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IL FILEBO DI PLATONE 1. L’occasione del Filebo Nel Filebo Platone torna ancora una volta a trattare il problema del piacere, di quella affezione dell’anima umana che nel Protagora era stata definita dalla comune opinione come ‘il bene’ e come la forza a cui non è possibile sottrarsi od opporsi. 1 Il problema era stato, e sarà ancora, il sottofondo di molti dialoghi platonici, oltre che essere oggetto di esplicita trattazione. 2 Del resto, non poteva essere diversamente se Platone stesso lo considerava uno dei due principi a cui sempre soggiacciamo: «Bisogna, procedendo, – afferma Socrate nel Fedro – considerare che in ognuno di noi vi sono due tipi di princìpi che ci governano e ci guidano, che noi seguiamo dovunque ci menino: l’uno è un innato desiderio di piaceri, l’altro, invece, è l’opinione acquisita che aspira all’ottimo.» 3 Due principi, dunque, che si contrappongono con tendenze miranti ad obbiettivi diversi, come diverse sono le loro radici nell’anima (identico e diverso), secondo la descrizione fatta nel Timeo. L’anima infatti, come meglio vedremo, si caratterizza per l’unione di due elementi opposti che permettono di cogliere l’identità e la diversità di tutto ciò che è di ordine sensibile e di ordine intellegibile: del divenire e dell’essere ad ogni livello; e proprio la superiorità dell’essere, dell’intellegibile, dell’identico rispettivamente sul divenire, sul sensibile, sul diverso, costituisce il carattere saliente della filosofia platonica. Nel passo del Fedro noi cogliamo la distinzione che emergerà anche nel Filebo: il Bene («l’ottimo») è superiore rispetto al piacere e alla stessa intelligenza (l’«opinione acquisita»), ma è quest’ultima ad avvicinarsi maggiormente («aspira») al Bene. C’è, sì, un amore per il corpo, riconosce Socrate a Fedro, ma in questo caso l’amante ama l’amato «come i lupi aman gli agnelli»; mentre l’amore per l’anima fa rispuntare quelle ali che la riconducono presso gli dèi da cui è derivata, secondo il mito della ‘biga alata’. 4 La trattazione di questo doppio amore era stata condotta nel Fedro con tale vis rethorica che pareva concludere definitivamente il discorso con la condanna del piacere sensuale senza possibilità d’appello. Eppure, Platone torna sul problema del piacere. L’occasione della nuova trattazione è data con molta probabilità dal convincimento di un giovane dell’Accademia, che nel dialogo è presentato come «il bel Filebo», 5 il quale, non convinto delle posizioni platoniche a riguardo, ha avanzato la tesi che «bene per tutti gli animali viventi è la gioia e il piacere e la dolcezza del godimento». 6 Ne dovette nascere una discussione tra i condiscepoli, protratta per qualche tempo, e sfociata in una contrapposizione di opinioni: da una parte ‘Filebo’, a cui si affianca ‘Protarco’, dall’altra più o meno il resto dei giovani, a nome dei quali e di se stesso Platone parla del «discorso nostro», aggiungendo poco dopo: «Non sono così presso a poco, Filebo, i discorsi che facciamo tu da una parte e noi dall’altra?» 7 Chiamato, come cerchiamo di sostenere, dal gruppo dei suoi giovani allievi, Platone affronta dunque nuovamente il tema del piacere, facendo chiedere a Socrate se Protarco è deciso a prendere le difese di Filebo. Alla tesi di Filebo Socrate contrappone quella della superiorità dell’intelligenza, della conoscenza, come Platone aveva sempre fatto trattando altre tematiche, come ad esempio quella della retorica, dell’ingiustizia, dell’eristica, ecc.; ma in questo nuovo impegno il problema si rinnova. È da tener presente che Platone, il quale tende a non ripetersi e a considerare acquisito quanto da lui scritto in precedenza, torna ad affrontare il problema non tanto nell’immediata contrapposizione dialettica dei termini piacere-dolore, bene-male, che pure mantiene secondo l’impostazione usata in altre occasioni, quanto piuttosto cercando di dar luogo ad un approfondimento attraverso il suo innesto nella più profonda problematica dell’uno e dei molti, e in quella del Bene in se stesso, di cui nella Politeia si era rifiutato di trattare. 8 Neppure nel Filebo tuttavia Platone, giunto alla fine della trattazione, proporrà la definizione del Bene, accontentandosi piuttosto di presentarlo attraverso tre termini, come vedremo. Vi erano più ragioni che sollecitavano Platone ad affrontare assieme il problema del piacere e quello del bene, anzi a partire dalla diffusa opinione che essi si identifichino, e che forse avevano dato luogo ad una contrapposizione di opinioni: vi era stato il completo fallimento dei suoi due viaggi a Siracusa presso Dionisio il Giovane (367; 361-360), e poco dopo il fallimento delle lezioni pubbliche sul Bene, da lui tenute probabilmente per manifestare quali difficoltà comportasse la comprensione del bene in se stesso, per ciascun essere e per l’agire umano. Ma proprio per questo quelle lezioni non potevano essere state realmente volte a mostrare in che modo si dovesse pensare il Bene: questo non l’aveva fatto neppure all’interno del ben più raccolto ambiente dell’Accademia, né lo farà in seguito, come scrive espressamente nel Timeo. «Ora dunque ecco quello che noi ci proponiamo di fare: intorno al principio di tutte le cose o ai princìpi o comunque si pensi di questo, non si deve parlare per ora, e non per nessun’altra ragione, ma perché è difficile manifestare con questo metodo di discussione il nostro pensiero. Non crediate dunque che io abbia a parlarvene, e neppure io potrei persuadermi che farei bene ad assumere tale cómpito.» 9 L’intento di Platone doveva essere quello di metterne a fuoco il problema, spingendolo fino ad un livello matematico per renderlo sufficientemente elevato, e nello stesso tempo rendersi conto se tra quel vasto pubblico ci fosse qualche giovane «dotato di natura divina», capace di seguirlo veramente fino al vertice della speculazione. Che questo debba essere stato il suo intento è avvalorato da quanto scrive in una pagina della Lettera VII. Ora, v’è un modo non affatto volgare per fare questa prova, ma veramente opportuno quando s’ha a che fare con tiranni, soprattutto quando sono imbevuti di formole imparate: ed era appunto questo il caso di Dionisio, come sùbito m’accorsi. A questa gente bisogna mostrare che cos’è davvero lo studio filosofico, e quante difficoltà presenta, e quanta fatica comporta. Allora, se colui che ascolta è dotato di natura divina 1 «Ad ogni modo – afferma Socrate – sai che la maggior parte degli uomini non crede né a me né a te; dicono, anzi, che, pur conoscendo il meglio e potendolo seguire, non lo vogliono, ma agiscono in tutt’altra maniera; e a quanti ho domandato quale ne sia la causa, hanno risposto che lo fanno perché sopraffatti o dal piacere o dal dolore o perché dominati da qualcun’altra di quelle azioni di cui dianzi parlavo.» Prot. 352 d. Tutte le citazioni platoniche sono tratte da Platone, Opere complete, Laterza, 1971. 2 V. Gorgia, Politeia, Convivio, Fedro, Leggi. 3 Phaedr. 237 d. 4 Phaedr. 241 c. Per il mito della ‘biga alata’, 245 c ss. 5 Phil. 11 c. 6 Phil. 11 b. 7 Phil. 11 a; c. 8 Dice Socrate ai suoi interlocutori in questo dialogo: «Sù, benedetti amici, lasciamo stare per il momento che cosa sia mai il bene in sé: mi sembra una cosa troppo alta perché possiamo raggiungere ora, con lo slancio presente, il concetto che ne ho io.» Resp. VI 506 d. 9 Tim. 48 c.

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IL FILEBO DI PLATONE

1. L’occasione del Filebo Nel Filebo Platone torna ancora una volta a trattare il problema del piacere, di quella affezione dell’anima umana che nel

Protagora era stata definita dalla comune opinione come ‘il bene’ e come la forza a cui non è possibile sottrarsi od opporsi.1 Il problema era stato, e sarà ancora, il sottofondo di molti dialoghi platonici, oltre che essere oggetto di esplicita trattazione.2 Del resto, non poteva essere diversamente se Platone stesso lo considerava uno dei due principi a cui sempre soggiacciamo: «Bisogna, procedendo, – afferma Socrate nel Fedro – considerare che in ognuno di noi vi sono due tipi di princìpi che ci governano e ci guidano, che noi seguiamo dovunque ci menino: l’uno è un innato desiderio di piaceri, l’altro, invece, è l’opinione acquisita che aspira all’ottimo.»3

Due principi, dunque, che si contrappongono con tendenze miranti ad obbiettivi diversi, come diverse sono le loro radici nell’anima (identico e diverso), secondo la descrizione fatta nel Timeo. L’anima infatti, come meglio vedremo, si caratterizza per l’unione di due elementi opposti che permettono di cogliere l’identità e la diversità di tutto ciò che è di ordine sensibile e di ordine intellegibile: del divenire e dell’essere ad ogni livello; e proprio la superiorità dell’essere, dell’intellegibile, dell’identico rispettivamente sul divenire, sul sensibile, sul diverso, costituisce il carattere saliente della filosofia platonica.

Nel passo del Fedro noi cogliamo la distinzione che emergerà anche nel Filebo: il Bene («l’ottimo») è superiore rispetto al piacere e alla stessa intelligenza (l’«opinione acquisita»), ma è quest’ultima ad avvicinarsi maggiormente («aspira») al Bene. C’è, sì, un amore per il corpo, riconosce Socrate a Fedro, ma in questo caso l’amante ama l’amato «come i lupi aman gli agnelli»; mentre l’amore per l’anima fa rispuntare quelle ali che la riconducono presso gli dèi da cui è derivata, secondo il mito della ‘biga alata’.4 La trattazione di questo doppio amore era stata condotta nel Fedro con tale vis rethorica che pareva concludere definitivamente il discorso con la condanna del piacere sensuale senza possibilità d’appello. Eppure, Platone torna sul problema del piacere.

L’occasione della nuova trattazione è data con molta probabilità dal convincimento di un giovane dell’Accademia, che nel dialogo è presentato come «il bel Filebo»,5 il quale, non convinto delle posizioni platoniche a riguardo, ha avanzato la tesi che «bene per tutti gli animali viventi è la gioia e il piacere e la dolcezza del godimento».6 Ne dovette nascere una discussione tra i condiscepoli, protratta per qualche tempo, e sfociata in una contrapposizione di opinioni: da una parte ‘Filebo’, a cui si affianca ‘Protarco’, dall’altra più o meno il resto dei giovani, a nome dei quali e di se stesso Platone parla del «discorso nostro», aggiungendo poco dopo: «Non sono così presso a poco, Filebo, i discorsi che facciamo tu da una parte e noi dall’altra?»7

Chiamato, come cerchiamo di sostenere, dal gruppo dei suoi giovani allievi, Platone affronta dunque nuovamente il tema del piacere, facendo chiedere a Socrate se Protarco è deciso a prendere le difese di Filebo. Alla tesi di Filebo Socrate contrappone quella della superiorità dell’intelligenza, della conoscenza, come Platone aveva sempre fatto trattando altre tematiche, come ad esempio quella della retorica, dell’ingiustizia, dell’eristica, ecc.; ma in questo nuovo impegno il problema si rinnova.

È da tener presente che Platone, il quale tende a non ripetersi e a considerare acquisito quanto da lui scritto in precedenza, torna ad affrontare il problema non tanto nell’immediata contrapposizione dialettica dei termini piacere-dolore, bene-male, che pure mantiene secondo l’impostazione usata in altre occasioni, quanto piuttosto cercando di dar luogo ad un approfondimento attraverso il suo innesto nella più profonda problematica dell’uno e dei molti, e in quella del Bene in se stesso, di cui nella Politeia si era rifiutato di trattare.8 Neppure nel Filebo tuttavia Platone, giunto alla fine della trattazione, proporrà la definizione del Bene, accontentandosi piuttosto di presentarlo attraverso tre termini, come vedremo.

