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L’IPPOGRIFO LaTerra vista dallaLuna In questo numero: ••••••••••••••••••••••••• Verità, dubbio, finzione •••••••••••••••••••••••••••••• Primavera 2003

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L’IPPOGRIFOLaTerra vistadallaLuna

In questo numero:

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Verità, dubbio,finzione

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Primavera 2003

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L’IPPOGRIFOLaTerra vistadallaLuna

SOMMARIOEDITORIALE3 Le verità possibili

di Piervincenzo Di Terlizzi

VERITÀ, DUBBIO,FINZIONE7 La pipa di Magritte

di Lucio Schittar11 Provocazioni della verità

di Flavia Conte11 Due poesie

di Francesco Di Bernardo e di Andrea Preo12 Il teatro della bugia

di Andrea Tagliapietra18 Il paradosso del filosofo

di Alessandro Fontana23 La teoria psicoanalitica come chiave

d’accesso alla questione gnoseologicadi Sara D’Andrea

25 Idee di veritàdi Federica Manzon

28 La certezza della Medicinadi Piero Cappelletti

35 La verità che guariscedi Annalisa Davanzo

39 Tutta la verità su Babbo Natalea cura di A. Grova, A. M. Del Pup e G. Bragato

45 Babbo Natale o la televisione?di Stefano Fregonese

49 Ulisse e le sirenedi Livia Iacobelli

50 Verità e finzionedi Tito Maniacco

55 Verità e finzione nella scritturadi Piervincenzo Di Terlizzi

58 La realtà dello sguardonella poesia di Octavio Pazdi Mara Donat

60 Verità e inganno in Mario Luzidi Marco Marangoni

62 Teatro e veritàdi Paolo Bosisio

65 «Trompe-l’oeil», inganni e verità in pitturadi Anna Valeria Borsari

70 La veritàè dietro l’angolodi Caterina Diemoz

72 In notitia Veritas?di Pier Luigi Pellegrin

74 Verità e televisionedi Toni Capuozzo

75 In difesa di una donnadi facili costumidi Martino Giuliani

77 La fotografia della realtàdi Lelle Zuppati

79 Menù fissodi Andrea Appi

81 La verità politica del processodi Isabella Rosoni

83 Il mutamento pauroso del mondodi Sergio Piro

86 I poveri sono mattio i matti sono poveri?di Liliana Piersanti

88 Verità e mortedi Umberto Piperno

91 Quale verità?di Orioldo Marson

96 Dubitavamo molto…ed era vero!di Ida Maddalena Masutti

RECENSIONI98 Gli eletti sapevano?

di Simonetta De Mattio100 Dal divano alla comunità

di Fabio Grigenti102 La maratona di Covacich

di Andrea Busato

QUI PORDENONE104 Racconti pordenonesi

Il Vez, Giovane Anonimo108 Il «Deposito Giordani»

Intervista a Giovanni Zanolin111 Flashback

a cura di Fabio Fedrigo

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Hanno collaborato a questo numero:Alunni Scuola Elementare «Duca d’Aosta», Cordenons (Pn).Andrea Appi, attore.Anna Valeria Borsari, artista.Paolo Bosisio, docente universitario, critico e regista.Gianna Bragato, insegnante.Andrea Busato, insegnante.Piero Cappelletti, medico.Toni Capuozzo, giornalista.Sara D’Andrea, studentessa universitaria.Annalisa Davanzo, psicoanalista.Anna Maria Del Pup, insegnante.Simonetta De Mattio, psicologa, psicoterapeuta e insegnante.Caterina Diemoz, giornalista e insegnante.Mara Donat, poetessa.Alessandro Fontana, filosofo.Stefano Fregonese, psicoterapeuta infantile.Martino Giuliani, pubblicitario.Fabio Grigenti, ricercatore.Angela Grova, insegnante.Livia Iacobelli, insegnante e scrittrice.Tito Maniacco, scrittore.Federica Manzon, studentessa universitaria.Orioldo Marson, teologo.Ida Maddalena Masutti, scrittrice.Marco Marangoni, insegnante.Giulio Mozzi, scrittore.Umberto Piperno, rabbino e docente universitario.Pier Luigi Pellegrin, giornalista.Liliana Piersanti, giornalista.Sergio Piro, psichiatra.Isabella Rosoni, docente universitario.Andrea Tagliapietra, filosofo.Elena Turchetto, operatrice grafica.Gianni Zanolin, assessore comunale.Lelle Zuppati, fotografo.

Sostengono la pubblicazione de «L’Ippogrifo»: Azienda per i Servizi Sanitari n. 6 «Friuli Occidentale»

e Dipartimento di Salute Mentale di Pordenone;Comune di Pordenone; Comune di San Vito al Tagliamento;

Amministrazione Provinciale di Pordenone; Coop Acli, Cordenons; Coop Fai, Porcia; Coop Service Noncello e Coop Itaca, Pordenone;

Licei riuniti «Leopardi-Majorana» di Pordenone,Liceo «Torricelli» di Maniago.

Un particolare ringraziamento a:Sandra Conte, Anna Piva, Gianluca Betto e Carlo Sartor.

Questa pubblicazione è stata realizzatacon il contributo della FondazioneCassa di Risparmio di Udine e Pordenone

Per inviare contributi, riflessioni e impressioni, scrivere a:Redazione «L’Ippogrifo» c/o Studio Rigoni, viale Marconi, 32

33170 Pordenone. Telefono e fax: 0434 21559.E-mail: [email protected] [email protected]

Libreria al Segno Editrice

Questa pubblicazione è promossadall’Associazione «Enzo Sarli»,via De Paoli, 19 - 33170 Pordenone.

Coordinamento editorialee di redazioneMario S. Rigoni,Francesco Stoppa,Patrizia Zanet.

RedazioneAngelo Bertani, Daniela Bortolin, Flavia Conte, Fabio Fedrigo,Piervincenzo Di Terlizzi,Giovanni Gustinelli,Roberto Muzzin, Luciana Pignat, Lucio Schittar, Silvana Widmann.

Progetto graficoe impaginazioneStudio Rigoni.

FotolitoStudio 7 srl - Fiume Veneto (Pn).

StampaTipografia Sartor - Pordenone.Stampato nel mesedi maggio 2003

issn 1590-8852-9

Vicolo del Forno 2

33170 Pordenone

Telefono 0434 520506

Fax 0434 21334

Copyright© del progetto editoriale:«L’Ippogrifo» by Studio Rigoni.È vietata la riproduzione, senza citarne la fonte.Gli originali dei testi, i disegni e le fotografie,non si restituiscono, salvo preventivi accordicon la Redazione. La responsabilità dei giudizie delle opinioni compete ai singoli Autori.

L’IPPOGRIFOLaTerra vistadallaLuna

In questo numero:

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Verità, dubbio,finzione

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Primavera2003

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Nella nostra cultura, laquestione della verità edella menzogna assumeforma con i Greci: comin-ciamo, quindi, con loro.Tralasciamo Omero, el’importante fatto che unaguerra decennale venga ri-solta da una bugia bencongegnata (il cavallo di Troia). Prendia-mo invece in considerazione Esiodo, chenel suo poema intitolato Teogonia (Lanascita degli dei), così racconta di averricevuto l’investitura al proprio ruolodalle divinità preposte al canto, le Muse:Una volta esse insegnarono il bel can-to ad Esiodo, / mentre pascolava ilgregge sotto il divino Elicona. / Perprima cosa mi rivolsero questo di-scorso le dee, / le Muse Olimpie, fi-glie di Zeus egioco. / «Pastori selvati-ci, cattiva gente, buoni solo a mangia-re: / sappiamo dire molte bugie similia certezze, / sappiamo anche – se cene vien voglia – cantare il vero». / Co-sì dissero le perfette parlatrici, figliedi Zeus, / e mi diedero uno scettro,ramo d’alloro fiorente, / appena colto– uno spettacolo: m’ispirarono il can-to, / parola divina, perché cantassi lecose di prima e di dopo, / e m’ordi-narono di levare inni alla stirpe deibeati che sempre sono, / ma, prima edopo di tutto, di cantare loro stesse(Versi 22-34).Intendo cercare tra i versi di Esiodoqualche indicazione per la lettura dei

contributi presenti in que-sto numero della rivista.

1. La verità è impreve-

dibile Tra i tanti perso-naggi e le ambientazionipossibili nella Grecia delVII secolo (luogo e tempoin se stessi già abbastanza

improbabili), indubbiamente le Museavrebbero potuto compiere scelte estetica-mente più raffinate, socialmente piùesclusive, che affidare la parola ispirata adun ignoto pastore delle regioni centrali. Non esiste ricchezza o potere che garan-tisca il possesso della verità; per contro,non c’è povertà o esclusione che non pos-sa farsi portatrice di verità.

2. La verità è autorevole Mi rifac-cio all’etimologia latina del termine: “au-torevole” dal verbo latino augeo, “accre-sco”, con connotazioni religiose. In primo luogo l’autorevolezza riguardail principio di derivazione della verità,che pare costituirsi come indiscusso: nelracconto esiodeo tale elemento è rappre-sentato dalle Muse, figlie di Zeus, la divi-nità somma. L’autorevolezza si può decli-nare in altri modi, con altre metafore (laforza della verità, lo splendore della ve-rità…) e rappresenta un elemento checonnette verità a religione, verità a pote-re: un elemento sul quale filosofia e psi-canalisi del secolo scorso molto hanno la-vorato, come alcuni dei contributi cheleggerete ben chiariscono.

EDITORIALE

Le veritàpossibili

Piervincenzo Di Terlizzi

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In secondo luogo, l’autorevo-lezza riguarda colui il quale sifa portatore della parola diverità, e inerisce dunque lasua attendibilità: con questocominciamo ad entrare nel-l’ampia serie di questioni cheriguardano il nesso tra veritàe comunicazione, sul qualetorneremo. Possiamo subitonotare che la mitologia grecacontiene un racconto nel qua-le la verità si rivela inefficaceper l’inattendibilità del suoportatore: si tratta della storiadi Cassandra, la profetessacondannata a vaticinare il ve-ro e a non essere mai creduta.In questo senso, si può parla-re di un’efficacia della verità,che nel caso di Cassandra ènulla. Il mondo contempora-neo della comunicazione cipone quotidianamente difronte alla conferma del fattoche l’efficacia, e il potere chene deriva, sono ben più lega-te all’attendibilità che allareale verità.Ci possiamo chiedere comepossa essere così, e noteremo(come avevano fatto in Greciai Sofisti) che ciò deriva dal fat-to che la verità necessita diuna comunità che condividedelle regole di comunicazio-ne. Tali regole determinanol’efficacia o meno della comu-nicazione. Ciò può sembrarerestrittivo, ma ha un’indubbiautilità: fornisce delle rassicu-razioni. Pensiamo ad Internet:mentre possediamo dei mezziche consentono, almeno teori-camente, a tutti di comunicarespontaneamente, liberamente,ad un pubblico smisurato, ri-schiamo che tutti questi since-ri comunicatori parlino neldeserto dell’inefficacia: ed ec-co che nascono newsletter,chat, gruppi moderati: appun-to, comunità che condividonoregole di comunicazione, diattendibilità.

3. Verità e menzogna sono

inestricabilmente connesse

Le Muse di Esiodo affermanochiaramente questo connubio,anzi, si presentano sostenendodi essere molto brave a dareveste di bontà a ciò che è falso,quasi che sia questa la loro pre-rogativa più importante. Soloin seconda battuta esse aggiun-gono di sapere – se e quandovogliono – dire la verità. C’è poco da aggiungere: la vitadi tutti i giorni, la politica, lapubblicità, non fanno altro checonfermare l’intuizione delpoeta greco.

4. La verità ha bisogno di

uno spazio di rappresenta-

zione, di una messa in scena,

della propria evidenza

Nel suo piccolo, il testo diEsiodo è una sceneggiatura.Vediamone gli snodi: – apparizione improvvisa delleMuse, splendide, di fronte adun povero pastore imbarazzato; – altisonante discorso d’inve-stitura da parte delle Muse; – consegna dello scettro d’al-loro (premio ed onere per ilpastore-poeta).Esiodo non a caso definisce loscettro theetòn (etimologica-mente, “ammirevole”): unospettacolo, appunto.Molti dei contributi che seguo-no rimarcano, in ambito filoso-fico o psicanalitico, questa di-mensione teatrale del discorsodella verità, che è anche lo spa-zio che si apre per la finzione(tanto più per motivi anchequesta volta etimologici: dafingo, “rappresento”).D’altra parte, che la verità vo-glia esibirsi implica un’impor-tante conseguenza, densa diconseguenze: essa è struttural-mente refrattaria a costituirsicome segreto. Quando il pos-sesso della verità si pone comesegreto, si entra nell’ambitoiniziatico, che è il campo del

potere. Il senso di questa con-nessione, tanto importante neinostri tempi, è stato magistral-mente – e narrativamente – in-vestigato da Umberto Eco nelPendolo di Foucault. Per tornare al punto di parten-za: la verità sarà sì imprevedi-bile, ma vuole rivelarsi.

5. La verità si offre nella

dimensione dialogica

Le Muse parlano ad Esiodo,che a sua volta comunicheràcon il suo pubblico: il tuttoraccontato nella cornice di untesto che sta a sua volta comu-nicando qualcosa a qualcuno. Se pensiamo a ciò di cui è in-vestito concretamente Esiodo,la situazione diventa ancorapiù chiara. Egli svolge la suaattività di poeta nel contestodi una cultura dell’oralità, ècantore di testi non scritti mache, costruiti su di una serie dischemi metrici e contenutisti-ci, vengono adattati alle esi-genze dell’uditorio che di vol-ta in volta s’incontra. Il mate-riale di base viene quindi rie-laborato per delle occasioni,per delle persone in carne edossa, che sono, ciascuna, uni-ca e irripetibile. La verità del-la parola starà quindi nell’es-sere presenti al qui-e-ora dellarecitazione, nel costituirsi par-te di una originale situazionecomunicativa, nel far sorgeresignificati da una concretaesperienza.Il segno scritto non è altro chela pallida traccia di una realtàmolto più vitale. La garanzia diquesta vitalità, in fondo, non èaltro che l’esistenza umana.

6. La verità è esperienza

Esiodo teatralizza la sua ispi-razione poetica sotto forma divicenda autobiografica, ap-punto, tanto che lascia a noiposteri anche il suo stesso no-me (nome d’arte peraltro: “il

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dolce cantore”, nome assuntoproprio in seguito a quest’e-sperienza) per suggellarnel’attendibilità. Alcuni dei testi che seguono sipresentano sotto questa ango-latura, vicende che si coloranodella ricerca di verità (una ve-rità che è quasi tutt’uno con lasaggezza): non si tratta solo deiracconti di esperienze di vita,come può apparirci naturale,ma anche delle esposizioni del-le fatiche della ricerca scientifi-ca ed intellettuale. Abituati ad investire di unacerta freddezza oggettiva le ca-ratteristiche della ricerca scien-tifica, siamo invitati a riconsi-derarne la pulsante vitalità nel-l’esperienza dell’individuo.

7. La verità è arte Le Mu-se di Esiodo sanno dire il falso,ma anche cantare il vero.Ci sarà una differenza, no?Si potrà anche dire che la men-zogna e la finzione ispirano,che sono creative, e tante altrecose che segnano la storia del-l’arte a noi vicina. Ma… se leg-giamo solo rapidamente i testi

che seguono, ci accorgiamoche una caratteristica di tutti icontributi è proprio la partico-lare fragranza che il discorsoassume quando si approssimaal nocciolo pulsante della que-stione, la verità. Sarebbe inte-ressante, per contrasto, (manon lo faccio!) analizzare la di-versa tensione stilistica chetutti i testi presentano attornoalle aree semantiche dellamenzogna; verificare come ildubbio sia messo immediata-mente in comunicazione sino-nimica con la verità e – perconseguenza – in antinomiacon la menzogna. Insomma, alla fine dei conti laverità, magari messa in dubbio,magari pensata come illusoria,attrae. Non c’è niente da fare.

8. La verità cambia la vita

Esiodo smette i panni del pa-store, saluta le sue greggi e co-mincia a viaggiare come poeta. Che migliori la tecnologia, curile malattie, guarisca le fobie,rassereni, oppure rattristi, laverità non lascia immutato ciòche incontra. Dico meglio: le

verità e le declinazioni del pa-radigma della verità, quindianche la ricerca della verità eperfino la menzogna, masche-ramento della verità, rimandonostalgico ad essa.Ogni discorso sulla verità èquindi il contrario della parolache definisce tanto dei nostritempi, intrattenimento: pro-prio perché la verità non puòlasciare le cose come stanno. In quest’ambito di stravolgi-mento di ciò che precede trovaun ulteriore spazio anche ilnesso tra verità e sacro.E dunque: verità imprevedibi-le, legata al suo contrario, sce-na, dialogo, esperienza, arte,sovvertitrice della vita, chissàquant’altro ancora. Chiudo queste note ben consa-pevole di tutta la limitata sog-gettività di queste approssima-zioni; del fatto che ogni voltache ho discusso con qualcunoquesta povera congerie d’idee,nuove questioni si sono aperte.Ogni lettore troverà altre ipo-tesi di lavoro, e queste che sa-ranno? Forse imprevedibili,sovvertitrici… ■

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Verità: Franz Marc – Dubbio: Pier Paolo Pasolini – Finzione: Orson Welles.Opere di Luciano Leonardo Preo.

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VERITÀ, DUBBIO,FINZIONE

Verità e finzione sono benesemplificate dalla pipa ma-grittiana. Si vede chiaramenteche si tratta di una pipa, mal’indicazione sottostante è pe-rentoria: «Questa non è unapipa». Chi guarda non può cre-dere ai propri occhi, lo scrittogli intima che quello che vedenon è proprio quello che crededi vedere; allora che cosa sarà?Un simbolo fallico, ad esem-pio. Che può nascondere unapolemica dei Dada control’eccessiva tendenza all’inter-pretazione che gli psicanalistimettono nel loro lavoro. Maproprio i Dada hanno mostra-to l’importanza dei fattori in-consci nella costruzione del-l’opera d’arte (e sotto questoaspetto hanno spianato la stra-da ai surrealisti: da entrambi igruppi il pittore belga è statofortemente influenzato) ed èabbastanza strano che in que-sto modo facciano uno sber-leffo ai sacerdoti della (allora)nuova religione.Un’altra ipotesi. Il carattere in-timativo della didascalia puòfare il verso ai vari dittatori chea quel tempo cominciavano adoscurare l’orizzonte europeo,ma questa sarebbe un’osserva-zione critica troppo sommessa,troppo poco… dadaista.Per concludere si possono ave-re due atteggiamenti: si posso-no cercare di capire le ragionipossibili, oppure si lascia staree si passa oltre; incappati in undilemma che pare insolubile,se ne usano gli aspetti più ri-danciani (come, secondo me,ha fatto il pittore) per un nuo-vo gioco da giocare: giocando

“alla cavallina” si salta a pièpari il problema. C’è ancheuna possibile interpretazionepiù moderna: si può trattare diun “doppio messaggio”, invia-to contemporaneamente, sullostile dei “doppi messaggi” chetalora i genitori inviano al fi-glio psicotico, ma è un’inter-pretazione, come dire, postu-ma, fatta alla luce di considera-zioni più tarde.In ogni caso l’immagine di Ma-gritte ben rappresenta la diffe-renza fra verità e finzione: ciòche si vede non è ciò che si pen-sa di vedere; in più c’è una goc-cia d’inquietudine, che sembraderivare dall’incertezza.

La verità inventata La ve-rità può essere vista sotto variaspetti, ma un aspetto tor-menta da tempo il sonno deifilosofi: chi garantisce la ve-rità? A questo quesito episte-mologico (che cioè riguarda ifondamenti della verità:«Qual è l’autorità che lo ga-rantisce?») sono state datemolte risposte. Si è detto chela verità – di un esperimentoscientifico, ad esempio – erasicura se l’esperimento potevavenir replicato, ma Poppersorprese tutti affermando (e inumerosi casi di falsificazionedi dati scientifici sembranodargli ragione) che il criterioprincipale è quello della falsi-ficabilità.A dire il vero dalla verità ci sia-mo spesso tenuti distanti, siaper un vago sentimento soteri-co, sia perché il suo contrarioci è parso in fondo più umano,forse anche più fruibile. La fin-zione, ci sembra, non è tantosemplice, non è semplicementenegazione della verità, è com-plicata, e sicuramente va capitameglio nei suoi dettagli.

Quando la finzione è più

forte della verità Ora vivoglio parlare di Ugo Foscoloe di quel meraviglioso poemache sono I sepolcri.Ad un certo punto, nel descri-vere un paesaggio notturno, egliparla anche dell’upupa, che nel-la sua descrizione è un uccellonotturno, che svolazza “per lafunerea campagna”. La verità èche l’upupa non è un uccellonotturno; di notte dorme e nonva in giro in cerca di cibo, anche

La pipadi Magritte

Lucio Schittar

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Nella pagina precedente: mascheradel laboratorio Blu Oltremare

AD Design di Gabriella Battistin, Cordenons (Pn).

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perché ha una livrea troppo vi-sibile e sarebbe lei la cacciata,col pericolo di scomparire dalnovero delle specie. Il fatto èche le hanno assegnato un no-me, forse onomatopeico, cosìcupo, con così tante “u”, che lesta proprio bene pensare chesvolazzi di notte da una tombaall’altra. Insomma la finzionepoetica (si diceva la “licenzapoetica”) è stata ancora una vol-ta più forte della verità.

Quando la finzione è forte

quasi come la verità Par-liamo di quel fenomeno, bennoto ai farmacologi, per cui unfalso farmaco, un farmaco chei pazienti assumono convintiche gliel’abbia ordinato il loromedico, ma che è fatto solo diamido, ha in realtà degli effet-ti positivi, persino nell’atte-nuare i dolori da cancro. Sitratta dell’effetto placebo, chedimostra tutta l’importanzadella autoconvinzione, e cheper questo è diventato un ter-mine di paragone per giudica-re l’attività di un farmaco. Èinutile dire che maggiore è ladifferenza sociale tra medico epaziente, più intenso è l’effet-to placebo: e più forte è la con-vinzione del paziente che ilmedico pensi solo a curarlo. Inun’epoca come questa, in cuile medicine alternative sonostate ufficializzate, la Sanitànon è più intoccabile, e fare ilmedico piano piano sta diven-tando soltanto un lavoro, è fa-cilmente prevedibile che an-che l’effetto placebo perderàd’importanza.

Quando la finzione si tra-

veste da verità Come è no-to, molto si parla di “sicurezzaindividuale”, molto si usa lafrase “mettere a norma”, e chipronuncia queste frasi prima lefa girare dentro in bocca e cosìsi sente tranquillo.

verità, dubbio, finzione

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Gustav Klimt, Nuda Veritas (1899 e 1898).

Le iscrizioni in alto recitano: «Se non puoi piacere a molticon le tue azioni e la tua arte, piaci a pochi. Piacere a molti è male».

«Verità è fuoco, verità vuol dire illuminare e bruciare».

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verità, dubbio, finzione

Occorre dire che queste parolemettono tranquillo più facil-mente chi è un po’ avanti conl’età, chi ha bisogno di tran-quillità e rigore per vivere sen-za pensieri i suoi ultimi anni, equindi desidera che il mondointorno non cambi (le personeanziane sono le più sensibili aicambiamenti ambientali: pen-sate a quante di loro sono col-pite da confusione mentale perun semplice ricovero ospeda-liero). Mi dà l’impressione cheil bisogno di stabilità delle per-sone anziane sia diventato la…norma di tutti, che si vada per-dendo il valore dell’imprevistoe aumentino velocemente icomportamenti definiti anor-mali. Gli anziani pensano: «Inpassato (“ai miei tempi”) c’era-no posti per i matti, per i tro-vatelli, per chi rubava, per chicommetteva un delitto perchéera impazzito. Ora non ci sonopiù e le strade sono piene diqueste persone mollate dagliistituti e dai manicomi, i tele-giornali sono pieni di delin-quenti trattati come personenormali; è piuttosto difficilesopportare un tale cambia-mento». Forse l’aumento delletelecamere nelle strade di alcu-ni comuni corrisponde all’in-vecchiamento della società incui viviamo: la soluzione rapi-da di questi problemi, comepurtroppo è ben noto ai giudi-ci, in realtà non esiste, e coloroche affermano che per risolver-li bisogna aumentare il numerodelle telecamere o che bisognaaumentare il numero di coloroche fanno rispettare la leggeforse non dicono la verità, ma,fornendo la loro risposta comese fosse l’unica, sostengono inrealtà un’utopia. Fanno dellasicurezza un valore assoluto, ecosì ad esempio il gran numerod’immigrati li fa sentire quasiassediati, mentre nelle consul-tazioni vediamo che i cittadini

sono pronti a sostenere chiun-que prometta di toglierli daquesto assedio.

Quando la finzione sembra

in un primo tempo la verità

Tutti sembrano abbracciare laverità quando questa si manife-sta sotto l’aspetto della solida-rietà; chi non si direbbe solida-le con coloro che soffrono, coni più deboli? Rischierebbe didiventare impopolare. Ma seandiamo a vedere un po’ me-glio, usando i termini di Mi-chelstaedter, ci accorgiamo cheper lo più si tratta di rettorica, eche chi parla in realtà non ap-pare persuaso di quello che di-ce. Il numero dei volontari ita-liano è altissimo (tre milioni),di per sé sorprende e fa scrive-re molto, ma poi veniamo ascoprire che per molti la volon-tarietà e la disponibilità nonvanno sempre insieme con lagratuità, perché in una buonapercentuale di casi i “volonta-ri” hanno trovato il modo divenir pagati; non basta, la soli-darietà (parola purtroppo ge-nerica) nella vita di ogni giornoviene poco praticata. Assaispesso gli invalidi trovano lapiazzola per il parcheggio riser-vato a loro occupata con i piùvari pretesti da chi non vi ha,per sua fortuna, alcun diritto.

Quando la finzione infanti-

le serve a imitare la verità

adulta I bambini giocano adimitare gli adulti. Quando gio-cano usano di preferenza untempo: l’imperfetto (diconoper esempio: «Io ero un cow-boy»; o «Io ero la mamma»).È un uso che, esaminandolobene, appare giustificato: l’im-perfetto è un tempo del passa-to, e in più è un tempo chenon è concluso, non è definiti-vo, è in fondo il tempo del so-gno, della fantasia, un tempoche ci comunica: «Io nella mia

mente sono stato un cow-boyo la mamma» e ci rivela tuttal’importanza del gioco comeimmedesimazione, come farfinta di essere un adulto, e im-parare così a cavalcare (un ba-stone) o a cullare (una bambo-la). È insomma una finzionedei bambini per imitare gliadulti che loro vorrebbero es-sere (un uomo a cavallo, lamadre), allo stesso modo incui gli adulti s’immaginanodelle cose («…io nel pensiermi fingo…») nella poesia, op-pure immaginano, nel teatro,di essere degli altri uomini.

Quando verità e finzione

assieme aspirano alla bel-

lezza Talora l’imitazione (equindi la finzione) è così bellache sembra gareggiare con laverità: capita spesso a molti didire di un fiore falso: «È cosìbello che sembra vero!». Maattenzione: di un bellissimofiore vero diciamo: «È così bel-lo che sembra falso!». Non so-lo, ma giocando tra il falso e ilvero possiamo instillare deldubbio nei nostri interlocuto-ri. Vi faccio un esempio moltosemplice: anni fa ho chiesto adun bravissimo vetraio a lumedi farmi in vetro un insetto(una specie di grosso scarabeo)di cui gli portai il modello ve-ro, e che poi regalai ad un mioamico collezionista di farfalle edi coleotteri. Egli lo mise nellasua collezione, fermato an-ch’esso da aghi d’acciaio. Co-loro che lo vedevano pensava-no che fosse vero e poi, avvisa-ti che uno dei coleotteri erafalso, ne indicavano uno cheinvece era vero.

Concludendo: la verità è sem-plice e luminosa (anche se avolte è nascosta dalle nebbiedell’ipocrisia), ma la finzione èpiù complessa, e a volte forsemerita di essere studiata. ■

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Quando si parla della verità, ildifficile è scegliere da che par-te mettersi, trovare il luogo dalquale sollevare il profilo anchefilosofico di un così complessotema. Sì, perché quello dellaverità è un problema maledet-tamente complesso. Hegel di-rebbe che, trattandosi della ve-rità, il punto è proprio quellodi non stare da qualche parte,di non “isolarsi”nell’esclusivitàdi una prospettiva. Di non re-stare ancorati alla rigidità delfinito, chiuso nella propria de-finitiva identità, ma di porsidal punto di vista dell’intero,in qualche modo, diremmonoi, “al di sopra” o, meglio, nelmezzo, tra le parti.Per Hegel, infatti, «il solo veroè l’intero», una proposizioneche compare nella Fenomeno-logia dello Spirito, un’operaaccattivante nell’intuizionenarrativa che la ispira e cheviene concepita dallo stessoautore come «il romanzo diformazione», la “storia”, latrama di un dileguare in dis-solvenza delle figure della co-scienza filosofica.Un’idea di verità come intero,quella di Hegel, che oggi nessu-na riflessione filosofica contem-poranea avrebbe probabilmen-te il coraggio di sottoscrivere.Un concetto che, se lasciatomeramente a se stesso nella suaastratta solitudine priva dellasua stessa dialettica, forse fa-rebbe rivoltare lo stesso Hegel. In che senso allora l’idea del-l’intero, proprio nel senso diHegel, può riguardare ancorauna discussione attualmenteinteressante intorno alla verità?

Non già per il suggerimentoconclusivo, panottico, definiti-vo del senso della verità che ilsuo sistema assoluto evoca.Questa è una visione che seahimè Hegel ha contribuitocon la sua esaustiva sintesi adalimentare, è in sé troppo sco-pertamente peregrina per im-pegnare una riflessione a sepa-rarsene, sebbene i problemiche l’idea di Assoluto mettonoin campo non siano di pococonto e chiedano ancora unsupplemento di indagine (cosadel resto da altri tentata).«Il vero è l’intero» significapiuttosto qualcosa di interes-sante per noi nel senso che se laverità resta semplicemente laposizione di una prospettiva,cioè una “tesi” circoscritta neiconfini della sua identità irrevo-cabile (ab-soluta), essa è destina-ta ad apparire un errore e per-ciò, presto o tardi, a rovesciarsiin un altro da sé, quell’altro chenella definizione della propriaidentità “iniziale” escludeva di

essere e di diventare. Ora, il fat-to è che per Hegel la verità nonè mai confinabile ad un puntodi vista, (così come non è la me-ra sommatoria aritmetica di tut-ti punti di vista), e non può es-serlo perché essa non è maisemplicemente e definitivamen-te qualcosa, ma è qualcosa chediviene sempre qualcos’altro,qualcosa che si altera da ciò chepuntualmente è (o ha preteso diesser stata), nel senso che il ve-ro è sempre dif-ferente. Il dive-nire altro del medesimo è l’irre-quietezza di ogni finito porsidell’essere che costitutivamentenell’atto stesso del suo nascereserba in sé anche l’ora del pro-prio tramonto. Reale non è maiciascun modo di essere per sé,ma il movimento di un dilegua-re nella differenziazione chesfumando libera e salvaguardail fiorire del mondo nella suasconfinata ricchezza. Stare nellaverità per il filosofo non signifi-ca confinarsi nella de-finizionedi un’essenza irrevocabile (se-condo la logica dell’“intellettoastratto”), ma cogliere il movi-mento concreto della pluralità,trovarsi nell’infra dell’alterazio-ne di ogni “che cos’è” (compre-sa l’individualità della nostrapiù propria coscienza) attingi-bile come fluidità e “travaso”delle sue sfumature. Una plura-lità che per la filosofia più re-cente non la speculazione con-cettuale, ma la scrittura di unanarrazione è in grado di secer-nere, per così dire, da un recon-dito secretum che è il misterodella stesso della creazione edella parola. Non a caso, “la fe-nomenologia” sia pure di una

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Provocazioni della verità

Flavia Conte

Ma sfuggire realmente a He-gel presuppone che si valutiesattamente quanto costistaccarsi da lui; presupponeche si sappia sino a dove He-gel, insidiosamente forse, sisia accostato a noi; presuppo-ne che si sappia, in ciò che cipermette di pensar controHegel, quel che è ancora he-geliano; e di misurare in checosa il nostro ricorso a lui siaancora, forse, un’astuzia cheegli ci oppone e al termine delquale ci attende, immobile ealtrove. M. Foucault,L’ordine del discorso.

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verità, dubbio, finzione

coscienza in formazione, comenel caso di Hegel, è consapevo-le racconto del movimento in fi-gure in dissolvenza della verità.Hegel chiama “contraddizio-ne” il rovesciamento dell’iden-tico nell’altro e “dialettico” ilmetodo, cioè la “via” (odos) at-traverso la quale (met) esso sidipana. Per questo non solo“tutte le cose” in quanto finitenella loro singolarità di parte, inquel che hanno di proprio, so-no in se stesse “manchevoli”(prive dell’altro) e per ciò “con-traddittorie” e destinate a di-ventar altro da ciò che sono, masono ciò che sono in verità, per-ché smettono di essere proprie ase stesse e diventano altro: il lo-ro “vero” essere appartiene aldifferimento cui sono destinate(per Hegel in modo “irresistibi-le” in quanto “manchevoli”) e

che affiora nel margine apertodalla loro de-formazione. Per-ciò, egli dice che «la contraddi-zione è la radice di ogni movi-mento e vitalità; qualcosa simuove, ha un istinto e un’atti-vità solo in quanto ha in sé stes-so una contraddizione».

Essere nel vero (ma diciamo pu-re: “essere” semplicemente) si-gnifica allora “contra-dirsi” dir-si contro, cogliersi nell’instabilegioco di una relazione che è fra-intendimento, per il quale tuttoquel che è, diciamo che è, per-ché la modalità del suo limitenon è il segno della de-finizione(a tappe) dell’essere, ma sfuma-tura, la traccia che lascia di sé inciò che gli resta sempre accantoe oltre; significa accogliere nellafinitudine che ogni esser di par-te ospita, non la pretesa di unfarsi valere, ma lo spettro dupli-ce di una destinazione che è adun tempo congedo e invio, dis-sidio e slittamento. Abitata dalla negazione e dallamancanza, ogni verità di parteè ambigua radice di una stranatotalità che è quella di un asso-luto dileguare. ■

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Renato Calligaro, Filosofo.

Irreprensibile CosaFrancesco Di Bernardo

Irreprensibile CosaQuando appari nella rincorsaE lasci il vuotoChe ti manifestaDentro il segno di una cicatriceE alla mia attenzione puoiSfuggire ma non al cuoreCosa fatta d’altroNel vuoto che restaQuando appare a meA noi che non sappiamoLo sgomento del suo farsiInnanzi agli occhi làDove all’istante manchiIrreprensibile cosaAltro è la pauraO l’io divisoMadre per questo di ogniCura che ci trasformaE blandisce e unisce

The great composerAndrea Preo

Pietas, pietas, s’involadall’abbarbico dell’illacrimata cosa:non stringe l’abbraccio– s’abbandona.

Pietas, pietas, la veritadeooh… che meraviglia, ha un corpoed un odor leggero– s’accalora.

Pietas, pietas, ora dubitatefra i tanti cocci d’un vasogreco, una figura… (Chi è, chi è?)– s’assapora

Pietas, pietas, una finzioneo l’indistinto… farsi… di un ordineo il cercare… la maglia rotta– m’abbandona.

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1. Dire la cosa che non è

Immaginiamo di dover spie-gare cos’è una bugia a qualcu-no che non abbia mai mentito.È il compito che, nella quartaparte de I viaggi di Gulliver(1726), il protagonista del ro-manzo di Jonathan Swift, nonsenza qualche imbarazzo, cer-ca di assolvere. Nel paese de-gli Houyhnhnm – onomato-pea che dovrebbe riprodurrefoneticamente, almeno nellapronuncia inglese, il nitritod’un cavallo – i cavalli sonoanimali razionali, mentre gliuomini, i crudeli e sordidiYahoo (sì, proprio come il no-to portale che troviamo su In-ternet), sono animali assoluta-mente irragionevoli. GliYahoo accolgono Gulliver,sbarcato in quella landa fanta-stica dopo le avventure di Lil-liput (la terra degli uomini mi-nuscoli), di Brobdingnag (laterra dei giganti) e di Laputa(la terra degli scienziati stupi-di), alla stregua di alcunescimmie arboricole africane,ossia urlando e lanciandoglicontro i propri escrementi. Si-gnori di quel luogo, tuttavia,non sono i litigiosi e sciocchiumanoidi che danno a Gulli-

ver un così disgustoso benve-nuto ma, per fortuna del mal-capitato viaggiatore, i pacificie sapienti Houyhnhnm, deltutto simili a quei cavalli che,nelle coeve stampe hogarthia-ne del Mondo alla rovescia,stanno compostamente sedutiin carrozza, facendosi trainareda sguaiate quadrighe di esse-ri umani. La cosa che colpìmaggiormente i lettori sette-centeschi del Gulliver, im-pressionando in particolareImmanuel Kant, che delle pa-gine di Swift era sincero ed as-siduo ammiratore, fu la que-stione dell’assoluta veridicitàdegli Houyhnhnm. Nel capi-tolo quarto della quarta partedel romanzo, Gulliver espone«la nozione di vero e falsopresso gli Houyhnhnm»: «Ilmio padrone [così Gulliverchiama il cavallo che gli offreospitalità] m’ascoltò mostran-do grandi segni di disagio;giacché il dubitare e il noncredere sono cose tanto fuoridell’usato in quel paese, che isuoi abitanti non sanno qualcontegno assumere in similicongiunture. E rammento co-me, discorrendo frequente-mente con il mio padrone sul-

la natura umana nelle altreparti del mondo, e cadendo ildiscorso sulle menzogne e lefalse rappresentazioni, fosseper lui difficile comprenderecosa intendessi dire, ancorchéperaltro dotato di grandissimaperspicacia. Infatti, egli ragio-nava nel modo seguente. Di-ceva che l’uso della favellaserve per intenderci l’uno conl’altro, e per essere informatisui fatti; ordunque, se uno di-ceva la cosa che non era, que-gli scopi restavano delusi: poi-ché io non posso propriamen-te dire d’intendere qualcuno,né tantomeno d’essere infor-mato, ove mi si lasci in unacondizione peggiore dell’i-gnoranza, essendo stato por-tato a credere una cosa neraquando invece è bianca, e cor-ta quando invece è lunga. Equesta era l’unica nozione cheavesse della facoltà di menti-re, tanto perfettamente com-presa e praticata fra le creatu-re umane». Dunque, nella ter-ra dei cavalli razionali, chenon sanno cos’è la bugia e nonconoscono la pratica del dub-bio, mentire significa dire lacosa che non è. Ma si possonodire cose che non sono? Nel

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Il teatro della bugia

Andrea Tagliapietra

Andrea Tagliapietra insegna Sto-ria della filosofia all’Università diSassari. Dal 1993 cura l’edizione deiDialoghi di Platone per Feltrinelli. Èconsulente per il settore filosofia escienze umane della Bruno Monda-dori. Dal 1991 è editorialista e col-laboratore delle pagine culturali de«Il Gazzettino» e, dal 1996 al 2001,

del mensile «Capital». Principalipubblicazioni: La metafora dellospecchio. Lineamenti per unastoriasimbolica, Feltrinelli 1991; L’Apoca-lisse di Giovanni, Feltrinelli 1992;Gioacchino da Fiore, Sull’Apocalisse,Feltrinelli 1994; Platone, Fedone osull’anima, Feltrinelli 1994; Kant-Constant, La verità e La menzogna.

Dialogo sulla fondazione morale del-la politica, Bruno Mondadori 1996;Il velo di Alcesti. La filosofia e il tea-tro della morte, Feltrinelli 1997; Checosa è l’illuminismo?, Bruno Mon-dadori 1997; Filosofia della bugia.Figure della menzogna nella storiadel pensiero occidentale, BrunoMondadori 2001.

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dialogo platonico detto Euti-demo o “sull’eristica”, il pro-tagonista del dialogo, il sofistaEutidemo, sbeffeggia il suointerlocutore Ctesippo difen-dendo la tesi per cui mentire èimpossibile. L’argomentazio-ne di Eutidemo ribalta la defi-nizione della bugia coniata daGulliver a beneficio degliHouyhnhnm. Se dire la veritàequivale a dire cose che sono,anche chi mente dice cose chesono. Infatti, come già soste-neva Parmenide, dire cose chenon sono è assolutamente im-possibile, dal momento che«non potresti conoscere ciòche non è, perché non è cosafattibile, né potresti esprimer-lo» (DK 28 B 2,7-8). Ne cose-gue che è necessario affermareche «nessuno dice il falso» eche, se qualcuno parla, «dicela verità e cose che sono» (Eu-tidemo 283e - 284c). Eutide-mo non fu l’unico dei sofisti ainterpretare in senso aporeti-co le scoperte dell’ontologia,ovvero di quella disciplinadell’essere che aveva mosso iprimi passi nelle pagine delPoema sulla natura di Parme-nide. Per esempio, a conclu-sioni inverse rispetto a quelledel personaggio del dialogoplatonico era giunto un allie-vo di Gorgia, Seniade di Co-rinto, che, basandosi sulla me-desima equazione di essere everità formulata da Eutidemo,affermava, invece, che «tuttoè falso». Se, come sostenevaGorgia (DK 82 B 3), non esi-ste un essere, non esiste nem-meno alcun pensiero dell’es-sere, e se il pensiero dell’esse-re significa verità, data la nonesistenza dell’essere non c’èalcuna verità, ma solo e anco-ra l’ininterrotta teoria del “fal-so” o, come dicono i Greci,dello pseûdos (DK 81). Parolain sé ambigua, che significavuoi “falsità” ed “errore”,

vuoi “bugia” e “menzogna”.Ambiguità che, del resto,compete anche al verbo pseù-domai che, in greco, vuol diresia “sbagliarsi” che “mentire”.Ciò che avvicina l’errore allamenzogna è la loro comuneapparenza oggettiva di falsità.

2. Finzione, immedesimazio-

ne e verità In una societàcome quella dei cavalli razio-nali di Gulliver, in cui la comu-nicazione è assolutamente tra-sparente e la parola rispecchial’oggetto, la falsità dell’errore equella della menzogna sembra-no coincidere. Si tratta, inrealtà, di un punto di vista cheaccomuna, singolarmente, al-cuni aspetti del pensiero pri-mitivo e infantile, certe patolo-gie, come l’autismo, con l’im-

postazione della logica dell’es-sere che la tradizione attribui-sce a Parmenide. Facciamo unesempio. Mostriamo a indivi-dui adulti e ad alcuni bambiniuna bambola, una casetta dellebambole, un giocattolo e duescatole, una rossa e una blu,così da poterle chiaramente di-stinguere. Poniamo la bambolain modo che essa possa assiste-re a ciò che facciamo. A questopunto prendiamo il giocattoloe mettiamolo nella scatola blu.Poi spostiamo la bambola den-tro la sua casetta, in modo chenon possa vedere quello chestiamo facendo. Adesso toglia-mo il giocattolo dalla scatolablu e mettiamolo nella scatolarossa. Fatta quest’ultima ope-razione, tiriamo fuori la bam-bola dalla sua casetta e doman-diamo agli spettatori, adulti ebambini, dove, a loro avviso, labambola cercherà il giocattolo,nella scatola blu o in quellarossa? Gli adulti risponderan-no nella scatola blu, mentre ibambini al di sotto dei quattroanni, ma anche un computer ilcui funzionamento segua iprincipi eleatici della logicadell’essere (cioè un computer alogica binaria 1/0, essere/nonessere, come quelli attuali) o loHouyhnhnm che ospita Gulli-ver, risponderanno nella scato-la rossa. La differenza ha a chefare con la capacità degli adul-ti e dei bambini di età superio-re ai quattro anni (ma anche,come dimostrano recenti studidi etologia, di alcuni animalisuperiori, quali scimmie, cani,gatti, ecc.) di costruire un mo-dello dei contenuti della pro-pria mente e, insieme, di co-struire un modello dei conte-nuti della mente altrui, metten-doli a confronto. In questo ca-so dell’ipotetica mente dellabambola, sulla quale non siproiettano automaticamente icontenuti della propria mente,

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In questa e nelle pagine seguenti:illustrazioni di Roberto Innocenti,

tratte da Pinocchio,Edizioni C’era una volta…

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come fanno, in genere, i bam-bini al di sotto dei quattro an-ni, ma di quello che – in base,certo, alle informazioni dispo-nibili (nell’esempio, il fatto chela bambola fosse dentro allasua casetta e, quindi, non aves-se potuto assistere allo sposta-mento del giocattolo dalla sca-tola blu alla scatola rossa) –, sisuppone possa essere il puntodi vista dell’altro. A detta deglietologi evoluzionisti il conti-nuo gioco di inganno e con-troinganno che costituisce ilrapporto fra predatore e predaè stato il principale stimolo perlo sviluppo dell’intelligenzaanimale (umana e non umana).Possiamo chiamare questoprocesso capacità di immede-simazione. Grazie a questa ca-pacità ci appare il mondo co-me stratificazione di sensi e dipunti di vista, come fascio direlazioni complesse, come

molteplicità irriducibile e nonpiù come somma puntuale dienti isolati e collegati fra lorosoltanto dalla negazione reci-proca. Grazie a questa capa-cità noi possiamo fingere e si-mulare, ma anche comprende-re la finzione e la simulazione,dubitare, smascherare l’ingan-no e, dunque, dare alla veritàquel significato concreto e di-namico (Michel Foucault lachiamerebbe verità critica) cheha a che fare con la più ampiagamma delle dimensioni dellavita. In questa prospettiva mipiace leggere il famoso para-dosso con cui Pablo Picassodefiniva l’arte come «la menzo-gna che ci fa capire la verità».Non è un caso, infatti, che nelpaese degli Houyhnhnm i sag-gi e pacifici equini – raccontaGulliver – «non hanno la piùlontana idea di cosa siano i li-bri e la letteratura». Per legge-

re un romanzo, per intendereuna poesia, per assistere a unarappresentazione teatrale o aun film, per fruire di qualsiasialtra opera di immaginazione,ma anche per intrattenere unabanalissima conversazione chenon sia composta di mere pro-posizioni protocollari (come,per esempio, alle ore “k”, nelluogo “y”, alle condizioni d’os-servazione “z”, accade il fatto“x”) è necessario possederequesta facoltà di immedesima-zione. In virtù di questa fa-coltà, la funzione di verità nonva riferita alla diade reciproca-mente negativa e esclusiva diessere e nulla, ma alla diade re-ciprocamente affermativa e in-clusiva di stesso e di altro.

3. Dire altro da ciò che è il

caso È in questo senso che, amio avviso, si deve interpreta-re il famoso superamento del-

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l’ontologia di Parmenide, chePlatone propone in quel pas-saggio del Sofista dove lo Stra-niero di Elea, protagonista deldialogo, afferma che «vera è laproposizione che dice su di tele cose che sono come sono»,mentre “falsa” è «quella chedice di te cose altre (hétera) daquelle che sono». Queste ulti-me, si affretta a precisare l’E-leate, «dicono cose che sono,ma altre da quelle che sono inrelazione a te» (Sofista 263b).Il falso non è il nulla, ma il di-verso, il differente, l’altro del-la relazione. Solo con l’acqui-sto dei concetti di alterità e direlazione, il falso e, quindi, lastessa possibilità oggettiva del-la menzogna, ottengono visibi-lità, pensabilità e significato.Ma, si potrebbe dire egual-mente, che soltanto mediante iconcetti di alterità e di relazio-ne la verità diviene qualcosache non coincide con tutto ciòche si dice o con nulla di ciòche si dice. È perlomeno sin-golare che, nel circuito logicoche connette l’essere alla ve-rità, dischiudendo la dimen-sione dell’errore e del falso, lafalsità stessa, per essere, abbiabisogno dell’alterità, così co-me, nel circuito pseudologicodella menzogna, che muovedall’originarietà della figuradell’altro (per mentire bisognasempre essere almeno in due,sicché anche l’autoingannopresuppone una sorta di sdop-piamento di sé), la bugia, peresser tale, necessiti della pre-supposizione di quella verità,e di quella possibile unificazio-ne e immedesimazione conl’altro, che il discorso menzo-gnero provvede a negare soloin un secondo momento. So-stituendoci quindi a Gullivernel tentativo, probabilmentedisperato, di spiegare agliHouyhnhnm cos’è una bugia,potremmo dire che mente co-

lui che enuncia “x” credendoche “x” non sia il caso (pren-diamo questa formulazionedell’inerenza dal saggio diUmberto Eco, Dire il contra-rio), ossia che “x” sia altro daciò che è il caso di dire, e fa ciòcon l’intenzione di ingannare,ovvero mettendo in atto tuttele strategie possibili affinchécolui a cui è rivolto l’enuncia-to “x” creda che, per il parlan-te, l’enunciato “x” è il caso.Come si può facilmente vede-re, così, in realtà, noi non for-niamo una definizione dellabugia, ma, piuttosto, finiamoper descrivere il comporta-mento del bugiardo. La bugia,cioè, non è ciò che si dice, néla relazione fra ciò che si dicee il mondo (altrimenti tra l’er-rore e la bugia non ci sarebbedifferenza), ma una particola-re situazione che prevede unamolteplicità originaria di refe-

renti, quasi una sorta di teatroove si dà un’intreccio di rap-presentazioni e di intenziona-lità. D’altra parte che la bugianon abbia a che fare, se non la-teralmente, con la relazionefra ciò che si dice e il mondo,ce lo mostra l’esempio classicoe insieme paradossale dell’e-nunciatore che enuncia “x”credendo che “x” non sia il ca-so, mentre “x” è il caso.

4. Mentire dicendo la ve-

rità Si tratta, in poche paro-le, della situazione limite percui colui che afferma il falso,mente dicendo la verità. Al-l’interno di questa situazionesi va dal bugiardo che dice ilvero per caso e senza volerlo aquello «zenit dell’arte menzo-gnera», per dirla con GuidoAlmansi, che prevede il deli-berato uso della verità alloscopo di ingannare. Di que-st’ultima variante, vale a diredella sincerità del seduttore, èesempio magnificamente in-quietante il Valmont de Le re-lazioni pericolose (1782) diChoderlos de Laclos. Il diabo-lico visconte prima finge l’a-more per la sventurata Mada-me de Tourvel, quando ancoranon lo prova, e poi, con unmagistrale controllo che tutta-via finirà per ritorcersi controlui stesso nel finale moralisticodel romanzo, continua a finge-re anche quando ormai ne èinnamorato: «non uscii dallesue braccia che per gettarmialle sue ginocchia per giurarleamore eterno; e, bisogna con-fessare tutto, pensavo quantodicevo» (Lettera 125). LaTourvel, allora, non può piùaver difese innanzi a uno spa-simante così spudoratamentesincero e la sua protesta po-trebbe essere ben riassunta daquella battuta de Il bugiardo(1643) di Pierre Corneille cherecita: «Che? Anche quando

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dicevate il vero, in realtà men-tivate?» (Atto V, scena IV, v.1648). «Al busiaro no se ghecrede gnanca la verità» (AttoII, scena X, v. 8), chiosa Arlec-chino ne Il bugiardo (1750) diCarlo Goldoni. Invece, a pro-posito della prima variante,ossia del bugiardo che dice ilvero per caso e senza volerlo,mi viene in mente il tragico ecrudelissimo scenario raccon-tato da Jean-Paul Sartre ne Ilmuro (1939). Qui Pablo Ibbie-ta, imprigionato dai franchistidurante la Guerra civile diSpagna, viene interrogato sot-to tortura a proposito del na-scondiglio del proprio capo eamico Ramon Gris. Pablo sache Ramon è dai suoi cugini,nei dintorni della città e quin-di, per sfidare gli aguzzini piùche per ingannarli, indica unposto improbabile e sgradevo-le, la capanna dei becchini, alcimitero. Il giorno dopo Pa-blo, che ormai crede di dover-si avviare verso il plotone d’e-secuzione, viene inaspettata-mente rilasciato. Incontra ilpanettiere Garcia che lo infor-ma che Ramon Gris è stato uc-ciso: «È stato un coglione. Halasciato la casa del cuginomartedì perché avevano avutoa che dire. Non mancavano lepersone che l’avrebbero na-scosto, ma non voleva doverpiù niente a nessuno. Ha det-to: “Mi sarei nascosto da Ib-bieta, ma dal momento chel’han preso andrò a nascon-dermi al cimitero” […] L’han-no trovato nella capanna deibecchini. Lui ha sparato loroaddosso e loro l’hanno steso».Proprio girando attorno ai ca-si estremi e paradigmatici dichi mente dicendo la verità odi chi dice il falso ma nonmente, Agostino, nel Sulla bu-gia (395 d.C.), elabora quellache è, forse, la definizione del-la menzogna che ha avuto, nel-

l’arco della storia del pensierooccidentale, il più stabile e du-raturo successo.

