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L’IPPOGRIFO LaTerra vista dallaLuna •••••••••••••••••••••••• •••••••••••••••••••••••••••••• In questo numero: Gioco e violenza Primavera 2005

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L’IPPOGRIFOLaTerra vistadallaLuna

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In questo numero:

Giocoe violenza

Primavera 2005

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EDITORIALE3 Paura dell’amore?

di Roberto Muzzin

GIOCO E VIOLENZA5 Governare il rischio

di Pier Aldo Rovatti

Violenza7 La violenza dei non-violenti

di Francesco Stoppa15 Deficiènte

di Daniela Da Ros18 Dodici dicembre 1969

di Stefano Fregonese22 La violenza contro le donne

di Leila Zannier25 La forza del pensiero di fronte al male

di Maria Grazia Giacomazzi30 Ombre

di Fernando Del Casale33 Adolescenza e violenza

di Graziano Senzolo38 Gioco e violenza

di Lucio Schittar40 Viuuulenza!

di Andrea Appi

Gioco42 Bambini, sport e violenza

di Renato Gerbaudo46 Gioco d’un giorno

di Giancarla Taddeo47 Giocare con i bambini

di Leopoldo Peratoner51 Il caso degli scacchi

di Enzo Marigliano54 Noi ci credevamo

di Paolo Lutman57 Guerrieri? Volete che giochiamo

a fare la guerra?di Massimiliano Zane

61 Figli del demonio?di Anna Piva

64 Inganni, doping e violenzanello sport dell’antica Greciadi Piervincenzo Di Terlizzi

66 Lavoro post-fordista e giocodi Marco Cerri

SOMMARIO

L’IPPOGRIFOLaTerravistadallaLuna

70 Anatomie notturnedi Giovanni Ciot

72 Non è facile fare i genitori,ma non è facile nemmenofare i figlidi Maria Teresa Santin

74 L’avvocatodi Luigina Battistutta

76 Flashbackdi Fabio Fedrigo

EREDITÀ DI UN PAPA77 Il dono della Slavia

di Otello Quaia79 Il conservatorismo rivoluzionario

di Giovanni Paolo IIdi Massimo Riccetti

FORMAZIONE81 Sulle buone pratiche

di Margherita Gobbi84 L’integrazione dei percorsi

di progettazionedi Guido Tallone

88 Oratori come educazionealla non violenzadi Leo Collin

91 L’anziano e la cultura del rispettodi Merenla Imsong

LIBRI93 Vite di confine

di Carlo Viganò95 Dopo il suicidio di un familiare

di Margherita Gobbi96 Il Grande Complotto

di Stefano Sabbatini98 La forza delle idee

contro il fondamentalismodi Pierluigi Pellegrin

QUI PORDENONE99 Racconti pordenonesi

(Quarta parte)di Massimiliano Santarossa

102 Se conoscere non servedi Giovanni Zanolin

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Libreria al Segno Editrice

Questa pubblicazione è promossadall’Associazione «Enzo Sarli»,via De Paoli, 19 - 33170 Pordenone.

Coordinamento editorialee di redazioneMario S. Rigoni,Francesco Stoppa,Patrizia Zanet.

RedazioneFlavia Conte,Fabio Fedrigo,Piervincenzo Di Terlizzi,Roberto Muzzin,Lucio Schittar.

Progetto graficoe impaginazioneStudio Rigoni.

VideoimpaginazioneAnna Piva.

StampaTipografia Sartor - Pordenone.

Stampato nel mesedi giugno 2005

Vicolo del Forno 2

33170 Pordenone

Telefono 0434 520506

Fax 0434 21334

Copyright© del progetto editoriale:«L’Ippogrifo» by Studio Rigoni.È vietata la riproduzione, senza citarne la fonte.Gli originali dei testi, i disegni e le fotografie,non si restituiscono, salvo preventivi accordicon la Redazione. La responsabilità dei giudizie delle opinioni compete ai singoli Autori.

L’IPPOGRIFOLaTerra vistadallaLuna

In questo numero:

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Giocoe violenza

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Primavera 2005

Hanno collaborato a questo numero:Andrea Appi, attore comico.Luigina Battistutta, redattrice.Marco Cerri, sociologo.Giovanni Ciot, regista.Leo Collin, sacerdote.Daniela Da Ros, insegnante.Fernando Del Casale, psicoterapeuta.Stefano Fregonese, psicoterapeuta infantile.Lara Frottin, studentessa in Arteterapia.Renato Gerbaudo, psicoanalista.Maria Grazia Giacomazzi, psicoanalista.Margherita Gobbi, psicoanalista.Merenla Imsong, insegnante.Paolo Lutman, bibliotecario.Enzo Marigliano, storico.Pierluigi Pellegrin, pubblicista.Leopoldo Peratoner, pediatra.Anna Piva, grafica.Otello Quaia, docente di Storia della Chiesa.Massimo Riccetti, preside.Pier Aldo Rovatti, docente universitario.Stefano Sabbatini, impiegato.Massimiliano Santarossa, redattore.Maria Teresa Santin, psicoterapeuta.Graziano Senzolo, psicoanalista.Giancarla Taddeo, insegnante.Guido Tallone, assessore Politiche sociali e Sindaco di Rivoli (To).Marco Tracanelli, artista.Carlo Viganò, psicoanalista.Massimiliano Zane, ricercatore universitario.Leila Zannier, psicologa.Giovanni Zanolin, assessore Servizi sociali Comune di Pordenone.

Sostengono la pubblicazione de «L’Ippogrifo»:Azienda per i Servizi Sanitari n. 6 «Friuli Occidentale»

e Dipartimento di Salute Mentale di Pordenone.Comune di Pordenone.

Amministrazione Provinciale di Pordenone.

Coop Acli, Cordenons.Coop Fai, Porcia.Coop Service Noncello.

Coop Itaca, Pordenone.Licei Riuniti «Leopardi-Majorana» di Pordenone.

Questa pubblicazione è stata realizzatacon il contributo della FondazioneCassa di Risparmio di Udine e Pordenone

Per inviare contributi, riflessioni e impressioni, scrivere a:Redazione «L’Ippogrifo» c/o Studio Rigoni, viale Marconi, 32

33170 Pordenone. Telefono e fax: 0434 21559.E-mail: [email protected] [email protected]

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In questa prima parte dell’an-no 2005 «L’Ippogrifo» gettauno sguardo su due temi – gio-co e violenza – che vengonoaccoppiati in una connessioneche tende propedeuticamentead intrecciarsi alla questionedella morte cui sarà dedicato ilvolo invernale. Visto dalla lu-na, l’essere parlante sembragiocarsi la vita – la propria equella del pianeta che l’ospita – misconoscen-do la funzione del limite, sempre e solo da su-perare, fino all’estremo.Oltrepassare ogni limite, in una logica diespansione che, come scrive Zane a propositodella realtà virtuale e dell’alta tecnologia mul-timediale, promette all’individuo «di metterein atto in piena libertà ciò che più desidera:una comunità emozionale al di là di qualsiasimorale, con il superamento dello spazio, deltempo e di se stesso».Promessa empia e gravida d’effetti mortiferi peril soggetto. Ha ragione Viganò, recensendo il li-bro di Feliciotti sull’adolescenza, nel sottolinea-re che «questa ineludibile tendenza del mondocontemporaneo, […] oppone alle possibilitàdel soggetto un habitat che di fatto lo uccide».Infatti, nella nostra cultura, orientata dal pen-siero unico del neocapitalismo globalizzato,l’orrore della differenza e del diverso è il risul-tato del mancato riconoscimento di una divi-sione strutturale. Condizione che attraversa legenerazioni, difetto di trasmissione tra di esse,in assenza di una formazione – Bildung – dal-la quale la famiglia si trova oramai esautorata.Problema che si riversa sulle istituzioni che,impostate a loro volta sul modello aziendalisti-co, si rendono incapaci di elaborare la questio-ne del sacro (Stoppa), contribuendo alla dere-sponsabilizzazione mediante l’uso metonimicodella delega. Su questo punto è prezioso il testodi Tallone che articola la complessità insita nel

gioco tra istituzioni che voglia-no porsi effettivamente al ser-vizio della comunità. E lo famettendo in risalto il rischiodell’applicazione di strumentistandardizzati che, invocati co-me scientifici, con la presun-zione di misurare ciò che perdefinizione non lo è, si rivela-no inefficaci e controprodu-centi, atti a favorire esclusione

anziché inclusione sociale. In ciò ritroviamosottotraccia una violenza che l’istituzione eser-cita nell’omologazione – che Pasolini denun-ciava – o che scoppia dirompente come nel 12

dicembre 1969 ricordato da Fregonese. In questo periodo la bomba di piazza Fontana,l’omicidio del poeta, il massacro del Circeoriappaiono in cronaca: eventi di oltre trent’an-ni riattualizzati e annodati a quella «stessa ra-zionale distruttività impiegata dai carnefici na-zisti» votata all’annullamento dell’alterità.Banalità del male, evitamento del pensiero edel gioco dialettico che porta al riconoscimentodell’altro che ci abita e che il testo di Giaco-mazzi indaga, a partire da Hannah Arendt e Si-mone Weil, sul versante della posizione fem-minile, su una via «in cui si coglie la verità si-multanea dei contraddittori». Come il gioco ela violenza, questioni peculiari dell’esperienzaumana, che hanno radice nel corpo pulsionalee sono l’esito riuscito o mancato di un processodi simbolizzazione che non va da sé.Infatti, come scrive Gerbaudo, solo «là dove ilsoggetto è stato ed è oggetto di un desiderioparticolare, mediato dalla presenza di una tra-smissione paterna, qualunque sia, allora c’è lapossibilità d’elaborare la violenza simbolica-mente, senza agirla».Qualunque sia fa appello alla responsabilità diognuno, altrimenti sarà vero che «forse il giocodei grandi è avere paura» di una legge che tro-vi nell’amore il suo fondamento.

EDITORIALE

Pauradell’amore?

Roberto Muzzin

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Che il gioco e la violenza abbia-no qualcosa in comune è unfatto acclarato e ogni volta ac-clarabile. Ma il gioco, se è dav-vero un gioco, gioca anche laviolenza, la quale, così, nel tem-po-spazio del gioco, o più sem-plicemente nel contesto dell’e-sperienza ludica, diventa ognivolta un’esperienza giocata.La questione non è ovvia, ma èinequivoca. Comincio dalla co-da di quest’ultima affermazio-ne, per arrivare poi alla sua te-sta. Non ci possono essereequivoci sul fatto che il gioconon produce violenza. È unaconcatenazione falsa che spo-sta l’accento dalla violenza stes-sa, che non riusciamo né vo-gliamo – per dir così – guarda-re in faccia, forse perché nonsosteniamo di specchiarci in es-sa, al luogo troppo comunedella stigmatizzazione del gio-co, quando il gioco debordadalla sorveglianza pedagogica.Rimuoviamo la violenza ma ri-muoviamo con lo stesso gesto ilgioco, che subito viene squalifi-cato come qualcosa di dispersi-vo e infine di non morale.È una vecchia storia da cuicrediamo ormai di essere usci-ti, ma nella quale siamo anco-ra immersi. Così accade, comein questo caso, che ci importimeno della violenza e ci inte-ressi piuttosto ristabilire iconfini del gioco e separarnegli aspetti buoni da quelli no-civi. Forse perché pensiamoche tutti giocano e pochi sonoviolenti: e poiché tutti gio-chiamo diventa urgente pertutti squalificare un “certo”gioco, descriverne la patologia

e curare la parte malata cosìche il corpo torni a essere in-tegro e sano.Se togliamo la maschera aquesto dispositivo sociale cheprotegge la funzione norma-lizzante del gioco, e con ciòannulla completamente il gio-co stesso, quello che riuscia-mo a vedere non è ovvio nétranquillizzante. Si può gioca-re la violenza? Rispondo cheogni gioco è una violenza gio-cata, se conveniamo che evi-dentemente ogni gioco ha ache fare con l’agonalità o conil caso o con una qualche per-dita della propria identità o

con la seduzione del limite:con uno di questi aspetti o,come capita più spesso, conuna mescolanza di due di essie talora anche di tutti e quat-tro. Non c’è bisogno di chia-mare in causa i cosiddetti gio-chi di guerra o i giochi d’az-zardo. Basta un gioco qualsia-si, nel quale subito emergonoesperienze di messa alla provadi se stessi, di sfida, di vincitae perdita. Molti studiosi si so-no soffermati davanti al para-dosso della lotta giocata deicuccioli. C’è o non c’è, qui,violenza? Se sostenessimo chenon c’è alcuna violenza o chesi tratta di semplice simulazio-ne, che ne sarebbe del gioco?E del piacere che esso visibil-mente produce?In realtà, la questione del gio-co non è stata assolutamentefatta propria dalla nostra cul-tura prevalente, e cioè, insom-ma, dalla nostra cultura. Ap-pare come un capitolo giàchiuso che quasi nessuno è in-teressato a riaprire. Non è unaquestione che inquieta il no-stro dibattito normale, proba-bilmente per il fatto che pen-siamo di avere su di essa ideechiare e distinte. Mentre, co-me accade ogni volta che ciserviamo di idee stereotipate egià impacchettate, gioco e ri-schio si intrecciano stretta-mente in un equilibrio la cuiinstabilità risulta essere l’es-senza stessa del gioco e delgiocare. Mantenersi in questainstabilità è “saper giocare”,ma al tempo stesso è un’espo-sizione di sé e una capacità digovernare il rischio, in un’e-

GIOCOE VIOLENZA

Governareil rischio

Pier Aldo Rovatti

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Pier Aldo Rovatti insegnaStoria della filosofia contem-poranea all’Università di Trie-ste. Tra i suoi testi ricordia-mo: L’esercizio del silenzio,Cortina; Abitare la distanza,Feltrinelli; La follia, in pocheparole, Bompiani; Il paiolo bu-cato. La nostra condizione pa-radossale, Bompiani. Dirige larivista «aut aut».

Nella pagina precedente:Antonio del Pollaiolo (1431-1498),

Ercole e Anteo (1475),Firenze - Galleria degli Uffizi.

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sperienza forse facile da prati-care ma difficile da compren-dere e da tradurre in un qual-che pensiero. Dire che nelgioco si ritualizza la violenzanon è sbagliato, ma è poi deltutto insufficiente. Infatti, checosa significa “rituale”? Riu-sciamo a darne un’idea senzautilizzare di nuovo il gioco co-me un operatore determinan-te quanto indecifrabile?Dovremmo allora ammettere,con onestà intellettuale, che,

se da un lato consideriamo ilgioco come una della funzionifondamentali della nostra esi-stenza, dall’altro lato sappia-mo molto poco del giocare edel gioco. Il peggio è che nonsolo siamo scarsamente inclinia prenderne atto ma ritenia-mo spesso del tutto inutile ilfarlo. Così il gioco resta di so-lito una specie di stanza disgombero, ora refugium pecca-torum ora attività dopolavori-stica o vacanziera. Che il gio-

co sia un processo delicato dide-realizzazione è per lo piùaccettato con un’alzata dispalle. Tutti credono di sapereche cosa sia una “evasione”.Ma se in quell’evasione, cosìquotidiana, si avverte che lì“si gioca la violenza”, nessunoo quasi nessuno ne fa un pro-blema: subito il gioco passanella parte “maledetta” dellanostra esperienza, oppure di-ciamo semplicemente: «Que-sto non è più un gioco». ■

gioco e violenza

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Nel gioco culturale, stanco oforse annoiato di parteciparealla partita come un manuten-golo, ho deciso di modificare ilmio ruolo, divertendomi a diresenza paura: «Vedo».

«Caro m’è il sonno e più l’esserdi sasso mentre che il danno ela vergogna dura». Siccome il danno e la vergo-gna sembrano durare anche oggi, chi sono co-storo che sempre ci bastonano e ci umiliano e cifanno sentire e pensare come Michelangelo tantisecoli fa? I soliti prepotenti. Oppure è tutta “let-teratura”?

Viviamo nel temporaneo e nel concreto, madobbiamo appendere il tempo all’eterno e il pie-no al vuoto. Di fatto il nostro limite si regge sul-l’illimitato. È una realtà? È una immaginazione?Dal momento che il limite non può essere in-franto, l’immaginario diventa una realtà “alla pa-ri” con la realtà sensibile.

Speriamo di trovare soluzioni soddisfacenti atutti i nostri assilli o problemi o perplessità men-tali, occupandoci soltanto della “realtà”; accan-tonando, cioè, lo studio e l’organizzazione del-l’immaginario. Ma il reale e l’immaginario sonointerdipendenti e rimandano l’uno all’altro, inun giuoco dove il protagonista è soltanto l’uo-mo: l’uomo che si sdoppia in sensi e mente, chediventa oggetto e fa di ogni cosa – per districarsi– tanti oggetti e tanti soggetti.