Vi erano più ragioni che sollecitavano Platone ad affrontare assieme il problema del piacere e quello del bene, anzi a partire dalla diffusa opinione che essi si identifichino, e che forse avevano dato luogo ad una contrapposizione di opinioni: vi era stato il completo fallimento dei suoi due viaggi a Siracusa presso Dionisio il Giovane (367; 361-360), e poco dopo il fallimento delle lezioni pubbliche sul Bene, da lui tenute probabilmente per manifestare quali difficoltà comportasse la comprensione del bene in se stesso, per ciascun essere e per l’agire umano. Ma proprio per questo quelle lezioni non potevano essere state realmente volte a mostrare in che modo si dovesse pensare il Bene: questo non l’aveva fatto neppure all’interno del ben più raccolto ambiente dell’Accademia, né lo farà in seguito, come scrive espressamente nel Timeo. «Ora dunque ecco quello che noi ci proponiamo di fare: intorno al principio di tutte le cose o ai princìpi o comunque si pensi di questo, non si deve parlare per ora, e non per nessun’altra ragione, ma perché è difficile manifestare con questo metodo di discussione il nostro pensiero. Non crediate dunque che io abbia a parlarvene, e neppure io potrei persuadermi che farei bene ad assumere tale cómpito.»9

L’intento di Platone doveva essere quello di metterne a fuoco il problema, spingendolo fino ad un livello matematico per renderlo sufficientemente elevato, e nello stesso tempo rendersi conto se tra quel vasto pubblico ci fosse qualche giovane «dotato di natura divina», capace di seguirlo veramente fino al vertice della speculazione. Che questo debba essere stato il suo intento è avvalorato da quanto scrive in una pagina della Lettera VII.

Ora, v’è un modo non affatto volgare per fare questa prova, ma veramente opportuno quando s’ha a che fare con tiranni, soprattutto quando sono imbevuti di formole imparate: ed era appunto questo il caso di Dionisio, come sùbito m’accorsi. A questa gente bisogna mostrare che cos’è davvero lo studio filosofico, e quante difficoltà presenta, e quanta fatica comporta. Allora, se colui che ascolta è dotato di natura divina

1 «Ad ogni modo – afferma Socrate – sai che la maggior parte degli uomini non crede né a me né a te; dicono, anzi, che, pur conoscendo il meglio e potendolo

seguire, non lo vogliono, ma agiscono in tutt’altra maniera; e a quanti ho domandato quale ne sia la causa, hanno risposto che lo fanno perché sopraffatti o dal piacere o dal dolore o perché dominati da qualcun’altra di quelle azioni di cui dianzi parlavo.» Prot. 352 d. Tutte le citazioni platoniche sono tratte da Platone, Opere complete, Laterza, 1971.

2 V. Gorgia, Politeia, Convivio, Fedro, Leggi. 3 Phaedr. 237 d. 4 Phaedr. 241 c. Per il mito della ‘biga alata’, 245 c ss. 5 Phil. 11 c. 6 Phil. 11 b. 7 Phil. 11 a; c. 8 Dice Socrate ai suoi interlocutori in questo dialogo: «Sù, benedetti amici, lasciamo stare per il momento che cosa sia mai il bene in sé: mi sembra una cosa troppo

alta perché possiamo raggiungere ora, con lo slancio presente, il concetto che ne ho io.» Resp. VI 506 d. 9 Tim. 48 c.

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ed è veramente filosofo, congenere a questo studio e degno di esso, giudica che quella che gli è indicata sia una via meravigliosa, e che si deva fare ogni sforzo per seguirla, e non si possa vivere altrimenti. Quindi unisce i suoi sforzi con quelli della guida, e non desiste se prima non ha raggiunto completamente il fine, o non ha acquistato tanta forza da poter progredire da solo senza l’aiuto del maestro. Così vive e con questi pensieri, chi ama la filosofia: e continua bensì a dedicarsi alle sue occupazioni, ma si mantiene in ogni cosa e sempre fedele alla filosofia e a quel modo di vita quotidiana che meglio d’ogni altro lo può rendere intelligente, di buona memoria, capace di ragionare in piena padronanza di se stesso: il modo di vita contrario a questo, egli lo odia. Quelli invece che non sono veri filosofi, ma hanno soltanto una verniciatura di formole, come la gente abbronzata dal sole, vedendo quante cose si devono imparare, quante fatiche bisogna sopportare, come si convenga, a seguire tale studio, la vita regolata d’ogni giorno, giudicano che sia una cosa difficile e impossibile per loro; sono quindi incapaci di continuare a esercitarsi, ed alcuni si convincono di conoscere sufficientemente il tutto, e di non avere più bisogno di affaticarsi. Questa è la prova più limpida e sicura che si possa fare con chi vive nel lusso e non sa sopportare la fatica; sicché costoro non possono poi accusare il maestro, ma se stessi, se non riescono a fare tutto quello ch’è necessario per seguire lo studio filosofico. In questo modo parlai anche a Dionisio. Non gli spiegai ogni cosa, né, del resto, egli me lo chiese, perché presumeva di sapere e di possedere sufficientemente molte cognizioni, e anzi le più profonde, per quello che aveva udito dagli altri. In seguito, mi fu riferito, egli ha anche composto uno scritto su quanto allora ascoltò, e fa passare quello che ha scritto per roba sua, e non affatto come una ripetizione di quello che ha sentito; ma di questo io non so nulla. Anche altri, io so, hanno scritto di queste cose, ma chi essi siano, neppure essi sanno. Questo tuttavia io posso dire di tutti quelli che hanno scritto e scriveranno dicendo di conoscere ciò di cui io mi occupo per averlo sentito esporre o da me o da altri o per averlo scoperto essi stessi, che non capiscon nulla, a mio giudizio, di queste cose. Su di esse non c’è, né vi sarà, alcun mio scritto. Perché non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima. Questo tuttavia io so, che, se ne scrivessi o ne parlassi io stesso, queste cose le direi così come nessun altro saprebbe, e so anche che se fossero scritte male, molto me ne affliggerei. Se invece credessi che si dovessero scrivere e render note ai più in modo adeguato e si potessero comunicare, che cosa avrei potuto fare di più bello nella mia vita, che scriver queste cose utilissime per gli uomini, traendo alla luce per tutti la natura? Ma io non penso che tale occupazione, come si dice, sia giovevole a tutti; giova soltanto a quei pochi che da soli, dopo qualche indicazione, possono progredire fino in fondo alla ricerca: gli altri ne trarrebbero soltanto un ingiustificato disprezzo o una sciocca e superba presunzione, quasi avessero appreso qualche cosa di augusto.10 L’apprendimento dei principi della filosofia non è per Platone dunque un’operazione automatica, non è affatto identico a quello di

nozioni scientifiche, ma «nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima.» La presunzione di sapere già a sufficienza (il ‘credere di sapere’ contro cui combatte Socrate) e il fastidio di sottoporsi a una fatica non congenere lasciano l’individuo «non dotato di natura divina» nell’incapacità di giudicare «che quella che gli è indicata sia una via meravigliosa», e abbandona il maestro. Questo dovette accadere non solo al giovane tiranno di Siracusa, ma allo stesso Aristotele;11 questo accadde a tutti coloro che ascoltarono le lezioni sul Bene. Conosciamo la delusione generale che tali lezioni provocarono.

E le conversazioni non scritte di Platone fu proprio Aristotele a metterle per iscritto.12 [...] questo è ciò che provarono, secondo quanto era solito ripetere continuamente Aristotele, la maggior parte di coloro che avevano ascoltato la lettura delle lezioni di Platone Sul bene. Ciascuno infatti vi era andato supponendo che ne avrebbe ricavato uno di quelli che tra gli uomini sono ritenuti beni, come la ricchezza, la salute, la forza e, in generale, una qualche meravigliosa felicità. Ma quando apparve chiaro che i discorsi vertevano sulla matematica e sui numeri, sulla geometria e sull’astronomia, e culminavano nella tesi che uno è il bene, certamente, penso, ciascuno degli ascoltatori ebbe un’impressione di qualcosa di paradossale: e così alcuni disprezzarono quella trattazione, altri la criticarono.13 Aristotele, che è la fonte prima dell’aneddoto, e che probabilmente condivideva in quel tempo il giudizio espresso dai più, dovette

suscitare nell’Accademia un dibattito che lo andrà progressivamente allontanando da Platone, fino a sostituirsi a lui nell’influenza su alcuni suoi condiscepoli.

Si dice che la prima ribellione di Aristotele a Platone sia avvenuta in questa forma. Platone non approvava il suo modo di vivere né la cura che aveva per la sua persona; Aristotele si vestiva e si calzava infatti in maniera troppo raffinata, si tagliava i capelli in maniera per Platone inusitata, e, portando molti anelli, si pavoneggiava con essi; c’era mollezza nel suo aspetto, e la sua inopportuna chiacchera condannava anch’essa di per sé il suo comportamento. Che tutte queste cose non si addicano a un filosofo, è chiaro. Vedendo dunque tutto ciò Platone non lo amava, e gli preferiva Senocrate, Speusippo, Amicla e gli altri, degnandoli, insieme con altri atti di stima, soprattutto della partecipazione al dialogo con lui.14 L’aneddoto continua con la descrizione di come Aristotele riuscisse ad allontanare Platone, ormai ottantenne, dal suo abituale

luogo di lezioni e a insediarvisi per qualche tempo. Ma con questo siamo ormai alla totale rottura tra i due, quella che il testo riportato chiama «la prima ribellione», forse in rapporto all’abbandono definitivo dell’Accademia da parte di Aristotele. Se quella è pertanto un’aperta ribellione nei confronti dello Scolarca, quando Platone aveva circa ottant’anni e Aristotele circa trentasette, gli inizi del distacco e le relative manifestazioni si possono far risalire a diversi anni addietro. In questo periodo di tempo, Platone pare abbia fatto ogni sforzo per riportare Aristotele sulla via dell’insegnamento accademico. Scrivendo il Filebo, verisimilmente non era stato spinto soltanto dal fallimento dei suoi due viaggi presso Dionisio il Giovane e delle sue lezioni sul Bene, ma soprattutto dal tentativo forse estremo di ricuperare Aristotele, che continuava a non comprenderlo. Vediamo, sia pure per accenni, le ragioni di questa nostra ricostruzione.

Dopo il Filebo, la figura di Socrate nei dialoghi diventa secondaria (Sofista, Politico), e successivamente inoltre la forma letteraria si modifica, assumendo quella di trattazione continuata dopo un breve dialogo iniziale (Clitofonte, Timeo, Crizia), mentre negli ultimi

10 Epist. VII 340 b-341 e. Com’è noto, la lettera fu scritta dopo l’impresa siracusana di Dione e la sua morte. 11 Come ho cercato di dimostrare altrove, Platone ha scritto diversi dialoghi ‘dedicati’ ad Aristotele, i cui accenni di insofferenza e la successiva rottura nei

confronti di Platone sono registrati non solo dagli aneddoti che possediamo, ma dalla stessa scrittura platonica. V. R. Li Volsi, Sulla cronologia dei dialoghi di Platone, in Giornale di Metafisica, Nuova Serie, XXIII (2001) n. 2.

12 Philopon, In Aristot. phys. [C.A.G. XVII], p. 521, 9-15, in Aristotele, Opere, IX. Laterza, fr. 5 dello scritto perduto Del bene, p. 234. 13 Ivi, fr. 1 p. 232, Aristox., Harm. 2, p. 30, 16-31, 3 Macran. 14 Aelian., Varia Hist. III 19, in Senocrate-Ermodoro, Frammenti, Biblioposis, 1982, fr. 11, p. 170.

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dialoghi (Leggi, Epinomide) Socrate non compare neppure più.15 Di questi dialoghi per il nostro discorso ci interessano il Clitofonte e il Timeo: nel primo il protagonista dichiara la propria decisione di abbandonare l’insegnamento di Socrate; nel secondo Socrate, proprio all’inizio del dialogo, chiede a Timeo: «Uno, due, tre: e dov’è, caro Timeo, il quarto di quelli che ieri convitai e che oggi mi convitano? TIMEO. È un po’ indisposto, o Socrate: perché non sarebbe mancato volontariamente a questa riunione.»16 È qui difficile sostenere che in tutto ciò non vi sia un riferimento alla rottura di rapporti tra Platone e un suo discepolo.

Ma altri dialoghi, ben prima del Timeo, Platone deve aver scritto con lo scopo di ‘ricuperare’ Aristotele: il Clitofonte dopo il Filebo, come abbiamo detto, e prima ancora il Fedro, che tratta specificatamente dell’amore e della retorica assieme, e inoltre il Sofista e il Politico, ai quali doveva fare seguito il Filosofo. Ora, noi sappiamo che Aristotele scrisse anche lui il suo Sofista e il suo Politico, e se furono scritti durante il periodo accademico, viene da pensare che Platone abbia interrotto la sua trilogia proprio per la comparsa degli scritti aristotelici.

Del resto, si possono rintracciare nel Filebo altri elementi che contribuiscono a dare credibilità alla identificazione Filebo-Aristotele. Uno è dato dal riferimento alla retorica come ad arte ritenuta importante dal giovane: Aristotele dava lezioni di retorica, e scrisse infatti Grillo o della retorica mentre si trovava ancora nell’Accademia; l’altro è l’accenno fatto da Socrate alla opportunità di dare una ‘testa’ alla trattazione ora che era stata condotta al termine: si sa infatti che Aristotele era chiamato nell’Accademia ‘la mente’. Un altro riferimento ancora, relativo all’influenza di Aristotele sui compagni dell’Accademia, può essere considerato quello dell’espressione usata da Socrate rivolto a Protarco: «figli, come dice e vi chiama Filebo.» In questo vocativo si può leggere un atteggiamento di superiorità e di sufficienza di chi si ritiene al di sopra degli altri, e intende guidarli.