5. Il dialogo della menzo-

gna Cos’è una bugia? Unabugia, scrive Agostino, «è l’af-fermazione del falso con l’in-tenzione volontaria di ingan-nare» (mendacium est enuntia-tio cum voluntate falsum enun-tiandi) (De mendacio IV, 4).Infatti, è necessario precisareche «non chiunque dice il fal-so mente», sicché, a giudiziodel Vescovo di Ippona, per ar-rivare ad una definizione chia-ra e inequivocabile della men-zogna si deve prendere in esa-me un fattore supplementarema decisivo, quello dell’inten-zionalità. «Mente», prosegueAgostino, «chi pensa una cosae afferma con le parole o conqualunque mezzo di espressio-ne qualcosa di diverso. Perquesto si dice che chi menteha un cuore doppio (duplexcor), ossia un doppio pensiero(duplex cogitatio): ha un pen-siero della cosa che sa o ritienevera e che non dice, un altro diquella che sa o ritiene esserefalsa e che dice al posto delprimo. Da ciò deriva che sipossa dire il falso senza menti-

re, se si pensa che sia così co-me si dice, sebbene così nonsia, e che si possa dire il veromentendo, se si pensa che siafalso e lo si afferma al postodel vero, sebbene in realtà siacosì come si afferma. È dun-que dall’intenzione dell’animo(ex animi sui sententia) e nondalla verità o falsità delle cosein sé che bisogna giudicare seuno mente o non mente» (Demendacio III, 3). Tuttavia, co-me ormai spero appaia chiara-mente dallo sviluppo del no-stro discorso, anche Agostinonon definisce la menzogna insé (che, in quanto tale, ossiacome fenomeno oggettivo,presenta tutte le difficoltà acui si è già accennato), quantopiuttosto la situazione relazio-nale entro cui si manifesta l’e-vento menzognero. La bugianon è la parola bugiarda o ilnesso negativo che questa pa-rola intrattiene con una pre-sunta verità oggettiva delmondo. Non è, propriamente,nemmeno la semplice volontàingannatrice, seppur questo,in fondo, sia il contenuto piùproprio e storicamente fecon-do della definizione agostinia-na. In realtà, ciò che fra le ri-ghe del testo agostiniano pos-siamo leggere, anche e soprat-tutto oltre Agostino e oltre letrattazioni eminentemente eti-co-morali della questione, èche la bugia – ogni bugia – cioffre, come si è detto in prece-denza, una specie di teatro dicui siamo, insieme, spettatori eattori. La teatralità della bugiaprevede l’incrocio di due di-versi processi di immedesima-zione: quello di colui che, peringannare, deve immedesimar-si nella vittima del suo ingan-no e quello di colui che, pernon farsi ingannare, deve im-medesimarsi nel suo inganna-tore. Anzi, sviluppando intutt’altro contesto una bella

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intuizione dei semiologi Mas-simo Bonfantini e AugustoPonzio (Il dialogo della menzo-gna), potremmo dire che ilteatro della bugia prevede al-meno cinque ruoli che perso-nificano i rapporti fra discorsidiversi: 1. colui che mente (ilbugiardo); 2. colui a cui simente (l’ingannato); 3. coluiche sa la verità (il testimone);4. colui che smaschera la men-zogna (il giudice inquisitore);5. colui a cui si mostra lo sma-scheramento della menzogna(lo spettatore-osservatore). Inutile aggiungere che questapluralità di ruoli può ridursi auna sola persona, come nellafigura limite dell’autoinganno,o dispiegarsi in tutta la suateatralità nelle forme del mon-do della vita che, dall’originedel teatro, si rispecchiano nel-l’esperienza della rappresenta-zione drammatica.

6. Evento, teatro e filoso-

fia La bugia, come la mag-gior parte dei fenomeni delmondo della vita, accade, ossiasi dà nella forma dell’evento econsiste in un evento. Ora, ilteatro, sin dalla sua remotacomparsa nella cultura umana(che probabilmente è assai piùantica di quanto gli storici delteatro siano disposti ad am-mettere), consiste nel coglierel’evento e nel metterlo in sce-na come tale. In questo, ossianella capacità del teatro di ab-bracciare l’evento, conservan-dolo anche nel gioco della rap-presentazione – che, come ciha insegnato Antonin Artaud,non è mai una ripetizione, maè sempre un nuovo evento ori-ginale e originario –, sta la ric-chezza euristica che l’arte e so-prattutto la prassi drammatur-gica può mettere a disposizio-ne della filosofia. Credo sia uncampo d’indagine molto fe-condo, tanto più che il pensie-

ro occidentale, da Platone finoa Nietzsche, non si è quasi maiinteressato al teatro e, quandolo ha fatto, ciò è avvenuto soloin quanto antimetafora dellafilosofia. Infatti, se la filosofia,come sua vocazione fonda-mentale, assume su di sé ilcompito di separare il vero dalfalso, il reale dall’illusione, ilteatro, invece, appare comequel luogo dove tale distinzio-ne viene continuamente messain questione. Diciamo appare,perché, in realtà, ciò che il tea-tro fa entrare in crisi non è l’e-sistenza della verità, bensì lamodalità della distinzione concui si pretende di separarla dalfalso, ovvero gli indici dellafinzione, dell’irrealtà, dellanon sussistenza di ciò che ac-cade in scena. Qualcuno hadetto che l’attore è quel bu-giardo che, quando recita, di-ce sempre la verità. L’attore, invirtù di ciò che egli stesso è, ciconsente di apprendere lamolteplicità di senso e di posi-zione di quel “punto di vista”che noi chiamiamo “io”, lapluralità dei ruoli assunti datale “io” nell’incrocio dellecircostanze e delle situazionirispetto alla pretesa di unicità

dello sguardo filosofico, allasua staticità, alla sua presun-tuosa superficialità. Il dialogoè, con tutta evidenza, l’ele-mento strutturalmente fonda-tivo (non l’unico) del teatro.Ma il dialogo è anche il modocon cui la filosofia entra nellastoria della cultura occidenta-le, vuoi nella sua forma fluens,intendendo per dialogo l’iro-nia, il dubbio e la prassi di vi-ta del filosofo socratico, vuoinella sua cristallizzazione let-teraria, ossia nel corpus dell’o-pera platonica, costituito, ap-punto, dai Dialoghi. Il dialogo,quest’antica intersezione frateatro e filosofia, è il luogo acui il pensiero filosofico devenecessariamente tornare. Nonper ricuperare un’improbabileforma letteraria, né per scim-miottare nuove mode erme-neutiche o dialettiche, ma persondare quel rimosso incon-fessabile della nostra culturache ha a che fare con l’origina-rietà del molteplice, ovverocon l’irriducibilità dell’essereall’Uno. Quell’Uno a cui, inve-ce, secondo i principi della ra-zionalità occidentale, il multi-verso del tutto deve sempreessere ricondotto. Il teatro, aimargini della nostra cultura, siè fatto custode della moltepli-cità e della polifonia dei sensidi contro all’ostinato monotei-smo riduzionista della ragio-ne. È stato, spesso, spazioestremo, anomalo e pericolo-so, scena di crimini, di cru-deltà e di follia. Scena, quindi,anche e soprattutto di menzo-gne, di inganni, di bugie e dibugiardi. Dramma di bugiardifinti, gli attori, e di bugiardiveri, i personaggi con cui l’ori-ginario teatro della bugia e lasua intrinseca serietà sono an-dati a dispiegarsi sulla scena,nella giocosa bugia del teatro,rimanendovi riflessi come inuno specchio. ■

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Breve nota bibliografica

Per chi volesse approfondire mi èd’obbligo rinviare al mio Filosofiadella bugia. Figure della menzognanella storia del pensiero occidentale(Bruno Mondadori). I saggi diEco, di Bonfantini e di Ponzio sitrovano in AA. VV., Menzogna esimulazione (Edizioni ScientificheItaliane). Per Almansi segnalo G.Almansi, Bugiardi. La verità in ma-schera (Marsilio). Per Foucault e ilrapporto fra teatro e filosofia con-siglio almeno La scena della filoso-fia in M. Foucault, Il discorso, lastoria, la verità (Einaudi). Per Ar-taud l’ormai classico A. Artaud, Ilteatro e il suo doppio (Einaudi).

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Nell’Ermeneutica del soggetto(corso al Collège de Francedel 1981-82, apparso nel2001), Foucault ha individua-to in Descartes una sorta dispartiacque nella lettura delrapporto tra soggetto e verità.Prima di Descartes l’accessoalla verità avveniva attraversole cosiddette tecniche di sog-gettivazione, cioè esercizi su disé che nell’etica greco-romanaa partire da Socrate fino alloStoicismo, esprimevano piùche un “conosci te stesso” una“cura di sé”, una cura sui. Se-condo i precetti di questa eticanon si accede alla verità se nondopo un lungo e assiduo ap-prendistato che pone il sé alleprese con se stesso e che fadell’individuo un soggetto,non già un soggetto di verità,bensì un soggetto per la verità.Foucault ha descritto minu-ziosamente questi esercizi ri-guardanti la cura sui in La curadi sé e nell’Ermeneutica; neisuoi ultimi corsi dell’1982-84

ha coniugato il lavoro della cu-ra sui con l’esercizio della par-resia, quel “dire il vero”, quelcoraggio di dire la verità ai su-periori e a se stessi, che si op-pone a tutte le varie forme dilusinga e di inganno quali l’a-dulazione, la blandizie, la po-lemica, le tecniche retorichedel dialogo, del biasimo, delplauso, dell’elogio e della per-suasione. In questo lavoro diaccesso alla verità, tramite lapratica del dire il vero, il sog-getto perviene ad una trasfor-mazione di sé (metanoia, con-versione), cambia stile di vita,modifica il suo rapporto tra sé

e gli altri e correlativamentequello degli altri con sé, trami-te esercizi come l’autocoscien-za solitaria, l’esame e la provasu di sé, tanto nella vita priva-ta quanto in quella pubblica.È propriamente il coraggio di

dire il vero che in definitiva daSocrate fino ai Cinici e gliStoici romani, definisce un’eti-ca e un’estetica dell’esistenza,una techne tou biou.Secondo Foucault la linea didivisone tra l’atteggiamentocritico antico e l’analitica dellaverità moderna, sarebbe dun-que tracciato in occidente daDescartes. Nel primo caso so-no gli esercizi della spiritualitàascetica (che non va confusacon la fuga cristiana dal mon-do) a legittimare il soggettonella sua parola di verità; nelsecondo, la verità si definisceattraverso la prova di dubbiotramite regole assiomatiche,oggettive, evidenti: verità/illu-sione da un lato; certezza/er-rore dall’altro. Nell’Ermeneu-tica Foucault ha sfumato inqualche misura i toni piuttostoaspri di questa divisione, rin-tracciando alcuni prolunga-menti dell’atteggiamento anti-co nella filosofia postcartesia-na e in pensatori come Spino-sa, Hegel, Schopenhauer,Nietzsche e nello Husserl del-la Krisis; in effetti anche inquesti filosofi l’atto della co-noscenza, al di là del fatto chevenga valorizzato o squalifica-to, «resta legato alle esigenzedella spiritualità» (p. 29, macfr. pp. 182-183). Comunquesia, nel corso tenuto a Berke-ley nel 1983 a proposito delladifferenza tra il dubbio carte-siano e l’atteggiamento parre-siastico, egli sosteneva: «primache Descartes raggiunga un’e-videnza indubbiamente chiarae distinta non è ancora del tut-to certo che quel che egli cre-

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Il paradosso del filosofo

Alessandro Fontana

Questo intervento, presenta-to a Karlsruhe il 21 settembre2002 in occasione di un Con-vegno dedicato a «MichelFoucault e le arti», è stato am-putato per ragioni di spaziodella sua parte centrale conl’accordo dell’autore. Il testointegrale sarà pubblicato con ulteriori sviluppi in altra sede,trattandosi di un lavoro incorso d’opera.

Alessandro Fontana (Sacile1939) vive e lavora in Francia. Ha lavorato con François Fu-ret e con Michel Foucault delquale ha tradotto per Einau-di La nascita della clinica(1969) e L’ordine del discorso(1977). Ha inoltre curato l’e-dizione italiana dell’Antiedi-po di Deleuze-Guattari (Ei-naudi ). Ha collaborato al vo-lume collettivo, curato daFoucault, Io, Pierre Rivière(Einaudi 1976). Ha raccoltouna serie di saggi di Foucaultintitolato Microfisica del pote-re (1977) e curato insieme aMauro Bertani il corso ’75-

’76 intitolato Bisogna difende-re la società (Feltrinelli). Trale sue pubblicazioni: Il vizioocculto (Transeuropa), Poliziadell’anima (Ponte alle Gra-zie), numerosi saggi tra cui Lascena (Storia d’Italia Einaudi,vol. i,1970) a cui il presentecontributo si riallaccia.

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de sia vero. Al contrario, nellaconcezione greca della parre-sia l’acquisizione della veritànon costituisce problema, per-ché il fatto di detenere la ve-rità è garantito dal possesso dicerte qualità morali: che qual-cuno possieda qualità moralitestimonia per sé del suo ac-cesso alla verità e viceversa»(p. 6). Si potrebbe obiettareche la verità degli antichi nonè la certezza dei moderni e chenello stesso Descartes non vi èaccesso alla certezza senza unaserie di precauzioni ed esercizipreliminari. Tuttavia, tali eser-cizi sono solo mentali e perciònon hanno che un debole ef-fetto sull’individuo che vi sisottopone. Il fatto è che a par-tire da Descartes la verità cam-bia luogo e statuto: essa non èpiù quel che permette all’indi-viduo di divenire soggetto ac-cordando il suo stile di vita alsuo pensiero, ma è qualcosa didato che non implica (o impli-ca molto poco) né un cambia-mento di vita né un lavoro sudi sé; è qualcosa di autorefe-renziale, posto al di là e indi-pendentemente dall’individuoche vi si rapporta; qualcosache non ha che un tenue lega-me con il bios, la vita, l’esi-stenza, il modo di vivere di co-lui che tenta di avvicinarla e dicoglierla. Si tratta di una veritàche intrattiene un rapportoestrinseco nei confronti delsoggetto, la cui sola regola daseguire consiste nello sfuggiremetodicamente le finzioni e leillusioni che possono indurlosulla cattiva strada, quella del-l’errore. Descartes ha descrit-to molto bene le tecniche diaggiramento dell’errore trami-te l’esercizio del dubbio, vistoche per lui la questione essen-ziale era: come pervenire allacertezza evitando tutti gli osta-coli e le aporie dell’atteggia-mento scettico? Gli esercizi

della prova del dubbio sono,com’è noto, il sogno e il geniomaligno. Ma non la follia, per-ché, come ci ricorda Descartesnelle Meditazioni, posso bendubitare di sognare così comeposso dubitare che un geniomaligno si diverta ad ingan-narmi, ma non posso dubitaredi essere qui, seduto accantoal fuoco, in vestaglia, a menodi non essere folle, come queifolli che credono di essere deire o delle brocche: «suvvia, –dice allora il filosofo – non sa-rei meno stravagante se mi re-golassi su questi esempi».A proposito della follia comeesercizio del dubbio, Foucaultha intrattenuto, com’è noto,un vivacissimo scambio conDerrida. In Follia e sragionedel 1961, sul cogito cartesianoaveva scritto: «ormai la follia èesiliata. Se pure all’uomo ca-pita di impazzire, il pensiero,come esercizio sovrano di unsoggetto che impone a se stes-so il compito della verità, nonpuò essere insensato: l’eventodi una ratio». A ciò Derrida inun testo del 1963, Cogito estoria della follia, ha contrap-posto l’esistenza “iperbolica”di quel che egli chiama un Lo-gos originario dove follia e ra-gione coesisterebbero, un Lo-gos originario che né una tota-lità finita né la riduzione adun’esclusione storica riusci-rebbero ad esaurire; al cheFoucault nella postafazioneall’edizione italiana del 1972

di Storia della follia, ha ribat-tuto risolutamente che in De-scartes «la follia viene esclusadal soggetto che dubita perpotersi qualificare come sog-getto dubitante». Posizione didifesa, in Derrida, di una Phi-losophia perennis – che ricor-da quella di Hegel nell’Enci-clopedia (par. 408) a propositodella coesistenza di follia esragione in quella forma di

pazzia che Pinel chiama mora-le – una filosofia che si trova adisagio nei riguardi di unaproblematica, piuttosto imba-razzante, esclusione della fol-lia che essa non riuscirebbe adinglobare nel suo progetto to-talizzante. Posizione storica egenealogica in Foucault nelguardare al cogito cartesianocome ad un evento radicale,con un duplice effetto: da unlato, l’orizzonte luminoso del-la conoscenza e della scienza,la sovranità di una ragione at-traversata – come dice Hei-degger (nelle pagine consacra-te all’analisi del cogito nei suoicorsi su Nietzsche) da un«sentimento supremo di po-tenza e sicurezza», un senti-mento che ci rende, per dirlacon le stesse parole di Descar-tes «padroni e possessori dellanatura»; dall’altra, una linead’ombra attribuibile non alcogito ma all’io empirico, l’in-dividuo posto ai margini,estrinseco alla sovranità dellaragione, alle prese con un’al-tra verità, una verità frusta, si-lenziosa, impoverita, residuale– poiché come scriveva Fou-cault nel 1961: «dall’uomo al-l’uomo vero, il cammino passaora attraverso l’uomo folle».Tutta la Storia della follia èpercorsa da questo progettoanticartesiano con un duplicerisultato: per un verso, lascrittura definita ingenuamen-te da qualcuno “barocca”, chesi spiega e si giustifica nel co-glimento necessario di quelche è fuori del cogito con unostile e un approccio che nonsono quelli del cogito; per l’al-tro, una valorizzazione dellafollia come ricettacolo dellaverità – la grande follia diNietzsche, Van Gogh, Artaud– presentata nella prefazionedel ’61, poi soppressa da Fou-cault nella riedizione dell’ope-ra nel ’72 a causa degli equi-

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voci e fraintendimenti che po-teva generare.Resta la questione posta dalprocedimento cartesiano: chene è dell’individuo residuale,dell’individuo “naturale” checon la prova del dubbio haestromesso come errore tuttociò che dipende dal corpo, daisensi, dall’immaginazione, dal-le passioni, per potersi costi-tuire come cogito, come sog-getto della conoscenza? Qual èlo scarto, destinato ad ap-profondirsi (una questione chesarà ripresa anche da Husserlnelle Meditazioni cartesianedel 1929), tra l’io empirico el’io trascendentale? La miaipotesi è che questo io declas-sato, impoverito, residuale nelsuo rapporto con la vita e laverità, trovi modo, a questopunto, di esprimersi dentro lospazio di una scena dalla qualeemerge, all’epoca dello stessoDescartes e accanto a lui, ilteatro moderno: il teatro dellavolontà colpevole di Shake-speare, il teatro delle passionifuneste di Racine, il teatro ba-rocco spagnolo, italiano e fran-cese, la commedia dell’artestessa, teatro nel quale si atte-nua sempre più il confine tra ilsogno e la realtà, tra il vero e ilfalso, tra l’essere e l’apparire; ilteatro, più tardo, dei conflittitra le passioni e gli interessi, lequalità e i difetti della comme-dia cosiddetta borghese a par-tire da Marivaux, Goldoni eDiderot. Il dubbio è ancora all’opera inquesto teatro, ma non si trattapiù del dubbio controllato chedà accesso alla certezza, ma deldubbio che attraversa da partea parte l’esistenza e il cui solosfogo è quello di abitare l’esi-stenza con tutte le imprese, gliscontri, le prove della vita, al-l’orizzonte di una verità chenon è nulla più che incerta esempre altrove. Su questo tea-

tro di simulacri, di illusioni, ditrompe l’oeil, di sogni e di vi-sioni del XVII secolo, Fou-cault diceva in una conversa-zione del dicembre del 1970:«da un lato vi è un gruppo dipersonaggi che dominano laloro volontà ma non conosco-no la verità. Dall’altro, vi è ilfolle che racconta loro la ve-rità, ma che non domina la suavolontà né padroneggia il fattodi raccontare la verità».Ed è allora che, in prossimitàdel progetto filosofico carte-siano, nelle pieghe stesse delcogito, spunta all’improvviso Ilnipote di Rameau, quel com-promesso, come dice il suo in-terlocutore, il filosofo, di bas-sezza e derisione, che «portaallo scoperto la verità, chesmaschera i furfanti». Nel suogenere e a suo modo, il Nipoteè un filosofo, uno e molteplicead un tempo, uno che non èfolle ma recita la parte «delfolle, dell’impertinente, dell’i-gnorante, del ghiottone, delpigro, del buffone, del bestio-ne». E scettico sulla scienza enon sa da dove venga e “don-de nasca il metodo”; non sabene neanche chi egli sia, maimpiega il suo parlare schiettoin tutte le pantomime dei per-sonaggi che recita, per denu-dare quella verità che altri dis-simulano sotto i ruoli che lasocietà impone loro. Il Nipoteè una sorta di parresiasta, qual-cuno che dice la verità e cherecita la parte della follia perdirla: «lezione anticartesiana –ha scritto Foucault nella Storiadella follia a proposito del Ni-pote – delirio che totalizza inun’illusione equivalente allaverità, l’essere e il non-esseredel reale»; «ebbrezza del sen-sibile – aggiunge – la fascina-zione dell’immediato e la do-lorosa ironia in cui si annunciala solitudine del delirio», coninfine la domanda cruciale: «

qual è dunque il potere chepietrifica quelli che lo hannoguardato in faccia una volta eche condanna alla follia quelliche hanno tentato la provadella sragione?»: Hölderlinpropriamente, Nietzsche, VanGogh, Artaud.Ora, credo che la coscienza in-felice del Nipote derivi, volenteo nolente, dal fatto di recitarela sua follia non al di fuori delcogito, ma nelle sue sinuosità,nelle sue pieghe, nei suoi inter-stizi: fa il folle, ma sa di farlo.Non sfugge a se stesso, finge, siaffanna, accumula paradossi eprovocazioni (ed è quel che la-scia inebetito e stralunato il fi-losofo), ma lo fa consapevol-mente, per gioco e derisione.Gioca con il vero e con il falso,il buon senso e la dismisura, lasincerità e l’ipocrisia; e malgra-do ciò o a causa di ciò (fa lostesso), si rende indispensabilealla brava gente che lo nutre elo tratta da scroccone (Hegelha scritto delle belle pagine suquesto). Ogni sua pantomima,l’intero suo teatrino in un caffèparigino, tutto è sotto il con-trollo della sua, per quanto de-lirante, coscienza. Di lì a poco,dopo Pinel e Esquirol, lo siprenderà per un folle lucido,un monomane, un pazzo mo-rale. Il Nipote in effetti non èl’altro del cogito, è un cogitomalato, volontariamente e co-scientemente malato, che fa ilmatto e recita la sua malattiasul filo teso tra sragione e ra-gione, sulla corda dove, comeun funambolo, si equilibra unaverità a brandelli, in abito daburattino.Diderot si è senz’altro accortodi questa ambigua dialettica edè così che nel Paradosso dell’at-tore, spingendosi oltre, ha cer-cato di aggirarla: bisogna oraabolire interamente l’io impo-verito, l’io al di qua del cogito,perché questa è la condizione

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necessaria per divenire un at-tore. Per incarnare tutti i suoipersonaggi, l’individuo deveinfatti fuggire, escludere lapropria sensibilità, tutto quelche appartiene all’io naturalecon le sue scorie e i suoi resi-dui. Per divenire attore, l’indi-viduo deve – dice Diderot –annullare se stesso, “distrarsida se stesso”, un lavoro chenon va da sé, ma è l’opera «diuna mente fredda, di un giudi-zio profondo, di un gusto squi-sito, di una lunga esperienza».Al termine di questa ascesi,poiché è di questo che si tratta,per eliminare l’io, l’attore di-viene così il fantoccio del qua-le è l’anima. Alla domanda car-tesiana: chi sono io, individuo,al di là di questa sostanza pen-sante che si è costituita sullaprova del dubbio, dopo averespulso la follia, escluso letrappole del sogno e gli ingan-ni del genio maligno; come esi-sto io nel mondo; di che cosa èfatta la mia vita? Diderot ri-sponde: se voglio liberarmi diquesto degradato mondo deisensi, delle passioni, dell’im-maginazione, devo astrarmi dame stesso, distrarmi da mestesso; e non potrò farlo se nonacquisendo la padronanza sul-le mie passioni, sui miei sensi,sul mio corpo, sulla mia sensi-bilità, ma non per divenire uncogito, un soggetto pensante,ma per non esser più nessuno,il che mi permetterà di produr-mi in tutta la gamma e molte-plicità dei personaggi che ilteatro e la vita stessa, sotto lespoglie ad esempio del vecchiocortigiano, mi proporranno direcitare; e questo al termine diun’ascesi che non farà di meun saggio stoico, rinserratonelle altezze della sua solitudi-ne morale, nell’atarassia e nel-l’apatia, tutti atteggiamentitroppo distaccati e poco acces-sibili, ma mi inscriverà in quel

fondale che è quello della sce-na: la scena del teatro e delmondo, giacché sarà la distra-zione di sé da sé a fare di meun nulla ma nello stesso tempouna moltitudine possibile, una«pluralità – dice Diderot – chesepara il fascio e ne disperde iraggi». In questa costituzionedi sé che agli antipodi del cogi-to passa attraverso l’annienta-mento di sé, il Nipote stesso èdunque nulla più che una figu-ra tra le tante di questa plura-lità. Riguardo al Paradosso,all’“altro versante”del Parados-so, Foucault nella Storia dellafollia scriveva: «Non più qual-cosa che dalla realtà viene con-finato nel non essere dellacommedia da un cuore freddoe da un’intelligenza lucida; maqualcosa dal non essere dell’e-sistenza può compiersi nellavana pienezza dell’apparenza etutto questo per mezzo di undelirio giunto al vertice dellacoscienza». La vana pienezzadell’apparenza: è questa la sce-na, il teatro, la teatralià nei gio-chi al rimpiattino e nei rove-sciamenti infiniti dove la veritànon è più la certezza dellescienze, ma un’altra verità di-svelantesi ora nello spazio sfa-villante della scena. Reductio ad unum del molte-plice, ricongiunzione del mol-teplice all’unità, squalifica dei“moduli differenti” in Descar-tes: il grande sogno imperialedella ragione moderna. Disso-luzione dell’io nei molti, nellavarietà, nella disseminazioneteatrale dell’io: le piccole ve-rità, come diceva Nietzsche,della scena moderna; «ed è co-sì – diceva a sua volta Diderot– che da un unico simulacroemana una varietà infinita dirappresentazioni differenti checopriranno la scena e la tela».Paradosso del filosofo: moltiche divengono uno; paradossodell’attore: uno che diviene

molti. In questo chiasmo, inquesto rincorrersi, si gioca for-se tutta la filosofia moderna lacui storia dovrebbe essere lettanello stesso tempo e parallela-mente attraverso questi dueversanti inseparabili come duefacce della stessa medaglia; lafilosofia e il suo rovescio o ilsuo fuori, legati fra loro da unacoappartenenza reciproca. Questa storia non è mai statafatta e non potrò naturalmentefarla ora. (…).Ma è in questa storia dal doppiovolto, filosofia da un lato, teatrodall’altro, che si inscrivono laposizione e il percorso foucaul-tiano. Citerò tre testimonianzeche non richiedono commenti,perché parlano da sole.A proposito di Differenza e ri-petizione di G. Deleuze (1969):«Tutt’altra cosa dall’ennesimoracconto del cominciamento edella fine della metafisica. È ilteatro, la scena, la ripetizionedi una nuova filosofia: sul nu-do palcoscenico di ogni pagi-na Arianna è strangolata, Te-seo danza, il Minotauro urla eil corteo del dio multiploscoppia a ridere. Vi è stata(Hegel, Sartre) la filosofia-ro-manzo; la filosofia-meditazio-ne (Descartes, Husserl). Edecco, dopo Zarathustra, il ri-torno della filosofia-teatro;non già riflessione sul teatro;non già teatro caricato di si-gnificati, ma filosofia divenutascena, personaggi, segni, ripe-tizione di un unico evento chenon si riproduce mai» (D. E. I,p. 768). Riguardo a Differenzae ripetizione e alla Logica delsenso (1970) di Deleuze, Fou-cault concludeva così un suoarticolo su «Critique»: «la filo-sofia non come pensiero, macome teatro: teatro di mimidalle scene multiple, fuggitive,istantanee dove i gesti, senzavedersi, si fanno segno; dove imodi di Spinosa ruotano senza

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centro mentre la sostanza giraattorno a loro come un piane-ta folle» (D. E., p. 99). E infi-ne, in una conversazione conMoriaki Watanabe, in Giap-pone, nel 1978: «la filosofiaoccidentale non si è affatto in-teressata al teatro, forse a se-guito della condanna di Plato-ne del teatro. Bisogna attende-re Nietzsche perché la que-stione del rapporto fra filoso-fia e teatro sia nuovamente po-sta alla filosofia occidentale.Credo in effetti che il discredi-to del teatro nella filosofia oc-cidentale sia collegata ad uncerto modo di concepire losguardo. Dopo Platone e so-prattutto dopo Descartes, unadelle più importanti questioniè quella di sapere in che cosaconsista il fatto di guardare lecose, o piuttosto, sapere se ciòche si vede è vero o illusorio;se ci si trova nel mondo delreale e nel mondo della men-zogna. Separare il reale dall’il-lusione, la verità dalla menzo-gna è propriamente la funzio-ne della filosofia, Ora, il teatroè qualcosa che ignora assoluta-mente queste distinzioni. Nonha senso domandarsi se il tea-tro è vero, se è reale e illusorio,oppure mente; il solo fatto diporre la questione fa sparire ilteatro. Accettare la non diffe-renza tra il vero e il falso, tra ilreale e l’illusorio è la condizio-ne del funzionamento del tea-tro» (D. E., p. 571). E non bi-sogna – aggiunge Foucault –partire dal soggetto, dal sog-getto nel senso di Descartes,come punto originario dalquale tutto deve essere genera-to; non bisogna fare la storiadel vero e del falso, ma «fareuna storia della scena sullaquale si è in seguito tentato didistinguere il vero dal falso».Bisognerebbe analizzare gli ef-fetti di queste posizioni sulpensiero e sulla scrittura di

Foucault, un pensiero che hacominciato a separarsi dal sog-getto sovrano, dalla verità delcogito per aprirsi alla verità del-la follia, ai discorsi come prati-che, tecniche e strategie, aquelle grandi configurazioniconcettuali senza soggetto chesono le epistème, che, com’ènoto, si annunciano con quelfolgorante squarcio sulle Meni-nas di Velasquez in Le parole ele cose; un pensiero che a parti-re dal corso al Collège de Fran-ce del 1970 – ed è qui a mio av-viso la svolta decisiva – non po-ne più al sapere e alla cono-scenza la questione della verità,ma piuttosto quella, nicciana,della genealogia e quella, nuo-va, del potere, degli effetti delpotere, dei dispositivi e delletecniche del potere. Effetti an-che sulla scrittura, con le suemesse in scena testuali, i suoigiochi di luce, le sue visibilitàsvelate a filo di pagina (si pensiper esempio alle analisi consa-crate al supplizio di Damien eal Panopticon di Bentham inSorvegliare e punire). Tutto ciòci consegna una storia che nonsegue la dolce china delle“idee”, delle “strutture”, delle“mentalità” o che so io, ma chesi fa e si costruisce attraverso ea partire da eventi, da scontri,resistenze, combattimenti diavversari in lotta tra loro: thea-trum politicum. Delle “finzio-ni” forse, queste messe in sce-na foucaultiane della storia, mache non smetteremo di leggeree rileggere e che continueran-no ad incantarci per la bellezzadella loro scrittura, la chiarezzadell’analisi, lo stagliarsi deipersonaggi e dei gruppi sulfondo di quegli avvenimentiche incessantemente laceranola trama liscia del corso delmondo e che Hegel chimava ilWeltauf. Anche se in queste“finzioni” tutto fosse “falso” onon vero come certi buoni spi-

riti si sforzano con instancabilepazienza di voler mostrare e di-mostrare, i racconti foucaultia-ni non cesseranno di insegnar-ci quel che è veramente oggi illavoro del filosofo.Il fatto è che, comunque stianole cose, la verità di queste “fin-zioni” non è quella del cogito;in questione sono i giochi diverità sulla scena in cui si di-spiegano le molteplici relazionidel potere, della biopolitica edella “governamentalità”.E la mia ipotesi è allora que-sta: Foucault ha smesso di rife-rirsi al cogito attraverso la dia-lettica del vero e del falso, del-la ragione e sragione, a partiredal momento in cui ha posto alsapere la questione del potere.Prima, restava malgrado tuttoirretito nella rete di una sortadi negatività, di pensiero nega-tivo che bene o male, nell’op-posizione o nell’elusione, nonmancava di fare riferimento alcogito. Lo sganciamento av-venne prima con la questionedel potere e poi con il proble-ma della “governamentalità”,con un lungo cammino a ritro-so, totalmente estraneo all’im-postazione cartesiana, che hacondotto l’ultimo Foucaultverso la cura di sé e la parresia,pratiche attorno alle quali si ècostituita quella teche toubiou, propriamente quell’este-tica dell’esistenza di cui hoparlato all’inizio. L’esito fou-caultiano rappresenta dunquea mio parere, il congedo defi-nitivo da questa dialettica del-l’esclusione che agisce ancoranella Storia della follia; rappre-senta anche una radicale mes-sa al bando del progetto dellafilosofia moderna dopo De-scartes, dell’imperialismo del-la verità, la verità della scienza,il dominio della tecnica, chesono, come sappiamo, in granparte responsabili dei disastridell’ultimo secolo. ■

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verità, dubbio, finzione

La psicoanalisi si propone, dalsuo nascere, come gesto dallaportata profondamente filoso-fica perché è, nel suo caratterepiù autentico, indagine sulleforme della finitudine.L’avventura speculativa, intra-presa da Freud, risale ai margi-ni estremi dei domini della co-scienza in quanto si apre all’ir-ruzione di una dimensionestraniera che costringe il ripen-samento delle condizioni entrocui il pensiero può darsi.La ricerca filosofica, che s’in-terroga sul senso della verità, èchiamata a confrontarsi con ilcontributo teoretico apportatodalla psicoanalisi. Il lavorocondotto ai margini dell’auto-coscienza, infatti, impone unasvolta prospettica in quantomette in discussione il tratto diintrascendibilità del pensiero.L’interrogativo intorno al limi-te viene pensato, in ambito psi-coanalitico, sotto forma di bor-do nella relazione che lega l’in-conscio alla coscienza. Il desi-derio, la morte, la legge diven-tano le figure della finitudineintorno a cui si struttura l’esi-stenza umana, secondo la teo-ria psicoanalitica, che colloca illuogo della propria riflessionesul margine dell’esperienzadell’uomo e lavora, paziente-mente, a logorarne i confini.Tale bordo sottile, infatti, nonè facilmente identificabile. Larelazione che lega la dimensio-ne conscia a quella inconsciadella vita psichica non si lasciaricondurre ad una sintesi dia-lettica che riconfermi il prima-to dell’ordine e del senso. Di-versamente da quanto lasce-

rebbe credere un’interpreta-zione positivista di Freud, lapsicoanalisi rintraccia un restodi senso che non è riconduci-bile alle maglie della ragione.Tale eccedenza si dà come in-conscio dell’opposizione filo-sofica in quanto, diversamentedalla contraddizione nella suaforma hegeliana, non è riassor-bibile nella logica della parola,della presenza, della verità.L’energetica freudiana si con-fronta con un “di più di senso”che resiste all’analisi, alla tra-duzione in parola ed in questomodo sospende il dominio del-la coscienza e ogni risposta in-torno al senso.Nella anamnesi psicoanaliticaciò che è in gioco è la soggetti-vità di cui la psicoanalisi rin-traccia una radice profonda diinesprimibilità, aprendo unaferita insanabile nel soggetto.I processi di pensiero, in quan-to il principio di piacere li do-mina, sono inconsci. Freud losottolinea.Il bordo che mette in comuni-cazione l’inconscio alla coscien-za fa problema perché, nel suoinfinito riposizionamento, di-venta fonte di interrogazioneche costringe il pensiero ad ar-restarsi sui luoghi aporetici diun margine che non è più pa-droneggiabile dal pensiero.La psicoanalisi scopre l’uomoabitato da un’incontrollabilezona d’opacità che ne depo-tenzia il tentativo di dominaree controllare la realtà attraver-so le proprie capacità.Ogni decisione di senso è in-conscia, per la teoria psicoana-litica, che, in questo modo, de-

linea l’appartenenza della ra-gione, che pretende di cono-scere la realtà, ad uno sfondooscuro da cui è osservata e col-ta nel proprio guardare.Questo sfondo è, per la psicoa-nalisi, l’orizzonte del desiderio.«…Desiderio, rimosso, incon-scio rappresentano uno spor-gersi della soggettività su di unambito che precede l’esperien-za, l’individuazione, il sape-re…».La prospettiva psicoanaliticaassume una valenza profonda-mente ontologica.Heideggerianamente, potrem-mo dire che il soggetto si trovaad essere in una schiusura ori-ginaria che il pensiero non puòcontenere per l’impossibilitàdell’uomo di risalire al di là delproprio essere-gettato. Nessunatto di conoscenza sarebbe ingrado di risolvere l’enigma cheè la condizione ontologica del-l’uomo in quanto il soggetto sirapporta alla propria fatticità,dovendola assumere, pur nonavendola scelta né fondata.La psicoanalisi denuncia l’im-plicazione ontologica del sog-getto, la condizione di passivitàe di debolezza che definiscel’uomo rispetto all’orizzonte diun essere che non può control-lare attraverso il proprio pen-siero perché il luogo del pensie-ro si rivela inscritto in una sce-na ontologica che lo trascende.Lo sfondo oscuro da cui l’uo-mo ritaglia il luogo della pro-pria appartenenza e l’inqua-dratura da cui guarda allospettacolo del mondo rimaneinaccessibile ed è alla radicedella non coincidenza dell’uo-

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La teoria psicoanalitica come chiave d’accesso alla questione gnoseologica

Sara D’Andrea

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mo con se stesso. L’immaginenella quale il soggetto si rispec-chia è, per la teoria psicoanali-tica, una costruzione immagi-naria che non riesce a contene-re e ad esaurire la complessitàdel suo essere. L’uomo fonderebbe, secondo lapsicoanalisi, il luogo della pro-pria interiorità attraverso un at-to di presa di distanza dallosfondo caotico del godimento. L’identità si costituisce per deli-mitazione di un margine (la co-scienza, infatti, non potrebbesopportare l’assenza di limite)che salva il soggetto dalla psico-si ma lo consegna ad una condi-zione a cui non è riducibile. Ilsoggetto nasce, dunque, dallarinuncia al desiderio che deveimparare ad incanalare secondoprecisi argini per non sprofon-dare nell’abisso della follia.Per questo il riemergere delladimensione incontrollabile delgodimento si accompagna, se-

condo la psicoanalisi, alla scatu-rigine di un forte sentimentod’angoscia dovuto alla sensazio-ne paurosa del venir meno deilacci e dei nodi su cui si struttu-ra quella costruzione immagi-naria che è l’io. Una minacciainvaderebbe le fragili strutturesu cui si fonda il soggetto. L’o-rizzonte aporetico e contraddit-torio del desiderio, infatti, nonconosce principio di identità edi non contraddizione.Nei momenti in cui si allenta-no le maglie che strutturano lavita cosciente del soggetto,trapela un resto che si accom-pagna al farsi avanti di un do-loroso sentimento di spaesa-mento. Tale stato emotivo ècausato dalla percezione, ches’insinua nel soggetto, di esse-re anche tragicamente altro dasè ma di non poter conoscereil suo essere più proprio, inquanto non è l’uomo a fonda-re la propria gettatezza.

L’appartenenza al linguaggiodenuncia la partecipazione delsoggetto ad una apertura origi-naria che costituisce l’articola-zione di ogni comprensibilitàma che il pensiero non può co-gliere nella sua totalità.Il ripresentarsi, sulla scena del-la coscienza, della dimensioneoscura del godimento diventa,allora, apertura verso il ripen-samento di una nuova ontolo-gia che reinscrive l’uomo al-l’interno di un testo la cui tra-ma non potrebbe controllarema nel cui tessuto l’individuosarebbe preso.È qui che il percorso psicoa-nalitico s’intreccia alla do-manda filosofica per eccellen-za: la domanda intorno al sen-so dell’essere.La portata speculativa, implici-ta nell’avventura psicoanaliti-ca, consiste nel ripensamentodella posizione occupata dal-l’uomo rispetto alla “realtà”.Il tentativo del pensiero di co-noscere la sfera dell’essere deveessere ricompreso a partire dal-la intrascendibilità della catego-ria esistenziale della gettatezza.Il soggetto si trova, secondo lapsicoanalisi, dalla nascita, già,inscritto all’interno di un’aper-tura dell’essere che si dà, in-nanzitutto, come schiusura lin-guistica e che rinvia ad unosfondo che rende possibile ilproprio dell’uomo e richiama asé essendo il fondamento oscu-ro su cui la “realtà” si sostiene.Sarà in questi luoghi che l’av-ventura speculativa, inaugura-ta dalla psicoanalisi, potràaprire una nuova via d’accessoal senso della verità e, forse aldi là della metafisica e di ognitentativo di decostruzione del-la metafisica, porsi in camminoverso un ripensamento delladimensione dell’appartenenza.Orizzonte all’interno del qualel’interrogativo intorno all’esse-re deve essere reinscritto. ■

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Pablo Picasso, La vita (1903). Cleveland - Museum of Art.

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Crisi dei fondamenti delle scien-ze, comunicazione via etere a li-vello globale, identità indebolitaspezzata e mascherata nei talkshow, occhi di grandi fratelli,mezzi di collegamento planetarivelocissimi, crisi delle ideologie.In questo contesto non sembrapiù possibile parlare di nuovafondazione, seppur passanteper il “negativo”, di identità ri-conoscibile e stabile di un sog-getto presente a sé, di una pre-tesa totalizzante di una filosofiatout court, di verità buona che sirovesci in verità cattiva. Eppure nella dispersione di unmovimento globale, nell’aper-tura dei mercati e dei rapportipolitici e sociali tra Stati, emer-ge anche un movimento oppo-sto: l’esigenza di un riconosci-mento in un’identità forte dipopolo che si dà solo con lachiusura rispetto all’altro po-polo, rispetto all’altro da sé; l’i-dentificazione nei miti dellanazione o del popolo o dellaminoranza o dell’origine, ilsenso di appartenenza che na-sce dall’affermazione di unaverità comune che assorbe oesclude l’apporto dell’altro.Diventa allora forse più fortel’urgenza di ripensare questio-ni come quella dell’identità edella verità, non per metterletotalmente fuori gioco ma perprovare a ripensarle attraversoun movimento che direi deco-struttivo.Se, sempre, chi prende la paro-la arriva dopo una serie di di-scorsi, si tratterà di prenderesul serio questi discorsi e le lorovoci, a partire forse da ciò chela parola stessa filosofia signifi-

ca. Si vedrà allora che è già dasubito questione di sapienza everità e amicizia, che si tratta diessere amici delle verità.Amico appunto, come presenzaintrinseca al pensiero, comecondizione di possibilità delpensiero stesso, come quell’al-tro che arriva, sempre all’im-provviso, l’arrivante che rendepossibile l’esperienza stessa delpensiero. Quest’altro soggettoche mi corrisponde e che mimette in questione, che nonposso padroneggiare fino infondo ma di cui non posso nontenere conto.Da Descartes in poi, attraversoKant ed Hegel, la questionedella verità, della conoscenzachiara e distinta, è stata legataal problema del soggetto, del-l’identità di quel soggetto che

dice «io» e che si pone a fon-damento di un metodo chepermetta di cogliere la verità. Ma già in Descartes la definizio-ne del luogo del soggetto sicomplicava, introduceva unospazio di anonimato e di finzio-ne che sembrava richiesto dallaverità stessa. Lo si vede bene nelDiscorso sul metodo: nel mo-mento in cui si tratta di presen-tare quel soggetto che renderàpossibile la fondazione del me-todo, Descartes lo fa dando alloscritto la forma di una narrazio-ne che porta a rappresentare lavita del soggetto attraverso l’im-magine del quadro, in cui il sog-getto ritratto appare e scompareingannando lo spettatore conl’illusione della somiglianza edella riconoscibilità. Pittura escrittura quindi, scarto da unpensiero calcolante ma che nonper questo porta a una minoreprecisione o rigore, scarto osmarcatura da una logica dell’e-videnza proprio per fondare ilmetodo della certezza. La co-struzione del metodo cartesianoè allora necessariamente legata auna dissimulazione del soggettodietro a una maschera che loprotegga dallo sguardo dell’al-tro (che è già sempre in gioco) enel contempo coinvolga l’altroin un circuito di sguardi senza ilquale non c’è identità e quindinemmeno la possibilità di unmetodo universalizzabile. L’in-tero movimento della filosofiadi Descartes si caratterizza co-me un larvatus prodeo, appuntoun avanzare nel progresso dellascienza possibile però solo at-traverso un travestimento. Ilsoggetto è già da subito sdop-

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Idee di verità

Federica Manzon

Renato Calligaro, La gloria.

Spesso Hegel mi sembral’evidenza stessa, ma l’evi-

denza è pesante da sostenere.G. Bataille, Le coupable.

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piato in un volto vero e uno ma-scherato/raccontato. Non solosoggetto guardante esterno almondo e garante di una Verità,ma soggetto sempre già preso inun mondo, in un gioco di rever-sibilità tra vedente e visibile chepermette non tanto la posizionedella Verità, ma la possibilitàdell’abitare una verità, di starvidentro senza rimanere bloccati. Si apre allora già da subito perla parola filosofica la necessitàdi dire in un modo altro questorapporto paradossale di unsoggetto con se stesso e con lasua pretesa di verità, che inevi-tabilmente non potrà più ser-virsi della parola esatta di unadefinizione. Era accaduto già a Hegel, chenella Fenomenologia dello spiri-to prometteva la morte dell’artee con essa il manifestarsi altrovedella verità, precisamente nellaparola filosofica, e con ciò peròcondannava già la promessa allasua rovina. Nel momento in cuil’arte moriva nella sua perdita diautenticità, la filosofia non eraperò in grado di pronunciarel’ultima parola, nessuna parolafilosofica era più in grado di di-re quella verità che nell’arte nonsi padroneggiava ma si dava avedere. La filosofia rimanevagiocata dal suo stesso movimen-to di scacco e riapriva l’esigenzadi ripensare il rapporto tra laparola e il soggetto, tra l’essere eil pensiero, non più nei terminidi un’opposizione o di un’iden-tità, ma piuttosto di una diffe-renza, o meglio ancora di un’o-scillazione tra identità e diffe-renza, di una “coappartenenzaoriginaria” per dirla con Hei-degger. Una necessità questache avrebbe messo completa-mente fuori gioco un pensierodella presenza, della rappresen-tazione e della verità, non perstravolgerlo nel suo contrarioma per creare una possibilità diapertura, lasciare al pensiero la

sua potenza creatrice. Questio-ne allora della parola filosofica edella possibilità di dire una ve-rità, sul soggetto forse, che nonrimanga bloccata nella pretesadell’assolutizzazione di una de-finizione. Perché, se, come vuo-le Heidegger, noi siamo già sem-pre presi nel linguaggio comeapertura, non c’è un pensieroche precede il linguaggio, mal’esperienza del pensiero è giàsubito linguistica; siamo sempregià coinvolti in un rapporto conla parola che va oltre le inten-zioni del soggetto, che forse nonè solo la parola presente di unavoce ma è anche quella dellascrittura, che differisce in conti-nuazione la dimensione dellapresenza. Scrittura come trac-ciato di una differenza, come unlavoro che produce e non per-corre la sua strada, che non ri-manda mai a una trasparenzadel senso ma piuttosto a un’o-pacità, alla profondità senzafondo come infinito rinvio aun’esteriorità assoluta (scritto-re-lettore).Scrittura che impedisce l’im-mobilizzazione di un’identità euna verità, ma apre a un movi-mento di disseminazione edesposizione. Orizzontalità con-tro verticalità. Se l’idea di verità e quindi anchedi soggettività che si tratta dimettere in causa è qualcosa del-l’ordine di un indebolimento edi un differimento (nel doppiosenso del termine francese cheporta con sé lo squilibrio delladifferenza), appare più urgentela necessità per la parola filoso-fica di dirsi in un modo altroche tenga conto di una dimen-sione di apertura e oscillazione(di spaesamento forse). La questione sarà: come, dopoaver esaurito il discorso dellafilosofia, iscrivere nel lessico enella sintassi della nostra lin-gua ciò che eccede le contrap-posizioni dei concetti domi-

nanti nella logica comune? Bi-sognerà forse (la posta in giocopotrebbe essere questo forse?),come voleva Bataille, trovareuna parola che fingendo di ta-cere il senso dica anche il non-senso, una parola che scivola eche si cancella essa stessa. Dovequesto scivolamento porta consé sempre un rischio, che èquello di rimpatriare nelle figu-re del discorso e della ragione,e per questo il linguaggio si do-vrà arricchire di astuzie e stra-tagemmi, dovrà mascherarsi,farsi racconto. Si dovranno al-lora trovare delle parole che in-troducano nel discorso un’in-stabilità essenziale, uno scivo-lamento, un silenzio. Si tratteràdi operare una deterritorializ-zazione del linguaggio, di tro-vare non solo la parola ma an-che il luogo di un tracciato doveuna parola della vecchia lin-gua, per il fatto di essere statacollocata in quel punto, si met-terà a scivolare e a far scivolaretutto il discorso. Si tratterà inqualche modo di far funziona-re una sovranità della scrittura(sovranità che non domina sestessa e che non domina in ge-nerale, né gli altri, né i discorsi,né la produzione di un senso)contro la signoria di un pensie-ro unificante. La rinuncia a un pensiero delriconoscimento e della veritàprescrive e interdice allo stessotempo la scrittura. Distinguetra due scritture. Proibiscequella che progetta e proietta,attraverso la quale si vuole ri-costruire e preservare la pre-senza. Pone la sovranità diun’altra scrittura, quella cheproduce la traccia in quantotraccia, dove la presenza è giàsempre irrimediabilmente sot-tratta. Scrittura che si annun-cia solo nella possibilità assolu-ta della sua cancellazione.Se come scrive Derrida «il sog-getto della scrittura non esi-

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ste», allora si dovrà parlarenon di soggetto ma di sistemadi rapporto tra strati, di funzio-ne-autore. Scriveva Beckett: «Che impor-ta chi parla, qualcuno ha det-to». Allora, forse, è in questaindifferenza che bisogna rico-noscere uno dei tratti etici fon-damentali della scrittura e del-la filosofia contemporanea.Una sorta di regola immanentesempre ripresa e mai applicatadel tutto, che non segna lascrittura come risultato ma ladomina come prassi, che la ri-lancia di continuo nella pro-pria esteriorità dove non sitratta tanto di dare a un sog-getto un linguaggio, ma piutto-sto del gesto dello scrivere co-me apertura di uno spazio incui il soggetto scrivente noncessa mai di sparire. Ciò che sembra imporsi comeatteggiamento al filosofo sarà al-lora una rinuncia del desiderioindistruttibile di trattenere, dimantenersi saldo contro lo sci-volamento della certezza di sé edella sicurezza del concetto. Il percorso della scrittura dovràcondurre in maniera rigorosa alpunto in cui non c’è più un me-todo né una mediazione, in cuil’operazione sovrana rompecon questi perché non si lasciacondizionare da nulla di ciò chela precede o la prepara. La co-noscenza che si aprirà da que-sto movimento non è una sem-plice neutralizzazione comecancellazione, ma un moltipli-care le parole facendole preci-pitare l’una sull’altra, in una so-stituzione senza fine e senzafondo in cui tutti i concetti sideterminano e si neutralizzanogli uni con gli altri, ma dove ri-mane affermata la regola delgioco (o il gioco come regola).Il filosofo allora dovrà farsiscrittore, dove però per scrittu-ra non si intende un sempliceuso del linguaggio ma un’atti-

vità di spostamento e creazione,invenzione e spaesamento chefaccia deragliare la pretesa disenso e di appropriazione diuna verità chiara e distinta. Sitratterà (dove? in un racconto?)forse come diceva Beckett, difare dei buchi nel linguaggioper mandarvi fuori quello chevi è annidato. Si tratterà di ser-virsi della scrittura non solo peroperare un differimento delsenso ma per far fuggire il sen-so stesso lungo una linea di fu-

ga in cui la scrittura non solosfugge al nostro controllo ma cifa sfuggire a noi stessi in molte-plici direzioni in cui nessuna hapiù importanza dell’altra. Unmovimento che sovverta la logi-ca di un pensiero binario dellaverità come adeguazione pa-droneggiabile e dell’identitàpresente a sé, che passi attra-verso sotterfugi e travestimenti,per mettere in questione quelluogo del soggetto e della veritàche rimane ancora da pensare.

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Marcel Duchamp, Il Grande Vetro completato (1965).