Si oscilla, si rimbalza. Da una parte la posizioneideale: bella, perfetta ma fuori dal mondo. Dall’al-tra la realtà, sempre scomoda perchè cambia e af-fanna. Noi che vorremmo una posizione sta-

bile, scopriamo che è impossibi-le. Per volontà o necessità, peramore o per forza, ci attacchia-mo, bestemmiando, ora a que-sta ora a quella.

Terrorizzato da bambino, ri-cattato nell’adolescenza, aggre-dito con tutte le armi nella gio-

vinezza, il “cittadino” cresce in un mondo vio-lento e fraudolento. Assoggettarsi? Ribellarsi?

Ci sono presenze forti – passive o attive – che ciobbligano a fare e a non fare, nella nostra vitaquotidiana. Non parlo delle forze naturali, comela terra che ruota, il sole, il mare, ma di quellesociali. Ci fanno sentire sciocchi e impotenti,non più liberi di burattini e marionette. Eppurenon c’è uomo, piccolo e debole che sia, che nonprepari un qualche piano per modificare fattitanto più forti di lui.

Gli scienziati, che hanno cambiato il mondo – sidice così – sono importanti per il fatto di averlocambiato. Non importa che l’abbiano cambiato inmeglio o in peggio. Di chi, nella storia, si può direche ha fatto il mondo “migliore”? Sembra, così,che non conti il meglio o il peggio, perchè in asso-luto non esistono. Ogni volta, cambiare è meglio.

L’uomo non può cambiare, ma può impegnare lesue risorse e la sua abilità, più o meno intensa-mente, e indirizzarle a scopi diversi. Perciò eglinon può cambiare ma ha in sé la possibilità dicambiare il mondo.

Tratto da Sfregazzi.Dispositivo poetico di emergenza,

Guido Guidotti Editore, Roma 1988.

Guanina

Sabatino Ciuffini

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Nel maggio dello scorso anno ilquotidiano «la Repubblica» hapubblicato un intervento diJean Baudrillard sullo scandalodelle torture nelle prigioni ira-chene. L’obiettivo dei seviziato-ri americani – così sosteneva ilfilosofo francese – era quello diumiliare il nemico simbolica-mente più che fisicamente. Questo è un passo di quell’ar-ticolo, intitolato Il reality showdell’orrore: «Ed è lì che saltaagli occhi lo scopo di una guer-ra, che non è quello di uccide-re o di vincere: è quello di an-nientare il nemico, di spegner-gli (credo sia stato Canetti adirlo) la luce del cielo. In effet-ti che vorranno mai far confes-sare a quegli uomini, qual è ilsegreto che dovrebbero estor-cere loro? È semplicementeciò nel cui nome, in virtù dicui, essi non hanno paura dimorire. Quella è l’invidiaprofonda, la vendetta degli“zero morti” su coloro che nonne hanno paura, in nome dellaquale infliggere loro qualcosadi ben peggiore della morte[…] L’impudicizia radicale, lavergogna della nudità, la spo-liazione da ogni velo».

Il fascino del terrorista

Era stato sempre lui, Baudril-lard, a parlare, subito dopol’11 settembre, di una incon-fessabile complicità tra noi e iterroristi, ipotizzando cheproprio questo segreto puntod’intesa spiega la risonanzapsicologica di quell’evento:«Sono loro che l’hanno fatto,ma siamo noi che lo abbiamovoluto».

Dall’interno di un sistema im-munitario che si vorrebbe blin-dato, che anela a bandire dalsuo interno ogni contraddizio-ne e ogni conflitto in nome del-la sicurezza, del benessere edella felicità, il virus del terro-rismo ripropone tutto il fasci-no irresistibile della pulsionedi morte. Come dire, quandonon si sa più morire (il cheequivale a non si sa più vivere)ci si suicida, e effettivamente laviolenza terroristica non haun’origine del tutto autonoma,non viene semplicemente daun’altra cultura, ma anche dal-l’interno della propria. In

realtà bin Laden è un capitali-sta, i suoi uomini vivevano ne-gli Stati Uniti e si sono servitidei mezzi del sistema (gli aerei,l’antrace, la contaminazionebatteriologica, Internet per leperiodiche minacce) per pro-durre un evento che è divenu-to innanzitutto mediatico e perlanciare i loro anatemi al mon-do occidentale. Tuttavia l’arma prima dei ter-roristi, ciò che li rende così af-fascinanti ai nostri occhi nutri-ti di verità virtuali, è la veritàreale del loro saper morire. Perun sistema che vive nell’orroredella morte e nel rigetto dell’i-dea di violenza, lo slogan deinostri nemici – «I nostri uomi-ni hanno tanta voglia di morirequanta gli americani di vive-re!» – non può non provocarela sorpresa e suscitare l’invidiadi chi non sa più vivere. Alpunto di trasformare l’azioneterroristica in un evento spet-tacolare, di sublimare l’atto didistruzione di quella che era lametafora architettonica del no-stra sistema cibernetico bina-rio (le Torri Gemelle, sedi delCentro Mondiale del Commer-cio) in un’immagine esteticache conserva tuttora un potereinebriante nel nostro fantasma.Siamo ancora lì, come in predaa uno stato stuporoso, a vederee rivedere quella sorta di scenaprimaria che segnala il nostroprecipitare «nel deserto delreale» (secondo un’espressionedi Slavoj Žižek). Se dunque c’è la categoria delBello che viene evocata peresorcizzare il Male, non puòpoi non scendere in campo an-

violenza

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La violenza dei non-violenti

Francesco Stoppa

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che l’esercito del Bene (o unacoalizione di eserciti a cui an-che il nostro, quello italiano,partecipa). Il Bene, in questocaso, si propone forse con laviolenza? Giammai, ricorre,anzi, alle sofisticazioni dellascienza e della tecnologia perattuare un trattamento chirur-gico del Male, una terapia chenon farà soffrire gli innocenti,quella appunto degli “zeromorti” (naturalmente questeerano le intenzioni dichiara-te…). E il volto dell’eroe delBene, il comandante Bush, sicontrappone a quello del mali-gno bin Laden (figura iconolo-gicamente interessante nellasua doppiezza: se da un lato ri-corda certi personaggi diaboli-ci che compaiono in mitici nu-meri del Tex di Bonelli e Ga-leppini, dall’altro, col suosguardo languido, fa pensare atutt’altro che a una creaturaviolenta. L’associazione – certoun po’ forte – è a certi padrid’oggi, dimessi e incapaci dinuocere, dietro ai quali però sistaglia, come la faccia terribiled’una stessa medaglia, l’ombradi un Padre orrorifico).Ma il terrorismo ha già vinto labattaglia, ed è bene saperlo. Èsempre salutare non illudersi,uscire dal virtuale: come ha so-stenuto Jacques Derrida, iltrauma che il terrorista ci hainflitto non è quello generatoda una guerra, che prima o poitermina, o quello conseguenteallo scoppio di una bomba de-vastante comunque ormaiesplosa, ma è il trauma del«peggio a venire»: la minacciaincombente e sempre presenteche non arriva più da un nemi-co collocato all’esterno deipropri confini, qualcosa che sipuò d’un tratto sparpagliareovunque perché i confini sonospariti. La difesa paranoicanon tiene più, è anacronistica,è morta col nazismo e con la

guerra fredda. La globalizza-zione ha infatti cancellato le di-stanze, la differenza tra internoed esterno, locale e mondiale,proprio e improprio.

Unabomber «Il peggio a ve-nire» è anche il nome di colui(o coloro, una setta?) cheprovvisoriamente chiamiamoUnabomber, e che il maggiorquotidiano del Nordest ha bat-tezzato Monabomber, creden-do forse di esorcizzare un ge-nerale senso di impotenza conquesta grezza ironia da osteria. La cosa è piuttosto seria, inve-ce, per lui. Qui, come semprequando si tratta non di aggres-sività ma di violenza, c’è in gio-co non l’impulsività ma la ra-zionalità, la capacità di pro-grammazione, la lucidità, tuttecondizioni, queste, che ci por-tano a pensare che l’azione cri-minale sia sostenuta dalla con-vinzione, più o meno inconscia,di avere una missione da com-piere: molto probabilmente, inquesto caso, ripristinare l’im-previsto, l’ingovernabile, nel

cuore del mondo, liberandolodalla garanzia mortifera di unasicurezza blindata. Se un tem-po il destino, il rischio, l’in-ghippo, li potevamo incontrarea un trivio nei pressi di Delfi osul monte Sinai, oppure, più vi-cino all’esperienza di ciascuno,nell’impatto fatale con l’altro,con quella responsabilità di es-seri parlanti che ci divide espesso ci ferisce, oggi il Fato èin un ovetto Kinder: se apriquello giusto non ti succedenulla, altrimenti…Unabomber è dunque una fi-gura (caricaturale, psicopaticaquanto si vuole, ma lui si pren-de evidentemente molto sul se-rio) del destino inteso comesorte, quello che non ha un sen-so, la vecchia τυχη dei greci,quel reale che cova nella pro-pria anima e che nemmeno ilnostro sistema iperefficace puòpadroneggiare, misurare, pre-venire. Non c’è, infatti, profi-lassi della vita in quanto tale. Così, nel suo delirio, l’autoredegli attentati che sconvolgonoil ricco Nordest gioca come glidèi crudeli dell’Olimpo gioca-vano con gli umani i quali,ogni volta che venivano toccatida tanta potenza, ne uscivanoferiti, stuprati, comunque se-gnati. Ma, a differenza dei ter-roristi islamici, egli non agiscein nome di un dio del Bene odi un ideale di purezza, e nonsi serve di armi letali. L’ineso-rabilità del destino lui la na-sconde in piccoli scarti dellaproduzione, oggetti dispersi aibordi delle strade, sulla spiag-gia, sui ciottoli ai bordi di unfiume. Oggetti che non a casoattirano l’attenzione soprattut-to dei bambini, più disposti aincuriosirsi delle forme dellecose che del loro valore d’usoo di scambio. Oggetti non rici-clabili, estromessi dal flussodei beni di consumo: è da lìche viene l’insidia, è lì che ci

gioco e violenza

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Il raggio d’azione di Unabombere il particolare di un ordigno.

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attende il destino. Da ciò cheabbiamo rigettato perché pri-vo di qualità, ci ritorna un im-perscrutabile, enigmatico av-vertimento della vita (e forsequesto ci dice qualcosa sultratto melanconico del sogget-to in questione).Proprio nell’incontro con l’og-getto improduttivo, inutilizza-bile, con lo scarto, avrà luogol’evento determinante di unavita, della vita di chiunque, iltrauma che dovrà risvegliare il“dormiente” o il sonnambulo,metafora dell’uomo modernoinstupidito nel godimento deibeni di consumo. Allora la vit-tima – non importa se vecchioo bambino – sarà iniziata: nonc’è infatti alcuna volontà di uc-cidere, in questo bisogno dimutilare l’altro si intravedonopiuttosto un intento e un rigo-re di tipo pedagogico.Sicuramente il fenomeno inquestione ha anche il senso diun attacco alla vita. C’è il con-corso di un’invidia arcaica e fe-roce per una sorta di perfezio-ne che l’altro avrebbe in sé eche bisogna scalfire, ma pro-prio questo deve farci rifletterea come, nel fantasma di questapersona, l’altro sia carico diun’insopportabile completezzache va, appunto, rotta, com-promessa, sfregiata (cosa ci saràall’orizzonte dei pensieri incon-sci di tale individuo, una Madreonnipotente, la propria stessaimmagine di Bambino ideale, ilbambino dalle uova d’oro, co-me direbbe Elvio Fachinelli?).Se, quindi, non deve sfuggirciquesto aspetto della serietà edella consapevolezza di unamissione da compiere, altret-tanto si dica per un altro signi-ficato latente ma fondamenta-le nel fenomeno di Unabom-ber. Il godimento che può de-rivargli dalla decadenza del-l’altro e dalla consapevolezzadi poterlo colpire quando me-

no se l’aspetta va di pari passocon un’altra esigenza, quelladel ripristino di una dimensio-ne di sacralità. Quando c’è violenza, vuol direche la dimensione del sacro èlì, invocata come prova di ve-rità del vivente, e questo devefarci capire che Unabomberassume, nei suoi “riti sacrifica-li”, una funzione sacerdotale.Officiante di una solipsisticasacralità senza religione, tuttagestita in privato, egli imprimeai corpi delle sue vittime ilmarchio traumatico da cui, neiriti iniziatici, ha origine la sog-gettività in quanto effetto diuna ferita dell’essere. Inutilenegarlo, pensa di avere un ruo-lo sociale, la sua non è una pe-dagogia sadiana, non mira alladistruzione in sé; è invece ani-mato, pur nella sua matricepsicologica carica d’odio, daun impegno morale.

Assassini seriali È indubbioche la società postmoderna nongode di ottima salute se la que-stione del sacro (elemento fon-

damentale per ogni comunità)le viene rimandata da terroristisanguinari o da psicopatici soli-tari. Questa desacralizzazionedel mondo e delle cose delmondo, e ovviamente di noistessi, è, si sa, l’effetto del lavoroincrociato del discorso dellascienza e delle logiche di merca-to. All’insegna del «Tutto è co-noscibile e manipolabile» e del«Tutto è acquistabile», senzapiù limite alcuno, il frutto del-l’Eden ce lo stiamo serenamen-te consumando giorno per gior-no (compreso il torsolo che, na-turalmente, ricicleremo).Per il gruppo umano il proble-ma, fin dall’inizio, è stato pro-prio il trattamento del sacro,pena la condizione della suastessa sopravvivenza. Cos’è ilsacro che va costantemente cu-stodito, lavorato, elaborato? Inprimo luogo la violenza reci-proca. L’esperienza traumaticadella violenza è quanto riuni-sce gli uomini, e la società è lamisura preventiva di reciprocadifesa dall’altrimenti illimitatalibertà individuale. I corpi deimembri del collettivo umanovanno difesi dal dolore che laviolenza genera, violenza chepuò propagarsi, fulminea e mi-cidiale, al proprio interno. Perquesto essa va ritualizzata econcentrata in momenti parti-colari, votata a qualcosa di as-soluto: è questa la funzione deisacrifici al dio, per lui si span-de il sangue della vittima e nonpiù per odio fratricida. Da qui la necessità, per ognisocietà, di un principio tra-scendente, qualcosa di sottrat-to all’organizzazione materialedelle cose, alle logiche dell’uti-le e della produttività. Un ele-mento terzo che smarchi imembri del collettivo umanodalla violenza reciproca e in-troduca la dimensione del pat-to simbolico e della Parola. Esolo questa presenza simboli-

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Due vignette tratteda Tex e il figlio di Mefisto.

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ca, questo punto di differenzaassoluta, dirige i percorsi iden-tificatori dei soggetti verso for-me non alienate di riconosci-mento di sé e del proprio po-sto nel mondo. Quando talefunzione salta, è chiaro che siproduce una pericolosa ridu-zione immaginaria delle rela-zioni simboliche; in altri termi-ni, ci si scanna l’uno con l’altro(si pensi alla realtà della ex-Ju-goslavia, dove alla caduta di unregime, che sembrava cemen-tare le diverse etnie che locomponevano, consegue la lot-ta fratricida più spietata che sipossa immaginare).Ma attenzione, non siamo difronte ad un fenomeno diistintualità animale che, sla-tentizzato, riaffiorerebbe nel-l’essere parlante: la violenza èun fatto prettamente umano.L’animale è aggressivo ma maicrudele, prova ne è il fatto cheil suo istinto è al servizio di unfine, di un’utilità, mentre l’uo-mo è colui che gode del maleinflitto o che riceve. Non esi-stono animali serial killers che,come il protagonista di Ameri-can psyco di Bret Easton Ellis,facciano collezione dei bran-delli umani delle loro vittime,ritagliando da quei corpi mar-toriati i trofei necessari a man-tenere il delirio di una propriasovranità sull’altro. Il serial killer organizza confredda apatia, con perfetta pa-dronanza di sé, e quindi deltutto esente da qualsivogliaraptus di bestialità, la restitu-zione della soggettività dellesue vittime alla loro condizio-ne di “nuda vita”, liberandolecosì della loro cifra umana. To-glie ad esse qualsiasi specifi-cità, ne fa membra disiecta e lenumera, ne fa l’elenco, come inun elenco telefonico troviamoserie di nomi senza volto e sen-za storia. La vittoria dell’assas-sino seriale si compie nella de-

vastazione della condizioneumana, in questa riduzionedella soggettività vuoi al suodato anatomico vuoi a puroelemento numerabile di unacatena significante.L’arma della violenza umana,allora, non è mai la forza bru-ta, muscolare, ma la ragione.Pensiamo alla scimmia dei pri-mordi che in 2001: Odisseanello spazio utilizza un osso ri-curvo come arma per elimina-re l’avversario: è già l’uomodella tecnica, quello che neltempo, non a caso, sperimen-terà nelle guerre gli strumentidi progresso che poi utilizzerànei tempi di pace. Che faràdella scienza e della tecnica leprotesi della sua pulsione didistruzione.Tutto ciò produce un curiosoparadosso: la società, che nascedal bisogno di evitare morte eviolenza, produce poi a suavolta morte e dolore. Ascoltia-mo Wolfang Sofsky: «La vio-lenza conquista continuità cul-turale non a causa di impulsinaturali, bensì a causa di forzespecificamente umane […] Lascoperta di nuove armi e atro-cità ha le proprie radici nellasua sconfinata immaginazione.