Tutte queste considerazioni ci spingono dunque a considerare il Filebo come un dialogo dedicato ad Aristotele, con l’intento di fargli comprendere come la difesa dell’assolutezza del piacere, fatta in contrapposizione a quella platonica dell’intelligenza, non aveva fondamento razionale né portava ad alcun bene. Era un dovere poi di Platone rendere coscienti i propri discepoli del pericolo che correvano nell’accogliere la tesi del «bel Filebo», e in particolare colui che nel dialogo viene presentato col nome di Protarco. Da Diogene Laerzio sappiamo che Speusippo, nipote di Platone e suo successore come scolarca dell’Accademia, «indulgeva all’ira e ai piaceri»:17 da questo punto di vista, dunque, si potrebbe avanzare l’ipotesi della identificazione di Speusippo con Protarco.18

2. Gli aspetti metafisici del Filebo all’interno del pensiero platonico La discussione sul piacere, condotta da Socrate con Protarco e marginalmente con Filebo, chiamato in causa non ostante la sua

dichiarazione di non essere disposto a difendere la propria tesi, non è lineare, come del resto non lo è quasi mai nelle trattazioni platoniche, ma in questo caso è anche in più punti faticosa. La ragione di ciò sta nel fatto che Platone intende inserire alcuni aspetti della sua concezione metafisica che non sono stati ancora da lui resi pubblici, ed aggiungerne degli altri di preparazione e di chiarimento ad essi.

È necessario infatti comprendere come Platone non abbia mai inteso insegnare ai propri discepoli nulla che essi non dovessero conquistare con le proprie forze. Egli si preoccupava di fornire loro soltanto gli elementi della comprensione di una data conoscenza da lui acquisita, ma mai la conoscenza stessa. Possiamo dire che non insegnasse se non ad apprendere, e che, ove la capacità di apprendimento si arrestasse ad un determinato livello, anche il suo insegnamento si fermasse senza forzare la personalità del discepolo. Da qui l’implicito rimando di Platone a conoscenze che si davano per acquisite, o le allusioni ad altri dialoghi o a discorsi già fatti, lasciando il più delle volte senza una esplicita conclusione positiva la discussione.

Nel Filebo, dopo le battute iniziali e la considerazione di dover affrontare un tema che investe quello straordinario dell’uno e dei molti, Socrate allude a dottrine non ancora conosciute, suscitando la meraviglia di Protarco: «Socrate, di quali altre cose parli, riguardanti il medesimo problema, che non siano ancora di pubblico dominio e su cui non vi sia comune accordo relativamente alla

15 Lo schema proposto nel saggio Sulla cronologia dei dialoghi di Platone è il seguente: PRIMI DIALOGHI DIRETTI 1. scritti durante la vita di Socrate, con anonimi interlocutori di Socrate, eccetto l’ultimo (407-399) Demodoco - Quesiti - Del giusto - Della virtù - Minosse - Ipparco - Sisifo 2. scritti dopo la morte di Socrate e i viaggi di Platone, fino alla fondazione dell’Accademia (399-387)

Apologia di Socrate - Critone - Alcibiade I - Alcibiade II - Teage - Lachete - Ione - Eutifrone - Ippia minore - Ippia maggiore - Menesseno - Menone - Gorgia DIALOGHI NARRATI E MISTI 1. narrati da Socrate, scritti subito dopo la fondazione dell’Accademia (387)

Gli amanti - Carmide - Liside - Politeia 2. misti narrati da Socrate Eutidemo - Protagora 3. misti narrati non da Socrate, scritti tra prima e dopo il secondo viaggio a Siracusa (367-365)

Fedone - Convivio - Parmenide - Teeteto SECONDI DIALOGHI DIRETTI 1. scritti tra prima e dopo il terzo viaggio a Siracusa (361-360)

Fedro - Cratilo - Filebo 2. con Socrate personaggio secondario

Sofista - Politico 3. con Socrate personaggio secondario, scritti in forma di trattati

Clitofonte - Timeo - Crizia 4. senza più la figura di Socrate

Leggi - Epinomide 16 La giustificazione avanzata da Timeo risponde alla concezione platonica che nessuno fa il male volontariamente, e dunque Aristotele allontanandosi dal maestro

fa del male a sé senza rendersene conto. L’espressione «Uno, due, tre», se sta ad indicare l’inizio di un dialogo pitagorico, come in realtà è di fatto, sembra alludere alle tre personalità accademiche di maggior rilievo in quel periodo: Speusippo, Senocrate, Amicla, tutti e tre ricordati nell’aneddoto riportato.

17 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza, 1975, IV 1, p. 135. 18 Si considera comunemente che, in rapporto a quanto scrive Aristotele (E. N. 1172b II 1), la concezione edonistica di Eudosso sia stata all’origine del Filebo. Ma

se anche fosse vero, ed Eudosso sia stato il responsabile di una discussione all’interno dell’Accademia sull’identificazione o meno del piacere con il Bene, la figura e l’atteggiamento di Filebo non corrispondono a quello del matematico. Diciamo piuttosto che, per la sua giovane età e per lo sdegnoso rifiuto di partecipare alla discussione, il personaggio del dialogo sembra adombrare un discepolo di Platone che si stia allontanando dal maestro, e che di lì a qualche tempo sarà rappresentato dalla figura di Clitofonte che dichiara esplicitamente di voler abbandonare l’insegnamento di Socrate.

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sopra esposta valutazione?»19 Socrate non dà chiara risposta, ma noi abbiamo elementi per avanzare l’ipotesi che si tratti di quanto viene discusso nel Parmenide, e che tale dialogo non fosse stato ancora letto nell’Accademia. Ne abbiano una prova là dove Socrate nel Teeteto dice: «Ecco: di fronte a Melisso e agli altri, i quali dicono che l’universo è un’unica cosa immobile, per quanto io abbia un certo ritegno di trattar la questione grossolanamente, ne ho pur sempre meno che di fronte al solo Parmènide. Parmènide mi pare che sia come direbbe Omero, venerando e insieme terribile. Io mi trovai con lui che già era molto vecchio, e io ero molto giovane; e mi par ch’egli avesse una sua profondità di pensiero veramente nobile e maestosa. Io temo dunque che il suo linguaggio noi non si capisca, e molto più ci sfugga il senso di ciò che disse».20 Nel Sofista Socrate ripete la cosa con queste parole: «Da giovane, io ebbi modo di assistere all’opera di Parmenide, il quale, allora già molto avanzato in età, usando anch’egli quest’ultimo metodo, disse cose meravigliose.»21 Aggiungiamo inoltre che Aristotele non cita mai nei propri scritti il Parmenide, e non mostra di conoscerne il contenuto: questo ci spinge a congetturare appunto che il dialogo non fosse stato letto pubblicamente nell’Accademia, come avveniva per ogni nuovo scritto di Platone, e ciò per la profondità della dottrina in esso contenuta.22

Ora, l’oggetto preso in considerazione da Parmenide nella lunga analisi dialettica che svolge con il giovane Aristotele è proprio l’uno, considerato in se stesso e in relazione agli altri (i molti), tema di capitale importanza per la comprensione di tutto il pensiero platonico. Ma se questo è il tema centrale dell’‘esercitazione’, quello che egli tratta con Socrate, anch’egli giovane, nella prima parte del dialogo, è altr’e tanto importante, e cioè se le cose esistano per la loro partecipazione alle idee.

Nel Filebo questo secondo problema è richiamato dalle espressioni di Socrate riferite ai due generi del finito e dell’infinito, quando dice che «ciascuno di questi due si frantuma e si dilacera in moltissime parti».23 È qui che Platone prepara il terreno alla comprensione della teoria della partecipazione: è possibile che l’idea (l’intellegibile o ‘forma separata’) sia una e molteplice, e possa venire ‘frantumata’ e ‘separata’ da se stessa?

Nel Parmenide Platone aveva parlato di partecipazione delle cose all’idea intera o a una sua parte, sollevando tuttavia delle obbiezioni che sono state sempre considerate un’autocritica alla teoria stessa, senza tener conto che nello stesso dialogo Platone mostra che l’uno si divide, come vedremo meglio tra poco.

Ma vi è nel Filebo un’altra allusione al Parmenide: quella fatta da Socrate quando afferma che «non v’è in verità strada migliore, né vi sarà mai, di quella ch’io amo e spesse volte sfuggendomi nel passato mi lasciò solo in mezzo alle difficoltà.»24 Si tratta del completamento della dialettica di Zenone, secondo l’esplicita dichiarazione fatta da Platone per bocca di Parmenide. Parmenide, rivolto al giovane Socrate, complimentandosi con lui per il metodo adottato nella ricerca filosofica, dice: «Molto bene, [...] bisogna però fare un’altra cosa in più, cioè non solo, dopo aver posto come ipotesi l’esistenza di ciascuna cosa, cercare le conseguenze che scaturiscono dall’ipotesi, ma anche, se vuoi esercitarti meglio, vedere quali sono le conseguenze di una ipotesi la quale neghi l’esistenza dell’oggetto della prima.»25 Ed è proprio questa l’esercitazione che Parmenide intraprende con il giovanissimo Aristotele per mostrare come evitare di trovarsi in quella situazione di cui parla Socrate nel Filebo: infatti, la dialettica dell’esaustività, in cui si pone un concetto e il suo contrario, ciascuno in rapporto a sé e all’altro nell’ipotesi che il primo sia o che non sia, affronta il concetto posto circondandolo da tutti i lati possibili, in modo che il problema venga considerato nella sua interezza, e non possa ‘sfuggire’ alla presa della ragione.

La quadripartizione dialettica relativa alle otto ipotesi sull’uno e gli altri (molti) è la seguente:

uno che è │ altri che sono

1 ip. - negativa uno rispetto a sé │ altri rispetto a sé 3 ip. - positiva 2 ip. - positiva uno rispetto agli altri │ altri rispetto all’uno 4 ip. - negativa

────────────────────────────────────────────────────────────────────┼──────────────────────────────────────────────────────────────────────── uno che non è │ altri che non sono

5 ip. - positiva uno rispetto agli altri │ altri rispetto a sé 7 ip. - positiva 6 ip. - negativa uno rispetto a sé │ altri rispetto all’uno 8 ip. - negativa

Nel Filebo, elevando il discorso a quel livello mitico-religioso che dà sacralità e autorità alla parola, Platone fa dire a Socrate che

questo metodo è un dono degli dèi: «Un dono degli dèi agli uomini, così almeno mi pare, da un punto del cielo divino un giorno sulla terra fu gettato, per mezzo di un Prometeo, insieme ad un fuoco d’una chiarezza abbagliante e gli antichi (che erano più valenti di noi e vivevano più vicino agli dèi) ce l’hanno tramandata questa rivelazione e cioè che risultando dall’unità e dalla molteplicità le cose che sono, le cose che sempre sono state dette e saranno dette ‘cose che sono’, esse portano in sé connaturato finito ed infinito.»26

Utilizzando il mito di Prometeo e del suo furto del fuoco, Platone parla di un ‘dono’ «insieme ad fuoco d’una chiarezza abbagliante», per poi indirizzare l’attenzione di Protarco (e del lettore) sulle nature del finito e dell’infinito implicite nelle cose. Poiché Socrate parla di un dono dato agli uomini, tenendo conto della struttura dell’anima umana secondo la sua teoria, non è difficile

19 Phil. 14 e. 20 Theaet. 183 e-184 a. L’ultima espressione indica un salto temporale tra gli anni giovanili nei quali Socrate ascoltò la parola profonda di Parmenide e il momento

in cui sta facendo la dichiarazione, nella quale però include non soltanto la sua difficoltà a comprenderla, ma anche di coloro che ora stanno ascoltando. Se il riferimento è, come crediamo, al Parmenide, si potrebbe sostenere allora che il dialogo dovette essere stato letto all’interno dell’Accademia prima della stesura del Teeteto. Se così è, Platone sta dicendo per bocca di Socrate che non è stato capito dai suoi discepoli. Si può tuttavia avanzare un’altra ipotesi, e cioè che il Parmenide non sia stato propriamente letto, ma Platone abbia utilizzato la prima e la seconda ipotesi del dialogo (quelle sull’uno in sè e quella sull’uno che è) per le lezioni sul Bene. È da tenere presente che l’uno che è della seconda ipotesi è definito ‘diade’: dunque le ipotesi dell’Uno e della Diade. Parm. 143d.