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La medicina come scienza

«Secondo la leggenda, fu unavvoltoio ad insegnare al pa-store Melampo l’uso della rug-gine contro l’impotenza e il ca-so ad insegnare quello dell’el-leboro contro la follia. Gli av-voltoi non ci insegnano piùnulla; quanto a ciò che si chia-ma caso, è ancora sempre unadelle nostre più importantifonti di istruzione. Ma istrui-sce solo gli osservatori e pertrar profitto da quanto esso of-fre bisogna saperlo guardare, ecolui che cerca di più è anchecolui che compie il maggiornumero di scoperte». Così nel1798 scriveva Cabanis nel suoDu degré de certitude de la Mé-dicine, affrontando la crisi del-la scienza medica che, all’epo-ca della rivoluzione francese,egli recepiva come sfiduciateorica e psicologica nella pos-sibilità dell’arte di Ippocrate diessere o di diventare un sapereattendibile ed efficace. Le criti-che fondamentali che egli con-futa sono sinteticamente l’im-possibilità della medicina diindividuare l’essenza della vitae i principi del suo funziona-mento, l’impossibilità di com-prendere la “natura” delle ma-lattie e dunque di produrrefarmaci non semplicementesintomatici e la incertitude, an-zi la discordia, dei medici ri-spetto alla diagnosi e alla tera-pia delle affezioni anche piùcomuni. Nella sua trattazione,Cabanis, legato alla Société mé-dicale d’Emulation di Corvisarte di Bichat, sensisti e vitalisti, eall’area dei philosophes idéolo-gues, attacca frontalmente le

prime due obiezioni puntandoall’efficacia pratica della medi-cina, ad una euristica osservati-vo-induttiva, alla eterogeneità,ancor più che alla autonomia,della medicina rispetto alle di-scipline scientifiche. «Ignoro le cause. Ma l’osserva-zione mi insegna che nella natu-ra tutto avviene in una manieraregolare e costante; che in cir-costanze assolutamente simili ifatti sono sempre gli stessi».Alla ricerca dei perché sostitui-sce quella dei come. Le genera-lizzazioni sono necessarie, main funzione metodologica estrumentale. Il fine è l’efficacia

clinica, rispetto al malato e adogni malattia che costituisconoin qualche modo storie a sé,mediante il talento specifico edindividuale del medico, l’os-servazione sensoriale e siste-matica del malato e la descri-zione narrativa della malattia. «Sì, oso predirlo: insieme alvero spirito di osservazione,anche lo spirito filosofico chedeve presiedervi sta per nasce-re nella medicina; la scienza staper assumere un volto nuovo.Si riuniranno i suoi frammentisparsi per formare un sistemasemplice e fecondo come leleggi della natura. Dopo averpassato in rassegna tutti i fatti,dopo averli rivisti, verificati,confrontati, li si collegherà fraloro e li si riporterà tutti ad unesiguo numero di punti fissi opoco variabili». Affermandocon vigore la medicina comescienza autonoma, Cabanis se-gna un passaggio fondamenta-le del percorso della medicinaa scienza moderna, con l’ac-cento metodologico dell’osser-vazione e dell’analisi e la con-vinzione, costitutiva dellascienza galileiana, della iden-tità di certezza e verità. Con-temporaneamente segna il ri-tardo storico di quel passaggioche, per la medicina, è ancorain corso all’epoca della rivolu-zione francese, quando già sierano affrancate dall’epistèmeper raggiungere la verità mo-derna la astronomia, la fisica,la chimica, la botanica… InCabanis vi è la mancanza anzil’opposizione ai caratteri mate-matico-quantitativi fondantidella scienza moderna; una

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La certezza della Medicina

Piero Cappelletti

Piero Cappelletti, medico,è Direttore del Dipartimentodi Medicina di Laboratoriodell’Azienda Ospedaliera diPordenone. Negli anni pas-sati si è impegnato nella vitapolitica e culturale dellacittà. Attualmente è Presi-dente nazionale della SocietàItaliana di Medicina di La-boratorio.

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metodologia induttiva più ba-coniana che galileiana; la as-senza di elaborazione della fa-se sperimentale della scienzamoderna e la scarsa considera-zione per la ricerca delle causedei morbi e dei meccanismi difunzionamento dell’organismosano e malato. Per la medicinail percorso di scientificizzazio-ne si conclude nella secondametà dell’800, in pieno climapositivistico, con il raggiungi-mento delle certezze fisio-pa-tologiche ed etiologiche. Nel1865 Claude Bernard, in Intro-duction à l’étude de la médicineexperimentale, conclude il pro-cesso di liberazione degli ele-menti non naturalistici dellamedicina e di fondazione suimeccanismi fisiologici. Meto-dologicamente, accanto all’os-servazione un posto centrale èassegnato all’esperimento, chesi caratterizza non solo perl’intervento del ricercatore suifenomeni, quanto piuttostoper il diverso punto di vistaconcettuale assunto dall’osser-vatore: l’esperimento non èsemplicemente “una osserva-zione provocata”, ma una os-servazione provocata per con-trollare un’ipotesi. «La medici-na sperimentale è una medici-na scientifica che è fondata sul-la fisiologia e che ha lo scopodi trovare le leggi delle funzio-ni dei corpi viventi per poterleregolare e modificare nell’inte-resse della salute dell’uomo».La medicina scientifica è un sa-pere controllabile, dunque ingrado di capire la verità dellecose, almeno in un orizzonterealistico, e di manipolare i fat-ti sia in senso sperimentale chenel senso di produrre la realtàa fini “umani”. Il medico cessadi essere descrittivo – come difatto è ancora la prima discipli-na medica moderna allora(1847) plasmata da RudolfVirchow, l’anatomia patologica

– e passa alla ricerca delle cau-se ovvero delle “condizioni diesistenza” dei fenomeni vitali edelle loro alterazioni. Nella ri-cerca delle cause, la microbio-logia, disciplina che si affermanella seconda metà dell’800,giunge ad una delle più certemete della medicina. RobertKoch, scopritore dell’antrace,del bacillo tubercolare, del co-lera e di altri microrganismiagenti causali di malattie infet-tive, definisce con i suoi “po-stulati”, nel 1881, i criteri spe-rimentali per affermare inequi-vocabilmente che un microrga-nismo è la causa di una deter-minata malattia: il germe deveessere presente in ogni casodella malattia, deve essere col-tivabile al di fuori dell’organi-smo, se iniettato nell’animalesano deve provocare la malat-tia. Dalla certezza della causadiscende la terapia causale,unica radicalmente efficace, edalla eradicazione del morbola controprova della verità del-l’ipotesi diagnostica. Cabanisanticipa, peraltro, moderne ri-flessioni sulla medicina. Comedice Sergio Moravia, primache come scienza giustificabilein sede epistemologica, la me-dicina viene così consideratacome un’arte della cui neces-sità testimonia l’esperienzamillenaria e quotidiana attra-verso il lamento (istintivo) delsofferente e l’ausilio (istintivo)del soccorritore. La prima cer-titude della medicina è unacertezza di carattere naturale emorale. Dalla sottolineaturadella sua natura pratica nasco-no da un lato la consapevolez-za della medicina come agire,anche in condizioni di ambi-guità dei segni e delle ipotesi,evidente nella coscienza dellaclinica moderna, dall’altro leimplicazioni antropologiche el’impegno sociale, caratterinon condivisi con le altre

scienze galileiane. La sottoli-neatura della descrizione, ma-dre della cartella clinica, è inqualche modo anticipatricedell’attuale approccio “narrati-vo” alla realtà clinica, così caroalla medicina generale. Il rife-rimento ippocratico al talentoe all’occhio clinico possono es-sere visti come la coscienza delmetodo di immediato ricono-scimento di segni patognomo-nici o di pattern semiotici, bendiverso dal metodo ipotetico-deduttivo della scienza moder-na e della medicina sperimen-tale. Cabanis ha precisa co-scienza della eterogeneità dellamedicina rispetto alle scienzenaturali, in quanto non nomo-tetica ma storico-idiografica, inquanto “scienza dell’indivi-duale”, in quanto “scienzanormale” secondo Kuhn.

La medicina come arte Ladiversità della medicina nel no-vero delle scienze si definiscecontestualmente alla definizio-ne della medicina sperimentalee viene solitamente presentatacome medicina clinica, la cuioggettività non è quella della fi-siologia, della patologia maquella del singolo malato e del-la singola malattia, l’approcciosolo raramente ipotetico de-duttivo ma induttivo o proba-bilistico, il giudizio sinteticoparagonabile a quello esteticokantiano, il fine terapeutico eprognostico, non diagnostico.Anche la medicina clinica si èperaltro sforzata di definirsi co-me scientifica, in una visionedefinita “biomedicina”: «I pa-zienti soffrono di malattie chepossono essere catalogate nellostesso modo di altri fenomeninaturali. Una malattia può es-sere esaminata indipendente-mente dalla persona che ne sof-fre e dal suo contesto sociale.Le malattie mentali e fisichedebbono essere considerate se-

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paratamente. Ciascuna malat-tia ha uno specifico agente cau-sale e il principale obiettivodella ricerca è scoprirlo. Datoun determinato livello dei resi-stenza dell’ospite, il manife-starsi della malattia può esserespiegata come risultato dell’e-sposizione ad un agente pato-geno. Il principale compito delmedico è di diagnosticare lamalattia del paziente e descri-vere uno specifico rimedio fi-nalizzato a rimuovere la causao alleviare i sintomi. Il medicousa il metodo clinico conosciu-to come diagnosi differenziale.Le malattie seguono un defini-to corso clinico, soggetto agliinterventi terapeutici. Il medi-co è usualmente un osservatoreneutrale distaccato, la cui effi-cacia è indipendente da appar-tenenze o credenze. Il pazienteè un recettore passivo e ricono-scente delle cure» (I. R. Mc

Whinney, A textbook of Fa-mily Medicine. Oxford Univer-sity Press, London 1988).Questa visione clinica è oggiradicalmente contestata dallaconsapevolezza della singola-rità della medicina per la so-vrapposizione di osservatore edi osservato e per la caratteri-stica di scienza delle decisioni,da assumere in ambiti di incer-tezza legata all’ambiguità deisintomi, alla anomalia dei sin-tomi senza malattia, all’evolu-zione delle conoscenze diagno-stiche e terapeutiche. I clinicied in particolare i medici delpaziente generale decidono incondizioni di incertezza utiliz-zando processi metodologiciindiziari e di riconoscimentodi schemi globali, lasciando acasi particolari ed ai princi-pianti l’uso dell’ortodosso elento metodo ipotetico-dedut-tivo. La situazione patologicaconsueta – la malattia classica– funge da precedente o dametafora o da caso esemplare

per quella non consueta. La ri-flessione sui significati della si-milarità e delle differenze por-ta alla creazione di metaforegenerative e ad una ristruttura-zione della percezione. Le me-tafore generative sono similitu-dini che relazionano fenomenicreando analogie simboliche ela riflessione nel corso dell’a-zione diventa una specie diesperimento. Le intuizioni cli-niche brillanti non sono che ilprodotto del repertorio di co-noscenze tecniche del medicoe delle sue cognizioni tacite,elaborato attraverso la rifles-sione e la creazione di una me-tafora generativa all’internodel suo personale spazio epi-stemologico. All’interno dellavisione biomedica, la discipli-

na che appare più contigua ein parte compresa dalla medi-cina sperimentale e dunquepiù soggetta alle norme dellascienza moderna è la Medicinadi Laboratorio, per l’estensivouso dei metodi chimici e fisici,la loro automazione, l’estesamatematizzazione dei metodi edei risultati, l’uso intensivodell’informatica che appaionogaranzie di esattezza scientifi-ca. La meta è l’attendibilità deirisultati, caratteristica che atte-sta la qualità ottimale dei dati eli fa accettare con l’attesa fidu-cia. Il processo di elaborazionedi un referto di laboratorio ètuttavia, secondo JohannesBüttner, decisamente più com-plesso della mera determina-zione analitica e consiste in unprocesso valutativo a più gradiche parte dal “livello tecnico”del risultato analitico nel qualela valutazione si rivolge agliaspetti di controllo del cam-pione e del metodo, passa at-traverso il “livello biologico”nel quale la valutazione è rivol-ta agli aspetti della variabilitàintraindividuale (dati prece-denti del paziente) ed interin-dividuale (intervalli di riferi-mento) e della plausibilità bio-logica dei dati, ed infine ap-proda al “livello medico” nelquale l’inquadramento nosolo-gico del dato avviene diversa-mente a seconda dell’obiettivodiagnostico e prognostico, del-la metodologia differenziale, edella possibilità o meno di in-terpretazione fisiopatologia.Quest’ultimo passaggio com-pleta la formazione del refertoed avviene talora all’internodell’attività di laboratorio,quando comprende una dia-gnosi o un commento interpre-tativo, talora direttamente a li-vello clinico, quando com-prende dati numerici semplici.Per una procedura così com-plessa, il controllo di qualità di

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Uromanti.

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produzione non è né sufficien-te né adeguato. La verità delreferto di laboratorio non è lasua esattezza matematica ma lasua “validità”, termine con cuisi intende la sua capacità di ri-spondere adeguatamente allospecifico quesito clinico che neha originato la richiesta. La de-finizione della validità di un re-ferto è essenziale a livello no-sologico a fronte dell’ambi-guità dei risultati, sia sotto ilprofilo della loro non necessa-ria patognomonicità, che dellavariabile espressione quantita-tiva e della loro evoluzione neltempo. Diversi metodi sonostati proposti per definire lavalidità di un risultato di unesame. Il più conosciuto èquello di Yerushalmy che de-termina, per un risultato quali-tativo si/no, la frequenza dellapositività del test in situazionipatologiche – sensibilità – e lafrequenza della negatività neisoggetti cosiddetti sani – speci-ficità. Entrambe le caratteristi-che sono espresse in termini diprobabilità e l’esperienza inse-gna che al crescere dell’unal’altra di solito diminuisce. Sia-mo pertanto certi a priori chein una percentuale più o menorilevante di casi il risultato nonè valido, cioè non risponde alquesito nel senso che esprimedei falsi positivi o dei falsi ne-gativi. Questo approccio valeper i test si/no, e non nel casodi risultati quantitativi conti-nui. Ironicamente, per valutarela validità di un risultato mate-matico quantitativo di labora-torio, esso deve essere trasfor-mato in risultato dicotomico,cioè qualitativo, attraverso l’u-so di livelli decisionali, a lorovolta identificati con metodistatistici. È pertanto evidenteche nel processo di produzio-ne di un referto l’incertezza deipassaggi nosologico e biologi-co è elevata. Il livello di certez-

za del risultato analitico nume-rico potrebbe apparire più ras-sicurante. Esso si definisce se-condo due caratteristiche: l’ac-curatezza, che esprime la con-cordanza tra il valore ottenuto(risultato) ed il valore vero, e laprecisione, che esprime la con-cordanza dei risultati di ripetu-te misurazioni sullo stessocampione. Il valore vero èquello ritenuto tale o per con-senso o per certificazione dauno standard di taratura pri-mario, soluzioni di volume opeso definiti a concentrazioneottenuta sciogliendo quantitàpesate dell’elemento in que-stione, o secondario, la cuiconcentrazione è determinatacon metodi analitici di sicuraattendibilità. Ma… «Nell’anti-

ca Santa Fè di Bogotà esisteval’usanza di sparare un colpo dicannone per annunciare ilmezzogiorno. L’incaricato eraun vecchietto, un sergente a ri-poso dell’esercito, che salivaogni giorno per una ripidastrada fino alla collina dovestava piazzato il cannone. Eglisi attardava però sempre nelsuo cammino davanti alla ve-trina di una piccola orologeriadove il padrone teneva un vec-chio orologio a pendolo: suquesto orologio a pendolo ilvecchietto regolava giornal-mente il suo orologio da tasca.Questa scena si ripeté per mol-to tempo fino al giorno in cui ilvecchietto e l’orologiaio feceroconoscenza: quale fu la sorpre-sa di entrambi nello scoprire

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Gustav Klimt, Medicina (1900), particolare. Opera perduta.

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che l’orologiaio a sua volta re-golava giornalmente il suopendolo sul colpo di cannonedel mezzogiorno!» (A. Burli-

na, Introduzione alla Medicina diLaboratorio. Utet, Torino 1982).

La medicina come ricerca e

tecnologia La certezza delmetodo scientifico classico valedunque solo per la medicinasperimentale, per la ricerca?Per una decade il Human Ge-nome Project (Hugo) si è orien-tato alla definizione dell’interamappa genetica dell’uomo. Loscopo della mappatura è quellodi identificare e classificare lasequenza completa di bilioni diresidui di dna nella loro attivitàdi materiale genetico, cioè dideposito conservativo e ripro-duttivo delle informazioni perla costruzione dell’essere uma-no come individuo. L’obiettivoclinico è il passaggio da unamedicina sul malato, ad unamedicina sull’uomo prima chesi ammali, per impedirne la ma-lattia, peraltro secondo un con-tinuum di probabilità e cioè diincertezza diagnostica e tera-peutica. Infatti i test geneticipossono essere catalogati come“diagnostici” se l’analisi geneti-ca conferma la causa di un pro-cesso patologico attivo, “pro-gnostici” se in grado di preve-dere l’emergere di un problemapatologico con un alto grado diprobabilità, “predittivi” se indi-viduano una reale predisposi-zione genetica verso una speci-fica patologia, “profilattici” sedescrivono la presenza di unagenetica suscettibilità ad unospecifico stimolo ambientale,“probabilistici” se determinanoun rischio generico verso unamalattia, “di profilo genetico”se evidenziano una associazioneempirica tra una mutazione ge-netica e una aumentata inciden-za di una determinata alterazio-ne patologica. Il coinvolgimen-

to emotivo, la mistica della ge-netica è chiaramente espressadalla metafora per la ricerca ge-nomica: the search of the HolyGrail. La meta è la perfettacomprensione della sequenzadi geni che ci determinano. Tut-to cominciò nel 1909 quandoWilhelm Johnnsen propose iltermine “gene” per definirescientificamente la sostanza diquelli che Mendel nel 1865

aveva chiamato “caratteri eredi-tari”, anche se non aveva la mi-nima idea di come fosse costi-tuito. Nel 1920 Hans Winklerconiò il termine “genoma” perdescrivere l’insieme dei geni diun organismo, con la constata-zione che il numero di geni inun organismo e la quantità diDNA non sono per forza iden-tici, come si era fino ad alloraspesso creduto. All’inizio deglianni 1940 fu chiaramente indi-viduata la funzione dei geni eformulata l’ipotesi «un gene –un enzima» che sarebbe evolu-ta nel concetto di gene comeunità di trascrizione delle infor-mazioni per sintetizzare unaspecifica proteina. Quando nel-l’aprile del 1953 Watson eCrick definirono la strutturaspirale a doppia elica del DNA,che spiegava tanto la conserva-zione quanto la riproduzionedelle informazioni individuali,il dogma della genetica «un ge-ne – una proteina» era definiti-vamente accettato. Tuttavia tragli anni ’60 e ’80 fu evidenteche il DNA non era una succes-sione continua di geni, di unitàdi trascrizione di proteine el’introduzione della biotecnolo-gia genetica dimostrò che di-verse parti del DNA avevanocompiti diversificati e non codi-ficanti. Ma cos’è un gene oggi?Il concetto non è omogeneo perricercatori diversi: per un gene-tista classico è l’unità di auto-trasferimento secondo le leggimendeliane, per un’ingegnere

genetico è la molecola che ri-combina sperimentalmente epuò essere inserita in altre cel-lule, per un biochimico èl’informazione che una cellularichiede per produrre una pro-teina, per un biologo molecola-re è un pezzo di cromosomache può essere trascritto, perun sociobiologo è la strutturache è esistita per un tempo suf-ficientemente lungo ed è suffi-cientemente complessa per ser-vire da base dell’evoluzione,per un teorico è l’idea che ci as-siste nel comprendere la vitanel suo svilupparsi. Ma non sitratta di predisporre un dizio-nario che consenta la traduzio-ne del concetto da subspecialitàa subspecialità. I geni sono uncontinuum informazionale, esi-stono quando producono epossono non essere localizzatifisicamente. Sotto questo profi-lo assomigliano agli elettroninella “indeterminazione” hei-senberghiana. Il gene non puòpiù essere visto secondo la logi-ca binaria del principio di noncontraddizione e necessita distrumenti quali la fuzzy logic diZadeh: «La nostra abilità dioperare definizioni precise edallo stesso tempo significanti in-torno al comportamento di unsistema diminuiranno linear-mente con l’aumentare dellacomplessità di quel sistema. Aduna certa soglia, precisione e si-gnificatività (rilevanza) diventa-no spesso proprietà mutuamen-te escludenti». L’incrementodell’accuratezza tecnica dell’a-nalisi del materiale genetico cinega, in apparente paradosso,un preciso concetto di gene. Daun lato geni doppi, geni dentrogeni, geni che utilizzano partedi altri geni, geni che produco-no più fenotipi diversi, dall’al-tro la scoperta che circa il 98%

del DNA serve a tutt’altro checodificare proteine, che altriprotagonisti come i “piccoli

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RNA” (pezzi di acido nucleicofinora considerato il mezzo ditrasmissione dell’informazionegenetica, almeno nella cellulaeuariote) determinano l’attivitàdel DNA genico. Per compren-dere la complessità di un orga-nismo la mappatura dei geninon basta e la intelligenza deitrascritti o il pattern dei prodot-ti (proteine) è molto più istrut-tiva. Di qui le nuove frontiere,le nuove steli di Rosetta: il tran-scrittoma, il proteoma, il chino-ma… L’indeterminatezza delgene è tale che non si riescenemmeno a contare esattamen-te il numero di quelli codifican-ti. Nel 1994 il numero stimatodi geni variava, a seconda delmetodo di calcolo utilizzato,dai 20000 sulla base dei tra-scritti ai 300000 sulla base del-la dimensione media in basi deigeni conosciuti. Nel 2002 se neprevedono da 27462 a 153478,con una probabilità massimaintorno a 30-35000!

«I meteorologi e i cartomantihanno un rischio professionalein comune con chi si occupa disalute: la gente fa gran contodelle loro previsioni, anche sesono notoriamente inaccurate.La maggior parte della inaccu-ratezza riflette limiti delle tecni-che… Ma anche segni certipossono condurre a false previ-sioni se il loro significato è malinterpretato. E poiché le falseprevisioni portano ad una ap-parenza di certezza, esse risulta-no pericolose per i professioni-sti e i loro clienti… La medici-na è sempre stata diretta ad in-terpretare segni al fine di aiuta-re i pazienti per il loro futuro.Però, previsioni precise, affida-bili e a lungo termine, relativa-mente a pazienti singoli, sonosempre state rare. Ci sono po-chi processi biologici così ine-sorabili da dare una tale certez-za, e ancor meno tecniche perrivelare segni sicuri di quei pro-cessi nei pazienti» (Et Juengst,

Genetic Diagnostic. In «TheHuman Genome» EP Fischerand S Klose Ed., R Piper & Co,Monaco 1995).

L’incertezza della medicina

«La scienza non è un sistemadi asserzioni certe, o stabiliteuna volta per tutte e non èneppure un sistema che avanzicostantemente verso uno statodefinitivo. La nostra scienzanon è epistème: non può maipretendere di aver raggiunto laverità, e neppure un sostitutodella verità come la probabi-lità. E tuttavia la scienza haqualcosa di più che un sempli-ce valore di sopravvivenza bio-logica. Non è solo uno stru-mento utile. Sebbene non pos-sa mai raggiungere né la veritàné la probabilità, lo sforzo perottenere la conoscenza, e la ri-cerca della verità, sono ancorai motivi più forti della scopertascientifica. Non sappiamo,possiamo solo tirare ad indovi-

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nare. E i nostri tentativi di in-dovinare sono guidati dalla fe-de non-scientifica, metafisica(se pur biologicamente spiega-bile) nelle leggi, nelle regola-rità che possiamo svelare, sco-prire. Come Bacone, potrem-mo descrivere la nostra scienzacontemporanea – «il metododi ragionamento che oggi gliuomini applicano ordinaria-mente alla natura» – comeconsistente di “anticipazioni”affrettate e premature” e di“pregiudizi”. Ma queste con-getture meravigliosamente im-maginative ed ardite, o antici-pazioni, sono controllate accu-ratamente e rigorosamente dacontrolli sistematici. Una voltaavanzata, nessuna delle nostre“anticipazioni” viene sostenu-ta dogmaticamente. Il nostrometodo di ricerca non è quelloche consiste nel difenderle, perprovare quanta ragione avessi-mo. Al contrario, tentiamo dirovesciarle. Usando tutte le ar-mi della nostra armeria logica,matematica e tecnica, tentiamodi provare che le nostre antici-pazioni erano false, allo scopodi avanzare, in loro luogo,nuove anticipazioni ingiustifi-cate e ingiustificabili, nuovi“pregiudizi affrettati e prema-turi”, per usare l’espressionedenigratoria con cui li chiamaBacone… Il vecchio idealescientifico dell’epistème – dellaconoscenza assolutamente cer-ta, dimostrabile – si è rivelatoun idolo. L’esigenza dell’ogget-tività scientifica rende inelutta-bile che ogni asserzione dellascienza rimanga necessaria-mente e per sempre allo statodi tentativo. È bensì vero cheun’asserzione scientifica puòessere corroborata, ma ognicorroborazione è relativa ad al-tre asserzioni che a loro voltahanno natura di tentativi. Pos-siamo essere “assolutamentecerti” solo nelle nostre espe-

rienze soggettive di convinzio-ne, nella nostra fede soggetti-va. Con l’idolo della certezza(compreso quello dei gradi dicertezza imperfetta, o probabi-lità) crolla una delle linee di di-fesa dell’oscurantismo, chesbarrano la strada al progressoscientifico. Perché la venera-zione che tributiamo a quest’i-dolo è d’impedimento non so-lo all’arditezza delle nostrequestioni ma anche al rigoredei nostri controlli. La conce-zione sbagliata della scienza sitradisce proprio per il suosmodato desiderio di esserequella giusta. Perché non ilpossesso della conoscenza,della verità irrefutabile, fa l’uo-mo di scienza, ma la ricercacritica, persistente ed inquieta,della verità». Le parole di Pop-per valgono perfettamente perla medicina, che peraltro nonpuò dimenticare il suo versan-te pratico, “umano”. Se da unpunto di vista della medicinaun fallimento entra nel calcolostatistico dei casi non risolti, operché non si poteva risolvereo perché capita che anchequelli risolvibili non venganorisolti, dal punto di vista delpaziente che muore, o ne escemale, quel fallimento è un falli-mento totale. Per lui il falli-mento non riguarderà solo luima la medicina come tale. Isuccessi terapeutici della medi-cina moderna sono incontesta-bili e l’elevata percentuale dimalattie guarite o cronicizzatenon è certo spiegabile unica-mente con una migliore qualitàmateriale della vita o un asso-pirsi della virulenza di qualcheagente patogeno, come volevaIvan Illich. Odo Marquard so-stiene che i vantaggi che la cul-tura concede all’uomo vengo-no dapprima accolti con favo-re, successivamente diventanoovvi, infine si scorge in loro ilnemico. Quante più sono le

malattie che la medicina vince,tanto più forte la tendenza adichiarare malattia la medicinastessa. Vi è quasi una sorta dinostalgia del malessere da par-te del mondo del benessere.L’ostilità latente o attiva versola medicina deriva, in parte,dal conflitto tra lo scetticismosistematico integrante dellamedicina e quella fiducia in-condizionata che molte istitu-zioni sociali esigono o conquella sfera del sacro che le ca-ratterizza. I medici non sonocerto immuni dall’adesione amiti anche estremamente rozzi:ai progressi tecnologici si è ac-compagnata una trionfantesensazione di onnipotenza e dicertezza assoluta; la celebrazio-ne della ricerca e delle novitàterapeutiche, e la richiesta difondi per esse, si è ammantatadelle stimmate della grazia sal-vifica. Molti attacchi alla medi-cina derivano, però, dalla rilut-tanza ad imparare dalla scien-za, resa più forte dalla crescen-te tecnicizzazione e dalla og-gettiva difficoltà delle teoriescientifiche ma anche comereazione alle filosofie che han-no trasformato i risultati dellascienza e della medicina in unavera e propria metafisica, nelledepositarie delle definitive ri-sposte ad ogni possibile pro-blema, autorizzando aspetta-zioni eccessive e soteriche. Unariflessione più accorta sui fon-damenti della medicina ed unatteggiamento mentale umile esolidale può portare tutti, me-dici e pazienti, ad accettare lamedicina come una tecnica deirimedi, che può curare e forsetalvolta guarire, non come il ri-medio assoluto, certo e salvifi-co. Forse sarebbe bastato nondimenticare il primo aforismadi Ippocrate: vasta la techne,breve la vita, sfuggente l’occa-sione, incerto l’esperimento,difficile il giudizio. ■

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«Mi dica». «Che cosa?».«Quello che vuole».Come tutti sanno, la regolafondamentale della psicoanali-si comanda di dire tutto quelloche passa per la mente, senzaesercitare nessuna censura nédi ordine morale né di ordinelogico. Naturalmente è impos-sibile, a chiunque, e tanto piùal nevrotico che è venuto a cer-care nell’analisi l’uscita da undedalo di difese, resistenze,formazioni reattive e sintoma-tiche con cui si è reso la vita in-vivibile. Al suo appello, «Fam-mi uscire di qui», l’analista ri-sponde: «Vai, ti ascolto».È un’intimazione inedita cheva al di là del giuramento ri-chiesto dalla Legge di dire laverità, tutta la verità, nient’al-tro che la verità, in quanto in-stalla nel posto della verità ilsoggetto stesso: qualunque co-sa dica, solo per il fatto di dir-la, dice davvero di lui. Se sei tua narrarla, de te fabula narra-tur. La verità parla. Dica, invitòFreud, e la psicoanalisi fu.All’inizio della sua pratica, colmetodo che chiamava catarti-co, Freud interrogava le isteri-che, chiedeva ricordi che spie-gassero, usava i sintomi cometracce su un percorso da risali-re fino al luogo e al momentodel misfatto, dell’evento cheaveva prodotto l’affetto che asua volta aveva causato il con-flitto psichico all’origine dellamalattia. Un murder party, diràLacan, ironizzando non sull’e-sperienza analitica di Freud,ma sul lato tragicomico diun’esperienza che ancora oggisi presenta come una caccia in

cui, trovato il colpevole, la vit-tima si rialza più sana di prima.Per il Freud che utilizzava in-sieme ipnosi e confessione, sco-prire la vera storia del passatopoteva modificare il futuro at-traverso la sua narrazione: nar-rare equivaleva a rivivere, e nelpunto critico interveniva luicancellando o sottoscrivendo,determinando cioè l’esito diquella verità: sprofondarla nel-l’oblio o restituirla alla coscien-za, comunque integrata ormaiall’essere del soggetto parlante,passato, presente e futuro.Nella conclusione degli Studisull’isteria condotti con Breuer,scrive che il loro metodo elimi-na l’efficacia della rappresen-tazione traumatica in quantoconsente all’affetto che vi è,per così dire, incistato, «di sfo-ciare nel discorso» e la re-im-mette nella catena associativao riportandola alla coscienzanormale o annullandola me-

diante suggestione del medico.Così Freud paga il suo debitoalla tecnica e all’uomo, Breuer,che lo ha messo sulla stradache percorrerà da solo, soste-nendo fino in fondo un assun-to di cui ha già riconosciuto ilimiti e perfino l’inutilità: l’an-nullamento del medico ha unadurata labile e l’avvenimentocessa di essere patogeno solose e quando le sue componen-ti logiche e affettive vengonoaccolte non dal medico madall’Io del soggetto, il solo ca-pace di sancirne la realtà e ren-derle vere, come dice bene lalingua tedesca in cui verwirkli-chen significa tanto realizzarequanto avverare.Il vero merito dell’ipnosi è sta-to piuttosto quello di aver rive-lato e confermato a Freud chenon compare una sola associa-zione che non abbia il suo si-gnificato, non fosse che comeelemento di congiunzione, ele-menti preziosi dato che «l’as-sociazione tra due ricordi ric-chi di riferimenti si effettua so-lo attraverso ad essi». A partireda questa certezza che gli con-sente di mostrarsi infallibile,Freud cede al paziente il ruolodel cacciatore di verità, riser-vandosi il compito del cercato-re d’oro che ne isola le pagliuz-ze nel materiale che se le portadietro nel setaccio. La malattia nevrotica, comeegli la chiama, non può deriva-re da un solo episodio reale, eperfino dove una scena trau-matica esiste la sua forza le vie-ne dal suo farsi punto di anno-damento di una catena di ri-cordi che si spinge molto al di

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La verità che guarisce

Annalisa Davanzo

In questa pagina e seguenti:maschere di Gabriella Battistin.

Blu Oltremare AD Design,Cordenons (Pn).

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là di essa. Sequenze di episodiche concorrono, di cui Freudstesso si chiede «fin dove siestendono? Avranno mai, e do-ve, un loro termine naturale?».Ma sì, e poco dopo lo afferma:«è, questa, una scoperta checonsidero importantissima, lascoperta del Caput Nili (la sor-gente del Nilo) nella neuropa-tologia: qualunque sia il caso equalunque sia il sintomo da cuisi è partiti, alla fine si giungesempre, infallibilmente, nelcampo dei fatti sessuali». Loannuncia alla Società di psi-chiatria e neurologia di Viennanel 1896, in una conferenzasull’eziologia dell’isteria, maall’amico Fliess scriveva giàdue anni prima che anche nel-la nevrosi ossessiva l’eziologiaè sessuale, anche se in modomeno evidente.È questo il vero del vero, il se-greto che i nevrotici tengonofuori circuito a costo di amma-larsi, è questa la colpa su cui gliossessivi accumulano infatica-bilmente colpe fasulle e checontinuano ad espiare con i lo-ro fallimenti e le loro somatiz-zazioni gastro-intestinali, ed èsempre questo il danno che l’i-sterica farà pagare a tutti gliuomini, uomini d’amore e uo-mini di scienza, tutti da mette-re con le spalle al muro del-l’impotenza e dell’imbecillità.Allora perché far arrancare,gli uni e le altre, seduta doposeduta, per anni, da un enun-ciato all’altro, da un’interpre-tazione ad una costruzione, seil punto d’arrivo è lì da subi-to? Perché il sapere che può, edeve, venire al posto della ve-rità non è quello dell’analista,e ciascuno deve farsi largo at-traverso le modalità in cui ilsesso si è fatto trauma nellasua storia.Freud ascolta, attento ai la-psus, ai buchi nel discorso, allericorrenze di certi termini o di

certi meccanismi, raccoglie isogni, i ricordi, le fantasie, ri-stabilisce i nessi, di quando inquando interpreta, per esem-pio, al termine del racconto daparte di Dora arrabbiatissimacontro il signor K, concludeserafico: «Ma lei quest’uomolo ama». Più raramente costrui-sce, estraendo dal materialedelle sequenze logiche chepossono prescindere dai ricor-di e sostituirsi ad essi: la loroesattezza si misura sul riassettopulsionale, cioè sullo sposta-mento per cui gli atti del sog-getto si ordinano sul vettoredel desiderio invece che bloc-carsi o confondersi nelle inibi-zioni e nei sintomi. In questomeccanismo Freud incarna lapromessa che la difficoltà nelcampo dei fatti sessuali siacontingente e dunque revoca-bile: nella sofferenza della vitac’è tuttavia un ordine in cuiciascuno può trovare il suo po-sto e la sua ciascuna. Forse. So-lo nel Disagio della civiltàesprime con cautela il sospetto(«qualche volta crediamo diavvertire») che la funzione ses-suale contenga in sé un’aporiainsanabile, il che testimonia ilsuo prendere atto dei limiti,evidentemente deludenti per

lui, che il trattamento analiticoincontrava sulla via dell’ade-guamento dei comportamentisessuali. Per fortuna. Da qui riparte Lacan quandoporta alle estreme conseguenzela scoperta di Freud: la sola ve-rità che la psicanalisi abbia dadire al mondo è che non c’èrapporto sessuale. Questa for-mula, che diventa l’asse su cuiLacan riassesta la teoria e lapratica analitica, è in primoluogo il contributo della psica-nalisi all’elaborazione di un’e-tica che accompagni il sogget-to nel confronto con un godi-mento a cui nessun sapere loprepara, oggi più che ai tempidi Freud quando religione epolitica si incaricavano più diproteggere che di reprimere ilsoggetto rispetto a questa ve-rità che oggi è sotto gli occhi ditutti, o, come disse Kubrik,sotto un eye wide shut.Nel film, Lui e Lei sono ricchi,intelligenti e belli: hanno tuttobello, la casa, la bambina, gliabiti, perfino gli amici e le lorofeste, in cui si muovono perfet-tamente a tempo e in ruolo: labella donna e il professionistafico, corteggiati da un bel tene-broso, lei, e da due belle veli-ne, lui. A casa ci scherzano su,

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ma quando lui, per rassicurarla,esclude il tradimento per amo-re, dice, della famiglia, Lei siinfuria: la offende il rispettoper la-compagna-di-vita-ma-dre-dei suoi-figli, e gli rivela diaver vissuto, l’estate preceden-te, una passione folgorante perun uomo appena intravisto nelristorante dell’albergo: perquello sconosciuto, solo chelui l’avesse presa, avrebbe datotutto, casa marito figlia, tutto ilsuo futuro avrebbe potutobruciare nell’incontro di unanotte. Chiamato di urgenza,Lui esce dalla sua uxorietà ecomincia così l’immersionenelle dissonanze della sessua-lità, accompagnato sempredalle fantasie in cui si rappre-senta in un dettagliato svolgi-mento erotico quell’incontroche, per non essere avvenuto, èdiventato l’incontro assoluto,ed è il solo rapporto sessuale acui assistiamo, con Lui, ma inbianco e nero, perché non c’è.Nella sua nuova inquietudine,il suo muoversi del tutto casua-le lo inserisce in una rete dallecui maglie, strettamente e geo-metricamente costruite, riescea sfuggire senza aver neppuresfiorato la carne delle donne-da-sesso che ha avvicinato:nessun eros in libertà, perfinola puttana da strada non è piùquella che abitava in via delCampo, ma una pedina elimi-nabile, letteralmente, nel giocodel sesso per il sesso in cui lagrottesca, banale ripetitivitàdel godimento trova il suo cor-relato nella cupezza rigorosadella morte: corpi nudi dime-nanti e maschere mantellateimmobili, secondo un cerimo-niale la cui infrazione si pagacon la morte, la sola cosa realetra immagini e simboli. Il rien-tro di Lui nella realtà pacifi-cante della casa comporta unresto: la maschera di cui non èriuscito a disfarsi, il suo contri-

buto alla verità della coppia,che si prepara a festeggiare ilNatale. È Lei, che ha aperto lacrisi, a richiuderla con la sag-gezza che entrambi hanno gua-dagnato nella sofferenza: c’èuna cosa che devono fare alpiù presto, scopare, e spalan-care gli occhi, pure sempre ri-gorosamente chiusi nel sonnodella realtà, sulla verità del gia-cere accanto, che non sarà maiun rapporto sessuale, ma puòessere un atto d’amore.Che non c’è rapporto sessualevuol dire che nel mondo diquegli esseri parlanti che sonogli umani non ci sono maschi efemmine, ma uomini e donneche non costituiscono due in-siemi omogenei tali che si pos-sa stabilire, cioè scrivere, unrapporto tra lui e lei, perché laparola attraverso cui si cercanonon ha la trasparenza del ri-chiamo ma l’opacità dei teliche nascondono il volto degliAmanti di Magritte, affinchénessuno dei due abbia a sco-prire che lui non era Lui e leinon era Lei, perché a guidare illoro incontro non è il fato, mail caso e l’equivoco. A differen-za che nel mondo animale do-ve colori, odori, posture co-struiscono un sistema biunivo-

co della serie impulso-risposta,nell’universo ordinato dal lin-guaggio non è formulabile nes-suna proposizione universaleche catturi il reale dell’unioneuomo-donna.«Quello che ci dà l’illusionedel rapporto sessuale nell’esse-re parlante è tutto ciò che ma-terializza l’Universale in uncomportamento che è effetti-vamente di branco nei rappor-ti tra i sessi», ma questo com-portamento non è sostenutoda niente che assomigli a quelsapere (supposto) naturale cheè l’istinto, bensì è un fatto cul-turale a cui il soggetto scegliedi aderire o no, prolungandouna scelta che all’origine nondispone di nessun sapere, néinnato né acquisito.L’entrata nel sesso, per il par-lessere, è il trauma.Lungo tutto il processo di ac-quisizioni dalla nascita allascoperta degli oggetti fino alrinvenimento di quel giocatto-lo speciale che è il genitale, ilsoggetto non è sessuato vera-mente. Lo è nel senso che ogniattrazione oggettuale rinvia aduna mancanza non originariadel tipo: devi essere mio per-ché eri mio ed è da me che tisei staccato, secondo l’etimolo-gia di sexus come taglio, ma glioggetti che entrano in questaserie (il seno, le feci) sono sem-pre reintegrabili nell’unità delgodimento perfetto originale enon riguardano il genere comedato reale. Paradossalmente, ilsessuale come effetto della ses-suazione interviene nel mo-mento in cui il soggetto scopreche non gli manca niente, chelo strumento del godimento è asua intera disposizione. «Cel’ho, ce l’ho» è il grido di giu-bilo con cui entrambi, maschioe femmina, si scoprono posses-sori del fallo, entrambi.A entrambi non manca niente,e proprio per questo la rivela-

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zione della differenza sessuale,che di solito coincide tempo-ralmente col momento in cui ilpiacere genitale si impone sututti gli altri, lascia entrambisenza speranza di riprenderemai quello che non hanno maiavuto: la pienezza dell’essere.Il taglio sessuale è quello ched’ora in poi circoscrive l’essereuomo o donna. È a partire dall’irreversibiledella differenza sessuale che ilsoggetto impara l’irreversibi-lità in quanto tale, l’inizio, lafine: il tempo del gioco non èpiù circolare, è finito, è all’im-perfetto che ora si declina l’es-sere tutto; non solo in italianoi bambini aprono il gioco se-gnando che «io ero Questo, tueri Quello, poi magari cambia-mo». Fuori di quel gioco, cam-miniamo tutti sul filo delle età,e del sesso, ci sono gli uominie ci sono le donne, ma cosavuol dire essere un uomo ouna donna? Non cosa vuol di-re adesso, cosa vuol dire davve-ro? Una risposta che sia unanon c’è, il linguaggio nominala differenza ma non la spiega,non la sa, e per questo i sog-getti non parlano d’altro, sen-za mai arrivare a dirla tutta, laverità. E anche quella che arri-vano ad afferrare, è più unaverità inventata che una veritàtrovata: per verificarlo bastaandare in un asilo e chiedere aineo-maschietti e alle neo-fem-minucce che cosa sono, per lo-ro, gli uomini e le donne. Lasanno la risposta anatomica,ma resta sepolta sotto le rispo-ste più disparate, spesso con-traddittorie, con cui il bambi-no testimonia di aver accettatoil “vero” gioco, ci è entrato, ciha creduto, è già impegnato afare la sua parte, senza poterlosapere perché è proprio il fat-to di non saperlo che strutturail gioco, tutti piccoli Trumanshow senza che ci sia nessuno

in cabina di regia (nessunamore che venga da fuori eche ci segnali che c’è un’usci-ta), se non il folle, ma chi glidarebbe retta?Al posto del rapporto sessuale,che porterebbe L’uomo e Ladonna a copulare nella verità,si instaura un discorso che por-ta Un uomo e Una donna adincontrarsi nella sembianza.La sembianza, dunque, non èla finta, come dice Lacan, non èun artefatto, è l’espressione pla-stica dell’interpretazione che siè (impersonale, inconscio) ela-borata in ciascuno a partire dalfatto che il soggetto ha “adotta-to” la sua incompletezza equella dell’altro, e se ne è as-sunto il carico. In questo senso,la sembianza è credenza in at-to, e l’atto in questione è un at-to d’amore (pietas) per la diffe-renza, quella di tutti. È ancheun rischio, perché è più un olo-gramma che una facciata, equanto più ci siamo dentro tan-to più quello cosciente è soloun contributo a forgiarla, per-ché ci sarà sempre qualcosache ci sfugge, che si fa e si cam-bia per effetto del movimento,del divenire, e in questa plasti-cità sta tutto quel poco di li-bertà che si sottrae alla presadella determinazione signifi-cante. All’isterica non basta, sisente costretta nella menzognacome in una vergine di Norim-berga e la rifiuta, o meglio ten-ta di rifiutarla, dando la parolaal corpo, al linguaggio enigma-tico dei sintomi di conversione.Ma tutte le donne la patiscono,

forse una volta più degli uomi-ni, forse oggi soltanto con unamaggiore percezione, e infatti èLei, Nicole Kidmann, a sentirsiferita da quell’appiattimentodel suo essere sullo schemasposa-madre contro cui convo-ca la donna-della-passione.Avanti, c’è posto.Della sembianza Freud nonparla, è un termine del lessicolacaniano, ma la descrive di fat-to mettendo insieme la neces-sità che la relazione analitica sisvolga nell’assoluta sincerità,con il dovere, per l’analista, dimostrarsi (non sentirsi) infalli-bile e ignorante, duro e affet-tuoso, e tutto quanto d’altro lascena analitica richieda, rico-noscendo il motore dell’espe-rienza nel transfert e nel mododi manovrarlo, ed è su questoche ha perso Breuer, che nonne ha voluto sapere.Alla luce dell’apporto di La-can, la pratica analitica che siproponga di portare il nevroti-co a farsi soggetto del propriodiscorso, lasciandosi essere nel-la sembianza, dovrà dunque te-ner conto che: 1. il soggettonon dice altro che la verità, nonci sono materiale vile e pepite,è tutto oro, 2. la verità non èmai tutta, perché tutta potreb-be dirsi solo uscendo dal di-scorso, cioè diventando unaformula matematica o un deli-rio, comunque inservibile, 3. laverità si fa vera nell’eserciziodella sembianza, il che escludeuna garanzia esterna, poichénon c’è nessuno nella posizionedello spettatore del Trumanshow, neanche l’analista.Lacan ne ha tenuto conto nelrielaborare le condizioni dellapratica analitica, e ha fattoscandalo: troppi Truman incabina di regia si illudono dinon essere, loro, delle variantidello stesso gioco che credonodi dirigere, da fuori. Da fuori dove? ■

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Le citazioni di Freud e di La-can sono tratte rispettivamen-te dagli Studi sull’isteria e dalseminario Le savoir du psycha-nalyste, pubblicato fuori com-mercio dall’Association Freu-dienne Internationale.

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I disegni e i “pensieri” pubbli-cati nelle pagine seguenti sonostati realizzati dagli alunni dellaclasse Terza B della Scuola Ele-mentare «Duca D’Aosta» diCordenons (Pordenone) e si ri-feriscono a conversazioni svol-tesi nel periodo natalizio su unargomento proposto da lorostessi, perché molto sentito eprobabilmente anche sofferto.Infatti, in questa fase dell’etàevolutiva, la realtà prende sem-pre più il sopravvento nellamente del bambino e si scontra,a volte anche brutalmente, conl’immaginario, nel quale egli hariposto ogni sicurezza interiore,ogni affettività.Allora sorge il dubbio: è veritào finzione? Nel nostro caso:Babbo Natale esiste veramen-te, oppure no? Il bambino, a otto anni, ha an-cora bisogno del suo mondofantastico, creato, provato everificato dal pensiero, al qua-le egli attribuisce il potere ma-gico dell’azione, della realizza-zione: crede che dai suoi pen-sieri possa risultare un adem-pimento dei suoi desideri. Nellavoro, ogni bambino ha rap-presentato, quasi volendoloconcretizzare, con immaginied espresso liberamente, il suopensiero, le proprie certezze,nelle quali, tuttavia, spesso siintravedeva il dubbio, e quindiuna conflittualità interiore.Ma, quasi a far sparire ogni esi-tazione, ogni dubbio sull’esi-stenza di un personaggio cosìcaro, così affettivamente im-portante, il lavoro degli alunniè proseguito spontaneamentecon una ricerca relativa all’am-

biente in cui “vive” Babbo Na-tale, quasi a voler rafforzarel’immaginario, arricchendolodi elementi concreti, che di-ventano “prove”, e non assur-dità, di un mondo fantastico, omeglio, prove di un mondo af-fettivamente necessario e realeper il bambino.Per lui, la realtà, le pressioni ele esigenze educative dei geni-tori, della scuola e della so-cietà, sono considerate degliimpedimenti a realizzare libe-ramente se stesso, i suoi desi-deri, i suoi affetti, le sue aspet-tative. Insomma, il mondoconcreto viene visto, talvolta,sotto l’aspetto delle privazionie richiede come compito, spes-so, la rinuncia ai propri deside-ri. Il fanciullo invece, nel suomondo fantastico e magico, siprotegge, si difende dalle pri-vazioni, dall’ansia che gli creala realtà, poiché essa ( per luiparadossalmente) lo ama e nel-lo stesso tempo lo inibisce, lopunisce.Così Babbo Natale, i suoi doni,l’ambiente nel quale vive, i per-sonaggi che lo circondano,condivisi ed accettati dalla fa-miglia, dalla scuola, da tutta lasocietà, con varie rappresenta-zioni e sfumature, costituisco-no un ponte di passaggio dalfantastico al reale nel rispettosempre della sua sfera affettiva.È la realtà che gradualmente siinsinua nella sua mente, sosti-tuendosi sempre più alla rap-presentazione magica che luiha del mondo concreto. Mal’importante è che sia lui stessoad accoglierla, a riconoscerla,senza che gli vengano imposte

ed anticipate spiegazioni, vera-mente poco adatte al suo equi-librio interiore. Solo così i desi-deri, gli affetti, le emozioni, lafantasia, la concretezza, trove-ranno sempre un equilibrio nelsuo modo di vivere, di agire edi porsi di fronte al mondo.Proprio mentre il bambino sisofferma maggiormente ad os-servare il mondo reale, altre fi-gure acquistano importanza, alpunto da essere da lui sceltecome modelli che possano aiu-tarlo a soddisfare le sue più in-time esigenze; modelli che rap-presentano comportamenti so-ciali attraverso i quali egli svi-luppa la propria personalità li-beramente, come in un proces-so di auto-maturazione indivi-duale, evitando di seguire sche-mi prestabiliti. Questo avvienenei giochi imitativi, individualio di gruppo: «Giochiamo cheio sono… e tu sei…», nei qualiil bambino assume via via ruolidiversi, ma che principalmenterisultano ancora legati al suovissuto, più o meno affettivo;ad essi egli attribuisce e nellostesso tempo vive, esperienze,emozioni, sentimenti per luiinaccessibili.Ma proprio nel gioco, nella fin-zione, i ruoli scelti rispecchia-no la società ed è come se ilbambino agisse in essa, senzaalcun timore: ancora una voltail pensiero diventa “magica-mente” azione, ma questa voltasi concretizza maggiormente:dalla fantasia pura si passa almondo del possibile (… giocoa fare la mamma, la maestra…il dottore, l’astronauta… di-venta anche: «È possibile che

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Tutta la verità su Babbo Natale

A cura di Angela Grova, Anna Maria Del Pup e Gianna Bragato

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io domani diventi una mamma,una maestra, un dottore, unastronauta…»).Infine non bisogna dimentica-re che questi modelli rappre-sentano un complesso intrec-cio di abitudini, di tradizioni,di valori trasmessi, come un’e-redità di conoscenze implicite.Giocando quindi, il bambinoimpara e i giochi imitativi di-ventano messaggi attraverso iquali egli manifesta la sua per-sonalità infantile; nello stessotempo favoriscono il suo svi-luppo sociale e quindi intellet-tuale. ■

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Sara Bazzetto La sua casa assomiglia a un castello contante torri a punta; intorno ci sono le montagne e piene dineve, ci sono tantissimi abeti ed è pieno di boschi. Io pen-so che Babbo Natale non esista, però ci sono rimasta ma-le perché ci ho creduto tanto; dico che non ci credo peròè bello crederci.

Gianluca Capoduro Dove vivi è un paesaggio fantasti-co: ci sono alberi, boschi di abeti e montagne.La temperatura è fredda ma tu hai una casa calda con unbel camino. Babbo natale io ti credo e anche se sono i mieigenitori ti credo lo stesso. Io non so se tu sei i miei genito-ri o no, ho un sospetto però io non ti scorderò mai.

Massimiliano Andreoni Io credo a Babbo Natale per-ché è gentile e buono e mi porta pacchetti e pacchettoni.Io gli vorrei fare un regalo: dei biscotti al cioccolato e lat-te caldo. È meglio che passi dal camino sennò il mio ca-gnolino abbaia e io mi sveglio.

Li Li Zhang

Ci sono moltestelle nella città euna grande lunadove sopra è pas-sato un orsettoche si chiamaBabbo Natale: èlui che porta i re-gali ai bambini ditutto il mondo.

Marica Perin Io mi sono sentita molto triste quandoho saputo che Babbo Natale non esiste, perché credere aBabbo Natale era molto bello. Il paesaggio dove vive io loimmagino con un clima festoso e si sentono uscire dalle ca-se le allegre musiche natalizie.

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Chiara Cuocci Babbo Natale abitain mezzo a tante montagne dentro unacasa di legno; fuori nevica sempre e lui,con il suo computer, “sente” tutti ibambini del mondo.

Lara De Zan Il regno di Babbo Na-tale è completamente magico: peresempio se nevica, le montagne non siimbiancano del tutto, ma soltanto la ci-ma, il resto continua a brillare di verdeerba fresca. Il mestiere dei Babbi Nata-lini, ovvero i figlioletti di Babbo Natale,è curare l’ambiente, pulire le renne eaiutare la consegna dei doni. Io, ad es-sere sincera, non credo a Babbo Natale,però pensare che esista è una bella co-sa. Babbo Natale, secondo me, rappre-senta le persone che ti vogliono bene,che per dimostrare il loro affetto ti dan-no regali. Comunque, Babbo Natale ono, l’importante è volersi bene!

Daniela Cipriani Secondo me Bab-bo Natale esiste davvero perché la nottedi Natale non ci regalano i genitori i gio-cattoli ma sei tu che ce li porti, ma soloa quelli che sono buoni. La tua è una ca-setta tra la vette più alte delle montagnee tra gli alberi, nascosta, c’è la tua fab-brica, con dentro i tuoi collaboratorifolletti. Nella casa la tua compagna pre-para dolci e bevande per tutti. Lei è unavecchietta gentile e generosa.

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Marta Del Pup Babbo Natale viveal Polo Nord assieme ai suoi aiutanti:gnomi, elfi, folletti e tanti Babbi Natali-ni. C’è anche la signora Klaus, la cuoca,che prepara tanti dolcetti. Ogni tantoBabbo Natale va a trovare i suoi nonniche vivono a Rovaniemi.