Poiché l’uomo può immaginar-si tutto, è capace di tutto. Poi-ché non è guidato dagli istinti,poiché è un essere dotato di in-telletto, è in grado di compor-tarsi peggio della più malvagiadelle bestie». Come si vede, èl’elemento “naturale” dell’uo-mo, il linguaggio – ciò che glipermette le più alte conquisteculturali e scientifiche, ciò chelo eleva al di sopra delle altreforme viventi – a permetterglidi esercitare forme di violenzapressoché infinite. E, tutt’altro che esserne l’anta-gonista, è dietro gli ideali, die-tro la vetrina del Bene, che co-va e si alimenta la forza delMale. «Le idee grandiose co-stano innumerevoli vittime.Giustificano la violenza, e lapretendono. Le guerre vengo-no condotte in nome dei valorisupremi, le atrocità commesseper rendere lode agli idoli[…]. Selvaggi e barbari vengo-no sterminati dai più civilizza-ti, con gesti di superiorità cul-turale e di zelo missionario. Ilterrore rivoluzionario accadenel segno della virtù, della ra-gione o della giustizia». Ma oggi? «Il totalitarismo mo-derno – scrive ancora Sofsky –propaga la completa ugua-glianza sociale o l’omogeneitàrazziale e inevitabilmente sfo-cia nello sterminio dell’uomo.Il sogno dell’assoluto partori-sce violenza assoluta». Cosa si-gnifica? Qual è, cominciamo achiederci, la violenza che ci èpropria, quella che appartienea noi, i non-violenti?

La violenza non elaborata

Si sa che, in nome della pacedel nostro continente e delmondo occidentale, noi com-battiamo le nostre guerre neipaesi del terzo mondo. Siamoinsomma diventati tante Sviz-zere neutrali che, assieme allacioccolata, esportano fuori dai

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Sequenze da 2001: Odisseanello spazio di Stanley Kubrik.

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propri confini armi e strumentidi distruzione.Questo dimostra che, presidalla nostra utopia di felicità atutti i costi, non vogliamo piùfarci del male tra noi (magari cicommuoviamo per le ferite al-trui), salvo che la propria vio-lenza non correttamente ela-borata e semplicemente devia-ta all’esterno rischia poi di riaf-fiorare da tutti i pori della vitacivile. Dovremmo chiedercidove abbiamo spostato il pro-blema e in quale passaggio del-la nostra storia di occidentalinon siamo stati in grado diconsiderare la violenza che ci èpropria. In effetti deleghiamola questione, i barbari sonosempre gli altri e noi stigmatiz-ziamo in essi l’inciviltà che ciappartiene. Ma come il nazi-smo è nato nel cuore dell’Eu-ropa più colta e illuminata, co-sì il terrorismo è, più di quantopossiamo ammettere, un effet-to collaterale del nostro idealedi sviluppo, un risultato inatte-so del sistema economico neo-capitalista. A proposito, allora, della no-stra violenza rimossa, il grandetrauma non lavorato, il luttonon elaborato, è quello di dueguerre mondiali – sorte nelcuore della civile Europa – chehanno causato un’enormità divittime tra i civili, che sono sta-te condotte con armi di distru-zione di massa prima scono-sciute, che come correlato han-no avuto genocidi di minoran-ze e istituzioni di campi di ster-minio, e che si sono conclusecol bombardamento atomicosul Giappone, mantenendotuttavia aperto, con la guerrafredda, il terrore, la minacciadi un «peggio a venire».Come la generazione dei so-pravvissuti a tanto orrore hasuperato una simile ferita, rea-le e simbolica al tempo stesso?Ha capito cosa, dall’interno

dell’ideale che sosteneva la suatradizione culturale, abbia pre-so drammaticamente formastagliandosi come un’ombrainquietante sulle sue stesseconquiste di civiltà? Probabil-mente quella generazione equelle successive se la cavanoancora invocando la figura diHitler e attribuendo così all’o-pera malefica di un dio del Ma-le la responsabilità di decine dimilioni di morti e di città e na-zioni ridotte a cumuli di rude-ri. Atteggiamento che, dalpunto di vista prognostico,non dovrebbe farci dormiresonni troppo tranquilli.Ciò che in realtà si è messo inatto non è stata un’elaborazio-ne del lutto (il lutto dell’idealeilluminista di progresso, pro-babilmente), ma una difesacontrofobica. Sullo stile dellabulimia: l’abbuffata come ri-sposta all’angoscia di un vuotointerno; la costruzione di unmondo sicuro e iperprotetto(da fame, indigenza, guerre econflitti) che, nella fattispecie,garantisse alle generazioni a ve-nire di non dover mai incontra-re sulla propria strada le con-traddizioni dell’esistenza che sierano tragicamente presentate,

con così impressionante con-centrazione, nella prima metàdel Ventesimo secolo.Se si vuole, il 1968 ha rappre-sentato, col ritorno di una certaviolenza giovanile di piazza,una messa in discussione diquesta operazione di silenzia-mento sociale delle contraddi-zioni, agita dai figli di quei ge-nitori che avevano vissuto iltrauma della guerra. La cosacuriosa è come quegli stessi figlicontestatori, divenuti a lorovolta padri o madri, si siano poiproposti come i genitori dellapacificazione a tutti i costi, del-l’azzeramento di ogni contra-sto, della comprensione arren-devole che toglie ogni sana pos-sibilità di scontro alla dialetticagenitori/figli. Padri-amici, ma-dri-amanti: il liquefarsi dei con-fini e di ogni limite strutturan-te, il desiderio in dissolvenza.Ora, la questione diventa quel-la di capire quali siano gli effet-ti, sulle presenti e future gene-razioni, di questo lutto noncompiuto, in particolare di unaviolenza che non si è volutapienamente riconoscere comeintrinseca agli ideali della pro-pria società di appartenenza.Cosa diventa la violenza non ri-conosciuta, non accolta e sem-plicemente rifuggita, banditadalla città e non ritualizzata? Ritualizzare le contraddizionidell’esistenza non significa soloaffidarsi alla religione (che ècomunque la prima elabora-zione del sacro). Vuol dire cu-stodirle dentro cornici simbo-liche quali, ad esempio, le isti-tuzioni. La vocazione primariadella scuola o della sanità, pri-ma ancora di fornire nozioni odi dare rimedio ai sintomi, sa-rebbe quella di accogliere lequestioni cruciali del vivente,come l’iniziazione al vivere, lamalattia, la morte, la sessualità,al fine di permettergli certo –se è possibile – di non soccom-

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J. Gillray, Una fantasmagoria,(acquaforte), 1803.

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bere ad esse, ma anche di sa-persele gestire senza eccessid’angoscia, riconoscendole co-me dimensioni ineludibili delsuo stesso essere uomo. Ritualizzare vuol dire fare delteatro e dell’arte il luogo dellacatarsi, della politica il campodi uno scontro dialettico, dellosport quello dell’agòne. Tuttimodi di trattenere al propriointerno la scottante dimensio-ne del sacro, senza desacraliz-zarla ma nello stesso tempoorientandola lungo le vie dellaciviltà, cioè contaminandolacon la Parola.Ma venendo ai nostri giorni,qual è la reale possibilità di ela-borazione del sacro che puòessere tentata da istituzioni chesi sono “promosse” ad azien-de, da una politica che ha sop-piantato la passione civica a fa-vore di intrighi di partito o dicorrente; per non dire dellosport, ridotto a puro businesso a palestra della stupiditàgiornalistica? Ovviamente nes-suna, questa è l’evidenza sottoagli occhi impotenti di ciascu-no. Occhi che però constatanonon solo la fine di ogni idea dipolis, ma anche gli effetti delproblematico ritorno di ciòche non è stato lavorato sim-bolicamente.

Bulli a scuola La violenzadei non-violenti non è soloquella che lasciamo ai grandi opiccoli terroristi, è sempre piùanche quella che a vari livelli,in più contesti, si sprigiona nel-la nostra società del benessere.Ce n’è una più autolesiva e soli-taria, ma che ha tuttavia rag-giunto standard sociologici, eche vediamo all’opera nelle va-rie forme del suicidio: l’elimi-nazione di sé che si produceanche nelle ecatombi di giovanidovute a overdose di sostanzestupefacenti o alcoliche, o nellestragi stradali del sabato sera.

Ce n’è un’altra, di forme di ag-gressione (spesso organizzata),che non a caso esplode nei luo-ghi di “culto” sportivo, gli sta-di, o nelle scuole. Quest’ultimapresenta dei risvolti interessan-ti, soprattutto per la reazionead essa dell’istituzione. Cos’è ilcosiddetto bullismo nella scuo-la, quella provocazione siste-matica che rende impossibilela regolare attività nelle classi,se non da un lato il segno di unlimite ormai introvabile e dal-l’altro un appello all’Altro so-ciale affinché da quest’ultimo,finalmente, e a differenza diquanto avviene in famiglia,qualcuno risponda in terminidi autorevolezza? Non a caso l’adolescente diffi-cile, insofferente a ogni prin-cipio d’autorità incontrato ascuola («Chi è Lei, per dirmiquello che devo fare?»), ab-braccia quasi sempre un’ideo-logia di estrema destra. Para-dosso istruttivo, che ci mostrabene come esista un chiaroappello all’autorità pensabileperò solo in chiave regressiva,l’autorità come forza reale enon simbolica. Ragione per laquale l’identificazione col ti-ranno e l’invocazione di unaforma spietata d’ordine hannopreso il posto dell’introiezio-

ne di una dimensione cultura-le della legge.E in realtà è questo il fantasmache risorge dalle rovine dellafunzione paterna: quando, nel-la comunità del Grande Fratel-lo, i padri abdicano, ecco cheallora ritorna il Padre dell’orda(d’altronde questo era già av-venuto, nel secolo scorso, il se-colo della scienza, con le ditta-ture nazista e stalinista e i cor-relati fenomeni di massa). È luiil dio oscuro al quale ci si vota,le bestie non agiscono in pro-prio, sono sempre Bestie di Sa-tana. E in suo nome, senzatraccia di pietà umana, c’è dafare ordine, eliminare i parassi-ti, purificare il mondo.Venendo alla reazione dell’isti-tuzione alla violenza che subi-sce, come risponde in genere lascuola moderna alla provoca-zione che un certo numero deisuoi studenti le lancia? Cer-cando di comprendere, di giu-stificare, di mediare; evitandodi reprimere (cioè di sospen-dere o di bocciare): nientetraumi, sarebbe peggio, ancheperché questi giovani si com-portano così in quanto, è evi-dente, sono vittime di traumifamiliari! Naturalmente è esat-tamente il contrario, nellagrande maggioranza dei casiquesti giovani “soffrono” pro-prio del fatto di non aver subì-to alcun trauma, di aver trova-to, in famiglia, tutte le porteaperte senza nemmeno chiede-re o senza subire frustrazioni(sono un po’ nella posizione diquelle ragazzine che le feritedella vita se le devono procura-re da sé, infliggendosi tagli nel-la pelle da esibire con non po-ca violenza alle loro madri).Ora, si dimentica che la com-prensione umana ha scarsi ef-fetti “terapeutici” quando nonc’è più cornice, quando l’Altro(in questo caso l’Altro dell’au-torità) è in vacanza, e che, nella

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fattispecie, la cornice dovrebbeessere l’istituzione scolastica.Oggi di amorevole compren-sione se ne respira ovunque,tutti ascoltano e capiscono e so-stengono, perfino quella donnacon la voce da orco che condu-ce la trasmissione Amici. I giovani non ne possono piùdi essere capiti da adulti che,quanto a loro, non capisconopiù nemmeno dove sono. Nonse ne deduca, tuttavia, che civoglia il pugno di ferro, ci vuo-le piuttosto consapevolezza delproprio compito educativo edel ruolo formativo dell’istitu-zione. Cosa si fa, invece, dinorma, di fronte all’aprirsi del-le contraddizioni? Si chiama lopsicologo, largo alle truppespeciali, avanti con lo speciali-sta… È solo un’ammissione diimpotenza (cosa che, come sece ne fosse bisogno, incremen-ta il senso d’onnipotenza nar-cisistica dei nostri bulletti), laprova della mancanza di auto-revolezza della scuola e delcorpo insegnante, il quale an-drebbe casomai, soprattutto incasi come questi, allenato al la-voro d’équipe e al gusto dell’a-nalisi istituzionale.

Il padre da uccidere Il temadella paternità è centrale in tut-to questo discorso sulla violen-za. Il padre è il prototipo diquella dimensione terza che al-lontana il rischio dell’aggressio-ne reciproca e istituisce formedialettiche di riconoscimentodella particolarità di ciascuno,condizione questa necessariaper evitare una certa inclinazio-ne umana alla violenza. Lo sivede bene, il padre come l’edu-catore che si ritraggono dal lo-ro compito – sostanzialmenteconiugare assieme la legge e ildesiderio – lasciano campo li-bero al fantasma del Padre pa-drone, l’individuo che si collo-ca al di sopra della legge.

Nella realtà odierna accadeche gli ideali della nostra cul-tura vengono opacizzati e inva-

lidati dai suoi stessi meccani-smi di produzione, nella fatti-specie dai modelli imposti dalmercato. L’impatto di talesconnessione tra idealità e or-ganizzazione sociale può esse-re devastante per coloro chestanno attraversando il mo-mento cruciale della loro for-mazione. Questo spiega la loroscelta – in effetti la più facile eistintiva – di rivolgersi a unIdeale al di sopra d’ogni so-spetto, qualcosa che dia l’illu-sione di potersi imporre con lasola forza, senza tanti inutili efalsi discorsi. Se il legame so-ciale, nelle sue varie forme (fa-miliari, scolastiche, religiose,etc.), non permette più ai gio-vani di costruirsi validi percor-si identificatori, l’identità biso-gnerà dunque ricavarsela perpura opposizione e nel di-sprezzo per gli altri.Non dimentichiamo che siamonell’epoca dell’individualismorampante, dove la retorica del-la libertà personale diventa ilmito che ridimensiona la cen-tralità del legame sociale. Taledivaricazione tra l’individuo ela comunità lascia il singolo or-fano di riferimenti ideali e inpreda a un senso di disorienta-mento generalizzato.È un rischio intrinseco alla de-mocrazia (tanto più per unademocrazia così orizzontale eomogeneizzante come quellasostenuta dal sistema di merca-to neocapitalista che riduce isuoi membri a consumatori oanonimi utenti) quello di crea-re un tal senso di disidentitàpersonale da suscitare, prima opoi, il bisogno dell’Uomo for-te. Visto che non ce ne sonopiù in circolazione, se ne di-venta la caritura o se ne affida-no le insegne al gruppo dei pa-ri, insieme al quale diventa li-beratorio commettere reati,stupri e violenze. Senza un’ar-ticolazione simbolica, trascen-

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Due vignette satiriche degli anniCinquanta contro la bomba atomica.

R. K. Porter, Bonaparte massacra 1500

persone a Tolone (acquaforte), 1803.

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dente, dell’esperienza non c’èpossibilità di individuazione eresta solo l’aggressione dispe-rata per sancire il diritto di unproprio posto nel mondo: ècosì che, nel contendersi unposto al parcheggio, si può uc-cidere qualcuno. L’articolazione simbolica dellapropria esistenza si regge, perFreud, sulla morte del Padre,sulla rinuncia che ciascuno de-ve compiere al proprio mitodel godimento, al bisogno difare riferimento a un’idea dionnipotenza e completezza disé o della figura idealizzata del-l’Altro. Solo uccidendo, dentrodi sé, le figure dell’onnipotenzaci si possono assumere, in pri-ma persona e coi propri limiti,le responsabilità di uomo o didonna. L’Edipo, in effetti, vaper entrambi i sessi nella dire-zione di fare i conti con la que-stione del Padre, di oltrepas-sarlo fornendone, nella pro-pria verità di soggetti, una ver-sione umana, nella linea dellaciviltà: il padre, per Freud, è lafigura della legge, della spiri-tualità, del linguaggio e dellaragione, ed è la forza d’urto ditali prerogative umane che bi-sogna costantemente lavoraree incivilire, perché la sua ten-denza naturale va nella direzio-ne della volontà di potenza,non dell’amore. Mentre il padre simbolico (ilportatore e non l’autore dellalegge) è colui che indica nellarinuncia pulsionale l’unica viad’uscita dall’alienazione e lacondizione per la nascita delsoggetto al proprio desiderio.