21 Soph. 217 c. Che Parmenide, cioè il protagonista del dialogo platonico, abbia detto «cose meravigliose» non scuote molto oggi il pensiero degli interpreti di Platone. V. Rocco Li Volsi, Commentario al Parmenide di Platone, Treviso 1997.

22 Teniamo presente che il più giovane dei personaggi del dialogo, con il quale svolge la sua dimostrazione dialettica Parmenide, porta il nome di Aristotele, che fu uno dei Trenta Tiranni di Atene come viene precisato. Per le allusioni al Parmenide fatte nel Fedro, v. ancora Li Volsi, Sulla cronologia dei dialoghi di Platone.

23 Phil. 23 e. 24 Phil. 16 b. 25 Parm. 135 e-136 a. 26 Phil. 16 c.

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comprendere che Platone sta parlando dell’identico e del diverso di cui essa è composta, e della loro reciproca relazione.27 Questo ‘fuoco abbagliante’ non si può interpretare che come l’identico stesso in quanto intelletto dell’uomo, facoltà mediante la quale l’uomo coglie lo ‘splendore’ dell’Essere. Ma per giustificare questa affermazione e per comprendere meglio in che consista il ‘dono’, è necessario ricordare l’importanza attribuita ai due movimenti della ragione umana dell’unire e del dividere: del ‘tessere’ e del ‘tagliare’, secondo la similitudine del Cratilo.28 Si tratta delle operazioni proprie della dialettica, in cui eccelle il dialettico, il quale si presenta come l’unica persona in grado di innalzare la conoscenza scientifica all’unità del principio insito nell’intelletto, saldandola ad esso, e di farla ridiscendere scomponendola nelle sue molteplici parti. È in questo modo che ci si rende conto di come «le cose che sempre sono state dette e saranno dette ‘cose che sono’, [...] portano in sé connaturato finito ed infinito.» L’intelletto (‘fuoco abbagliante’) e la ragione dianoetica (‘dono degli dèi’) sono per ciò le facoltà che permettono il formarsi della conoscenza come superamento della semplice opinione.

Affermati i due generi del finito e dell’infinito, Socrate enumera sia il misto che deriva dalla loro unione, sia la causa dell’unione, portando a quattro i generi delle cose. Protarco, meravigliato di tanta proliferazione, chiede: «E non avrai bisogno anche di un quinto il quale abbia il potere di distinguere?»29 Socrate risponde che per il presente discorso non ce n’è bisogno, ma subito dopo afferma che finito e infinito si frantumano e si ‘dilacerano’ in moltissime parti e si riconducono all’unità, e che ciascuna unità è una e molti: deve dunque esistere la causa della divisione.

Siamo qui giunti ad un punto chiave di tutta la concezione metafisica di Platone, che egli ora semplicemente enuncia, e che sarebbe vano cercare nei termini del solo Filebo. Si tratta della teoria della partecipazione, che ricorre in diversi dialoghi, ma che trova la propria trattazione, sia pure in negativo, proprio nel Parmenide, ‘non ancora reso di pubblico dominio’. Nel Parmenide Platone si decide a presentare gli elementi essenziali della teoria della partecipazione, affidandola all’autorità del filosofo di Elea intento a discutere con Socrate a quel tempo molto giovane, come sappiamo.

I due interlocutori mettono a fuoco il problema in quattro punti, ma Platone, facendo leva sulla differenza di età dei due personaggi, fa sì che Socrate non riesca ad opporre una valida resistenza alla critica di Parmenide, dietro la quale la teoria viene tuttavia schematizzata. Se riusciamo a capire il senso di riserbo di Platone nel parlare di questa e di altre elevate teorie, si ricava facilmente da quanto viene proposto che in questi quattro punti sono contenuti i suoi elementi essenziali.

Essi vengono presentati a partire dalla distinzione fondamentale di partecipazione per l’intero e di partecipazione per la parte. Chiede Parmenide a Socrate: «E allora ciascun soggetto di questa partecipazione partecipa di tutto il genere o solo di una parte? Oppure ci sarebbe un altro modo di partecipare all’infuori di questi?»30 Non vi sono per ciò che due possibili forme di partecipazione; e mentre Parmenide avanza una critica per ciascuna, noi dobbiamo cercare di comprendere se esse non siano entrambe valide in quanto relative a due diversi tipi di enti.

A questa distinzione corrisponde infatti quella fatta da Socrate nel Filebo che ora proponiamo in altra traduzione: «ciascuna di esse si scinde e si sminuzza», che meglio mette in evidenza le due forme di divisione: il dividersi dell’idea da se stessa e il dividersi in se stessa.31 Occorre inoltre comprendere che per ‘idea’ Platone non intende qui qualsiasi idea, perché, se così fosse, questa idea sarebbe una idea particolare, parte di un’idea che la contiene. Le idee per Platone si ‘dividono’ al loro interno in altre idee, e nello stesso tempo fanno parte di idee più generali, come viene detto nel Sofista e nello stesso Filebo. In quest’ultimo dialogo si parla appunto della struttura uno-molti anche di esse. Se dunque le idee sono le une nelle altre quali parti di interi, vi è un’Idea unica, onnicomprensiva, che chiamiamo Intellegibile, che da una parte «si scinde» da sé, cioè si separa da se stessa, si sdoppia (partecipazione per l’intero), e dall’altra «si sminuzza», si divide in se stessa (partecipazione per la parte).

Le partecipazioni per l’intero e per la parte riguardano per ciò quell’Intellegibile che contiene tutti gli intellegibili (molteplicità), mentre esso stesso è uno. Ci troviamo allora davanti a due ben distinti generi di enti in rapporto alle due forme di partecipazione che il dialogo tra Parmenide e Socrate mette in evidenza: la prima forma di partecipazione dà luogo a ‘pensieri pensanti’ (pensieri capaci di riflessione perché ‘interi’), la seconda a ‘pensieri non pensati’ (pensieri incapaci di riflessione perché ‘parti’). L’ironia di Platone, mediante la quale egli spesso dice nascondendo, è facilmente smascherabile dietro la meraviglia di Parmenide: «Come? replicò Parmenide, alla tua affermazione della necessità che le altre cose partecipino dei generi non consegue forse che tu devi ora ammettere o che tutto consta di pensieri e tutto pensa, oppure che, essendo pensieri, quei pensieri non vengono però pensati?»32 L’alternativa posta dal filosofo di Elea non è infatti valida necessariamente, poiché è possibile appunto che alcune ‘cose’ siano pensieri pensanti e altre siano pensieri non pensati. In questo modo possiamo arrivare a comprendere che Platone sta indicando da un lato la partecipazione per l’intero, che riguarda le anime, e dall’altro quella per la parte, che riguarda i corpi.

La partecipazione per l’intero determina per ciò un essere che si caratterizza come ‘pensiero pensante’, cioè quale mente capace di pensare tutte le idee che riguardano l’universo corporeo, essendo l’identico dell’intero Intellegibile. Questo identico è la sua nota caratteristica che lo costituisce ontologicamente, tanto quanto i corpi, che partecipano per la parte, imitano le parti dell’Intellegibile che ne sono appunto i modelli, e sono quindi soltanto ‘pensieri pensati’, ma non pensanti . Queste sono dunque le quattro proposte fatte da Parmenide e Socrate: 1° partecipazione (per intero e per parte), 2° nota caratteristica 3° pensiero (pensante e non pensante), 4° imitazione.33

Lo schema è pertanto il seguente: l’intero Intellegibile (di cui per ora non sappiamo nulla) viene partecipato dalle anime e dai corpi secondo due diverse modalità: mediante un ‘duplicato’ dell’intero Intellegibile (scisso da sé) quale nota caratteristica dell’anima (identico), capace di renderla pensiero pensante; mediante una imitazione parziale (si sminuzza) da parte dei corpi che si determinano per ciò solo come pensieri non pensati da un pensiero. Così, il nesso, che esiste tra l’intero Intellegibile e le sue parti si ripropone tra

27 Una anticipazione ‘precoce’ della teoria della costituzione dell’anima, resa esplicita in Timeo (34 c ss.), si trova nell’Alcibiade I, là dove Socrate afferma che per

conoscere l’anima umana occorre conoscere l’identico. Alc. I 130 d. V. anche Theaet. 184 c ss. 28 Crat. 387 d ss. 29 Phil. 23 d. 30 Parm. 131 a. 31 Traduzione di Giuseppe Cambiano, in Platone, Dialoghi filosofici, UTET, 1981, vol. II, Phil. 23 e, p. 504. 32 Parm. 132 c. 33 È evidente che il 2° e il 4° possono essere riferiti sia rispettivamente alle anime e ai corpi, sia ad entrambi i tipi di enti, e forse questa seconda ipotesi è più vicina

al pensiero di Platone.

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anima e corpo, nel senso che il rapporto tra i due, mediato dalla sensazione, è di ordine intellegibile tra l’intelletto che pensa e il suo oggetto, unico e intero contenitore di tutte le parziali idee delle cose.

Se non si riesce a compiere questa importante acquisizione della teoria della partecipazione, è di fatto impossibile penetrare il resto della concezione platonica nella sua organicità e nel suo vertice metafisico. Di contro, la comprensione di tale teoria ci permette di giungere alla comprensione di quanto Socrate diceva ambiguamente dei quattro generi e del quinto, aggiunto da Protarco.

Abbiamo sentito che essi sono quelli di infinito, di finito, di misto di entrambi, e inoltre della causa dell’unione, a cui viene aggiunto la causa della divisione. Ora, noi sappiamo dal Timeo che l’anima è appunto un misto di identico e di diverso, e che il misto costituisce l’essenza dell’anima. Come ogni corpo, e del resto ogni idea, anche l’anima è in questo modo un misto di finito e di infinito, i quali nel caso specifico sono chiamati rispettivamente identico e diverso. In particolare poi, l’identico è un finito che è un ‘duplicato’ dell’intero Intellegibile, e dunque anche un intero: il genere del ‘finito’ viene così a comprende sia l’Intellegibile in se stesso, sia l’identico (intero) dell’anima, sia ogni idea particolare (parte) che è modello dei corpi, o meglio della loro struttura e delle loro qualità.

Va ricordato a questo punto che per Platone ciò che è intellegibile è essere, con una identificazione totale. Questo viene a dire che l’intero Intellegibile è l’Essere o Uno Essere di cui si parla nel Parmenide. Questo uno che è, trattato nella seconda ipotesi del dialogo dopo quella sull’uno in sé, risulta all’analisi dialettica dell’Eleate come uno e molti, identico e diverso, e in definitiva determinabile secondo tutte le determinazioni possibili. Ma Parmenide afferma che le possibili divisioni dell’uno che è sono sempre accompagnate da quelle dello stesso uno in sé, il quale per ciò segue anch’esso la divisione, non però in se stesso, ma nell’uno che è.34 Egli inoltre dimostra che l’uno che è risulta tanto finito quanto infinito, mentre in precedenza aveva affermato che l’uno in sé è soltanto infinito.35 Possiamo dire allora di aver compreso perché l’uno che è fa parte del genere finito, mentre diciamo che l’uno in sé fa invece parte del genere infinito; e inoltre che il finito non va inteso come il contrario di ciò che ha in sé tutti i contrari (l’infinito), come ha affermato qualcuno, ma che esso è il contrario di ciò che non ha in sé nessun contrario, poiché l’uno in sé, nell’analisi della prima ipotesi del Parmenide, rifiuta ogni possibile coppia di contrari, mentre è l’uno che è che li contiene tutti.

