a un passo da una nuova Guerra Fredda. Washin-gton deve rinunciare a voler cambiare la Cina e rispettare la sua volontà di sviluppo nazionale”. A surriscaldare nuovamente i rappor-ti sono state le accuse statunitensi di hackeraggio rivolte contro pirati infor-matici cinesi che starebbero cercando di rubare la proprietà intellettuale Usa sui trattamenti e sul vaccino contro il Covid-19. Nel frattempo a Hong Kong i manifestanti sono tornati in piazza per via di una legge sulla sicurezza di-scussa dal governo centrale cinese che restringerebbe ulteriormente la liber-tà di opinione e di manifestazione. Da Pechino hanno puntato il dito contro Washington, accusata di sobillare le protesta e di ingerenza in affari “inter-ni”. Il match tra i due pugili è appena iniziato e il suo ring è il mondo. [Nicola Zecchini]

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Alla base delle proteste dei neri, recenti ma anche passate, vi è la protesta contro gli abusi e soprattutto la presa di coscienza del ruolo che vogliono avere le nuove generazioni. Su questi temi Trump rischia di non essere rieletto.

Stati Uniti: le rivolte razziali non sono una novità. Ma oggi sono qualcosa di diverso e possono mettere in crisi il sistema

La rivolta che ha squassato gli Usa dopo l'omicidio di Ge-orge Floyd differisce dai numerosi precedenti storici in alcuni elementi fondamentali e diverso sarà quindi l'im-

patto sul sistema politico complessivo.Il primo tumulto razziale moderno risale al marzo 1935, dopo il fermo di un adolescente portoricano nero. Si sparse la voce che un bambino era stato picchiato a morte e i disordini pro-seguirono per tutta la notte. Di incidenti razziali, nei decenni precedenti, se ne erano già contati moltissimi ma erano stati sempre segnati dallo scontro tra gruppi etnici diversi. La rivolta di Harlem nel 1935 fu la prima in cui venivano attaccati negozi ed edifici e lo scontro era direttamente tra rivoltosi e forse dell'ordine. All'origine dei disordini c'era, oltre alla continua discriminazione razziale, il peso della Grande Depressione che aveva penalizzato le minoranze etniche e soprattutto i neri, più di ogni altro.I numerosi disordini razziali che esplosero in molte città degli Usa otto anni dopo, nel 1943, furono in parte dovuti alla mas-siccia immigrazione sia nera che bianca nelle città industriali,

soprattutto del nord, dovuta al massiccio sforzo industriale bellico. Per la prima volta bianchi e neri si trovarono fianco a fianco alle catene di montaggio, in particolare di Detroit, e la carenza di alloggi in grado di accogliere l'enorme flusso migra-torio moltiplicò le tensioni. La maggior parte degli incidenti, tra cui quelli di Detroit che costarono 34 vittime, furono innescati dagli scontri tra bianchi e neri, provocati nella maggior parte dagli attacchi di giovani bianchi contro i quartieri neri più poveri e di recente immigrazione.La seconda rivolta di Harlem, nei primi giorni di agosto, fu però accesa dall'arresto di un soldato nero, dopo un alterco tra una cliente e il portiere di un albergo del ghetto nel quale era intervenuta la madre del soldato. E' significativo che la scintilla fosse proprio l'arresto di un militare: le tensioni interne alla comunità nera si concentravano in quel primo anno di guerra proprio sulle metodiche discriminazioni che bersagliavano i soldati di colore, pur arruolati per combattere in nome della democrazia e della libertà.In entrambe le rivolte di Harlem il sindaco di New York è una

figura passata alla storia, Fiorello La Guardia, che tentò in en-trambe le occasioni di intervenire sulle ragioni strutturali che giustificavano le esplosioni di rabbia, senza però eccessiva de-terminazione e senza raggiungere grandi risultati. La seconda rivolta di Harlem, non a caso citata da tutti i grandi autori neri di quella generazione a partire dal Ralph Ellison di Invisible Man, fu decisiva nella crescita e nella presa di coscienza di un'intera generazione e non solo tra i neri.Il ciclo di rivolte degli anni'60 è stato quello più consapevole e continuo. Non solo scoppi improvvisi di rabbia e frustrazione ma momenti salienti in una mobilitazione antirazzista, a volte pacifica e in altri casi violenti, che era iniziata a metà anni '50 negli Stati del Sud, dove erano ancora in vigore le Jim Crows Laws segregazioniste e dove vigeva di fatto l'apartheid, per poi approdare nelle città del nord nel 1964, con la terza rivolta di Harlem. Il razzismo del nord degli Stati Uniti era diverso da quello del sud: strisciante e inconfessato, si manifestava in forme spesso indirette, nell'atteggiamento delle forze di polizia, che consideravano i ghetti quasi un territorio occupato, nei prezzi esorbitanti degli affitti per appartamenti fatiscenti, nella divisione in spazi separati da barriere invisibili nelle metropoli, dalle discriminazioni e dai bassi salari sul lavoro. Un modello di razzismo camuffato che ancora oggi è di fatto in pieno vigo-re, accompagnato semmai dalle regole formali del politically correct che impongono di sostituire la parola proibita “Nigger” con un pudico “the N-Word” ma incidono positivamente sulle condizioni di vita solo di ristrette fasce di middle-class nera.La rivolta di Harlem fu seguita dall'insurrezione di Watts, il ghetto di Los Angeles, nel 1965, dalla Long Hot Summer del 1967, segnata da incidenti e rivolte in 159 città americane, dai riots seguiti all'assassinio di Martin Luther King, il 4 aprile 1968: gli unici che, per estensione e durata siano paragonabili a quelli del 2020. I riots degli anni '60 incisero a fondo sul sistema americano. Non lo spostarono a sinistra, al contrario nelle elezioni presidenziali del 1968 fu eletto un repubblicano

di destra come Richard Nixon, ma posero il tema del razzismo in testa all'agenda delle urgenze interne degli Usa, rivelarono la necessità di un cambiamento immediato e furono all'origine di una serie di trasformazioni profonde e sino a pochi anni prima quasi non immaginabili.La più violenta e sanguinosa rivolta razziale, quella di Los An-geles nel 1992, seguita all'assoluzione di quattro agenti filmati mentre pestavano selvaggiamente un nero fermato alla guida della sua macchina, Rodney King, misero impietosamente a nudo quanto fosse ancora imperante un razzismo sociale non dichiarato ma feroce, che si esprimeva non solo nel condannare i neri a condizioni di vita molto peggiori ma anche in conti-nue manifestazioni di violenza e brutalità poliziesche. Quello scoppio di rabbia violentissimo, improvviso e imprevisto, restò però isolato e quasi privo di conseguenze sulla realtà degli Usa.La rivolta di massa seguita all'uccisione di George Floyd ha qualcosa a che vedere con tutti precedenti storici ma se ne discosta poi nei punti centrali. Come i riots degli anni '60 è stata preparata da quasi un decennio di mobilitazioni locali contro i grilletti facili della polizia nei ghetti e contro fermati o sospettati neri, proteste unificate sotto il cartello e lo slogan, on-nipresente anche nelle manifestazioni degli ultimi giorni Black Lives Matter. Come quasi tutti i disordini precedenti la protesta è stata innescata da un caso di violenza immotivata da parte della polizia ma, come nel caso di Rodney King nel 1992, è stata determinante l'esistenza di un video, che ha esaltato l'effetto tragico dell'uccisione di Floyd, ha impedito di camuffarlo con resoconti bugiardi che avrebbero addossato alla vittima ogni colpa, hanno moltiplicato rabbia e indignazione.Le differenze rispetto a tutti gli altri precedenti storici sono fondamentalmente due: per la prima volta la protesta ha tra-valicato i confini etnici e per la prima volta, almeno in questa misura, ha spaccato verticalmente l'establishment americano. Negli anni '60 le rivolte dei ghetti, incluse quelle più violente, godevano di ampia solidarietà tra i radical ma anche tra moltis-

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Sono migliaia i casi di violenza gratuita. Ma non esiste un database comprensivo federale che censisca gli omicidi causati dalle Forze dell’ordine. A raggruppare dati, per quanto parziali, sono stati alcuni soggetti privati.

La mano pesantissima della polizia americana

Tutto è partito da una banconota fal-sa da venti dollari. La sera del 25 maggio George Floyd, un afroame-

ricano di Minneapolis, va a comprare un pacchetto di sigarette nel solito negozio e paga l’impiegato con una finta banco-nota. L’uomo se ne accorge e compone il 911. Ad arrivare sul posto sono due poliziotti, uno dei quali, Derek Chauvin, immobilizza Floyd bloccando il proprio ginocchio per 8 minuti contro il petto del sospetto fino a farlo morire asfissiato per compressione del collo. La sua morte non avrebbe fatto probabilmente molto ru-more 20 anni fa, quando ognuno di noi

non era dotato di uno smartphone in gra-do di girare video e condividerli in rete con milioni di persone in pochi secondi. Un passante filma la scena, la carica su internet e il caso esplode. Le piazze si riempiono di manifestazioni contro la Po-lizia e contro Trump, e in tutto il mondo la gente urla “Black lives matter”, le vite nere contano. Ma Floyd è solo l’ultimo di una lunga li-sta di afroamericani uccisi da poliziotti bianchi negli Stati Uniti afflitti da un raz-zismo mai risolto. Poco prima di Floyd sono stati uccisi dalla polizia altri due afroamericani: Ahmaud Arbery, 25 anni,

in Georgia e Brionna Taylor, 26 anni, in Kentucky. Manifestazioni e proteste in nome di Floyd, Arbery e Taylor, uccisi nel giro di tre mesi si sono diffuse insieme a saccheggi e sommosse che hanno messo a soqquadro i centri cittadini delle gran-di città in un’America governata da un presidente accusato di fomentare divisio-ni e di chiudere un occhio verso l'estre-mismo di destra. I suoi tweet, dopo aver inizialmente compianto le vittime, hanno apostrofato i dimostranti come “teppisti” e “professionisti” delle rivolte arrivando a ricalcare noti slogan di suprematisti bianchi degli anni Sessanta (Trump ha

poi negato di conoscere l'origine della frase “quando cominciano i saccheggi, si comincia a sparare”, pubblicata in un tweet).Nel frattempo il procuratore di Minne-apolis ha incriminato Derek Chauvin con l’ipotesi di omicidio volontario non premeditato, ordinando l'arresto degli al-tri tre poliziotti coinvolti con l’accusa di complicità in omicidio volontario, un’in-criminazione che rappresenta un caso eccezionale nella storia di una giustizia americana abituata, nella quasi totalità dei casi, ad assolvere gli agenti. Secondo il gruppo di ricerca Mapping Police Violence, l'anno scorso sono state uccise più di mille persone dalla polizia, di queste il 24 per cento erano di colore, nonostante gli afroamericani rappresen-tino solo il 13 per cento della popolazio-ne. Nessun agente è stato incriminato.Tra il 2013 e il 2019 nel 99% dei casi gli agenti coinvolti in operazioni concluse con la morte di almeno una persona non hanno subito conseguenze penali: in questi sette anni anni sono stati incri-minati tre agenti e uno solo condannato.Il caso che più richiama quello di George Floyd è quello che porta alla morte di un altro afroamericano, Eric Garner, il 17 luglio 2014, immobilizzato dalla polizia per strada, a Staten Island, e morto dopo una crisi respiratoria. Al poliziotto, Da-niel Pantaleo, che lo stringeva alla gola, Garner aveva ripetuto "Non respiro", così come ha fatto Floyd con Chauvin. Pan-taleo è stato prosciolto l'anno scorso dal Gran Jury.Nessuna conseguenza anche per il poli-ziotto che, il 9 agosto 2014, a Ferguson, sobborgo di St. Louis, Missouri, uccise Michael Brown, afroamericano di 18 anni, sospettato di furto in un negozio. La sua morte provocò manifestazioni in tutti gli Usa e atti di vandalismo a Fer-guson.La vittima più giovane è Tamir Rice, 12 anni: il 22 novembre 2014 viene ucciso