Nicola Lazzarin Io fino a qualchemese fa credevo in Babbo Natale, soloche dopo un po’ ho iniziato a sospetta-re che non esistesse, perché il mio ami-co Luca mi aveva detto che non esiste-va. Però la cosa strana è quella che Lu-ca ci crede in Babbo Natale!

Giulia Gazzola Noi bambini scri-viamo le lettere e gli gnomi le portano aBabbo Natale. Mia sorella Sara una vol-ta aveva visto una pancia grossa e degliscarponi grandi e una barba lunga emorbida: era Babbo Natale con i regali.

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Enrico Milanese Io credo che Bab-bo Natale voglia a tutti bene e per ri-compensarlo bisogna dargli un po’ damangiare. Penso che Babbo Natalenella vecchiaia farà molta fatica a por-tare i doni.

Francesco Lunardelli Nei mesicaldi Babbo Natale e i suoi amici si ri-posano e quando si addormentano re-stano nel letto per due settimane o an-che più, come gli animali in letargo. Luiè costretto a mettere la sveglia perché illoro lavoro inizia molto prima di Nata-le. Io penso che Babbo Natale sia unmago perché credo che non si può arri-vare in una sola notte dal Polo Nord aun paese caldo, anche perché lui è pe-sante! Io so anche che sono i suoi fol-letti a portargli le informazioni suibambini cattivi e su quelli buoni.

Ylenia Mariuzzi Nella sua casa hauna sfera magica dove può vedere ibambini buoni e cattivi e tutti i loro de-sideri. Io prima non ci credevo a Bab-bo Natale e invece adesso ci credomoltissimo.

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Andrea Pighin La storia di BabboNatale è bellissima, io credo tanto in luianche se alcuni dei miei compagni nonci credono. Io gli voglio molto bene echissà magari se un giorno riuscirò a ve-derlo. Io su di lui non ho sospetti, per-ché anche se qualcuno mi dice qualco-sa, io continuerò a credergli.

Luca Raffin Io credo a Babbo Natale anche se quasitutti i miei compagni non ci credono, perché credo che sialui a portarmi i doni.

Federica Romanin Babbo Nataleprepara la slitta per il suo lungo viag-gio, si veste con un caldo vestito rossoe vola tra i cieli di tutta la terra. Bab-bo Natale, io credo che tu sei gentile,buono e simpatico, anche se non tiposso vedere, ma spero che ti ricorde-rai di me.

Alberto Barcellona Io ho dei dubbi su Babbo Na-tale e non so se crederci o no, però a me piace credereche esista.

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Vorrei scrivere su verità, dub-bio e finzione. Vorrei scriveresulla televisione e sui danni cheproduce sull’immaginario delbambino, dell’interferenza cheopera sul suo equilibrio affetti-vo e relazionale. Ma per fare ciòin poche righe, cercando di farcomprendere il mio pensiero,parlerò per immagini. La primaè di un mio piccolo pazienteche ha strutturato un delirio te-levisivo: all’infinito, in una sor-ta di insalata di parole sciorina-ta con tonalità professionali,Sandro è l’imbonitore di unatelevendita; raccoglie ciò che glicapita intorno e inizia a vender-lo: lo fa in terapia, a scuola, acasa. A casa meno, perché a ca-sa telecomanda da un canale al-l’altro imbonendosi di televen-dite “vere”. Non è una rappre-sentazione, Sandro è mental-mente al di là dello schermo te-levisivo. Nella scatola visivaSandro ripara come in un rifu-gio mentale per difendersi dallarealtà in cui ha difficoltà a vive-re. Perché abbia scelto le tele-vendite piuttosto che i telegior-nali o un varietà come Porta aPorta rimane senza risposta. Civogliono alcuni anni di terapiaperché Sandro abbandoni que-sta via di fuga monodirezionaleper accedere ad un tipo di dife-sa più sano. Oggi Sandro scivo-la sotto la scrivania sotto la qua-le fa “casetta”; una casetta dallaquale si fa vedere e mi ascoltaquando gli parlo.La seconda immagine è di miafiglia che mi chiede se i regali liporta Babbo Natale o li portoio. Mentre la guardo provouno struggimento antico. Nel-

la sua domanda c’è già la tristerisposta che l’infanzia è finita.Un’ultima ribellione all’inelut-tabilità del sopravanzare dellarealtà, è nella sua categorica as-serzione: Voglio la Verità!

La verità in questo caso è im-possibile e insieme ci alleiamoper respingere la sfinge deldubbio nell’abbasso, come l’E-dipo pasoliniano: ai bimbi checi credono, i regali li portaBabbo Natale, a quelli che nonci credono più li portano i ge-nitori. Il regalo più grande cheporta Babbo Natale è la cre-denza che esista davvero. Ab-bandonare una credenza è co-me essere svezzati, perdere unamico o accompagnare i pro-pri nonni alla tomba. C’è unlutto da fare e ci vuole tempo edelicatezza. La verità della co-noscenza non può irromperesulla scena scacciando la cre-denza senza recare danni. Persostenere l’angoscia che il dub-bio porta con sé ci vuole unpo’ di finzione: ci credo e noncredo, faccio finta di crederci. È la soluzione che adotta miafiglia in attesa del natale suc-cessivo quando si sentirà pron-ta, tanto a non credere, quantoa sostenere la credenza di suofratello più piccolo, e venire ascegliere con me il suo regaloda far comparire sotto l’albero.Alcuni mesi fa un pilota di pai-per va a schiantarsi con il suovelivolo sul Pirellone. È cosanota. Pochi attimi più tardil’immagine è sugli schermi, del-la televisione e dei PersonalComputers. Non ci sono dub-bi. Si può credere l’incredibile.La foto è su tutte le prime pagi-

ne dei quotidiani. In metropoli-tana, l’immagine a colori dell’e-dificio danneggiato è su ognifoglio di tabloid abbandonatoin terra o sui sedili dei treni. Masul retro del foglio c’è una pub-blicità, un’immagine non “ve-ra”. Quando emergo dal sotto-suolo, alla Stazione Centrale, ilgrattacielo è lì in tutta la suagreve impotenza, gigante ferito.Quello che percepisco è losconcerto di fronte ad una vi-sione oscena. Una nudità racca-pricciante, non piacevole. E miaccorgo che salendo l’ultimogradino ho messo un piede nel-la realtà, ho varcato il confinetra la credenza e la realtà, chemi si presenta in tutta la suaoscenità. E scopro allora di pos-sedere un senso diverso più so-fisticato di quello di cui mi sonoservito finora per guardare conavida ma distaccata curiosità leimmagini sullo schermo. È unavisione tattile quella che speri-mento ora. Se così si può dire.Il mio occhio “tocca” la realtà esa che non può trattarsi d’altro.E anche il mio stomaco vedequesta realtà e provo un legge-ro fastidio. E vengo attratto co-me tutti gli altri, più vicino. Epoi, come tutti gli altri, cercouna visuale diversa e faccio il gi-ro dell’isolato per accertarmiche sia tutto vero, tridimensio-nale, e che sul retro dell’imma-gine del grattacielo devastatonon ci sia un’ammiccante pub-blicità, ma il buco di uscita diquel proiettile vagante. E c’è.C’è davvero. E ci sono ancorafogli che svolazzano e come ae-roplanini di carta planano conil loro moto pendolare. Ora so,

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Babbo Natale o la televisione?Credenza e/o verità

Stefano Fregonese

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so che è successo tutto, davve-ro. Non posso chiedere altreprove. È tutto così evidente.Potrei solo chiedere di esserelassù, uno dei pompieri chestanno facendo crollare i calci-nacci e i vetri pericolanti, ma miaccontento di questa visionetattile, sufficiente per sapere(conoscere) che un aereo hasfondato le pareti del Pirellone.Poiché non posso andare aNew York mi accontento dicredere che le Twin Towers sia-no davvero crollate. La televi-sione di per sé non mi garanti-sce che ciò che vedo sulloschermo sia vero. Mi aiuta aformarmi una credenza, nonuna conoscenza. Luca che aNew York c’è stato mi assicurache le Torri sono cadute davve-ro. Luca lo conosco dai tempidell’asilo ed ho imparato a capi-re quando dice una cosa vera equando racconta frottole. Il fat-to è che non ho a disposizione imezzi per verificare o per falsi-ficare i dati che acquisisco e per

vivere in questo mondo com-plesso e sempre più veloce, poi-ché non posso conoscere ognicosa, mi devo formare delle cre-denze che mi aiutano a capire, aorientarmi, nella conoscenzadel mondo e ad avere relazionicon altre persone. La credenzaè uno stato psichico particolare,uno strumento della mente fon-damentale per acquisire cono-scenze e in definitiva per cre-scere. La credenza è una fun-zione della mente che si struttu-ra secondo delicati meccanismicui concorrono altre funzioni,quelle sensoriali, emotive e af-fettive. Il rapporto che ciascunoha con le proprie credenze èparagonabile a quello che cia-scuno ha con i propri oggettiinterni o con le altre persone.Ronald Britton, psicoanalistainglese, ha scritto un bel librosull’argomento: Belief and Ima-gination. Le credenze si acqui-siscono e si lasciano, si perdonoo non si può farne a meno. Lecredenze possono essere consce

o inconsce. Le credenze posso-no essere inconsce ma provoca-re degli effetti. Sono delle com-ponenti preziose e delicate del-la nostra capacità di pensare, diapprendere e di crescere. Credere, avere la capacità dicredere e di formare delle cre-denze, possedere ed esercitarela capacità di sottoporre leproprie credenze all’esame direaltà e una volta falsificate ab-bandonarle, è inerente allastruttura stessa della mente.Soprattutto la possibilità di«distinguere una credenza daun fatto dipende dalla possibi-lità di guardare alla credenzadall’esterno del sistema dellacredenza stessa, dipende dallacapacità dell’individuo di tro-vare una posizione terza, dallaquale osservare la propria cre-denza soggettiva riguardo l’og-getto» (R. Britton, Belief andImagination, Routledge).Quando ci sono delle interfe-renze al normale processo diformazione delle credenze,

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In questa e nella pagina seguente: illustrazioni di Luisa Tomasetig per il testo di Alfredo Stoppa,Il paese della nebbia e il paese del vento, Edizioni C’era una volta…

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della loro verifica attraversol’esame di realtà e di acquisi-zione della conoscenza, si pos-sono verificare delle anomalienel processo di pensiero. Peresempio la funzione del crede-re può essere sospesa, produ-cendo un senso pervasivo di ir-realtà psichica egualmente di-stribuita come nelle sindromi“come se”; oppure l’apparatopuò essere distrutto o smantel-lato, come accade in certi statipsicotici. Qualcosa del genereaccadeva a Sandro, il mio pa-ziente che abitava la televisio-ne “come se” fosse la realtà efuggiva la realtà trasformando-la in una reiterata finzione. La televisione costituisce unafonte di percezioni di eventi ofatti altrimenti non percepibiliperché accaduti altrove o nonaccaduti per niente. La televi-sione induce a produrre creden-ze nella mente di chi la guarda.Oppure le fornisce pronte alconsumo. Inoltre la televisionesi propone come sostituto dellafunzione di esame della realtà.Sotto questo aspetto la televisio-ne opera come manipolazionedelle coscienze in quanto agiscesulla (faticosa) funzione discri-minatoria tra finzione e verità,tra realtà e immaginario, tra cre-denza e conoscenza. Britton ritiene che la credenzastia alla realtà psichica come lapercezione sta alla realtà mate-riale. Credere conferisce la forzadella realtà a ciò che è psichico,proprio come la percezioneopera nei confronti di ciò che èfisico. Come la percezione lacredenza è un processo attivo, ecome la percezione, è influenza-ta dal desiderio, dalla paura edalle aspettative e, proprio co-me la percezione può essere ne-gata, così la credenza può essererinnegata, ripudiata, smentita.Le credenze hanno conseguen-ze: suscitano sentimenti, in-fluenzano le percezioni e provo-

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cano azioni. Così, alle volte, ciritroviamo a provare sentimentie ad agire senza nessuna appa-rente ragione o in maniera pococongrua rispetto alla realtà checi circonda. Poiché la credenzaè un processo che si struttura eche contribuisce alla formazio-ne di altre funzioni psichiche,come la conoscenza, è facilepensare che interferire con que-sto delicato processo provochidelle conseguenze. È anche leci-to pensare che più precocemen-te tali interferenze si verifichinomaggiori siano i danni. Nel rapporto con il bambino,l’adulto riesce a monitorare lecapacità ricettive del bambinoe a modulare gli stimoli chefornisce in relazione alle rispo-ste che il bambino dà. Se ilbambino ha difficoltà, peresempio, ad uscire dal sistemadi credenze che si è formato,l’adulto può aiutarlo a crearequello spazio necessario per di-stanziarsi dalla credenza e sot-toporla all’esame di realtà. Unpo’ come è successo con mia fi-glia a proposito di Babbo Nata-le. La televisione non consentealcuna profondità affettiva. Latelevisione, affettivamente, èpiatta come lo schermo su cuiscorrono le immagini. Perché dunque continuiamo anutrire le menti dei nostri bam-bini di schifezze? Beh, è giustooperare delle distinzioni. Nonsi nega ad un bambino un pran-zo da Mc Donald di tanto (tan-to) in tanto. Neppure la Nutel-la, o pop-corn-e-coca-colaquando si va al cinema. Però lasomministrazione di omoge-neizzati agli ormoni che attiva-no i processi puberali nei bam-bini di sei mesi riguarda la ma-gistratura. Il problema è che latelevisione rappresenta di persé un cibo di dubbio valore nu-trizionale per la mente del bam-bino al di là dei contenuti deisingoli programmi. La televisio-

ne opera sul sistema delle cre-denze dell’individuo in fase disviluppo, come un omogeneiz-zato agli ormoni. Inoltre la tele-visione non produce conoscen-za ma credenze. La televisione èdi per se stessa una credenza.Ciò che viene trasmesso non re-clama un esame di realtà, si im-pone come una parte di un pro-cesso del pensiero pronta peressere assunta acriticamente;che si tratti di fiction, o del di-scorso del Presidente del Con-siglio. La televisione producecredenze che chiedono di esse-re consumate e non sottoposteall’esame di realtà. La più gros-sa credenza che la televisioneha prodotto su se stessa e cheauto-sostiene continuativamen-te è che guardare la televisionenon sia dannoso ma costituiscaun arricchimento, un confortoo comunque una panacea.Questa è la mia ipotesi riguardoal fatto che sia così difficile ab-bandonare questa credenza eprocedere alla verificata cono-scenza che guardare la televisio-ne è inutile se non dannoso so-prattutto durante l’infanzia. Ora, perché penso che le cre-denze che la televisione propo-ne posseggano una qualità ne-gativa rispetto, per esempio,alla qualità positiva che ha perun bambino la credenza nell’e-sistenza di Babbo Natale? Di-ce Giulia, amica di mia figlia:«Se anche venissi a sapere cheBabbo Natale non esiste, io cicrederei lo stesso».Finora ho cercato di distingue-re tra le diverse possibilità chela mente ha nel trattare le cre-denze, sia nel formarle sia neldisfarsene. Poco ho detto sullaqualità della credenza, se non infunzione dell’esame di realtà.Ma non vorrei essere frainteso.Il fatto che Alessia o Giulia noncredano più a Babbo Natale,nulla toglie all’importanza chequesta credenza ha rivestito per

loro in passato o che rivestiràancora per Matteo e per Camil-la. Giulia sa che il sacco di Bab-bo Natale è un contenitore sim-bolico e proprio per questo nonvi può rinunciare. Una volta di-ventati adulti Alessia, Giulia eMatteo continueranno a trarnefuori oggetti preziosi: significa-ti, affetti, simboli, ricordi, rac-conti, fiabe… Esaurita la suafunzione “concreta” la creden-za di Babbo Natale continua adesercitare una funzione simbo-lica. In questo caso si può par-lare di credenza o finzione co-me segno di civiltà. Tutt’altro èla finzione televisiva, ingannodella modernità. La televisioneinganna e ruba il tempo. Nonsolo il tempo sprecato a guar-darla ma il tempo interno ne-cessario al processo di pensiero,all’elaborazione delle fantasieinconsce, il tempo necessario aldispiegarsi dell’immaginario,quello spazio indispensabileper trovare una posizione terza,dalla quale osservare le propriecredenze soggettive riguardantiil mondo interno e la realtàesterna. Interferendo con la na-turale scansione temporale del-le funzioni mentali la televisio-ne può produrre un momenta-neo ma pervasivo senso di ir-realtà psichica fino a contribui-re alla distruzione o smantella-mento dell’apparato psichicocome accade in certi stati psico-tici. La mente si annebbia. Larealtà stessa si annebbia, men-tre dalla televisione, come dallascatola del Dottor Sorriso,«continua ad uscire una vocettacalda calda che sbeffeggia Bab-bo Natale, la sua barba, le suerenne e la sua mania di portaredoni ai bambini: “È roba supe-rata, è roba d’altri tempi, fidate-vi: ben altri sono i divertimenti!Bla, bla, bla….”» (da AlfredoStoppa, Il Paese della nebbia e ilpaese del vento, Edizioni C’erauna volta…, 2000). ■

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Quando Omero cantava i va-gabondaggi di Ulisse attraver-so i mari, nella faticosa rottache lo avvicinava alla costa na-tia o lo proiettava lontano, lesirene, a quel tempo, ali e pie-di d’uccello, volto e corpo didonna, cantavano, sull’isolaimbiancata dalle ossa calcinatedei naufraghi, e promettevanodi svelare il futuro. Ma Giovanni, studente discienze politiche, che legge lamano in una stradina dell’El-ba durante le caldi notti esti-ve e, grazie a questo, si conce-de sontuose vacanze in villa,mi racconta che nessuno glichiede di predire l’avvenire,tutti vogliono conoscere ilpresente e chiedono a questogiovane sireno di un metro eottanta, che racconti soltantodi loro stessi.Ulisse, oggi, fuggirebbe al can-to e chiuderebbe con la ceraanche le proprie orecchie. Come in uno specchio defor-mante, il mito antico si rinno-va e ritorna a incarnare unnuovo eroe. Per l’uomo me-dievale, racconta Dante, Ulis-se è alla ricerca della cono-scenza, e le sirene, coda e sca-glie di pesce, corpo e viso didonna, vogliono ammaliare ilnavigante e promettono la co-noscenza. Questa ci appareadesso una pallida mascheradi gesso con gli occhi comenere fessure spalancate nelbuio, e noi cerchiamo di svela-re questo spettro biancastro,ma non riusciamo che a scro-starlo a tratti, scoprendo unaseconda incrostazione di ges-so, un’immagine fittizia so-

vrapposta. Non resta che spe-rare che sia una copia più vici-na e più somigliante al Vero.Ma le maiuscole, consumatedal tempo, non sono più dimoda. E così, talvolta, ogni co-noscenza diventa punto d’arri-vo, ma anche punto di parten-za, che ci costringe a rimetterein dubbio il nostro passato e acercare un nuovo futuro. Joyce canta le peregrinazionidell’uomo moderno attraver-so la città e le sirene sono lemaliziose ragazze del bar, eBloom scopre la doppia im-magine stridente di se stesso,quella interiore che solo lui

può vedere e che esplode inlampi danzanti e mutevoli, equella esteriore che vedonogli altri, piatta e riduttiva, edolorosamente le accetta en-trambe. Ma Ulisse, se arrivasse di nuo-vo all’isola delle sirene, im-biancata dalle ossa calcinatedei naufraghi, forse sentireb-be questa volta soltanto lostruggente canto di Parteno-pe. Canta con la voce e gli ac-centi di Penelope il loro pri-mo appuntamento d’amore,proprio come Ulisse l’avevavissuto all’interno; e l’eroe sispecchia in lei completamen-te, anche se sa che la sirena èsolo immagine, solo una par-venza di moglie, e fugge via,anche questa volta, alla ricer-ca della vera Penelope. Mentre Ulisse naviga verso Ita-ca, Partenope, vinta dal suostesso canto, continua ad essereper se stessa ciò che è stata perlui. E, malata d’amore, nuotaverso la costa partenopea, e lìs’inabissa, per morire, nelleprofondità del mare. Ulisse giunto finalmente a ca-sa, scopre che Penelope e il fi-glio sono ora più lontani chemai, le immagini presenti noncombaciano con quelle del suopassato interiore, che Parteno-pe aveva saputo così bene rap-presentare. Forse l’eroe cercherà di so-vrapporre ai suoi ricordi que-sta realtà, forse andrà negliInferi a chiedere a Partenopedi cantare per lui la stessacanzone, forse continuerà anavigare sul profondo maredella nostalgia. ■

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Ulisse e le sirene

Livia Iacobelli

Sergio Vacchi,Come per caso (1987).

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Un silenzioso caffè sotto unagran coperta di pini marittimi.È autunno e il mare russa, ca-nuto, a pochi passi. I lontanimonti dell’Istria si stagliano ni-tidi, pesantemente viola, comedi cristallo. Le foglie dei piop-pi e degli ippocastani scorronofrusciando.Filippo Ottonieri siede su diuna seggiola di plastica biancacon un tavolino davanti a sécon un libro, un quadernucciodi appunti.Arriva il vecchio poeta, gli oc-chiali neri appoggiati su di unaintricata struttura di rughe chefasciano una testa arruffata ebarbuta. Il poeta è accompa-gnato da una giovane donnache gli indica con mosse di-screte dove sedersi.Ha il bastoncino bianco dei cie-chi, ma lo porta come se fosseun vezzo, con fare snobistico.Filippo: Caro amico, buongiorno e buon giorno a lei, si-gnora.

Poeta: Il buon giorno sarebbetale se potessi dire chiarogiorno, ma vedo solo larve gri-gie e barlumi. Insomma, ami-co mio, cieco.Filippo (cortesemente): Ciecocome Omero.Poeta (scrollando le spalle, convoce che annota chiaramentel’ispanicità): Cieco come unatalpa, la poésie suivra.L’ultima volta ci siamo visti da-

vanti al quadro di LorenzoLotto, Gentiluomo nello stu-dio, alla Galleria dell’Accade-mia, a Venezia, e allora, mala-mente, vedevo e abbiamo par-lato di quel gentiluomo e deisuoi pensieri.Filippo: Supponiamo che ilgentiluomo del Lotto parli conun amico che gli è di frontedella verità e della finzione.Poeta: Come ben sa, da scritto-re m’interessa la finzione e in-tanto che aspetto quel tè che lamia giovane amica ha ordina-to, m’illuderei se avessero delLapsang Souchong, se, e infat-ti dall’odore delle bustine èsquallido breakfast, ma tant’è,nel frattempo lei mi racconticosa ha scritto. So che lei scri-ve e tiene nascosto. Ho parlatodi lei con un professore dell’u-niversità che mi darà domaniuna laurea honoris causa. Nel-la sua città non la amano enemmeno quel professore chevoleva sembrarmi, visto il mio

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Verità e finzioneDialogo sulla verità e sulla finzione fra Filippo Ottonieri,

una giovine donna ed un poeta ciecoTito Maniacco

Parresiazomai o parresiazesthaiè usare la parresia, e parresia-stes è colui che usa la parresia,cioè che dice la verità. Mi-

chel Foucault, Discorso everità nella Grecia antica

Credere che le parole condu-cano alla verità equivale a cre-dere che un sistema formaleincompleto conduca alla ve-rità. D. R. Hofstadter, Gö-del, Escher, Bach: un’EternaGhirlanda Brillante

Nda. Chi scrive non è un filo-sofo ma uno scrittore. Ha per-tanto usato il più caratteristicoe tradizionale artifizio letterariobasato sul dialogo.L’esempio è dato dalle OperetteMorali di Giacomo Leopardi,dalle quali ha tratto anche unodei personaggi del dialogo, quelFilippo Ottonieri, il cui caratte-re il poeta amico definisce conuna citazione leopardiana trat-ta, appunto, da Detti memorabi-li di Filippo Ottonieri.Il poeta cieco è, ovviamente,Jorge Luis Borges, un Borges

largamente inventato, ma Bor-ges che si cita con un’osserva-zione di Maurice Blanchottratta dalla prefazione einau-diana di Finzioni (1967) e conun frammento di una sua poe-sia, Carme presunto, (Poemaconjetural), tratta dall’edizionemondadoriana del 1972, Car-me presunto e altre poesie e dicui trascrivo la traduzione ita-liana: «Come quel capitanodel Purgatorio\ che, a piè fug-gendo e insanguinando il pia-no,\la Morte rese cieco e stesea terra\dove un oscuro fiume

perde il nome,\così dovrò ca-dere…».I testi consultati sono: MichelFoucault, Discorso e verità nellaGrecia antica Donzelli, 1996,Adrien Baillet, Vita di MonsieurDescartes, Adelphi, 1996, Dou-glas R. Hofstadter, Gödel,Escher, Bach: un’Eterna Ghir-landa Brillante, Leo Strass, Ge-rusalemme e Atene. Studi sulpensiero politico dell’Occidente,Einaudi, 1998, Roger Penrose,La mente nuova dell’imperatore.La mente, i computer, le leggidella fisica, Rizzoli, 1992.

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interesse per lei, oggettivo. Di-ce che lei è odiato comune-mente da’ suoi cittadini; per-ché pare prendere poco piace-re di molte cose che soglionoessere amate e cercate assaidalla maggior parte di essi. Miparli dunque della verità o diquel che lei intende per verità.Filippo: Verità. Scrive MichelFoucault che la verità, in grecoparresia, è portata avanti dalparresiastes che sarebbe coluiche usa la parresia.Il parresiastes dice ciò che“pensa” sia la verità o dice ciòche “è” realmente vero?.La tesi di Foucault, e mi paredi dovermi adeguare ad essa, èche il parresiastes dice ciò che“è” vero perché egli “sa” che èvero; ed egli “sa” che è veroperché “è” realmente vero.Ne consegue che il parresiastesnon solo è sincero nel dire la suaopinione, ma sa anche che lasua opinione è la verità. Insom-ma ci sarebbe un’esatta coinci-denza fra opinione e verità.Poeta (sorseggiando il tè. Hatolto, come per concentrarsi inciò che dice l’amico, gli occhialied i suoi occhi ciechi guardanoapparentemente il vuoto, e diceironicamente): Ha notato chequesto the è mediocre? Vero ofalso? è soggettivo. Però ha no-tato che è bollente: vero, ma èsolo una sensazione.Filippo: Naturale che è unasensazione perché la coinci-denza fra opinione e verità, peri greci, solo per essi e in un mo-mento felice ed unico della lo-ro storia, è un’attività verbale.Poeta: Vede, per i greci saràstato così, ma per Descartes,ad esempio, questa coinciden-za è mentale e non solo.Ricordo di aver letto, quandome ne stavo come un topo inmezzo alle gigantesca sequenzadi scaffali della biblioteca dellamia città, al riparo dall’arro-ganza dei militari, un libro che

Adrien Baillet, uno dei massi-mi eruditi francesi del XVII se-colo, ha scritto, alludo a Vita diMonsieur Descartes.Vi è un momento in cui Bailletnarra di un’assemblea di dottipresso il nunzio apostolico perascoltare Monsieur di Chan-doux che esponeva le sue nuo-ve idee sulla filosofia.Cartesio tace cortesemente fin-ché qualcuno, accortosi di taleeloquente silenzio gli chiede didire quel che ha pensato.Sotto pressione per le insisten-ze, dopo il giro di elogi dovuti,il filosofo osserva quanta forzaabbia la verosimiglianza laddo-ve sostituisca la verità.Verosimile, verisimilis, vuol di-re infatti che la cosa presa inesame ha tutta l’apparenza delvero, “può” anche essere vera,verus e similis, ma non ne è chel’apparenza.A riprova, usando vecchi mec-canismi della sofistica classica,chiese ai suoi interlocutori chegli indicassero, dapprima unaverità incontestabile e poi chefosse appoggiata da dodici ar-gomenti, uno più verisimiledell’altro.Descartes provò, oltre ogni ra-gionevole dubbio, che quellaproposizione era falsa. Non so-lo, ma rovesciando la questio-ne propose che gli fosse sotto-posta una di quelle falsità e di-mostrò, ancora una volta, cheera plausibile.Filippo: Non che fosse vera,plausibile.Poeta: Plausibile, plausibile.Cartesio avrebbe detto una con-cezione basata sull’evidenza.D’altra parte, cos’ è la verità?Da quando, nel III secolo, Eu-clide stabilì che la somma degliangoli del triangolo è uguale adue angoli retti, per più diduemila anni i filosofi e i teolo-gi considerarono questa affer-mazione la forma più elemen-tare della verità.

Dagli ellenisti passando per gliarabi, i tomisti e ogni altro stu-dioso…Filippo (interrompendolo bre-vemente): Almeno fino al1829, annus Lobacevskij…Poeta (non volendo mai perderel’iniziativa):… e di Bolyai… adesempio vedi la Summa contragentiles di Tommaso D’Aquino«Deus facere non possit sicutquod triangulus rectilineus nonhabeat suos tres angulos duobusrectis aequales» e, per contro,cinquecento anni dopo, il buonsignor Voltaire non potrà checoncordare scrivendo: «Dionon impedirà mai che i tre an-goli del triangolo non sianouguali a due retti». Ma, duemi-la anni dopo, e cento dopo Vol-taire, il professor Lobacevskijsosterrà che la somma degli an-goli del triangolo non “è” ugua-le a due angoli retti. Duemilaanni di verità assoluta e incon-trovertibile in pura polvere.Il che vuol dire che la verità as-soluta non esiste e nessuno nepuò postulare in qualche mo-do l’esistenza.Giovane donna (interrompen-do, un po’ timidamente): Scu-sate, signori, scusate.I due s’interrompono, dove so-lo la cortesia può nascondere ilfastidio di un terzo incomodoe si dispongono, con impazien-te pazienza, ad ascoltare.Giovane donna (rivolgendosi alpoeta in modo che il suono dellasua voce gli giunga dall’orecchioda cui, lei sa, ci sente meglio):Ecco, il solito eurocentrismo,assoluto, totale, globale, doveBach che non dice nulla di nul-la a miliardi di cinesi, di indiani,di arabi, di africani e di sudame-ricani, è genio universale, el’horror vacui della pittura eu-ropea del rinascimento è uni-versale là dove non dice nulla adun pittore come Ma Yüan delperiodo cinese Sung del sud,1190-1224, detto ai tempi suoi

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«Ma dell’angolo» perché dipin-geva un solo angolo del suo ro-tolo lasciando indeterminatotutto il resto, ma, dicevo, euro-centrismo. Il pensiero Ch’an,che diventerà noto come zenpassando in Giappone, il pen-siero Ch’an rileva che non biso-gna aver fiducia nelle paroleperché le parole rappresentanouna categoria concettuale e cre-dere che le parole conducanoalla verità, è un’annotazione diDouglas R. Hofstädter, equivalecredere che un sistema formaleincompleto conduca alla veritàe i matematici sostengono chenon si può fare affidamento al-tro che su un sistema formale,pertanto la sola soluzione possi-bile è affidarsi al koan. Il koannon è un problema quanto uninnesco che sblocchi il nostromeccanismo mentale dandoluogo all’illuminazione. Letti danoi i koan sembrano nonsense.Il monaco ch’an Mumon hascritto: «In verità le parole nonhanno alcun potere. Anche sele montagne diventano mare.Le parole non possono aprirele menti altrui».Insomma, signori, non essendopossibile aprire un dibattito,mi limito a far notare la parzia-lità eurocentrica del vostromodo di procedere. Parole e verità sono incompa-tibili.I due stanno rivolti verso dilei, Ottonieri lievemente per-plesso e il poeta con un sorri-so divertito.Poeta: Presentandole la mia ac-compagnatrice, caro Ottonieri,mi sono scordato dirle che èvalente sinologa.Filippo: Per ora direi che siamoarrivati al limite. Volevo soloricordare, per concludere,sempre con un pensiero diFoucault, che il parresiastes hauna precisa valenza.Poniamo che il maestro discuola spieghi la grammatica ai

suoi allievi nel miglior modopossibile. Ebbene, pur dicen-do il vero, non sarà mai un par-resiastes.Un parresiastes è colui per ilquale dire la verità è considera-to un dovere morale perché èlibero di stare zitto. Nella Vitadi Dionigi di Plutarco, Platoneche dice la verità sul modo ti-rannico di gestire Siracusa daparte del suo ospite, lo stessoDionigi, si comporta da parre-siastes, perché il suo impegnomorale è svolto a rischio dellapropria vita. Insomma definirela verità è piuttosto complesso.Potrei proporre la domanda, al-la quale non vorrei dare rispostadi sorta, su chi, ai nostri tempi onelle mutate situazioni storiche,da Roma in poi, possa essereconsiderato un parresiastes.Lo fu Seneca? Lo fu ThomasBecket? Lo fu Thomas Moo-re? Lo fu Trockij?Poeta: Brevemente, per citareLeo Struss e il suo libro, vistoche abbiamo girato a lungosotto l’Acropoli, perché non

passare fugacemente sotto ilTempio di Gerusalemme?I profeti, se il parresiastes èquello che dice Foucault, iprofeti sono stati parresiastes?E il primo di essi in assoluto ècertamente Giobbe che pole-mizza non già con Dionigi diSiracusa ma con «Colui che so-no», senta… «Oh avessi purechi mi ascoltasse!… ecco quala mia firma! L’Onnipotentemi risponda!». «Quis mihi»,vado a memoria, «tribuat audi-torem, ut desiderium meum au-diat Omnipotens…».E di Geremia cui il re Joiakimha bruciato il rotolo delle dureaccuse di Colui che sono al po-tere reale e che deve nascon-dersi con il suo scriba in unacisterna, che ne dice?Ed Ezechiele e Isaia… ascoltiquella voce che viene dalle ca-verne dei secoli… «non est quiinvocet iustitiam neque est quiiudicet vere».Indubbiamente sono stati, an-che se darebbe loro fastidio,dei parresiastes.

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Lorenzo Lotto, Ritratto di giovane. Venezia - Accademia.

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verità, dubbio, finzione

Filippo: A questo punto, trat-tando del vero, che dire dellafinzione?Risolverei il complesso proble-ma trasferendo il falso sullafinzione e per questo mi rivol-go a lei che di finzioni è unmaestro senza uguali.Del falso non potrei chiuderemeglio altro che citando Tom-maso D’Aquino: «Praeterea: ilfalso si trova nel vero». Infatti,«sicut dicit Augustinus», nelcapitolo dieci del secondo li-bro dei suoi Soliloqui, «l’attoretragico non sarebbe un falsoEttore, se non fosse un vero at-tore, Ergo: verum et falsum nonsunt contraria».E da qui procedendo siamo interritorio suo.Poeta: La finzione… sa, amicomio sono «como aquel capitándel Purgatorio/que, hujendo apie y ensangrentando el lla-no/fué cegado y tumbado porla muerte/donde un oscuro ríopierde el nombre,/así habré decaer», così dovrò cadere e nonmi aiuterà più la letteratura e lesue finzioni infinite come lestanze della biblioteca di Babe-le che saranno pure parte delcattivo infinito di cui parlavaHegel, ma in cui l’infaticabilelettore è come l’Achille di Ze-none nella sua eterna corsa conla tartaruga, sempre perdente,o almeno perdente finché lacommedia verrà decisa dalleParche e l’attore finirà, Wil-liam Shakespeare e OmarKhayyam insegnano, in polve-re a tappare il cocchiume dellebotti o a far terra per pipe.In fondo la finzione è la cate-goria nascosta della realtà – ve-rità che, come abbiamo appu-rato, non esiste in assoluto.Ma mentre la verità è un’eva-nescente fata morgana il cuitribunale è effimero – mi diràche lo scriba di Hammurabiraccomanda di non rubare co-me il nostro legislatore, ma si

tratta di puro e semplice com-portamento – la finzione èsempre presente, è quella checi permette, mi cito da una let-tura di Blanchot su di me, scu-si l’immodestia, di andare, conla felicità della linea retta, daun punto all’altro, e se, ironi-camente, dopo Einstein, la li-nea retta non esiste per la geo-metria, anche se si può conce-dere ad un letterato di usare lageometria euclidea delle scuo-le sue, resta la felicità pura.In questa rotazione circolare lafinzione verrà sempre ad esserel’ombra della figura che cam-mina, dovunque, dal sempliceviandante che si muove sotto ilsole, a chi l’ombra non ce l’hapiù come Peter Schlemihl, mas’illude di possederla ancora, oa chi cammina nella “Terra de-solata” e a cui verrà mostrato ilterrore in un pugno di polvere.La nostra vita è pura finzione.Così la finzione viene ad esserenon già un banale inganno, untrucco, un imbroglio, ma una fi-gura mascherata e la maschera,persona tragica, va molto più inprofondità del carnevale cuiviene allegramente delegata.Cosa ci dice Jago venendo ver-so di noi, sepolti dall’ombradella platea, dalla luce del pal-coscenico?«I am not what I am», io nonsono ciò che sono.Questa è la finzione.Ricordo che ho sempre ammi-rato con spavento una litogra-fia di Escher, che della finzioneè l’ambiguo cantore.Sul fondo piatto del foglio èaccuratamente disegnato unfoglio di carta obliquo tenutofermo al suo tavolo da disegnoda quattro puntine. Dalla par-te destra in alto della carta unamano esce da un polso di ca-micia appena tracciato, la ma-no, invece, è disegnata conacribia düreriana. La mano im-pugna una matita e l’acumina-

ta punta disegna un polso dicamicia dal quale esce una ma-no accuratamente disegnatacon acribia düreriana.Non a caso Hofstadter com-mentando il disegno di Escherosserva che le due mani creanouna Gerarchia Aggrovigliata.Dietro l’immagine, annota, sinasconde la mano non dise-gnata ma disegnante di M. C.Escher…Filippo: Anni fa scrissi unapoesia dopo aver visto la lito-grafia di Escher…Poeta (sottovoce, mormorando):Una finzione generata da unafinzione che genera finzioni,così vanno le cose… mi dica lasua poesia.Filippo: Me la ricordo e comeme la ricordo la dico… ecco lamano che sorregge i pensie-ri/ecco la mano che porta aiconfini del mondo/i desideridel mondo/ecco la mano chevola come una colomba/e s’ap-poggia al ramo che stilla l’umi-da notte/ecco la mano che cer-ca nel buio la mano/ecco lamorte che prende in mano lamano/ “Ecco la commedia è fi-nita ringraziate l’attore”.Giovane donna (con voce paca-ta, convinta come è, fatalistica-mente e ironicamente, che i duenon prenderanno in considera-zione quel che verrà dicendoperché essi sono maschi e ven-gono da un mondo patriarcale elei è donna e soggetta ai capric-ci di un destino imposto dai pa-triarchi): Sono stata presentatacome accompagnatrice amica epoi come sinologa. Lasciateche aggiunga che sono laureatain filosofia della scienza.Questo per far notare a tutti edue che non solo siete euro-centrici, ma siete anche umani-sti, dove la scienza è ancella delvero e serve solo per dimostra-re che il vero è vero con Eucli-de o che il vero non è più verocon Lobacevskij.

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Negli anni Cinquanta il mate-matico inglese Turing elaboròuna teoria filosofico matemati-ca che assunse il nome di “te-st” di Turing.L’ipotesi era che un suppostocomputer pensante rispondessead un test in cui si verificasse,attraverso un volontario umanonascosto, chi dei due fosse l’u-mano e chi il computer.Una volta verificata ragionevol-mente tale capacità, si potreb-be supporre che, man manoche la tecnologia migliora lecomponenti tecniche dellamacchina, questa s’avvicinisempre di più al pensiero uma-no. Nel 1989 un computer habattuto in una partita di scac-chi un Gran Maestro (Long-

beach, California). Anche sen-za andare ad Asimov e ai suoirobot o a Ridley Scott e ai suoiandroidi in Blade Runner, è ab-bastanza vicino il tempo in cuidelle macchine pensanti pensi-no non già la verità, che, forse èun meccanismo, come dire,“etico”, ma la finzione che nepuò essere l’ombra oscura. Siamo forse già immersi inquesta oscurità.Ma è così?I due tacciono ed è venuta se-ra. Il vento di bora leggera sista sollevando, venendo giùaffannato e gelido dall’EuropaCentrale e dai suoi boschi ne-ri fino al Carso che di questastagione autunnale è rosso in-sanguinato.

Il poeta (con voce incerta e stan-ca): Ecco, la nostra lezione, peroggi, l’abbiamo avuta. Addio,caro amico, anche se preferireidire arrivederci a presto, poi-ché lei non è credente non citroveremo da nessuna parte etanto vale dirci ancora addio.Filippo: Addio a lei, amicomio, e addio a lei, signora.Niente male questa ipotesi diTuring. Ma, vedendo ciò di cuisono capaci gli uomini, creda,non mi pare così oscuro unmondo controllato da androidiintelligenti e se sono intelligen-ti, mi creda, hanno anche in-corporata una loro eticità e al-lora il problema della verità edella finzione potrebbe essereradicalmente riproposto. ■

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Francesco Queirolo, Il disinganno. Napoli - Cappella Sansevero.

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Cito due Suoi testi che si presen-tano formalmente come lettere,“Lettera accompagnatoria” in-cluso in Questo è il giardino, e ilrisvolto di copertina di Fiction.L’anonimo ladro della “Lettera”sostiene che: «si può mentire avoce perché si dicono cose chenon lasciano tracce, e mentre sidice una cosa con le parole se nepuò far intendere un’altra con iltono della voce o l’espressionedel viso, ma in uno scritto chepuò essere riletto e riconsideratonon mi sembra possibile inseriremenzogne senza lasciare tracce.Voglio dire che mi sembra che,in una lettera, alla sincerità vo-lontaria, che può anche venire amancare per ragioni di prudenzao di vergogna, si aggiunga quasiuna sincerità involontaria, chenon può mancare».Nel risvolto di Fiction Lei scri-ve: «La nostra tradizione cultu-rale assegna alla narrazione dicose non vere il compito – el’opportunità – di rivelare ve-rità nascoste e superiori. Ne de-duco che, tra le storie raccolte inquesto libro, probabilmentequelle vere sono le meno impor-tanti, le meno rivelatrici di ve-rità». A distanza di dieci anni,si conferma l’idea che la scrittu-ra sia un’esperienza e un luogodi verità, e che si manifesti co-me appello ad un destinatario.È un’ipotesi corretta? E di qua-li esperienze, e convinzioni, sialimenta?■ Le citazioni appartengonoa testi di natura assai diversa. “Lettera accompagnatoria” èun racconto: un’opera di fin-zione, nella quale un personag-gio di finzione parla (scrive) ri-

volgendosi ad un personaggiodi finzione. Se il lettore attri-buisce a me (a Giulio Mozzi) leopinioni del personaggio, sonofatti suoi. Il risvolto di Fiction è una let-tera al lettore, che è reale, fir-mata da me, che sono reale: co-sa che non ha impedito dimentire (di ingannare il letto-re, di giocarlo). In effetti, nes-suna delle storie raccontate inFiction è “vera” (nel senso piùcomune del termine); una è untesto che si ispira ad una storia“vera”, ma si guarda bene dalraccontarla.Le mie opinioni su questi argo-menti erano assai diverse nel1991 (quando scrissi “Letteraaccompagnatoria”) e nel 2001

(quando scrissi il risvolto diFiction). Devo dire che nel1991-92, mentre scrivevo i rac-conti di Questo è il giardino,non mi ponevo problemi di ve-

rità. Ero un narratore del tuttoingenuo. Cominciai a pormiproblemi di verità nel 1996, enel 1996 trovai due parole uti-li: “approssimazione” e “tenta-tivo”. Nel 2001 trovai poi unaterza espressione utile: “parla-re della verità”.Ciò che ora (nel 2002) penso èche la letteratura serve a parla-re della verità (Parlare della ve-rità è il titolo del mio interven-to nel libro Scrivere sul fronteoccidentale curato da DarioVoltolini e Antonio Morescoper Feltrinelli), e che nel parla-re della verità noi facciamotentativi e approssimazioni.Tentativi: in quanto ci si prova,e siamo destinati al fallimento.Approssimazioni: perché ten-diamo a, andiamo verso, ecce-tera, ma non ci si arriva.Nel 1996 cominciai ad intuireche nell’atto di scrivere noitentiamo di “produrre” (fab-bricare, mettere davanti agliocchi) una verità; e i risultatisono sempre approssimativi.Naturalmente il verbo “ap-prossimare” implica che ci siaun “qualcosa” verso cui tendel’approssimazione. Ma di que-sto qualcosa, ossia della veritàin persona, non sappiamoniente. È come la fine del mon-do: le stiamo correndo incon-tro, giorno dopo giorno le sia-mo più vicini, la stiamo ap-prossimando: eppure non èche giorno dopo giorno nesappiamo di più sul suo conto.La letteratura è quindi uno deimezzi che abbiamo (non l’uni-co, eh!) per “parlare della ve-rità”. Con la letteratura produ-ciamo approssimazioni alla ve-

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Verità e finzione nella scritturaUn’intervista a Giulio Mozzi

Piervincenzo Di Terlizzi

Giulio Mozzi (Padova, 1960)scrive racconti (Questo è ilgiardino, 1992; La felicità ter-rena, 1996; Il male naturale,1998; Fiction, 2000), tienecorsi di scrittura creativa (siveda: G. Mozzi – S. Brugno-

lo, Ricettario di scrittura crea-tiva, 1998), dirige la collana«Indicativo presente» dell’edi-tore Sironi, redige settimanal-mente il bollettino informaticosulla scrittura Vibrisse. È (notapordenonese) uno degli sco-pritori di Tullio Avoledo. Sem-bra che, oltre a tutto questo,abbia anche una vita privata. L’intervista è stata realizzataper posta elettronica nel mesedi novembre 2002.

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rità che sono diverse dalle ap-prossimazioni alla verità chepossiamo produrre con altrimezzi (la botanica, la pittura, laspeleologia, la meccanica, la cri-stologia…). La diversità di que-ste approssimazioni è conse-guenza della diversità dei mezziimpiegati. Comunque il proble-ma dell’incompatibilità delleapprossimazioni è un falso pro-blema, no? Quali sono i mezzispecifici della letteratura? Direi: la finzione e la retorica.Un discorso finto non è né ve-ro né falso (nel senso logicodelle due parole); e la retorica,mi pare, fin dalle sue origini siè sbarazzata del problema del-la verità di ciò che dice.Finzione e retorica sono mezziche richiedono un’altra perso-na. Senza una persona che laprenda (provvisoriamente, di-sincantatamente) per “vera”, lafinzione non esiste. Senza unapersona che ascolti, la retoricatace (Demostene andava a ur-lare solo soletto, in spiaggia oin campagna: ma era solo peresercitare i polmoni).La finzione chiede una condi-visione: «Ascolta questa favo-la, fammi compagnia nel cre-derla». La retorica acquisiscela condivisione, persuadendol’altra persona.Quindi direi: la scrittura è unluogo dove si produce una ve-rità, per finta, e la si fa crederea chi legge, grazie alla retorica.

Ora vorrei toccare un’altra que-stione. Scusi se la formulazionesarà un po’ grezza: Lei è autoredi testi in prosa e in poesia: qua-le “approssimazione alla verità”specifica lei sperimenta nellapratica degli uni e degli altri?■ La domanda può essereriformulata così (la traduco nelmio idioletto, in sostanza):quali diversi mezzi adoperanola prosa e il verso? E questi di-versi mezzi, quali diverse ap-

prossimazioni consentono?Nella mia esperienza, direi chela prosa è un flusso (“va sem-pre avanti”), mentre il verso èinterruzione (“va sempre a ca-po”). Anche nel flusso c’è in-terruzione, ma quando c’è èuno shock; così come quandonel verso c’è flusso (a esempionegli enjambement) c’è un’i-pertensione (non mi viene unaparola migliore).Quindi: nella prosa vige il flus-so e l’interruzione, essendo ra-ra, ha funzioni strutturali. Nelverso è il contrario: vige l’in-terruzione e il flusso, essendoraro, ha funzioni strutturali(l’adozione di una forma chiu-sa, e quindi di una prevedibi-lità formale, produce un effet-to-flusso; il “salto” tra Otto-cento e Novecento è consistito– vedi Ungaretti, dove è lam-pante – nell’abolizione dell’ef-fetto-flusso; salvo il suo ricupe-ro ironico – cioè deliberata-mente inefficiente).Così, banalmente: se la vita èun flusso diretto verso un’in-terruzione, la prosa potrà ap-prossimare la… e il verso potràapprossimare la…Se invece la vita è un susse-guirsi d’interruzioni, al qualefarà seguito un giorno un infi-nito flusso, allora il verso potràapprossimare la… e la prosapotrà approssimare la…Dico questo a titolo personale.

Nella approssimazione alla veritàdella scrittura che posto ha lacomponente etica o quella religio-sa? E, ancora, come si configurala questione dell’impegno neiconfronti della realtà presente?■ Io credo che questo mondosia stato creato da un dio. Cre-do che questo mondo sia statocreato dal dio come un altro-da-sé: ossia, che questo mondosia stato creato libero. Credoche questo mondo abbia unastoria, ossia che questo mondo

terminerà: forse appunto inquesto consiste il suo essere al-tro dal dio. Credo che la fine diquesto mondo, ossia la finedell’essere altro dal dio, saràun evento felice.Tutto questo cosa c’entra conl’etica? Niente, mi pare.Un racconto come Narratology(che è un racconto, faccio nota-re: quindi esprime pensieri chenon necessariamente condivido)è un racconto escatologico (cioèsi occupa della domanda: Doveva la storia?), ma non è certo unracconto etico. Un racconto co-me Vetri (che è un racconto, fac-cio notare: quindi esprime pen-sieri che non necessariamentecondivido) è un racconto co-smologico (l’immagine finaledell’anima riflessa in tutti i vetri,parcellizzata in ciascun vetro ep-pure presente intera in ciascunodi essi, è un’immagine cosmolo-gica classica – una sorta di uni-verso frattale, autocontenuto inogni sua parte – nel caso specifi-co rubata a John Donne).Scrivere un racconto significainventare un mondo possibile,un mondo d’invenzione “pa-rallelo” al mondo dell’espe-rienza. Quindi non si può scri-vere un racconto senza inven-tare un’escatologia (una dire-zione della storia) e una co-smologia (un tutto-il-mondo).Ovvio che se propongo delleimmaginazioni – i racconti so-no questo: immaginazioni –sulla direzione della storia e sututto-il-mondo, sono inevita-bilmente anche “uno scrittoreimpegnato”.Ad esempio: la fine del Nove-cento è stata invasa, in Occi-dente, da uno strepitoso “sen-so della fine”. L’arte è finita, laletteratura è finita, la civiltà èfinita, la storia stessa è finita…Non ci sarà nulla di nuovo,avremo solo delle riedizionidel vecchio, avremo solo deipost- e dei neo-, o dei neopo-

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st- o dei postneo-… Non sipuò dire nulla di nuovo, tuttoè stato già detto, tutto è statogià fatto, la letteratura è postu-ma, noi stiamo postumi, ecce-tera eccetera.Queste, ovviamente, sono tuttefesserie: perché non si può fer-mare il tempo.Il voler fermare il tempo è unapatologia psichica ben nota,dalla quale l’Occidente sembra affetto.Il mio impegno è questo: dicoche il tempo non si ferma, chevoler fermare il tempo è unafesseria. Questo ha, ovviamen-te, delle conseguenze etiche epolitiche. Ad esempio, com-porta un sostanziale rigetto de-gli storicismi (che, pretenden-do di prevedere il futuro, ossiadi pensarlo come totalmentedeterminato dal presente e dalpassato, fanno un tentativo difermare il tempo).Si tratta di questo: pensare chela storia ha una direzione, eche è ingovernabile. Questopensiero fa venire l’ansia. È co-me pensare che tuo figlio faràalla fin fine quello che vuole,benché tu ti sia impegnato allostremo per farne un clone dite. Bene, è sano che tuo figliofaccia quello che vuole. È sanoche il futuro non sia un clonedel presente.