L’attacco alla vita L’uomonon vuole guarire, questo è ungrande insegnamento freudia-no. La pulsione di morte dettalegge più di quanto siamo di-sposti ad ammettere. Tuttaviail problema non sta tanto nelfatto che l’odio è più originario

dell’amore, quanto nel fattoche quel movimento ostile cheserve al neonato per potersidifferenziare diventa, con l’i-stituirsi dell’io, la forza ineso-rabile che vorrebbe distrugge-re tutto ciò che è altro da sé,perfino l’alterità che abita inlui stesso e lo divide.La violenza ha sempre di miral’esistenza separata dell’altro,condizione che incrina la no-stra compattezza, che ci togliegaranzie, certezze. Per quantorappresentino i fondamenti delsoggetto, la differenza, la man-canza, il limite pongono freniall’espansione dell’io, al suoanelito alla totalità. Ed è la vitastessa, talora, che sembra nonreggere il peso della propria fi-nitezza, dell’enigma tremendoche si porta addosso. «La vita– aveva detto una volta Lacan– sogna solo di morire».Non si coglie nulla del fascinodel Male, dell’odio e della vio-lenza, se non li si sa leggere nelloro intento salvifico. Perché èla vita il vero problema, e nonla morte, che è la tendenza na-turale delle cose. Ed è la vitaad essere attaccata, respintacome un corpo alieno con cuinon ci si riesce più a pacificare.Per l’essere parlante la faccen-da è ancora più complessa cheper l’animale, in quanto il lin-guaggio lo rende morto già invita (avere un nome ci esilia dalcorpo e simbolizzare è già l’a-

strazione che condanna la ma-teria al suo non-essere), cosache lo distanzia dal suo essere,che gli rende arduo accogliereil mistero della sua particolareesistenza e la sua consistenza divivente (inutile negare quanto,da questo punto di vista, glianimali siano fonte d’invidiaper noi). Ne deriva che, perl’uomo, sarà sempre attuale latendenza a risolvere con la vio-lenza la propria e altrui alterità.In quanto attacco a tale variabi-le ingovernabile – incarnazionedella nostra mancanza e proie-zione fisica del nostro limite,differenza capace di compro-mettere l’omeostasi dell’io –, ilMale costituisce una tentazioneirresistibile per l’uomo, l’esserediviso da se stesso. La questione della violenzanon può dunque essere di-sgiunta da questa evidenza del-l’attrazione per il Male. Talepassione riguarda anche colo-ro che si vorrebbero non-vio-lenti, e che la esercitano in for-me nuove e molto evolute,avendo però sempre di mira lacancellazione di quanto com-promette le proprie utopie diprogresso senza limiti. È que-sto il sogno della ragione. Diventa allora naturale chiude-re con un rapidissimo riferi-mento biblico. Abbiamo ricor-dato che l’uomo è l’essere divi-so. Colui che divide è, etimolo-gicamente, il diavolo, il quale,però, non divide l’uomo, maallontana l’uomo da Dio, l’alte-rità per antonomasia. Lo spin-ge ad essere individuo (non di-viso), cioè a fare a meno delsuo legame con l’Altro. Comelo fa? Insinuando nell’uomol’idea di potersi fare dio in pro-prio. Sull’istante, semplice-mente dando sfogo alla suapulsione orale, consumandol’oggetto giusto: «Consumate emoltiplicatevi!». Inquietanteattualità della Genesi…

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Riferimenti bibliografici

J. Baudrillard, Lo spirito del ter-rorismo, Cortina.R. Esposito, Immunitas, Einaudi.R. Girard, La violenza e il sacro,Adelphi.M. Recalcati, Sull’odio, BrunoMondadori.W. Sofsky, Saggio sulla violenza,Einaudi.F. Stoppa, L’offerta al dio oscuro,FrancoAngeli.

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30 maggio 1974 Giovanni dorme allungatonel passeggino, con i piedi tesi a martello chesporgono dal predellino e quasi raspano il pavè.Gli sguardi distratti dei passanti lo sfiorano coninvidia perché, beato lui, riesce a riposare an-che in Corso, nella bolgia chiassosa del sabatopomeriggio. Ma un esame più attento al suo vi-so contratto rivela che il sonno è stato tenace-mente contrastato e i pugni serrati confermanoche, pur inerme, il bambino non è tranquillo:sta combattendo con Deficiènte.Deficiènte lo sorprende e lo beffa ad ogni son-no, per tenergli cattiva compagnia fino al risve-glio successivo. Mentre dorme, gli rimbombanella testa e lo fa sussultare ad ogni sillaba, conla voce irata di papà:«Sei una De-fi-cièn-te! De-fi-cièn-te! De-fi-cièn-te!».Papà ripete quelle parole rabbiose e oscure dicui Giovanni non conosce il significato, ma so-spetta esprimano una terribile condanna. Al-l’ultimo Deficiènte che gli rimbalza nella testa,il naso del bambino si arriccia in un’espressionedi fastidio. L’aroma greve del caffè torrefatto losorprende e lo sveglia. Con gli occhi chiusi,Giovanni inspira profondamente e annusa l’a-ria per essere sicuro di trovarsi proprio lì dovevorrebbe, alla Caffetteria del Corso. Poi balbet-ta le parole magiche, la formula di scongiuroche ha il potere di scacciare via dalla testa, an-che solo per un po’, Deficiènte.«Caramelle e cioccolata!» grida rivolto verso ilbancone.Subito dopo apre gli occhi e si rilassa, abboz-zando un sorriso. Per fortuna nella caffetteriatutto è a posto: i grandi vasi di vetro che tra-boccano di caramelle colorate e cioccolatini, ledue Faema che, sbuffando come locomotive,distillano caffè in minuscole tazzine bianche ela barista con la camicia azzurra che gli strizzal’occhio in segno di intesa.«Ciao, Giovanni! Vuoi la caramella? Eccola!».Giovanni allunga la mano per ricevere il pegnodel benessere, la sicurezza che Deficiènte, conla voce di papà, per ora si è spento.La mamma gli fa da ponte al bancone e gli por-ge una grossa caramella, avvolta in lucida carta

arancione. Giovanni la scarta lentamente, pre-gustandone con gli occhi la dolcezza. La mettein bocca e, pronta, gli arriva l’immancabile do-manda della barista:«A che gusto è, Giovanni?» il bambino deve ri-girarla qualche secondo tra il palato e la linguaper capire, ma alla fine:«Arancia!».«Bravissimo! Ecco, te ne regalo un’altra!».Nella torrefazione i gesti e le parole di ognigiorno si scambiano rapidi, sempre troppo ra-pidi per Giovanni che vorrebbe prolungarli esostare sospeso nella sicurezza calda e avvol-gente di dolci e caffè. La caffetteria gli piace:nessuno grida e anche Deficiènte, chiuso nellasua testa, finalmente sta zitto.Sarebbe bello restare lì per sempre. C’è cosìtanta gente straordinaria che riesce a bere e amangiare stando in piedi, senza rovesciare esenza sporcarsi. Se poi arriva Ario, cioè Mario,allora è proprio una gran giornata. Eccolo, èstata una fortuna svegliarsi.«Ma guarda chi c’è qua! Giovanni, dai, via daquel passeggino che andiamo in orbita!».Giovanni non sa niente di Ario. Sa solo che l’u-nico posto dove può incontrarlo è la caffetteriae che Ario gli piace perché ha lo stesso odoredei cioccolatini alla mandorla e gli occhi marro-ne che sembrano due chicchi di caffè in unatazza di panna.Per mandarlo in orbita, Ario solleva Giovanniin alto, sopra la testa. Poi lo libera, lasciandoloprecipitare nel vuoto a corpo morto, per recu-perarlo con una presa d’acciaio quando ormai ilbambino sfiora il pavimento. Giovanni impaz-zisce per l’ebbrezza di quel gioco spericolato dicui percepisce solo l’emozione violenta.Un giorno si è fatto coraggio e dopo il volo gliha detto:«Ario, manda via Deficiènte, tu che sei forte!».Ma Ario non conosce Deficiènte. Giovanni al-lora ha provato a spiegargli quello che succedequando Deficiènte arriva, ma la mamma lo hasubito fatto tacere, guardandolo con occhi di-sperati.La mamma sembra non condividere l’entusia-smo di Giovanni per Ario. Non lo guarda mai in

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Deficiènte

Daniela Da Ros

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faccia e gli risponde a monosillabi, arrossendo.Quando lo incontrano, la mamma ha semprequalche commissione da fare e insiste per andarevia subito, anche se Ario cerca di trattenerla.All’imbrunire, quando la pausa della caffetteriasi conclude, si deve tornare a casa.Giovanni mangia in fretta la cena. Non si fapregare: sa che la mamma è contenta se è già aletto quando papà rientra con Deficiènte. Lei sisiede in cucina e aspetta, davanti al televisore.All’inizio del telegiornale, puntuale papà arrivaa casa in compagnia di Deficiènte, che però sene sta buono finché la cena inizia.Giovanni è già al sicuro nella sua cameretta efinge di dormire. Ma è sveglio e ascolta voci erumori dalla cucina. Paralizzato nel lettino, at-tende che la litania rabbiosa incominci.Quando le posate fanno tintinnare i piatti, De-ficiènte passa attraverso la parete sottile che se-para la camera dalla cucina e Giovanni non hapiù pace.

Da quando la mamma ha capito che Giovanni hapaura, gli ha detto di non preoccuparsi: Deficièn-te non esiste. Se sente rumori e voci dalla cucina èperché mamma e papà stanno giocando. Sì, per-ché anche i grandi giocano. Giovanni è perples-so: non riesce a capire come un gioco possa faretanta paura a lui e divertire invece i grandi. Maforse in grandi sono grandi per questo. A pensar-ci bene però anche il gioco di Ario fa un po’ pau-ra. Forse il gioco dei grandi è avere paura.

8 novembre 2004 La porta di casa sbatte, ab-battuta da un calcio. L’appartamento, insiemeai suoi abitanti, trema. Giovanni lancia il cap-potto su una sedia, che si rovescia, e si dirigedeciso verso la camera dei bambini.«Tutti buoni adesso che è arrivato Papà!» sus-surra Giulia ai gemelli che hanno spalancato gliocchi per la paura. Stavano giocando a tirarsi icuscini e a saltare sul letto. Hanno obbedito su-bito all’invito, riparandosi sotto le coperte e fin-

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Alex Kats, Fotografia (2000). Collezione privata.

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gendo di dormire. Ma il trucco non funziona.«Non mi freghi… sono ancora svegli!…» sibilatorvo Giovanni, sapendosi preso in giro.«I bambini alle nove devono essere già a dormi-re da un pezzo! Non riesci a capirlo?» insiste.Giulia non risponde. Del resto, Giovanni laprovoca ogni sera con un pretesto diverso: im-possibile prevedere quale, impossibile evitare lesue reazioni.Mentre avanza alla ricerca di qualcosa per cuigiustificare la sua rabbia, Giovanni calcia libri,colori e giocattoli che gli ostacolano il passag-gio, poi impreca e sputa ancora veleno:«Devono giocare di giorno i bambini, non dinotte! Di notte si dorme, di giorno si gioca! Macon le abitudini che hai tu, non si può preten-dere che vengano su normali! Scommetto chehai dormito tutto il pomeriggio e loro con te! Listai facendo diventare proprio come te che pas-si la giornata a letto!».«Dovevo tradurre due articoli… mentre dormi-vano, ho lavorato…».«Lavorato? Tu?!… Hai giocato a Magic Englishvuoi dire… tu non sai neanche che cosa vuoldire lavorare!».Giulia, umiliata, incassa senza reagire, nellasperanza che la predica si esaurisca in quell’ul-timo insulto. Ma Giovanni non cede e rincara:«È inutile lamentarsi che vanno a letto tardi seli fai dormire nel pomeriggio!».«Non mi lamento…» tenta di obiettare Giulia,che non riesce più a soffocare l’orgoglio.«Quanto hai “lavorato” oggi e quanto hai gio-cato, eh?» la stuzzica lui.«Mi piace giocare con loro, sono i miei figli!»risponde secca lei, alzando il tono, tanto ormaiil match è aperto e si può buttare tutto nel ring.«Anche miei… e vorrei poter dire la mia sullaloro educazione!».«Mi pare che tu dica abbastanza…».«Quel che dico evidentemente non conta.Quando io li sgrido, tu li proteggi e infici la miaazione educativa!».«Repressiva, non educativa: state zitti, non faterumore, non giocate, non parlate, non respira-te… per te sono oggetti d’arredamento nonpersone».I due piccoli si stringono sotto le coperte e gio-cano a intrecciare le dita. Non capiscono il sen-so di quelle parole a cascata, ma respirano l’o-dore appiccicoso dell’odio che i contendentiemanano. Stanno zitti nella speranza che il lorovoto si avveri: che la tiritera finisca e Giovannise ne vada, come fa quasi ogni sera, per rientra-re quando oramai dormono.

«È inutile discutere con te: tanto hai sempre ra-gione tu! Testarda e presuntuosa… E fai coseche… che neanche un bambino…» ricominciaGiovanni, che questa sera sembra proprio nonvolersi accontentare delle parole di sempre.«Forse hai dimenticato di essere stato anche tuun bambino!» lo spiazza Giulia in contropiede.Un «Che ne sai tu?» esce come un sospiro dallabocca stupefatta di Giovanni, segno che Giuliaha centrato l’obiettivo.«Niente, appunto. Niente. Ma forse abbastan-za per capire… per capire che figlio sei stato,che genitori hai avuto… visto che non sai es-sere padre».Giovanni ha ripreso a misurare furioso la stan-zetta. Un sacchetto di caramelle e cioccolatinigli finisce sotto le scarpe, riducendosi in unapoltiglia zuccherosa. La scritta “dolci” sullaconfezione si sbrindella in una smorfia di dolo-re, la stessa che gli si legge in viso:«Lascia stare i miei genitori…» si difende, qua-si implorando.«Se tua madre avesse fatto la madre invece di…di scappare con Mario Alessandrini…» attaccaGiulia, sicura adesso di aver trovato il grimal-dello per poter finalmente ferire a sua volta.Anche i due fratellini sospendono il gioco e re-stano immobili, sforzandosi entrambi di capireche cosa significa “scappare”, riferito alla non-na che non hanno mai conosciuto.«Non tirar fuori quella storia… non sono affarituoi e poi… tu non sai niente! In ogni caso, an-che se per poco, mia madre ha saputo fare lamadre meglio di te, che sei sempre morbosa-mente attaccata ai tuoi figli come una chioc-cia!» si riprende Giovanni, ricavando dall’offe-sa il tono giusto per la reazione.«Ma io li amo i miei figli. Non potrei mai ab-bandonarli, magari con il rischio di lasciarli aun padre come te!».Giovanni ha sempre sospettato il disprezzo cheGiulia gli ha scaricato addosso, ma sentirlo stig-matizza il suo fallimento.«Non posso aspettarmi nient’altro da te… tunon sai far altro che offendere» conclude Gio-vanni, ormai quasi perdente.«Tu invece preferisci il silenzio ipocrita che la-scia tutto immobile e ti permette di aver una fa-miglia su cui scaricare le tue frustrazioni…».La rabbia di Giovanni monta dentro più cupa,mentre la bocca gli si apre quasi da sola e la vo-ce che ruggisce e inveisce non è più la sua, maquella di suo padre che chiude il gioco:«Sei una De-fi-cièn-te, De-fi-cièn-te, De-fi-cièn-te!».

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Qualcosa di strano lo percepi-sci entrando in aula. Un’aulacome altre ma dove, a benguardare, scorgerai, appesi trai lavori degli alunni, due mani-festi anomali: nel primo unagiovane sorridente, camiciabianca e fazzoletto rosso al col-lo, ti corre incontro mentredue parole le svolazzano ac-canto: bella ciao! Nel secondo,un medico in camice bianco,uno psichiatra presumibilmen-te, invita il paziente disteso sullettino psicoanalitico: «Mi par-li di Trieste…».