da un agente a Cleveland, Ohio, mentre stava giocando con una pistola giocatto-lo. L'agente non è stato incriminato.Freddie Gray, afroamericano di 25 anni, è morto invece a Baltimora, Maryland, il 12 aprile 2015, dopo essere stato arresta-to e caricato su un furgone della polizia. Era accusato di avere un coltello. Gray entrò in coma e poi morì in seguito a un trauma alla spina dorsale. Sei poliziotti finirono sotto inchiesta, nessuno venne incriminato. Ma il primo caso mediatico in cui un afroamericano venne ripreso durante un pestaggio da parte della po-lizia fu quello di Rodney King. Nel 1991 un video che mostra alcuni poliziotti di Los Angeles picchiare con oltre 50 colpi il tassista nero Rodney King, fratturan-dogli il cranio e procurandogli danni permanenti (King era stato fermato per eccesso di velocità) fa il giro del mondo. Il presidente George Bush definisce la rea-zione dei poliziotti “rivoltante”. Ma nell’a-prile del ‘92 i quattro agenti incriminati vengono assolti da una giuria a maggio-ranza bianca: la sentenza scatena delle violente proteste che mettono a ferro e fuoco Los Angeles per giorni. Il bilancio è di 54 vittime, 2.383 feriti, un miliardo di dollari di danni e oltre 12 mila arresti.Ma quanto è diffusa la violenza della po-

lizia negli Stati Uniti? È difficile rispon-dere in modo preciso vista la mancanza di dati esatti. Non esiste infatti un data-base comprensivo federale che censisca gli omicidi causati dalle forze dell’ordine. A raggruppare dati, per quanto parziali, sono stati alcuni soggetti privati come i progetti Fatal Encounters, Mapping Po-lice Violence, o Fatal Force compilato dai giornalisti del Washington Post.Il secondo, in particolare, mette a di-sposizione liberamente i propri dati che riepiloga il numero di persone uccise da agenti di polizia dal 2013 al 2019, e che possiamo usare per farci un’idea di mas-sima. Nel complesso, mostrano i risultati dell’archivio, in sette anni la polizia ame-ricana ha ucciso 7.663 persone, ovvero in media 1.100 l’anno e circa 0,34 ogni 100mila abitanti. Per capire il problema razziale in Ameri-ca però alcuni dati certi esistono, quelli del sistema carcerario. Sono 2,3 milioni le persone attualmente dietro le sbarre, sparsi tra oltre 7mila carceri statali, fe-derali e locali: un tasso di 698 detenuti su 100mila abitanti. Secondo i dati di Prison Policy, uno dei tanti progetti di riforma del sistema carcerario, mezzo milione sono in attesa di giudizio. Secondo i dati del Sentencing Project però i neri in Ame-rica sono incarcerati a un tasso cinque volte superiore a quello dei bianchi, in cinque stati (e tra questi c’è il Minnesota di George Floyd) a un tasso dieci volte superiore. Ci sono dodici stati in cui la metà della popolazione carceraria è com-posta da neri, ce ne sono undici in cui un maschio adulto afroamericano su venti è attualmente in cella (in Oklahoma uno su quindici).Sempre secondo le statistiche tra i ra-gazzi della classe 2001 uno su tre finirà in manette a un certo punto della sua vita mentre se sei un afroamericano nato dopo il 1965 e senza un diploma, è più probabile che tu finisca in carcere invece di restare in libertà. [Nicola Zecchini]

simi liberal bianchi. Si trattava sempre, però, di una solidarietà che non infrangeva la dimensione separata e separatista. Anche a LA '92 i riots erano opera di neri e latinos, con scarsissima partecipazione bianca. Stavolta, per la prima volta, le mani-festazioni e i tumulti sono stati compiutamente inter-razziali. Ha pesato certamente l'esperienza di Black Lives Matter ma anche di un movimento antidiscriminatorio che pure ha rag-giunto a volte vertici a dir poco discutibili, come la soppressione in molti Stati del Columbus Day, indicata come esaltazione del genocidio. Non è un caso che anche nelle manifestazioni delle scorse settimane si siano moltiplicati atti di “vandalismo sim-bolico” del genere. Ha certamente pesato il fortissimo rifiuto di Trump da parte di una parte d'America che, forse per la prima volta, ha visto la sua elezione come un affronto insopportabile. Ma certamente ha pesato anche la crisi innescata dal Corona-virus, anche se per vie non ancora davvero chiare. Molti opinionisti concordano nell'indicare l'impennata della disoccupazione, tanto più traumatizzante perché improvvisa in una nazione che negli ultimi anni aveva toccato un picco di occupazione senza precedenti nella storia, come concausa del dilagare delle manifestazioni praticamente in tutte le città americane. Si è trattato e si tratta, insomma, di una mobilita-zione che è insieme razziale, politica e sociale e che ha dunque travolto barriere di solito insormontabili come quelle tra gruppi etnici distinti.E' presto per dire se e quanto la protesta di queste settimane inciderà davvero sulla realtà quotidiana delle minoranze negli Usa. Alcuni segnali importanti indicano che probabilmente sarà così. L'incriminazione per omicidio volontario dell'agente responsabile dell'uccisione di Floyd, Derek Chauvin, inizial-mente incriminato solo per omicidio colposo, l'arresto degli altri tre agenti, arrivati dopo giorni di manifestazioni e prote-ste, le immediate dimissioni del capo della polizia di Atlanta e il licenziamento dell'agente responsabile dell'uccisione del ventisettenne nero Rayshard Brooks, fermato nella notte del 13 giugno sono indicatori rilevanti, in un Paese in cui l'incri-minazione degli agenti è sempre stata molto difficile, con una

conseguente sensazione di immunità che spiega almeno in parte le brutalità poliziesche emerse in numerosissime occa-sioni. La decisione in molti Stati di tagliare i fondi alla polizia è letteralmente senza precedenti e di indubbia efficacia.La frattura nell'establishment è conseguente soprattutto alla reazione disastrosa del presidente. Trump, già in enorme dif-ficoltà per le disastrose scelte iniziali di fronte alla pandemia, si è mosso con una clamorosa assenza di empatia e con una devastante incapacità di rivolgersi al Paese che governa e di comprenderne gli umori. La conseguenza è stata prima una ribellione aperta all'interno del suo Partito repubblicano, con molti leader del Great Ole Party, a partire dall'ex presidente Bush, che non solo hanno confessato l'inquilino della Casa Bianca ma hanno annunciato l'intenzione di votare per il pro-babile sfidante, il democratico Joe Biden.Ancora più profonda la frattura con i vertici militari, dopo che il presidente aveva minacciato di ricorrere all'esercito contro i manifestanti. I generali hanno fatto sapere che avrebbero respinto la richiesta. Anche i generali che avevano sostenuto l'amministrazione Trump, come l'ex capo di Gabinetto ed ex ministro per la Sicurezza John Kelly e lo stesso ministro del-la Difesa Mark Esper, hanno preso drasticamente le distanze dal presidente. Particolarmente imbarazzante, per Trump, la durissima presa di posizione di uno tra i generali di maggior ascendente sul GOP, l'ex segretario di Stato Colin Powell, che ha annunciato a propria volta il voto per Biden. La rivolta dei Repubblicani e dei vertici militari potrebbe figurare per le pros-sime elezioni un quadro del tutto inedito: una sorta di “unità nazionale” non dichiarata ma praticata contro Trump, che del resto è sempre stato considerato un corpo estraneo nel Partito repubblicano. Non a caso, da giorni si rincorrono le voci di un possibile incarico proprio di Powell a Segretario di Stato se a novembre il vincitore dovesse essere Biden.Come negli anni '60 e a differenza di molte altre occasioni è possibile, forse probabile, che la protesta di piazza, stavolta, cambi davvero le cose negli Stati Uniti. [Iaia Vantaggiato]

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Anche molte persone della nostra comunità si sono trovate in dif-f icoltà, nell’affrontare l’emer-

genza covid 19, soprattutto anziani, immunodepressi, persone con pato-logie. La Presidente della Comunità Ebraica ha istituito una unità di cri-si, con la creazione di un Crisis Ma-nagement Team (CMT) con Jonathan Arbib come coordinatore. Il Welfare, inoltre, ha supportato la Deputazione Ebraica per far fronte alle emergenze di chi aveva bisogno di medicinali, o di fare la spesa. Molte famiglie in dif-ficoltà economiche che vivono fuori dal raccordo non sapevano come fare ad acquistare i beni kosher di prima ne-cessita anche in vista di Pesach, ma con la grande sinergia che ha mosso l’intera Comunità tante famiglie hanno ricevuto il loro pacco contenente carne, prodotti per Pesach e medicine per chi lo necessitava. Tanti i volontari che si sono mossi in prima persona, coadiu-vati dal Presidente della Consulta Alex Zarfati e dalla referente del Welfare Alessandra Panzieri, per effettuare le consegne su tutto il litorale laziale. Una distribuzione che non si è fermata solo a Pesach, ma che è continua anche nelle settimane successive. “Il diretto-re del Centro Agroalimentare Roma ci ha donato tanti prodotti con cui siamo riusciti a comporre e consegnare cen-tinaia di cassette di prodotti alimenta-ri. Fondamentale inoltre è stato l’aiuto fornito da Jonathan Arbib, attraverso la Protezione civile”, ha raccontato il presidente della deputazione Piero Bonfiglioli. Le persone più a rischio di contrarre il Covid siano gli anziani. Molti di loro sono over 75 e vittime delle persecu-zioni naziste. Yael Finzi, Project Coor-dinator del Fondo Claims Conference, ci ha spiegato come hanno riadatta-to i loro servizi assistenziali ai circa 200 anziani assistiti in questo periodo molto particolare. “Il distanziamento sociale e la quarantena domiciliare ci hanno obbligato a sospendere dalla prima settimana di marzo le attività di socializzazione. Abbiamo sopperito a questa mancanza tentando di con-

tattarli telefonicamente più spesso, anche per comprendere bisogni e ne-cessità. La fisioterapia a domicilio ha dovuto subire uno stop ed è ripresa dal 4 maggio. L'assistenza domiciliare, in-vece, non è mai stata interrotta, anzi in taluni casi è stato necessario aumen-tare la frequenza e il numero delle ore settimanali di intervento. Gli operatori socio-sanitari, dotati di tutti i presidi di sicurezza, hanno svolto un lavoro enorme di cura e sostegno per circa 60 anziani costretti a casa e lontani dai propri cari“. Grazie all’unità di crisi della Comuni-tà Ebraica di Roma è stato creato un comitato scientifico composto da due medici molto competenti: Elvira Di Cave e Massimo Finzi. I dottori hanno partecipato al nuovo format “Shalom Talk” sulla pagina Facebook della te-stata giornalistica Shalom, in cui han-no dato consigli su come affrontare la “Fase 2”Anche l’Ospedale Israelitico è sceso in campo e la sede di Via Fulda è diventa-ta un presidio COVID-19 per i pazienti che non necessitano di terapia inten-siva. Tra le bellissime iniziative da elencare ce ne sono state due molto importanti. In primis, L’Associazione “UNIPRO-MOS” che ha donato all’Ospedale cin-que nuovi letti dedicati all’emergenza Coronavirus e nuovi tablet utilizzati per mettere in collegamento i pazien-ti affetti da Covid con i loro parenti e

congiunti. Per il personale del presidio, invece, è stata organizzata una lieta sorpresa grazie ai titolari di Le Bon Ton Catering che all'ingresso antistan-te la sede hanno offerto a tutto il per-sonale un piatto di pasta espresso. Un pranzo tenuto con le dovute distanze di sicurezza e in tempi rapidi per permet-tere a tutti di continuare l'assistenza in reparto, ma dal sapore unico di chi ha voluto allietare la fatica delle persone che ogni giorno devono fare la propria parte in questa battaglia: “Per chi vive da vicino la gestione dell'emergenza non è facile distrarsi dalla pressione. Sappiamo di avere il sostegno dei cit-tadini che confidano nel nostro lavoro, ma questi gesti regalano a tutti noi un po' di forza in più per continuare a dare il massimo in questa fase di crisi“, ha detto il direttore sanitario dell’Ospeda-le Israelitico, Gabriella Ergasti. [Miriam Spizzichino]

Pasta, olio, riso, passata di po-modoro, tonno, zucchero, torte, cioccolata, burro, frutta, oltre a

prodotti per igiene personale e per la pulizia della casa. Di questi beni di pri-ma necessità è stata composta la spe-sa alimentare che la Comunità ebraica di Roma, attraverso l’assessorato alle politiche del welfare e assessorato co-ordinamento volontari, ha distribuito a centinaia di famiglie in stato di biso-

gno, per aiutarle a superare la prima fase dell’emergenza economica.Da quando è iniziata l ’emergenza coronavirus, la Comunità ebraica ha provveduto a effettuare sei distribuzio-ni alimentari - grazie anche all’aiuto di moltissimi volontari, insieme alla Deputazione - presso il Tempio Beth Shalom, con decine e decine di perso-ne ordinatamente in fila nel rispetto del distanziamento.