Qual è l’idea di diversità implica-ta nel progetto letterario di Fic-tion? Lo chiedo perché la molti-plicazione di storie (e stili) e glispiazzamenti suggeriti dalle ano-dine informazioni in calce ai rac-conti suggeriscono un’idea “gno-stica” di verità (un po’ quella del-l’Ermes Marana calviniano).■ Lungi da me la gnosi! “L’i-dea di verità”, così al volo, eh,mica è facile. E dopo aver fat-to tutto un libro che ci gira in-torno, uno dovrebbe rispie-garlo in dieci righe?Ma comunque: “Anodino” si-

gnifica letteralmente: “di scar-sa efficacia”; detto di un medi-camento, significa qualcosa tra“palliativo” e “per il solo trat-tamento sintomatico”.Ora: in Fiction ci sono dei co-siddetti racconti. Quasi tutti informa di testo scritto dal per-sonaggio protagonista (sonodunque lettere, memoriali, di-scorsi ecc.). Quasi tutti questicosiddetti racconti sono segui-ti da una nota scritta in picco-lo, di tono enciclopedico-gior-nalistico, che dà conto dellaconclusione della vicenda. Adesempio: un uomo scrive aigiornali minacciando di darsifuoco, la nota informa che eglieffettivamente si è dato fuoco.Oppure: un professore univer-sitario giovane pronuncia, di-nanzi al feretro, l’elogio delsuo maestro; la nota informache tale professor giovane èstato poi arrestato per violenzacarnale. L’estensore delle note,sempre con l’aria di star lì sem-plicemente a precisare, pun-tualizzare l’accaduto, spessocontraddice ciò che i perso-naggi hanno detto/scritto nelcosiddetto racconto; oppurefornisce informazioni diver-genti, che non c’entrano nulla.Fa questo con una lingua gri-gia, che più grigia non si può;con tono cronachistico; senzanessuna tensione narrativa.Ora Lei mi dice che queste no-te sono “di scarsa efficacia”. In-fatti. Il personaggio, nel suo te-sto/racconto, scrive/parla estrascrive/straparla: e chi legge,gli piaccia o no, gli crede. Ilpunto è che tutti i personaggi diFiction mentono spudorata-mente. Raccontano cose chenon stanno né in cielo né in ter-ra. Ma lo fanno con grande usodi retorica persuasiva. Invecel’annotatore non usa retoricapersuasiva. E quindi chi leggelo trova “di scarsa efficacia”:preferisce, per così dire, crede-

re alla fiction prodotta dai per-sonaggi che alle “informazioni”fornite da un anonimo che, suv-via, non sarà altri che l’autoredel libro, no? Sarò io, no?Quindi, rispetto a un personag-gio di fiction, di Fiction, io sono“di scarsa efficacia”. Che io esi-sta veramente, e loro no, nonsembra giocare a mio favore.In tutto questo gioco non c’èun’idea autoritaria di verità.C’è solo la posizione di un pro-blema, che è in soldoni questo:la capacità della narrazione difarci credere qualunque cosa,dovrebbe essere messa sottoosservazione. Tanto che l’uni-co racconto “diverso” (quellocentrale, che s’intitola “Narra-tology” e fa da snodo) di checosa parla? Della storia sacra.E, sotto sotto, del perché esistauna “storia sacra”, che consi-deriamo conclusa, e una “sto-ria non sacra”, che sarebbequella in corso. Se la storia èuna sola, se la storia non hafratture, dice il protagonista diNarratology, perché non pen-siamo alla storia tuttora in cor-so come “storia sacra”? Perchénessuno prova a raccontarlacome storia sacra? O se qual-cuno ci ha provato, perché lesue narrazioni non sono stateincluse nel Testo Sacro?In altre parole: com’è che nonsiamo più capaci di pensare auna narrazione come a una“storia vera”? (Mi pare ovvioche “storia vera” e “storia sa-cra” siano la stessa cosa; inten-dendosi per “storia vera” unastoria che cerca di approssima-re la verità; una storia che af-fermi di possedere la verità èsenz’altro criminale).

Per concludere: la scrittura diGiulio Mozzi guarda verso l’u-topia o verso l’escatologia?■ L’escatologia. Il futuro che cisarà è interessante, il futuro chenon ci sarà non è interessante.

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Il luogo in cui maggiormenterealtà e finzione si confondo-no nella mia esperienza perso-nale è senza dubbio l’Americaispanica, sia come spazio let-terario che come spazio fisico,geografico e culturale. Mi so-no innamorata di questo con-tinente attraverso la narrativa,la musica, la poesia e la magia.Nella “finzione” quindi, ciòche mi rappresentava una di-mensione altra ove trascende-re, a occhi chiusi, con fede epassione. Ora il sogno si è fat-to anche realtà, poiché ho co-minciato a conoscere real-mente questa affascinante cul-tura, vivendo in Messico iltempo sufficiente per capirlo.Il realismo magico non è sol-tanto un termine tecnico dellaletteratura in Messico, e cosìcredo sia anche per gli altripaesi dell’America Latina.Questo perché la vita stessa,quotidianamente, è intrisa diuna certa trascendenza, di unacerta magia, bianca o nera.Non si tratta di suggestione,bensì di un vero e proprio ma-gnetismo energetico che intri-de l’aria e coinvolge quindipersone e situazioni. Tuttoquesto è già soltanto nellosguardo come sospeso del po-polo messicano. Anche la vitamoderna, che vanta nell’infi-nita Città del Messico livellida primissimo mondo in pie-no e insopportabile contrastocon la povertà più estrema, siconfonde con una sorta di ma-gia, presente nelle radici stori-che e culturali, religiose, piùprofonde del Messico. Affio-rano. Proprio affiorano. Si ha

sempre la sensazione di stareal bordo, tra realtà e finzione. La poesia del poeta messicanocontemporaneo Octavio Pazconferma questa percezionedell’esperienza, al limite dellarealtà e della finzione, nellasua parola poetica, in partico-lare, credo, nell’opera Blanco,di cui ho approfondito la let-tura vivendo e studiando là, adiretto contatto con le radiciculturali del poeta. In questopoema Octavio Paz concilia lacultura occidentale con la cul-tura orientale, l’esoterismoindù con i miti dei popoli in-digeni messicani; crea una for-ma mandalica per la rielabora-zione del Sé attraverso il testopoetico e quindi la parola.Proprio la rielaborazione delSé avviene nell’interazione

con la parola, la quale si svi-luppa in linguaggio poetico ri-definendo il rapporto tra Io eAltro, Realtà e Finzione, nellaricerca della Verità intesa co-me esperienza autentica del-l’essere che vive, poeta e letto-re. Tale verità dell’Io è nellosguardo stesso di chi guardafuori di sé, Io-poeta o Io-let-tore. La realtà esteriore si me-scola con la realtà interiore dichi guarda ed esperisce larealtà: grazie a questo scam-bio si afferma la verità, attra-verso la parola. Per cui, inquesto senso, il verso chiavedi tutto il poema è il seguente:«La irrealidad de lo mirado darealidad a la mirada» «L’ir-realtà di ciò che è visto rendereale lo sguardo»*.Qui la realtà diventa la bugia,mentre la percezione sensoria-le è l’unica realtà possibile e ledue esperienze di realtà si im-plicano e compenetrano. Losguardo è il punto di vista sin-tetico dell’esperienza vitale ein quanto tale, costruendo l’i-dentità del Sé che si strutturaattraverso la parola nata dallostesso sguardo, è espressionedella verità. Non si tratta co-munque di un processo gratui-to: l’autenticità ricercata da ta-le sguardo richiede una sceltadi profondità e di libertà nelporsi di fronte alla vita e quin-di di fronte a se stessi. L’Io de-ve desiderare la limpidezzadello specchio per guardarsi erielaborarsi, per ottenere unapercezione autentica del pro-prio vissuto. Octavio Paz trova questo spec-chio rivelatore nel corpo sen-

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La realtà dello sguardonella poesia di Octavio Paz

Mara Donat

Pablo Picasso, La Toilette (1906).Buffalo - Albright-Knox Art Gallery.

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verità, dubbio, finzione

suale ed erotico della donnaamata, corpo che proprio gra-zie alla sessualità condivisa,nell’estasi della copula, offreallo sguardo del poeta la limpi-dezza e la trasparenza necessa-rie per aprire completamentel’occhio percettivo interiore.L’erotismo è esaltato ed è puroproprio perché schiude tutti isensi, li sconvolge per aprirli auna nuova dimensione piùprofonda e totale della realtàche viene quindi trascesa nellariconciliazione tra spirito e ma-teria, medicando la separazio-ne violenta operata dall’Io nel-lo stadio psicanalitico dellospecchio, quando il riconosci-mento dell’Altro, attraverso larottura, comporta o addirittu-ra consente lo sviluppo del lin-guaggio. Non per nulla il poe-ta opera la riconciliazione sud-detta attraverso la parola chenel linguaggio poetico cerca lapropria autenticità quale veritàdel Sé. La realtà non è la verità,diventa verità soltanto nellosguardo che attraversa il corpodel linguaggio e rielabora larealtà nella finzione. Il corpofemminile per il poeta è lospecchio che non distorce larealtà, bensì crea i rispecchia-menti sensoriali ed emotivi chemoltiplicano la realtà e quindila rivelano, poiché è vista com-pletamente, da tutti i lati. Inquesto modo il corpo dell’a-mata contiene il mondo e ilmondo a sua volta è fatto a im-magine dell’amata, l’Io poeticosi guarda in ciò che guardamentre, a sua volta, è guardatoda ciò che guarda, ciò che vedeè la sua creazione mentre, a suavolta, si sente la creazione diciò che vede. Il risultato diquesto sconvolgimento deisensi è la percezione più chiaradel sé, sempre attraverso la pu-rificazione del linguaggio nellaparola poetica che crea e ac-compagna questo cammino di

autocoscienza, liberante e libe-ratore. Il gioco di specchi creaun gioco di opposizioni se-mantiche e grafico-visuali, econtemporaneamente è creatoda questo stesso. La colonnacentrale del componimentopoetico si sdoppia in due co-lonne che si allontanano e avvi-cinano implicandosi e comple-tandosi. La parola è attiva, co-struisce l’identità e il nuovolinguaggio mano a mano nelgioco degli specchi, per cui«La transparencia es todo loque queda» (La trasparenza ètutto ciò che rimane). Il poetasente la chiarezza dentro sé,vede questa realtà più veraperché più completa, totale.Addirittura si sente abbagliato,la realtà si fa diafana e impal-pabile eppure vera, vede ilpropri pensiero che a sua voltasvanisce diafano, oltre losguardo. La parola nasce dallaterra oscura colpita dalla vio-lenza della Storia e della Cultu-ra per rifondarsi e affermarsi inquesta luce e trasparenza e si faquindi portatrice della luce. Inquesto modo «l’irrealtà di ciòche è visto rende reale losguardo», attraverso la rielabo-razione del linguaggio che co-struisce il Sè nella poesia. Lafinzione si fa realtà, anche fisi-ca in quanto parola scritta. Dalgioco degli opposti – soprat-tutto nell’area semantica del-l’oscurità e dalla luce, della ne-gazione che crea la separazionelacaniana dell’Io e l’afferma-zione che cerca la riconcilia-zione, il “No” e il “Sì”, larealtà si fa parola, rivelandosi.Soltanto qui, quando si rivelaattraverso la parola poetica la

realtà cessa di essere irreale e,nel pronunciarsi, la parolastessa si fa reale. La realtà nelsilenzio del linguaggio ottuso,quotidiano, non può che esse-re irreale. Dando vita al silen-zio la parola fa che la realtà sia.“No” e “Sì” sono «dos sílabasenamoradas» (due sillabe inna-morate) che costituiscono «elárbol de los nombres» (l’alberodei nomi) e quindi:

El hablairrealda realidad al silencioCallares un tejido del lenguaje.

Favellairrealerende reale il silenzioTacereè un tessuto di linguaggio.

e poi nella sintesi conclusivache riprende i versi chiave pre-cedenti, ed è il corpo dell’ama-ta disperso nel corpo del poetaa rendere reale lo sguardo, ilmondo è pura invenzione dellospirito che a sua volta è inven-tato dal corpo, a sua volta in-ventato dal mondo:

El espíritues una invención del cuerpoEl cuerpoes una invención del mundoEl mundoes una invención del espíritu.

Lo spiritoè un’invenzione del corpoIl corpoè un’invenzione del mondoIl mondoè un’invenzione dello spirito.

La realtà è nello sguardo e si faparola. La parola fonda larealtà da cui è fondata. Il mon-do è un’invenzione che s’in-venta. Questa forse la Verità,nel Verbo? ■

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* Traduzioni tratte da OctavioPaz: vento cardinale e altre poesie,a cura di Franco Mogni, Monda-dori, Milano 1999.

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Le tre fasi dell’itinerario poeti-co di Mario Luzi (quella erme-tica, da La barca fino a Quader-no gotico, quella storico-esi-stenziale, che ha come apiceOnore del vero, quella infineche a partire da Nel magmagiunge fino ad oggi, stempe-rando un verso dialogato, liri-co-narrativo, teatralizzato) so-no attraversate ed unificate dauna profonda fedeltà d’ispira-zione: quella dell’avventura,della ricerca della vita vera. Inun meditato convincimentocristiano, il poeta ci introducenella forma simbolica del mon-do, della natura e della storia,saggiando gradi diversi dioscurità/luminosità. La realtàappare così simbolicamente di-visa tra ombra-inganno-ma-schera-sdoppiamento-abbassa-mento da un lato, e luce-chia-rezza-semplicità-dignità dal-l’altro. Questa controversa si-tuazione non è statica, o circo-lare-pendolare, ma febbrici-tante-sofferente-ansiosa: trac-cia di una pre-cedenza e di un(-una) Fine:

«Ora noi ci leviamo acuminati, febbrili d’un futuro senza fine»(da Un brindisi).

«Si sollevano gli anni alle miespalle / a sciami. Non fu vano,è questa l’opera / che si com-pire ciascuno e tutti insieme /i vivi i morti, penetrare ilmondo / opaco lungo viechiare e cunicoli / fitti d’in-contri effimeri e di perdite / od’amore in amore o in uno so-lo / di padre in figlio fino ache sia limpido» (da Onoredel vero).

«Il desiderio / umano e nonumano / dei palmizi e delle du-ne, / dei cieli e delle rocce, /delle cose, / tutte, di natura ed’arte / che accompagnanol’uomo, / ne commentano lasorte / anelano, è il momento, /a entrare nella spera / della lorovera forma, esse, / ciascuna nel-la propria / come stelle nel lorofirmamento, / ciascuna a dimo-ra nella gemma / del suo colorevero / da materia e essenza. / Iol’accendo. Tutti noi attendiamo/ L’avvento della luce / che ciunifica e ci assolve»(da Viaggio terrestre e celeste diSimone Martini).

Poeta è qui il pellegrino, chiascolta il simbolico che fa se-

gno all’Avvenire: l’avvenireche è già ora e qui, anche se so-lo in potenza, in attesa.In altri termini: l’Altro da veni-re, altro non è che il questo,ma come ha da essere: restau-rato cioè nella sua integrità.Tutta la voce poetica di Luzi èun affiorare al linguaggio deldolore ontologico. Il dolorepassa alla coscienza, non senzapietà, e accede alla parolamentre questa si rimette al Si-lenzio, al Mistero. La parolapoetica, e l’arte in genere, è ungesto di addio, e transito, nongià luce, ma un certo lume:

«Dove mi porti, mia arte? / inche remoto / deserto territorio/ a un tratto mi sbalestri? / Inche paradiso di salute, / di lu-ce e libertà, / arte, per incante-simo mi scorti? / Mia? Non èmia quest’arte, / la pratico, laaffino, / le apro le riserve /umane di dolore, / divine mene appresta / lei di ardore / edi contemplazione / nei cieli incui m’inoltro… / Oh mia inde-cifrabile conditio / mia inso-stenibile incarnazione!» (cit.).

Oppure:

«Un attimo / di universa com-presenza, / di totale evidenza –/ entrano le cose / nel pensieroche le pensa, entrano / nel no-me che le nomina, / sfolgora lamiracolosa coincidenza. / Inquell’attimo / – oro e lapislaz-zulo – / aiutami, Maria, t’inci-derò / per la tua gloria, per lagloria del cielo. Così sia» (cit.).

La parola poetica è anche cosìvigilanza e veglia, è reattiva nei

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Verità e inganno in Mario Luzi

Marco Marangoni

Marco Marangoni (1961), in-segnante, ha, tra le altre cose,pubblicato i volumi di poesieTempo e oltre (1994), Dove di-mora la luce (2002).

Parmigianino,Vergine saggia (1531-1539).

Parma - Santa Maria della Steccata.

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verità, dubbio, finzione

confronti del dia-bolico: losdoppiamento-coprimento-ab-bassamento: l’inganno:

«Non fare che la mia opera /ricada su sé medesima / diven-ti vaniloquio, colpa» (cit.).

Ogni quiete prematura, ognicompiacimento estetizzante,ogni parola narcisisticamenteconclusa, almeno nelle sue in-tenzioni, è arresto dell’espe-rienza, maliziosa parola, parolasenz’aura, afasia, il niente.

C’è un elemento poi che nellapoesia di Luzi è davvero pre-sente come un emblema: ilfuoco, simbolo purgatorialecome certo lo è anche l’acqua,ma più di questa nominato dalNostro, direttamente o indiret-tamente. Con l’immagine delfuoco viene allo scoperto tuttatensione sublimante, un perfe-zionarsi, affinarsi, analogamen-te a come il fuoco consuma, il-luminando ed innalzando, dadentro, le cose:

«L’incolume delizia, la pensosaansietà / d’esistere ci brucia»(da Quaderno gotico).

«O vampa! / Tutto senza om-bra flagra. / È essenza, avven-to, apparenza, / tutto traspa-rentissima sostanza. / È forse ilparadiso / Questo? oppure, lu-minosa insidia, / un nostrooscuro / ab origine, mai vintosorriso?»(da Viaggio terrestre cit.).

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Illustrazioni tratte da: Intervista a Pasolini di Davide Toffolo. Edizioni Biblioteca dell’Immagine (2002).

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Prima di affrontare il tema pro-posto dal titolo, occorre inten-dersi almeno sui significati chesi attribuiscono alle parole:quanto al teatro, identificabile,nel senso più lato del termine,con qualsiasi forma di spettaco-lo dal vivo che preveda l’incon-tro fisico tra attore e spettatore,limitiamoci qui all’occorrenzapiù frequente e più banale, in-tendendo con esso fare riferi-mento solo a ciò che si intendecomunemente per spettacoloteatrale, sia esso drammatico omusicale; quanto alla verità, laquestione è più spinosa e, pernon addentrarsi nel terreno del-la filosofia, si potrà intendereanche tale parola nel significatosuo più corrente: verità è assen-za di finzione, mistificazione,travestimento. Ma verità è con-cetto relativo quanto pochi al-tri, perché ciò che appare comevero a qualcuno, può apparirefalso, infondato, mistificato adaltri e non esiste perciò una so-la, assoluta, indiscutibile verità,nella scienza e tanto meno nellafede o nella ideologia, che è poicosa analoga.Entro i confini ora posti, si puòaffermare che teatro e veritàrappresentano due concetti in-conciliabili nella radice stessadel loro significato. Riducendo,infatti, il concetto di teatro aquanto sopra suggerito, esso ri-sulta essere finzione di vita, disentimenti, di passioni. Nellamaggior parte dei casi, anzi, sitratta di una finzione raddop-piata che una prima volta si rea-lizza sulla pagina del testodrammaturgico in cui – analo-gamente a quanto accade in un

racconto o in un romanzo –personaggi più o meno fantasti-ci e comunque fittizi sono chia-mati dall’autore a vivere unospezzone di esistenza affatto“artificiale”, per quanto a voltecredibile; una seconda volta sulpalcoscenico, dove parole epersonaggi diventano carne nelcorpo degli attori, secondo unprocesso di creazione artistica“seconda”, il cui autore non èpiù il drammaturgo, bensì il re-gista o l’attore stesso.Ma, per converso, la storia ciinsegna che il teatro – in molti,moltissimi casi e per periodilunghi e ripetuti – ha cercatodi ammantare la sua finzione diuna parvenza di verità, o alme-no di verisimiglianza, di credi-bilità al fine di accrescere lepossibilità di immedesimazio-ne e di partecipazione emotivada parte degli spettatori e conesse la “riuscita”, l’efficaciadello spettacolo. Sicché non ècerto sbagliato affermare che –con le dovute eccezioni, coin-cidenti con fenomeni artistici efasi storiche di cui qui non vi èspazio per discorrere – il teatrosi è manifestato e si manifestacome una finzione di realtà ov-

vero come una realtà finta, cheè cosa assai differente: da unlato, infatti, intrecci, personag-gi, sentimenti, frutto della si-nergia creativa e mitopoieticadi drammaturgo e regista-atto-re, propongono in scena unafinzione della realtà, ossiaun’azione fantastica che asso-miglia a una possibile realtà fi-no a confondersi con essa,coinvolgendo gli spettatorinella loro emotività. D’altro la-to, ad agire in scena sono esse-ri umani, autentici e in carneed ossa, e dalla loro boccaescono parole udibili, comedai loro corpi si sprigionanomovimenti visibili: si trattaquindi di qualcosa di assoluta-mente vero, di una realtà “fin-ta” poiché indossa panni al-trui, finge di essere altro da sée in tale guisa si comporta.Sullo scorcio del diciannovesi-mo secolo, mentre i positivistidi Auguste Comte predicavanoil verbo della scienza come fon-damento della conoscenza edell’arte, e prima ancora che inaturalisti di Zola li emulasseropostulando una letteraturaspecchio fedele e fotograficodella realtà, nel piccolo ducatotedesco di Saxe-Meiningen,Gorge II che dello staterello erasignore assoluto, aiutato dall’at-tore professionista LudwigChroneck, dava vita a una espe-rienza che si sarebbe rivelataricchissima di potenzialità per ilsuccessivo sviluppo del teatrocontemporaneo e della regia.Muovendo dalla constatazionedell’inadeguatezza del teatrotradizionale, troppo blanda-mente interessato agli aspetti

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Teatro e verità

Paolo Bosisio

Paolo Bosisio insegna Storiadel teatro e dello spettacolo al-l’Università di Milano ed è do-cente presso la Scuola del Pic-colo teatro. Regista e criticodrammatico, ha scritto libri esaggi dedicati in particolare allastoria della drammaturgia delsette, otto e novecento. È diret-tore artistico del Teatro del Vit-toriale di Gardone Riviera.

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materiali della scena, per unascenografia e una costumisticaaderenti all’epoca e al luogo diambientazione del dramma, iMeininger danno vita a spetta-coli minuziosamente “realisti-ci” nella filologica ricostruzioneambientale, trasferendo la loroesigenza di “verità” anche alpiano della recitazione e delmovimento scenico, ripensati infunzione di una idea, seppurvaga, di naturalezza.L’influenza del gruppo tedescoriverbera senza esitazione nellaprassi scenica del pariginoThéâtre Libre di André Antoi-ne, fino a porsi alle fondamen-ta del realismo interiore teoriz-zato da Stanislavskji nel suo ce-lebre Metodo. Ad Antoine, so-prattutto, pertiene la responsa-bilità di avere promosso e eret-to a sistema la grande utopia

predicata da Zola, secondo laquale sul palcoscenico non de-ve esporsi una finzione di ve-rità, ma la verità medesima,magari con l’aggiunta di qual-che spezia per accrescerne l’ef-fetto e la conseguente efficacia.Della realtà i naturalisti predili-gono, infatti, gli aspetti più de-gradati, le patologie, i vizi, co-me insegnano le loro opere piùsignificative ed esemplari. Eper essere all’altezza della teo-resi zoliana, Antoine non esitaa costruire una fontana zampil-lante acqua vera per la sceno-grafia di Cavalleria rusticana o,peggio, ad appendere allequinte quarti di bue sanguinan-ti ne I macellai di Icres. E parladi una “quarta parete”, opacadal punto di vista degli attoriquanto trasparente da quellodegli spettatori, attraverso cui a

questi ultimi sarebbe dato di“spiare” la verità, appunto, enon la sua imitazione, che sulpalcoscenico vivono (e nonrappresentano semplicemente)gli attori che sarebbero, per-tanto, (e non fingerebbero sola-mente di essere) i personaggi.Una utopia, all’evidenza, e nullapiù. Simile fin che si voglia allarealtà cui si riferisce, ma con es-sa non coincidente, lo spettaco-lo teatrale è e rimane finzione,soprattutto e paradossalmentequando pretende di essere “ve-risimile”, ossia illusionistica-mente simile alla realtà. Consa-pevole di ciò, Antonin Artaudinviterà gli uomini di teatro arinnegare la sovranità del testo ela conseguente ancillarità dellospettacolo teatrale, ricercandonell’assolutezza di esperienzeuniche e irripetibili di vita il se-

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G. M. Mitelli (1634-1718), Viso riversibile.

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greto di un teatro a misura del-l’uomo. Utopia questa pure, piùaffascinante, a mio avviso, dell’i-potesi naturalistica, seppure an-cora più lontana da una concre-ta possibilità realizzativa.In verità il teatro vive ed hasempre vissuto a condizionedi un certo grado di conven-zione, proposta e accettata pa-rimenti da chi lo spettacolo fae da chi ne fruisce. Se ai tem-pi di Shakespeare era suffi-ciente una frasca piantata nelpalcoscenico e un cartello re-cante la scritta wood a sugge-rire l’idea di una foresta nellamente degli spettatori, chenon faticavano a ricostruire i

luoghi diversi delle azioni sul-la scorta del suggerimentometaforico proveniente dal-l’impiego delle zone diverse diun palcoscenico spoglio esempre uguale a se stesso nel-le dimensioni e nelle fattezze(stage, inner stage, upperstage), ai tempi di Antoineerano necessari i quarti di buee a quelli di Stanislavskji il sa-movar d’argento per dare aipropri spettatori la possibilitàdi lasciarsi andare al piaceredi immedesimarsi nell’azione,sempre e solamente finta, co-me se vera fosse. E si pensavadavvero che uno spillone d’e-poca infilato fra i capelli o una

tazzina in stile colma di verocaffè favorissero il percorsopsichico che l’attore dovrebbecompiere per annullarsi nelpersonaggio.Non è la verità che si modifica,ma la percezione della verisimi-glianza che, con il tempo e le oc-casioni, muta, con l’instaurarsidi convenzioni progressivamen-te differenti e il contestuale con-figurarsi di modelli di produzio-ne e di fruizione teatrali diversi.I nomi che si sono menzionatinon rappresentano se non epi-sodici, seppure assai significativimomenti di riflessione su un te-ma che ha avuto, prima e dopo,numerose e interessanti artico-lazioni. Ma ciò trascende dall’o-biettivo, necessariamente, ri-stretto, che mi ero posto.Per rispondere al paradosso af-fascinante dell’attrazione fatalee del rapporto mancato tra tea-tro e verità, mi piace citare qual-che parola di Peter Brook, unofra i massimi registi viventi:«In teatro la “verità” può esse-re definita “un’accresciuta per-cezione della realtà”. Il nostrobisogno di questa strana di-mensione supplementare dellavita umana, che con un termi-ne vago chiamiamo “arte” o“cultura”, è sempre collegatocon un’attività che, per un mo-mento, amplia la nostra perce-zione quotidiana della realtà,confinata di solito entro limitiinvisibili». Ecco che cosa puòessere la verità in teatro: il vei-colo per mordere più a fondonella carne dell’esistenza, percoglierne prospettive ignote,per forzare i confini di unmondo di cui l’uomo sente pernecessità la limitatezza.Più radicale e tranchant, Mi-chel Foucault lascia intendereun altro aspetto inquietante efascinoso dell’atto teatrale: perlui «La verità in teatro è l’illu-sione, cosa che è, in sensostretto, la follia». ■

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Maschere di Gabriella Battistin.

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verità, dubbio, finzione

La concezione di arte che ab-biamo ereditato e che continuaad essere un riferimento per lanostra cultura potrebbe sem-brare fondata sulla rappresen-tazione, quindi sul rapportotra raffigurazione e raffigurato,tra finzione e realtà, o verità,per quanto ovviamente anchela tela dipinta, il colore con cuila si dipinge abbiano una loroinnegabile ed intrinseca pre-senza “reale”, di reali oggettitra gli altri oggetti che si incon-trano nel mondo (e questaconsiderazione diviene ancorpiù evidente per la scultura).In ogni caso il rapporto tramondo reale e opera, finzione,è sicuramente un punto nodalesu cui ancor oggi prosegue ildibattito intorno all’arte. Come ci illustra la leggendariasfida tra Zeusi e Parrasio (cheriuscirono ad ingannare l’unogli uccelli, l’altro il suo stesso ri-vale, che gli chiese di sollevareuna tela che in realtà era solodipinta), la “verosimiglianza” èstata una qualità importante an-che per la classicità greca equindi romana, cui il Rinasci-mento aveva riportato l’atten-zione e intendeva rifarsi, manon è stata caratteristica di tut-ti i tempi e di tutte le culture: inquella che noi chiamiamo arteafricana maschere e totem nonvolevano imitare il reale, ma“erano” reali; d’altra parte gliantichi egizi che raffiguravanoprofili umani con occhi frontalinon volevano essere realistici,ma sconfinavano quasi negliideogrammi della loro scrittura;ed anche nel nostro Medioevole normative iconografiche che

obbligavano a dare colori pre-stabiliti alle vesti della Vergine ea ricoprire gli sfondi in oro,spesso adornando con mirevoliminiature iniziali di manoscrit-ti, non intendevano certo pro-porre imitazioni del reale, de-dotte dalla normale e quotidia-na visione delle cose. La verosimiglianza o la fedelerappresentazione del mondo,che è progredita nell’arte italia-na del ’400 dopo esser stata an-ticipata da Giotto, è riconduci-bile ad una tradizione “realisti-ca” che ha a lungo coinvoltol’occidente1, ma in essa non siesaurisce quella concezione diarte che è stata – e se pur con-flittualmente continua ad essere– tipica della nostra cultura, eche la Grecia di Pericle, comeosservava André Malraux, nonconosceva nemmeno2. Se nelprimo Rinascimento, oltre a ri-prendere le ricerche dei classici,artisti come l’Alberti, Piero del-la Francesca, Leonardo, si era-no accostati alle scienze nell’in-dagare il reale, giungendo aconcepire la prospettiva, adanalizzare gli effetti della lucenaturale (che gli autori fiam-minghi per primi avevano stu-diato), e, in particolare nel casodi Leonardo, anche ad anticipa-re rilevanti scoperte, nel ’500

una serie di nuove conoscenzeed avvenimenti sconvolsero ilcontesto culturale del tempo,nonché la concezione di veritàstessa, ed il modo di intenderel’arte tipico di questi artisti-scienziati non ebbe seguito. Sigiunse invece ad una differen-ziazione dei saperi, ed anche senelle Accademie (che in queglianni stavano sorgendo) rimaselo studio dell’anatomia e la ri-produzione dal vero dei model-li, rispetto alla diretta imitazio-ne del reale prevalse l’imitazio-ne dei Maestri, di altra arte: ten-denza che Leonardo aveva du-ramente criticato, ma che il Va-sari costantemente elogiava nel-le sue Vite. La nostra arte entrò così in quelcircuito autonomo che solo conil Romanticismo è stato messoin discussione, e che ancor og-gi, pur essendo costantementecontraddetto, sembra caratte-rizzarla. D’altronde, per unprocesso che si era avviato giàdurante il Rinascimento con lostudio di Platone e quindi so-prattutto dei neoplatonici, la“verità” non fu più consideratacome reperibile analizzando il“reale” attraverso umani stru-menti come la visione, l’occhio,sul cui funzionamento Leonar-do tanto si era soffermato, macome direttamente proiettata,“inspirata” da Dio nella mentedell’uomo e dell’artista in parti-colare. Ci si era quindi spostatida un vero legato ad un realepercepibile dai sensi ed indaga-bile con l’intelletto, ad un “veroideale”, congiunto al Bello ed alBuono, che trovò in Kant il suopiù coerente teorizzatore e nel-

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«Trompe-l’oeil»,inganni e verità in pittura

Anna Valeria Borsari

Anna Valeria Borsari, giàdocente di Filologia Romanzaall’Università di Bologna, èun’artista che ha al suo attivonumerose mostre e esposizio-ni in Italia e in Europa. È au-trice di saggi sull’arte, la lette-ratura e il linguaggio.

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l’Arte il luogo privilegiato ovemanifestarsi. In questo modol’Arte diveniva più vera del ve-ro, e contemporaneamente nel-la sua autonomia trovava im-mutabilità, assolutezza, univer-salità; su di lei come sui piùgrandi artisti si spostavano mol-ti degli aggettivi che avevanoqualificato il divino. Quindi l’o-pera d’arte non fu più vista co-me un oggetto tra gli altri, comelo era stata quando era connes-sa al resto del mondo da suespecifiche funzioni e usciva dabotteghe artigianali, e neppurecontinuò ad intrattenere quelrapporto con la ricerca scienti-fica, tipico degli artisti del pri-mo Rinascimento, che sempreal mondo poteva legarla. Trovòla sua collocazione specifica neiMusei, luoghi ove la polverenon si posa, la vita ed il temponon scorrono. Questa concezione coincise so-prattutto con il Classicismo, cheproponeva contemporanea-mente un rifarsi ai maestri del-l’antichità greca e romana ed

una attenzione a quanto previ-sto dalla Chiesa, che, per difen-dere un potere che le era sfuggi-to e per compensare una perdi-ta di credibilità, dai tempi delConcilio di Trento, con la Con-troriforma, si era arrogata ogniforma di controllo anche in am-bito pittorico, imponendo di di-pingere gli angeli con le ali, isanti con le aureole, e di coprirele nudità con drappeggi o fogliedi fico. Ma non si poteva can-cellare completamente quantosi era raggiunto in un passatorecente, e sono emblematiche diquesto periodo Madonne dalcorpo ben proporzionato, checonosce le leggi fisiche della ma-teria, e dal volto tratto da quellodi qualche modella spesso alloraben riconoscibile, sospese traangeli alati in mezzo a nuvoleche sovrastano intere città, o lefigure dei committenti. Superate le certezze dell’Illu-minismo, all’inizio dell’Otto-cento Stendhal annotava aimargini di un quaderno unadomanda da porre ad un amico

filosofo: «Qu’est ce que la ve-rité?»3; e per gli ideologi, cuiStendhal era legato, tutto dove-va essere ricondotto allo studiodei nostri mezzi conoscitivi:«La vraie métaphysique ou lathéorie de la logique n’est […]autre chose que la science de laformation de nos idées, de leurexpression, de leur combinaisonet de leur déduction; en un mot,ne consiste que dans l’étude denos moyens de connaitre», scri-veva infatti Destutt De Tracy4.Quindi attraverso i grandi mu-tamenti che hanno condotto alRomanticismo, si è cercato diriconciliare l’arte con la vita, siè tornati a rapportarsi esplicita-mente con il mondo esterno,con il particolare anziché conl’universale, ed anche con leprofondità dell’io, inteso comesoggetto, singolo individuoconnesso a una particolare sto-ria e non a universali valori. Paradossalmente questo ritor-no alla realtà esteriore, alla suavisione, ed allo stesso tempoquesta attenzione alla perce-

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Jan Brueghel De Velours, Allegoria della vista (1617).

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zione del proprio sentire, pro-dusse qualcosa che apparivamolto meno “realistico” diquanto si era visto in prece-denza. Constable, che nei suoipaesaggi si prefiggeva propriodi rappresentare il vero, notavacome il grosso vizio del suotempo fosse la volontà di oltre-passarlo, il virtuosismo, osser-vando come invece vi fosse or-mai posto per «una pittura na-turale». Egli vedeva nuova-mente nella Natura, non neiMaestri, la fonte di ogni ispira-zione, ed intendeva analizzarlascientificamente, soffermando-si anziché su soggetti aulici, susoggetti quotidiani, come levedute della sua cittadina nata-le, i cieli, i cespugli, infine il“niente”5. Parallelamente Tur-ner (nato un anno prima diConstable e vissuto molto piùa lungo), precocissimo genio diimmediato successo ed instan-cabile viaggiatore, dalla finedel ’700, nei suoi Pescatori inmare (1796), nei suoi studi del-le montagne innevate del Gal-

les (1799), nei suoi tramonti,nelle sue tempeste e nebbieaveva dipinto le cose come levedeva e non come avrebberodovuto essere, fino ad anticipa-re l’informale.Il lungo viaggio introspettivoche ha portato dagli autori ro-mantici (e da autori comeStendhal e gli ideologi) ai sur-realisti ed alla psicanalisi, haconosciuto però ad un certopunto una interruzione: «Je estun autre», ha affermato Rim-baud; ed in Entr’acte, ove com-pare Picabia impegnato in unapartita a scacchi con MarcelDuchamp, l’uomo dal volto ro-mantico viene ucciso, spariscee comunque si autoestingue,mentre l’artista, Picabia, vienecatapultato fuori dalla finzione,oltre la parola “Fine” che con-clude il film. Il “soggetto”, en-trato in crisi, esce dalla scena equindi dalla sua stessa narra-zione per entrare nel mondo. Ècomunque con Duchamp chesi verifica l’inizio di una radica-le frattura, il sovvertimento di

un secolare sistema creativo:infatti Duchamp esce dalla ca-tena della rappresentazione no-minando arte oggetti estrattidal mondo quotidiano che nonrecano tracce di un suo inter-vento e non stanno a significarealtro che se stessi. Questa svol-ta nella concezione della nostraarte, che è sembrata coinciderecon la annunciata morte del-l’arte stessa, per tutto il ventesi-mo secolo è stata però più vol-te ripresa e negata, fino a la-sciare l’impressione, a chi nonè strettamente addetto ai lavo-ri, di essere un grande bluff.L’alternanza e la coesistenza diideologie diverse, tra loro in-compatibili, non si spiega tut-tavia solo con esigenze di mer-cato o allineamenti a mode, maanzitutto con il fatto che la ca-duta dell’arte come rappresen-tazione e contemporaneamentecome entità a sé stante, autono-ma, non da tutti è stata profon-damente accettata. Ci troviamoin ogni caso di fronte ad unevento con conseguenze così

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Anna Valeria Borsari, Trompe-l’oeil (2002). Installazione a Palazzo Albiroli, Bologna.

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radicali che un secolo non è ba-stato per attuare completamen-te la sua realizzazione. La caduta dell’arte come stru-mento di rappresentazione diun mondo da cui doveva restareben distinta era in qualche mo-do già implicita nei granuli disabbia della spiaggia di Scheve-ningen che Van Gogh aveva in-serito nel dipinto ad olio ove,dal vero, l’aveva riprodotta“prima di una tempesta”(1882)6, quindi nei collages diBraque e di Picasso. Ritroviamopoi oggetti e non raffigurazioniin molta arte del Novecento:Arman usava il colore di per sestesso, fuoriuscito dai suoi tu-betti, di cui cospargeva la tela;Spoerri vi incollava piatti, avan-zi di cibo, che non rappresenta-vano altro che se stessi. E con-temporaneamente anziché raffi-gurazioni troviamo fotografie,film, video che se pur con unumano filtro e una umana sele-zione vengono “dedotti” dallarealtà con strumenti meccanici,e ne sono in qualche modo trac-ce. Arte diventa la vita stessa,nelle performances, con il movi-mento Fluxus, quindi con gli ar-tisti concettuali degli anni Set-tanta, con i neoconcettuali delleultime generazioni. Il soggettocreatore, l’artista, non è più ne-cessariamente un individuo iso-lato che controlla fino all’ultimoistante la sua creazione, maspesso lavora in gruppo, e il suolavoro è aperto all’interazione.In varie opere del ventesimo se-colo come gli Specchi di Pisto-letto, ove il pubblico può riflet-tersi a fianco di immagini seri-grafate, o il Ragazzo che guardaLorenzo Lotto, di Paolini, il cuisguardo rimanda al lontanomondo che gli apparteneva, av-viene però qualcosa7 che si eragià visto nel Cinquecento, in unmomento di transizione, quan-do una serie di scoperte e sov-vertimenti paragonabili a quelli

che si sono avuti nel secolo scor-so per una breve stagione pro-dusse il Manierismo, a lungo di-sprezzato e non a caso solo inanni abbastanza recenti riabili-tato. Gli autori manieristi nonpensavano più di poter dedurredall’osservazione del mondo laverità oggettiva in cui gli autoridel Rinascimento avevano cre-duto, non credevano ad unmondo “antropocentrico”, erappresentavano l’ambiguità didiversi punti di vista, lasciandospazio alle immagini virtuali de-gli specchi. Così il Parmigianinonel suo celebre Autoritratto allospecchio convesso (1524), senzaintervenirvi, rappresenta pro-prio la realtà distorta da un si-mile specchio, che gli deformala mano in primo piano, allun-gandola, e che incurva il soffit-to. D’altronde nell’arte fiam-minga l’uso di specchi convessi,che rendevano possibile la visio-ne e quindi la rappresentazione“incrociata” di diversi punti divista, anziché la prospettiva al-bertiana, lo si ritrova già ne IConiugi Arnolfini (1434) di VanEyck, ove in uno specchio cur-vo, appeso alla parete di fondo,compare l’autoritratto dell’arti-sta e l’altro lato della stanza, chealtrimenti sarebbe stato preclu-

so alla visione: nella tela si fissacosì contemporaneamente as-sieme alla immagine di unarealtà direttamente percepitadall’artista anche l’immaginevirtuale e precaria che lo spec-chio gli rimanda. E gli specchidipinti, come le immagini di al-tri quadri dipinti nel dipinto,“citati”, come gli sguardi deipersonaggi ritratti che “forano”la tela, guardando fuori dal qua-dro stesso, e a volte dando allospettatore l’impressione di se-guirlo, sono mezzi per rapporta-re la realtà dell’opera ad altrerealtà cui l’opera allude, com-presa quella esterna del mondoin cui si inserisce. Nel contestodi tali esigenze espressive l’ana-morfosi permette di creare im-magini che solo da un certopunto di vista, e quindi da unsolo luogo fisico, diventano de-cifrabili e riconoscibili, i trompe-l’oeil, le “quadrature”, si leganoad un particolare luogo che ven-gono a modificare, suggerendoaltri mondi possibili, sfondandopareti e soffitti con la forza del-la pittura e dell’immaginazione.In tutti questi casi, in una lineadi ricerca che dall’autoritrattodi Van Eyck porta a opere comeLas Meninas (1656) di Vela-squez ed anche a opere vicine anoi, si producono giochi lingui-stici che rimandano da un mon-do all’altro, e che mettono inrapporto finzione e realtà, di-pinto ed ambiente. Qualcosa“esce” dall’opera, per sconfina-re fuori, in una realtà passata opresente, nel mondo che cam-bia. Oggi però si percorre que-sta strada in senso inverso ri-spetto a quanto avveniva nel no-stro Manierismo: anziché anda-re verso la separatezza dei sape-ri e dell’arte, si procede moltoprobabilmente verso un nuovouomo unitario, verso una rein-troduzione dell’arte nel restantecontesto della comunicazionevisiva e delle conoscenze.

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Anna Valeria Borsari, Trompe-l’oeil.

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Recentemente un amico, di cuiapprezzo la sincerità, di fronteall’installazione Trompe-l’oeil,che stavo esponendo, mi hachiesto: «Ma cosa vuol dire?».Premesso che non sempre nel-le mie opere è a fuoco il rap-porto tra finzione e verità, ri-tengo sia necessario tentare didare una risposta. Quest’estate,in un luogo di montagna anord di Torino, tra persone chenon avevo mai visto prima epresumibilmente mai avrei rivi-sto, mi sono sentita sospesa, inuna realtà astratta, che sembra-va non appartenere alla mia vi-ta. Ho fatto alcune foto, comein genere si fanno in vacanza, alpaesaggio, alle persone, intentea chiacchierare in piccoli grup-pi, o da sole. Tra le altre foto, acasa, più tardi, ho individuatoquella di una porta-finestra ta-gliata in grossi antichi muri, dacui si accedeva ad un piccoloterrazzino, a strapiombo suuna vallata attraversata longitu-dinalmente da una strada, conle montagne intorno. Sul ter-razzino erano tesi i fili per sten-dere il bucato, e restavano unpaio di mollette di plastica, unarossa e una azzurra. Era quasiun limite invalicabile. In realtàesistevano le montagne e le val-late oltre quel filo teso, oltre labalaustra, ma io non ci potevoandare, io sceglievo di non ol-trepassarli, e allora una buonarappresentazione di quella por-ta-finestra, su quel paesaggio,fosse stata ben dipinta o foto-grafata, poteva rendermi co-munque quell’illusione. Ripro-ducendo a grandezza naturalela foto e fissandola a una pare-te, in una stanza, creavo untrompe-l’oeil; ma per una seriedi processi metonimici la stan-za stessa ne era coinvolta e ve-niva a farne parte: altre mollet-te da bucato, vere, in plastica,di più colori, potevano esserepresenti e “toccabili”, ovvia-

mente su un tavolo adatto, co-me un tavolo da cucina un po-co datato; la presenza di mol-lette da bucato rimandava poi abiancheria da stendere adasciugare, e su quel tavolo vi homesso una vecchia bacinella diplastica, con dentro della bian-cheria usata, lavata e ancoraumida. Il bucato, lavare i pan-ni, stenderli ad asciugare, rien-tra in un rito domestico quoti-diano, che può alludere al rin-novarsi della vita dopo la puri-ficazione della sofferenza, ilpianto. Questo bucato ha evo-cato così le voci di un uomo edi una donna, assenti, ma i cuiposti potevano essere indicatida due sedie, a fianco del tavo-lo. Il dialogo era quasi banale:«Siediti un po’ qui»; « Forse hasmesso di piovere…»; «Speria-mo, debbo stendere il buca-to…»; «Dopo usciamo?». Un dialogo che si ripete identi-co nelle chiusure dei vari movi-menti di una sonata di Beetho-ven, La primavera, per violino epianoforte, che pure allude alritorno del sole dopo la pioggiadell’inverno. Musica vera e no-ta, voci vere, tavolo e sedie ve-ri, mollette da bucato e bucatoveri, vera lampada da cucina,che li illumina. Pubblico veroche entrando nella stanza trovanormale sedersi in quelle sediee una bambina in lacrime,strappata via dalla madre, per-ché vorrebbe afferrare quellemollette colorate. La stanza sicolloca esattamente tra la ve-rità e la finzione, un luogospesso abitato non solo dagliartisti, ma anche dalla gente ingenere. Le fotografie che tenia-mo sui nostri mobili, i posters,le immagini che vediamo attra-verso la televisione, il nostropassato prossimo, sono forsepiù veri di quel Trompe-l’oeilche porta ad una strada in unostrapiombo tra le montagne? Della “finzione” dell’opera re-

stano solo i presupposti, il direche è “opera” e non arreda-mento. Ma anche un arreda-mento o un bel telegiornale puòparlare della precarietà dellanostra vita e dell’illusione dellenostre scelte. Certo non è piùuna rappresentazione “verosi-mile”, ma un discorso. Primagli artisti ci parlavano attraver-so lo “stile”, qualcosa di perso-nale che si infiltrava anche neipiù realistici ritratti, oltre lenorme pittoriche di un partico-lare periodo; oggi, caduta la ne-cessità della rappresentazione,gli artisti possono parlare attra-verso composizioni, citazioni dipittura, fotografie, parole e al-tro, oggetti messi insieme, in-stallati in un certo modo, fino asignificare qualcosa. Non inte-ressa più la verosimiglianza, maqualcosa che oltrepassa anchela sincerità introspettiva, un di-scorso sulla vita e sul mondo.

1. Ripensiamo in ambito letterarioal percorso tracciato da Erich Auer-bach in Mimesis (1949).2. Cfr. André Malraux, Le muséeimaginaire, éd. Gallimard, Paris,1965 (’47), p. 207. 3. Cfr. Victor Del Litto, La vie intel-lectuelle de Stendhal, P.U.F., Paris,1962, p. 160; e cfr. anche il mio saggio:Parlar di rose anche quando non sonoin giardino, in Ipotesi d’artista, Atti delConvegno, Bologna 1984, pp. 29-30.4. Destutt De Tracy, Logique, in Elé-ments d’Idéologie, Courcier, Paris,1805, p. 143. 5. Cfr Pierre Wat, Constable, entreciel et terre, éd. Herscher, Paris, s.d.,pp. 8 e sgg. 6. L’opera è stata recentemente ru-bata dal Museo Van Gogh di Am-sterdam.7. Rimando a questo proposito albel libro di Jean Luc Nancy, Le ré-gard du portrait, Editions Galilée,Paris, 2000, ora tradotto anche initaliano (Raffaello Cortina Editore,2002), ove l’autore lascerebbe quasisupporre che in tali giochi di distan-ze e rimandi risieda la cifra univer-sale dell’arte.

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Fantastico! Finalmente una ri-vista che non mi chiede di darenotizie bensì opinioni, e addi-rittura le mie. A condizioni co-sì generose sono lieta di regala-re un po’ della mia penna, omeglio tastiera. Fatto insolitoper la sottoscritta, che non scri-ve un rigo se non remunerata.Perché sono avida di denaro?Non ne varrebbe la pena, perquelle poche lire di cui gratifi-cano la categoria dei manovalidella scrittura alla quale appar-tengo, ovvero quella dei pub-blicisti: sottopagata, sottoccu-pata, accuratamente spolpatada irpef, inpgi, Ordine deiGiornalisti e compagnia bella,come direbbe il giovane Hol-den. Farsi pagare in simili con-dizioni non significa credere diessere Montanelli bensì, amle-ticamente, opporre una legitti-ma e minima autodifesa agli ol-traggi, ai sassi, ai dardi dell’ini-qua fortuna del circo mediaticoverso la sua manovalanza piùsprezzata e negletta. Mie elucubrazioni? Chi lopensa ignora che questo qua-dretto non agiografico del pia-neta informazione visto daibassifondi ritrae una realtà cheriguarda in Italia migliaia disventurati colleghi. Ma noncolleghi che riempiono qual-che “francobollo” (in gergobreve articolo) di carta di gior-nale. Qui si parla di gente, re-tribuita con salari da bollettaperpetua, che produce quan-tità industriali di articoli sugiornali e periodici di destra,di sinistra, di centro, politica-mente corretti e non. Articoliche i colleghi delle redazioni

impaginano aggiungendovi i ti-toli (quelli sono sempre “cosaloro”) sennonché questi ultimisono sontuosamente pagatimentre i derelitti di cui sopravengono remunerati ad artico-lo dai tre euro in su: e credete-mi, quel “su” non indica vettedi molto superiori.Ma sì, checcefrega se guada-gnate poco. E i grandi temi del-l’obiettività dell’informazione,delle strategie della comunica-zione eccetera? Provo a fare ilverso al mio virtuale e scoccia-to lettore, al quale dico che co-municazione è anzitutto que-sto: non patinate copertine edelzeviri da intellettuali da stra-pazzo, ma prodotto di sudore epolvere, di dure e mai risarcitegavette, di raccomandati che tisoffiano il posto nell’Olimpodei Beati o perché figli & pa-renti eccellenti o perché graditial caporedattore di turno. Già,perché a decidere l’invio nel-l’Olimpo delle poltrone dai

2000 euro in su non è un con-corso, non è il numero o la qua-lità degli articoli scritti e menche meno la disinteressata sti-ma dei lettori: ma il vento chetira nell’ufficio del direttore. E ora che siamo a 451 gradiFarenheit, buttiamo pure unpo’ d’acqua sul fuoco: non so-no tutti così, è ovvio. C’è chi ècosì bravo che è riuscito persi-no a farsi strada da solo. C’ègente intrepida che fa inchiestetemerarie rischiando, oltre aquerele di miliardi, la galera,come insegna l’incredibile vi-cenda del senatore RaffaeleIannuzzi. Ma se il reclutamen-to della massa dei pennivendo-li avviene con i metodi di cuisopra, cosa può aspettarsi il di-stratto e superficiale lettore?Obiettività? Inchieste sul cam-po? Completezza d’informa-zione? Concludo questa primafase delle mie considerazionirubando l’inestimabile pennadi Karl Kraus: «Come potreipronunciarmi contro la censu-ra a favore della libertà distampa? La censura può sop-primere la verità per un po’ to-gliendole la parola. Il giornalela sopprime costantemente inquanto le dà delle parole».E ora, tanto per restare in te-ma, parliamo di comunicazione(verità o finzione?) a comincia-re dalla sua sorgente: la notizia.Ebbene l’80% circa delle robeche leggiamo non sono affatto“primizie” bensì cibo precotto,masticato, rimasticato, ridottoin poltiglia dai becchi di queglistormi di pappagalli fameliciche rispondono al nome diagenzie di stampa. La poltiglia

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La verità è dietro l’angoloL’informazione e le disavventure del vero

Caterina Diemoz

Giorgio Giaiotto, Impronta n. 32.