L’atmosfera è quella pre-natali-zia, l’occasione l’incontro trainsegnanti, genitori e bambini,il pretesto augurarsi un serenonatale. Ma, esaurita la frettolo-sa merenda preparata da mam-me solerti, il maestro invitatutti a spostarsi nell’aula com-puter. Quando entro, i bambi-ni sono già disposti a semicer-chio, verso il muro bianco incui risalta un rettangolo lumi-nescente. I genitori sfilano lun-go la parete, alle spalle deibambini; qualcuno spegne leluci, qualcun’altro accendecomputer e proiettore. Il ret-tangolo si fa nero e due alto-parlanti emettono le prime no-te di Another brick in the walldei Pink Floyd. Sullo schermogrezzo compare una scrittarossa: 12 dicembre 1969; cui nesegue un’altra: 12 dicembre2004. Quelle due scritte rossesquarciano lo schermo e la me-moria; qualcuno, tra i genitori,ancora non capisce e sussurrala domanda a cui le immaginidi una ripresa amatoriale da-

ranno risposta: sullo sfondo dipiazza Duomo si intravede uncorteo che avanza, in primopiano Matilde e Noemi coltedallo sguardo adulto, dall’altoal basso. Un genitore sussurrainfastidito o preoccupato: «Cisono troppe bandiere rosse».La voce fuori campo avverteche: «È domenica dodici di-cembre e ci stiamo avviando

verso piazza Fontana». Poi laprospettiva cambia. Sono gliadulti ad essere indagati dal-l’occhio delle due bambine einterrogati dalla loro voce:«Scusi, lei perché è qui oggi?Cosa è successo quel giorno?Chi pensa sia stato a mettere labomba?». La semplicità delledomande inchioda intervistatoe spettatori. Inchioda il genito-re che ha dimenticato e il bam-bino che non sa ancora.

La prima domanda incontraun signore sulla cinquantinache dopo aver sorriso, bene-volo, alle due giornaliste dellaQuinta C di via Ariberto si faserio e racconta. Racconta conpassione e contegno, commo-zione e sdegno. Percepisci chesono trentacinque anni che ilsuo racconto attende d’essereraccontato; così come quellodelle altre persone che vengo-no gentilmente sollecitate eche rispondono regalando alledue bambine un pezzetto ditragica storia italiana e uno diemozionata storia personale.Dimensione oggettiva e sog-gettiva si intrecciano nelle pa-role, pacate e vibranti insie-me, degli anonimi manifestan-ti; dei sindaci dei comuni del-la provincia milanese venuti arappresentare, con i gonfalo-ni, immemori cittadini; deiparenti delle vittime; di Nan-do Dalla Chiesa e di MonicaGuerritore. L’attrice, che lebambine non riconoscono,racconta che aveva l’età delleintervistatrici, dieci anni, nel1969: capì, dal turbamentodella madre che apprendeva

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Dodici dicembre 1969

Stefano Fregonese

Stefano Fregonese, psicote-rapeuta, psicoanalista dell’in-fanzia e della famiglia, è do-cente di Psicologia Dinamicae di Psicologia della Relazio-ne Educativa presso la Fa-coltà di Scienze della Forma-zione dell’Università Cattoli-ca di Piacenza. Lavora comeconsulente presso l’Ospedaledei Bambini Buzzi di Milano,ove è responsabile del Servi-zio di Accoglienza Psicologi-ca e di Preparazione Psicolo-gica all’Intervento Chirurgicoper Bambini e Genitori.

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la notizia dalla televisione, chela storia entrava nella sua vitacon il fragore del tritolo. Cia-scuno degli intervistati ag-giunge un frammento di quel-la realtà andata in frantumitrentacinque anni prima e aiu-ta le due bambine e i loro ven-ticinque compagni, che guar-dano ora il documentario, aricostruire nell’immaginarioun puzzle complesso di veritàe menzogne.

Matilde e Noemi si fanno manmano più sicure. Gli adulti leprendono sul serio; sono lorograti come un tedoforo affati-cato che accoglie con sollievochi viene a dargli il cambio nelportare il testimone. Di fronteallo schermo ciascuno si pre-sta dolorosamente a rilevare ilfardello della memoria e lavergogna per l’impunita mal-vagità dei bombaroli e dei loroprotettori.«Perché lei è qui oggi?».«Quel giorno, appresa la noti-zia, venni qui in lambretta,avevo diciotto anni; da trenta-cinque anni ritorno ogni 12 di-cembre per non dimenticare lebombe messe nelle banche, neitreni, nelle piazze, nelle stazio-ni, negli aerei»; nella mente diciascuno, aggiungo io.

Il filmato dura venti minuticon momenti di autentica poe-sia. Alla fine scroscia l’applau-so. Sono tanti applausi insie-me: a Matilde e Noemi, natu-ralmente; ma anche ai morti diallora; agli intervistati che daspettatori si sono fatti testimo-ni; ai maestri Davide e Manue-la che in cinque anni hannoconsentito ai nostri bambini difarsi protagonisti della lorostessa educazione; ai genitoriche hanno messo in mano lorostrumenti per indagare realtàdifficili. L’applauso copre lavergogna dell’oblio e scopre

l’emozione dell’impegno che lapatina del tempo ha ossidato.

Il manifesto appeso ai muridella Quinta C chiede con leg-gera ironia che si parli di Trie-ste; compendia in un’immaginee in una frase tante cose insie-me: la psicoanalisi che sbarcòin Italia al porto di Trieste at-traverso Weiss e Svevo, la que-stione psichiatrica che approdòa Trieste dopo l’esperienza diGorizia, e da qui riprese il viag-gio verso l’Italia del Compro-messo storico; Trieste stessa,città contesa e ripudiata, cittàche si è accollata l’infernale tra-gedia della Risiera, e quella piùterrena degli esuli istriani. Ma-tilde e Noemi invitano a parla-re seriamente di Milano, la Mi-lano di piazza Fontana, di Pi-nelli e Calabresi. Ma anche laMilano di Berlusconi e del sin-daco Albertini, che il 12 dicem-bre 2004 non sono andati inpiazza Fontana; la Milano dellasignora Moratti, la cui riformascolastica intuisci andare nelladirezione opposta rispetto aquella imboccata dai bambinidella Quinta C. Nel senso che,più la si analizza più ci si rendeconto che la riforma Morattiintende la formazione del bam-bino all’interno di «una logicadominata dalle esigenze del-l’impresa, secondo il mito dellacompetenza di prestazioni or-ganizzate in occupazioni». Al-tra cosa rispetto all’idea classi-ca, e in quanto tale mai obsole-ta, di Paideia che secondo Hei-degger nel linguaggio platonicosignifica «la guida di tutto l’uo-mo nella sua essenza verso unmutamento di direzione», unconcetto che evoca un movi-mento che pure tende ad unameta, ma vive in realtà di pro-cesso e cammino.

Questi spunti li ritrovo ap-profonditi anche in molti lavo-

ri pubblicati nel numero pre-cedente de «L’Ippogrifo» inti-tolato La formazione impossi-bile, insieme a riflessioni inte-ressanti sulla questione che mista a cuore come genitore, do-cente e clinico: la qualità dellarelazione educativa. Ancor dipiù oggi che, insieme agli altrigenitori della Quinta C, men-tre siamo impegnati a trovareun senso all’esperienza matu-rata in cinque anni di elemen-tari, già ci sentiamo pressatidalla necessità di scegliere lascuola media, valutando l’of-ferta formativa del tal istitutorispetto a quella dell’altro. Epoiché non pensiamo che lavalutazione si debba esaurirenel misurare la vicinanza dacasa di una scuola rispetto al-l’altra, o la capacità (e il pote-re) di un preside nell’ottenerearredi di qualità, o nel saperorganizzare tre corsi di linguastraniera al costo di due, o nelcomprendere nel curriculummaterie come robotica e infor-matica, o nell’assicurare, stati-stiche alla mano, la certezzadel passaggio al liceo classicoo scientifico per la totalità deisuoi allievi, né nell’abbraccia-re la presunta latente ideologiaistituzionale (la Beltrami è unascuola fascista, il Vivaio è dellasinistra estemporanea, la Ca-valieri ammicca al centro,etc.), può essere più remune-rativo confrontarsi partendoda esperienze quali le gite aBarbiana o la proiezione di 12

dicembre 1969 o, come ci ri-corda il maestro Davide, la let-tura di La scuola o la scarpa diTahar Ben Jelloum, e la rifles-sione sulla Giornata della Me-moria, e le canzoni di BorisVian e Ivano Fossati. Taliesperienze infatti muovonoemozioni e sentimenti chevanno a strutturarsi nella men-te dei nostri bambini come isedimenti rocciosi costituisco-

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no il sostrato geologico del fu-turo paesaggio.

L’attenzione posta alle tappedel processo educativo, vissu-to dalla posizione genitoriale eda quella infantile, la rilevazio-ne del cammino coperto e diquello da coprire piuttostoche delle mete da raggiungere,la costante ricerca di senso nel-lo svolgersi delle cose (discor-so, narrazione, relazione, vitaetc.) invece che la sua proie-zione nel raggiungimento del-la meta finale, arricchisce e nu-tre con costanza; non solo, mapreviene anche la delusione eil vuoto che sopraggiunge im-mancabilmente, sia al raggiun-gimento dello scopo sia al fal-limento dello stesso, quandoesso sia stato perseguito all’in-terno di una posizione menta-le intrisa d’ansia da prestazio-ne e da onnisciente onnipo-tenza e caratterizzata da iden-tificazioni alienanti.

Mi ha molto colpito che Ma-tilde e Noemi si siano presen-tate come Giornaliste dellaQuinta C di via Ariberto. Eradomenica ed erano accompa-gnate da un genitore; è veroche in piazza Fontana hannoincontrato il loro maestro, maquesto ha influito solo fino aun certo punto sulla loro pro-pensione ad identificarsi co-me componenti di una classedi alunni di una determinatascuola. In quel momento, laloro consapevolezza era dirappresentare, durante questariuscita esplorazione del mon-do, tutti i loro compagni. Pos-siamo dire che gruppo classee istituzione scuola hanno benfunzionato come contenitoriappropriati per l’innata istan-za a conoscere e per le sue an-goscianti scoperte. Le duebambine hanno utilizzato unescamotage per affrontare

l’ansia del compito che le at-tendeva – indagare su uno deipiù torbidi ed efferati eventidella storia italiana – dichia-randosi giornaliste (per finta),e finendo per comportarsi co-me consumate professioniste.Ora è chiaro che questa iden-tificazione ha funzionato per-ché ha permesso loro di muo-versi all’interno di uno spaziodi gioco sufficientemente am-pio, capace di contenere il lo-ro imbarazzo, la paura di nonessere adeguate allo scopo, iltimore di scoprire cose piùgrandi della loro abilità acomprendere, ma anche l’an-goscia che scaturisce quando,pur in presenza di tutte leprecauzioni retoriche e sim-boliche – i gonfaloni, le ban-diere, gli slogan etc. – si va aripristinare il rimosso: la vio-lenza omicida.

Identificazione questa ben di-versa da quella auspicata dalministro Moratti che vorrebbele nostre figlie piccole giornali-ste o piccole imprenditrici opiccoli ingegneri o piccoli pro-grammatori informatici o pic-cole segretarie o piccoli precarigià a tredici anni, o a dieci, almomento cioè di scegliere lascuola media Tal dei Tali, cheassicura il passaggio al liceoPinco Palla, che assicura l’am-missione all’università Cattonio a quella Boccolica, che assicu-rano l’ingresso nella società a li-velli di consumo consoni amantenere il sistema vitale no-nostante la perenne recessione1.

Detto questo, devo ancora ca-pire la libera associazione chenella mia mente accosta Trie-ste alla Milano di piazza Fon-tana. Forse il maestro Davidecon la sua passione per la cittàgiuliana potrà aiutarmi. Nelmio immaginario, e nella miaesperienza personale, Triesteha a che fare sia con la psicoa-nalisi sia con la questione psi-chiatrica; ma anche con il ca-rattere multietnico della po-polazione, con la sua poliva-lenza culturale e la sua estra-neità intrinseca, con la sua(in)capacità di farsi confine:tra Austria e Italia, tra Italia eJugoslavia, tra terra e acqua,tra cielo e terra, tra vento emare, tra metafora e realtà.Nella mia formazione perso-nale la questione del confinetra realtà diverse, esterne e in-terne, di tempo e di luogo, èsempre stata importante. LaTrieste della mia infanzia sichiama Pordenone, città diconfine linguistico tra idiomaveneto e friulano, confine epo-cale tra civiltà agraria e indu-striale2, politico tra conformi-smo e socialismo, social-ga-stronomico tra il frico in oste-ria e i cheeseburger di Mario’s

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Risiera di San Sabba, Trieste.

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a due passi dalla Base ameri-cana di Aviano. Ma anche mi-crocosmo culturale che si èsviluppato di qua e di là de l’a-ghe dell’esperienza paideticapasoliniana, con i sui flussipoetici e riflussi scandalistici.La mia insegnante di italianodelle scuole medie era amicadella famiglia Pasolini.

L’esperienza dell’Academiutadi lenga furlana di Versuta nonl’ho appresa dai libri ma vissu-ta attraverso la relazione edu-cativa con la signorina Maro-so. Penso che una gita a Versu-ta e a Casarsa sarebbe altret-tanto remunerativa di quelle aBarbiana. Da lì a Trieste il tra-gitto non è lungo. Fu propriola signorina Maroso a portar-mi, con il resto della classe,partendo dalla storia dellamorte del fratello di Pasoliniche lei conosceva bene e chefu ucciso alle malghe di Por-zus il 18 febbraio 1945, attra-verso le poesie a lui dedicateda Pier Paolo, fino a Trieste,alla Risiera di San Sabba; a far-ci toccare con mano ciò chenon è possibile spiegare a pa-role se non, forse, con le paro-le della poesia. Alla Risiera diSan Sabba non trovammo nes-sun adulto da intervistare, néprobabilmente ne saremmostati capaci; trovammo invecefilmati e testimonianze inequi-vocabili degli eccidi perpetratitrent’anni prima.

Forse, è proprio attorno a que-sto lavoro della memoria e allasua trasmissione tra le genera-zioni che si costruisce l’asso-ciazione tra Trieste e Milano.Una bomba che esplode in unabanca non ha la capacità dimorte di un forno crematorio.È la casualità contro la metodi-cità, apparentemente. Ma due,tre, dieci bombe che esplodo-no nel corso degli anni rivela-

no la stessa razionale distrutti-vità impiegata dai carnefici na-zisti. A tale distruttività il sin-golo individuo poco o nullapuò opporre, se non alcune fa-coltà della mente: la memoria ela creatività, e la poesia chepuò contenerle entrambe; maanche la coscienza critica e lacapacità di apprendere, e l’e-ducazione che può svilupparleentrambe. ■

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Umberto Boccioni, Rissa in galleria (1910), Milano - Pinacoteca di Brera.

1. Naturalmente le cose non stan-no così, ma è più facile accorgersidella stupidità del ragionamentoquando si tenta di applicarlo dalproprio punto di vista. Questa èl’essenza del ragionamento chemuove la riforma Moratti ed è unragionamento stupido; non ha spe-ranze di avere successo ma può fa-re danni. Può fare danni per esem-pio l’utilizzo burocratico del nuovostrumento chiamato Portfolio indi-

etc.) in modo diverso da come siera posto il bambino o da come po-trà farlo in seguito l’adolescente.2. Negli anni sessanta quandol’industria Zanussi divenne il se-condo gruppo privato italiano do-po la Fiat, si formò una classeoperaia anomala detta dei metal-mezzadri, operai metalmeccanicidurante gran parte dell’anno, con-tadini durante semina, raccolto evendemmia.

viduale, previsto dalla riforma, chedovrà registrare una serie di infor-mazioni sui nostri figli (dal film pre-ferito al segno zodiacale!) e accom-pagnarli nel corso della loro carrierascolastica con il rischio di configu-rarsi come un vero e proprio curricu-lum di personalità capace di costitui-re un pre-giudizio e d’impedire alpreadolescente di mettersi in gioco(nei confronti dell’insegnante, dell’i-stituzione, dei compagni, del sapere