“Purtroppo - ha spiegato Ouazana - il Covid ha messo a terra tantissime famiglie e la povertà ha colpito pur-troppo una parte del ceto medio che fatica anche a fare la spesa quotidia-na. Oltre a circa 250 famiglie che sono stabilmente aiutate dalla Deputazione, abbiamo avuto altre 250 famiglie che il lockdown ha privato di ogni entrata economica”.Solo nel l’ultima distribuzione si è provveduto a preparare e a distribuire quasi mille pacchi alimentari “per un valore della merce - prosegue Ouaza-na - vicina a 100.000 euro. Soldi che siamo riusciti a raccogliere sia grazie a tanti sostenitori privati, sia grazie alla generosità di tante aziende di settore. Un grazie quindi a tutti quel-li che ci consentono di aiutare chi ha veramente bisogno, ed un grazie che va esteso a decine e decine di volontari che ci hanno consentito di effettuare più di 750 consegne a domicilio a per-sone impossibilitate ad uscire, perché malate, anziane o affette da patologie invalidanti. Infine un ringraziamento va dato all’Associazione ‘Da Lev el Lev’ che ha raccolto il contributo di centi-naia di israeliani che generosamente hanno deciso di aiutare gli ebrei ita-liani in difficoltà”.

Comunità Ebraica, Deputazione, volontari, Ospedale Israelitico, Aziende private: una incredibile rete di aiuto e sostegno, materiale e morale.

Spese alimentari per i più bisognosi e consegne a domicilio, grazie a decine di volontari.

Solidarietà e assistenza ai tempi del Covid 19

Emergenza coronavirus: l’impegno della Comunità a non lasciare indietro nessuno

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L’arrivo del Covid-19 e il conseguente lockdown hanno imposto il blocco totale delle attività settimanali dei vari movimenti giovanili e l’annullamento di tutti gli

eventi organizzati dalle associazioni giovanili ebraiche, come per esempio le feste di Purim e i weekend in giro per l’Italia. Ma l’annullamento delle feste di Purim, sia a livello locale che nazionale, non hanno frenato le diverse associazioni dal reinventarsi. Jewlead, per esempio, che aveva preparato una delle feste di Purim più grandi degli ultimi anni a Roma, è stata una delle prime associazioni giovanili a sfruttare il boom dei social: per più di due settimane ha intrattenuto i ragazzi romani con dirette di ogni tipo, dalla cucina alla palestra fatta in casa, passando per consigli su come entrare nel mondo del lavoro e consulenze con avvocati per interpretare i vari DPCM emanati durante il lockdown. Oltre alle varie dirette hanno sfruttato tutti i canali social per un contest fotografico, che ha riscosso un successo incredibile in termini di partecipazione, e una campagna di raccolta fondi, denominata GOAL-19, in favore dello Ospedale Spallanzani. Anche J-Events, associazione che organizza prevalentemente cene di shabbat una volta al mese, si è reinventata completamente nell’ultimo periodo, organiz-zando settimanalmente una serata quiz, con la possibilità di vincere un buono regalo da 15 euro. Anche l’Unione Giovani Ebrei d’Italia, che ha visto annullarsi da un giorno all’altro il weekend a Torino, con più di cento ragazzi da tutto il Paese, ha dovuto rivedere tutte le attività, decidendo così di cavalcare anche loro l’onda dell’utilizzo in massa dei social network, realizzando diverse dirette, come dj set e jam session da casa e lezioni di cucina, ma anche talk con la Coordinatrice Nazionale per la lotta contro l’Antisemitismo Milena Santerini, l’avvocato Barbara Pontecorvo e Alex Zarfati. Anche il giornale dell’U-GEI, Hatikwa, ha organizzato delle dirette, presentando libri e parlando di politica americana e israeliana, riscuotendo molto successo. Anche dal punto di vista del dialogo interreligioso l’organizzazione ha sfruttato portali come Zoom per parteci-pare all’Iftar virtuale dell’Istituto Tevere, e ultimando alcuni progetti portati avanti con le istituzioni, come il progetto “Le Nostre Ragioni” realizzato con l’UCEI.“Non tutti i mali vengono per nuocere”, ha sottolineato Simone Santoro, presidente dell’UGEI, parlando di questo periodo di stallo: “abbiamo sfruttato questo periodo per iniziare un pro-cesso di innovazione all’interno dell’associazione. Con l’ausilio di professionisti e consulenti esterni vorremmo evolvere l’ag-gregazione giovanile con prodotti di qualità”. Il rinnovamen-to che sta portando avanti l’UGEI si chiama REWiBE, questo progetto è stato realizzato “nell’ottica di creare un confine netto tra lato istituzionale e lato aggregativo” spiega Santoro, e interesserà prima l’utilizzo dei social e dello streaming, e poi, coronavirus permettendo, verrà organizzato un evento vero e proprio per lanciare questo nuovo progetto.Anche i movimenti giovanili si sono dovuti adeguare a questa situazione, infatti i madrichim dell’Hashomer Hatzair e del Bené Akiva, abituati a fare attività nei propri locali, il Ken e il

Senif, hanno trovato vie alternative per intrattenere i ragazzi, con peulot (attività) e tanto altro. “È importante per noi rima-nere in contatto con i nostri chanichim e chanichot”, dice Oren Spielmann, Shaliach dell’Hashomer Hatzair. “Ogni settimana vengono fatte attività per bambini e riunioni con madrichim, bogrim e shlichonim per fare il punto della situazione e capire dove migliorare” spiega lo shaliach, sottolineando che le attivi-tà del movimento non si fermano alle sole attività ai bambini e ai ragazzi, ma anche alla collettività, “infatti crediamo che l’educazione debba essere gratuita - spiega Oren - per questo abbiamo organizzato diverse chiamate zoom per parlare con politici, come per esempio Emanuele Fiano del Partito De-mocratico e il Dottor Roberto Della Rocca, che ha fatto parte del partito israeliano di Meretz, ed esperti come l’economista Luca De Benedictis”.“Abbiamo lanciato un progetto chiamato ‘Anche io resto Ma-drich a casa’, l’idea è che non si smette di fare i madrichim durante la quarantena” spiega Hanan Magal, Shaliach del Bené Akiva “così abbiamo proposto di fare una volta a settimana un piccolo dvar torah alla famiglia”. Come per l’Hashomer, anche i madrichim stanno facendo peulot e si tengono in contatto con i propri chanichim e chanichot. Ma sono stati fatti anche giochi attraverso i social, come “Bené Akiva Hunted” su Insta-gram, un gioco realizzato sulla falsa riga del reality show di Amazon Prime “Celebrity Hunted” con concorrenti Francesco Totti e Fedez. Anche per il Bené Akiva, come per tutte le altre associazioni, è stato fondamentale l’utilizzo di Zoom, attraver-so il quale, non solo si è riusciti a rimanere in contatto con i propri ragazzi, ma sono stati organizzati veri e propri eventi. Nel caso del Bené Akiva, in occazione di Yom HaZikaron, si è organizzata una cerimonia con la sede di Gerusalemme per commemorare i soldati caduti e le vittime di terrorismo.Con l’avvio della Fase 2, i movimenti giovanili non sono rimasti con le mani in mano, infatti, con l’aiuto e il coordinamento di Jewlead, si sta portando avanti un progetto di baby sitting. Diversi madrichim dell’Hashomer Hatzair, del Bené Akiva e dell’Eli Hay, si sono offerti volontari per assistere quelle fami-glie che hanno bisogno di un aiuto per tenere d’occhio i loro figli, il tutto in maniera completamente gratuita.[Luca Spizzichino]

L’entusiasmo dei giovani della Co-munità ebraica di Roma ancora una volta si conferma come ine-

sauribile e disrupting rispetto al passa-to. Grazie all’intuizione dell’Assessore ai Giovani della CER Raffy Rubin è nata JewLead: una tribe rivoluzionaria com-posta da un gruppo di ragazzi e ragazze intraprendenti con differenti trascorsi e background accomunati dalla stessa vo-glia di mettersi in gioco in un progetto in-novativo e coinvolgente. “JewLead nasce perché ho notato che mancava un vero e proprio movimento che includesse gli ebrei dai 18 ai 38 anni. Invece di organiz-zare solo eventi volevo creare un vero e proprio movimento”, spiega l’Assessore. Eitan Bondì - studente di giurisprudenza e membro della tribe - descrive JewLead come “un gruppo di giovani che lavora per i giovani. JewLead è novità e fre-schezza. E’ libertà di sentirsi se stessi senza essere giudicati, è empatia e senso di appartenenza. Nel manifesto del grup-po ci siamo definiti la tredicesima tribù, perché questo desideriamo che JewLead sia per le persone: una famiglia ed un punto di riferimento.” La tribe conta circa 15 membri con età e profili professionali e caratteriali estre-mamente differenti tra loro, proprio per raggiungere il maggior numero di gio-vani e perseguire in maniera coerente lo scopo principale, quello di riunire le persone ed offrire occasioni di incontro. Infatti, Ilaria Sabatello - responsabi-le reparto Innovation Intelligence and Partnership presso Enel e componente dell’organizzazione - racconta: “Raffy Rubin ha avuto l’idea di dotarsi di una

squadra che nasce dalla commissione giovani della CER, ma mantiene la sua indipendenza. Siamo tutti diversi e con punti di vista differenti. Siamo un grup-po eterogeneo che rappresenta diverse tipologie di personaggi della comunità.” Dall’ex o attuale frequentatore del Bene Akiva a quello dell’Hashomer Hatzair, dal residente a Piazza Bologna a quello di Monteverde: il gruppo di JewLead ri-sulta variegato e ben assortito. Valerie Moscati - laureata in scienze e tecnologie applicate alla conservazione e restauro dei beni culturali ed attuale conservation scientist, altro membro di Jewlead - spiega il principio ispiratore della tribù: “Noi vogliamo aggregare tutti. Vogliamo che tutti i giovani della comunità trovino il loro spazio all’inter-no di questa. Ci sono tanti ragazzi che si sono allontanati dalla comunità per-ché la vedono non rappresentativa del loro mondo e noi vogliamo riavvicinarli andando incontro alle loro esigenze. Vo-gliamo dare un messaggio di freschezza ed inclusività. L’inclusività è la cosa più importante.”Il debutto della tribe sarebbe dovuto av-venire tramite un evento organizzato in occasione della festa di Purim in un loca-le frequentato abitualmente dai giovani della comunità, ma causa emergenza sanitaria è stato rimandato a data da definire. “Avevamo raggiunto circa 500 persone, il che significa quasi la metà dei giovani ebrei di Roma. Il posto e l’orga-nizzazione sono stati scelti per realizzare un evento ‘normale’, quello a cui chiun-que avrebbe partecipato in un qualsiasi sabato sera”, spiega Ilaria.