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viene divorata dal consuetomanipolo di cronisti dal dereta-no pervicacemente incollato al-la sedia che tagliano, spuntano,limano e ritoccano qua e là finoa servirvi la pietanza decottadella cosiddetta “notizia” dicui potete comodamente leg-gervi le infinite e tutte sostan-zialmente uguali versioni nelfascio di giornali che escononella stessa giornata. Provareper credere. Tornando ai dere-tani incollati alle sedie, correg-go il tiro: rischierebbero la pa-ralisi se non si concedesseroqualche svogliata puntatina aconferenze stampa, possibil-mente con l’happy end di unsucculento rinfresco.Comunicazione, seconda pun-tata: il comunicato stampa e lasua parente stretta più becera,ovvero la velina, dove per veli-ne non s’intendono le fanciullescollate e scosciate che danza-no ogni sera davanti a Greggioe Iachetti bensì «circolari dira-mate a giornali da un governoo partito con l’intento di otte-nere un atteggiamento confor-mistico» (Zingarelli). Dove fi-nisce il comunicato stampa edove comincia la velina? Enig-ma di difficile soluzione. Dicerto il comunicato stampa è,insieme al flash di agenzia,un’altra fonte non secondariadi notizie precotte e poi “clo-nate” nelle varie testate. Ve-rità, incisività, provocazione?Come si può immaginare,quanto se ne trova nella testadi un ciuco. A meno che qual-che cronista un po’ più sveglionon decida di fare una bellapallottola cartacea del comuni-cato in questione e di andaredi persona a vedere se qualco-s’altro bolle in pentola. Perchéla notizia, quella vera, si ottie-ne con fatica: quella offerta sulpiatto d’argento di comunica-ti, conferenze e via sprolo-quiando non è quasi mai una

notizia, ma merce avariata.Internet? Ennesima iattura perl’informazione. Grazie al Webqualsiasi scribacchino può im-provvisarsi giornalista scopiaz-zando a destra e a manca daivari siti, spesso moltiplicandoin modo esponenziale le falsenotizie come i germi di mici-diali epidemie. Mi viene inmente la mia amata quanto po-co politicamente corretta Si-mone Weil: «Il bisogno di ve-rità è il più sacro di tutti. Ep-pure non se ne parla mai. Lalettura fa spavento quando ci sisia resi conto dell’enormità dimenzogne diffuse senza vergo-gna anche dagli autori più sti-mati. E così leggiamo come sesi bevesse acqua da un pozzosospetto. La prima misura pro-tettiva sarebbe quella di istitui-re dei tribunali speciali con ildovere di punire con pubblicariprovazione ogni errore evita-bile e potrebbero infliggere laprigione e la galera in caso direcidiva aggravata da palesemalafede». Mi chiedo cosa fa-rebbe oggi per depurare i liqui-di infetti in cui siamo immersi.Veniamo ora all’articolo difondo detto familiarmente“fondo”, l’ipse dixit che rac-chiude e sintetizza la linea delgiornale, e il suo aristocraticoparente l’elzeviro. Talvolta so-no le uniche cose da non but-tare del cumulo cartaceo cheavete in mano. Un buon artico-lo di opinione o un buon elze-viro è come un brano di buonamusica o una pietanza cotta apuntino: oltre a riconciliarticon la vita, può dare molto dipiù di dieci notizie raffazzona-te dall’agenzia o dall'ufficiostampa di turno. Il fondo nonè obiettivo? Se l’autore è intel-ligente e degno di stima, me-glio un’interpretazione di altaqualità che aiuta a orientartinell’oceano delle opinioni,piuttosto che un’equidistanza

stracciona che ti fa perdere de-finitivamente la rotta.E adesso tocca al tema più abu-sato del dibattito mediatico:l’obiettività esiste? Sì e no. Ascuola abituo i miei studenti ariconoscere editori e autori deilibri di testo per provare a sma-scherarne le conseguenti impo-stazioni ideologiche, così comefaccio con i giornali. All’abusa-ta tiritera «Berlusconi - tre tele-visioni» rispondo computandoi maggiori azionisti delle prin-cipali testate italiane ovvero latriade «Corriere della Sera - LaStampa - Repubblica»: e quiconcordo che la cristallinaobiettività è una chimera. Mase l’opinione è plurale la veritàè irriducibilmente singolare.Verità e menzogna non vannomai confuse, checché ne dica-no i moderni sofisti: e la men-zogna con l’opinione non haproprio nulla a che fare.Plagio, autocensura, falso,omissione: ecco la galleria degliorrori del Luna Park mediati-co. Il plagio è un furto intellet-tuale massicciamente consuma-to e moltiplicato infinitamenteai danni di milioni di consuma-tori dei vari media: se l’hannopraticato Umberto Eco, Susan-na Tamaro, Rosa Alberoni epersino Eugenio Montale, figu-riamoci gli scribacchini che im-pazzano su quotidiani e perio-dici. Poi c’è la censura che untempo s’imponeva dall’alto maoggi è soprattutto autocensura(con o senza omissione) più pe-ricolosa e più subdola. Il gior-nalista sa già quel che non gar-ba al direttore, espressione diun ben preciso pacchetto azio-nario di svariato colore politi-co, e si regola di conseguenza.Il vero e il falso, la verità e lafinzione, passano per questiaspri, disagevoli e spesso dolo-rosi sentieri. Ma la verità è die-tro l’angolo: basta non smette-re mai di cercarla. ■

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Il fatto come verità e la notiziacome sua dimostrazione: par-rebbe un assioma, ma non lo è.Partendo dal presupposto chela verità sia un concetto in con-tinua trasformazione, ne conse-gue che l’informazione nonpuò rappresentare la verità ma,piuttosto, la tendenza “verso”tale concetto. Insomma, anchenell’informazione la verità nonpuò essere ontologica. Il suoepisteme, pertanto, è proprio laricerca della verità, ovvero delfatto sul quale costruire la noti-zia. Un compito decisivo inquanto irreversibile. Non a ca-so la parte fondamentale (e nelcontempo terribilmente relati-va) del mestiere di chi fa infor-mazione consiste nella selezio-ne del fatto. Se tra una rapinain banca e il furto di una melaal mercato, entrambi realmenteaccaduti, il giornalista sceglie laseconda notizia è evidente che,pur rispettando la verità, nonha fatto la cosa giusta. L’inevitabile processo della sele-zione-filtro non è ovviamenteinfluenzato solamente dalla sog-gettività di chi lo pratica. Moltiavranno sicuramente notato cheun evento “classico” come l’o-micidio abbia su scala nazionaleun “peso” ben diverso se avve-nuto a Roma e Milano piuttostoche nella nostra piccola Porde-none (osservazione che vale co-munque per la totalità delle al-tre piccole province). In un casodel genere è semplicemente ac-caduto che, nella selezione ini-ziale, la considerazione del fattoin sé abbia dovuto combinarsicon meccanismi non più ineren-ti alla ricerca della verità, ma al-

le necessità di mercato. Per dir-la in modo brutale, un mortoammazzato a Pordenone (po-che decine di migliaia di utenti-lettori-spettatori) “vale” moltomeno di analoga vittima rinve-nuta dove il bacino d’utenza siadi parecchie volte superiore. In-somma, per dirla con De Andrè«… qualche omicidio senzapretese l’abbiamo anche noi quiin paese…», ma quello di città,ovviamente, “tira” molto di più. Il necessario interesse che l’im-pianto economico riveste nellestrutture che veicolano infor-mazione non è stato, stando allecifre, sostenuto da analoga at-tenzione riservata al prodotto.Pensando al fenomeno dei gad-get e altri allegati, che ben pocohanno a che fare con l’informa-zione, diventa evidente che ireggitori dei giornali italiani ab-biano indirizzato le maggiorienergie nella selezione del pub-blico (target), anziché delle no-tizie-verità. Va da sé che, analiz-zando l’irreversibile calo di ven-dite di cui stanno soffrendo iquotidiani italiani, in tale sceltasono stati evidentemente com-piuti errori fatali. Errori che sembrerebbero farcredere, davanti a mediumquali televisione e Internet, chel’informazione a mezzo stampasia oramai inutile e obsoleta(una vecchia ma inossidabilequerelle). Invece, per quantoparadossale possa apparire, lanotizia “mediata” dal giornali-sta a diversi livelli (dalla sele-zione, al controllo, alla sogget-tività) può portarci molto piùvicino alla comprensione dellanotizia stessa (cioè di quella

che si può definire verità), diquanto non accada con gli altridue mezzi di comunicazione.Non a caso nelle dittature (ov-vero nei regimi dove il poterevuole occultare a proprio favo-re la verità) è prediletta la stra-da della diretta televisiva, unformidabile mezzo di penetra-zione per stamparsi nella men-te dello spettatore, che diventaancor più devastante quandonon sia accessibile in modo si-milare ad ogni parte e sua con-troparte. Un pericoloso mondo“monodimensionale” nel qualela verità-informazione, intesacome maggior comprensionedel mondo che ci circonda,perde gran parte del suo senso.Ecco perché, nonostante possatalvolta apparire in vesti anchedetestabili o poco credibili(cioè con poca verità), l’infor-mazione su carta stampata è(almeno per il momento) asso-lutamente necessaria: senza sistarebbe tutti peggio. Ovviamente i rischi per il rap-porto informazione-verità nonsi fermano certo davanti allapiù o meno lunga vita dei di-scendenti di Guttenberg: qual-che anno fa si chiamava new-management ed era la strategiadi “fabbricare” informazioni aproprio uso e consumo. Se, fa-cendo un esempio, il presiden-te di uno Stato è coinvolto inuno scandalo a sfondo sessuale,cosa c’è di meglio di “inventar-si” un conflitto contro qualchestaterello infido e lontano? Nelcaso Clinton-Lewisky accaddequalcosa di molto simile. Il new-management, dunque, èla sofisticata evoluzione della

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In notitia Veritas?

Pier Luigi Pellegrin

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vecchia propaganda. È comeun virus capace di propagarsicon il suo stesso antidoto (lanotizia fabbricata si diffondeusando il giornalista che, do-vendo riportare l’informazio-ne, non può ignorarla). Il caso scaligero del professorMarsiglia (l’insegnante che de-nunciò una finta aggressione daparte di sedicenti naziskin) èuna lampante dimostrazione dinotizia (verità) fatta in casa.Certo, un self new-managementpatetico e rudimentale, ma cheper alcuni giorni si rivelò estre-mamente efficace. In quei mo-menti molte persone nelle lorocase avranno avuto modo di os-servare come, da quanto si po-teva arguire dalle interviste te-levisive, la presunta vittimanon presentasse certo i segni diun’aggressione. Anzi, il prota-gonista della vicenda sembravapiù che altro spossato dalle te-lecamere. Eppure, ciò che tuttinotavano nelle loro case è statooccultato da un’informazionein balia di un clima, quasi un

tabù, che sconsigliava forte-mente qualsiasi intervento infavore della verità. Facile pen-sare, quindi, agli enormi danniche potrebbero portare (o cheforse hanno già portato) formedi potere meno scalcinate delprofessor Marsiglia. Un altro caso che molti defini-rono di new-management fuquello, accaduto qualche annofa, della famigerata cimice sco-vata dall’allora capo dell’oppo-sizione Silvio Berlusconi. Lesuccessive indagini rivelaronoche la presunta microspia(grande quanto un pacchettodi sigarette) rinvenuta negli uf-fici del Cavaliere era poco piùdi un giocattolo, eppurel’informazione si ritrovò a do-ver assecondare destra, sinistrae massimi rappresentanti delleistituzioni che sbraitarono sul«gravissimo episodio», «auten-tico attentato alla democraziadello Stato».E si avvicina al concetto dellanotizia (verità) “fai da te” an-che il caso di Carlo Giuliani, il

ragazzo ucciso nei tumulti diGenova nell’estate del 2001.Le immagini mostrarono chia-ramente un giovane con il pas-samontagna che stava cercandodi scagliare un estintore controuna jeep dei carabinieri. Fattosalvo il dolore per la morte diun essere umano, questo era ilclassico caso in cui (pressochéin diretta televisiva) una parteaggrediva e l’altra si difendeva.Eppure, un accorto uso deimedia ha trasformato l’aggres-sore in martire e l’aggredito incarnefice. Il new-management, in altre pa-role, per chi lo sa usare costi-tuisce la quadratura del cer-chio, ovvero la creazione dellaverità a proprio vantaggio in unmondo nel quale anziché i “fat-ti separati dalle opinioni” han-no il sopravvento le notizie se-parate dai fatti. Ma se ciò sta accadendo, nondeve essere soltanto l’informa-zione a doversi interrogare sulproprio deficitario rapportocon la verità. ■

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M.C. Escher, Giorno e notte (1938).

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Ai vecchi tempi si diceva:«L’ho letto sul giornale». Eraun’asserzione ultimativa, chestabiliva in modo definitivouna verità. In genere non oc-correva citare la testata: ilGiornale era uno, il solo cheentrava in casa o si sgualcivasui tavoli del bar. Se una dipar-tita non era certificata dal ne-crologio sul giornale, primaancora che dall’anagrafe co-munale, era come se non si fos-se morti. Poi è venuta la televi-sione, con la forza di un’armasegreta, di un’arma totale. Tifaceva vedere la realtà, e dun-que: come non crederle? «L’hovisto in televisione». Un piattoperfetto, per chi legge il mon-do come un complotto perma-nente (si può fare una notazio-ne sulle controverità? Il librofrancese sui segreti dell’11 set-tembre, ben posizionato nelleclassifiche di vendita italiane, ebeneaugurante per un popolosempre molto avvertito e die-trologo, è o non è i Protocollidi Sion del nuovo secolo?) e ve-de nell’elettrodomestico che simisura a pollici invece che a li-tri la lunga mano del grandefratello (seconda notazione: ècurioso che la società descrittada Orwell, brutale realizzazio-ne dell’utopia comunista, siadiventata un luogo comune asinistra per descrivere la so-cietà capitalista avanzata, o de-generata). Con molti ma e mol-ti se, per dirla con gli slogancorrenti: perché spesso ciò chesi rimira e si sa di rimirare nonè la fedele rifrazione dellarealtà, ma la realtà in sé: realitytv, storie false che si sa essere

false ma alludono così bene al-le storie vere di noi tutti da es-sere meglio delle vere (comeuna rappresentazione shake-speariana dei nostri tempi), ve-rità televisive, vere per quantoconcerne la televisione, appun-to, come un mondo parallelo,che rispecchia, più che larealtà, lo spettatore che vi sisiede davanti, come in unospecchio, di cui i dati auditelrilevano la fedeltà. E del restonon diventi né il politico disuccesso, né l’antipolitico disuccesso se non vai in televisio-ne, e del resto qualche volta ri-schi perfino di non esistere senon vai in televisione (i giorna-li locali certificano la morte, laTv l’esistenza in vita, grossa ri-voluzione). E allora? Allora laTv è la sua verità: esiste, ha deicanali, ha dei palinsesti, ha unsuo modo di raccontare ilmondo e le vite, è vera, perchéc’è. Che sia la verità tout courtè una pretesa esagerata, e lo èperfino per le televisioni a cir-cuito chiuso che registrano imovimenti attorno a una ban-ca o a un ministero, dove è fa-cile apparire sospetti ed inevi-tabile figurare in bianco e ne-ro. È – ed è questa la differen-za con la poesia, o con la pittu-

ra, o in misura minore con laletteratura e la musica – unracconto della realtà, con l’ag-gravante di non avere la legge-rezza dell’arte, e con l’aggra-vante doppia di avere la pesan-tezza della riproducibilità tec-nica e degli infiniti ascolti. Emodifica la realtà, ma senza ne-cessariamente falsarla di pro-posito: provate ad andare auna manifestazione con la tele-camera accesa, e sentirete le-varsi i cori, o solo i sorrisi e lemanine per salutare casa. An-date in trincea, e sentirete spa-rare. Migliorerete qualche vitae ne peggiorerete altre, e co-munque non sarete inavvertitie indolori. È una faccia dellaverità, e un ombretto sulla ve-rità, e ha una sua verità, la tele-visione, per il solo fatto di es-serci, così impalpabile, così fri-vola, così aerea, mentre la ve-rità della poesia, o anche solodi un pezzo come questo hasolo la precarietà del tempo dilettura, e resta immobile, ma-gari inerte su uno scaffale, omacerata nel riciclo, ma sem-pre con un tempo di vita piùlungo, e quasi umano, non eva-nescente, non illusorio, chequasi non sembra vero, e nonbasta il registratore – elettro-domestico di riserva, un free-zer del piccolo schermo – adautenticarne la verità. Però: imessaggini, i rapporti, le cosetra di noi – si dice – hanno or-mai tempi televisivi. E che co-sa di più vero di qualcosa difalso che si invera nella vita de-gli altri, nei loro consumi e neiloro stili di vita, come testimo-ni ambulanti del loro tempo?

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Verità e televisione

Toni Capuozzo

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verità, dubbio, finzione

Dobbiamo ammetterlo: tuttele grandi religioni hanno in co-mune tra loro una sorta di per-versa misoginia.Ebraica: sudditanza ideologi-ca, pacata ma ferrea, della don-na rispetto all’uomo.Musulmana: veli, lapidazioni,ancora oggi. Incredibile mavero.Cristiana (tolta quella “gem-ma” a sé stante che è il Vange-lo): per secoli una specie di au-tentica “piromania” della San-ta Inquisizione, ostinatamenteincline al bel sesso, cioè stre-ghe, cioè donne. Le quali, co-munque, in quasi tutto il Me-dioevo, ben che andasse eranodefinite “opus diaboli”.Nell’attuale “religio” fanatica-mente laica, asettica, pragmati-ca, lucida e telematica (e quasinarcisista nel contemplare lapropria autonomia da tutto) ilnuovo Demone ha molte fisio-nomie. Una delle fondamenta-li è – dichiaratamente – la Pub-blicità. Che, guarda caso, è se-manticamente e grammatical-mente femmina.La pubblicità, si dice, altera,corrompe, inquina, mistifica,esagera, mente. E lo dicono co-me se ci fosse una realtà inalte-rata, incorrotta, pura, autentica,sobria, veritiera. Qui, disponi-bile, facile e alla portata di tutti.Io, oggi, voglio difendere lapubblicità. Difendere questadonna di facili costumi (lo am-metto) perché la amo (e sono,in parte, fatti miei) ma anche (equesto interessa chi legge) per-ché la conosco benissimo. So-no infatti, a tempo pieno e daoltre 40 anni un professionista

della comunicazione pubblici-taria a livello operativo nel la-voro e a livello di docenze. En-tusiasta di esserlo.I punti di questa mia difesa so-no quattro.

Primo. La pubblicità non è

figlia della fatua stupi-

dità contemporanea Lapubblicità è sempre esistita, ènata con l’uomo stesso. Perspiegare il male, il bene e latentazione, la Bibbia è ricorsaalle più classiche forma di me-tafore/simboli e iperboli oggistrumento di base del linguag-gio pubblicitario: serpente,frutti, mela, annessi e connes-si. Cioè: benefici per il consu-matore e ragioni a supportocodificate in elementi emotivie percepibili subito. È nata

quando il cavernicolo o i pri-mitivi usavano suoni e percus-sioni per ottenere frastuoniche “mentivano” volutamentesulla forza reale dell’emittentee sul numero dei belligeranti.È nata con il flauto insinuanteed estenuante del pastore soli-tario che si voleva ingraziaredivinità silvane (da tenere buo-ne) o richiamare le carnali pro-pensioni di partner terrene (daportare vicino).Più tardi con le frasche fuoridell’uscio di tuguri per dire«qui trovi il vino buono…» o itrionfali ritorni dei condottiericon parate che erano autenti-che orge di comunicazione perdire, anche sopra le righe,quanto forti, bravi, potenti,vittoriosi erano stati.In ogni caso c’erano un emit-tente, tanti riceventi e (inmezzo) una comunicazione fi-nalizzata ad obiettivi, con am-plificazioni, iperboli, finzioni,allusioni.E, nota bene, allora la genteera molto più credulona, mol-to meno vaccinata. Quindi l’e-ventuale misfatto pubblicitarioera perfetto.

Secondo. La pubblicità non

è figlia dell’ignoranza Per-ché è agli antipodi dell’igno-ranza ogni capacità di convin-cere su qualcosa. Esistono ca-tegorie professionali che losanno bene. Cito solo quellefondamentali: giornalisti, avvo-cati, politici, saggisti, docentidi ogni livello, sacerdoti di ogniconfessione; tutti quelli insom-ma accomunabili da quella tec-nica definita elegantemente da

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In difesa di una donna di facili costumi

Martino Giuliani

Foto di Lelle Zuppati.

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Cicerone “ars suadendi”.È morale o immorale la loroprofessione? Rispondo che è a-morale. La professione è nobi-lissima, i contenuti e gli obietti-vi sono una loro libera scelta in-dividuale. Immorale sarebbesolo censurare la loro attivitàcome un’operazione di steriliz-zazione, di amputazione chestarebbe tra la genetica, la piùdemente fantascienza e l’orroredelle persecuzioni ideologiche.

Terzo. La pubblicità è fatta

da tutti Dobbiamo tutticonvenire che la pubblicitàpuò essere definita «una co-municazione finalizzata al rag-giungimento di un obiettivo».Ciò detto, mi limito a chieder-mi che cosa fa una donna cheusa un certo profumo, un uo-mo che usa certe cravatte, ungiovane che scorazza su certeauto, una persona che snobbacerte compagnie, una signora

che partecipa a certe conferen-ze soporifere o una ragazza cheurla nei concerti rock. Gesti,atteggiamenti, scelte o rifiutisono comunicazione pura, co-dificata in forme espressivenon linguistiche ma che parla-no di noi in modo eloquente. Edicono sono diverso, sono ro-mantico o intelligente, disini-bito, furbo, ricco, potente…Ma pochi hanno l’intelligentis-sima onestà di dire «sono il ve-ro primo pubblicitario di mestesso».

Quarto. Amo la pubblicità

Irrilevante ultima ragione diquesta mia difesa. Ma è impor-tante per me, e tanto basta ame, perché è onesto dirlo. So-no perdutamente e definitiva-mente innamorato di questadonna di facili costumi, nono-stante la sua scostumata irre-frenabile disponibilità a con-cessioni sotto altre lenzuola.Spesso indegne, come quandosi fa strumentalizzare da chiro-manti imbroglioni, finanzieriinsolvibili, politici bugiardi,opinionisti prezzolati o pseu-do scienziati del benessere odella bellezza.Ma che ha commoventi tene-rezze per chi crede nella soli-darietà, chi aiuta i bambini, chipromuove la cultura, chi faamare musica, letteratura, arte,chi combatte la droga o le per-secuzioni o i preconcetti. Amola pubblicità perché è proba-bilmente una delle poche pro-fessioni (se non l’unica) che as-somiglia veramente e comple-tamente ad un essere umano.Nelle sue complessità, diver-sità, contraddizioni. Le suesperanze puerili, le sue insen-sate leggerezze e le sue orgo-gliose bugie. Nelle sue colpe, isuoi misteri, le sue inerzie in-spiegabili. Ma soprattutto neiluminosissimi sorrisi dei suoientusiasmanti entusiasmi. ■

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Parmigianino, Eva e Adamo (1531-1539). Parma - Santa Maria della Steccata.

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La fotografia nasce nei primianni dell’Ottocento ponendo-si immediatamente come l’al-ternativa alla pittura di me-stiere per ritratti e vedute daconservare in casa o da regala-re come ricordo.È infatti molto più realistica emolto più dettagliata di unquadro; cioè più fedele a quel-lo che l’occhio vede e sembrasubito che oltre ad avere mag-giori contenuti creativi siapiuttosto oggettiva nella ripro-duzione della realtà.Anzi, più la tecnologia miglio-ra, più ci si accorge che l’oc-chio non riesce a fissare di unascena tutto quello che c’è inuna fotografia.Immediatamente sorge alloraun movimento che si applicaad inventare i più strani artificipur di dimostrare che una fotopuò anche essere interpretati-va e che può addirittura ripro-durre situazioni che abilmentemontate e manipolate sembri-no reali, ma che sono solo arti-fici. Poi appare il cinema (e più

tardi la televisione ma soprat-tutto la diretta televisiva) chesembra dimostrare ancora dipiù che l’immagine è una rap-presentazione oggettiva dellarealtà avvenuta o addiritturache sta avvenendo.Nel senso comune ancora oggi,in cui si parla frequentemente direaltà virtuale, resta radicata l’i-dea che ciò che l’occhio perce-pisce in un’immagine è la ripro-duzione di una realtà vicina olontana ma veritiera.

Roland Barthes dice, parlandodelle funzioni della fotografia,che esse sono: «Informare, rap-presentare, sorprendere, far si-gnificare e allettare».Di tutti questi attributi il piùvicino alla verità dovrebbe es-sere l’informare.Ebbene vorrei dire che spessouna foto di cronaca non rap-presenta la realtà ma nel mi-gliore dei casi una delle realtàpossibili.È il fotografo che decide cosariprendere, in che momento ri-prendere, da che punto di vistariprendere e con che tecnica.Come si può ben comprenderea questo punto bisognerebbeaprire una discussione su cosasi intende per realtà.È realtà quello che vedo din-nanzi al mio obiettivo o quelloche sta succedendo alle miespalle? Ancora: è realtà guar-dare dall’alto di un grattacieloo dal basso come un topolino?Un’affermazione di Susan Son-tag che condivido pienamente:«La fotografia porta in sé ciò

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La fotografia della realtà

Lelle Zuppati

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che noi sappiamo del mondoaccettandolo quale la macchinalo registra. Ma è l’esatto oppo-sto della comprensione cheparte dal non accettare il mon-do quale esso appare».Quindi il “dubbio” non deveriguardare la fotografia mal’essenza della realtà.Possiamo fare un esempio con-creto: una fotografia pubblici-taria dove appare la solita bel-lissima donna. L’atteggiamentonormale è di mettere in discus-sione il suggerimento insito nelmessaggio trasmesso. Nessunoperò dubita dell’esistenza di

quell’essere così affascinante.Nel mio lavoro di fotografo dimoda capita spesso che ilcliente non riconosca nellamodella, pronta al trucco, ilpersonaggio che egli stessoaveva scelto, attraverso imma-gini, per indossare i suoi abiti.La trasformazione di una ra-gazza semplice e spesso acerbain una sofisticata immagine pa-tinata è infatti spesso un pro-cesso difficile e complesso nelquale la personalità e la tecnicadel fotografo coinvolto decido-no il risultato finale.È più credibile quindi l’imma-

gine della modella o dell’ogget-to che si vuole pubblicizzare?Le immagini qui riprodotte so-no, spero, un’esemplificazionedi tutto quello scritto sinora.Una linea bianca che non è al-tro che un cordone di tendapuò essere sublimata fino a di-venire la linea dei fianchi o del-le cosce di una giovane donna.Io chiedo, quindi, a chi guardauna mia fotografia di vivereper un attimo nella realtà cheho immaginato e che mi piacecondividere.Essa non è nè vera nè falsa masemplicemente mia. ■

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Gabriele Zuppati Nato aBuenos Aires nel 1950, il suo in-teresse per la fotografia nasce al-la fine degli anni Sessanta e siindirizza nell’ambito della foto-grafia paesaggistica e naturalisti-ca. Nel 1975 si laurea in ScienzeForestali all’Università di Pado-va ed in seguito insegna in vari

Istituti statali. Nel 1981 trasfor-ma la sua passione per la foto-grafia, già indirizzata verso l’in-dossato, in professione, al pun-to da fondare con alcuni colle-ghi nel 1986 la Poligraf, unostudio a servizio completo per ilSell-In. Contemporaneamenteinsegna fotografia nella Scuola

professionale di Lancenigo; inseguito ricoprirà la carica diPresidente provinciale degli ar-tigiani di Venezia e più tardiquella di Presidente regionale equindi nazionale dell’Associa-zione fotografi Siaf-Cna. Vive elavora tra Venezia e Milano do-ve ha la sua sede operativa.

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verità, dubbio, finzione

Una grigia trattoria di periferia;un cameriere sta sistemando untavolo quando squilla il telefo-no; va a rispondere.Cameriere Ristorante Al fili-bustiere buonasera. Sì, siamoaperti, ma solo per i single. Esatto, solo tavoli da uno…Per velocizzare il servizio, si-gnore… Ah voi siete in due?…Mi faccia pensare… In tal casopossiamo mettere due tavolivicini… veda lei… (entra uncliente) la ringrazio comunqueper aver chiamato… buonase-ra a lei. (Riattacca e avvicinan-dosi al nuovo entrato) La genteal giorno d’oggi ha delle prete-se… come se fosse facile servi-re la cena a gruppi di perso-ne… Buongiorno signore, incosa posso servirla?Cliente Vorrei cenare. Cameriere Cenare? Ah giàsiamo in un ristorante! È chia-ro che lei vuole cenare. Prego,si accomodi dove vuole. Leporto il menù!Cliente Grazie… (si accomo-da un po’ perplesso per l’atteg-giamento del cameriere).Cameriere Ecco qua…Cliente Mi può portare del-l’acqua per cortesia…Cameriere Naturale o friz-zante?Cliente Naturale grazie.Cameriere Mi dispiace, l’ab-biamo appena finita; l’ultimabottiglia l’abbiamo data a quelcliente che è appena uscito…(esce come per rincorrere ilcliente) mi dispiace ma ha giàsvoltato l’angolo!Cliente No, beh… non im-porta… mi dia… dell’acquafrizzante.

Cameriere Non lo so se neabbiamo ancora, devo vede-re… sa, è un brutto periodoper le acque.Cliente Beh… (perplesso) midica se ne ha, così… così possoregolarmi… Cameriere Vado ad infor-marmi; torno subito.Cliente (legge il menù).Cameriere (ritorna) Ha deci-so?Cliente E l’acqua?Cameriere La stanno cer-cando.Cliente Ah!… (si guarda ingiro) Allora… del salmone co-me antipasto…Cameriere (prende nota) Sal-mone transgenico come anti-pasto… Cliente Come transgenico?Cameriere È transgenico…So dove lo comprano e so percerto che è transgenico…Glielo dico anche se non do-vrei… mi hanno già minaccia-to di licenziamento per la miasincerità, ma è più forte dime… Cliente (basito) No no, anzigrazie di avermelo detto…Cameriere E poi il pesce èuna cosa delicata… io lascereistare…Cliente (perplesso, cominciaa guardarsi ancor di più in giro)Lasciamo stare… mi porti unatagliata al sangue…Cameriere (prende nota) Ta-gliata al sangue agli estroge-ni…Cliente …sarebbe scusi…?Cameriere Sarebbe che ilmanzo che hanno qui è tratta-to con anabolizzanti per gon-fiarne le carni… sa come si fa,

no? I proprietari lo sanno maovviamente non lo dichiara-no….Cliente Ma è vietato dallalegge!Cameriere Signore: siamo inItalia… una mano lava l’al-tra… Cliente Ma è pazzesco!Cameriere Via, non facciacosì… mi dica la verità: la do-menica, al mare, quando pran-za fuori… le danno sempre laricevuta?Cliente Ma… dipende…Cameriere Anche a noi cer-te volte gli allevamenti fanno lafattura e certe volte non fannola fattura… dipende… e percontro ci rifilano qualche par-tita di manzo diciamo così…ballerino!Cliente Senta… ma…Cameriere Veda lei, per unfiletto non è mai morto nessu-no però…Cliente Non è quello il di-scorso…Cameriere È una questionedi principio…Cliente Ma certo… Baste-rebbe saperlo… dovrebberoscriverlo sul menù.Cameriere Ma certo, comelei scrive sulla sua macchina:ogni tanto supero i limiti di ve-locità, altre volte non mi fermoagli stop… oppure scrive sulsuo modello 101: se posso evi-to di fatturare;… via, siamouomini di mondo…Cliente Il pollo com’è?Cameriere È allevato con fa-rine animali… lo so perché mioccupo degli ordini e so cheloro, per tagliare al massimo icosti, si rivolgono a ditte non

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Menù fisso

Andrea Appi

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molto affidabili da questo pun-to di vista…Cliente (inizia a sudare) Midica lei allora…Cameriere Il piatto tipicodella zona… un piatto origina-le, molto particolare…Cliente Va bene, va bene…non ho molto tempo scusi, miporti questo piatto tipico dellazona Cameriere (Esce e ritornaservendo al cliente un piattovuoto).Cliente Ma… cos’è questastoria?Cameriere Mi ha chiesto ilpiatto tipico della zona; è que-sto. È carino: porcellana arti-gianale, dipinto a mano…Cliente Ma che cosa vuole di-re? Se dice il piatto della zona èchiaro che si intende il cibo…Cameriere E no, caro il miosignore; noi diamo il cibo solose è espressamente richiestodal cliente!Cliente Allora guardi, a meinteressa soprattutto il cibo;del piatto non me ne freganiente…

Cameriere Ma allora perchénon prende il cibo e lascia sta-re il piatto?Cliente Ma… io non capiscose scherza o che cosa… e senzapiatto come mangio?Cameriere Può mangiare inun piatto di casa sua…avrà unpiatto a casa sua?Cliente Sì… che discorsi, aPordenone…Cameriere Ah lei abita aPordenone? Ahi ahi ahi… Hosbagliato io: avrei dovuto chie-derle la carta d’Identità! E mavede amico mio qui siamo aUdine.Cliente Sì lo so che siamo aUdine, e allora?Cameriere E allora il piattodella zona lo diamo solo agliabitanti di Udine e non a quel-li che ne so, di Pordenone, Mi-lano, Torino o chissà dove!Cliente Ma scusi eh! E alloradove pensa che io possa andarea mangiare a questo punto?Cameriere In un ristoranteche accetti clienti di Pordenone.Cliente E dov’è che possotrovarne uno, secondo lei?

Cameriere Ma naturalmentea Pordenone.Cliente Non capisco se haragione lei o se sono io che…Cameriere (guarda l’orolo-gio) C’è un treno che parte fra20 minuti… conosce qualchebuon ristorante vicino casasua?Cliente Ma… sì… c’è un ri-storante proprio vicino a casamia… ma…Cameriere Visto che abbia-mo trovato una soluzione!Cliente Ma, in effetti…Cameriere No, non mi rin-grazi… per noi il cliente vieneprima di tutto!Cliente Arrivederci allora…Cameriere Dovere, caro si-gnore; e se le capita di tornarea… torni pure a trovarci: danoi un boccone lo troverà sem-pre!Cliente (se ne va)Cameriere (squilla il telefo-no) Ristorante Al filibustierebuongiorno! Sì, siamo aperti,ma oggi… solo pesce: si è alla-gata la cucina!

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Pablo Picasso, Studio dell’artista con testa di gesso (1925). New York - Museum of Modern Art.

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verità, dubbio, finzione

Oggi, il tema della verità, chenel discorso filosofico vede il sa-pere scientifico e logico dialoga-re con il sapere comune e le cre-denze, appare sempre più in-trecciato con quello della veritàgiudiziaria. Il lettore che sfogliale pagine di cronaca politica o dicronaca nera di un qualsiasiquotidiano si fa l’idea che il pro-cesso, penale o civile, sia il luo-go della ricerca della verità. Ildiscorso della verità è diventato,nel senso comune, un discorsoprocessuale: ha abbandonato iconfini dell’universo filosofico oal più scientifico per entrare neipiù angusti recinti del diritto. Ilsuo orizzonte si è accorciato eappiattito sul profilo delle istitu-zioni giudiziarie.Lo spazio giudiziario, che dasempre è abituato a risponde-re, in maniera più o meno ecla-tante, a quest’attesa sociale, sipresenta al pubblico come unluogo sacro, cerimoniale, unmondo a parte costruito in fun-zione del suo compito. Il tribu-nale è insieme il luogo del po-tere e dell’autorità, della forzae dell’infamia, incarna il prima-to dell’ordine sulla trasgressio-ne, del sociale sull’individuale,dello Stato sul cittadino. Oggiesistono pochi luoghi istituzio-nali capaci di trasmettere unsenso della sacralità così com-pleto e di conseguenza una ve-rità così autorevole.L’architettura giudiziaria cheha invaso con la sua opprimen-te presenza le reti di comunica-zione mass-mediologiche, met-te in campo una vera e propriaprofusione di simboli di mae-stosità, uno sfarzoso dispendio

di spazio e di materiali pregia-ti. Il palazzo di giustizia è col-locato al centro della città, de-corato con animali simbolici ocon statue di guerrieri che di-fendono l’entrata principale.L’ingresso è un ampio portone,sopraelevato rispetto al suolo,

si raggiunge attraverso unaquantità di gradini che evoca-no l’ascesa spirituale ma anchela distanza tra il luogo dellagiustizia e la strada. L’uomoche varca quella soglia, percor-re il vasto atrio, poi il labirintodei corridoi e infine arriva allasala delle udienze, si prepara,quasi fisicamente, all’impattocon il potere, la sacralità, lagiustizia e infine con la verità.Qualsiasi sia il suo ruolo, accu-sato, accusatore, testimone, av-vocato, parte civile…, una vol-ta entrato nel palazzo subiràl’effetto inibitore per il qualequello spazio è stato pensato: ilrapporto di sottomissione traindividuo e istituzione si saràprodotto e l’uomo comunesarà pronto ad accogliere il ver-detto (da vere dictum = dettosecondo il vero), la verità tra-smessa per bocca del giudice.Ma la domanda di verità è unsentimento popolare moltocomplesso. Coloro che assisto-no al processo dal vivo (oggianche attraverso le reti televi-sive o le pagine dei giornali)vogliono ricevere dall’alto, dalpretorio (lo spazio ove siede lacorte) la conferma delle loroaspettative, di ciò che pensanoin basso. Occorre che qualcu-no dica la verità, la dica alta eforte, assegni le ragioni e i tor-ti. Il bisogno di verità si tra-sforma spesso in questi luoghiin bisogno di giustizia, di ri-sarcimento morale, di vendet-ta. Lo Stato apre le porte deitribunali al popolo proprioperché questo sfoghi lì e nonaltrove il suo malcontento, lesue frustrazioni. ■

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La verità politica del processo

Isabella Rosoni

Isabella Rosoni lavora pres-so il Dipartimento di Dirittopubblico e Teoria del Gover-no dell’Università di Macera-ta, dove, all’interno del Corsodi laurea in Scienze dell’Am-ministrazione della Facoltà diGiurisprudenza, insegna Sto-ria delle istituzioni politiche.Ha fatto parte di due ricerchepromosse dal Consiglio Na-zionale delle Ricerche. La pri-ma dal titolo “Alle origini delmoderno sistema accusatorio.Teoria della prova nei sistemieuropei del secolo xix (Fran-cia, Germania, Inghilterra).La seconda dal titolo “Lafrontiera mobile della penalitànei sistemi di controllo socialedella seconda metà del xx se-colo”. Tra le sue pubblicazio-ni: Criminalità e giustizia pe-nale nello Stato pontificio delsecolo xix. Un caso di banditi-smo rurale, Milano, Giuffrè,1988; Quae singula non pro-sunt collecta iuvant. La teoriadella prova indiziaria nell’etàmedievale e moderna, Milano,Giuffrè, 1995.Attualmente sta lavorando adue monografie: la primasulla amministrazione colo-niale italiana in Eritrea, l’al-tra (ma ci lavora a tempoperso) sulla fisiognomica co-me scienza indiziaria.

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Il rituale giudiziario è un modoper lo Stato di garantire la suaautorità in maniera emozionalee simbolica, per far emergereuna verità, spesso politica, cheprotegga un ordine sociale sta-bilito, che smorzi i rischi pro-dotti dalle ineguaglianze socia-li. Offre a tutti i cittadini, as-sieme al quadro tranquillizzan-te di un’ideale eguaglianza difronte alla legge, la ricostruzio-ne veritiera di quei fatti trau-matici che mettono a rischio lacoesione sociale. Entro le for-me rituali del processo, i citta-dini rinnovano ogni giorno laloro fiducia nell’istituzione, ele riconoscono la capacità didire la verità e il potere di eser-citare la violenza. Preoccupazione principale diogni sistema processuale è cheil giudice ricostruisca la veritàcerta circa i fatti da provare,raggiunga una certezza indubi-tabile, ne tragga le conseguen-ze legali e formuli il giudizio.Tuttavia la verità pronunciatanon è una verità nel senso filo-sofico del termine, vale a direscientifica o storica, tratta dalcontenuto della questione inoggetto, ma è una verità for-male che trae la sua essenzadalla conformità al rito. Quellache era la verità fattuale si tra-sforma in un atto ritualizzato,in un discorso pronunciato dachi di diritto, e secondo il ri-tuale richiesto, riassegna, nellacollettività, le ragioni e i torti. Fa parte del senso comune direche un testimone ha detto il ve-ro oppure il falso, che la rico-struzione di una vicenda offertadalla requisitoria o da un’arrin-ga difensiva è vera o è falsa, cheuna condanna o un’assoluzionesono fondate o infondate per-ché qualificate da una versionedei fatti vera o falsa. Il concettodi verità processuale è insommafondamentale per gli usi che nefa la pratica giudiziaria, e per il

consenso che attorno ad essa sicrea. Ma che cosa s’intende perverità processuale? Innanzi tuttola verità processuale (o formale)non può che essere concepitacome verità approssimativa. Ilreale è, nella sua problematicitàe nella struttura probabilistica,molto più vasto e complesso siadel pensiero logico sia del ragio-namento giuridico che da quelpensiero deriva. La cesura traciò che è accaduto e ciò che sipuò sapere rimanda a quell’an-tica frattura fra oggetto in sé (ciòche è nascosto) e oggetto per noi(ciò che appare), che Kant risol-se in modo definitivo nell’insor-montabile opposizione tra nou-meno e fenomeno. Tuttavia pec-cheremmo di imperdonabilescetticismo se dicessimo chequesta distanza temporale ren-de non conoscibile il passato. Seattingere alla realtà storica inpresa diretta è impossibile, esi-ste una possibilità di provareche il fatto si sia verificato, os-servando un determinato pro-cedimento ricostruttivo chepossiamo definire probatorio. Al pari dello storico, il giudiceha di fronte a sé il fatto non co-me una realtà in quel momentoesistente, ma come qualcosa daricostruire. In questa particola-re ottica e con riferimento allasconfortante possibilità di ac-certare la verità di un eventoormai concluso, per i giudicicome anche per gli storici sitratta di provare che X ha fattoY. Per entrambi il risultato del-l’operazione prevederà sempreuna sia pur minima possibilitàdi errore: la verità stabilita, perquanto verificata e provata, ap-parterrà sempre all’ordine del-la probabilità e mai a quellodella certezza. La verità proces-suale che il giudice può arriva-re a definire è quindi una veritàapprossimativa. Si avvicina aquella oggettiva, fattuale, senzapoterla mai, di fatto, raggiun-

gere, essendo l’una una conget-tura costruita a posteriori, l’al-tra un fatto già avvenuto e con-cluso, e quindi non conoscibi-le. Ma a differenza dello stori-co che ricerca, o dovrebbe ri-cercare, una verità priva di sco-po, il giudice deve arrivare auna verità utile, che soddisfi leesigenze di ordine pubblico eche componga il conflitto crea-to dall’infrazione.Nel campo della giustizia cri-minale la garanzia della cer-tezza dei fatti da giudicare as-sume un’importanza del tuttoparticolare. È evidente che sesi tratta di mettere a repenta-glio la vita, la libertà, l’onore, ibeni, di un cittadino accusatodi aver violato le leggi, il pro-blema della verità da filosoficodiventa politico. Se nessunaprocedura di prova può assicu-rare una certezza assoluta, seogni verità giudiziale è neces-sariamente relativa, esigere chei giudici si pronuncino in fun-zione di una verità assoluta si-gnifica in realtà obbligarli amettere in opera conoscenzeche non sono loro proprie emezzi che possono confliggerecon il sistema di garanzie chetutela l’imputato. E, infatti,mentre per gli scienziati e pergli storici le ricostruzioni deifatti formulate possono esserecorrette dalla scoperta di nuo-vi dati o dalle critiche delle co-munità scientifiche, e quindi leloro verità possono essere falsi-ficate da ipotesi più adeguate,lo stesso non accade per i giu-dici i quali, salvo il contraddit-torio tra le parti che precede lasentenza e i gradi successivi delgiudizio, vedono alla fine delprocesso la propria verità con-sacrata dall’autorità della cosagiudicata. Se gli errori storio-grafici e scientifici sono fecon-di, non così quelli giudiziari, lecui conseguenze, la storia ci in-segna, sono spesso irreparabili.

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Molti sono entrati nel nuovomillennio camminando a ritro-so, con il viso rivolto all’indie-tro e con gli occhi fissi sulle fo-reste primeve del tempo tra-scorso, là dove lentamente simuovevano i mostri sauriani,chiamati Nietzsche, Freud,Heidegger. Per il loro andareretrogrado e per il loro esserecosì assorti nel passato, costo-ro sembrano destinati a cadererovinosamente nei baratri diaprassia politica e d’indetermi-nazione culturale, che sono allato del sentiero strettissimoed aspro del transito epocale.Come sempre e senza averneconsapevolezza, essi costitui-scono l’evidenza maldestra estonata di un brusio più diffu-so: nel transito le genti di que-sto pianeta sono traversate dalsentimento sempre più diffusodi un pericolo crescente, diuna minaccia sempre più gravealla sopravvivenza della specie.Si alternano nel sottofondo an-tropico di questo momento, inmodo spesso non esplicito ep-pur da ogni parte affiorante, lasospesa apprensione, l’attesadi una catastrofe imminente, laprevisione di una sofferenzaestrema o di una distruzionedell’umanità.Come dissennati profeti disciagura, gli schizofrenici dellaparte centrale del secolo vente-simo sentirono tutto questo evi dettero una loro espressioneche allora ascoltammo con ri-spetto e che adesso nessunovuol sentire più, nonostanteessi forse continuino a pronun-ziarlo. Si ricordano qui fra gliErlebnisse schizofrenici:

– la sospesa apprensione,Wahnstimmung di Hagen (sirimanda a Callieri e Semerari1959);– l’attesa immobile che non fi-nisce mai; – la spersonalizzazione e la de-realizzazione (si rimanda aCallieri e Felici 1968);– l’esperienza di stato di asse-dio;– l’Erleben della catastrofe im-minente (Katastrophale Stim-mungstönung des Erlebens diMüller-Suur);– la grande crisi del mutamen-to, della trasformazione e dellacatastrofe: Prozess-symptom diMauz; mutamento pauroso diCoppola);

– il sentimento di sprofonda-mento dinamico del mondo(Weltuntergangserlebnis diWetzel: cfr. Callieri 1955); – etc.Gli schizofrenici dei decennicentrali del secolo ventesimoanticiparono così – in qualchemodo – il sentimento di cata-strofe cosmica e antropica chepercorre il grande inespressocollettivo in questo momentodella storia.Se è vero che certi aspetti dellapsicopatologia rivelano stratiprofondi e sedimenti antichi diuna comunità e di una tradizio-ne, la superstizione metafisica,il pensiero magico e rituale, lalogolatria e l’aritmolatria deipazienti psichiatrici contengo-no tutti – in compresenza –l’intuizione della fine del mon-do: il Weltuntergangserlebnisdegli schizofrenici sembra, in-sieme, il ricordo di eventi stori-ci antichissimi e la profezia diun futuro vicinissimo.Mille anni fa, terribile e sugge-stiva, gotica e dark, avvolta daifumi e dai miasmi del piùprofondo medioevo, la profe-zia della fine del mondo avvol-se l’umanità cristiana nel do-minio buio e assoluto dellacolpa, della penitenza, dell’e-spiazione totale, segnale sicu-ro della presenza persistentenel sottofondo doxico-ideolo-gico delle genti di allora del-l’angoscia di distruzione tota-le, della leggenda del diluviouniversale, del racconto delbombardamento termo-nu-cleare divino di Sodoma e Go-morra, dell’attesa dell’Apoca-lisse: sentimenti profondi della

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Il mutamento pauroso del mondo

Sergio Piro

Sergio Piro è stato uno deipionieri della riforma psichia-trica italiana. Docente di psi-chiatria all’Università di Na-poli, ha studiato con partico-lare attenzione il linguaggioschizofrenico: ciò ha avutocome conseguenze, da un la-to, lo sviluppo di un atteggia-mento anti-istituzionale inpsichiatria (con una estesa se-rie di esperienze) e, dall’altro,il tentativo di formulare unateoria generale dell’accadereumano (antropologia trasfor-mazionale). Fra i suoi nume-rosi libri segnaliamo: Il lin-guaggio schizofrenico (Feltri-nelli, 1967); Le tecniche dellaliberazione (Feltrinelli, 1979);Introduzione alle antropologietrasformazionali (La Città delSole, 1997); Diadromica. Epi-stemologia paradossale transi-toria delle scienze dette umane(Idelson, 2001).

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collettività che sono ancora at-tivi e che formano forse la ba-se originaria, affondata e ine-spressa, dell’odierno presenti-mento. Fu quella di mille anni fa unaprofezia che non si avverò. Maoggi queste angosce profonde eirrazionali sono, in una giran-dola paradossale, tutt’altroche immotivate: la fine delmondo o, più propria-mente, l’estinzione del-la specie è oggi un pe-ricolo reale e non soloun’angoscia metafisi-ca o religiosa o su-perstiziosa come fumille anni fa. Coloroche sono più terro-rizzati dalla possibi-lità della catastrofenon sono le personecomuni, la gente in sen-so lato, gli scrittori di fic-tion, la gente del pop e delrap, bensì gli scienziati, i fisici,gli ecologi, i naturalisti, gli eco-nomisti, gli statisti lungimiranti(quanto pochi!): e la loro ango-scia non si attacca come una pe-ste mortale a una previsionemillenaria, immotivata e assur-da, bensì ai calcoli, alle statisti-che, ai dati dei loro strumenti,alle previsioni, alle analisi ditendenza, a tutto l’apparato no-motetico della ricerca rigorosa.E se coloro che si occupano discienze della natura tremanoper la trasformazione di un pia-neta, le cui condizioni materialie le cui caratteristiche fisichesono sempre più alterate, colo-ro che si occupano di scienzeumane sono terrorizzati dall’e-pifania dell’inclinazione autodi-struttiva della specie. Ma ancheora, come mille anni fa, l’attesa,l’angoscia, l’agitazione conta-giano le genti di tutto il mondoin presagio oscuro e in una con-sapevolezza lucidissima. La ca-tastrofica scena dell’attacco edel crollo delle Twin Towers, ri-

petuta tutti i giorni, senza posa,dalle televisioni di tutto il mon-do in una tragica litania chenon ha fine, annunzia la mortedel mondo e grida alla coscien-za allarmata delle genti che l’o-ra è vicina. La sospesa appren-

sione, la Wahnstimmung, il si-lenzio da incubo dello stato diassedio degli anni novanta, ce-dono ora, nell’inespresso di mas-sa che va facendosi compimentoriflessivo di significato, al terroreirrefrenabile della catastrofe to-tale, al panico, alla disperazio-ne. Il Dio Oscuro, polivalente-mente ed efficacemente cantatoda Stoppa, a Ground Zero si favisione reificata, unilaterale, fu-mante e tangibile.Gli schizofrenici sono i rabdo-manti del grande inespressocontinuamente fluente. L’ango-scia di fine del mondo, da sem-pre presente in diverse areeantropiche del pianeta e intempi diversi della storia, s’èfatta unitaria ed estesa sincro-nicamente quanto lo è la spe-cie, dopo il delitto atomico di

Hiroshima e Nagasaki: la finedel mondo si costituisce, dun-que, come tema protensionale(cioè intenzionale) unitario diun inespresso cosmico conti-nuamente fluente. Per il brevetempo in cui li abbiamo ascol-tati, dai tempi di Gebsattel,Straus, Minkowski, Müller-

Suur, Sechehaye, Callieri fi-no al momento dell’impre-

gnazione psicofarmaco-logica globalizzata, glischizofrenici hannoraccontato (qua e là,come potevano) lastoria finale della lo-ro specie. L’antitesi totale del-la catastrofe è il sus-surrante chiacchie-

riccio della possibilesopravvivenza: il desi-

derio di un altro mon-do è generica speranza di

salvezza, mentre, poco piùavanti, nel farsi riflessione e

protensione il desiderio di unmondo diverso è progetto po-litico generale, sforzo di at-tuarlo o di adoperarsi acché sirealizzi, passaggio alla prassi.Si diceva in un altro scrittodella differenza fra desideriodi un altro mondo e desideriodi un mondo diverso. In questaprospettiva convenzionale ildesiderio di un altro mondo è:ipotetico e desiderativo; gene-rico e retrospettivo; sognante;metafisico; agganciato alla sin-golarità, etc. Non si fa proget-to, non provoca ondate nellastoria. Per contro, pur rappre-sentando sovente la conse-guenza del desiderio di un al-tro mondo, il desiderio di unmondo diverso si presenta su-bito come prassi, come getta-tezza al di là. Il desiderio di unmondo diverso sembra essere:concreto, perché – in modonon eludibile – prevede ope-razioni di salvezza della spe-cie; trasformazionale, perché

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Caravaggio, Testa di Medusa(1601 circa).

Firenze - Galleria degli Uffizi.

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intuisce o prevede la necessitàdi trasformazione dell’esisten-te; antropologico o antropolo-gico-sociale, perché implica– sine qua non – un mutamen-to di mentalità, di ideologie,di progettualità, di organizza-zioni, di ordinamenti; politiconel suo tragitto protensivo dadesiderio a prassi; molteplice,perché numerose intenzioni(o, meglio, protensioni per illoro gettarsi nel futuro), si in-trecciano, si sovrappongono esi mescolano in una moltepli-cità di progetti differenti, ta-lora perfino contaminatori

e/o paradossali nel senso tar-skiano, del termine per la pre-senza appunto di protensionicontraddittorie.Le guerre ad altissimo poten-ziale distruttivo di questa par-te della storia, basate sulla ri-correnza moltiplicata deglistessi fattori primordiali dipossesso e di rapina, ma coin-volgenti ormai l’intera popola-zione terrestre, pongono in pe-ricolo l’esistenza dell’umanitàe tracciano il panorama di unpossibile suicidio della specie:la guerra che fu necessaria dal-la notte dei tempi per la so-

pravvivenza dell’orda conduceora – con un’inversione evolu-tiva tipica – all’estinzione.La lotta telica alla guerra, loscopo politico di un’umanitàpacifica ed unita non è un so-gno utopistico, né un retoricoatto d’amore, né tanto menouna missione religiosa, bensìuna rigorosa e immediata ne-cessità prassica per la salvezzadella specie: la sua mutazioneeirenica è chiaramente l’unicache può garantirne la soprav-vivenza, l’unica che può darun qualche senso all’esseregettati alla speranza. ■

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Nota bibliografica

Azzarà F.

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Lo stato d’animo delirante. Con-tributo psicopatologico, “Rivistasperimentale freniatria”, 83, 86.Cavalli Sforza L. L., Piazza A.,Menozzi P. a. Mountain J. L., Re-construction of Human Evolution:Bringing together Genetic, Ar-chaeological and Linguistic Data,“Proc. Natl. Acad. Sc.”, 85, 6002.De Martino E.

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Il passo del duemila, Grafo, Bre-scia, pp. 35-49.Introduzione alle antropologie tra-sformazionali, La Città del Sole,Napoli.Diadromica. Epistemologia para-dossale transitoria delle scienzedette umane, Idelson, Napoli.Esclusione Sofferenza Guerra, LaCittà del Sole, Napoli.Il desiderio di un altro mondo; ildesiderio di un mondo diverso,Roma, 7 dic. 2002 (in corso dipubblicazione).Revelli M.