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La violenza alle donne è defi-nita “di genere” perché perpe-tuata dagli uomini sulle donnein quanto tali, e si esprime siaattraverso lo stupro, sia attra-verso la molestia e il maltratta-mento domestico; quest’ulti-mo rappresenta il fenomeno inassoluto più diffuso di violen-za subito dalle donne nel mon-do. L’Organizzazione Mondia-le della Sanità evidenzia comeuna donna su cinque subiscaalmeno un episodio di violen-za di genere nel corso dellapropria vita. Una ricerca del1998, compiuta dalla HarvardUniversity e ripresa dall’Onu,afferma che la prima causa dimorte o di invalidità per ledonne in tutto il mondo è laviolenza, spesso anche sessua-le, subita dalla donna da partedel marito, del partner, del ge-nitore e a volte del figlio, e so-lo raramente da parte di unosconosciuto. Questi dati dimostrano quan-to la questione della violenzadi genere sia un problema fon-damentale per la salute delledonne e condiviso dalle donnedi tutto il mondo; è tanto mas-sivo, quanto, per le sue stessecaratteristiche, destinato a ri-manere per lo più sommerso esenza reale visibilità sociale: èinfatti intriso di ambivalenzaaffettiva (per via dei legamiparentali o coniugali all’inter-no del quale avviene), ambiva-lenza psicologica (spesso col-lude con una totale assenza diautostima o di risorse psichi-che da parte della donna), am-bivalenza sociale (l’istituzionefamiliare spesso viene salva-

guardata a discapito del be-nessere dei suoi componenti)e ambivalenza culturale (inmodo più o meno esplicitomolte culture avvallano un at-teggiamento mortificatorio eoggettivante della donna).Sull’entità del sommerso nonè possibile, ovviamente, dareuna stima quantitativa precisa,ma le ricerche in merito con-dotte in diversi paesi europeiaffermano che solo una per-centuale tra il 5 ed il 10% del-le violenze perpetrate vienedenunciata.Molte ricerche in ambito so-ciologico si sono interessate al-le violenza contro le donne, in-serendo il problema all’internodel contesto sociale, monito-rando variabili quali lo statussocio-economico, il livello diistruzione, l’appartenenza etni-ca, il contesto di provenienza,e individuando nelle caratteri-stiche strutturali di queste ulti-me le cause del fenomeno o ifattori che lo facilitano. Secon-do la teoria dello “socialstress”, per esempio, la frustra-zione e la rabbia prodotte dasituazioni di marginalità socia-le e di deprivazione economi-ca, aggravate dalla mancanzadi risorse capaci di controllarel’aggressività, provocherebbeil manifestarsi di comporta-menti violenti. La violenza alledonne rappresenterebbe quin-di un caso specifico, una mani-festazione individuale, dellapiù ampia diffusione della cri-minalità negli strati sociali piùdisagiati. Tuttavia le ricerchecondotte dai centri antiviolen-za su scala internazionale sot-

tolineano come la marginalitàsociale non sia il fattore deter-minante della violenza controle donne, ma solo secondario,e come piuttosto quest’ultimasia un fenomeno trasversale intutti gli strati sociali: la que-stione dello status semmai in-fluenza il grado di visibilitàdella violenza in atto, poichéceti più abbienti posseggonorisorse in grado di mantenerela violenza lontana dalle istitu-zioni di pubblico accesso. Anche le teorie dell’apprendi-mento sociale tendono a confi-nare la violenza alle donne al-l’interno dell’eccezione de-viante, definendo gli uominiviolenti come presi all’internodel cosiddetto “ciclo della vio-lenza” (per cui il comporta-mento violento sarebbe statoappreso in esperienze di mal-trattamento o abuso subiti du-rante l’infanzia) oppure defi-nendoli privi di inibizioni in-terne in quanto, per esempio,alcolisti. Ma anche queste spie-gazioni non sono esaustive perdescrivere il fenomeno dellaviolenza di genere.In una posizione diametral-mente opposta rispetto allesuddette teorie sociologiche, leteorie femministe, sviluppate apartire dagli anni ’70, si spin-gono fino a sostenere che laviolenza di genere sia da ricon-durre ad una generalizzata cul-tura della violenza, socialmen-te prodotta, figlia della “ma-schiocentrica cultura dei pa-dri”, dove il controllo del cor-po della donna sarebbe unodei principali veicoli di eserci-zio di potere del sesso maschile

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La violenza contro le donneInterpretazioni e interventi possibili

Leila Zannier

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su quello femminile. Il contri-buto di queste teorie, sebbeneesse possano essere giudicateoltranziste, è stato importantese non altro per richiamarel’attenzione sulla centralità delvissuto della donna che subi-sce la violenza e sugli effettinegativi che le precedenti pro-spettive esplicative potevanoportare sulla percezione delproblema: esse infatti rischia-vano di limitare il problemasolo a certe categorie sociali econtemporaneamente forniredegli strumenti cognitivi di de-responsabilizzazione dell’ag-gressore socialmente condivisi.Il movimento femminista ha ilmerito di aver riportato la vio-lenza alla dimensione di crimi-ne e non (solo) di malattia.Il contributo positivo dell’e-sperienza dei Centri antivio-lenza e delle case delle donne,luoghi nati dall’associazioni-smo femminista con l’intentonon solo di accogliere e aiuta-re le donne vittime di maltrat-tamento ma anche di “fare lapolitica delle donne”, è indub-

biamente quello di costituireun osservatorio privilegiatodel fenomeno “dall’interno”,dal punto di vista diretto delledonne. Ciò ha permesso dielaborare un modello che bendescrive la violenza domesticain tutte le sue fasi e le sue im-plicazioni psicologiche, defini-to “spirale della violenza”: es-so spiega come l’uomo agiscaviolenza sulla sua vittima inmodo graduale e sistematico,attraverso un processo che ini-zia come violenza psicologica(isolare la vittima socialmentee culturalmente, svalutarlacontinuamente, renderla psi-cologicamente dipendente dalpartner), continua come vio-lenza economica (privare lavittima di tutte le risorse eco-nomiche e toglierle autono-mia), come violenza sessuale(costringerla a rapporti e pra-tiche sessuali non consensua-li), e che solo dopo questi pas-saggi diventa violenza anchefisica. Questo modello spiegacome la donna vittima spessonon riesca a riscattarsi da que-

sto tipo di relazione, non soloperché psicologicamente è an-nientata ed è spesso priva dirisorse materiali e psichicheper farlo, ma anche perché ilpartner attua in seguito strate-gie di ricatto sui figli e di falsee cicliche riconciliazioni, chefanno sì che la donna da unaparte speri che in fondo ci siamargine per il cambiamento edall’altra pensi che il tipo diatteggiamento che l’uomo hanei suoi confronti in ultimaanalisi dipenda dalla propriacapacità o meno di essere unabuona compagna.Il maltrattatore veicola attra-verso la violenza psicologica efisica il suo bisogno di control-lo e di potere, il bisogno direndere l’altro puro oggettoperché solo in questo modo èin grado di “farsene” qualcosa.La donna maltrattata, dal can-to suo, annullata come sogget-to, ridotta a puro oggetto digodimento dell’altro, finisceper identificarsi con esso e peroffrirsi essa stessa come soste-gno e luogo di esercizio del po-

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Il varco, opera di Lara Frottin.

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tere da parte del partner, quasiche solo attraverso questo pas-saggio sul proprio corpo possasentire di esistere, esistendonel desiderio dell’uomo. È evi-dente la devastazione che unsimile rapporto inevitabilmen-te comporta: attraverso la rela-zione violenta due persone ma-nifestano l’impossibilità, para-dossalmente, di fare a menol’uno dell’altra, di pensare diesistere come individui distin-ti, perpetuando all’infinito unamodalità che, escludendo l’al-tro come Altro simbolico, se-parato da sé, rintraccia esclusi-vamente nel reale del corpo ungodimento che non può che ri-velarsi mortifero.Solo l’entrata in scena di possi-bili rapporti diversi potrebbespezzare questo enclave distrut-tivo: un elemento nuovo prove-niente dall’esterno, che facciada punto di riferimento, che ri-definisca le diverse componentifamiliari e ne ridisegni lo statu-to, o il contatto con personesensibilizzate a questo proble-ma, può costituire un punto di

rottura del legame violento o senon altro può farlo vacillare,anche se ciò scatena automati-camente il tentativo di ristabili-re in modo ancora più definiti-vo la relazione violenta. Il lavoro che i Centri antivio-lenza tentano di compiere conle donne maltrattate con cuientrano in contatto è proprioquello di proporsi come ele-mento nuovo, ridefinente, chesostituisca all’ideale del farsioggetto di godimento dell’al-tro l’idea di essere soggetto al-l’interno di un legame sociale,soggetto desiderante.Le operatrici impegnate neiCentri antiviolenza cercano difar prendere alla donna co-scienza di sé e del proprio pas-sato (attraverso il confrontocon altre donne, il lavoro di ri-costruzione della sua storiapersonale, il rinforzo dell’au-tostima, la ripresa dell’autono-mia), e intendono mostrarleun’alternativa relazionale pos-sibile, più consapevole e piùsana. Ma, una volta indicatoquesto progetto, il percorso

che esso prevede ha un costomolto alto per le donne chetentano di uscire da una rela-zione violenta: diventare sog-getti comporta anche fare iconti con le proprie responsa-bilità. Il rischio di questo tipodi intervento d’aiuto può esse-re che, se il modello propostonon viene soggettivato dalladonna, esso potrebbe diventa-re qualcosa di imposto rispettoal quale ella di nuovo si ponecome oggetto attraverso cui unaltro, ora Altro sociale, possarealizzare il proprio ideale: peresempio l’ideale politico di la-vorare per un cambiamentoculturale e sociale in favoredelle donne, per la realizzazio-ne del quale il prendersi curadella singola donna rischiereb-be di diventare un mezzo, nonpiù il fine dell’interventod’aiuto. Per questo motivo illavoro svolto all’interno deiCentri antiviolenza deve poterconiugare il progetto politico eil sostegno dell’individuo sen-za mai far prevalere il primosul secondo. ■

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Erich Heckel (1883-1970), Franzi sdraiata (1910).

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Prologo Lo scritto che segueè una parte del lavoro che hoproposto all’interno del ciclodi Insegnamenti, dall’impegna-tivo titolo complessivo Le fati-che del pensiero, organizzatonella sede di San Giorgio Joni-co dell’Accademia platonicadelle Arti. Scritto la cui rifles-sione ed elaborazione si preci-sa e sviluppa anche grazie adun lavoro di ricerca che l’ami-ca Paola Zaretti, che qui voglioringraziare, ha condotto negliultimi due anni presso la no-stra sede di Padova.

La forza del pensiero femmi-

nile di fronte al male Gli in-ferni inesauribili dell’animoumano e della storia non man-cano di manifestare il loro do-minio non fosse altro che nel-l’instupidimento del mondo espesso della vita, instupidimen-to tale da mortificare, banalizza-re, uniformare le differenti espe-rienze del sentire e del pensare.Dunque la forza del pensierofemminile e il male. Il proble-ma del male porta con sé unasua incomprensibilità fonda-mentale e nel contempo è radi-cato – non eludibile – nella di-mensione umana ed esperien-ziale: è il grande tema umanodell’inevitabilità del dolore,della perdita, della morte, del-la sventura rispetto alla qualeSimone Weil ci invita ad ascol-tarne il silenzio: «La sventuracostringe a porre continua-mente la domanda del “per-ché”, la domanda essenzial-mente senza risposta. Così me-diante essa si ode la non rispo-sta. Il silenzio essenziale…».

Un silenzio che nella praticasiamo sfidati a ri-pensare. Anni fa ho avuto modo di lavo-rare attorno alla riflessione diquesta singolare pensatrice enel tentativo di cogliere il sen-so della via mistica da lei indi-cato – una via che mette a nu-do la necessità di pensare le re-lazioni fra il tempo e l’eterno,fra il sogno e l’attenzione, trala facoltà naturale dell’intelli-genza e quella soprannaturaledell’amore, fra la necessità e lagrazia; una via insomma «incui si coglie la verità simulta-nea dei contradditori» – hopotuto sperimentare la forza diun pensiero che non ha maismesso di riecheggiare nellemie peregrinazioni e nei mieiinterrogativi sulla strada dapercorrere. Interrogativi cheancora mi pongo. Infatti midomando: «Come abitare l’a-pertura nella solitudine e nellapartecipazione?».

L’apertura prima Il compi-to di ciascuno durante la tran-sizione dall’infanzia all’etàadulta è incentrato su questoproblema: trovare un posto nelmondo dove si possano river-sare le proprie energie e con-statare che esse siano desidera-te. Questo – il desiderio di es-sere accolti, che successiva-mente si tradurrà in desideriodi accogliere – è il primo ele-mento necessario al movimen-to che un soggetto deve com-piere sulla via della propria in-dividuazione. È evidente che coloro che inquesta transizione (passaggio)possono trovare un’apertura

già fatta hanno un compito piùfacile, possono cioè entrare inuna relazione dialettica conl’Altro. Capita però, che, peralcuni, non solo non sia possi-bile trovare l’apertura, madebbano faticare molto, spes-so correndo un rischio radica-le, per crearla. Corpo rubato, sostiene Deleu-ze a proposito della bimba, ein effetti, indagando una lungastoria (dal mito greco alla psi-canalisi), quello che si segnalapuntualmente è l’esclusionedel femminile dalla rappresen-tazione e dalla rappresentabi-lità simbolica.È a questa altezza – quella delsimbolico – che rimane dasempre (necessariamente?) ne-gata la forma particolare del de-siderio femminile. Oppure,detto altrimenti – come sugge-risce la filosofa Loraux che in-daga il passaggio dall’immagi-nazione al culturale nell’anticaGrecia – la forma particolaredel desiderio femminile è statariassorbita in un pensiero ma-schile per meglio immaginareun modello più completo del-l’io maschile «dal corpo delledonne all’anima del maschio».Si tratterebbe di un’operazio-ne in cui «l’uomo vi acquistacomplessità, la donna vi perdesostanza». (Questo è un puntointeressantissimo perché la tesidi Loraux ha questa partenzateorica: il femminile è l’oggettoparticolarmente agognato dal-l’uomo greco. Nel passaggiodal mondo arcaico, quello del-la Teogonia per intenderci, almondo olimpico-omerico, l’iomaschile si sarebbe appropria-

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La forza del pensiero di fronte al male

Maria Grazia Giacomazzi

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to del femminile per aumenta-re la propria virilità. È un di-scorso interessante che richie-derebbe un’indagine che non èquella del presente lavoro).Dicevamo: l’uomo vi acquistacomplessità, la donna vi perdesostanza. Che relazione c’è traquesta sostanza che verrebbemeno e il problema del vuoto –connotato come mancanza –inscritto nel corpo, come ci te-stimonia la clinica delle dipen-denze, in particolare nell’ano-ressia-bulimia?Che la forma particolare del de-siderio femminile sia negatadall’Altro o riassorbita nel ma-schile non significa che sia im-pensabile, anche se di certo,per una donna (per una donnache non voglia fare l’uomo, oessere attraverso l’uomo) starein relazione con questa pensa-bilità è molto più faticoso.Questa fatica naturalmente of-fre qualche vantaggio sulla viadi quella – sempre necessaria –riformulazione del problemadell’individuo che, come sap-piamo, riguarda uomini e don-ne. Ma, ritornando al nostrointerrogativo, quella sostanzache, secondo Loraux, la donnaha perduto agli albori della ci-viltà, che relazione ha con leforme particolari della soffe-renza del femminile? Del fem-minile inteso come elementotrasversale alle donne e agli uo-mini, del femminile che chia-ma in causa la dimensione del-la passività accogliente. Nelladonna questa dimensione,spesso, s’inscrive come una di-sposizione al sacrificio (nel sa-crificarsi e nel sacrificare) adun ideale che manca.

Il fallo e l’identificazione

L’esclusione del femminile dal-la rappresentazione e dalla rap-presentabilità simbolica avver-rebbe ad opera di un principiofondatore: il fallo, che promuo-

vendo lo strutturarsi di un si-stema simbolico sul suo privile-gio (privilegio che come sa ognidonna è del tutto immaginarioma non per questo senza effettinel simbolico) individua nelNome del Padre, in quantofondatore della legge universa-le (quella dell’incesto), la fun-zione normativa dell’eteroses-sualità e la conseguente causadell’ordinamento sociale. In Lacan ci sono tre articola-zioni della nozione di fallo: laprima in cui appare come og-getto immaginario correlato aldesiderio della madre: il fallo(bambino) come simbolo delsuo desiderio; una seconda do-ve avviene uno spostamentoconcettuale rispetto a questaprima tesi ed il fallo viene cor-relato alla metafora paterna,come significato della vitalitàdel desiderio soggettivo nellametafora paterna; un terzo usodi questa nozione, simbolica,che individua il fallo come velo– sembiante – che ripara il sog-getto dall’incontro con il reale.È questa unicità del simbolo(fallo) che rende problematicala posizione della donna, inquanto essere sessuato femmi-nile, perché la costituisce comealtro da sé: non-tutta, non-una,vale a dire una figura dellamolteplicità. Lacan, nel Seminario III, inquel capitoletto intitolato “Checos’è una donna?” scrive:«Propriamente non c’è, dire-mo, simbolizzazione del sessodella donna come tale. In ognicaso, la simbolizzazione non èla stessa, non ha la stessa fonte,non ha lo stesso modo d’acces-so della simbolizzazione delsesso dell’uomo. E questo per-ché l’immaginario non fornisceche un’assenza là dove c’è, al-trove, un simbolo prevalente».Il passaggio insomma dal regi-stro dell’immaginario (identitàimmaginaria dove l’immagine

speculare consente all’io di ri-trovarsi nell’altro – fase dellospecchio –, sanando una situa-zione di discordanza reale delsoggetto) al registro simbolico(la decisione di interpretare eassumere il proprio sesso comesuperamento della mera deter-minazione biologica) si presen-ta per la donna molto più pro-blematico di quanto avvengaper un uomo. Una presenza euna assenza a livello immagina-rio… ma tale assenza o presen-za immaginaria, deriva, a suavolta, dalla presenza “altrove”di un “simbolo prevalente”. Seper un verso è la funzione delfallo simbolico (altrove) a de-terminare la presenza e l’assen-za sul piano immaginario, perun altro verso, è proprio que-sta presenza o assenza immagi-naria a rendere facile o difficilel’accesso al simbolico. Per l’uomo, pur considerandouna linea di frattura che sepa-ra i due registri, esiste, al con-tempo, anche una linea dicontinuità ideale che trascen-de la loro distinzione. Nel ca-so della donna invece, la pre-valenza del significante falliconel simbolico, tradotta nel-l’immaginario come assenza,comporta un’impossibilità a si-gnificarsi come essere sessuatofemminile… tale da indurre ladonna ad assumere il sessomaschile come base per lapropria identificazione. Infat-ti afferma Lacan «È la preva-lenza della Gestalt fallica che,nella realizzazione del com-plesso edipico, obbliga ladonna a prendere in prestitouna deviazione attraverso l’i-dentificazione al padre… unodei due sessi è necessitato aprendere come base per lapropria identificazione l’im-magine dell’altro sesso». Operazione questa – prenderecome base per la propria iden-tificazione l’immagine dell’al-

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tro sesso – che si traduce, peruna donna, in una carenza divalore (significato).Il fondo depressivo della posi-zione femminile correlato adun masochismo difficilmenteaggirabile trova qui, nell’im-possibilità di riconoscersi unvalore in quanto originaria-mente non riconosciuto, il suopunto di irraggiamento.L’essere della donna dunque sitrasmette come una sorta dinon-valore, di non-essere, quel-lo che porta (secondo un’inter-pretazione appunto maschiledel problema, che è anche quel-la di Freud) sulla via dell’invi-dia, del risentimento, della reat-tività, dell’impossibilità a essere(ostacolando così quel passag-gio al dis-essere grazie a cui l’es-sere verrebbe a costituirsi).È, per riprendere un po’ sinte-ticamente la questione, la sto-ria dell’Edipo femminile freu-diano: identificazione al padree cambio d’oggetto, con preli-minare e conseguente “invidiadel pene” (o, detto altrimenti,il fondamento della roccia delrifiuto femminile della castra-zione) dagli esiti più o menosintomatici per la donna.