Le attività organizzate ed in fase di pia-nificazione di JewLead sono tra le più disparate, pur mantenendo il comune denominatore di garantire un intratte-nimento quanto più simile possibile alle abitudini dei ragazzi della CER. Nonostante il Coronavirus abbia messo a dura prova la tribe, i suoi membri non si sono fermati neanche durante la qua-rantena: una serie di dirette facebook ha tenuto compagnia ai giovani relegati nelle loro case. Anche in quest’occasione il messaggio di JewLead è stato chiaro e coerente con la sua mission: dare spazio ad interessi ed esigenze diverse con il chiaro intento di aggregare individui. Le dirette hanno offerto ai giovani l’oppor-tunità di condividere le loro passioni e conoscere altre persone; i temi proposti hanno riguardato, ad esempio, ricette sfiziose, allenamenti a corpo libero ed orientamento al mercato del lavoro. La tribe si trova ora in piena fase di in-ventiva per proporre attività ed eventi sempre nuovi ed accattivanti. Domeni-ca 7 giugno 2020 è stato organizzato il primo evento post quarantena permesso grazie all’allentamento delle misure di sicurezza necessarie: 12 coppie di ragaz-zi si sono sfidati in un torneo di paddle. Tante sono le iniziative e proposte avan-zate da JewLead: l’organizzazione è atti-va su più fronti per far sentire la sua voce e rappresentare un punto di riferimento per tutti i giovani della comunità. In attesa del prossimo appuntamento, non ci resta che augurare fortuna e suc-cesso a questa inclusiva, coinvolgente e divertente tribe. [Carlotta Livoli]

A soffrire dell’isolamento sono stati soprattutto i giovani che hanno però trovato forme diverse di aggregazione e modi diversi di fare attività, attraverso il web.

Un progetto di aggregazione innovativo e coinvolgente, rivolto ai giovani ebrei tra i 18 e i 38 anni.

Quarantena: i movimenti giovanili ebraici si reinventano

‘JewLead’: un modo rivoluzionario per stare assieme

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L’impegno dell’Adei Wizo ai tempi del Coronavirus.

L’altissimo riconoscimento per l’instancabile impegno a trasmettere alle nuove generazioni il ricordo della Shoah.

“Stare vicini, restando lontani” Sami Modiano nominato dal presidente Mattarella Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica

“Mi sembra quasi di rivivere il periodo della guerra, quan-do dovevamo stare rintanati nei rifugi senza poter uscire. Per me è stato un grande dolore quest’anno non aver

potuto riunire tutta la famiglia per Pesach”. Ascoltando le preoccupazioni di tante persone, come questa storica adeina ottantenne che vive sola, l’Adei Wizo ha cercato soluzioni per “stare vicini, restando lontani” anche con una semplice telefonata per mantenere contatti con le socie e soprattutto con quelle che vivono sole. “Il Coronavirus non ferma l’Adei Wizo: abbiamo organizzato eventi fruibili online e aperti a tutti”, ha dichiarato la Presidente nazionale Susanna Sciaky. “L’isolamento, necessario per contenere la pandemia, può creare senso di abbandono e abbiamo trovato altri modi per essere vicine alle donne e per proseguire l’impegno per Israele”. Le sedi Wizo in tutto il mondo fanno proposte online proprio sull’emergenza Covid 19 (Francia), ma anche incontri su Yom-Haatzmaut, ricette sul web su un tema che rievoca un antico adagio “An apple a day keeps the doctor away” (Florida); oppure video sulla prima hallà dopo Pesach (Spagna). La sede italiana organizza videoconferenze come “L’isolamento degli anziani ai tempi del Coronavirus” con la psicologa Panzer, il Corso di Yoga in collaborazione con l’Associazione “Il Melograno Solidarietà Ambiente Cultu-ra”, una raccolta fondi per continuare a sostenere i progetti Wizo in Israele. In questo periodo la World Wizo ha dovu-to chiudere provvisoriamente alcuni progetti e ben 6.000 impiegati sono rimasti al momento senza lavoro. Grazie ai volontari però restano attive in Israele iniziative Wizo come le linee telefoniche attive 24 ore su 24 per le donne vittime di violenza, oltre a servizi come le strutture per anziani, i rifugi per donne maltrattate, i centri di accoglienza per teenagers a rischio e per senza fissa dimora. “Questa è la Wizo - ha dichiarato la Presidente mondiale Esther Mor - un’organizzazione di eccellenza, dedizione e solidarietà. Il Covid 19 ha cambiato la nostra vita, ma sono certa che insieme possiamo farcela e che torneremo gradualmente a vivere giorni pieni di iniziative e di soddisfazioni”.

Nelle scorse settimane sono giunti alla presidenza italiana messaggi di solidarietà provenienti dalle sedi Wizo di tutto il mondo, allarmate nel vedere il nostro paese in cima alle classifiche mondiali della pandemia. “Siamo senza fiato nel vedere quante siano le persone infettate e decedute in Italia a causa del virus - afferma la Presidente Sciaky - e ancora non si vede la fine di questo incubo. Il mio pensiero va ai molti che si sono ammalati e a chi tra questi non ce l’ha fatta. La cifra della Wizo è la ‘sorellanza’: una forza tutta femminile. Insieme con amore e coraggio supereremo questa fase per rilanciare, più forti di prima, l’impegno a favore delle donne”.[Giovanna Micaglio Ben Amozegh, Responsabile Comunicazioni ADEI WIZO]

Lo scorso 18 lugl io 2020 Sami Modiano ha festeggiato i suoi 90 anni festeggiati in modo specia-

le: il Presidente della Repubblica Ser-gio Mattarella lo ha infatti nominato Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica. Un’onori-ficenza giunta in virtù dell’impegno di Sami nella conservazione e nella trasmissione del ricordo della Shoah, soprattutto presso i giovani e le sco-larescheDeportato da Rodi ad Auschwitz nel 1944, nei lager perse tutta la sua fa-miglia. Un viaggio terribile, iniziato in condizioni disumane nella stiva di una nave, prima dei soffocanti vagoni piombati sul continente. Una deporta-zione che di fatto annientò la comuni-tà dell’isola greca. Sami è tra i pochi sopravvissuti. Dopo la guerra, pur tra tante difficoltà, la vita è ricomincia-ta. Ha incontrato sua moglie Selma, sempre al suo fianco. E dal 2005 ha iniziato la sua opera di testimone, di-venendo punto di riferimento per tanti studenti e per qualunque cittadino.“Questa onorif icenza di cui è stato insignito Sami Modiano rappresenta il riconoscimento non solo del valore della persona, per il suo impegno a raccontare, mai con parole d’odio o di violenza, la sua esperienza personale ritornando sempre nei luoghi del do-lore per aiutare a comprendere, ma è anche un riconoscimento a tutte le vit-time della Shoah e a tutti i Testimoni che in quest’impegno si sono prodigati infaticabilmente e oggi non ci sono più – commenta la Presidente della Comu-nità Ebraica di Roma Ruth Dureghello a Shalom. – E’ l’ennesimo gesto dal valore altissimo del Presidente Matta-rella, che dimostra, ancora una volta, la grande sensibilità della sua persona e dell’Istituzione che rappresenta”.Pochi giorni dopo la comunicazione, Sami Modiano – accompagnato dalla moglie Selma e dal rabbino capo rav Riccardo Di Segni e dalla presidente Ruth Dureghello – è stato ricevuto al Quirinale il 28 luglio, prendendo dalle mani del presidente Mattarella, l’altae

prestigiosa onorificenza"La Repubblica italiana le deve pro-fonda gratitudine - ha affermato il Capo dello Stato - per la sua testimo-nianza. Lei ha sperimentato l'abisso e l'orrore dei campi di sterminio e co-raggiosamente ha tramandato la me-moria alle giovani generazioni. Perchè non accada mai più". "Avevo 14 anni e i miei occhi hanno visto cose orribili. Sono stato l'unico della mia famiglia a sopravvivere e per lunghi anni mi sono chiesto sempre il perchè. L'ho capito solo nel 2005, quando ho deci-so di rompere il silenzio e di parlare della mia esperienza di Auschwitz ai ragazzi", ha sottol ineato Modiano, nell’incontro al Quirinale. "Sono sta-to scelto per dare testimonianza - ha aggiunto - Accompagnare i ragazzi ad Auschwitz nei viaggi organizzati dal governo italiano per me è una grande sofferenza, perchè rivivo storie ter-ribili. Ma devo farlo e i ragazzi con il loro affetto e la loro attenzione mi ricompensano". Ma oltre alla cerimonia ufficiale, Sami Modiamo è stato festeggiato anche dai più stretti amici con una piccola cena presso il Tempio Bet Michael, su ini-

ziativa della Dott.ssa Elvira Di Cave, di Daniel Di Porto e di Ettore Terraci-na, nipote dell'ex deportato e grande amico del festeggiato. A partecipare, oltre alle persone più vicine a Modia-no, anche i vertici della Comunità e un ospite d'eccezione: l'ex Sindaco di Roma Walter Veltroni. "Grazie a D-o sono arrivato fino a 90 anni. Finché avrò la forza continuerò con la mia missione – ha affermato Modiano, commosso, alludendo al continuare a tramandare il messaggio della Memo-ria - Vengo dalla comunità ebraica di Rodi, ma ho trovato qui una comunità che mi ha accolto e che mi ha adotta-to." Prima la cena, allestita da " Le Bon Ton", poi i discorsi istituzionali, in un clima di grande emozione, culminato con il video degli auguri da parte dei bambini delle Scuole Ebraiche, de-stinati ad essere gli eredi di questa fondamentale missione. [Giorgia Calo e Luca Clementi]

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Shulamith aveva lasciato il suo bi-gliettino da visita e se n'era andata. Noa con in mano quel rettangolo

perlato era rientrata alla base, nella stanza della principessa, salma sul let-to, a meditare graffitando il cielo di car-tongesso con le pupille. I Funko Pop di Massimo Decimo Meridio e di Commodo, dall'alto della libreria, la fissavano in ca-gnesco. Jamie Foxx e Christoph Waltz, armati, Leonardo DiCaprio disarmato (almeno lui!) disapprovavano dal poster di Django a muro. Il ronzio del condizio-natore le perforava i timpani. Che tipo di crimine avrebbe commesso seguendo le direttive di Shulamith? Dolo o colpa? Ad probationem o ad substantiam? E una volta scoperto il malfatto che ramanzina le avrebbe scodellato il padre, Chiarissi-mo Professore di procedura penale alla Sapienza? “Noa, subito qui ti devo parlare”“eccomi papo” avrebbe risposto lei men-tre con passo ciondolante l'avrebbe rag-giunto in salone.“Noa ti rendi conto?” “sì papo”“mediante un'associazione a delinquere appositamente costituita hai intenzio-nalmente sottratto la memoria a nonna Gemma! Ai sensi dell'art. 624 del codi-ce penale ti sei macchiata di furto, fur-to di memoria, tre anni di carcere non te li toglie nessuno per di più, ai sensi dell'art. 640 che recita chiunque con ar-tifici o raggiri, inducendo taluno in er-rore, procura a se o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, hai compiuto una truffa punita con la reclusione da sei mesi a tre anni”.Papo è un uomo attraente e quando si inalbera lo è ancora di più.“Queste sono le pene base, poi ci sono le aggravanti” “sì papo” “art. 643 circonvenzione di persone in-capaci da 2 a 6 anni”“ma papo nonna è capace!”“art. 605 chiunque priva taluno della li-bertà personale: sequestro di persona, punito con la reclusione da 6 mesi a otto anni, art. 603, persona ridotta in totale stato di soggezione è plagio da 5 a 15 anni più aggravanti”.Caspita le sapeva tutte a memoria.“Art. 582 lesioni personali da 3 mesi a 3 anni, art. 613 chiunque mediante sug-gestione ipnotica o in veglia, o mediante somministrazione di sostanze alcoliche o

stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo pone una persona, senza il consenso di lei, in stato di incapacità di intendere o volere è punito con la reclusione fino a 5 anni”“grazie papo”“Noa, mi stoppo qui, potrei elencarti al-meno un'altra dozzina di reati compiuti col tuo fare frivolo e inavveduto. Sappi che già così ti becchi all'incirca centot-tanta barra duecento anni di carcere, anno più anno meno!”“beh papo duecento anni passano veloci”“secondo te, oggigiorno, con tutti i diavoli per capello che ho, dove lo vado a trovare il tempo di assumere la tua difesa?”.Honoré de Balzac aveva scritto che i pa-dri, per esser felici, devono sempre dare.Dare mazzate sulle gengive aveva ag-giunto Noa srotolando una Rotella Hari-bo acciuffata dal cassetto del comodino accanto a lei.La parlantina italoamericana di Shula-mith, come una nuvola indissolubile del-la Vaporella, passeggiava ancora intorno alla capoccia di Noa, imbecillendola ad oltranza. Il Mikveh, Passoscuro, Settimio Astrologo, Shulamith che l'aveva presa in simpatia e che le aveva anche offerto il ghiur ultra reform in metà tempo se ne avesse avuto bisogno per un'amica. Tutto a farle girogirotondo contro neanche si fosse scolata mezza bottiglia di Amaretto Disaronno a stomaco vuoto.E quella parlantina americanizzata ora le aveva fatto tornare in mente Ben.Ben. Lo aveva conosciuto neanche lei ricor-dava più quanti anni fa sempre in estate sempre a Santa Marinella. Bermuda coi