Ma, e sta qui la difficoltà del problema, è l’unione della natura dell’infinito a quella del finito che genera in quest’ultimo quel ‘più e meno’, quel ‘grande e piccolo’ che nella sua natura giacciono soltanto come possibilità. È l’infinito che, dividendolo infinitamente, evidenzia la duplice natura del finito: quella di essere contemporaneamente ‘finito’ e ‘infinito’. Ricordiamo infatti che l’uno che è, oggetto della seconda ipotesi del Parmenide, essendo ‘uno’ ed ‘essere’ assieme, è appunto finto come intero e infinto come parti. L’Essere eleatico, visto da Platone, è sì ‘l’essere che è e che non può non essere’, e in quanto tale è l’unico essere e ‘il non essere non può essere’, ma non è l’Uno, il quale gli è anteriore e senza il quale non potrebbe esistere. È solamente questo Uno (uno in sé, infinito) che può rivelare la ricchezza di parti interna all’Essere, che di per sé giacciono «nel limite di possenti legami», per dirla con un’espressione del filosofo di Elea.36

Se dunque Socrate risponde a Protarco che forse non vi è bisogno di un quinto genere (la causa della divisione), è perché risultava incluso nel genere dell’infinto; come del resto il genere del finito comprende ciò che deve essere considerato come divisibile. Abbiamo già visto come l’Intellegibile sia ciò che viene diviso, e come le possibili divisioni siano quelle ‘da se stesso’ e ‘in se stesso’, secondo le forme di partecipazione per l’intero e per la parte. La causa dell’unione (e qui siamo davanti al vertice della speculazione platonica) non solo risulta essere il Bene, secondo quanto Socrate dice nel Fedone, quando afferma che «ciò che è il bene, che è ciò che lega ogni cosa al suo fine, non pensano affatto né che veramente colleghi cosa veruna né che la contenga»,37 e di cui parlerà nel Filebo, ma si presenta come quell’istante in cui l’uno in sé e l’uno che è, sui quali sono stati fatti da Parmenide discorsi opposti, si uniscono a formare un terzo uno. Leggiamo la parte che ci interessa. «Se l’uno è, – dice infatti Parmenide – come abbiamo visto, non è necessario che esso dal momento che è uno e molti [questo è stato sostenuto nella seconda ipotesi] e non uno e non molti [questo è stato affermato nella prima ipotesi] e partecipa del tempo, non è necessario che, appunto perché è, partecipi qualche volta dell’essere e che, poiché non è, qualche volta non vi partecipi? […] E quando muta? Non quando è fermo, non quando è in moto, non quando è nel tempo. – No, infatti. – Ma dunque ci sarà questa cosa assurda in cui esso è allorquando muta? – Che cosa? – L’istante. Pare che ‘istante’ significhi qualche cosa di simile: ciò da cui qualche cosa muove verso l’una o l’altra delle due condizioni opposte.» Il primo e il secondo uno si unificano dunque nell’istante, in una condizione fuori del tempo: l’eterno; e in esso, terzo uno, ciò che si era negato e ciò che si era affermato nelle due ipotesi trovano ora la loro superiore unità: «l’uno così, se appunto sta e anche si muove, si muta in ciascuna delle due condizioni; soltanto così infatti potrà partecipare di ambedue le condizioni e, mutando, muta istantaneamente e mentre muta non è in nessun tempo, non si muoverà allora, né starà.» In questo modo, «quando passa dall’essere uno all’essere molti e dall’essere molti all’essere uno non è né uno e né molti né si divide in parti né si rifonde in uno»38

Come si vede, i caratteri dei due ‘uno’, opposti e contradittori se considerati separatamente, non lo sono più in questo trascendimento che si effettua fuori del tempo nel terzo uno che ne deriva, e che rende il primo, il secondo e il terzo uno un’unica cosa pur nella loro distinzione, come Platone si esprime nel Timeo: «Perché quando di tre numeri o masse o potenze quali si vogliano, il medio sta all’ultimo come il primo al medio, e d’altra parte ancora il medio sta al primo, come l’ultimo al medio, allora il medio divenendo primo e ultimo, e l’ultimo e il primo divenendo a lor volta medi ambedue, così di necessità accadrà che tutti siano gli stessi, e divenuti gli stessi fra loro, saranno tutti una cosa sola.»39

Questo dunque è il Bene per Platone; ma la complessità che caratterizza il Bene era già stata annunciata solennemente da Socrate quando aveva detto a Protarco «che nella natura di Zeus si ingenera un’anima regale e così una mente regale per virtù della causa».40 Nella frase è bene evidenziare chiaramente che Platone sta parlando di un’anima, di una mente, di una causa. Analogamente, nel Sofista Platone fa dire al protagonista: «E allora per Zeus? Ci faremo persuadere così facilmente che in realtà il moto, la vita, l’anima,

34 «Così esso [l’uno che è] si scinde in sezioni che vanno dall’estremo della piccolezza all’estremo della grandezza, di ogni struttura, esso più d’ogni altra cosa si

suddivide in parti e tali parti dell’essere sono innumerevoli. [...] Non solamente dunque l’uno che è, è molti, ma pure, per stretta necessità, l’uno in quanto tale, suddiviso da ciò che è.» Parm. 144 c-e.

35 Parm. 137 d. 36 I presocratici. Testimonianze e frammenti, Editori Laterza, 1969, due volumi, primo vol. B 28, p. 276. 37 Phaed. 99 c. 38 Parm. 155 e-157 b. 39 Tim. 31- c-32 a. 40 Phil. 30 d.

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l’intelligenza non ineriscono a ciò che assolutamente è, ch’esso né vive né pensa, ma invece venerabile e santo, senza intelletto, se ne sta fermo, immoto?»41

È evidente che nei due passi riportati Platone allude ad una Divinità che sta ben al di sopra degli dèi, ai quali del resto il Demiurgo del Timeo si rivolge chiamandoli propri figli («O dèi, figli di dèi, io sono il vostro artefice e padre»):42 si tratta nei due casi non di una divinità tra le tante del pantheon greco, né di un principio delle cose privo di caratteri personali, ma di un Dio assoluto, caratterizzato quanto meno da un triplice ‘struttura’.

Ma se il Bene è la causa dell’unione, e l’Intellegibile (l’uno che è) è ciò che viene diviso nelle due forme di partecipazione, torniamo a dire che è l’uno in sé la causa della divisione; e in realtà tanto un qualsiasi intero quanto ciascuna sua parte sono sempre ‘uno’. Si tratta di un ‘uno’ che caratterizza qualsiasi cosa, non per una data essenza, ma per la sua trascendenza rispetto alle altre, per la sua distinzione dalle altre. L’essenza di un determinato essere dipende invece dall’Intellegibile, sia che si tratti di un’anima umana per la partecipazione per l’intero, sia che si tratti di un corpo per la partecipazione per la parte.

È appunto questa fisionomia triadica di Dio quella da cui provengono gli elementi che compongono l’anima (identico, diverso, misto) e quelli che compongono i corpi (elemento finito, elemento infinito, composto). Socrate afferma che la causa, «la quale a noi qui fornisce l’anima», è «totale e multiforme sapienza»;43 possiamo dire che si tratta dell’intero Intelligibile che ‘genera’ un identico di sé nel dare all’anima l’intelletto che la caratterizza, mentre si presta ad una rifrazione come multiforme modello dei corpi: le cose sensibili si presentano infatti contrassegnate da una «nota caratteristica unitaria» che sempre possiamo cogliere, come dice Socrate,44 che è quel finito che si mescola con l’infinito, ma permane tale anche nell’unione.

L’infinito, afferma Socrate, ha sempre in sé il più e il meno: si tratta di rapporti che non hanno misura; ma il finito, che ha i caratteri opposti dell’uguaglianza, del doppio, dei numeri, «fa cessare la reciproca discordanza degli opposti e li rende commensurabili e li armonizza ponendo fra di loro il numero.»45 Per questo egli può concludere dicendo che il genere misto è quello che si ottiene dalle misure fondate sul genere del finito. In precedenza aveva infatti parlato della struttura numerica delle cose, poiché gli appariva chiaro che l’universo non è guidato dalla potenza dell’irrazionale, ma da una meravigliosa intelligenza; anzi, «l’intelletto per noi è il re del cielo e della terra».46 A questo risultato ci porta la stessa dialettica quando si sia in grado di passare per gradi dall’infinito all’unità, e viceversa, evitando il salto immediato dall’uno all’altro dei due termini estremi, come fa l’eristica: sta in questo appunto la diversità tra le due arti.47 Si tratta della determinazione dei nessi tra idee, e tra esse e l’Intellegibile che le contiene: è solo così che la opinione retta diventa conoscenza.

Riassumendo dunque, diciamo che la causa del misto, il quale ultimo si presenta sia come anime sia come corpi, è la causa di quel misto originario che è dato dall’unione di uno in sé e di uno che è (Essere, Intellegibile), a formare il Bene, il quale nel Filebo viene definito come misura, simmetria, bellezza. Lo schema che possiamo farci è il seguente: DIO Uno in sé → Bene ← Intellegibile ANIMA diverso → misto ← identico

CORPO infinito → composto ← finito Per maggiore chiarezza ripetiamo che dall’Uno in sé derivano il diverso dell’anima e l’infinito del corpo; dall’Intellegibile

derivano ad essi rispettivamente l’identico (intelletto) e il finito (modelli intellegibili o idee); dal Bene, le loro unioni (il misto e il composto).

Ritorniamo ora, sia pure bruscamente, al tema del dialogo. Socrate, in rapporto al problema del primo posto da assegnare al piacere o all’intelligenza, conclude il dialogo affermando che esso non deve essere assegnato a nessuno dei due, ma va attribuito al Bene. Definito il Bene come misura, simmetria e bellezza, egli sostiene che in particolare il primo posta va alla misura e a «tutto ciò che bisogna ritenere che, a questi simili, sia stato prescelto ed assunto dalla natura eterna»,48 il secondo alla simmetria e alla bellezza, poste sullo stesso piano, il terzo all’intelligenza, il quarto alle scienze, cioè agli oggetti dell’intelligenza, il quinto ai soli piaceri puri.

Platone dunque anche nel Filebo si è astenuto dal trattare esaurientemente del Bene e dal definirlo con precisione: tuttavia ha dato le indicazioni per intuirlo. D’altra parte, attribuendo alla misura il primo posto nella scala dei valori, lo fa attenendosi alla razionalità di cui ha sempre percorso il sentiero; e anche in questo dialogo se ne fa un accenno quando Socrate ribatte a Protarco dicendo che certamente la ‘sua’ mente non otterrà la vittoria come neppure il piacere di Filebo, ma non la ‘mente divina’: per essa le cose stanno in modo diverso.49 Al primo posto Platone ha dunque collocato, di quel misto che è il Bene, la misura.

Al secondo posto, sullo stesso piano, Platone pone invece la simmetria (o proporzione) e la Bellezza, la quale è la ‘fonte’ e ‘padre’ dell’Essere e del Bene, secondo quanto si può ricavare dalla Lettera VI : «[...] giuratelo in nome del dio ch’è guida di tutte le cose presenti e future, e del padre signore della guida e della causa, che noi tutti conosceremo, se saremo davvero filosofi, per quanto è dato ad uomini beati.»50 Infatti, poiché il Bene è la «guida» e l’Intellegibile o Essere è la «causa», il loro «padre signore» resta che sia la Bellezza o Uno in sé. Se poi teniamo presente il Convivio, la Bellezza ci risulta confermata quale vertice massimo della Divinità. Come i lati o gli angoli di un triangolo equilatero, noi dobbiamo tuttavia considerare di pari dignità la Bellezza (Uno in sé), l’Intellegibile (Uno Essere), il Bene (l’Uno che ‘veramente collega le cose e le contiene’): il Bello, in quanto «padre signore» degli

41 Soph. 248 e-249 a. 42 Tim. 41 a. 43 Phil. 30 b. 44 Phil. 16 d. 45 Phil. 25 e. È da ricordare che l’uno in sé è infinito, e che l’uno che è è contemporaneamente finito (come intero) e infinito (come parti): il Bene nella

partecipazione per l’intero unisce ad extra l’uno che è all’uno in sé, determinando un identico (intelletto) nell’anima, nella partecipazione per la parte unisce, sempre ad extra, una parte dell’uno che è all’uno in sé, determinando un corpo (unione di elementi finiti ed elemento infinito).

46 Phil. 28 c. 47 Phil. 17 a. Per l’assolutizzazione eristica del discorso v. l’Eutidemo. 48 Phil. 66 a. 49 Phil. 22 c. 50 Epist. VI 322 d.

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altri due; l’Intellegibile, in quanto razionalità che dà ‘regalità’ ad entrambi; il Bene, in quanto determina la loro unione, e costituisce la loro simmetria.51

La natura dell’Uno, che ha il carattere dell’infinito, si unisce dunque a quella dell’Intellegibile, che ha carattere finito, ma in sé possiede anche l’infinito della propria divisibilità, in un ‘istante’ che è fuori del tempo, ad opera della causa dell’unione, cioè del Bene, il quale dà luogo ad una proporzione, ad una simmetria, tra il primo e il secondo che, se ad intra, costituisce Dio, se ad extra, genera le anime e i corpi, secondo la doppia partecipazione.