Lacan, per tentare di liberarela nozione di fallo da qualun-que equivoco sessuologico opsicologistico, dal riferimentoobbligato al desiderio dellamadre e al Nome del Padrecome lui stesso, nel suo ritor-no a Freud, aveva precedente-mente utilizzato, ricorre allaprospettiva strutturalista perfare del concetto di fallo il si-gnificante del rapporto strut-turale tra significante e signifi-cato, per porre un’anterioritàlogica del significante (langue)rispetto al significato (parole),vale a dire per farne «il signifi-cante che rivela l’azione stessadel significante… il significan-te dell’evento del significan-te». Come dire, tutti (uomini edonne) subiamo (alienazione)gli effetti del linguaggio, l’inci-denza del significante sull’es-sere. Ma appunto, come ab-biamo visto, questo significan-te si segna come un + o comeun – di essere. Questo è un in-ciampo che porta la donna adoccupare un posto nella man-canza (ad essere). Un postoche difficilmente può abitare oche abiterà al prezzo della suastessa salute.

In effetti alla donna non è pos-sibile accedere al simbolico co-me valore universalmente rico-nosciuto (la donna non esisteche come particolare) se nonper quell’unica via che è il di-ventare madre (universale).Ma questo diventare madre av-viene a scapito della sua identi-ficazione come donna (è sem-pre il fallo a decidere la deside-rabilità). Vale a dire che, oltre-tutto, non può nemmeno esse-re madre in quanto donna,perché il suo desiderio di di-ventare madre è il desiderio diavere ciò che è supposto man-carle: il fallo. Il fallo che ha in quel bambino(povero bambino che occu-perà il posto dell’ideale) o chenon ha in quella bambina (po-vera bambina perché a lei spet-terà di incarnare la mancanzacome assenza di quell’ideale).L’ideale e lo scarto, due faccedella stessa medaglia a cuispesso succede di dare statutodi realtà. Sottolineo questoaspetto perché, come è emersonei lavori teorici dell’Accade-mia platonica delle Arti di Pa-dova, frutto di un’esperienzaclinica che dura da più di undecennio, l’ideale (anche nelleforme della sua negazione) haun peso determinante sullaeziologia delle dipendenze.In effetti, se si rinuncia a pensa-re, se ci si lascia determinare daciò che è (apparire privato dellavisione), se si agisce senza con-siderare le implicazioni di que-sto agire, è questo che accade:dare statuto di realtà a qualcosa(ideale, fallo) che non esiste. Ma, potremmo aggiungere,quello che rende particolare illegame madre-figlia, è una sor-ta di intensità che caratterizzasingolarmente la relazione. Unrapporto fatto di rapimento,di passione, di distruzione, co-me ci testimonia la clinica delfemminile; una relazione mor-

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Marco Tracanelli, Due figure (2003).

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tifera che convoca ed esponead un reale che non trova nes-suna adeguata velatura. Lamadre in quanto tale non puòdire niente (valore, significato)attorno all’essere sessuato fem-minile (donna) su cui la figliala interpella. È su questo im-possibile che si instaura quelvero e proprio corto circuitodel pensiero anoressico? L’in-terrogativo intrasigente, infati-cabile, inesauribile che l’ano-ressica pone all’altro, è accom-pagnato sempre dalla certezzadel diritto ad una rispostaesatta, precisa, categorica, dauna aspettativa assoluta chenaturalmente nessuno puòdarle. Procedimento questoche rende sterile l’interrogati-vo stesso perché fondato sul-l’imperativo di un ideale indi-stinto dal suo essere.

Il male. Dall’identificazio-

ne al legame sociale Quan-do parliamo di identificazioni(spesso fissazioni), stiamo par-lando a livello dell’immagina-rio; siamo cioè ad una primaarticolazione della logica deldesiderio, di quel desiderioche se non è impostato etica-mente (nell’apertura) rischia diprodurre la negazione del sen-so del desiderio stesso. Questoeffetto di negazione del sensodel desiderio lo vediamo benea livello del legame sociale, do-ve lo spazio del politico è sem-pre più ridotto e il discorsosempre più impraticabile. Lo vediamo nella clinica, inparticolare nelle dipendenze,dove gli effetti di questa con-traddizione/scissione del desi-derio sono molto evidenti etrascinano nella loro caoticaparabola i riferimenti più es-senziali, anche quelli di genere. Da questo punto prospettico,l’unicità simbolica rappresen-tata dal fallo, che detterebbelegge al desiderio diventando

quasi un principio metafisico(sostituzione dell’Uno metafi-sico con l’uno del fallo), impe-direbbe un’elaborazione teori-ca dell’eccentricità della posi-zione femminile. A livello del sociale – dove vigela banalizzazione del male contutte le sue forme di annienta-mento dell’individualità; so-cietà “illimitata” che non met-te nessun limite nell’invaderelo spazio residuo dell’altro,una società che satura imme-diatamente l’eventualità diqualsiasi vuoto connotandolocome mancanza, che non ri-spetta né l’identità né l’alterità– la differenza sessuale, che èun principio generativo, si tra-durrebbe in un principio fon-dante l’ordine sociale. Un or-dine fondato su modelli e valo-ri maschili (anche quando so-no donne ad esercitarli).Il male, dunque, può esserel’effetto della riduzione di queiprincipi che articolano la no-stra relazione con il fondamen-to perché si tratta di una ridu-zione che rende inessenziale ilpensiero del fondamento (o,detto diversamente, che parteda un principio auto-fondantecome avviene nella scienza, onella dipendenza). È un altromodo per dire la banalità delmale di cui parla la Arendt. È evidente ch,e nella teoriapsicanalitica, il male è desti-tuito da qualsiasi statuto onto-logico e questo è dovuto effet-tivamente allo sforzo compiu-to da Freud di elaborare il te-ma del Padre svincolando ilproblema della soggettività siadalle pastoie di una metafisicasuperstiziosa, sia dal discorsoscientifico che nella pretesa dispiegare tutto escludeva dalproprio campo il soggettostesso. La sua formulazionedel mito del padre e dell’ordaprimitiva, da cui discende lastrutturazione dell’Edipo, è

uno dei punti cruciali dellasua ricerca ma, come abbiamovisto, in questa elaborazione ilfemminile non vi rientra o virientra attraverso un giro arti-ficioso che impedisce alladonna di trovare il suo “giu-sto” posto. Rovesciando i termini di que-sto ragionamento (c’è ancheun vantaggio ad essere donna)possiamo dire che la donna, ilfemminile, sono sempre stati econtinuano ad essere – e staforse proprio qui la loro “for-za” etica – ciò che resiste allateoria. Alla teoria dell’unifor-mità, dell’omologazione, allateoria del presunto universali-smo maschile rispetto al qualelei è non-tutta, ovvero non-una. È questo non-una chesembra legare indissolubil-mente il femminile delle donneal molteplice (al due per eccel-lenza). Allora, se a livello dellarappresentazione simbolicaquesto dato del moltepliceviene trasmesso (e spesso re-cepito dalle interessate) comeuna sorta di male, un male chesta all’interno di una visionedell’incompiutezza; colta in-vece nell’Apertura questa nonpossibilità di determinarel’oggetto di cui si tratta puòoffrire nuove possibilità diorientamento. Forse che unpensiero abitato dal femminile(uomini e donne) possa argi-nare il rovinoso automatismodel linguaggio?La questione dell’individuo sipone in modo pregnante peruna donna, ma si tratta di te-ner conto dell’individualità diogni donna (non dell’uno inquanto universale) per noncorrere il rischio di una collet-tività banalizzata (il femmini-smo che vuole liberare tutte ledonne ha una sua responsabi-lità sugli effetti catastrofici –quotidiani – del nostro viveredissennato) perché si tratta di

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ri-pensare, oltre la debolezzadel linguaggio, la nostra rela-zione con la verità. Pensare, come ben sapeva laArendt, è porsi degli interro-gativi e rivoltarsi contro la ba-nalizzazione; ella riabilita l’at-tività del pensiero come unicoantidoto non solo ai totalitari-smi ma – qualcosa che ci toccada vicino – all’automatizzazio-ne del pensiero nel mondomoderno. Nelle democrazie attuali c’è unacostante banalizzazione dell’in-dividuo attraverso le forze dellatecnica, del mercato, dello spet-tacolo. Eichmann non era unastupido, era semplicemente sen-za idee, scrive la Arendt, bana-lizzava il male nel senso che, na-scondendosi dietro agli ordiniche gli venivano impartiti, abdi-cava alla necessità di pensare informa personale. Il nazismo aveva costruito unsistema gerarchicamente arti-colato in cui tutti, sottoponen-dosi, si sentivano dispensatidal pensare: «questo nuovo ti-po di criminale», scrive laArendt a proposito dei crimi-nali nazisti, «commette i suoicrimini in circostanze che qua-si gli impediscono di accorger-si o di sentire che agisce ma-le…» e si chiede «se avesserovinto qualcuno di loro si sa-rebbe sentito colpevole?». Ec-co perché dispensarli dal pen-siero lo considerava uno deicrimini più gravi compiuti dalnazismo. Si tratta di un crimi-ne non solo contro un popoloo una minoranza (il popoloebraico, gli zingari, gli omo-sessuali), ma di un criminecontro l’umanità tutta. Tral’altro, nel sostenere il suo giu-dizio rispetto a questo punto,non ha avuto dubbi nel de-nunciare le irregolarità e leanormalità del processo di Ge-rusalemme (l’illegittimità delrapimento dell’imputato e l’in-

capacità dei giudici di com-prendere la portata del lorocompito e quindi, conseguen-temente, la ri-proposizione diuna ingiustizia in nome dellaGiustizia). Infatti per questasua rigorosità non solo logicama, soprattutto, etica, ha subi-to una sorta di scomunica dal-la comunità ebraica e questodeve esserle costato molto ca-ro, visto che lei era ebrea.Il pensiero del male è radicatonell’io, ovvero in ciò che ti po-ne come altro da quel princi-pio di identità che ha le sue ra-dici nel cielo (è questa la di-menticanza radicale iscrittanella logica fallica di cui hoparlato). Se teniamo conto diquesto allora occorre pensareche qualcosa sta fuori dallastruttura e dal linguaggio, eoccorre intendere questo co-me un segno dell’Apertura enon un inconveniente perchicchessia. Detto diversa-

mente, questo fuori non puòfunzionare come un principiodi discriminazione (come è av-venuto storicamente per ladonna) ma deve essere intesocome un principio di articola-zione del pensiero.Pensare prevede il prendersicura dell’atto del pensiero, unrendersi conto – attraverso lamodalità di pensare – del fattoche si pensa. Insomma il pen-siero non sarebbe nulla, soloinformazione, se non si pensas-se attorno ad un’Apertura.Apertura significa che non tut-to rientra nelle nostre determi-nazioni (ad es. appartenere algenere uomini-donne), nontutto rientra nella relazionecausa-effetto, nella logica bina-ria del più e del meno. Comepossiamo dire di questa aper-tura? Dobbiamo qui fare unosforzo perché l’apertura inizialà dove si segna un limite, unasorta di impossibilità a proce-dere con le categorie della logi-ca: l’apertura è un salto, unatensione, una speranza.Un limite che, così contestua-lizzato, non ha soltanto un va-lore negativo, ma ci permettedi andare – almeno teorica-mente – oltre a ciò che abbia-mo chiamato logica fallica.Una logica che si fonda sull’il-lusione di trovare una giustifi-cazione all’esistere senza in-terrogare – pensare – al fon-damento.L’apertura impegna a ri-trova-re la traccia di ciò che – pur de-terminandoci – necessaria-mente abbiamo perduto. Equesto ritrovare non riguardasolo il sapere ma l’esperienzavivente, vale a dire una dimen-sione concreta dell’esistere. Ri-trovare quindi la traccia e deci-frarla nel sentire di un discorsocapace di riconoscere alle pa-role il loro potere germinativo– non chiuso – e per questoscambiarcele. ■

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Bibliografia

Hannah Arendt, La banalità delmale, Feltrinelli.S. Weil, Quaderni I, II, III, IV,Adelphi.Gilles Deleuze, Differenza e ripe-tizione, Il Mulino.Jacques Lacan, Libro III, Le psi-cosi, Einaudi.Jacques Lacan, Libro XX, Anco-ra, Einaudi.Ettore Perrella, Per una clinicadelle dipendenze, FrancoAngeli.Nicole Loraux, Il femminile el’uomo greco, Il Mulino.S. Freud, Il tramonto del comples-so edipico (1924), Alcune conse-guenze psichiche della differenzaanatomica dei sessi (1925), Vol. 10;Sessualità femminile (1931), Vol.11 in Opere, Bollati Boringhieri.Per le pubblicazioni dell’Accade-mia platonica delle Arti, vedi lacollana Arché, in particolare: Di-pendenze, Tossicomania, anores-sia, bulimia in Arché Ipotesi,Panda Edizioni.