tasconi in ripstop Carhartt, t-shirt Ralph Lauren (le aveva di tutti i colori), Stan Smith consumate al punto giusto, cap-pello Under Armour e denti bianchissi-mi. Bello come il Kotel di giorno, ancor più bello come il Kotel di sera. Il padre era dirigente di un'azienda farmaceu-tica americana e quell'anno era stato mandato con tutta la famiglia in Italia a seguire alcuni progetti di sviluppo. Avevano passato tutta l'estate insieme a leggere tra loro Il Grande Gatsby la sera seduti al vecchio porticciolo davanti al castello Odescalchi. Avevano digiunato e sdigiunato insieme a Tishà BeAv (con i tonnarelli cacio e pepe di mamma Mile-na, speciali!). Erano stati da Forbicetta a Civitavecchia a prendere la pizza rossa, alle palafitte di Capo Linaro a cantare Che confusione sarà perché ti amo e all'ultimo tramonto davanti all'hotel Le Najadi avevano fantasticato Giorgio Bas-sani piegato sullo scrittoio a confeziona-re Il Giardino dei Finzi-Contini. Si erano abbracciati, scambiati gli orologi Casio a memoria del loro incontro e pianto come gufi. Poi lui era tornato in America, lei era tornata in piazza e il vento dell'au-tunno aveva portato via tutto il resto. Stringimi forte e stammi più vicino.Se ci sto bene sarà perché ti amo.Stringimi forte e stammi più vicino.E' così bello che non mi sembra vero.Ben dove sei ora?

FINE TERZA PARTEMike Rabba

Di Nissan Mindel Il ricordo di un amore: continua la telenovela di Santa Marinella.

Gluckel di Hameln. Una donna eccezionale Ben dove sei ?

Nei secoli addietro lo studio e l’e-rudizione erano una prerogativa maschile. Le donne che spiccava-

no quali autrici furono pochissime. Tra queste ultime, Gluckel di Hameln, la cui saggezza era pari solo alla sua semplici-tà. Non che fosse consapevole della sua vocazione e che avesse intenzionalmente cercato di diventare scrittrice, semplice-mente le piaceva redigere sotto forma di diario il racconto della sua vita. Suo figlio, che trovò il manoscritto, lo fece pubblica-re. Da quel momento non ha mai smesso di essere ammirato quale testimonian-za pertinente sulla vita e le esperienze di un’ebrea praticante nella Germania di più di tre secoli fa.Gluckel nacque nel 1646 ad Amburgo, una delle tre città-sorelle, le altre due erano Altona e Wandsbeck. Queste tre città rivestirono un ruolo importante nella vita ebraica in quanto vi vissero illustri rabbini. Gluckel venne alla luce mentre furoreggiava in Europa la guerra dei Trent’anni (1618-1648) e aveva appena tre anni quando gli ebrei, espulsi da Am-burgo, si rifugiarono nella vicina Altona. E aveva undici anni quando le truppe sve-desi costrinsero gli ebrei a lasciare Altona per tornare ad Amburgo. Frequentò un “cheder” per tre anni, e ciò le permise di acquisire discrete conoscenze di Torà. Al contempo, poiché molto portata per la let-tura, acquistò dimestichezza con la scrit-tura in quel dialetto giudeo-tedesco che si chiama tuttora Yiddish, sebbene a quei tempi fosse molto più simile al tedesco che all’ebraico. Secondo gli usi dell’epoca, ella si sposò che aveva appena quattordici anni ma la giovane età non le impediva di essere una ragazza matura, diligente e pragmatica, atta ad assumere le respon-sabilità di una casa ebraica e di applicarvi efficientemente i principi inculcatile dai genitori. Suo marito, Chayim, giovane stu-dioso molto pio, era commerciante nel pic-colo borgo di Hameln. Lì Glickel trascorse felicemente il primo anno di matrimonio, occupandosi dell’istruzione della gioventù della comunità ebraica.Poi, la giovane coppia si trasferì ad Am-burgo che era già un centro commercia-le a livello mondiale e uno dei porti più attivi d’Europa e quindi per i giovani le possibilità di successo economico erano molto grandi. Tuttavia, Gluckel e il marito ebbero degli esordi molto difficili, ma si ostinarono e perseverarono nel lavoro, finché i loro sforzi vennero benedetti da

Hashem. E così, nello spazio di pochi anni vivevano già nell’agio. Gluckel non solo si occupava dell’insegnamento e dei mestieri di casa, ma in più affiancava il marito nei suoi affari. E poco dopo, la Provvidenza, continuando ad elargire le Sue benedizioni, permise loro di diven-tare addirittura ricchi.Ciò fece sì che ebbero facile accesso agli ambienti più altolocati della città le qua-li influenti personalità intrattenevano rapporti stretti con le corti germaniche e pertanto, si servivano della loro posi-zione per migliorare la vita degli ebrei ai quali non venivano mai risparmiate per-secuzioni e angherie di ogni tipo. Questa ascensione sociale, assieme alla stima e al rispetto di cui godeva la coppia, ebbe come risultato che sei dei loro figli si spo-sarono con ottimi partiti. A tal punto che, alla cerimonia delle nozze della loro figlia primogenita, assistettero nientedimeno che i membri della famiglia principesca di Brandeburgo, che divenne più avanti la dinastia imperiale della Germania.Purtroppo, nel 1989, ventinove anni dopo la sua felice unione con Gluckel, Chayim decedette lasciandola con otto dei loro dodici figli e le pesanti incombenze di una florida e importante impresa com-merciale. Gluckel, sempre molto credente e pia, non si lasciò pervadere dalla di-sperazione e si mise subito alacremente all’opera, concentrando tutte le sue ener-gie sull’educazione dei figli e cercando di accasarli con rampolli delle migliori famiglie di Amburgo. Allo stesso tempo, gestiva da sola e con molto successo la società ereditata dal marito. Come scrisse nel suo diario, serbava il progetto di far sposare tutti i figli per poi liquidare tutte le sue attività professionali e infine stabi-lirsi definitivamente in Terra Santa, dove si sarebbe consacrata esclusivamente al soccorso dei suoi sventurati fratelli ebrei e ciò fino alla fine dei suoi giorni.Eppure dovette cambiare i suoi piani. Gli affari incontrarono molti impicci. Poi si risposò con un ricco commerciante di Metz, città nota per il suo illustre passato ebraico dove molti eruditi vissero e inse-gnarono. Avrebbe potuto essere felice, ma la Provvidenza, che era sempre stata mol-to generosa con lei, decise di farla soffrire negli ultimi anni della sua vita. Un anno dopo il suo secondo matrimonio, il marito perse non solo la sua immensa fortuna, ma anche le ricchezze che Gluckel aveva capitalizzato dal canto suo. Ma ella lottò

gagliardamente contro le avversità.E, nonostante le serie traversie materiali, continuò a condurre vita esemplare, fatta di fede, di valori, nonché di altruismo nei confronti della comunità in cui viveva.Alla fine della sua vita, Gluckel intrapre-se la stesura delle sue memorie. Queste costituiscono un prezioso ritratto della vita degli ebrei in Germania, nei momenti travagliati che seguirono la Guerra dei Trent’anni. Ma la sua opera è qualcosa di più di un semplice diario, in quanto l’au-trice vi analizza e discute tutti gli eventi importanti dell’epoca. Vi dà il “mussàr”- la morale ai figli, e più di una volta abbel-lisce i suoi racconti riportando storie del Midràsh, citazioni delle Scritture e anche del Talmud. Il suo diario dimostra che fu una donna di notevole spessore, pregna di buonsenso, acuità e fede in D-o, e la cui marcata personalità era in grado di prevalere sulle asperità e essere fonte di ispirazione per il prossimo.Suo figlio Moshé, che fu un noto rabbino, scoprì il manoscritto. Lo copiò a mano su della pergamena per conservarlo e tra-mandarlo alle generazioni future. È un esempio, tra i più belli e convincenti, di una donna ebrea, tutta bontà e avvedutez-za, di una madre in seno al popolo ebraico.

A cura dei Pensieri di Torà di Rav Ronnie Canarutto. Traduzione di Myriam Bentolila - Dedicato alla memoria di suo padre z”l, ha-Rav Yeshua ben Mahluf,Nishmato Eden.

Estratto del manoscritto delle Memorie di Glückel di Hayyim Hamel del XVIII sec

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La posta dei lettori

Una storia emozionante, grazie alle lettere di ShalomSpett.le RedazioneFaccio seguito alla lettera “Storia di motociclette” di Sandro Di Nepi che mi ha emozionato portandomi indietro nel tempo. Perché Cesare Di Nepi, lo zio di cui parla Sandro, era mio cugino (figlio di Bellina Gay, sorella di mio padre Renato), deportato nel 1944. Così ho anche scoperto che Sandro è un mio parente. Sono riuscita a mettermi in contatto con lui e abbiamo fatto una bella chiacchierata. Inoltre ho conosciuto, sempre al telefono, Ettore Coen, l’amico di Sandro che ha dato il via a questa emozionante storia. Tutto questo grazie alla vostra rubrica! Cordiali saluti.Giuliana Gay

Gli amici della Comunità ebraica hanno saputo colmare la mia solitudineCaro Direttore,nel ringraziarla per l’articolo riguardante la serata che si è svolta in onore e nel ricordo di “mio fratello” Piero Terracina al Pitigliani e che ha visto la presenza di tante persone che apprezzavano Piero, colgo l’occasione per scriverle due righe.La mia vita di Sopravvissuto ai Campi di Sterminio di Auschwitz -Bir-kenau non è stata mai facile, così come non lo è stata quella di tutti coloro che hanno avuto la sventura di vivere l’orrore di un genocidio. Ma mi ritengo un uomo fortunato perchè ho ricevuto dalla Comunità di Roma, che mi ha accolto come un figlio e che ha riempito la vita mia e di Selma, la mia adorata moglie, tutto l’affetto che ha colmato una solitudine veramente dolorosa. Noi non abbiamo avuto figli sfor-tunatamente, ma ne avviamo trovati tanti nella Comunità di Roma, che giorno dopo giorno ci ha donato quello che l’orrore ci aveva tolto. Siamo stati considerati da sempre come Ebrei romani e come tali ci sentiamo, sono stato Bar Mitzva, abbiamo festeggiato in un Tempio Maggiore stracolmo un anniversario del nostro matrimonio che era stato celebrato in Africa.Un numero enorme di bambini e di ragazzi della Scuola Ebraica, dove sento i brividi ogni volta che metto piede per una mia testimonianza, ci hanno fatto da cornice con i loro canti che giungono fino al cuore.Un ringraziamento va al Rabbino Capo della Cer Rav Riccardo Di Segni per il suo costante conforto religioso; al Presidente della Cer che rap-presenta oggi l’intera Comunità ebraica, Ruth Dureghello, che non mi fa mai mancare il suo appoggio ed il suo abbraccio; all’ex Presidente della Cer Riccardo Pacifici del quale non dimentico gli sforzi per colma-re quella che considero il piu’ grande insulto alla mia persona: l’avermi cacciato da scuola e il Dottorato di Ricerca che mi è stato consegnato dalle mani del Senato Accademico è un regalo che mai dimenticherò; a Emanuele Di Porto punto di riferimento costante e giornaliero per me e per Selma anche quando da fratturato mi telefonava ogni giorno; a Daniel Di Porto e alla sua famiglia tutta per come si mette al ser-vizio di chiunque abbia necessità di essere confortato ed aiutato nei

momenti di bisogno e non solo in quelli; a Ettore Terracina nipote di Piero e quindi “mio nipote” che mi ha preservato dal dolore di vedere Piero morente al quale chiedo pubblicamente scusa per non averlo capito, preso dal dolore; a mia “sorella” Elvira Di Cave, che da tanto si dedica a me ed alla mia famiglia, preservando quella salute che devo mantenere per me e per Piero. Ora devo ricordare e tramandare la Memoria per due, per me e per Piero, gliel’ho promesso, ce l’eravamo promesso, ogni istante che KB mi donerà. Perché il ricordo di ciò che è stato non deve essere dimenticato. Ancora grazie per tutto ciò che ho ricevuto e che sto ricevendo da voi tutti. A volte mi chiedo se tutto ciò me lo merito e mi commuovo fino alle lacrime.Ho sicuramente dimenticato tanta gente che ha fatto tanto per me e per questo chiedo scusa a tutti. Da parte mia per finire un’unica considerazione su quanto sta accadendo ora: stiamo passando un periodo molto brutto. Questo virus si sta portando via tanta gente, tra pazienti e medici, infermieri etc. Quando se ne sarà andato lascerà molta gente senza un lavoro e dovrà ricominciare da zero. Ce l’abbiamo fatta noi Sopravvissuti a ricominciare. Che il nostro sacrificio sia di insegnamento per tutti. A me non resta che chiedervi di tramandare ai vostri figli il ricordo per fare in modo che mai nessuno di noi Ebrei debba ritornare a vedere quello che i nostri occhi hanno dovuto vedere.Sami e Selma Modiano - Auschwitz - Birkenau B 7456