3. La teoria dell’apprendimento nel Filebo e in altri dialoghi platonici L’infinita molteplicità insita in ciascuna cosa crea difficoltà alla comprensione della cosa stessa, dice Socrate, qualora uno «non

sia mai riuscito a scorgere in nessuna cosa nessuna determinazione quantitativa.»52 Egli afferma infatti che vi è un «infinito che trascorre secondo il “più” e il “meno” attraverso il corpo e l’anima»,53 cioè un flusso generato dall’infinito che sta a fondamento del Cosmo, e che caratterizza i quattro elementi di Empedocle: esso giunge al nostro corpo come impressione sensibile per passare all’anima.54 E poiché il nostro corpo, ricorda Socrate, ha un’anima come ce l’ha il Cosmo, essa, ricevendo questo flusso, genera dentro di sé la sensazione. La sensazione ha già certamente in sé una «determinazione quantitativa», ma occorre che essa arrivi all’intelletto, nel proprio specifico contesto intellegibile di relazioni (idee), perché si determini realmente. L’infinito in questo modo perde l’indeterminatezza del ‘più’ e del ‘meno’ per assumere le determinazioni del finito, senza le quali non si ha intellezione, né i nessi che necessariamente si stabiliscono tra la particolare intellezione e l’intero intellegibile.55

Si tratta di comprendere che il diverso di cui è costituita l’anima è ciò che unisce l’anima stessa al corpo, come il corpo è unito ai corpi del Cosmo; e dunque l’infinito del Cosmo, passando attraverso i sensi e le facoltà dell’anima giunge fino all’intelletto. Ma allora, l’infinito non può essere considerato che il diverso dell’Anima cosmica, di cui Platone parla nel Timeo. Tutto ciò si chiarisce se si considera che quello che Platone chiama diverso è propriamente l’immaginazione, secondo la descrizione fatta da Socrate nella Politeia. Nel libro sesto di questo dialogo, distinguendo tra opinione e conoscenza, egli indica per la prima due ‘segmenti’: della immaginazione e della credenza; e per la seconda, altri due: della ragione discorsiva e dell’intelletto. Socrate definisce l’immaginazione la facoltà di avere immagini sensibili, essendo appunto la ‘specie sensibile’ l’oggetto dell’opinione.56 Non è difficile comprendere che queste quattro facoltà umane corrispondono agli ‘elementi’ che costituiscono l’anima:

diverso misto identico immaginazione credenza - ragione intelletto Possiamo per ciò ricavare che l’azione del Demiurgo, il quale genera l’Anima prima del corpo, consiste nel ‘proiettare’ le idee

dell’identico dell’Anima cosmica nel diverso della stessa Anima, così come nella nostra immaginazione viene ad esempio proiettata l’immagine dell’idea di cerchio che possediamo nell’intelletto. 57 Queste immagini dell’immaginazione dell’Anima cosmica si presentano alla nostra immaginazione quali immagini sensibili, cioè corpi, poiché tali vengono giudicate dalla credenza. Infatti, tramite l’infinito «che trascorre secondo il “più” e il “meno”», le affezioni del corpo che passano all’anima danno luogo alle sensazioni, mentre quelle che non vi giungono (per la mancanza di organi specifici o perché troppo deboli) lasciano l’anima insensibile.58 Ma nel primo caso, oltre alla sensazione, si genera l’opinione, perché «la nostra opinione nasce sempre dalla memoria e dalla sensazione»,59 mentre nel secondo caso non avvertiamo nulla.

Il mito della caverna rende esplicito il difficile discorso platonico: la ‘caverna’ sta a rappresentare l’Anima del mondo, la cui immaginazione (diverso) è raffigurata dalla parete di fondo su cui si proiettano le ombre, mentre il suo intelletto (identico) è quel fuoco posto al di là del muretto che, illuminando le statuette da una parte ne proietta le ombre dall’altra. L’anima umana, infatti, ‘racchiusa’ in un corpo, a sua volta rinchiuso nel Cosmo, non può giungere alle idee e al principio che le contiene se non compiendo un percorso inverso a quello dell’Anima del mondo, passando cioè dall’immaginazione all’intelletto attraverso la credenza e la ragione discorsiva, e risalendo così con l’intelletto a quella realtà che è identica a quella dell’intelletto dell’Anima del mondo: l’Intellegibile.

51 Occorre tener presente che la triade ricorrente nei dialoghi, e cioè bellezza, verità, bene, corrisponde a diverse altre, come risulta dal seguente raffronto:

Bellezza, Sapienza, Bontà (Phaedr. 246 e) Bellezza, Verità, Proporzione (Phil. 65 a) Bellezza, Giustizia, Bontà (Euthyphr. 7 d) Mente, Sapienza, Anima (Phil. 30 c-d) Vita, Pensiero, Anima (Soph. 248 e-249 a) Ciò da cui deriva la Mente, Mente, Vivere (Crat. 396 a-c) Padre della Guida e della Causa, Causa, Guida (Epist. VI 323 d) Primo Re, Secondo Re, Terzo Re (Epist. II 312 d-313 a) Uno-Uno, Uno-Essere, Uno-Istante (Parm. prime ipotesi)

52 Phil. 17 e. È nella Lettera VII che Platone sottolinea la distinzione tra qualità ed essenza, e l’errore in cui si incorre qualora, cercando la seconda, ci si arresti alla prima. Quanto alla «determinazione quantitativa», si tratta della impostazione pitagorica assunta da Platone quale base della realtà sensibile, ricostruibile mediante un’analisi matematico-dialettica, il cui vertice, abbandonate anche le scienze ipotetiche, resta legato al binomio uno-molti, che è appunto matematico. L’uno è questo vertice, e per un verso esso è colto dall’identico (intelletto) come intero Intellegibile (uno che è), per un altro, come uno in se stesso, anteriore all’Intellegibile e suo fondamento, in quanto non esiste intero senza uno. Soph. 244 b ss.

53 Phil. 52 c-d. 54 Phil. 29 a ss. 55 V. Theaet. 201 d ss. 56 Resp. VI 509 d ss. 57 È chiaro che è indifferente pensare alla realtà di un’Anima del mondo o ad un suo ‘schema’ identico-diverso generato e utilizzato dal Demiurgo per la

formazione del Cosmo. 58 Phil. 33 d. 59 Phil. 38 b.

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In altri termini, diciamo che siamo davanti a due movimenti: quello che si genera nell’Anima cosmica, che va dall’intelletto all’immaginazione e che determina il generarsi della ‘specie sensibile’ attraverso quell’infinito che trascorre nel corpo e nell’anima; quello dell’anima umana, che, una volta ricevute le immagini sensibili nell’immaginazione, va da queste alle idee mediante le scienze ipotetiche, e dalle idee al principio che è colto dall’intelletto e fa tutt’uno con esso. Lo schema è il seguente:

ANIMA DEL MONDO

misto identico (intelletto) → → → → → → → → diverso (immaginazione) (le idee proiettate diventano immagini sensibili) ↓ ↓ ANIMA UMANA ↓ intelletto ← ragione discorsiva ← ← ← ← ← ← credenza ← immaginazione principio scienze ipotetiche (le immagini acquisite diventano idee) cose immagini

Principio e intelletto sono da sempre la stessa cosa, ma solo giungendo a questo apice l’anima se ne rende conto, e da pensiero che

pensa altro, diviene pensiero che pensa sé. Non che l’anima non abbia anche prima coscienza di sé, ma l’ha in rapporto alle cose, mentre ora ce l’ha in rapporto a quell’Intellegibile di cui è identico. Si comprende così quanto Socrate diceva a Protarco, e cioè come l’infinita molteplicità insita in ciascuna cosa crei difficoltà alla comprensione della cosa stessa; ma non solo, poiché crea soprattutto difficoltà all’individuo di comprendere se stesso. Il ‘conosci te stesso’ invita infatti l’anima ad un ritorno a se stessa che è un ritorno al proprio principio: l’intelletto, che è l’identico dell’Intellegibile. Già nel libro sesto della Politeia Socrate aveva dichiarato che occorre far comprendere alle persone che esse hanno mancanza e desiderio di intelletto. «Se dunque uno piano piano si accostasse a chi è in un simile stato d’animo e gli dicesse il vero, cioè che in lui sono insieme mancanza e bisogno di intelletto, e che non può però acquistarlo se non lavorando a tale scopo come uno schiavo, credi che sarebbe facile ascoltarlo tra mali tanto grandi?»60

È in questo rapporto tra principio e ragione dianoetica che si chiarisce il ‘mito’ platonico della conoscenza come reminiscenza. Nel Filebo, come in qualche altro dialogo, Platone accenna a cosa intenda per conoscenza come ricordo, memoria. Dice Socrate che l’anima assomiglia a un ‘libro’, e che la «memoria, che opera in coincidenza colle sensazioni, e quelle affezioni che si verificano in tale processo paiono a me in tale occasione quasi scrivere nelle nostre anime dei discorsi». Precisa inoltre che vi è un «pittore, il quale dopo lo scrivano disegna nell’anima rappresentazioni delle cose dette.»61 Alla scrittura affianca dunque una pittura: la prima si scrive nell’intelletto, la seconda invece si dipinge nell’immaginazione, poiché questa è una immagine, quella è una serie di nessi.

Questa anteriorità dello ‘scrivano’ rispetto al ‘pittore’ è quella dell’identico rispetto al diverso, dell’intelletto in rapporto alla immaginazione: una anteriorità ontologica, non cronologica né psicologica, in quanto nell’identico (identico dell’intero Intellegibile) si trovano implicitamente tutte le parti intellegibili che sono ‘modelli’ delle cose sensibili, che le sensazioni ‘risvegliano’ nell’intelletto. Lo ‘scrivano’ scrive nell’intelletto queste scritture che si riflettono nell’immaginazione come ‘pitture’ che il ‘pittore’ dipinge. Questo significa che la semplice impressione sensibile non diventa sensazione (cioè coscienza di sensazione) se prima non è giunta all’intelletto su cui viene ‘scritta’, per poi riflettersi come ‘pittura’. In altri termini, benché l’impressione sensibile giunga all’anima attraverso il diverso che la riceve da un organo del corpo, essa diventa sensazione solo giungendo all’identico con il quale se ne prende coscienza: soltanto allora il ‘pittore’ può dipingerla nel diverso, e cioè nell’immaginazione. La ‘scrittura’ dello ‘scrivano’, proprio perché non può essere intesa come ‘immagine’, deve essere considerata come l’evidenziazione di nessi all’interno di quell’intero che è l’identico, in modo che ne nasca un insieme più o meno congruente di parti intellegibili. Se poi gli elementi che in questo modo costituiscono l’opinione si concatenano tra di loro nasce la conoscenza.

Nel Menone, dialogo giovanile, ben anteriore al Filebo, Socrate dice: «Anche le opinioni vere, finché restano sono cose belle, capaci di realizzare tutto il bene possibile; solo che non acconsentono a rimanere per lungo tempo, e fuggono via dall’anima umana, per cui non hanno un gran significato, a meno che non s’incatenino con un ragionamento fondato sulla causalità. Ma proprio in questo, compagno Menone, consiste l’anamnesi, quella reminiscenza su cui sopra ci siamo accordati. Se collegate, esse dapprima divengono scienza e, quindi, cognizioni stabili. Ecco perché la scienza vale più della retta opinione: la differenza tra scienza e retta opinione sta, appunto, nel collegamento.»62

Occorre però precisare che questo ‘collegamento’ che rende scienza l’opinione non è completo se non giunge ad essere collegamento con il principio dell’intelletto mediante la dialettica. Il collegamento è insieme di nessi, e in questo consiste appunto la scienza (la quale resta tuttavia ipotetica), ma i nessi si articolano tutti a partire dal principio, e in esso si dispongono come parti dell’intero, e nell’intero vengono riconosciuti (‘ricordati’) come parti.63

A questa ‘reminiscenza’ ontologica corrisponde una reminiscenza psicologica, la quale non è altro che il «riafferrare ciò che insieme al corpo una volta [l’anima] sentiva, [e] allora noi diciamo, penso, che essa ha reminiscenza di quello.»64 In questo modo si ha che la memoria è la salvaguardia della sensazione, ma soprattutto, poiché lo ‘scrivano’ scrive nell’anima, abbiamo una vera e propria ‘nutrizione’ con il cibo dell’essere. Occorre però che questo cibo sia costituito da discorsi veri, come viene detto più esplicitamente nella Politeia.

Rifletti ora a questo, ripresi [ – dice Socrate – ]; fame, sete e simili bisogni non sono, in certo modo, lacune dell’organismo? – Sicuramente. – E ignoranza e stoltezza non sono un vuoto nella struttura dell’anima? – Certo. – Ora, questi vuoti non si potranno riempire rispettivamente nutrendoli e acquistando intelletto? – Come no? – E pienezza più vera è propria di ciò che ha meno o di ciò che ha più essere? – È chiaro: di ciò che ne ha di più. – Ebbene, secondo te, quale delle due categorie partecipa di più della vera essenza? Quella, per esempio, del pane, della

60 Resp. VI 494 d. 61 Phil. 38 e-39 b. 62 Men. 97 e-98 a. 63 È un insieme di nessi all’interno dell’Intellegibile che determina un’idea, e non esiste affatto per Platone una galleria di modelli del mondo sensibile. Dell’idea si

potrebbe dire quello che Parmenide dice dell’Essere nel suo poema: che essa, come l’Essere, resta «immobile nel limite di possenti legami». 64 Phil. 34 b.