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Le modifiche alla Legge Basa-glia, di cui si parla con sempremaggiore insistenza, dovreb-bero portare – a quanto si sa –alla riapertura di manicomi,addirittura privati, nei quali imalati mentali dovrebbero pa-gare il proprio mantenimentocon il denaro, o, se non ab-bienti, con il lavoro!La prospettiva della riaperturadei manicomi è orribile; e laproposta che è stata avanzata loè tanto di più perche fa intra-vedere che sarebbe commessaanche un’altra profonda ingiu-stizia. È facile prevedere, infat-ti, che in questi nuovi reclusorifinirebbero soltanto personeappartenenti alle famiglie me-no agiate, che non sono in gra-do di occuparsi di loro in casa,ne di pagare le rette di costosecliniche private. In queste, chesono pur sempre luoghi di se-gregazione, ma forse piùconfortevoli, finirebbero i pa-zienti ricchi, che non sarebberodefiniti matti, ma “affetti daturbe psichiche”, o, semplice-mente, da “esaurimento nervo-so”. Neppure dinanzi alla ma-lattia mentale, dunque, i citta-dini sarebbero eguali.E se poi i reclusi nei nuovi ma-nicomi non fossero neppuremalati mentali, ma soltanto po-veri? È una esperienza perso-nale che mi induce a porrequesto interrogativo. La voglioqui ricordare.Circa trent’anni fa misi piedeper la prima volta in un mani-comio, quello di Arezzo. Neaveva assunto da pochi mesi ladirezione Agostino Pirella, cheera stato uno dei primi colla-

boratori di Basaglia. I cancellierano stati aperti, le sbarre del-le finestre divelte. Camminavoinsieme a Pirella nel parco del-l’istituto quando ci venne in-contro una donna con un visogiovane, ma con i capelli d’ar-gento, bella. Salutò il direttoree gli chiese chi fossi. Rispose:«È una giornalista». Lei mi strinse la mano e mi dis-se: «Spero che racconterà le cosemeravigliose che stanno avve-nendo qui». Mi sorrise e si allontanò. Do-mandai: «La signora è un medico o unainfermiera?». «No – rispose Pirella – è A., ri-coverata qui dal 1944». «Ma è una persona perfetta-mente normale!». «Sì, lo è sempre stata, ma è po-verissima e non ha una fami-glia».Poi, la storia di A. mi fu rac-contata, in parte da lei stessa,in parte da Pirella. È questa:nel 1944, il paese in cui A., cheallora aveva 15 anni, vivevacon la sua famiglia fu oggettodi un violento bombardamen-to. A. si trovava in campagna afalciare il fieno; vide da lonta-no la sua casa crollare sotto lebombe e trasformarsi in un cu-mulo di macerie. Ore dopo,sotto i suoi occhi, dalle mace-rie furono tratti uno dopo l’al-tro i corpi straziati di sua ma-dre, di suo padre, di una sorel-la dodicenne, di un fratellinodi quattro anni, una intera fa-miglia distrutta insieme allasua abitazione. A. ebbe unacrisi di nervi, cui seguì uno sta-

to di choc. Fu portata in mani-comio e vi restò, dimenticata,per un quarto di secolo. Eraconsiderata una “pazza” tran-quilla, e fino all’arrivo dei nuo-vi psichiatri nessuno si accorseche era una persona perfetta-mente sana, che si prendevaamorevolmente cura delle altrericoverate.Pensai che la storia di A. fossedel tutto inconsueta, ma Pirel-la mi assicurò che non era cosìe mi presentò un altro ricove-rato, D. Questi era un giova-notto biondo, spigliato, simpa-tico. Aveva perduto entrambi igenitori, poveri lavoratori, inun incidente ed era stato rin-chiuso a sette anni in un orfa-notrofio. Era allora certamenteun bambino sconvolto dalcambiamento verificatosi nellasua vita, che sopportava malela disciplina di quel luogo, in-somma un bambino “difficile”.Il fatto è che a 14 anni fu tra-sferito in un istituto “di corre-zione” e di lì nel manicomio diArezzo, dove restò per anni,anche lui dimenticato da tutti.Era sano di mente e di corpo equando Io vidi la prima volta siaccingeva a frequentare unascuola alberghiera, alla qualePirella era riuscito a iscriverlo,contando di assicurargli poi unlavoro; comunque doveva tor-nare per i pasti e per dormirenel manicomio, perche nonaveva altra casa.Durante quella prima visita,Pirella mi fornì un’altra dimo-strazione di quello che mi ave-va detto, ancora più sconvol-gente. Vidi tre bambini, tra inove e i quattro anni, che si te-

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I poveri sono matti o i matti sono poveri?

Liliana Piersanti

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nevano a malapena in piedi,erano incapaci di parlare, sisporcavano, sbavavano.Pirella mi disse che non eranomalati mentali, bensì portatoridi gravi lesioni cerebrali.Erano stati abbandonati all’etàdi pochi mesi dalle loro fami-glie, tutte poverissime. Lui, nelmomento in cui aveva assuntola direzione del manicomio diArezzo, li aveva trovati chiusiin una cella, che si muovevanocarponi per terra, mugolandocome bestiole, tra gli escre-menti. Pensava di poter farequalcosa per loro, ma non sipoteva certo sperare in un re-cupero totale.In seguito sono tornata diversevolte in quell’istituto, soprat-tutto in occasione della festaannuale che si svolgeva nelparco, alla quale partecipava-

no assieme ai ricoverati anchenumerosi cittadini di Arezzo.Vi trovavo sempre A., che eradiventata la coordinatrice e laportavoce di una sorta di com-missione interna costituita daipazienti. Vi incontrai di nuovo,purtroppo, anche D. Avevaterminato la scuola alberghierae aveva trovato una occupazio-ne come cameriere in un risto-rante aretino.Dopo un mese di lavoro si erarivolto al padrone per il salarioe aveva ricevuto una somma pa-ri ad un terzo di quella percepi-ta dagli altri camerieri. Avevaprotestato: «Ma io ho lavoratotanto come loro e forse megliodi loro!». Il padrone aveva ri-sposto: «Ti pago di meno, per-che tu sei matto». Allora si eramesso a urlare, il padrone avevachiamato i carabinieri e D. era

stato riportato nell’istituto psi-chiatrico in manette.Incontravo sempre anche ibambini. Crescevano e le lorocondizioni miglioravano. L’ul-tima volta, li ho visti giocare apalla con un infermiere chenon li lasciava mai. Erano ingrado di muoversi normalmen-te, di mantenersi puliti, di direqualche parola. Il più piccolo,ormai sui sette anni, mi si avvi-cinò, mi prese il viso tra le pal-me delle mani e mormorò:«Mamma…».Cesare Zavattini intitolò unsuo libro I poveri sono matti. Ècertamente vero che i “matti”che finiscono in manicomio so-no sempre poveri. Anche perquesto bisogna impedire che imanicomi, sotto qualsiasi for-ma, siano riaperti.

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Heinrich Johann Füssli, Visione nella casa dei pazzi (1795-1800). Zurigo - Kunsthaus.

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Con una alef* il Maharal diPraga azionava il mitico Golemnella sua soffitta: in ebraico trala parola Verità, E-Meth, e laparola morte, Me-th, c’è solouna alef di differenza: toglien-do e riapponendo quella letterasi fermava o rivitalizzava l’azio-ne del Golem; così se togliamoun minimo elemento alla veritàrimane la morte. I Maestri nelle Massime deiPadri affermano «Il mondopoggia su tre cose: sulla giu-stizia, sulla verità e sulla pace,secondo quanto è detto “Ve-rità e Giudizio di pace giudi-cate nelle vostre porte”». Daltesto riportato notiamo unacontraddizione rispetto all’or-dine dei valori. Prima la Giu-stizia o la Verità? Ci può esse-re vera giustizia se una senten-za non è veritiera, come puòessere giusta una pace se nonè vera? Come può essere verase è ingiusta?Non a caso nel verso biblico laverità è al primo posto.Il passo analogo del trattato diAvoth recita: «Il mondo poggiasu tre cose: sulla legge (Torah)sul lavoro (o servizio divino) esulla benevolenza». È chiaro ilrapporto tra i due passi dovevengono messi in paralleloGiustizia e Legge, Verità e La-voro, Pace e Benevolenza. Il lavoro è il banco di prova del-la verità: nei rapporti interper-sonali si pone in discussione lamoralità del singolo, del lavora-tore come del datore di lavoro.Per chi interpreta Avodà comeservizio divino è ugualmente laverità l’elemento con cui in-staurare un rapporto duraturo

con la divinità, basato sulla sin-cerità e non sull’ipocrisia e lafalsità. Vediamo quindi qualcheverso della Bibbia.Il Midrash osserva che la paro-la e-me-th, verità, è formata dilettere con la forma molta lar-ga, mentre il suo contrarioshe-qe-r è composto da letteremolto vicine e con una solagamba; questo corrisponde aquanto dice il proverbio «lebugie hanno le gambe corte»;mentre la verità emet è forma-to dalla prima ed ultima letteradell’alfabeto, e la mem è la let-tera centrale; il discorso dellaverità abbraccia tutta la realtàdalla A alla Z.I due concetti si trovano con-trapposti nello stesso versoquattro volte nella Bibbia.Isaia: «Hanno espresso dalprofondo del cuore parole di

falsità, si sono tirati indietro daldiritto, la giustizia è affrontataperché la Verità è inciampataper strada, anche se noi aspet-tassimo non potrebbe venire».Geremia XIV, 13: «Ecco i pro-feti dicono di non temere laguerra, che la carestia non saràsu di voi perché vi dirò una Pa-ce veritiera in questa località,mi disse il Signore: i profeti an-nunciano falsità, profetizzanoin nome Mio anche se non liho inviati, non gli ho dato or-dine e non ho parlato».Proverbi XI, 18: «Il malvagiocompie azioni di falsità, mentrela ricompensa della Verità è ilseme di giustizia».Proverbi XII, 19: «Il linguaggiodi verità resisterà per sempre,finché calmerà la lingua falsa.L’inganno è nel cuore di chi se-mina il Male mentre c’è gioiaper chi propone pace».Passiamo quindi ad esaminareun’altra area semantica checoinvolge o meglio stravolge laverità. Il Falso coincide con l’i-dolo, Eidola, elemento vistocon gli occhi come rappresen-tazioni o frustrazioni. DallaTorah emergono numerosi ver-si contro l’idolatria che sono ineffetti affermazioni di veritàcontro un elemento estraneo alSignore. Il principio fonda-mentale del divieto d’idolatriaè di non prestare culto a nessu-no degli elementi creati, nè adun angelo né ad una sfera cele-ste, nè ad alcuno dei quattroelementi della Creazione nè anessun altro Essere, perché ilSignore li ha creati.Per questo la Bibbia vieta neiDieci Comandamenti di farsi pe-

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Verità e morte

Umberto Piperno

Umberto Piperno è Docenteal Collegio Rabbinico Italianodi Roma ed al Corso di Lau-rea dell’Istituto superiore diStudi ebraici. Dal 1996 rico-pre la cattedra rabbinica delFriuli Venezia Giulia. È do-cente di Pensiero PoliticoEbraico presso l’Università diTrieste (Scienze e Tecnichedell’Interculturalità) e di Di-ritto ebraico presso la Facoltàdi Scienze Politiche.

*(o aleph), la prima lettera dell’al-fabeto ebraico. Venne usata da G.Cantor per indicare, munita di unindice (0, 1,…), i successivi nume-ri cardinali infiniti da lui costruitiservendosi della sua teoria degliordinali transfiniti.

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sel idoli o immagini (Es. XX, 4)Paradossalmente il verbo P-S-L significa anche scolpire, rita-gliare; ed il Signore usa questoverbo per ordinare a Mosè direalizzare le seconde Tavoledopo la rottura della primaopera divina, causata dal vitel-lo d’oro. L’opera umana chesostituisce quella divina nonpuò mai riprodurne la verità.Nel pensiero ebraico il proble-ma del raggiungimento dellaverità è centrale secondo Mai-monide.Leggiamo nel Mishnè ToràhHilkhot Yesodei Toràh, I, 4):«Quando il profeta afferma: “IlSignore è veritiero” significache solo il Suo Essere è verità enessun altro Essere ha una ve-rità simile alla Sua. Ciò corri-sponde a quanto dice la Torah:non c’è altro all’infuori di Lui,“cioè a dire che non è pensabi-le il concetto di verità di naturadivina oltre la Sua realtà”». Ed ancora (Hilkhot YesodeiTorah Cap. I, Norma 10) checosa cercava Moshè Rabbenudi raggiungere quando ha detto«Fammi vedere la tua Gloria»? Mosè cercò di conoscere la ve-rità dell’esistenza del Signore inmodo che fosse conoscibile dal-la sua mente come la conoscen-za di un uomo che si vede instrada, e la sua forma esterioreche rimane impressa nella men-te in modo che quella personarimanga separata nella sua co-noscenza dalle altre persone:così Mosè chiedeva che l’esi-stenza del Signore fosse separa-ta nella sua mente da tutti gli al-tri esseri esistenti fino a cono-scerne la verità della sua esi-stenza; così come gli ha rispostoDio Benedetto che la mentedell’uomo vivo non ha il poteredi raggiungere la verità di que-sto concetto in forma semplice.Mosè arriva al punto di rag-giungere la verità dell’esistenzadivina nel comprendere ciò

che separa il Signore da tuttigli altri esseri, intuendo la suaessenza come un uomo cheviene visto da dietro. Così Mo-sè comprende il suo Essere ecomportamento con la mente:a questo proposito gli dice«vedrai il dietro, ma il Mio vol-to non si farà vedere».Nei 13 fondamenti o principidell’ebraismo formulati daMaimonide il concetto di ve-rità coincide con la Torah e

con la profezia. Mosè è chia-mato “Neeman in ogni casa”cioè a dire fedele in ogni ele-mento nel comprendere la ve-rità del Signore insieme con laverità della Torah. Così il filosofo Bahjà Ibn Paqu-da definisce il Signore Iddioquale Uno Vero nel capitolo IXdella sua opera I doveri dei cuo-ri: «La prova che il Creatorebenedetto è Uno vero e chenon c’è unità assoluta oltre la

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Bottega di Lazzaro Bastiani, David e la Sulamita. Venezia - Museo Correr.

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sua è la seguente. Ogni cosacomposta viene a completa esi-stenza solo mediante la compo-sizione delle parti che la costi-tuiscono e cioè mediante l’uni-ficazione e il principio dellacomposizione. Questa e l’unità.L’unità assoluta non si trova inalcuna cosa creata né può, inverità, essere attribuita ad es-seri creati. Poiché l’unità esi-ste negli esseri creati comeuna proprietà accidentale e,avendo avuto un segno e laprova che solo il Creatore èUno, noi sappiamo con certez-za che l’unità che attribuiamometaforicamente ad ogni crea-tura deriva dall’Uno assoluto etale Unità può essere attribui-ta soltanto all’eccelso Creatoredi tutto che è il Vero Uno eche non ve n’è altri all’infuoridi Lui, come abbiamo ricorda-to prima. Tutte le implicazio-ne dell’Uno assoluto, cui si èaccennato, non si addiconoche a Lui solo, mentre tutte leproprietà della molteplicità,delle accidentalità, dei muta-menti, dei movimenti e dellesomiglianze, così tutto ciò chenon si addice all’Uno vero nonpuò essere attribuito a Dio be-nedetto, come disse David:“Molte cose Tu hai fatto, o Si-gnore mio Dio, i tuoi prodigi ei Tuoi pensieri sono rivolti anoi, nessuno è paragonabile aTe”. Ed inoltre: “A chi mi pa-ragonereste e a chi sarei ugua-le? Dice il Santo benedetto”.Ed ancora: “A chi lo parago-nereste? Quali immagini diLui potete preparare?” e:“Chi è pari a Te fra gli dei, nonvi sono opere uguali alle Tue”ed ancora: “Nessuno è pari aTe, Tu sei grande e grande inpotenza è il Tuo Nome”. Èstato dunque spiegato ed ac-certato che il Creatore bene-detto è l’Uno assoluto, né vi èaltro vero Uno oltre a Lui.Non esiste altro all’infuori del

Creatore cui sia applicabile iltermine di Uno, perché sequesto è Uno da un certo pun-to di vista, è molteplice da unaltro. Solo il Creatore, comeabbiamo spiegato è Unico sot-to ogni aspetto».Nel pensiero ebraico non c’èdistanza tra chi afferma la ve-rità e il contenuto stesso. Neldiritto penale il testimone èconsiderato valido solo se ve-ro; deve essere concorde conun secondo elemento nella te-stimonianza oculare ed è tal-mente coinvolto nell’evento daaver avvertito il colpevole ri-cordandogli il verso della To-rah e la pena per il reato. Ilpensiero moderno afferma chela verità del Signore, della To-rah e del popolo ebraico sonoun unico elemento.C’è identificazione perfetta tra ilSignore e la Legge e questo por-ta alla immodificabilità della To-rah nel tempo. La verità quinditrascende il tempo così come lotrascende l’entità divina. Il tempo è variabile, mentre laverità è invariabile: ogni matti-na l’ebreo recita “l’AscoltaIsraele” che finisce con le paro-le «Io sono il Signore VostroDio» ed il pubblico aggiungeimmediatamente «Emeth», èvero. Poi si dice subito: è co-stante, stabile, infallibile, giu-sto, invariabile, venerabile, su-blime, perfetto. Si riaffermano tutte le verità, af-fermiamo il Suo intervento nel-la Storia (liberazione dall’Egit-to) per sottolineare che è la ve-rità a render vera la dimensionestorica del popolo ebraico: solonel passaggio dalla schiavitù fi-sica alla libertà di aderire allaverità del Signore, il popolod’Israele si afferma come ele-mento reale della Storia. Nelsogno della scala di Giacobbegli altri popoli rappresentati informa di angeli salgono in cima,ma poi scendono, mentre il po-

polo ebraico passa gradualmen-te dalla Terra al Cielo. La verità non è solo l’aspettopiù rilevante della Legge (Torà),ma coincide con il popolo d’I-sraele: «Darò verità a Giacob-be, favore ad Abramo che haigiurato dai tempi antichi». Giacobbe rappresenta il pa-triarca che deve ricorrere a sot-terfugi per sopravvivere a co-minciare dalla lotta per la pri-mogenitura, Giacobbe deveprendere per il calcagno Esaù,deve acquistare con la primo-genitura la dignità morale espirituale. Dopo la lotta conl’angelo diviene Israel, ha unafunzione globale, rappresentail popolo ebraico che è veroperché ha una dimensione ter-rena e storica che supera la lo-gica militare, sociale ed econo-mica, ma si afferma comerealtà vera per il suo legamecon la radice metafisica. L’al-ternativa tra verità e favore èvissuto dalla mistica ebraicacome il passaggio del Signoredal trono della Giustizia aquello della Misericordia, par-ticolarmente nei giorni peni-tenziali, per stendere la manoverso i colpevoli e ritrovare lastrada della verità. Nell’era moderna la verità di-vina si è confrontata con il tre-mendo problema della Shoàper divenire una verità nasco-sta. La verità del Signore coin-cide con il Suo nascondimen-to, si trova nella Luce nascostache non riesce a spezzare le te-nebre dell’Orrore.Per farla risplendere occorrel’impegno dell’umanità tutta,far coincidere verità, giustiziae pace per rafforzare le colon-ne del mondo, per costruireuna società bastata sulla ve-rità; vera vita che sconfigge lamorte, verità che parte dalcontributo di tutti noi, per ap-porre la nostra piccola alef peruna vita di verità. ■

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Fede e ragione «La fede e laragione sono come le due alicon le quali lo spirito umano siinnalza verso la contemplazionedella verità»: è questo l’incipitsuggestivo dell’enciclica di Gio-vanni Paolo II Fides et ratio.La tradizione cristiana, in mo-do particolare la tradizionecattolica, ha condiviso un con-vincimento fondamentale: fedee ragione sono sorelle, non av-versarie. Anche la ragione in-fatti è un dono di Dio e per uncredente è un dovere avere fi-ducia nella ragione ancor dipiù di un non credente. Il sommo maestro San Tomma-so d’Aquino (1225-1274 dome-nicano), ha insegnato a non averpaura di un uso maturo e re-sponsabile della ragione. Gio-vanni Gentile scrive di lui:«Tommaso ha una grande fidu-cia nella forza della ragione; ve-de in essa un riflesso della lucedivina della nostra anima. La ra-gione è una illustratio dei; conessa si affida per respingere tut-ti gli errori dei miscredenti enon teme di arrischiarsi conAristotele, con Averroè (gli ara-bi avevano portato Aristotele inEuropa) e con tutti i pagani. Ese una fede invincibile lo assicu-ra che la Verità Rivelata non po-trà mai contrastare con la VeritàDimostrata, perché l’una e l’al-tra vengono da Dio, da questafede stessa attinge un ingenuo eincrollabile coraggio per darsitutto in balia della ragione stes-sa e con essa navigare libero e si-curo nell’oceano della più ardi-te speculazioni, valutate tuttecon occhio tranquillo nelle sue“Somme”». Una ragione aperta,

aperta anche all’ultima paroladella ragione stessa – come siesprimeva Blaise Pascal –, che èquella della fede, senza com-plessi di inferiorità. Una ragioneilluminata dalla fede, ma che siaesercizio corretto, sincero, one-sto, senza finzioni.Quindi: né ragione senza la fe-de o contro la fede, né fedesenza ragione o contro ragione.Quello che è irrazionale nonpuò essere oggetto di fede.Non: credo quia absurdum (cre-do perché assurdo) ma credoperché è credibile; oltre la ra-gione ma non contro la ragio-ne. Non ci è chiesto di negare osacrificare la ragione che è ilprimo strumento di accosta-mento alla realtà; certamente ciè chiesto di dilatare la ragioneal massimo delle sue possibilitàfino a inverarla, compierla e su-perarla nella fede.Il cristianesimo, pur con sensi-bilità e accentuazioni diverse,

rifiuta due estremi: il razionali-smo e il fideismo. Il razionali-smo, ovvero: la ragione e solola ragione. Il fideismo: la fede esolo la fede, senza la ragione eanche contro la ragione.Certamente nel cristianesimoesiste anche il riconoscimentodei limiti della ragione. A Pari-gi, insieme a San Tommasod’Aquino, insegnava ancheBonaventura da Bagnoregio(1221-1274, francescano): è l’e-rede medievale della tradizioneagostiniana, platonica, mistica.Scrive San Tommaso: Quelloche vi è di più perfetto negliesseri intelligenti è l’operazio-ne dell’intelligenza, per cui labeatitudine di un essere intelli-gentemente creato consistenell’intelligenza. Questa è lanostra beatitudine.Gli replica – più o meno – SanBonaventura:Non basta la speculazione senzala devozione, non basta l’inda-gine senza la meraviglia, nonbasta la scienza senza la carità,non basta l’intelligenza senzal’umiltà, non basta lo studiosenza la grazia.Queste sono le due anime, nonin lotta ma in feconda tensionetra di loro. Nel paradiso dante-sco, troveremo questi due san-ti amici ed avversari assieme,nei canti X e XI.Lungo la seconda linea si collo-ca anche Martin Lutero. Eglinon nega la possibilità di unaconoscenza naturale di Dio e,in qualche modo, della sua vo-lontà, con i relativi sviluppi dot-trinali e teologici. Ne contesta,però, la consistenza (a quale li-vello può arrivare?), il senso (a

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Quale verità?

Orioldo Marson

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che cosa serve?), l’utilizzo (conil rischio di abuso da parte del-l’uomo peccatore, in riferimen-to a 1 Cor 1,21). Solo la rivela-zione può farci arrivare alla co-noscenza vera del Dio solidalecon noi nella Croce di GesùCristo: In Christo crucifixo estvera theologia et cognitio Dei.Per concludere. Il Papa ripren-de, nella Fides et ratio un’affer-mazione che era già stata diSant’Agostino (354-430) e diSan Tommaso: Credo ut intelli-gam - intelligo ut credam (Credoper capire-capisco per credere).Entrambe le affermazioni sonovalide e vanno tenute in sana efeconda tensione, sempre conumiltà; non è l’intelligenza inquanto tale che produce l’erro-re, ma è il cattivo uso di essa,soprattutto la presunzione difare di essa l’unico metro.Il Cardinale Martini, ad esem-pio scrive in un inserto dome-nicale de «Il Sole 24 ore»(25.x.1998), intitolato Là doveosa la ragione: Sappiamo chel’Illuminismo nasce dall’affer-mazione sapere aude (osa sape-re). Abbi il coraggio di servirtidella tua intelligenza: è questoil motto dell’Illuminismo. Scu-satemi: se si arriva a questopunto e se un’affermazione delgenere diventa motivo di con-trasto con la tradizione cristia-na, significa che qualche cosas’era profondamente rotto,perché Tommaso avrebbe sot-toscritto completamente un’af-fermazione del genere.«Sapere audere»: è questo ilmotto dell’Illuminismo – con-tinuava Kant – «ma io odo daogni parte gridare all’uomo dichiesa: Non ragionate, ma cre-dete». Sulla soglia dell’età mo-derna il primato della ragionesembra non potersi affermaresolo a scapito della coscienzacredente. La luce della ragionedissiperebbe l’oscurità dellatradizione religiosa.

Abbiamo alle spalle in questi ul-timi secoli, nonostante Tomma-so, una lunga storia di incom-prensioni e diffidenze e proprioper questo in questi incontri vo-gliamo metterci in ascolto e indialogo con la scienza.Oggi questo dialogo tra Ragio-ne e Fede è meglio praticabile,infinitamente meglio che noncento anni fa.

Quale verità circa il bene?

È irrinunciabile, oggi più chemai, sulla base delle considera-zioni precedenti, una medita-zione esigente – non debole otimida, e meno ancora rinun-ciataria o qualunquistica – sul-l’agire morale della persona,per rifondare convinzioni circacriteri e regole del comporta-mento. Questo è il terreno filo-sofico e teologico riguardante

la moralità degli atti umani:che cos’è il bene? Quandoun’azione è buona? Si tratta dicercare in profondità e di tro-vare delle indicazioni che sianogiustificabili alla luce dell’espe-rienza e della storia, della fedee della ragione. Abbiamo biso-gno di un pensiero etico esi-gente, molto esigente, per evi-tare derive di carattere sogget-tivistico; e di un pensiero checerchi il massimo di conver-genze possibili, con credenti diogni fede e con non credenti.Non basta, ad esempio, consi-derare come decisive le inten-zioni. Esse hanno il loro peso eil loro rilievo ma, da sole, nondecidono della bontà o dellacattiveria di un comportamen-to. «A fine di bene» si rischiadi combinare tanti guai. Que-sto atteggiamento può portarea derive spontaneistiche o a ce-dere ad un soggettivismo per-sino banale o effimero.Non basta nemmeno il calcolodelle conseguenze e degli effet-ti, atteggiamento in sé comun-que realistico e responsabile.Questa impostazione, oggi, in-contra un successo crescente.Si ragiona così: vediamo qualiconseguenze o effetti ha que-st’atto; se le conseguenze sonosostanzialmente positive, l’attoè buono; se le conseguenze so-no negative, l’atto è cattivo. Èun’impostazione sufficiente?Non ritengo. Certo questaconsiderazione è parte di unariflessione, ma non la esauri-sce. Non può essere il calcolodelle conseguenze l’elementodeterminante rispetto alla qua-lità morale dell’agire umano. Sitratta di un’impostazione uni-lateralmente pragmatica. Non bisogna nemmeno enfa-tizzare il peso e il ruolo dellecircostanze e quindi dei condi-zionamenti. La necessaria con-sapevolezza dell’intreccio difattori interni e esterni nell’e-

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Parmigianino, Visione di San Girolamo(1527). Londra - National Gallery.

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sercizio della libertà non puòportare a posizioni di tipo fata-listico, favorendo l’abdicazio-ne rispetto all’assunzione di re-sponsabilità e alla fatica del di-scernimento. Se si procede inmaniera assoluta e radicale suquesta strada, si nega la libertàe allora i nostri discorsi sul be-ne e sul male non hanno piùconsistenza. I cosiddetti condi-zionamenti, più che essere con-siderati vincoli o remore o im-pedimenti, possono essere in-vece considerati le condizionireali e concrete dentro le qualie attraverso le quali siamochiamati a prendere delle deci-sioni e quindi a agire umana-mente. Sono le condizioni of-ferte alla nostra intelligenza,quindi alla nostra libertà e re-sponsabilità, per poter decide-re quello che può essere me-glio, dentro comunque allaconcretezza e alla realtà. Talora anche un certo estrinse-cismo biblico o un certo bibli-cismo estrinseco rischiano dinon favorire la causa della fon-dazione dell’agire morale, co-me anche del dialogo all’inter-no della comunità ecclesiale enell’areopago culturale. I co-mandamenti del Signore, nellastoria della sua rivelazione e at-traverso la Parola ispirata, aiu-tano a trovare e a riconoscerein maniera più luminosa quelloche con l’esperienza, la ragionee il cuore tutti sono tenuti acercare, a scoprire e a seguire,almeno a tentoni. Iussum quiaiustum, non viceversa.È allora possibile, su un pianoformale ma non evanescente,dire qualcosa di più preciso suciò che è bene e su ciò che èmale, su ciò che è decisivo perla qualità eticamente positiva onegativa di un atto? L’orienta-mento da seguire – un orienta-mento esigente – è quello dicercare i criteri della moralitànell’esame dei contenuti stessi

delle scelte e nella loro relazio-ne con i fini ultimi della perso-na. La tradizione culturale e fi-losofica – senz’altro la tradizio-ne che ha nelle radici ebraico-cristiane il suo riferimento – èorientata in questa direzione:un atto è moralmente buonoquando è conforme alla veritàdella persona, ovvero quando ècoerente con il senso della vitain relazione ai fini radicali e ul-timi della persona. È bene ciòche ha senso – autentico,profondo, vero – per la perso-na come essere relazionale ecomunitario; per la personaconsiderata nell’insieme dellesue dimensioni. La radice piùimportante di questa imposta-zione – ed è una radice che vie-ne da fondamenti ebraico-cri-stiani – è il personalismo comu-nitario in prospettiva religiosa.Ritengo che la filosofia moralee l’impegno educativo debba-no continuamente attingere aquesto fondamento forte e fe-condo, al fondamento del per-sonalismo comunitario. Anzi,ritengo che dobbiamo ancorasvilupparne tanto nella teoriaquanto evidentemente nellapratica tante implicazioni. Fi-nora abbiamo operato una co-niugazione a senso unico delprincipio personalistico: unacultura del soggetto e dei dirit-ti. Occorre andare verso unacultura dell’altro come sogget-to, e ad un cultura dell’Altrocome mistero presente.Siamo arrivati ad una elefantia-si della soggettività, all’enfatiz-zazione selvaggia e sregolatadell’io e del mio, ad una conce-zione dell’autonomia-autosuf-ficienza-autarchia che tende avedere gli altri come incidentidi percorso, intrusi da scansa-re, strumenti da adoperare. Ilmito di Narciso: io contemplome stesso, difendo me stesso,sviluppo me stesso.– Io: questo rischia di essere il

baricentro della nostra cultura,il centro gravitazionale che tut-to attira e attorno al quale tut-to deve ruotare, l’asse-il perno-il fulcro di ogni cosa. È ancorauna cultura del maschio, e unacultura della guerra. Si tratta di camminare versouna cultura dell’altro soggetto,e quindi dei doveri, ricavandole conseguenze dalle premes-se: un’antropologia dell’alte-rità, un umanesimo dell’altrouomo, un’etica del volto al-trui. È la ricerca di un nuovoparadigma culturale e filosofi-co, di una filosofia e di unateologia della liberazione eu-ropea: liberazione dalla asso-lutizzazione del soggetto.Il riconoscimento del valore edel significato della persona,del suo primato e della sua di-gnità, va considerato come unagrande conquista della culturaoccidentale. Il filosofo Kant loaveva raccolto: la persona nonpuò mai essere adoperata co-me mezzo, ma sempre come fi-ne. Il cammino non è conclu-so, ma appena iniziato.Fare il bene, cioè quello che èil bene dell’altro, significa agiresecondo verità nei confronti dise stessi e della realtà, e quindidentro ad una logica di senso edi vita.

Quale verità su Dio?

– Non ci sono competenze esclu-sive. La tradizione cristiana èconvinta di una verità: non cisono competenze o competentisu Dio. Esistono esperti e spe-cialisti in esegesi, teologia ostoria, ma nessuno può essereconsiderato un esperto o unospecialista sul mistero assoluto.D’altra parte i cristiani ricorda-no la lezione fondamentale delPrimo Testamento.– Vedere Dio significa morire,ripete – quasi come in un ritor-nello – il testo biblico (cfr. Es34,20). L’uomo non é in grado

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di reggere o portare il caricoluminoso, affascinante e terri-bile, della gloria di Dio.– A Mosè, che desidera vedereil volto di Dio, viene concessodi scorgerne la schiena.Come a dire: il volto, l’identitàintima del Dio vivente, è sem-pre oltre lo sguardo umano. Lasua gloria si mostra e nellostesso tempo si nasconde.– Altrettanto è impossibile co-noscere il nome di Dio, così dapoterne decifrare le caratteri-stiche e pensare di detenerneun possesso, come nelle prati-che magiche– Non dimentichiamoci il co-mandamento: Non ti farai al-cuna immagine di Dio. È il di-vieto di qualsiasi rappresenta-zione per il pericolo dell’idola-tria, cioè della proiezione nel-l’immagine di Dio dei nostridesideri e dei nostri bisogni,oppure dello spirito del tempoe delle mode culturali. Questodivieto riguarda anche l’imma-gine paterna di Dio, che è im-magine importante e preziosa,prima e fondamentale, irrinun-ciabile perché consegnataci daGesù Cristo, ma che rimaneun’immagine di Dio, il quale ècomunque oltre e altro rispettoa qualsiasi immagine. C’é sem-pre il rischio di vantare cono-scenze riservate e superiori ri-guardo Dio; un rischio da cuiguardarsi per la nostra salute eanche per la qualità della no-stra proposta.Dio è il mistero. Mistero è unabella parola che deriva da untermine greco che significa:chiudere la bocca, quando nonsi sa cosa dire o non si può onon si vuole dire niente. Miste-ro adorabile e amabile: da ado-rare e da amare, non da spiega-re. La realtà più grande e pre-ziosa che ci sia. «Santo, santo,santo» canta il profeta Isaia eripete la liturgia dei cristiani.Significa: «Altro, altro, altro».

Il tre-volte-Santo spezza ognipresunzione di conquista e didefinizione.– L’affidabilità di Dio, l’inaffi-dabilità del linguaggio. Dionon ha bisogno di difendersi.Il nostro compito non è quellodi dimostrarlo o di spiegarlo.Si può, se si vuole, e certamen-te si deve cercare di testimo-niarlo ed evocarlo. Testimo-niarlo con la vita e con le ope-re; ed evocarlo, cioè farlo sor-gere dal profondo delle perso-ne oltre che in noi stessi.Le persone più adeguate perparlare in qualche maniera diDio, prima ancora dei teologi edei biblisti, sono i santi. Cioè lepersone più vicine a Dio, quel-le che seguono più profonda-mente Gesù Cristo. I santi (adesempio i mistici o i testimonidella carità) e i poeti. Lo statu-to del discorso su Dio é deltutto singolare.Dio non è un oggetto disponibi-le, cioè una realtà al di fuori dime o che viene posta davanti ame. Dio non é estraneo o sepa-rabile rispetto a me. Dio mi ap-partiene ed io appartengo a Dio.La comunicazione dell’espe-rienza di Dio è un fatto molto

delicato. Non si può immagina-re che qualsiasi circostanza equalsiasi occasione sia buona.C’è qualcosa sempre di delicatoe di misterioso, nel rapporto conDio ed in ogni discorso su Dio.– Gesù di Nazareth, l’esegeta diDio Padre (Gv 1,18). Il cristia-nesimo è convinto profonda-mente e coraggiosamente diun’altra verità: il massimo diquello che Dio ha detto e do-nato all’umanità, l’ha detto edonato in Gesù di Nazareth.Con tutto ciò che vive, fa e di-ce Gesù annuncia il volto e l’a-more di Dio. Egli è la rivelazio-ne, l’icona, l’esegesi di Dio Pa-dre. In Giovanni 1,18 il Vange-lo afferma: «Dio nessuno l’hamai visto: proprio il Figlio uni-genito, che è nel seno del Pa-dre, lui lo ha rivelato», letteral-mente è «ne ha fatto l’esegesi».Dio è divinamente come Gesùè umanamente: potremmo direcosì, pur nell’assoluta trascen-denza del mistero divino. Gesùè la donazione e la rivelazionedel volto di Dio, la parola suauscita dal silenzio eterno.Gesù si rivolge a JHWH chia-mandolo Abbà: in manierapersonale e diretta. Nel Vange-lo di Marco (14,36), scritto ingreco, è riportata la parolettaaramaica stessa Abbà. Anchedue testi paolini riportano que-sta parola aramaica: La letteraai Galati e La lettera ai Romani. È una parola infantile, una del-le primissime parole che ilbambino impara a pronuncia-re. «Non appena egli sente ilsapore della culla (cioè quandoè divezzato), dice abbà, immà(papà, mamma), si legge nellatradizione ebraica. Anche di-venuti adulti, i figli continuanoa usare questa parola con at-teggiamento di confidenza e dirispetto, in un clima affettuo-samente familiare» (Catechi-smo degli adulti, 166). Era pu-re diventata una formula di

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Il Borgognone, Cristo risorto.Basilica di Sant’Ambrogio - Milano.

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verità, dubbio, finzione

cortesia nei confronti dei mae-stri o di persone autorevoli,per cui anche le traduzioni:«babbo», oppure «caro papà»risultano inadeguate.Rivolgersi a Dio in quel mododeve essere stato qualcosa disorprendente, forse di incredi-bile e di sconcertante. «Chiama-re Dio familiarmente “papà”,come fa Gesù, appare cosa inso-lita e audace» (ivi). E Gesù invi-ta anche i suoi discepoli a farealtrettanto. Questo linguaggiodella preghiera implica tutto unmondo interiore, offre la baseper la riflessione cristiana suDio e costituisce nello stessotempo un segno prezioso dellasingolarità di Gesù.

Quale verità nel dialogo

inter-religioso e intra-reli-

gioso? Mi son sentito rivol-gere in quest’ultimo periodofrequentemente una domanda:«Che cosa vuol dire dialogo in-ter-religioso?». L’atteggiamen-to e il tono in genere rivelanoun serio e preoccupato interes-se: la ricerca di qualche chiari-mento, in una situazione chepresenta elementi vistosi ecomplessi di novità; in qualcu-no l’incertezza e la confusionesembrano più pronunciate, inaltri la difesa della propria sto-ria e identità portano a senti-menti di chiusura e di ostilità.Questa domanda va presa mol-to sul serio. Tocca passaggi esfide di carattere religioso eculturale che le nostre popola-zioni stanno vivendo giornodopo giorno. Personalmente, a livello teolo-gico, ho seguito e continuo aseguire con viva attenzione ildibattito suscitato dalle posi-zioni del padre gesuita JacquesDupuis, già docente alla Ponti-ficia Università Gregoriana diRoma. Credo che alcune riser-ve nei confronti del suo pen-siero nascano, più che dal con-

tenuto reale delle sue afferma-zioni – che non ritengo contra-rie al senso di fede della Chie-sa – dal timore delle conse-guenze o delle semplificazionidegli orientamenti e delle pro-spettive che egli propone. In un brano evangelico (Gv1,29-34), Giovanni Battista in-dica Gesù con queste parole:«Ecco l’Agnello di Dio, eccocolui che toglie il peccato delmondo!». Nella stessa pagina,il Battista continua: «E io hovisto e ho reso testimonianzache questi è il Figlio di Dio».Per i cristiani di ogni tempo edi ogni luogo, Gesù è il Mes-sia, il Signore, il Figlio di Dio.Le celebrazioni del Natale edella Pasqua annunciano ognianno in maniera luminosa ilcuore della fede cristiana: Dios’è fatto uomo. Tutto questocostituisce il “vangelo” cristia-no. Senza questo “vangelo” ilcristianesimo si dissolve inqualcos’altro. I cristiani sono anche convinticontemporaneamente che loSpirito opera nella storia e nel-la cronaca dell’umanità intera;le religioni dei popoli hannoun loro significato nel pianosalvifico generale di Dio. Già iPadri antichi parlavano congioia dei “semi del Verbo” dis-seminati lungo i solchi delle di-verse tradizioni religiose.Il dialogo interreligioso, oltre acorrispondere a profonde esi-genze personalistiche di rispet-to e di comunicazione, si svi-luppa a partire dalla convin-zione della grandezza dell’ope-ra di Dio nelle vicende dell’u-manità: tutti abbiamo qualcosada imparare dagli altri. È undialogo che si svolge a livellimolto vari e articolati, magarianche in forme e sedi ufficiali ospecialistiche, ma che riguardacomunque ogni credente, nellacondizione concreta in cui sitrova. Non può essere solo “in-

ter-religioso”, ma deve diven-tare “intra-religioso”, cioè in-terno alle persone, alle comu-nità, alle religioni.Rimane vero che il dialogo piùfecondo si costruisce là dove cisono radici ben piantate e ric-che; sono queste radici chepermettono di affrontare ilconfronto in maniera aperta eserena, senza cedimenti al rela-tivismo di moda e a sincretismiartificiali. Sono d’accordo con quanti av-vertono come problema la per-dita di memoria, di tradizionee dunque di radici, e di radicicristiane, nelle nostre genera-zioni. Risulta senz’altro impor-tante un’opera storica e cultu-rale rivolta a creare o rinsalda-re sentimenti e vincoli di iden-tità e di appartenenza. Sonoperò ancor di più convinto chequest’opera non può essereimmaginata e realizzata comeun ritorno all’indietro ma co-me un’impresa creativa, so-prattutto se ci si riferisce allafede cristiana. La nuova evan-gelizzazione non ha niente daspartire con chiusure nostalgi-che o integralistiche.Insieme al dialogo inter-reli-gioso si può e di deve, infine,riconoscere il valore e il signifi-cato dell’annuncio missiona-rio. La Chiesa e i cristiani nonpossono rinunciare ad annun-ciare il Vangelo a chi cristianonon è. L’annuncio è la propo-sta semplice e disarmata di ciòche è più caro, che non si puòimporre né barattere ma solooffrire e testimoniare come do-no di senso e di vita. Madre Teresa di Calcutta, ri-petutamente ripresa in questoperiodo, diceva: «Amo tutte lereligioni, ma sono innamoratadella mia». È importante chetutti gli uomini religiosi si sco-prano persone innamoratesenza gelosia, ma con gioia re-ciproca. ■

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Di ritorno da un viaggio inAfrica, alla stazione di Mestre,mentre attendevo il treno, misentii chiamare ad alta voce. Sitrattava di Gilberto, uno tra ipiù vivaci ed interessanti deimiei alunni di liceo. Dopo lasua maturità non ci eravamopiù visti.«Lei non lo crederà – mi fecesubito, salutandomi sorpreso –se le dico che io non ho dellepersone con cui parlare diquello che veramente mi inte-ressa. Mi succede di simpatiz-zare inizialmente quando c’èun incontro nuovo, poi, vistoche le discoteche non mi attira-no, non smanio per cambiaremacchina, non mi adatto a faresocietà per l’acquisto di unabarca che merita, e visto anco-ra che non mi dedico anima ecorpo al lavoro, o non faccio ditutto per scavalcare gli altri, in-cominciano a dirmi che sonotroppo diverso, troppo fuoridalla realtà, “matto!” a modomio. Matto comunque. Ricor-da le nostre battaglie scolasti-che?». Io le ricordavo e come! «Credo di essere stato tra isuoi alunni quello con cui hadovuto lottare di più».«Senza dubbio».«Anche se siamo notevolmen-te diversi – ci tenne ad assicu-rare –, lei ha una fede religiosache a me non dice molto, dalei io ho ricevuto parecchio.Per il suo modo di spingerci acercare soprattutto, a farcidelle convinzioni personali.Riusciva a comunicare il co-raggio della sfida». Lo ascoltavo volentieri.«Io ho impiegato molto a lau-

rearmi in ingegneria», avanzòguardandomi in faccia conuna certa timidezza, come sefossimo rientrati in classe.«Invece che buttarmi tuttosullo studio, ho voluto assag-giare anche il mondo del lavo-ro. A diversi livelli. Sa che lastragrande maggioranza deimiei coetanei non pensa? Inproprio voglio dire. Ci mettequello che è indispensabilenel lavoro. Per il resto dellavita personale, piacere imme-diato, gratificazione del mo-mento. Quindi insoddisfazio-ne e nausea, ma di nuovo pia-cere immediato e gratificazio-ne del momento… Senza laminima idea che la serenità eil gusto di vivere possa veniredal di dentro. C’è tutto al difuori. Pronto. Alla portata.Non occorre scegliere o pen-sarci. C’è». Non mi colpiva sentirlo parla-re come se fosse a scuola.

«Io – riprendeva – adesso mitrovo a fare come lei. Ricordaquando voleva farci rifletteresui sintomi palesi della finedella nostra civiltà?».«Fatti alla mano, però!» preci-sai. Veritas: adequatio rei et intellec-tus scoppiammo a ridere fortetutti due assieme. In treno.«Fine della nostra civiltà?» ri-prese Gilberto. «Non potevaessere vero. Lei esagerava.Quanti dubbi mi metteva ad-dosso ogni volta! Ora quandotrovo qualcuno disposto unpo’ a pensare, sono io a dire:Non vedi quanto pochi siamoormai? E quanto ricchi? Trop-po stupidamente ricchi di coseche non bastano mai. Malcon-tenti e ossessionati. I musul-mani ci considerano scostu-mati e aberranti al massimo.Tra noi non si desideranobambini e quando ci sono di-ventiamo loro schiavi. Trovia-mo la scusante che l’andamen-to della società non permettedi avere figli. Vengono a costa-re troppo, devono essere riem-piti di cose. Per noi contanosoprattutto le cose».«E guardiamo – interruppi io –chi nei propri figli apprezza lavita, con un certo disappunto».Incominciai brevemente ladescrizione dei villaggi appe-na visitati nella savana delMali. Dopo ore di camminosu sentieri tutti a voragini esalti, dopo chilometri soltantodi polvere e sole, si presenta-no chiome verdi, lussureg-gianti di manghi. Una faldaacquifera sotterranea lambi-sce le loro radici. Al primo

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Dubitavamo molto… ed era vero!

Ida Maddalena Masutti

Ida Maddalena Masutti ènata a Caneva (Pn). Un’espe-rienza di vita religiosa le hapermesso di essere chiamataall’Archivio segreto del Vati-cano per alcune ricerche dicarattere storico. Ha insegna-to filosofia e storia nei licei diPordenone. Come giornalista,fa parte della redazione di«Africa», la rivista dei missio-nari Padri Bianchi. In essa sioccupa specificamente dellarubrica Dialogo interreligiosoin cui si è specializzata. Hascritto anche Tornerò tra lagente, Maria di Magdala e Glieletti sapevano?

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verità, dubbio, finzione

sentore di arrivo ti trovi da-vanti ad una ondulazione flut-tuante di testine nere ricciuteche appaiono quasi tutte allostesso livello. Tanti occhisgranati in attesa. Quest’anno2003 c’è la fame per loro. Lastagione delle piogge, inco-minciata bene, si è interrottaa metà e non ha permesso alraccolto di maturare.«Hanno il torto di essere natiquei bambini?» chiese Gilberto.Non risposi, preferii raccon-targli che dal nostro stesso ae-reo era sceso a Bamako, capita-le del Mali, un gruppo di turi-sti diretti ai Dogon del norddel paese, a Timbuctu, la cittàuniversitaria semisepolta dal-l’avanzata del deserto e ad al-tre città artisticamente interes-santi. Alla fine del soggiorno,precisai, li sentimmo rimarcaredisgustati, di essere stati co-stretti a cercare rimedi di for-tuna, con mezzi abbastanza av-venturosi. Il battello su cuiviaggiavano si era arenato sulfiume Niger.Noi avevamo sentito parlare aBamako della siccità del paesee dell’assoluta necessità didragare il Niger per permette-re la sua viabilità, l’uso delledighe, l’irrigazione e acquaper le necessità della gente. Alturista non è d’obbligo accor-gersi dei bisogni vitali o deigrossi problemi del paese do-ve soggiorna per due sole set-timane. Paga, ed esige un ser-vizio adeguato. Protesta an-che, ma perché il servizio nonè adeguato, non perché lagente muore di fame mentrele spese per una guerra po-trebbero dragare chissà quan-ti fiumi in una sola volta! Lamorte per fame di tanta gente,soprattutto bambini, non di-sturba gran che. Sembra proi-bito pensare che le ricchezzedei paesi agiati, potrebberomettere quelli poveri in condi-

zione di vivere e instaurarerapporti commerciali validiper tutti.«Ci sono già numerosi emi-granti africani» mi ribattè Gil-berto «che si lasciano attiraredai fiumi ben tenuti di Germa-nia, Francia, Svizzera… Li hovisti fare pulizia e manutenzio-ne sui battelli dei fiumi euro-pei. Andranno sempre piùavanti. Si finge di non accor-

gersi della verità. Non ci si in-terroga. Tanto a che serve?Dominare i poveri è propriodei ricchi. Ci stanno, lenta-mente, ma non troppo lenta-mente, sostituendo. A scuola,lei, imperterrita, presentava isintomi palesi della fine dellanostra civiltà… Noi non vole-vamo vedere. Dubitavamomolto, dubitavamo tutti… edera vero!». ■

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Pablo Picasso, Poveri in riva al mare (1903).Washington - National Gallery of Art.

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RECENSIONI

Verità e dubbio sono elemen-ti che strettamente si intrec-ciano nel libro di MaddalenaMasutti Gli eletti sapevano?,Firenze Libri Editrice. Il sot-totitolo Esperienze, rimandaalle relazioni, relazioni che laprotagonista, Suor Benidicta,ha con gli altri, altri presi sin-golarmente, ma anche appar-tenenti ad istituzioni diverse:la Famiglia, la Scuola, gli Or-dini Religiosi, la Chiesa, chehanno regole e sistemi di fun-zionamento che trascendonogli individui e determinano lerelazioni tra gli appartenentie non. L’esperienza è comun-que una relazione privilegia-ta, che lascia una traccia di sa-pienza, l’inesperto è colui chenon vive l’esperienza, tra ine-sperienza ed esperienza si si-tua la formazione; nel libroGli eletti sapevano?, si trattadella formazione degli stu-denti di un liceo e della loroinsegnante di storia e filoso-fia, Suor Benedicta.Il libro è suddiviso in 28 capi-toli e non casualmente essi nonhanno titolo, sono tutti nume-rati: Uno, Due, Tre… fino aVentiquattro, poi c’è un capi-tolo intitolato Un silenzio…,gli ultimi quattro capitoli ri-prendono la numerazione Ven-ticinque, Ventisei, Ventisette,Ventotto.È la testimonianza di Maddale-na Masutti rispetto alla vita, èun atto di fede, che trova le suefondamenta nella ricerca deldivino, del divino che è in sestessa, che esiste in ciascun es-sere umano. Maddalena ponemano in una matassa molto ag-

grovigliata, qual è la vita, e neltentativo di porre ordine, par-te dall’identità di genere, dallaconsapevolezza di essere don-na, con tutto ciò che questostoricamente ha comportato econtinua a comportare, a se-conda del contesto storico, so-cio-culturale, istituzionale diappartenenza, senza nessunavelleità di rivendicare privilegio riconoscimenti, ma sottoli-neando continuamente un’eti-ca della differenza. Crede allepossibilità delle donne, nelle

loro capacità di tessere relazio-ni, si occupa di rapporti inter-religiosi, una terra di frontiera,dove la Chiesa non ha ancoramolte certezze.Nel libro, ciò che colpisce èun’esigenza di verità, una ve-rità che vuole essere e diven-tare vita e quindi matura an-che nei giovani il senso deldubbio come presa di posi-zione consapevole di fronte aciò che comunemente vienepresentato come scontato, in-discusso, ovvio, stereotipato.La finzione viene consideratacome un possibile nemicodella verità, un voler appariree farsi interpretare come di-versi da ciò che si è, non hanulla a che vedere con la fic-tion che è verità trasfigurataper essere resa accessibile.Nel libro la fiction è ridottaalle trame, i personaggi sonoreali, c’è solo una trasposizio-ne di tempi e luoghi.E così una gita in Olanda in bi-cicletta da parte di un gruppodi liceali, l’incontro con dei na-ziskin, la nascita di una speciedi amicizia, anziché essere de-monizzata, negata, archiviata,diventa il punto da cui partireper fare delle ricerche sul nazi-smo, più specificatamente suirapporti tra Chiesa cattolica enazismo.La ricerca degli studenti correparallela con quella della loroinsegnante, Suor Benedicta,incaricata da Monsignor Alti-piani a svolgere delle ricerche,presso l’Archivio Segreto delVaticano, su un polacco, Har-tur Poniansky, vissuto tra glianni ’30 e ’45.

Gli elettisapevano?