Un ringraziamento al Collegio rabbinicoSpett.le Redazione,vi scrivo per condividere i miei complimenti nei confronti del col-legio rabbinico. In particolare, vorrei ringraziare Rav Di Segni e la professoressa Luisa Basevi per essere stati presenti durante tutta la quarantena, procedendo con le lezioni online. Un ringraziamento particolare anche a Odoardo Sadun per il modo in cui è riuscito a gestire la situazione. Grazie.Rosa Piperno

Un grazie al sindaco e alla municipalità di AnzioGentile Redazione,Attraverso le pagine di Shalom vorrei poter ringraziare il Sindaco di Anzio Candido De Angelis. Analogo ringraziamento all’assessore alla Cultura Laura Nolfi e alle professoresse che mi hanno dato, tramite il loro impegno e la loro dedizione, l’opportunità di poter condividere la mia storia, riguardante la retata del 16/10/1943, con 400 persone tra adulti e ragazzi presso il cinema “Astoria” nella Giornata della Memoria. Un ringraziamento speciale va al sindaco e all’assessore che mi hanno omaggiato di una targa ricordo. Con l’augurio di un “ futuro pieno di pace”. Distinti saluti.Polacco Vittorio

Un triste annuncioLo scorso 5 aprile è venuta a mancare Brunella Sonnino. Danno la triste comunicazione a quanti l’hanno conosciuta e ne conservano un caro ricordo, la sorella Simonetta Sonnino e la nipote Sara Marconi con i suoi familiari. Si associano al loro dolore, la zia Costanza Sonnino Palagi, i cugini Bruno e Anna Palagi e la signora A. Pasca che l’ha assistita con affetto e premura.lettera firmata

Un grazie alla Scuola ‘V. Polacco’ e alla morà DafnaEgregio Direttore,Scriviamo questa lettera per ringraziare la Scuola Vittorio Polacco e, nello specifico, la morà dei nostri figli, Dafna Di Segni.Una delle caratteristiche più forti dell’identità ebraica è sicuramente la perseveranza che ha consentito per secoli al “popolo dalla dura cervice” di vivere e sopravvivere nonostante gli ostacoli da affrontare lungo la via. La pandemia Covid-19 che sta colpendo tutto il mondo ha avuto un impatto immenso sulle nostre esistenze: il modo di vivere di ognuno di noi è stato stravolto, abbiamo perso le nostre sicurezze, le nostre abitudini, i nostri impegni quotidiani. Il primo grande cam-biamento per le famiglie è stato la chiusura di tutte le scuole, di ogni ordine e grado, che ha costretto i bambini e i ragazzi a rimanere a casa. La scuola e l’istruzione sono alla base della crescita di tutti i giovani e sono il fulcro (assieme all’educazione famigliare) sul quale si basa il futuro dei cittadini di domani. È qui che in maniera quasi istantanea alcuni docenti si sono attivati per impostare un sistema di insegna-mento a distanza, minimizzando per quanto possibile il distacco che si è necessariamente creato tra i ragazzi e la scuola. La Morà Dafna fa parte di quel gruppo di “pionieri” che prima di tutti hanno voluto avviare la didattica a distanza e le videoconferenze con gli studenti, così da non interrompere di fatto mai le lezioni che fino a pochi giorni prima erano svolte in classe. Sin dal primo giorno la Morà Dafna ha organizzato le proprie lezioni utilizzando Skype quotidianamente e, a costo di ripetersi tre volte nel corso della stessa mattinata, ha preferito organizzare minigruppi di pochi studenti mantenendo così un contat-to (anche se solo virtuale) più diretto e personale con ogni elemento della sua kittà. Prima di avere indicazioni, orari, calendari e altro la Morà Dafna ha voluto attivare la didattica a distanza abituando immediatamente i suoi bambini al nuovo sistema di studio, portando avanti il programma senza lacune, senza lasciare indietro nessuno, suddividendo le materie e i relativi compiti nei giorni della settimana (non tralasciando neanche l’educazione fisica), mantenendo così la routine scolastica. Va riconosciuto alla Morà Dafna il grande kavod di essersi immediatamente attivata per i suoi alunni con un impegno e una pazienza encomiabili. Il suo sforzo, ne siamo certi, è stato da esempio per tutti, genitori e studenti: ci ha insegnato l’importanza di perseverare nei nostri impegni senza permettere che gli eventi ci travolgessero passivamente, ci ha insegnato a reagire anche quando nel mondo una pandemia sta sconvolgendo le nostre certezze. “Min a prat el haklal, min haklal el a prat” - dal particolare al generale, dal generale al particolare, è così che in Israele si sintetizza come un com-portamento, una azione, una decisione, anche piccola e all’apparenza insignificante, possa diventare la regola, l’esempio da seguire per altri in situazioni analoghe. Insieme, con questo spirito e con pilastri come la nostra morà, BH usciremo tutti da questo terribile periodo con un grande bagaglio che ci accompagnerà sempre, ed è questo, nel suo senso più preciso e profondo, il ruolo dell’insegnante.I bambini e i genitori della III C ‘Vittorio Polacco’

Una legge razzista prima delle leggi razzialiSpett.le Redazione,recentemente, nel corso di alcune ricerche d’archivio, mi sono “imbat-tuto” in una “Notificazione”, varata dal Ministro dell’Interno Modene-se, Conte Luigi Giacobazzi, in nome e per conto del Duca di Modena e Reggio, Francesco V d’Austria-Este, a commento di un’apposita Legge sovrana (la n. 7977), che agilmente possiamo paragonare ad una sorta di primordiale “Legge razziale”. Occorre dire che la presenza degli ebrei a Modena, la quale risaliva al XIV secolo, era sempre stata caratterizzata da periodi di “apertura” o “chiusura”, ovviamente a

seconda di chi ergeva il potere, ma nessuno avrebbe mai immaginato che il 26 novembre del 1851, il Giacobazzi potesse “rendere esecutiva” quell’assurda disposizione con la quale, non solo si sarebbero esclusi i giovani ebrei estensi dall’obbligo del servizio militare, ma addirittura si associava il divieto ad un’autentica “beffa” ancor più grave dell’im-pedimento stesso. Vissuti per secoli nel ghetto, gli ebrei Modenesi ave-vano visto nell’invasione Napoleonica del 6 ottobre 1796 una prima, timida rinascita, mentre in seguito non sarebbero rimasti “sordi” al richiamo del Risorgimento. In tale ambito è doveroso ricordare Bene-detto Sanguinetti e Angelo Usiglio, i quali avrebbero sacrificato la vita rispettivamente nei moti del 1821 e nella congiura di Ciro Menotti, nel 1831. E fu proprio nel 1831, che durante la breve “Dittatura” di Biagio Nardi, agli ebrei Modenesi furono garantiti di nuovo i diritti civili, ivi compresi quelli di natura patrimoniale. Ben presto, purtroppo, tutto sarebbe stato reso vano, con il ritorno in città di Francesco IV. Cittadini normali, gli ebrei Modenesi lo sarebbero stati di nuovo nel corso del 1848, allorquando scoppiò l’ennesima rivoluzione, che però non ebbe gran vita. La ghettizzazione e il mancato riconoscimento dei diritti civili furono, quindi, al centro della politica restauratrice. Nel 1851, invece, nel momento in cui si decise di ripristinare il “Codice del 1771”, lo stesso con il quale, pur consentendo agli ebrei l’esercizio di tutte le arti e mestieri, se ne riordinava la ghettizzazione, il Duca Francesco V decise di approfittare del momento onde “lucrare” economicamente ai danni della stessa storica Comunità. Ebbene, la circolare n. 22 del 26 novembre 1851 esordì già con una frase a dir poco “offensiva” e fuorviante. «Non convenendo aggregare ai Corpi delle Truppe di questi Stati individui che professano una Religione diversa dalla dominante, e dovendo per altra parte tutti i giovani abili alle armi concorrere a sostenere i pesi della Coscrizione Militare». Ma il vero paradosso fu rappresentato dai primi due articoli della stessa, dai quali appren-diamo che i soli Ebrei (e non quelli di altre Confessioni, le quali non vengono affatto citate) sarebbero stati esentati dall’obbligo di prestare il servizio di leva tra le Truppe attive degli Stati Estensi, così come non avrebbero potuto far parte della c.d. “Forza di Riserva”, quella cioè da mobilitare in caso di guerra. Al danno sarebbe seguita, come si accennava prima, la beffa, rappresentata dall’art. 2, il quale cita: «Le Comunità Ebraiche vengono invece tassate di Italiane £. 1500 per ogni Coscritto dovuto anche per le Coscrizioni antecedenti. La somma si riscuote in fine d’ogni anno dalla R. Finanza, e viene versata nella Cassa del Supremo Comando Militare per oggetti di Coscrizione». Gli ebrei Modenesi, a causa di quell’assurda “Legge razziale” (a quel punto varata solo per loro) non avrebbero, quindi, avuto l’onore di vestire le uniformi di quello Stato nel quale vivevano e operavano da secoli, a differenza di quanto aveva disposto il Re di Sardegna con la Legge d’emancipazione del 19 giugno 1848, ma, al contrario, avrebbero do-vuto sostenere economicamente il Comando Supremo, quasi fosse un obbligo per via della sicurezza che giocoforza i militari garantivano anche alla Comunità stessa. Gli ebrei Modenesi avrebbero finalmente riconquistato la libertà nel corso del 1859, allorquando anche quel vec-chio Dominio passò al Regno di Sardegna. A cancellare “per sempre” (almeno si sperava allora) quelle assurde leggi speciali fu lo stesso Dittatore Carlo Luigi Farini, nominato Governatore delle Provincie Mo-denesi, il quale estese a quei territori proprio la Legge Sarda del 1848. Dal ’59 in avanti, gli ebrei di Modena avrebbero indossato - e molti lo fecero con grande valore già nel corso della 3^ Guerra d’Indipendenza (1866) - le varie uniformi nazionali, non immaginando certamente che, un’ottantina dopo, un Re appartenente a quella stessa Dinastia cui era appartenuto Re Carlo Alberto avrebbe firmato ben altre “Leggi”, le quali purtroppo sarebbero andate ben oltre il semplice divieto di prestare il servizio militare. Ma questa è un’altra storia…Magg. Gerardo Severino, Direttore del Museo Storico della Guardia di Finanza