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bevanda, del companatico e in genere degli alimenti, oppure la specie che comprende la vera opinione, la scienza, l’intelletto, insomma ogni virtù? Ecco, giudica così: a tuo parere, dove c’è più essere? nelle cose inerenti a ciò che è sempre simile e immortale e alla verità, che sono esse stesse tali e insite in un soggetto di uguale natura? oppure in quelle inerenti a ciò che non è mai simile e che è mortale, tali esse stesse e insite in un soggetto di uguale natura? – C’è molto più essere, rispose, nelle cose inerenti a ciò che è sempre simile. – Ora, l’essenza di ciò che è sempre simile ha forse più essenza che scienza? – No, affatto. – E allora? più essenza che verità? – Neppure questo. – E se ha meno verità, non ha anche meno essenza? – Per forza. – Ebbene, a dirla in breve, quei generi di cose che servono alla cura del corpo, non hanno meno verità ed essenza dei generi che servono alla cura dell’anima? – Molto meno, certo. – E così non credi che il corpo stesso ne abbia meno che l’anima? – Io sì. – Ora, ciò che si riempie delle cose dotate di maggiore grado di essere e che ha esso stesso più essere, non si riempie realmente più di ciò che si riempie delle cose dotate di minore grado di essere e che ha esso stesso meno essere? – Come no? – Se dunque è piacevole riempirsi delle cose convenienti alla propria natura, ciò che più si riempie in modo reale e delle “cose che sono”, più realmente e veracemente farà godere di un vero piacere. Invece ciò che partecipa delle cose dotate di minore grado di essere, si riempirà meno veracemente e solidamente, e parteciperà di un piacere più infido e meno vero.65 Quelle interne ‘scritture’, quando sono vere, sono intellegibili, e cioè essere all’interno dell’intelletto, mentre non avviene la stessa

cosa per le ‘pitture’: queste infatti si pongono sul piano del divenire, come avviene anche per il piacere. Dice Socrate a Protarco: «Non abbiamo sentito dire del piacere che è una perpetua generazione, ma che l’essere del piacere assolutamente non è? [...]. Ci sono dunque due cose, l’una è per sé, l’altra è sempre tendente ad altro.»66 La generazione è in funzione dell’essere, non l’essere per la generazione, poiché l’essere è della stessa natura del Bene: «Ciò in funzione di cui sempre è generato ciò che è generato in funzione di qualche cosa appartiene alla natura del bene».67

Non è certamente l’intelletto ad essere in funzione dell’immaginazione, ma viceversa, in quanto il diverso è sempre diverso, e sempre si determina con la sensazione, mentre l’identico è sempre identico a sé, ed è quell’intero che è sempre un intero anche quando è ‘vuoto’ di parti, ma che con la conoscenza si ‘ciba’ di queste parti appunto. In altre parole, come l’identico è essere, così il diverso è divenire, ed ugualmente tali sono i loro oggetti. Il piacere, di cui parleremo, è per ciò di natura inferiore, anzi non ha un suo proprio essere, come ci ha detto Socrate, e così neppure le ‘pitture’. Allo stesso modo, ad esempio, le immagini di cerchi che noi possiamo formarci nell’immaginazione si generano e svaniscono, e sono sempre varie, mentre l’idea di cerchio, senza la quale non potremmo avere quelle immagini, è sempre identica a sé e fuori del tempo.

Il cibo di cui si nutre l’anima è la scienza, ma non tutta la scienza, poiché essa ha un parte più pura ed una meno. Dice sempre Socrate a Protarco che la scienza si può dividere in due: «una parte della scienza riguarda la fabbricazione, l’altra riguarda l’educazione e l’allevamento.»68 Ma all’interno di esse si può operare un’altra divisione, ‘verticale’, come viene effettuata nel Sofista:69 quella usata dalla maggior parte degli uomini e quella usata dai filosofi; e infatti per l’aritmetica, ad esempio, «gli uni contano in qualche modo sulla base di unità disuguali fra loro, come due eserciti, due buoi, dicono due le più piccole cose e due le più grandi di tutte; gli altri non accetterebbero mai di seguirli, se non si ponesse che nessuna unità, fra le innumerevoli che ci sono, è diversa dall’altra.»70 Si deve per ciò affermare che vi sono scienze più pure e meno pure: si tratta della distinzione già effettuata da Platone nella Politeia.71

Inoltre, Socrate, tra le arti che servono di guida, assieme all’aritmetica, pone l’arte della congettura: se ne deduce che anche di essa, che comprende la dialettica, vi sia una parte più pura, e sarà quella che conduce alla conoscenza, e una meno pura, che conduce all’opinione. Egli dichiara infatti che è «di gran lunga la più vera delle scienze quella relativa a ciò che è, ciò che realmente è e che per natura è sempre identico a se stesso»; 72 mentre l’arte della persuasione, tra cui la retorica e la dialettica applicata alla realtà sensibile, pur di grandissima importanza per la vita di ogni giorno, le resta inferiore, come molto bianco non puro è meno bianco di poco bianco non mescolato ad altro colore. Questa mancanza di purezza vale in particolare per questo mondo, che per non essere mai identico a se stesso, ma sempre in divenire, non sarà mai colto in una conoscenza di verità perfetta: «Non v’è dunque mente né scienza alcuna che relativamente a tali cose possa cogliere la verità assoluta.»73

Ad un certo punto, Socrate si chiede «se c’è una potenza dell’anima la quale si esplichi nell’amare il vero [... che possieda] la purezza della mente e dell’intelligenza, e in modo superiore a tutte, oppure se ci tocca cercarne un’altra più eccellente di quella.»74 Poiché questa potenza risulta diversa dalla mente e dall’intelligenza, e d’altra parte deve avere un carattere dinamico di tensione verso il bene, essa si collocherà nel misto, quale sua tensione a legare il diverso all’identico, come aspirazione dell’anima all’unità. È questa la molla che spinge l’anima al bene, anche quando cade nell’errore di credere bene ciò che non è, o non si accorge di capovolgere la scala dei beni, come nel caso dell’identificazione del piacere con il bene, sostenuta da Filebo.

L’essere umano si caratterizza per ciò per una perenne tensione al bene, e d’altra parte, «se a un essere vivente permanentemente il bene sia presente, per sempre, assolutamente e da ogni punto di vista, tale vivente non avrà più bisogno di null’altro, avrà una perfetta sufficienza in se stesso.»75 Ma non è questo il caso dell’anima umana; e tuttavia vi è in essa una facoltà intermedia tra immaginazione (diverso) e intelletto (identico), facente parte del misto (credenza e ragione discorsiva), la quale si avvale degli elementi intellegibili (idee) per formare l’opinione e la conoscenza.76 La ragione discorsiva si presenta in questo modo come quella facoltà che esplica la propria funzione nel ricercare e «nell’amare il vero» per ‘nutrirsi’ di esso. La struttura triadica dell’anima (identico, diverso, misto) è di tale natura da tendere ad un rapporto interno perfetto, per quanto è possibile ad un essere generato, e ad esso aspira perché proprio in un rapporto perfetto trova l’unità dei suoi tre elementi. La conoscenza si presenta a questo punto come disvelamento della ricchezza

65 Resp. IX 585 a-e. 66 Phil. 53 c. 67 Phil. 54 b-c. 68 Phil. 55 d. 69 Soph. 265 c ss. 70 Phil. 56 d-e. 71 Resp. VII 521 d ss. 72 Phil. 57 a. 73 Phil. 59 b. 74 Phil. 58 d. 75 Phil. 60 c. 76 V. Theaet. 206 b-210 b.

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innata, nascosta nell’identico, che è nutrizione del misto mediante l’essere delle idee, e splendore nel diverso, se il piacere non prevarrà sulla razionalità. Il «dono degli dèi» si presenta quindi come la ragione discorsiva, capace di guardare al quel «fuoco d’una chiarezza abbagliante» che è l’oggetto dell’intelletto.

4. La sconfitta del «bel Filebo» Il problema del piacere, quale viene trattato nel Filebo, andrebbe inserito nel quadro generale che potremmo denominare

‘dell’amore e della Bellezza’, e che risponde ad uno dei tre ‘sentieri’ tracciati da Platone all’interno della sua concezione filosofica. Non sarà però possibile per noi trattarlo interamente: ci limiteremo per ciò al solo Filebo, con un inquadramento generale sommario.

Nel Filebo, dunque, Socrate aveva detto a Protarco che piacere e intelligenza sono ciascuno un’unità e nello steso tempo una molteplicità:77 abbiamo visto infatti la molteplicità delle scienze e come ciascuna si divida a sua volta in due a seconda della diversità dell’uso, pratico o speculativo. Socrate inoltre associa presto al piacere, per la completezza del discorso, il dolore come suo opposto dialettico, entrambi considerati quali specie dell’unico genere del misto, benché in precedenza li avesse posti in quello dell’infinito.78 Le due affermazioni non sono tuttavia contradittorie, poiché in se stessi essi fanno parte dell’«infinito che trascorre secondo il “più” e il “meno” attraverso il corpo e l’anima», ma si generano nel misto, tanto in rapporto al corpo quanto in rapporto all’anima. Socrate aveva fatto inoltre la precisazione che un piacere senza coscienza non è neppure tale poiché non verrebbe percepito: piacere e dolore, dunque, per presentarsi come sentimenti, devono essere uniti nell’uomo all’intelligenza.

Ora tuttavia gli interessa fare un’altra considerazione, e cioè indicare le cause del dolore e del piacere, che egli individua rispettivamente nel ‘dissolvimento’ dell’armonia che è in noi, e nel suo ‘ristabilimento’, come quando, avendo fame o sete, ci si nutre o ci si disseta. Egli avverte inoltre che corrompimento e ricomposizione dell’armonia riguardano sia il corpo sia l’anima, e che il desiderio che si presenta come ‘fame’ (sete, ecc.) non è affatto del corpo (che risulta ‘vuoto’), ma dell’anima che ricorda un’anteriore ‘pienezza’ del corpo, in quanto è sempre stato a contatto con il corpo.79

Socrate sostiene che «esiste una memoria di ciò che è opposto alle affezioni suddette [(del ‘vuoto’ e del ‘riempimento’) ...]. Quindi il discorso, avendo dimostrato che la memoria è ciò che sospinge verso le cose desiderate, ci ha rivelato che ogni impulso e desiderio e principio motore di ogni animale è proprio dell’anima.»80 Questo ci rimanda al rapporto originario tra gli opposti elementi dell’anima, nel quale il diverso, che media il rapporto tra anima e corpo, è in relazione con l’identico, che sappiamo essere un intero. In altre parole, il ‘vuoto’ del corpo si configura nella coscienza dell’individuo come ‘fame’ in quanto particolare ‘dissolvimento’ di un armonia che è data dal rapporto tra corpo e identico, mediato dal diverso, e che si presenta come ‘vuoto’ avvertito all’interno dell’intero (identico).

Ma il ‘vuoto’ (o la ‘disgregazione’) del corpo può essere contemporaneo anche ad un ‘vuoto’ dell’anima. Ciò significa, avverte Socrate, che vi può essere in questa condizione un doppio dolore (quello del corpo e dell’anima, quando ad esempio alla fame si aggiunge la mancanza di speranza di poterla soddisfare), o un dolore unito a un piacere (quando si ha speranza di soddisfare il desiderio).81 Poco prima aveva inoltre sostenuto che non si passa necessariamente dal dolore al piacere o dal piacere al dolore, ma vi è una condizione intermedia che è una terza condizione, propria di quella ‘forma di vita vicina agli dèi’, preferibile da chi sceglie la vita dell’intelligenza piuttosto che quella del piacere. Ma ora, dopo queste considerazioni di ordine ‘psicologico’, Socrate conduce il suo interlocutore a un più alto livello di considerazioni, chiedendogli se piaceri e dolori possano essere veri o falsi, o alcuni veri e altri falsi, come lo sono le opinioni.

Sembra infatti che, se si può scegliere tra sentimenti contrari, essi possano essere valutati sulla base di una loro intrinseca ‘verità’ o ‘falsità’, come accade per le opinioni opportunamente analizzate. Naturalmente la risposta di Protarco è che non è possibile che piacere e dolore siano falsi: in quanto sono percepiti come tali essi sono sempre veri, mentre per le opinioni le cose stanno altrimenti.82 Socrate cerca di convincerlo del contrario, citando i piaceri e i dolori di chi sogna, di chi è pazzo, e quelli che nascono assieme a opinioni false e a ignoranza; tuttavia non sembra che essi possano essere di per se stessi definiti qualitativamente veri o falsi, come lo sono invece le cose in generale. Nello svolgimento del discorso essi peraltro finiscono con l’affermare l’esistenza di piaceri malvagi e falsi,83 come anche risulta ad entrambi che l’anima ha a volte piaceri e dolori contrari a quelli del corpo.84 È questa, come è noto, una delle ragioni che provano secondo Platone che l’uomo non si riduce a corpo, potendo l’anima giudicare negative e nocive le inclinazioni corporee ed opporsi ad esse, come afferma Socrate nel carcere degli Undici.