Simonetta De Mattio

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recensioni

Il libro è un felice esempio diinterazione educativa tra inse-gnante e alunni, c’è conoscen-za dell’uso di diversi linguaggi,del loro interagire, distanza evicinanza, uso della logica ra-zionale e astratta, la dimensio-ne del pensiero, ma anche del-la conoscenza emozionale, in-tuitiva, del linguaggio del cor-po, dei gesti, tutti con la lorodignità, che trova solo nell’ac-cordo la possibilità di avvici-narsi ai problemi conoscitivied esistenziali senza squilibri.Belle le pagine e i rimandi allaformazione di Benedicta stes-sa, che permettono di rispon-dere alla domanda: ma comeha fatto a diventare così?Perché la proposta didatticadi Benedicta è così intrisadentro di sé, poiché non sipuò insegnare, trasmettere senon ciò che si è, ha una storia,la sua storia.La coerenza, la forza, il corag-gio di Benedicta, “l’avere sestessa”, spaventano, fannopaura a chi si trincera dietro i“si dice”, “si fa così”, “si de-ve”, a chi si difende dalla pau-ra della crescita dell’altro.Il maturare viene sempre au-spicato, ma la crescita degli al-tri porta sempre con sé anchela paura, si ha paura della diffe-renziazione, l’Altro nel suo es-sere Altro fa paura, quindi èpiù facile inserirlo in alcune ca-tegorie con delle caratteristicheben note e stereotipate: “stu-denti”, “adolescenti”, “giova-ni”, “donna”, “suora”, purchérispondano al bisogno di difen-dersi dalla paura del diritto dicrescere, di esistere dell’Altro,nel rispetto della sua diversità.Di fronte ai dubbi, alla respon-sabilità del silenzio della Chie-sa, su alcune tragedie storichedi vasta portata: i deportati neilager nazisti, le mamme argen-tine dei bambini desaparecidos.Benedicta si interroga sul va-

lore ed il fine della Chiesa, sulperché non arriva a far sentireil senso di appartenenza a chivive nel suo ambito.Dentro di lei esplode unadrammatica contraddizioneespressa nelle molte domandedi aiuto di chi soffre per ilmancato rispetto di dirittiumani individuali e collettivi ele forme tradizionali dell’agiredella Chiesa. Benedicta attra-verso il suo agire quotidiano,con il suo modo di vivere, dàuna risposta solo apparente-mente non rivoluzionaria delsuo modo di vivere nella Chie-sa, in realtà per il suo modo divivere, di essere è messa allaporta del Convento, senzapossibilità di appello ma…Il dialogo è per statuto fragile,di difficile costruzione, ma…Benedicta, da militante è riu-scita a dialogare (dialogo è losviluppo naturale del logos,perché comporta già almeno

due) e far dialogare con questosuo libro. Appartenendo a sestessa e al mondo intero, conti-nua a dialogare.«Ero improvvisamente rimastasenza nulla. Avevo me stessa».Il suo sguardo è così immersonell’attimo presente, si nutredel passato, ma non è estraneoal futuro, senza perdere nulladella sua storicità e significa-zione umana.Auguro ai lettori e alle lettricidi immergersi in questo testo,ricco di emozioni ma pervasoda una letizia di fondo che hain sé gli elementi del sollievo,del conforto e i benefici deldubbio, perché ciascuno trovila propria possibilità di co-struire un logos comune nel ri-spetto delle diversità, in unmomento storico, quello attua-le di grande necessità. Non c’èbisogno di sperare per intra-prendere, né di riuscire perperseverare. ■

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Gianlorenzo Bernini, Estasi di Santa Teresa (particolare).Roma - Santa Maria della Vittoria.

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Dopo l’edizione tedesca (1998),appare ora in traduzione italia-na l’importante lavoro curatoda Rosemarie Eckes-Lapp e daJürghen Körner. Il tema attornoal quale si snodano gli interven-ti raccolti all’interno del volumeè la definizione del contributoche la psicoanalisi può fornirenella prevenzione e nel tratta-mento dei disturbi psicosociali.Soprattutto in Germania, maanche in altri paesi europei, il la-voro degli psicoanalisti si sta og-gi orientando sempre più comeintervento nel campo socialenon solo nella prevenzione deldisagio, ma anche nei settoridell’educazione, del lavoro edell’assistenza. Questa tendenzanon esprime un semplice rior-ganizzazione di natura profes-sionale, ma testimonia di un im-portante mutamento di pro-spettiva anche filosofica all’in-terno dell’orizzonte teorico del-la psicoanalisi.Nel saggio di apertura (Terapiasociale psicoanalitica), Hans-Jürghen Wirth chiarisce in mo-do efficace il nuovo concetto diterapia sociale. Riferendosi so-prattutto ai lavori di Horst-Eberhard Richter (1978),Wirth ricorda che nella nuovaprospettiva rappresentata dallaterapia sociale le malattie psi-chiche, somatiche e psicosoma-tiche degli uomini sono connes-se in modi molteplici con l’am-biente sia familiare sia socialeentro il quale il soggetto malato,o ritenuto tale, vive. In tale di-rezione la sofferenza di una per-sona e il suo disagio non posso-no essere più trattati come que-stioni private attinenti al proprio

di un soggetto, ma come eventirelazionali che collegano un in-dividuo con altri e con le circo-stanze del suo ambiente sociale.La comprensione psicosocialedella malattia, secondo Wirth, ègià delineata all’origine dellapsicoanalisi dallo stesso Sig-mund Freud, che raccomanda-va di prestare attenzione nonsolo ai dati somatici morbosi,ma anche alle condizioni fami-liari e umane dei pazienti. È evi-dente che tale attenzione alcontesto determina il supera-mento del concetto individuali-stico di malattia e la conseguen-te trasformazione del tradizio-nale modello terapeutico. Nel contributo successivo (Lopsicoanalista come uomo difrontiera), Franz Wellendorfspiega in effetti come il muta-mento di prospettiva determi-nato dal lavoro psicoanaliticonel campo sociale, determinianche una decisiva messa ingioco della stessa figura dell’a-nalista. Egli deve trasformarsiin un “uomo di frontiera” (p.37) capace di abitare più che ilcentro, la periferia e la cornicedegli eventi di cui si occupa. Inquesto senso, l’analista non de-ve dimostrarsi capace di prati-care un sapere definito intornoad un oggetto dato, ma una sor-

ta di “capacità negativa”, un’ar-te nuova che gli consenta di sta-re in relazione con ciò che è ol-tre il limite, e che si mostra coni caratteri dello sconosciuto edel mistero. La questione delladefinizione di un nuovo model-lo di lavoro psicoanalitico vieneriproposta anche nel saggio diUlrich Streeck (Messa in scena,dialoghi d’azione e costruzioneinterattiva di situazioni sociali).Qui si evidenzia l’opportunitàche alla prassi interpretativa ditipo verticale, fondata sul rap-porto tra superficie-sintomo eprofondità-inconscio, si associ(e forse si sostituisca) una com-petenza di tipo orizzontale «piùadatta per la comprensione del-l’agire sociale e delle condizionisociali». In tale prospettivaorientata sull’interazione, il te-rapeuta non si limita a interpre-tare l’inconscio psichico, ma di-viene «l’analista degli strumentie delle pratiche con i quali il ri-spettivo sistema sociale vienecreato dai partecipanti in modoinosservato e inconscio”. Egliappare così come un ricercato-re sociale, capace di ricostruirela creazione interattiva e spessonon saputa dell’evento sociale. Più critico, anche se in modoparadossale, l’intervento diGünther Schmidt, intitolato Lateoria psicoanalitica della civiltà- Un compito e le sue conseguen-ze. Egli mette in guardia control’idea che l’applicazione socialedella psicoanalisi possa costitui-re un paradigma esplicativocompleto, quasi una sorta diteoria della civiltà. Quest’ulti-ma appare a Schmidt come unprogetto ambizioso plasmato

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Dal divano alla comunità

Fabio Grigenti

Rosemarie Eckes-Lapp,

Jürghen Körner (a cura di),Psicoanalisi nel Campo Socia-le. Prevenzione – Supervisio-ne, Edizione Italiana a cura diG. M. Ferlini e C. Zimmer-ling, Edizione Aretusa, Pado-va 2001.

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«troppo dalla nostalgia classi-co-romantica finalizzata al po-ter vedere possibilmente tantecose da un osservatore più alto(= raggiungere volando)». A ta-le impostazione deve essere so-stituita la consapevolezza che ilimiti e le difficoltà che si deter-minano nell’applicazione dellapsicoanalisi a campi non cliniciconfigurano invece alla terapiasociale lo status di una prassiche non vola, ma “zoppica”, te-nendo ben fermo, tuttavia, il si-gnificato positivo dello zoppi-care, che Schmidt individuanell’idea di un procedere similealla danza. In essa ci si distaccadalla terra, ma non troppo, siavanza un po’ tentoni senza sa-pere bene dove si appoggiano ipiedi, ma, ed è ciò che conta, siva avanti.La terza e la quarta parte delvolume, intitolate rispettiva-mente Contributi psicoanaliticialla prevenzione dei disturbi psi-cosociali e Contributi psicoana-litici alla teoria e alla prassi del-la supervisione, sono dedicatesoprattutto agli aspetti propria-mente applicativi del nuovomodello di terapia sociale. Essecontengono importanti inter-venti di vari autori (Udo Rau-chfleisch, Horst Petri, Eva-Ma-ria Staudinger, Bettina Nod-dings, Ingrid Camper-Jasper,Cristiane Ludwig-Körner, An-nette Kreutz, Veronica Grünei-sen, Anette Kersting e Wolf-gang Lempa, Ross A.Lazar,Hilmar Busch, Michael Kögler,Hermann Staats, Bernd Neuz-ner, Beatrice Piechotta, WernerPohlmann, Helmuth Thiel,Astrid Kloth) che illustrano enarrano di momenti e situazio-ni specifiche nel campo dellaterapia sociale. Chiude il lavo-ro una quinta parte (Prospetti-va), che ospita il contributo diJürgen Körner, Il futuro dellapsicoanalisi. Di fronte alle sfidea cui la psicoanalisi si vede

esposta (i cambiamenti politi-co-professionali, la criticascientifica della teoria e del me-todo della psicoanalisi, la per-dita di influenza che tale saperepatisce nella vita culturale dellasocietà occidentale) si deve rea-gire, secondo Körner, con unadecisa volontà di rispondere adalcune fondamentali domandeche attengono da un lato alruolo che essa può ancora ave-re all’interno del mutato conte-sto sociale, dall’altro al proble-ma della definizione dei criteridi scientificità. La prospettiva da assumerenella risposta a tali domande èindicata da Körner nel cosid-detto modello della “triangola-zione”. Nella relazione con lasocietà e con l’intorno cultura-le egli rileva che gli psicoanali-sti non hanno acquisito la ca-pacità di osservarsi all’internodel processo di modernizza-zione. O, egli nota, guardiamo«noi stessi e ci chiediamo unpo’ pietosamente come ci sen-tiamo in questi tempi ostili, oguardiamo la “società”, le as-sociazioni professionali oppu-re il legislatore che sono osti-li», ma, prosegue Körner,«sappiamo assai bene dal no-stro lavoro clinico che la veritàdi tali coinvolgimenti non latroviamo solamente in noi esoprattutto non solamente nel-l’altro, ma solo in un processotriangolare nel quale usciamodal confronto della “società” edel “noi” e ci osserviamo inmodo eccentrico come se fos-simo dall’esterno. Questo è ilmetodo con il quale elaboria-mo i conflitti relazionali con inostri pazienti: con essi sap-piamo come dobbiamo proce-dere». Ciò che Körner propo-ne è, in definitiva, il recuperodi una concezione interattivadella psicoanalisi anche nellaconsiderazione del rapportotra psicoanalista e contesto so-

ciale: non più partecipazione adue persone, ma a tre, ovverol’io l’altro e quell’altro ancorache osserva la relazione tra l’ioe l’altro da un punto di vistadecentrato, “dal di fuori” co-me sintetizza Körner. Questopermetterebbe, secondo lopsicoanalista tedesco, il supe-ramento di alcuni dei caratteri(dimenticanza della cornicesociale e istituzionale, accen-tuazione del controtransfert edel vissuto soggettivo, uso diconcetti scarsamente rigorosi)della concezione “post-classi-ca” o “romantica” della psi-coanalisi in vista di una più au-tentica apertura a se stessi, aglialtri e alla relazione sociale,che non è mai racchiudibile inquel rapporto esclusivo e mo-nopersonale che per lungotempo ha caratterizzato laprassi analitica.Il libro curato da Körner e dal-la Eckes-Lapp presenta una se-rie di spunti di riflessioni stimo-lanti per la filosofia, nei quali simostra all’opera, direi quasi inpresa diretta, un significativomutamento di paradigma chenon riguarda la psicoanalisi inparticolare, ma l’atmosfera cul-turale della contemporaneità eche ha interessato altre discipli-ne, compresa la filosofia. I con-tributi di questo volume ci sti-molano a pensare che dopo lacrisi del soggetto autocentratonon si tratta di chiudere il cer-chio della comprensione all’in-terno di una asfittica relazioneIo-altro, ma di uscire in direzio-ne di un terzo, il contesto socia-le, nel cui ambito quella relazio-ne può acquisire un senso e unadimensione più autentici e de-terminati. Va infine segnalata labella traduzione di ChristineZimmerling, alla cui chiarezza eprecisione dobbiamo ascrivereuna parte non piccola di meritonella riuscita complessiva diquesto lavoro. ■

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Buona parte dell’ultimo ro-manzo di Mauro Covacich, Aperdifiato (2003, Mondadori)si può considerare costruito suun espediente narrativo legatoal tema dell’inganno e dellafinzione. Esaminiamone intan-to qualche passaggio.Dario Rensich è un ex marato-neta triestino, approdato inUngheria per allenare alla di-stanza dei 42 chilometri ungruppo di mezzofondiste loca-li; è lui il protagonista del ro-manzo ed è dal suo punto divista che il lettore sente riferirebuona parte della narrazione.Della conferenza stampa dipresentazione dello stage se-mestrale Dario ci riferisce que-sto racconto: «Ecco, il corpoche pensa raggiunge il più altogrado di bellezza nella marato-na. Credo che ciò varrebbe an-che se sapessimo volare. Vorreidire: Non ho mai visto nientedi più bello di Paul Tergat chevomita il Gatorade in eccessodopo il traguardo. Non ho maivisto niente di più bello dell’al-lungo di John Kosgey sullaFifth Avenue. Niente di piùbello di quei bastardi di masaicon le ali ai piedi, niente di piùbello di me stesso che muoioalle loro spalle. Ora, siate sin-cere bambine, volete davveroche vi insegni la mia arte?Questo vorrei dire, invece,quando Ladslo mi passa il mi-crofono col solito mezzo sorri-so e la speranza in sala sembravolermi risucchiare nel suocampo elettromagnetico, dico:“Be’, vi ringrazio dell’acco-glienza. Sono molto contentodi essere qui e so già che mi

piacerà lavorare con voi.”Csanyi traduce, l’assessoregongola, le ragazze sono ununico sguardo annoiato» (pp.29-30). Più avanti è ancoraDario a raccontarci di un mo-mento di intimità con Agota, lagiovane atleta ungherese che,divenendone l’amante, fa de-flagrare la situazione esisten-ziale del protagonista: «Cosaprovo per te? Be’, per me tu seila Felicità Pura, la Felicità Pu-ra venuta a rovinarmi l’esisten-za. Non so cosa provo per te.Avrei voluto parlarle così, inve-ce le ho detto: “Devi andare afare la nanna ora. Le tue ami-chette sono già a letto da un

bel po’. Su, da brava”» (p. 67).Situazioni analoghe si ritrova-no anche alle pagine 92, 110 e,a distanza molto ravvicinata,per ben tre volte fra le pagine144 e 146. Di particolare forzala penultima di queste citazio-ni, che riguarda un elementocentrale della trama e cioè lapresunta sterilità di Dario,contraddetta dalla gravidanzadi Agota: «Agota, non sono ioil padre». Dovrei dire: nonposso essere io il padre. Eppu-re c’è, nel miraggio di prima, inquell’angolo sperduto del miocervello, la possibilità statisticadi uno spermatozoo fertile. Èuna possibilità puramente sta-tistica, mi ripeto in continua-zione. Però mi manca la forzadi negarla (p. 145).In realtà queste finzioni ai dan-ni di se stessi, questi atti consa-pevolmente mancati, riguarda-no anche altri personaggi delromanzo. Viene naturale pen-sare che forse il referente diCovacich, pordenonese d’ado-zione ma triestino di origine,sia Svevo, al cui Zeno moltodebba Dario. Come per lo Ze-no sveviano infatti, al lettore ilracconto appare sospeso inun’ambiguità strutturale: là erail diario scritto da un “malato”per vendicarsi di un analistache avrebbe poi usato queldiario come strumento ricatta-torio contro il suo stesso pa-ziente (ma allora, almeno unodei due ci dice la verità?), qui èil racconto, fitto di incertezze eambiguità per le quali lo stessoprotagonista si autodenuncia,un protagonista che oltretuttoscopriamo alla fine oggetto di

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La maratona di Covacich

Andrea Busato

Und wenn die Prüfung / Istdurch die Knie gegangen…

E quando la prova / È passa-ta per le ginocchia…

Hölderlin, Der Ister, vv. 4-5.

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un inganno che ne rimette ul-teriormente in discussione tut-ta la personale percezione del-la realtà.Ma se ci fermassimo qui, il gio-co di simulazioni e inganni or-chestrato da Covacich risulte-rebbe solo per metà del suoambiguo senso. Infatti, uscen-do dall’immersione nella realtàvirtuale della narrazione dob-biamo comprendere e co-im-plicare in tale rete, anche e ov-viamente, il ruolo dell’Autore.La scelta estetica riassunta nel-la regola dello Show, don’ttell!, del non raccontare mapiuttosto del lasciar accaderesulla scena della trama, fa sìche almeno apparentementel’Autore si “ritiri” dalla scenadella narrazione: il racconto siforma solo per l’accostamentodei punti di vista di diversefonti (memorie e dialoghi deipersonaggi, testi di e-mail, re-port televisivi) e non apparemai un narratore onniscienteed esterno. Pare dunque chel’Autore ci mostri un giococomplicato perché a decideresul suo senso, a credere forsealmeno a una parte delle con-traddittorie e conflittuali veritàche contiene, siamo noi. Gio-cando dunque a farci dimenti-care che comunque quella ingioco è una realtà fittizia, dellaquale l’Autore è quantomenoun sapiente demiurgo, semprepronto a rimettere scompiglionella nostra illusione di aver ri-trovato un ordine: «Hai inmente quando ti senti furboperché sai che ti stanno imbro-gliando? Ecco…» (p. 200).Per buona parte, il racconto ècostruito come intreccio di ele-menti e motivazioni destinatiad alcune attese catastrofi: l’esi-to dell’avvelenamento del fiu-me Tibisco, la concessione del-l’adozione di Fiona alla coppiaDario-Maura, il compimentodella gravidanza di Agota, il

debutto delle giovani atletenella Maratona. È forse pro-prio nella descrizione di que-st’ultimo evento che il romanzotocca i suoi punti più alti di“verità”. Anche se nella finzio-ne si sta parlando di atleti divertice della classifica, le sensa-zioni che l’Autore descrive sul-la base della personale espe-rienza e con assoluta efficaciasono quelle che certamente haprovato chi si sia mai cimenta-to in questa particolare e affa-scinante specialità (il running,dice Covacich, è l’antitesi deltenersi in forma e la prepara-zione alla maratona è un’artemarziale). Pur all’interno dielementi di ambientazione tan-to ironici quanto realistici, co-me la fuoriclasse etiope che ciaspetteremmo in soggezionenel ricco mondo occidentale eche invece mentre corre in alle-namento conversa con grandedisinvoltura al cellulare, lacompetizione diventa per Mo-nika il momento della verità, laprova per eccellenza. Una voltapartita la gara Dario, che comeex runner di alto livello è anco-ra capace di seguire le sue allie-

ve affiancandole in corsa, puòsolo essere testimone di unatrasformazione che sconvolgela sua atleta di punta e la tra-sforma in una forza della natu-ra. Nell’incalzare dell’evento leconcorrenti si lanciano segnalidi sfida, si provocano agonisti-camente, godono senza pudoredelle crisi delle avversarie comesi farebbe in una guerra. È ilmomento di un’umanità vera,dello sprigionarsi di una forzalibera da freni inibitori e checonosce solo le sensazioni bio-meccaniche come unico ele-mento di disciplina del proprioagire: «… adesso stiamo tuttiosservando la crisi nera dellacoreana che avanza a non piùdi 3’50» piegata sul fianco sini-stro come se una fucilata leavesse appena spappolato lamilza. Un altro fremito di gioiapercorre il gruppo. Questa vol-ta la polacca e la francese si stu-diano, anche. Un’occhiata una,un’occhiata l’altra. Monika dàmezza testa a tutte e due. Noncontrolla e non è controllata.Le treccine le si stanno sfilac-ciando, ha perso parecchi ela-stici. Gli alberi sono finiti da al-meno un chilometro e il sole cista letteralmente squagliando.Nessuno direbbe che è prima-vera. La canottiera di Monika ècosì bagnata che si notano, inrilievo dentro il reggiseno, i ce-rotti protettivi sui capezzoli.No, non mi sto sbagliando, lapazza sta allungando. Che caz-zo ti sei messa in testa, bruttascema! E io che credevo in te.Dovrei farle sgambetto, pren-derla a schiaffi, ma, Cristo, lamia pupilla sta attaccando e iomi sento solo di rincorrerla, dientrare nella sua falcata, nelsuo fiato, di esserle, ormai in-condizionatamente, complice»(pp. 289-90). Il tutto verso un esito della ga-ra che però apre ad un’altrasorpresa. ■

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Auguste Rodin, L’idolo eterno (1889).Parigi - Musée Rodin.

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QUIPORDENONE

Storie di ordinaria follia. In que-sti racconti ho svelato ciò che hovisto, sentito, vissuto e toccato:tanti ragazzi in carne ed ossa,che con i loro comportamentiquotidiani danno forma alla par-te “nera” e “nascosta” di Porde-none. Ho guardato dentro la zo-na d’ombra della città, cercandoquelle “situazioni” che ormainon interessano più a nessuno,che volutamente vengono dimenticate. Seratetragiche, gente rovinata, famiglie distrutte, luo-ghi che sembrano lontani dalla realtà ma chestanno lì, sotto i nostri occhi. Ma anche gentestrana, in balia della pazzia o ai margini, che co-me unico peccato ha quello di essere stata ba-ciata in bocca dalla sfortuna. Insomma questo è

un “vero viaggio” nel mondosommerso dei giovani, attraver-so i luoghi maledetti che fre-quentano, con le droghe cheusano e le manie che hanno. Non mi sono mai avvicinato aiposti “tranquilli” e volutamentenon ho approfondito quei parti-colari “rosa” o “simpatici” chepotevano alleggerire i personaggi.Questi sono racconti che vanno

subito al centro delle vicende.Non è una denuncia o una presa di posizione enemmeno fantasia. Magari qualcuno, forse, potràleggere tra le righe una specie di avvertimento… L’obiettivo però è solo quello di far sapere cosarealmente si incontra in questo “girone inferna-le” tutto made in Pordenone.

Raccontipordenonesi

Il Vez

Giovane Anonimo

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Il Cucu

Villanova di Pordenone è unquartiere “difficile”. Una volta igiornali regionali hanno fatto lastatistica dei quartieri a più altotasso di delinquenza minoriledel Friuli Venezia Giulia e il“territorio”, come chiamano daqueste parti Villanova, diconosia finito al secondo posto asso-luto. Almeno questa, con uncerto orgoglio, era la voce chegirava al «Bar dei tossici».A proposito, il «Bar dei tossici»era come il centro del mondo:di lì sono passati cocainomanidalle narici sanguinanti, eroino-mani in cerca della pera, quelliper intenderci con la pelle dellebraccia gialla come la cancrenae dura come un grosso enormecallo, albanesi che spacciavanoroba e vendevano telefonini ru-

bati, puttane scosciate, ubriaco-ni senza fissa dimora, pazzi inbalìa di psicofarmaci e vecchiet-ti drogati dal videopoker. Oggiquel meraviglioso “ombelicodel mondo” non c’è più, ma unavolta era proprio così! Anche inquella bolgia però c’era un pun-to fisso. E il punto fisso non po-teva che essere lui: il Cucu.Il Cucu stava sempre seduto al-lo stesso tavolo. Ormai, seppurancora giovane, aveva già l’ariadi uno che parla con i lividi del-la faccia più che con le parole.Era anche stato in galera per gi-ri loschi. Insomma un tipo nien-te male! Alzava il culo dalla se-dia solo per tentare la fortunaalle macchinette del video-poker. Quando le bestemmievolavano forti nell’aria fumosa,significava che il Cucu avevaperso. Il bar era sempre som-merso di bestemmie. Roba da

far inorridire un esorcista! Ungiorno con la sua donna iniziò adiscutere di cose serie. A spa-rarle grosse… Noi del brancoeravamo solo un passo più in là,seduti al tavolino vicino, fermi ezitti ad ascoltare. Sopra il loro tavolo c’erano 12

bicchieri ormai vuoti, che pocoprima contenevano il ciuccio,cioè Aperol col bianco, anzipiù Aperol che bianco. Con to-no autorevole il Cucu alla suadonna disse: «È ora di smetter-la con questa vita di merda,pallosa e stupida. Da domani sicambia registro, bisogna met-tersi all’opera e affrontare ilgrande progetto. È tempo dimuovere il culo!»Noi del branco a quel puntovolevamo scoppiare in una so-nora risata, ci trattenemmo so-lo perché spinti dalla curiositàdi capire che stava succeden-

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qui pordenone

do, cosa sarebbe uscito daquella testa malata.Il Cucu intendeva proprio apri-re un’attività, mettersi nel cam-po degli affari per davvero! Di-ceva ad alta voce: «È semplice:basta aver fiuto per il denaro eio, modestamente, di fiuto neho molto, mica vengo da una fa-miglia di merda, io ci sono abi-tuato a questi progetti!».Noi del branco lo sapevamo, iparenti del Cucu erano tutti co-me lui. Una volta il fratellomaggiore aprì un bar, poi un’of-ficina meccanica, subito dopoun negozio di frutta e verdura einfine un’agenzia autonoma dipulizie dove anche il Cucu davauna mano. Del fratello non cisono più tracce, ma, si sa, buonsangue non mente e anche ilCucu pensava di avere la stoffadell’imprenditore!Dalla discussione capimmo cheintendeva aprire un negozio divestiti per giovani, roba alterna-tiva, inglese, costosa e ricercata.Continuava a ripetere: «Ci vuo-le solo il locale in centro, la li-cenza, i fornitori, il nome giu-sto, la clientela affezionata, lapubblicità, il commercialista, lacassa contabile per i soldi». Aquel punto qualcuno del bran-co sbottò dicendo: «E i soldiper tutto questo».Il Cucu si girò di botto e offesoci urlò di farci i cazzi nostri. Poicontinuò come nulla fosse ad il-lustrare il progetto. Sosteneva che «le grandi ideehanno bisogno di lunghi ragio-namenti e di gente matura!». Elui evidentemente si sentiva ve-ramente pronto! La sua donnaconvinta rispondeva ormaimeccanicamente: «È una figata,ci sto dentro alla grande, cazzo!È proprio una figata»Era veramente felice e per tuttarisposta si disse disponibile a fa-re la commessa al negozio. Mapossibilmente per mezza gior-nata perché voleva anche mette-

re su famiglia. Quindi, lui im-prenditore, lei mamma di unmeraviglioso bimbo.«Domani iniziamo», disseroguardando i 12 bicchieri vuoti.Ma per non lasciare gli altri soline ordinarono subito altri due,trangugiandoli di botto!Di colpo il Cucu ebbe uno scos-sone lungo tutto il corpo. Iniziòa sudare freddo, gli si giraronoquasi gli occhi dal dolore. A fa-tica uscirono dal bar. Salì nelmotorino caricando alla buonala sua donna sul portapacchi eondulando andarono verso ilboschetto che costeggia la fer-rovia. Noi li seguimmo senzafarci vedere né sentire, eravamoeccitati e attenti…Il Cucu, appena sceso dal mo-torino, sbottò in un getto divomito, poi barcollò un attimoe a fatica, sorretto alla buonadalla sua ragazza, si mise a traf-ficare con le mani nelle taschedel giubbotto. Ne uscì un pac-chettino di carta stagnola, poila siringa, infine il limone. Latipa gli passò il cucchiaio el’accendino…Alcuni minuti dopo, con voceflebile e percorsa da uno stranoorgasmo, lo sentimmo ripetereche l’indomani avrebbero cam-biato vita. «Il negozio ci aspet-ta…».Spazio ai giovani!

Carlo

Il sistema in cui viviamo, chetutti comunemente definiscono«Sistema Nordest», viene stu-diato addirittura nelle univer-sità americane.«Piccole fabbriche a conduzio-ne famigliare», «grandi indu-strie», «mezzi di comunicazio-ne», «prodotti interni lordi»,«ricerche di mercato», «svilup-

po industriale», «innovazionetecnologica»… e tanti altri ter-mini “tecnici” da queste partisono nella bocca di tutti, cani eporci compresi! Nel Nordest ormai assistiamoad una gara a zone, tutti controtutti, vince la città che producedi più. Pordenone in questapartita è come un centravanti disfondamento.Anni fa veniva chiamata laManchester del Friuli e oggi, adue minuti dal centro, dirigen-dosi verso le periferie dellacittà, si trovano innumerevolicostellazioni di centri industria-li. Pordenone, stringi stringi, èuna via di case vecchie circon-date da migliaia e migliaia di ca-pannoni che messi assieme fan-no “centro industriale”.Questa cosa chiamata “centroindustriale” a molti pare nor-male, per altri è un vero vanto,alcuni la studiano nelle univer-sità d’oltre oceano, ma per tantigiovani invece è la zona grigiadella vita. Guardano in basso evedono il grigiore dell’asfalto,alzano la testa poco poco e ve-dono il grigiore del muro dellafabbrica, guardano più in su e sitrovano schiacciati dal grigioredelle nuvole che non passa mai.Tutto questo grigio ha contami-nato anche la vita del mio ami-co Carlo.Sul viso di Carlo non c’è mai unsorriso. Lui non usa droghe, conoscegente che si è rovinata, per cuine sta lontano. Non va a putta-ne perché è immorale, pericolo-so e costoso. Al branco ripetesempre che «nella vita non ser-ve strafare. Basta fare il giusto esbattersi di tutto e di tutti»…Lavora appunto in una anoni-ma fabbrica nella zona sud del-la città. È operaio metallurgicosemplice. Nel suo reparto d’in-verno muoiono di freddo per-ché devono lasciare i portoniaperti per gli sfoghi del gas del-

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le saldatrici e d’estate sudanosangue per colpa dei pezzi in-candescenti che tagliano comelame di coltello. Salda da treanni sempre gli stessi pezzi diferro, sempre quelli per noveore al giorno… otto pagate re-golarmente, una omaggio ob-bligatorio del lavoratore alla“causa industriale”. Tutto questo lo ha forgiato nel fi-sico e soprattutto nel carattere.È stressato, incazzato, rabbiosocol mondo intero… Ha spessodei battibecchi con i colleghi enon si fa mai scappare l’occasio-ne per far valere le proprie ra-gioni…Abita con i genitori, usa l’autodel papà e la mamma gli orga-nizza meccanicamente la vita:lava e stira i suoi vestiti, gli pre-para da mangiare e gli rifà il let-to, alle volte gli sgancia anchequalche soldo. Niente altro,perché Carlo non sopporta dol-cezze o rapporti famigliari e af-fettivi. «O così, o così!», ripetesempre ai genitori.Lui è un duro. Quando c’è fred-do si veste sempre poco. Quan-do fa fatica non mostra mai i se-gni della stanchezza. Quando be-ve non si fa mai vedere ubriaco.Con gli amici non dice mai unaparola in più e non accetta criti-che né consigli. Risponde a tut-ti sarcasticamente, con unapunta di cattiveria tra i denti.Carlo ha 19 anni. L’altro giornoha avuto l’ennesimo screzio conun collega appena assunto. Ilcapofabbrica – un uomo suisessant’anni buono come il pa-ne e stimato da tutti – a quelpunto è intervenuto. Carlo èsbottato in un impeto di ira.L’hanno sentito urlare: «Checazzo vuoi vecchio bastardo?!Chi ti credi di essere per rom-pere i coglioni proprio ame?!!!…». Immediatamentesul suo viso si è posata un’om-bra, gli occhi si sono insangui-nati, poi ha stretto forte i pugni

scagliandoli nella faccia vecchiae rugosa del capofabbrica… Quel corpo stanco è stramazza-to a terra, senza reagire… ECarlo ha trovato il rispetto checercava. Mi ha detto che per la primavolta si è dimenticato del grigio-re che lo circonda e ha assapo-rato il rosso del sangue. Sul suo viso è comparso il pri-mo sorriso.

Techno

Alle sette di mattina Techno ègià al lavoro, in una falegname-ria che si trova alle porte di Por-denone.Produce come una bestia. Ha21 anni e da sei segue sempre lastessa linea di mobili. Per farse-la passare leviga, lucida, incolla,taglia, strofina, tutto in manieraesagitata e sempre a testa bassa,sempre in silenzio, sempre scu-ro in volto.Le sue ore lavorative sono pienedi collera, di nervosismo, di im-precazioni contro dio e la ma-donna. Oggi però è sabato, quindiesce prima dalla falegnameria.Alle 17.00 avrà abbandonatol’inferno.Techno appena sentita la sirenaesce come un treno, pronto afarsi il sabato, come tutti i ra-gazzi del Nordest.Alle 17.15 è già al bar del quar-tiere, quello dove la puttanaserve dei magnifici spritz e mo-mo, cioè ginger col bianco o colrosso. Solitamente i ragazzi delbranco pagano un giro a cranio,sono in tredici persone.Poi va a casa di corsa. Entra come una furia, nonguarda in faccia nessuno perchéè nervoso dal lavoro e dall’al-cool che inizia a fare effetto. Si

getta vestito in doccia, prima diaprire l’acqua lancia i vestiti aterra. Sua madre poi ripuliràtutto senza fiatare, che le con-viene. Infine mangia di frettaciò che trova.A quel punto è “tempo di vi-vere”: corre in camera e iniziail rito.Estrae dall’armadio una serie in-finita di magliette colorate, me-tallizzate o fluorescenti, le sce-glie in base all’umore. Invece peri pantaloni le sue idee sono chia-re, veste quelli aderenti e neri lu-cidi. A seguire apre il cassetto etira fuori l’inseparabile lampadi-na da pesca notturna. Una voltaspezzata emette una luce verdefluorescente, tanto di tendenza.La spezzerà e infilerà in boccapiù tardi, giunto in discoteca. Uscito di casa si dirige al solitobar dove inizia a fare sul serio:ordina prima il caffè corretto,poi la grappa vicino e di seguitoquattro amari per sconvolgersiun po’.Gli amici a quel punto lo guar-dano con piglio furbo, lui capi-sce al volo.Escono immediatamente dal lo-cale, si fumano una canna perrilassarsi e poi estraggono daltacco delle scarpe, apposita-mente bucato, un centinaio diextasi per la serata. Techno neacquista dieci a botta. Se lemangerà a ripetizione, beven-doci sopra super alcolici.Una volta partiti verso la discoinizia il tour dell’alcool: primada Caia, poi al bar del parcheg-gio e infine dentro il bar delladiscoteca.A quel punto Techno ha l’exta-si che inizia a circolare bene nelsangue.Deve bere e ballare. Ballare ebere e calarsi nuove pastiglie.Si dimentica degli amici, dellagente che lo circonda, dei but-tafuori che lo guardano, delmondo intero. Dice di vedere laluna abbassarsi e baciarlo, cre-

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de che il suo corpo si allunghi intutte le parti, sente il ritmo del-la musica penetrargli ovunque.Balla attraverso un orgasmo fisi-co, mentale, spirituale.La domenica mattina Technosubisce l’effetto della crisi postextasi. Non riesce ad alzarsi dal letto,non riesce a ragionare, non rie-sce neppure a raggiungere il ba-gno, spesso si piscia addosso eallora piange come un vitellosconsolato e depresso. A pran-zo non tocca cibo, un po’ per-ché non ha fame e un po’ per-ché non riesce a frenare il tre-molio delle mani.Ogni domenica mattina Technovive una tragedia. Pensa ossessi-vamente al lavoro di tutta unasettimana, alle serate in para-noia in casa e alla oppressivapresenza dei genitori. Non vedel’ora che vengano le 17.00 delsabato.

SquichCi sono molti tipi di discoteche:quelle squallide dove vanno iragazzotti semplici, quelle toni-che dove vanno i drogatelli ven-tenni, quelle strong dove anda-va Squich.Squich amava un posto in parti-colare: «Il Cielo».«Il Cielo» è piccolo con luci sof-fuse e casse non troppo potenti.L’arredamento è un misto tra in-novazione e conservazione. Ilbar viene illuminato dolcementeda luci fredde, vicino al bancosvetta una statua greca. Due co-lonne che lanciano verso l’altoun triangolo dorato fanno dasfondo. Raggi di sole, segni anti-chi, figure geometriche danno unsenso di magia. Tutt’intorno cisono dei comodi divanetti neri.All’interno gira gente vestitanormalmente e le ragazze sono

strafighe. Lì si sniffa coca, si ca-la extasi, alle volte si trova delfumo, ma poco.Squich frequentava quel postoanche perché suonavano i mi-gliori Dj europei, quelli all’avan-guardia in fatto di underground.Lui era contento, ballava tuttala notte, si sentiva un Dio…Con l’aiuto della droga potevaentrare in nuove dimensioni eimmergersi anima e corpo inuna realtà parallela… dove flut-tuava in un mare di colori tenui,sensazioni e rumori dolci…Ma una notte, a forza di drogar-si, è rimasto intrappolato tra lesbarre del suo cervello malato.Poi col passar del tempo e ilcontinuo uso di allucinanti siera ridotto peggio di un barbo-ne, fino a vagare per la città fa-cendo discorsi assurdi… Infine non riusciva nemmenopiù a mettere in fila tre parole,se non per dire che cercava la«luce nel tunnel» e che viveva«gli influssi cosmici».Un giorno Squich ha smesso diandare al «Cielo», ha chiuso iponti con i pochi conoscenti e halasciato la città, portato lontanopare da un suo vecchio amico…

Nel branco qualcuno sostieneche è stato in Sud America,chiuso per un anno in una ca-panna abbandonata, con unostregone pazzo… Dicono che lostregone gli faceva mangiare“funghi magici” per risvegliareil suo inconscio, per rivivere as-sieme il suo passato e per entra-re nel suo cervello malato…Erano il viatico per il “magicoviaggio” verso la salvezza dellamente… Un modo alternativoper guarire la sua testa…Oggi Squich si è ripreso allagrande. Vende collanine in le-gno, fazzolettini colorati, cion-dolini portafortuna, camicionilarghi e bigiotteria di tendenza.Dice che nel mondo deve pre-valere l’amicizia, l’amore, il be-nessere dell’anima, la pace inte-riore e tra gli uomini… A lui queste regole le ha inse-gnate «l’amico Sudamerica-no»…L’altro giorno al negozio lo han-no visto prendere a calci e pugniil registratore di cassa, incazzatocome una iena. Bestemmiavacontro Cristo, la Madonna e tut-ti gli angeli perché si era incastra-ta la carta nel rotolino interno…

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Madonna delle Grazie, 30 novembre 2002: i segni dell’alluvione.

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Fino a poco tempo fa era un gri-gio capannone riabilitativo perle corriere di linea che, dopotanto viaggiar, necessitavano dirammendare gli acciacchi sottole ruvide mani del meccanico.Oggi il «Deposito Giordani»,senza bisogno di rinnegare ilproprio nome, ha cambiatocompletamente vita diventandoun centro polifunzionale di pro-mozione culturale e sociale.Con il «Deposito Giordani»Giovanni Zanolin, assessore al-le politiche sociali del Comunedi Pordenone, realizza uno deisuoi sogni sociali, o “socialmen-te utili”, più cari: un luogo vivodove permettere alle generazio-ni di avvicinarsi e non voltarsile spalle.

Come è nata l’idea del «Deposi-to Giordani»?■ Da tempo sostenevo la neces-sità di costruire qualcosa cheintegrasse politiche sociali e po-litiche culturali. Ho semprepensato che servissero dei luo-ghi simbolo ma anche dei luo-ghi vivi. Quindi ho pensato aquesta struttura come ad unluogo nel quale ai ragazzi potes-se essere offerta un’occasionedi espressione e nel frattempopotessero integrare fra di loromomenti di riabilitazione e divita comunitaria. Fin dalle ele-zioni sentivo questa necessità. Intuivo anche che per il Cerit(un centro di aggregazione gio-vanile ancora in fase proget-tuale Ndr) avremmo avutotempi lunghi. Quindi eropreoccupato che la città nonfacesse assolutamente nullaper i giovani nei prossimi tre

anni di qui la necessità di daresubito una struttura che fun-zionasse. Probabilmente lemotivazioni forti che sentivomi hanno portato a non tenerconto di certe cautele politichema di accelerare il progetto.Del resto sono perfettamenteconsapevole che le struttureper i giovani incontrano un’e-norme difficoltà ad essere ac-cettate. Le modalità espressivee di relazione dei giovani sonomolto poco accettate da chinon è più giovane.

Di giorno servizi di animazioneper pazienti psichiatrici, laborato-ri per disabili, Azienda Sanitaria,servizi sociali, cooperative sociali,volontariato, associazioni, anzia-ni e liscio, e subito dopo, alla se-ra, si accendono gli amplificatoriper i concerti rock. Nel breve pas-saggio di un tramonto il «Deposi-to Giordani» si trasforma da la-boratorio diurno socio-educativoin uno dei più originali locali mu-sicali d’Italia. Una rete socio-cul-turale senza precedenti.■ Sicuramente non ha prece-denti. Penso che il «DepositoGiordani» debba qualificarsi

anche sul piano sociale e nonsolo degli eventi serali. Le atti-vità diurne socio-assistenzialidevono essere anche occasioneper creare e per essere rappre-sentate magari alla sera. C’èuna domanda a Pordenone dipoter creare, fare e rappresen-tare, e chi gestisce il Depositodeve dare risposte a questa do-manda. La socialità può tra-sformarsi in creatività, io vedodei ragazzi straordinari che sesolo avessero un po’ di spaziopotrebbero regalarci delle me-raviglie. Sono anche convintoche un giorno non lontano unaparte del nostro apparato pro-duttivo si rivolgerà a questi ra-gazzi, alcune industrie localicapiranno che questi ragazzisono in grado di disegnare co-se nuove, di pensare ad altreforme di marketing, gestire re-lazioni umane in un modonuovo e partecipato. Sonoconvinto che questo serbatoiodi saperi, culture e sensibilitàche c’è in città abbia una po-tenzialità per far crescere an-cora la qualità della vita a Por-denone. I linguaggi delle per-sone sono uno straordinariomezzo di comunicazione e diarricchimento collettivo e tuttele culture che oggi abitanoPordenone devono avere lapossibilità di integrarsi.

Lei ha sempre avuto un atteg-giamento istituzionale e cultura-le di profondo rispetto nei con-fronti delle “minoranze giovani-li” ed in particolare sul temadell’“occupazione”. I progetti ele soluzioni alternative all’occu-pazione da lei proposte ai gruppi

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Il «Deposito Giordani»Intervista a Giovanni Zanolin

a cura di Fabio Fedrigo

Logo del «Deposito Giordani».

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autogestiti non sono state peròcondivise dalla cittadinanza o daparte di essa. Troppo presto? ■ L’atteggiamento di molteamministrazioni in Italia neiconfronti dei centri sociali èun atteggiamento sostanzial-mente rispettoso. Conosco be-ne la realtà di Roma dove cisono centri sociali orientati siaa destra che a sinistra. E devodire che anche in alcuni centrisociali di destra ho visto delleiniziative pregevoli, ad esem-pio la rilettura di destra di Pa-solini che a Roma si fa da mol-ti anni non è una questione sucui si possa discutere nei ter-mini è mio o tuo. In effetti seandiamo a vedere da dove ar-rivano i voti alla destra a Romaarrivano fondamentalmentedalle borgate, dalle zone piùpovere di Roma. Un atteggia-mento realistico delle ammini-strazioni comunali nei con-fronti di questi centri socialil’avevo dunque già visto. Perquanto riguarda il «Gatane-gra» credo di aver sopravvalu-tato una rete di relazioni chepensavo potesse condurre lapopolazione a riflettere diver-samente, ed ho invece sottova-lutato alcuni fattori emotiviche poi si sono rivelati impor-tanti. Prossimamente comun-que presenteremo ai ragazzidel «Gatanegra» un nuovoprogetto che garantirà loro unbuon grado di autonomia an-che sotto il profilo dell’imma-gine. Come amministrazionecapiamo le loro esigenze e vo-gliamo per primi rispettarle,del resto penso che un «Gata-negra» non autonomo nonserva poi granché nemmenoalla città. Questa amministrazione deveaprire un dialogo tra queste fa-sce di ragazzi e le istituzioni.Sono molto preoccupato chequesti ragazzi non trovino nes-sun punto di contatto con le

istituzioni. L’istituzione per lo-ro può essere una scuola maoggi mi rendo conto che è unascuola che non riesce a parlare.E se anche il Comune, che è unluogo di democrazia, dove lagente può riconoscersi, non di-venta per loro un punto di ri-ferimento mi chiedo quale isti-tuzione possa per loro rappre-sentare un punto di riferimen-to o essere in controtendenzarispetto alle stesse istituzioniche loro spesso vivono comerepressive. Quindi bisogna perqueste fasce giovanili attuarepolitiche che facciano loro ca-pire che all’interno delle istitu-zioni ci sono spazi possibili perla creatività, per l’autonomia,per la socializzazione. Non tut-ti sanno che questi ragazzi han-no promosso una grandequantità di dibattiti e incontri.Hanno dato la possibilità amolti altri giovani di suonare edi esprimersi. Non tutti i ra-gazzi hanno le stesse necessità,quelli che frequentano il «Ga-tanegra» hanno probabilmentemaggior bisogno di stare piùvicini alla propria marginalitàsociale e culturale.

Lei è stato accusato di occuparsipiù di giovani che di anziani,pur essendo l’assessore di tutti.■ Non vedo grandi differenze odistinzioni. Ho partecipato aduna conferenza a Catania sullacondizione sociale oggi deglianziani. Ebbene, la condivisio-ne di fondo era che il vero pro-blema degli anziani, oltre allequestioni sanitarie, è l’assenzadi canali di trasmissione cultu-rale. È importante avvicinare igiovani agli anziani e viceversa.Gli uni devono riconoscere glialtri, le generazioni devono ri-parlarsi. Ma soprattutto è im-portante iniziare a riconoscere igiovani come primo passo im-portante di integrazione fra legenerazioni perché, se non ri-

conosciamo i giovani, come sipuò pensare che poi questi dia-loghino con gli anziani?Ma la cosa vera è che cerco diuscire dai percorsi dell’istitu-zione e questo non è facile.Non è facile trovare sensibi-lità, nel senso che le istituzionihanno una capacità notevoledi autoriprodursi. Purtropposi parla sempre di numeri emai di qualità.

Infatti il «Deposito Giordani» èuna struttura ai margini dellelogiche istituzionali. ■ Ad iniziare dalla posizionedel palco. Io per esempio l’a-vrei messo centrato rispetto al-la struttura. In fondo e al cen-tro, in un modo normalmenteordinato. Attilio Perissinotti(Presidente dell’Arci, l’associa-zione che gestisce il DepositoGiordani, Ndr) che non è per-sona che frequenta troppo leistituzioni come me, ha avutoinvece l’intuizione e il gusto diposizionarlo sull’angolo equindi di dare il senso ma an-che il gusto di non essere inuna sala strutturata, troppo or-dinata o convenzionale. In ef-fetti al «Deposito Giordani»non c’è quella pressione istitu-zionale che magari esiste in al-tre situazioni o iniziative.

Il Comune di Pordenone con il«Deposito Giordani» è statouno dei primi enti in Italia asperimentare nei servizi socialila coprogettazione, una delleprincipali linee innovative dellalegge 328/00. Aspetti positivi enegativi di questa esperienza. ■ Ho voluto sperimentare lacoprogettazione anche in assen-za di una legge applicativa re-gionale. Come tutte le primeesperienze il bando di copro-gettazione per il «DepositoGiordani» aveva certamentedei difetti, delle carenze, ed inparticolare mi riferisco ad

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un’impostazione eccessivamen-te vincolistica per i soggetti par-tecipanti. Insomma era ancoratroppo somigliante ad una clas-sica convenzione d’appalto.Siamo entrati infatti nella fasedella vera coprogettazionequando si è deciso di sperimen-tare concretamente la gestionedella struttura. In quella fase sisono potute liberare risorsecreative ed operative che leclassiche linee burocratiche diun bando non ti permettono.Rischiavamo di bloccarci sullesolite questioni economiche.Per sistemare la struttura servi-vano molti soldi, i preventivi

non erano certamente alla por-tata delle associazioni e dellecooperative che partecipavanoalla coprogettazione.La fase sperimentale ha prati-camente avviato una straordi-naria operazione di recuperodi materiali e oggetti inutilizza-ti ormai da anni nei magazzinicomunali ed in altri posti. Nelgiro di un mese la passione,l’intelligenza e il lavoro di mol-ti ragazzi ha permesso di rea-lizzare il progetto che avevamoin mente, anzi, il risultato fina-le è oggi addirittura superiorea come lo immaginavamo. Vanno senza dubbio ricono-

sciute le capacità di Attilio Pe-rissinotti e di tutti i ragazzi del-le diverse associazioni locali chehanno partecipato con impe-gno ed entusiasmo alla realizza-zione del «Deposito Giordani».

La coprogettazione segna inqualche modo la direzione e l’o-rientamento di questa Ammini-strazione comunale rispetto allepolitiche sociali del territorio?■ Spero sia un orientamentoapprezzato. Nel nostro sistemadi welfare locale stiamo atti-vando risorse, sensibilità, dia-logo, rifuggendo per quantopossibile dalla solita idea dimercato. Per questo credo cheil rapporto con le imprese so-ciali debba modificarsi. Laqualità che le imprese socialioggi devono rappresentare neldialogo con il Comune è unaqualità relazionale e non sololegata alla produzione.

E le imprese sociali sono pronte?■ No, assolutamente. Sonoancora il punto debole di tut-to questo tentativo di rinno-vamento del nostro sistema dipolitiche sociali nonostante,da queste prime esperienze dicoprogettazione, arrivino al-cuni segnali di risveglio. Pur-troppo noto che le impresesociali hanno ancora tanta vo-glia di appalti.

Avremo nel 2003 un regola-mento regionale sulla 328?■ No. Un’applicazione rigoro-sa della 328 significa partireda un’area ad alta integrazio-ne socio-sanitaria. Ciò com-porta mettere in discussionegli equilibri finanziari all’in-terno della sanità regionale, eaffrontare dunque alcuni nodidando però priorità alle ne-cessità delle persone e non aquelle delle istituzioni. Perquesto sarà un percorso certa-mente non facile. ■

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In questa e nella pagina seguente: installazioni di Silva Pellegrini.Torre Scaramuccia, San Vito al Tagliamento (Pn), 2002.

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verità, dubbio, finzione

Siamo stanchi d’aver mentito edove lontano vivo / le carezzeguariscono ogni male, / spedi-scimi le parole che ti dovrei di-re / e giuro che le imparerò.Ivano Fossati Il motore delsentimento umano – La disci-plina della Terra – Sony Music

Siamo uomini o caporali?Totò

In fondo come gli efimeri delDialogo di un fisico e di un me-tafisico di Leopardi la lettera-tura e la sua menzogna vivono,un solo giorno, l’illusione del-l’alba, la morte del vespro di-menticandosi nel breve tratto,della noia e della vita. Dal nul-la verso il nulla!

Roberto Saviano

«Italialibri.net»

Il poeta è un fingitore. / Fingecosì completamente / che arri-va a fingere che è dolore / ildolore che davvero sente.

Fernando Pessoa

Poesie, Mondadori

Berlusconi non lo considero unbersaglio, ma un collega. La dif-ferenza è che noi comici raccon-tiamo un mucchio di balle, maper essere vicini alla realtà.

Paolo Rossi

«Vita - No profit magazine»

Anche se raccontassimo, nonsaremmo creduti.

Primo Levi

I sommersi e i salvati, Einaudi

Le verità che la Chiesa ritienenon possano essere contrad-dette da alcun retto ragiona-

mento non riguardano solo igrandi temi (l’esistenza di Dio,l’immortalità dell’anima, il be-ne e il male) ma anche i precet-ti positivi più minuti della mo-rale (compresi masturbazione,preservativo, sesso prematri-moniale, omosessualità, e viapruriginando) sui quali Wojtylaha ribadito la «competenzadottrinale specifica da partedella Chiesa e del suo Magiste-ro», contro le tendenze del cat-tolicesimo pluralistico che met-tono in dubbio «il nesso intrin-seco e inscindibile che uniscetra loro la fede e la morale».

Paolo Flores d’Arcais

tratto da «Micro Mega 1/99»

«Era un bugiardo».«Era orgoglioso, ecco perchéha mentito».«Come fa un bugiardo ad ave-re orgoglio?».

John Fante – Un annoterribile, Fazi Editore

A prima vista appare pocochiaro perché Dio abbia crea-to la dimenticanza. Ma il si-gnificato è questo: se non cifosse dimenticanza, l’uomopenserebbe continuamente al-la propria morte e non co-struirebbe case e non intra-prenderebbe nulla. PerciòDio ha posto negli uomini ladimenticanza. Perciò un ange-lo è incaricato di insegnare albambino così che non dimen-tichi nulla, e un altro angelo èincaricato di battergli sullabocca perché dimentichi quel-lo che ha imparato.

Martin Buber – I raccontidei Chassidim, Garzanti

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Flashback

A cura di Fabio Fedrigo

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Numeri pubblicati

Il passaggio, la metamorfosi,le sfumature–Che cos’è una città–I sintomi della salute–La Guerra–Sognare, forse…–L’amicizia–La comunità e i suoi destini–La cura del Mondo

Atti & DocumentiSoggetto e istituzione.

L’eredità di Franco Basaglia–La Provincia nel bicchiere.Una ricerca sui problemi alcolcorrelati–Comunità che curano