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La posta dei lettori

La Memoria si fa nelle scuoleIn queste settimane e, forse, per molto tempo, le scuole e le università resteranno chiuse. Le attività saranno garantite da lezioni online e da tutti i supporti che possono essere messi in campo dal mondo dell’informatica. Per questo vale la pena ricordare il lavoro di quanti, con grande impegno, si dedicano alla trasmissione del sapere e alla formazione dei nostri studenti. Poco prima che gran parte del mondo fosse messo in ginocchio dal Coronavirus, in molte scuole è stata ce-lebrata la giornata della memoria. Le iniziative si sono moltiplicate, spesso in maniera originale e sono state messe in campo, competenza e passione. A questo proposito vorrei parlare delle attività organizzate da una insegnante di un Istituto di Istruzione Superiore di Pomezia, la professoressa Deborah D’Auria che da anni è impegnata sul terreno della ricerca e dello studio sull'ebraismo. Si tratta di una docente la cui formazione si presenta come un presidio delle attività legate anche alla memoria.I suoi interessi nascono negli anni degli studi universitari in cui deter-minante è stato l’incontro con un docente dell’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, il prof. Ottavio Di Grazia, studioso del mondo ebraico. In quegli anni riceve la prima formazione sulle tematiche legate all'ebraismo e alla Shoah; formazione che prosegue, successivamente con l’attività di assistente dello stesso docente che ne segue gli sviluppi, prima con la tesi di laurea dedicata al pensiero di Franz Rosenzweig. D’Auria, non solo segue propri itinerari di ricerca, ma quanto appreso diventa patrimonio che spende nelle sue attivi-tà legate alla vita dell’UCEBI (Unione Cristiana Evangelica Battista d'Italia), in cui ricopre ruoli importanti (è Presidente del Movimento Femminile Evangelico Battista dal 2008 al 2014; dal 2014 a tutt'oggi è Membro della Commissione Storica Permanente dell'UCEBI) e svolge una incessante testimonianza sui temi del dialogo, della diversità di genere, dell'Educazione dei fanciulli (dal 2006 al 2018 è membro della redazione del SIE – Servizio Istruzione Educazione della Fede-razione delle Chiese Evangeliche Italiane, in qualità di referente per la Didattica).Negli anni i suoi studi si arricchiscono seguendo uno dei corsi sulla tradizione ebraica tenuti da Rav Roberto Della Rocca alla Pontificia Università Gregoriana di Roma e consegue il Master in “Didattica della Shoah” promosso dal Prof. David Meghnagi presso l’Università degli Studi Roma TRE. Si aggiungono le esperienze formative e di ricerca fatte allo Yad Vashem di Gerusalemme e al Mémorial de la Shoah a Parigi e a Berlino.Tutto questo patrimonio di studi e conoscenze sono stati riversati nella sua attività didattica e negli incarichi svolti e che svolge come responsabile dei progetti della memoria della Shoah in ogni scuola in cui ha lavorato. Proprio a Pomezia, città nella quale vive stabilmente da 4 anni, ha organizzato incontri con Piero Terracina, Susanne Ruth Raweh, Ga-briele Sonnino, Roberto Matatia. Il tutto con la consapevolezza che la ricerca sulla Shoah non possa e non debba esaurirsi il 27 gennaio di ogni anno con il rischio di ridurre questa giornata a uno sterile rituale. Invece deve essere chiaro, e per la D’Auria lo è, che si tratta di un impegno di tutto l’anno visti gli inestricabili intrecci che storia e memoria hanno con il nostro passato ma, soprattutto con il nostro presente fatto ancora di antisemitismo e razzismo.Da questo punto di vista parte fondamentale del progetto di quest’anno sono state una serie di attività organizzate con la collaborazione e la partecipazione della Comunità Ebraica di Roma, il Dipartimento dei Beni e Attività Culturali della Comunità Ebraica di Roma e la Fondazione Museo della Shoah di Roma rivolti ai docenti, agli alunni e al territorio tutto e che ha avuto un momento centrale in un ultimo incontro tenuto agli inizi di febbraio balzato agli “onori della cronaca” per le scritte antisemite apposte sui muri della scuola.La sensibilità didattica ha avuto un momento felice e coraggioso nella composizione di haiku dedicati alla Shoah, fatta insieme agli studenti dell’istituto dove insegna. Malgrado la deprecabile realtà e situazione critica in cui vivono da anni le scuole e le Università in Italia, a causa della mancata prepara-zione dei docenti, della mediocrità di alcuni Dirigenti Scolastici spesso latitanti, esistono realtà coraggiose e temerarie, isole che contribui-scono al miglioramento e alla formazione delle nuove generazioni. Il futuro della conoscenza e dell'impegno in Italia ha un nome, a pieno

titolo, per merito e per la tenacia con cui lottano gli operatori che pur privati degli strumenti scientifici e culturali sono la scuola e l'intel-ligenza dell'Italia di oggi. Grazie a Deborah D'Auria, Ottavio Di Grazia, Rav Roberto Della Rocca, David Meghnagi, Claudio Procaccia, Silvia Haia Antonucci, Massimo Finzi Assessore alla Memoria della CER, Gabriella Franzone, Milena Pavoncello Coordinatrice delle Scuole Ebraiche di Roma, Francesca Caruso di Formia e tanti altri insegnanti e studiosi. Questa è la ge-nerazioe dei testimoni di Primo Levi. Ringrazio la Presidente della CER Ruth Dureghello, per la immancabile presenza a Pomezia davanti alle ingiurie dei fascisti e dei razzisti lanciati sui muri delle nostre scuole.Georges de Canino

Giornata della Memoria: un recital musicale per non dimenticareSono Sergio Fornari giovane della comunità ebraica di Ancona, e in più iscritto/socio, da tanti anni, del gruppo danze popolari folkloristiche tradizionali: "Danzintondo" (specializzato soprattutto nelle danze ebraiche-israeliane) di Morro d'Alba (AN). Nell'ambito delle celebra-zioni per la Giornata della Memoria di quest'anno, questo mio gruppo di ballo, sopra menzionato, ha organizzato un recital per non dimen-ticare la Shoah, denominato "Musica per la vita", in collaborazione con la Corale "Santa Lucia" di Jesi. Questo recital, che ha riscosso veramente molto successo, è andato in scena sia al teatro Pergolesi di Jesi domenica 2 febbraio alle 17,30, che anche il venerdì 14 febbra-io al teatro "Valle" di Chiaravalle alle 21,30. Una rappresentazione teatrale molto intensa, " forte" e commovente dove si sono alternati, sul palco del teatro, la corale, (con canti e recitazione) ed il gruppo "Danzintondo", (con i balli/danze ebraiche). Un'ora e mezza di danze, musiche ebraiche, e recitazioni, che hanno "preso" e commosso molto il pubblico presente in sala (gremita come non si era mai vista). Sono stati eseguiti brani come: la "Hatikvà", "Mizmor le David", Hava nagila", "Dona-dona", "Nigul shell yossi", "Tzadik katamar", ed il celebre tema da "Schindler List" nonchè "Life is beautiful". Sul palco quindi, si son alternati gli interpreti che hanno rappresentato Anna Frank, Primo Levi, Liliana Segre, ecc... all'interno di un ipotetico campo di concen-tramento, e questa recitazione era così intervallata dalle danze e dai brani eseguiti con voce solista, fisarmonica e sassofono. Veramente un recital molto toccante, ben interpretato e recitato. Quasi due ore di toccante narrazione e sonorità tipiche ebraiche, che son piaciute molto al pubblico presente, ed alla delegazione della comunità ebraica di Ancona, anche questa presente. Io anche, come ebreo, sono rimasto molto colpito e commosso da questa rappresentazione, ben eseguita, del mio gruppo di danza e dalla corale "Santa Lucia". Sicuramente il prossimo anno, ci sarò io sul palco del teatro a danzare le coreografie molto emozionanti e commoventi..... Un saluto da Ancona. Sergio Fornari

Auguri a Sami ModianoA Sami Modiano auguri affettuosi per il novantesimo compleanno e congratulazioni per l’onorificenza ricevuta dal Presidente della Repub-blica, coronamento di un impegno incessante nell’affermare il valore della vita e dei diritti umani.Auguri per 90 anni meravigliosi, per la vitalità e la capacità di cogliere e raccontare la bellezza della vita; 90 anni di terribili ricordi che hanno donato a tutti coloro che l’hanno ascoltato un coinvolgimento emotivo raro ed indimenticabile.Ringraziamo Sami per la collaborazione di tanti anni con la nostra associazione, di cui, insieme a Selma, è socio onorario e per averci comunicato una grande forza, ogni volta che l'abbiamo ascoltato.Grazie per tutto ciò che continuerà a fare negli anni a venire, anche in nome di Piero Terracina, amato come un fratello, che resta sempre nel profondo dei nostri cuori.Progetto Memoria continuerà a fornire tutto il supporto necessario affinche Sami possa continuare nell'opera di narrazione e trasmissio-ne della memoria, soprattutto nelle scuole, superando le difficoltà che si prospettano nell'attuale situazione di epidemia, che ci auguriamo sarà sconfitta al più presto. Associazione Progetto Memoria

BANDO PER L’ATTRIBUZIONE DI BORSE DI STUDIO PER LA FREQUENZA ALLE SCUOLE DELLA COMUNITÀ EBRAICA DI ROMAAssociazione ‘Elie Mimmo Fadlun Onlus’Anno Scolastico 2020-2021

Art. 1- Numero dei sussidi scolastici erogabiliLa Associazione ‘ELIE MIMMO FADLUN ONLUS’, per l’anno 2020-2021, erogherà borse di studio per la frequenza alle Scuole ‘Vittorio Polacco’, ‘Angelo Sacerdoti’ e ‘Renzo Levi’ per studenti meritevoli. Suddette borse di studio hanno valore solo e unicamente per l’anno scolastico in corso e non potranno essere utilizzate per saldare precedenti irregolarità nei pagamenti.

Qualora ci fosse parità di punteggio tra più richiedenti, la commissione distribuirà suddette borse di studio secondo criteri da lei determinati

Art. 2- Termini e modalità di presentazione delle domandeAl fine di ottenere dette borse di studio per l’anno scolastico 2020-2021, gli interessati dovranno far pervenire domanda ENTRO IL 15 SETTEMBRE 2020, a COMUNITÀ EBRAICA DI ROMA ‘BANDO BORSE DI STUDIO ASSOCIAZIONE ELIE MIMMO FADLUN ONLUS’ Largo Stefano Gaj Tachè (Sinagoga) 00186 Roma o [email protected], allegando i seguenti documenti:- domanda di partecipazione;- fotocopia dei documenti dei genitori;- certificato di profitto;- dichiarazione ISEE riferita all’anno 2019;- ogni altro documento considerato utile ai fini della valuta-zione della domanda (diplomi o attestazioni di merito dello studente).

Art. 3 - Esclusione dalla presentazione delle domandeNon saranno accettate le domande che verranno presentate oltre i termini o prive della prescritta documentazione.

Il testo completo del bando può essere visionato sul sito delle Scuole ebraiche www.scuolaebraica.it

Per info [email protected]

COMUNITÀ EBRAICA DI ROMABORSE DI STUDIO “EUGENIO E SILVIA ELFER”BANDO DI GARA 2020/2021

La Comunità Ebraica di Roma, nell’ambito delle finalità indi-cate dalla Signora Elisa Deutsch Elfer z.l. in ricordo dei figli Eugenio e Silvia caduti nella lotta al nazifascismo, bandisce le seguenti borse di studio:- n. 4 borse di studio di € 800,00 ciascuna a studenti della Scuola primaria ebraica “Vittorio Polacco” che risultino meri-tevoli e attestino la necessità di sostegno economico agli studi.- n. 4 borse di studio di € 800,00 ciascuna a studenti della Scuola ebraica secondaria di primo grado “Angelo Sacerdoti” che risultino meritevoli e attestino la necessità di sostegno economico agli studi.- n. 3 borse di studio di € 800,00 ciascuna a studenti della Scuola ebraica secondaria di secondo grado “Renzo Levi” che risultino meritevoli e attestino la necessità di sostegno economico agli studi.- n. 3 borse di studio di € 1.400,00 ciascuna agli iscritti della Comunità Ebraica di Roma che abbiano riportato risultati eccellenti nel conseguimento del diploma di maturità. Dette borse sono finalizzate all’immatricolazione agli studi univer-sitari in Italia e all’estero.