Perché da un pezzo, lo so bene, questi miei nervi e queste mie ossa sarebbero o a Mègara o in Beozia, menate colà dalla opinione di ciò che per esse era il meglio, se io non avessi ritenuto più giusto e più bello, invece di andare in esilio e di darmela a gambe, pagare alla mia città la pena, qualunque essa sia, che ella m’impone. Ma chiamar cause ragioni di questo genere non ha che fare assolutamente. Ché se uno dice che, senza avere di codeste cose, e ossa e nervi e tutto quello che io ho, non sarei capace di fare quello che mi sembri dover fare, sta bene, costui dirà il vero; ma dire che queste sono la causa per cui io faccio quello che faccio, e dire al tempo stesso che io opero con la mente ma senza che ci sia per la mia parte la scelta del meglio, questo in verità è il più grossolano e insensato modo di parlare. E significa essere incapaci di discernere che altro è la causa vera e propria, altro quel mezzo senza cui la causa non potrà mai esser causa. E tuttavia proprio questo, quasi fosse la vera causa, la più parte degli uomini, brancolando come nel buio, chiamano causa: e le danno un nome che non è suo.85

77 Phil. 18 e. 78 Phil. 31 b-c. 79 Phil. 32 e-33 a; 35 a-b. 80 Phil. 36 d. 81 Phil. 36 a-d. 82 Phil. 36 c-d. Questo sta a dimostrare che il piacere e il dolore stanno dalla parte del diverso, mentre l’opinione, vera o falsa, sta da quella dell’identico o tende ad

esso, essendo l’identico il fondamento stesso del giudizio. 83 Phil. 36 c ss. 84 Phil. 41 c. 85 Phaed. 98 e-99 b. Ricordiamo che nell’Alcibiade I Platone dichiara per bocca di Socrate che l’uomo non è né il solo corpo né l’unione di anima e corpo, ma è la

sola anima, mentre il corpo è definito suo strumento. Alc. I 129 a ss.

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Socrate fa osservare a Protarco che per i piaceri e i dolori accade quello che accade per gli oggetti della vista: essi mutano se osservati da vicino o da lontano, soprattutto se paragonati tra loro.86 E infatti i grandi movimenti producono in noi queste due forme di affezioni, mentre quelli moderati no. A questo punto, Socrate fa un’affermazione un po’ sibillina: egli dice che «i nemici di Filebo [...] non considerano piacere ma incantamento proprio la stessa attrazione del piacere»;87 opinione che non è difficile attribuire a Platone e a coloro che si erano allineati con lui in questa diatriba. L’‘incantamento’ viene ad essere una specie di paralisi ipnotica dell’intelletto che non è in grado di manifestare pienamente il male insito in un determinato piacere, né è in grado di impedire all’anima di essere illusa dall’oggetto che le sta davanti.

È un fatto, sostiene Socrate, che i massimi piaceri li provano i malati, che i grandi piaceri come i grandi dolori nascono in una certa condizione di vizio dell’anima e del corpo: pensiamo, egli dice, al sollievo che nasce dal grattarsi la scabbia; ed è poi famosa la sensazione di piacere che Socrate prova nel carcere quando gli vengono tolti i ferri che gli stringevano la gamba.88 Ma è naturale che la mescolanza tra piaceri e dolori dell’anima e del corpo darà luogo a proporzioni diverse, sia nella realtà sia nella sua rappresentazione artistica; e avviene così che persino le tragedie e le commedie diano luogo a queste mescolanze. Il parametro però, capace di farci valutare tutte queste mescolanze, è sempre quello proposto dalla iscrizione di Delfo: “Conosci te stesso”, perché chi conosce se stesso conosce il giusto rapporto tra la propria anima, la salute del corpo e le ricchezze.89 In quelle finzioni teatrali, quando vengono rappresentati uomini ignoranti e deboli abbiamo la commedia, quando invece ignoranti e forti («uomini terribili») abbiamo la tragedia.90 In definitiva, dichiara Socrate, «in tutta la tragedia e la commedia della vita e in infinite altre situazioni, i dolori si mescolano insieme ai piaceri.»91

Dopo queste conclusioni, Socrate passa a trattare dei piaceri ‘puri’, i quali derivano dai colori, dagli odori, dalle figure, e soprattutto da quelle figure belle in se stesse che sono proprie della geometria; ad essi aggiunge quindi i piaceri che accompagnano l’apprendimento.92 Tutti questi piaceri appartengono al genere delle cose di misura definita: si può affermare per ciò che il piacere puro è più vicino alla verità, così come la purezza del bianco, che abbiamo già preso in considerazione, non consiste nella quantità del colore, ma nel suo non essere mescolato ad altro: per il piacere ciò vuol dire non essere mescolato al dolore.93 Questa è dunque la ‘verità’ di un piacere, e in genere di un sentimento, e non l’essere molto intenso.

Abbiamo inoltre visto che la generazione è in funzione dell’essere, non viceversa, perché l’essere ha un valore maggiore: di necessità dunque anche il piacere sarà in funzione dell’essere, e l’essere «appartiene alla natura del bene».94 Ne consegue che il piacere non è dalla parte del bene, e ne è lontana più della conoscenza. Alludendo poi alle affezioni dell’anima, Socrate mostra come risulti assurdo che chi soffre sia malvagio, e chi gode sia buono, se bene e piacere, da una parte, e male e dolore dall’altra, si identificano.95 Si tratta di un accenno a quella che era stata una tematica del Protagora.

Filebo aveva sostenuto che piacere e bene sono un’unica realtà e hanno un’unica natura: questa identità si è dimostrata falsa. Socrate di contro aveva affermato che l’intelligenza, pur non identificandosi con il bene, prende però parte alla sua natura: egli ora ribadisce che nessuna delle due forme di vita può essere ritenuta perfetta ed eleggibile se assolutizzata.96 Tuttavia, nella ‘casa del bene’ si possono fare entrare tutte le scienze, e si può permettere che esse corrano in quel ‘ricettacolo’ che è il «vallone della mescolanza»,97 ma viene vietato l’ingresso ai piaceri indiscriminati. Le ragioni di questo divieto risultano chiare: i piaceri disturbano l’intelligenza.98 «E allora diremmo forse bene in qualche modo affermando che noi stiamo ormai innanzi alle porte del bene e della sua abitazione?», domanda Socrate a Protarco. Ci troviamo ormai prossimi al termine della trattazione, e si devono trarre le conclusioni: si tratta di scegliere tra le due sorgenti del miele e dell’acqua, come aveva detto in precedenza, e quale ne sia la misura della giusta mescolanza. Ma, dice Socrate, «la potenza del bene ci è sfuggita e s’è rifugiata nella natura del bello. La misura infatti e la simmetria senza dubbio risultano dovunque bellezza e virtù»:99 siamo alla determinazione del Bene che abbiamo già considerato.

La presenza della Bellezza nella ‘casa del Bene’ è per Platone la condizione della genesi e della piena maturazione dei piaceri puri. Noi sappiamo infatti dal Fedro che il primo ‘incantamento’ erotico dell’anima nasce improvvisamente davanti all’apparizione della bellezza di un corpo. È il mito della ‘biga alata’, dell’auriga (anima razionale) che deve guidare il cavallo bianco (anima irascibile), docile al suo comando, e il cavallo nero (anima concupiscibile), indocile e recalcitrante.100 È costringendo l’anima concupiscibile a piegarsi alle redini della ragione che l’anima può ascendere dalla bellezza di un corpo alla ammirazione della bellezza di tutti i corpi, per poi salire alla bellezza dell’anima, a quella delle azioni virtuose, a quella poi delle scienze, per giungere alla bellezza della scienza del bello che sola può permettere la contemplazione della Bellezza in se stessa. La contemplazione del «vasto mare della bellezza», della Bellezza in tutta la sua pienezza, risulta la condizione della immortalità e della beatitudine dell’anima,101 in una condizione di purezza, «Perché non è lecito a cosa impura toccare cosa pura.»102

Come si diceva, il problema del piacere, trattato in diversi dialoghi e ripreso nel Filebo, acquista peraltro tutta la sua importanza soltanto se collocato nell’ambito più vasto che per ‘natura’ lo contiene. Vi sono infatti tre ‘sentieri’, individuati da Platone, che, prendendo avvio dai tre elementi dell’anima (diverso, identico, misto), ritornano a quell’unica meta da cui erano derivati. Questi sentieri sono quelli dell’amore, della conoscenza, della giustizia, le cui rispettive mete sono la Bellezza, l’Intellegibile, il Bene. Si

86 Phil. 41 e-42 b. V. la distinzione tra ‘arte icastica’ e ‘arte fantastica’ fatta in Soph. 235 b ss. 87 Phil. 44 b-c. 88 Phaed. 60 b. 89 Per i beni e i mali v. la classificazione che Socrate fa nell’Eutidemo. 90 Phil. 45 a ss. 91 Phil. 50 b. 92 Phil. 50 e ss. 93 Phil. 52 c ss. 94 Phil. 54 c. 95 Phil. 55 b. 96 Phil. 60 a ss. 97 Phil. 62 d. 98 Phil. 63 c-d. 99 Phil. 64 e. 100 Phaedr. 246 d ss. 101 Symp. 209 e ss. 102 Phaed. 67 b.

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tratta di percorsi che si compiono soltanto vincendo le grandi forze che ostacolano il raggiungimento della pienezza della paideia dell’uomo (piacere, ignoranza, ingiustizia), e che impediscono il suo congiungimento a Dio.

Vi è dunque un ambito in cui collocare il problema del piacere, a sua volta connesso con gli altri due, che rendono la concezione platonica contemporaneamente grandiosa e onnicomprensiva, e che ha permesso al filosofo di Atene la trattazione della sua tematica da punti di vista sempre diversi perché diverse sono le relazioni possibili. La scelta di Filebo del piacere viene ad essere in questo modo una scelta di ingiustizia e di ignoranza, e dunque una scelta di piaceri ‘falsi’, come la dialettica aveva già messo in evidenza in dialoghi quali l’Ippia maggiore, il Gorgia, il Protagora, la Politeia, il Convivio, il Fedro. Davanti alle due tesi di Filebo e di Socrate siamo davanti al bivio della scelta dei ‘deliri’: il delirio umano e quello divino; il primo, che abbassa l’uomo al livello di animalità; il secondo, che gli permette di salire dai deliri di Dionisio e di Apollo a quello delle Muse e soprattutto al delirio di Eros.103 Si tratta di Eros al seguito di Afrodite Urania, naturalmente, non certo di Afrodite Pandemia, alla quale ultima si è votato «il bel Filebo».104

Come sempre, l’intervento di Socrate nella discussione tra giovani non è stato quello dell’intromissione o del rimprovero, ma di sollecitudine a mostrare come, contro il parametro soggettivistico di Protagora, il ‘conosci te stesso’ delfico sia l’invito ad essere uomo secondo la misura di Dio, del Bene, poiché «Il dio è per noi la massima misura di tutte le cose, molto di più di quanto lo può un uomo, come invece dicono ora.»105

Nella Politeia Socrate aveva espresso questo amaro giudizio su coloro che nella vita non vedono altro bene che il piacere: Allora le persone che non conoscono intelligenza e virtù, che badano sempre alla buona tavola e a simili cose, vengono trasportate, sembra, in giù, e poi nuovamente indietro sino alla posizione mediana; e così errano per tutta la vita; e mai, superando questo limite, hanno innalzato lo sguardo a ciò che è veramente alto né mai vi sono state trasportate, né mai si sono realmente riempite di ciò che è, né hanno gustato un solido e puro piacere. Ma, come bestie, tengono sempre lo sguardo in giù, curve verso il suolo e le loro mense, e pascolano rimpinzandosi e montando; per la smodata cupidigia di questi piaceri si prendono a calci e a cornate, e s’ammazzano a vicenda con corna e zoccoli ferrei. La causa è l’insaziabilità, perché non riempiono di cose reali la parte loro che è e che serba.106 Secondo Protarco, il discorso di Socrate non è concluso, così che egli chiude il dialogo con le seguenti parole: «Ti resta ancora

poco da dire, Socrate; non vorrai infatti essere tu certamente a ritirarti prima di noi; ricorderò io a te ciò che è stato lasciato indietro...»107 Ma quanto restava da dire Platone non l’ha scritto, benché probabilmente sarà stato oggetto di discussioni all’interno dell’Accademia, come da quelle discussioni era stato occasionato il Filebo.

103 Phaedr. 265 b ss. 104 Symp. 180 d ss. 105 Leg. IV 716 c. 106 Resp. IX 586 a-b. 107 Phil. 67 b.