I vincitori delle borse di studio saranno premiati durante l’anno scolastico con cerimonia da tenersi in una sede comu-nitaria, durante la quale saranno ricordati Eugenio e Silvia Elfer e saranno consegnate ai premiati targhe ed attestati che rechino la dicitura “in ricordo di Eugenio e Silvia Elfer, combattenti per la libertà”.Le borse non sono cumulabili con altri premi o incentivi fina-lizzati allo stesso scopo. La commissione si riserva la facoltà di verificare quanto su indicato.Le domande, corredate di certificato di profitto, da una let-tera attestante la complessiva buona condotta dello studente rilasciata dalla scuola e da un modello ISEE per gli iscritti alle scuole di primo e secondo grado, dovranno pervenire entro il 15 settembre 2020Gli studenti delle scuole superiori che si iscriveranno all’univer-sità dovranno presentare copia del diploma di maturità ed una lettera di uno dei docenti attestante le qualità del candidato.

Le domande dovranno pervenire al seguente indirizzo:Comunità Ebraica di Roma - Borse di studio ElferLargo Stefano Gaj Tachè (Sinagoga) 00186 ROMAo [email protected]

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S H A L O M M A G A Z I N E 4544

D O V E E Q U A N D OD O V E E Q U A N D O

M A G G I O - G I U G N O - L U G L I O 2 0 2 0

CI HANNO LASCIATOAnselmo Calò 12/06/1954 - 15/03/2020Olimpia Del Monte in Di Capua 02/03/1949 - 26/04/2020Paola Della Seta Della Seta 11/01/1937 - 05/04/2020Marcello Dell’Ariccia 10/09/1933 - 10/03/2020Marisa Di Consiglio in Camilli 09/11/1940 - 04/03/2020Franco Di Cori 06/05/1937 - 28/03/2020Adriana Di Gioacchino ved. Padovani 18/05/1926 - 21/03/2020Camilla Di Porto ved. Di Castro 06/12/1932 - 03/05/2020Sergio Di Porto 22/11/1928 - 16/03/2020Rosa Efrati in Di Battista 13/10/1952 - 20/05/2020Gaia Franchetti 20/02/1956 - 26/02/2020Giuseppe Fuà 23/10/1932 - 07/04/2020Rubin Kol 05/08/1938 - 11/05/2020Scialom Leghziel 02/03/1927 - 12/03/2020Donatella Limentani ved. Pavoncello 09/12/1928 - 07/03/2020Alberto Mieli 15/12/1949 - 16/05/2020Fiorella Misano 23/03/1930 - 22/03/2020Raffaele Pace 22/05/1937 - 24/05/2020Maria Panzieri in Innocenti 24/01/1930 - 23/04/2020Alexia Pavoncello 23/11/1977 - 17/04/2020Ester Piattelli 24/07/1921 - 29/03/2020Enrica Piperno ved. Volterra 04/05/1938 - 18/03/2020Paola, Rosa Polacco in Citoni 12/01/1945 - 06/03/2020Elena Racalbuto 22/08/1956 - 18/05/2020Marcello Raccah 19/02/1927 - 08/04/2020Umberto Sabbadini 13/07/1925 - 08/03/2020Ermano Sermoneta 24/12/1936 - 11/04/2020Brunella Sonnino 12/10/1941 - 05/04/2020Clelia Sonnino in Terracina 06/06/1945 - 28/04/2020Giuseppe Varon 25/11/1926 - 03/03/2020Cesare Anticoli 17/05/1928 - 27/05/2020Rachele Bondì 20/05/1934 - 05/07/2020Dario Cingolani 19/10/1960 - 15/06/2020Celeste Di Porto ved. Ascoli 28/06/1936 - 17/06/2020Ugo Di Veroli 21/12/1948 - 28/06/2020Lazzaro Mieli 22/02/1936 - 29/06/2020Emma Moresco ved. Di Nepi 21/11/1928 - 17/06/2020Paola Moscati in Fellah 12/03/1940 - 08/06/2020Silvana Perugia ved. Di Segni 04/03/1930 - 21/06/2020Giorgio Procaccia 27/04/1930 - 21/06/2020Giuseppe Sonnino 28/06/1948 - 31/05/2020Rosa, Rachele Tolentino ved. Panizzi 03/06/1925 - 27/06/2020Franca Vivanti ved. Sermoneta 01/10/1931 - 26/06/2020Clara Gloria Volterra ved. Vitta 02/08/1932 - 03/06/2020

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Mazal Tov a Gianni Spizzichino, mashghiah della Cer e a Giordana Limentani, insegnante della scuola ebraica, per la nascita di Rebecca e Samuel.

I migliori auguri ad Andrea Piperno e Ronit Chaim, collaboratrice presso la Deputazione ebraica, per la nascita di Yosef.

Mazal tov a Gabriele Di Segni e ad Alessandra Limentani per il loro matrimonio. Auguri alla famiglia, in particolare al padre dello sposo il Rabbino Capo Riccardo Di Segni.

Auguri

Il Presidente della Deputazione Ebraica Piero Bonfiglioli desidera comunicare di aver ricevuto da un donatore una generosa offerta fatta in memoria di Rav Cesare Eliseo e sua moglie Enrica Z”L destinata all’acquisto di beni alimentari per le famiglie in difficoltà della nostra keillà. Grazie di cuore al nostro sostenitore e Tizku’ Lemizvoth

Il Presidente della Deputazione Ebraica Piero Bonfiglioli ed il Consiglio desiderano ringraziare calorosamente Simonetta e Daniela Di Cori che in memoria del caro papà Bruno hanno offerto una donazione per l’acquisto di beni alimentari per le famiglie in difficoltà della nostra Keilla’, in occasione della Festa di Pesach.

Che il ricordo di Bruno Z”L, grande benefattore dell’Ente, sia di benedetta memoria.

Annunci deputazione

MatrimoniIzik Mimun - Clemy Raccah Ruben Ben - Ammi Benigno - Allegra SegrèMarco Del Monte - Elinor HanukaGabriele, Meir Di Segni - Alessandra LimentaniIsac Halfon - Ester BrahaFabrizio Pavoncello - Sharon Spizzichino

Sempre pe’ questo ce se venga. . .PARTECIPAZIONI - MISHMAROT - BIRCHONIM VIA GIUSEPPE VERONESE, 22 - TEL: 06.55302798

Bar/Bat MitzvàFlavia Perugia di David e Brunella CutellèDavid Luzon di Alessandro e Manuela LimentaniYael Luna Gelibter di Alain Jonathan e Susanna Di SegniSamuel Zarfati di Andrea e Giordana ZarfatiLior Sonnino di Massimo e Emilia GentiliMichelle Frig di Gabriele e Serena RussoLeah Del Monte di Emanuele e Mirjam Del MonteMaggie Moresco di Giorgio z.l. e Giorgia SpagnolettoAndrea Zarfati di Alessandro e Federica MorescoMicol Gaia Ricci di Massimo e Alessia TagliacozzoLilian Soliani di Giovanni e Irina ZelenkoDavide Meli di Vincenzo e Tedeschi ClaudiaTali Di Capua di Settimio e Gabriella ChaimGiulia Misano di Manuel e Ester PavoncelloSara Mele di Luciano e Federica PipernoMia Di Segni di Angelo e Micol Piperno

NasciteMichelle, Sara Alesi di Giuliano e Emilia Di CoriMattia, Alberto Davide Anticoli di Devid e Valentina SermonetaEdoardo, David Di Napoli di Alessandro e Giorgia Della RoccaRachel, Ester Sed di Fabio, Josef e Micaela Di PortoGhila Terracina di Andrea, Shabbatai e Sara MorescoDaniel, Jaacov Umberto Raccah di Stephen e Aurora MeminiajAdam Di Veroli di Daniel e Dayana MieliLea Palazzi Ruben di Leonardo e Federica Liza RubenBen Sion Calò di David e Arianna Della RoccaLudovica Rivkà Di Porto di Daniel e Giada AscoliBenjamin Di Segni di Fabrizio e Dayana PavoncelloEdoardo, Mattiah Di Veroli di David e Ludovica GabriottiElisa, Elisheba Monteleoni di Stefano e Ines Di NerisClotilde, Regina (Malka) di Leone e Sofia PipernoRebecca Spizzichino di Giacomo e Giordana LimentaniSamuel Spizzichino di Giacomo e Giordana LimentaniYosef, Chaim Piperno di Andrea e Ronit ChaimGrace, Noa Pontecorvo di Gianluca e Sharon Piazza SedSamuel Di Segni di Simone e Valentina FunaroRinnah Tamar Gerbi di David Issachar e Jessic Gheula Babusc

Seguite la pagina Facebook Centro di Cultura Ebraica - Roma e l'account Instagram @centrodiculturaebraica per conoscere tutti gli aggiornamenti!Inizieranno con il nuovo anno i corsi di ebraico:- ebraico moderno a vari livelli e in diverse fasce orarie con la dott.ssa Alumà Mieli, insegnante madrelingua - ebraico biblico con lettura del testo attraverso le radici delle parole con la dott.ssa Hora AboafScrivi a [email protected] per tutte le info!

I più sentiti ringraziamenti a tutti gli invitati alle nozze di diamante dei Signori Cesare Mieli e Ornella Della Torre, avvenute il 28/06/2020, che per l'occasione hanno donato alla scuole le offerte ricevute per realizzare alcune borse di studio per il prossimo anno scolastico.

Shabbat shalom

Tempio dei Giovani ore 12.00 commento alla ParashàPomeriggio: Seudah Shelishit

Parashà: DevarimShabbat Chazon

VENERDÌ 24/07Nerot Shabbat: ore 20.17

SABATO 25/07Mozè Shabbath: 21.19

Parashà: VaetchannanShabbat Nachamù

VENERDÌ 31/07Nerot Shabbat: ore 20.10

SABATO 01/08Mozè Shabbath: 21.12

Parashà: EqevVENERDÌ 07/08

Nerot Shabbat: ore 20.01SABATO 08/08

Mozè Shabbath: 21.03

Parashà: ReèhVENERDÌ 14/08

Nerot Shabbat: ore 19.52SABATO 15/08

Mozè Shabbath: 20.53

Parashà: ShofetimVENERDÌ 21/08

Nerot Shabbat: ore 19.41SABATO 22/08

Mozè Shabbath: 20.43

Parashà: Ki TetzèVENERDÌ 28/08

Nerot Shabbat: ore 19.30SABATO 29/08

Mozè Shabbath: 20.31

Parashà: Ki tavòVENERDÌ 04/09

Nerot Shabbat: ore 19.18SABATO 05/09

Mozè Shabbath: 20.20

Parashà: NitzavimVayelekh

VENERDÌ 11/09Nerot Shabbat: ore 19.06

SABATO 12/09Mozè Shabbath: 20.08

1 VERSO CASA di A.Inbari ed. Giuntina

2 KADDISH.COM di N.Englander ed. Einaudi

3 E LA SPOSA CHIUSE LA PORTA di R.Matalon ed. Giuntina

4 L’OMBRA DEL NEMICO di M.Serafini ed. Solferino

5 LA PROMESSA DI UN’ESTATE di M.Levy ed. Rizzoli

6 IL RESTO È INTERPRETAZIONE di U.Volli ed. Belforte

7 VOGLIO SAPPIATE CHE CI SIAMO ANCORA di E.S.Foer ed. Guanda

8 LIBIA EBRAICA di Roumani, Meghnagi, Roumani

9 IL MIO GIARDINO SELVAGGIO di M.Shalev ed. Bompiani

10 IL NONNO CHE AGGIUSTA I SOGNI di U.Orlev ed. Feltrinelli

La top ten della libreriaKiryat Sefer

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L’ A L T R A C O P E R T I N A

47M A G G I O - G I U G N O - L U G L I O 2 0 2 0S H A L O M M A G A Z I N E46

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PROGETTIIl Keren Hayesod ha a cuore diversi progetti tra i quali quelli per gli Anziani e i sopravvissuti alla Shoah, sostegno negli ospedali, bambini disabili, sviluppo di energie alternative, futuro dei giovani, sicurezza e soccorso, restauro del patrimonio nazionale, sviluppo del Negev e del sud del paese, programmi informatici per il recupero dei giovani a rischio.Progetti delicati, dedicati, duratori nel tempo di cui sei l’artefi ce.

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