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Per diverse volte ho tentato diriportare su carta, pensieri, ri-flessioni, emozioni, rileggendoil contenuto dei colloqui e ritor-nando con la mente alle sedutepsicologiche che negli anni hosostenuto con persone che invarie forme e tempi hanno agitosu altre la loro aggressività, laloro violenza. In tale intento, hoquasi sempre percepito qualchesorta di impedimento, di intrin-seca difficoltà, oserei definirlo“disagio”, nel soffermarmi ana-liticamente su questo tipo diemozioni al di fuori di quell’am-biente energeticamente greve,quale il carcere.Emozioni, che appartengonoevidentemente a quella dimen-sione spaziale, specifica, indi-scutibile, severa, ma nello stes-so tempo protettiva. E che for-se non devono per il momentoessere liberate, anzi contenute,così come coloro che le hannosuscitate e come per quest’ul-timi hanno bisogno di un tem-po per evolversi ad un livellosuperiore.Ritengo che non sia facile peralcuno interagire con chi hadato un volto alla propria vio-lenza. Non si tratta di porsisemplicemente uno di fronteall’altro e condurre un collo-quio. In questo tipo di approc-cio e di contesto sono presentivariabili, contenuti, elementi,che generano una spirale diemozioni di varia natura: lavittima, l’azione violenta, illuogo o i luoghi dell’azione, iparenti, la pena inflitta. A voltela vittima assume le sembianzedel reo e viceversa… E la sof-ferenza, vissuta, sperimentata,

desiderata, impartita, espiata.A volte e per alcune situazioninon sono così convinto chepossa esistere un qualsiasi tipodi pena da espiare, sufficiente,adeguata e commisurata afronte di un reato di violenza.Credo che in questi casi, l’e-nergia alla base dell’azione vio-lenta segua un binario diversoda quello che conseguente-mente si intraprende per espia-re la colpa e se giuridicamente,istituzionalmente ciò è possibi-le, altrettanto non è a livellopsicologico ed “animico”.Mi rendo conto che tale affer-mazione, pur con tutta la suaincompiutezza e perplessitàpuò risultare per alcuni forte,ma rappresenta una letturapersonale, desunta dalle affer-mazioni, dalle frasi dette e nondette, dagli atteggiamenti di al-cuni detenuti che, dopo anni didetenzione, si apprestano a re-spirare nuovamente l’aria dellalibertà. Mestamente ripetono aloro medesimi, in una sorta dimonologo, che hanno pagato ilprezzo con la giustizia, che so-no a posto con la loro coscien-za; lo ripetono incessantementefino alla nausea e all’insofferen-za dei compagni di cella che,evidentemente, non sono nellecondizioni di condividere an-cora quest’attesa, agli operatoriche li hanno sostenuti. Rappre-senta una sorta di rituale di au-toconvincimento, che non sonopiù debitori nei confronti dinessuno, che il cambiamentoverificatosi durante gli anni didetenzione li ha ripuliti dentroe fino in fondo, ecc. Ma nei lo-ro sguardi, nella profondità dei

loro occhi affiora un vissuto di-verso che esprime una doman-da di aiuto, di consolazione, dicomprensione.Si può percepire un sentimen-to di paura che, spesso, acco-muna molti di loro alla vigiliadella “rinascita” (come spessoviene vissuta dagli stessi lascarcerazione).Certo, può suscitare sbigotti-mento, in alcuni di noi, pensa-re che l’artefice della violenza equindi della paura, possa pro-vare a sua volta paura. E poidi chi, di che cosa?!Ad esempio: paura di varcare ilportone, il cancello perimetra-le che per anni ha rappresenta-to l’obiettivo principe dei lorosogni, anche quelli di evasione,delle loro costruzioni fantasti-che e progettuali; paura delcancello che si chiude dietro leloro spalle e per la secondavolta si viene respinti (dalla so-cietà nella fase di ingresso edalla “famiglia adottiva” nellafase della scarcerazione). A talriguardo, alcuni di loro, evi-dentemente recidivi, riportanopaure, timori, legati a vissuti esensazioni psico-fisiologichenegli attimi immediatamentesuccessivi alla liberazione: dilevitazione, di confusione men-tale, di panico, di smarrimento,di vertigini, di angoscia, desi-derio di ritornare dentro (inuno o due casi). Tali esperienzesintomatologiche risultano ve-rosimilmente correlate al nu-mero complessivo di anni didetenzione scontati, soprattut-to ove non siano state applicatemisure alternative, come adesempio dei permessi. È pre-

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OmbreLuoghi ed angoli oscuri in cui il tempo sembra fermarsi

Fernando Del Casale

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Francisco Goya (1746-1828), Interno di prigione (ca. 1810-1812). Barnard Castle - Bowes Museum.

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sente poi la paura di rappre-sentare ancora l’oggetto di per-secuzione di chi, in senso lato,ha subito direttamente e/o in-direttamente la violenza; lapaura di non farcela nel pro-cesso di reinserimento ed ac-cettazione sociale; la paura diaver perso tutto, compresi l’a-more e gli affetti dei proprifamiliari (ciò purtroppo avvie-ne frequentemente, sia nelle fa-si iniziali della detenzione, siasuccessivamente); la paura dirimanere da soli, con le proprieemozioni sovrastanti e con lapropria angoscia; la paura disubire un ulteriore giudizio e lacondanna dalle persone checircondano il soggetto, situa-zione che verrebbe vissuta pro-babilmente come intollerabilee psicologicamente più gravedella pena scontata, in quantoquel processo di autoconvinci-mento, per cui ci si sente in re-gola con la giustizia, non vienepoi riconosciuto e confermatodalla società. Allora le già de-boli certezze cominciano a va-cillare, i meccanismi di difesapsicologici perdono tonicità;l’insicurezza, la sfiducia, il sen-timento di abbandono e quellopersecutorio prendono formadi pari passo con un’angosciasoverchiante e l’istinto primiti-vo di sopravvivenza prende ilsopravvento… È reazione vio-lenta, nuovamente violenza.Allora, mi soffermo un attimo emi chiedo: quanta della violen-za individuale, agita e non, co-stituisce il ricettacolo di unaviolenza collettiva, che eviden-temente necessita di un “trami-te” per la sua esplicazione e pergarantire di conseguenza un’o-meostasi di apparente norma-lità socialmente accettata? E chiè il tramite che introietta e agi-sce l’aggressività, la violenza co-me valvola di sfogo di una so-cietà che secondo meccanismiperversi avvicina, plasma, “edu-

ca” i nostri figli alla violenza?Un giorno, in occasione di unprimo colloquio con un giova-ne detenuto, rabbrividii nel-l’accogliere e contenere il suoracconto relativo al reatoascrittogli. Mi sentivo inchio-dato su una scomoda sedia,schiacciato dalla fredda, chia-ra e dettagliata modalità espo-sitiva della sua barbarie. Nonun cedimento emotivo, da par-te sua, nessun tentativo di sor-volare su aspetti e particolaricruenti, nessuna alterazionemimica che potesse indicareuna minima alterazione dellefunzioni psico-fisiologiche re-lative ad un comprensibile li-vello d’ansia, completamenteassente.Frastornato, continuavo adascoltare, non volevo assoluta-mente venir colto da possibiliemozioni di “rigetto”, mi sfor-zavo di mantenere un tono diascolto professionale e quantomeno possibile di coinvolgi-mento e di giudizio. Notavoche ciò facilitava, evidentemen-te, la sua lineare esposizionedegli eventi. Solo successiva-mente, ricordo di aver emessoun’esclamazione: «Oh! DioSanto!…» nel momento in cuiriferiva che durante e dopo ilsuo agito, compreso il momen-to in cui mi raccontava l’episo-dio, gli sembrava di essere ilprotagonista di un videogame;di trovarsi in un gioco e che allafine di questo sarebbe tutto ri-tornato come prima. Un bruttogioco! E di non rendersi ancoraperfettamente conto che pur-troppo era la dura realtà.Un giovane, un ragazzo cometanti altri che conosciamo, ma-gari vicini di casa o di lavoro.Uno dei nostri figli, nipoti,amici, parenti di cui mai lon-tanamente dubiteremmo.Purtroppo a volte la vita sem-bra riserbare delle tristi paginedi una realtà già dura di per sé.

Si tratta dei nostri figli ed i figlianche della società in cui vivia-mo e che quotidianamente co-struiamo, che poggia, oggi, suvalori conformistici e consumi-stici. In cui l’individuo, nel ma-rasma della globalizzazione, èalienato; in cui la violenza è ali-mentata e la morte spettacola-rizzata; in cui i processi dellacomunicazione e la relazionefra le persone e soprattutto fra igiovani passano attraverso glisms, mms, e quant’altro, fred-da, sterile ed anaffettiva; in cui iprocessi identificatori con i mo-delli familiari risultano fragili elasciano spazio ad identificazio-ni mediatiche imponenti, ener-giche, forti, acritiche e “sensa-zionali”; in cui anche i ruoli al-l’interno della famiglia sonopoco chiari e definiti, anzi mol-to spesso confusivi, ed in cuisoprattutto il ruolo di “padre”ha bisogno di sganciarsi da vis-suti inconsci di pseudo-sotto-missione, facilitanti perversiprocessi di deresponsabilizza-zione e di delega al partner.«Nel nome del Padre», la fa-miglia e la società hanno biso-gno di riappropriarsi dei legit-timi spazi di confronto, di dia-lettica, di scambio, di modella-mento, di credibilità, di affetti-vità, di serenità, di fiducia. I ra-gazzi più che mai hanno biso-gno di fidarsi, di credere, di ri-conoscere l’autorevolezza el’autorità del padre e della ma-dre, per potersi riconoscerecome individui separati con unproprio credo e personalità.Non mi illudo, sono un padre,ho lanciato prima di tutto a mestesso un incoraggiamento chevuole essere soprattutto un se-gno di speranza e di ottimi-smo, ma in questo momentocontinuo a lavorare anche conla dura realtà e credo che la se-dia scomoda rimarrà ancora lìpronta per essere usata.

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Sapere e violenza Quella diviolenza è una nozione che èpertinente solo rispetto almondo dell’uomo. Quell’uo-mo che chiamiamo sapiensperché lo vogliamo caratteriz-zato, rispetto agli altri animali,dalla conoscenza. Se stiamo almito biblico della Genesi pro-prio la conoscenza è all’originedella prima violenza subita: lacacciata dal Paradiso Terre-stre. Da allora questo aggetti-vo, terrestre, non potrà esseremai più associato al Paradiso.Il Paradiso sarà dovunque, inun altrove di volta in volta di-versamente immaginabile e im-maginato, mai collocabile suciò che chiamiamo Terra. Cheè il luogo dove abita l’uomo,da cui trae la materia del suostesso organismo – plasmatodal fango – e da cui il Paradisoè esiliato, per sempre. Luogodi transito, oppure sua antitesi– l’Inferno –, luogo che reca ilmarchio sempiterno di questaviolenza.L’uomo ha voluto sapere,«aprire i suoi occhi» come re-cita il testo biblico, farsi similea Dio, l’Altro che sa, che satutto. Dio ha promesso la mor-te per questo. Accedere allaconoscenza, ci racconta il mi-to, ha prodotto una se-parazio-ne, una lacerazione costitutiva,la perdita di una parte. Acqui-sendo il sapere, distinguendo,l’uomo porta a compimento ilsuo essere simile a Dio, cheDio stesso ha voluto per luicreandolo a sua immagine e so-miglianza. Ma in virtù di que-sto compimento l’uomo de-completa Dio, rompe l’allean-

za con lui, ne manda in frantu-mi l’unità.Perciò Dio, nella visione cri-stiana, ha mandato il propriofiglio a sacrificarsi, a versare ilsuo sangue per rinnovare l’al-leanza spezzata, per restaurarela prossimità con lui dell’uomo.E per questo, prima della venu-ta del Cristo, nella civiltà ebrai-ca il sacrificio dell’animale, lasua uccisione, rievoca quellaviolenza originaria, insiemepresentificandola e riparando-la, ripetendola e cancellandolasimbolicamente. Il sacrificio, laviolenza rituale sull’animale èsempre propiziatorio.Per conoscere, Adamo pagaun prezzo perché volendo sa-pere smette di essere “il giardi-niere di Dio”, colui che agisceal servizio di un altro. Col suoatto, di cui risponde in primapersona, di cui sconta la re-sponsabilità, egli s’istituisce inuna separatezza: separatezzarispetto a Dio, all’unità, e sepa-ratezza rispetto al mondo.Per conoscere Adamo trasgre-disce. Infatti, per sapere che loha fatto, per sapere quel che hafatto, per distinguere il benedal male, deve avere già com-piuto il gesto di disobbedien-za, deve dunque già sapere. Sa-pere e violenza, sapere e tra-sgressione, sapere e oltrepassa-mento del limite sono come ilrecto e il verso di un medesimofoglio di carta. Solo quando lade-cisione è già presa, l’attocompiuto, il limite valicato, èpossibile per Adamo sapere,sapere che la conoscenza portacon sé il limite, la morte, la rot-tura dell’unità con Dio.

La conoscenza lo esilia da sé,ne predispone la perdita del-l’origine, lo condanna al desti-no di dare un senso a quest’o-rigine perduta per sempre, lovota alla costruzione del suodestino in cui ciò che avrà e ciòche sarà dipenderà dal suo in-tervento, dal suo lavoro, dallasua fatica.Anche se la conoscenza vienedall’Altro – è Dio ad aver pian-tato nell’Eden l’albero del frut-to proibito –, conoscere com-porta sempre un atto soggetti-vo che include una forma diviolenza, di superamento di unlimite. Violenza deriva etimo-logicamente da violare. Eserci-tare una violenza è sempreprofanare un limite, entrarenel recinto sacro, trasgredire.Il limite sorge solo dopo che èstato oltrepassato. Solo dopoaver gustato del frutto dellaconoscenza Adamo sente l’e-sigenza di porre un limite allosguardo: scopre improvvisa-mente, e copre, la sua nudità.Il velo del pudore viene a ri-coprire il corpo che ha ormaiperduto la sua “naturalità”,non più cosa fra le cose maoggetto di uno sguardo a cuifare barriera. Sguardo cheviola, sguardo intrusivo cheoccorre tenere a distanza, cuiopporre un limite.Sapere significa strappare al-l’Altro qualcosa, barrare lasua onniscienza. Significa per-dere l’Altro e, contempora-neamente, perdersi. Significaesercitare una violenza e, di ri-torno, subirla.Carattere traumatico di ogninascita, come il mito ci ricor-

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Adolescenza e violenza

Graziano Senzolo

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da. Di ogni nascita come nasci-ta simbolica. Poiché l’uomonasce «nel ventre dell’Altro»1

ed è questa la prima violenza.Perché nascere nel ventre del-l’Altro, dell’Altro regolato dalsimbolico, vuol dire trovarsimarchiati da un sapere che,per dirla con Lacan, «noncomporta la pur minima cono-scenza»2, un sapere marcato daun punto di esclusione totale,da un buco, un sapere che nonsi inscrive in alcuna naturalità,che non può vantare – a diffe-renza dell’istinto animale cheguida infallibilmente l’indivi-duo di ogni specie verso ciòche gli garantisce la sopravvi-venza – nessuna presa direttacol mondo circostante.La conoscenza è il resto che ilsoggetto strappa col suo atto –sempre trasgressivo, cioè vio-lento – al sapere di Dio. L’ac-cesso alla conoscenza si ac-compagna così sempre allaperdita, alla castrazione in ter-mini psicoanalitici. Non c’è co-noscenza che non implichi lacastrazione.Così conoscere vuol dire esserecondannati a questa operazio-ne sempre da ricominciare, dacompiere ogni volta di nuovo,che è l’operazione di donareun senso a ciò che non ne ha.La violenza di cui parla il mitodella Genesi è la violenza dellastruttura del mondo umano,una violenza del tutto peculia-re che si imprime su ogni uo-mo sradicandolo dal mondodella natura per forzarlo den-tro un universo “culturale” incui, per essere uomo fra gli uo-mini, l’individuo dovrà assog-gettarsi alle leggi simbolicheche gli conferiscono un postonel mondo.Per sapere il mondo, per aver-lo tramite la conoscenza, l’uo-mo deve anche accettare diperderlo. Per questo il saperenon è mai assoluto ma implica

un non-sapere costitutivo,quello che chiamiamo conFreud inconscio.Nella natura, a rigore, non sidà violenza. Nella natura tutto,anche la catastrofe, è incluso inun ordine omogeneo, senzafratture. Il mondo umano, alcontrario, è caratterizzato dal-l’incontro di due ordini, quellodella biologia e quello del lin-guaggio, eterogenei fra loro.La violenza è il risultato del-l’attrito fra questi due ordinitra i quali non vi può essere ar-monia predefinita.L’educazione, come processodi assoggettamento dell’orga-nismo, delle sue funzioni, alleleggi della convivenza socialesi configura come un processoper sua natura strutturalmenteviolento. Ciascuno paga la pro-pria libbra di carne alla civiltà,ciascuno deve cedere qualcosadel proprio essere, del propriogodimento, per abitare nelmondo degli uomini.Nelle società tradizionali taleviolenza viene spesso esercitatacon una funzione simbolica neiriti di passaggio, momenti discansione dell’esistenza indivi-duale in cui questo processoviolento di entrata nell’ordinedella cultura è inscenato collet-tivamente, a sigillo della muta-ta natura del legame. Il ritoevidenzia il passaggio che l’in-dividuo deve compiere attra-verso, per così dire, la crunadell’ago dell’Altro. Passaggioche non va da sé, che non è na-turale, che implica un rischio,evoca il pericolo, la morte, laviolenza. Implica un’uccisionesimbolica: quella del vecchioche viene ad essere soppianta-to dal giovane che lo scalza dalsuo ruolo, che fa a pezzi il pa-dre; e, contemporaneamente,quella del giovane che viene“esposto” al rischio, che deveperdere la propria identità difanciullo e la protezione della

madre che questa gli garantiva.Col rito si evidenzia che la pro-pria appartenenza alla comu-nità non è “scontata” ma deveessere “conquistata” dal singo-lo al rischio della sua stessa vi-ta o comunque al prezzo diuna parte di sé (mutilazione,circoncisione, ecc.). Il singolodeve mostrarsi all’altezza delposto che l’Altro gli ha asse-gnato. La sua trasformazionein adulto avviene bonificandoil potenziale distruttivo cheegli apporta con la sua gio-ventù che rappresenta la conti-nuità possibile della comunitàe, nello stesso tempo, il rischiopotenziale, per questa stessacomunità, di una frattura, diun attacco ai propri legami.

Adolescenza e violenza Ilbambino ha una sua modalitàpeculiare per trattare il disagioproveniente dal disadattamen-to strutturale di sé nei confron-ti del mondo. Questa modalitàè il gioco. Essa consente dioperare con la perdita dell’og-getto conseguente all’introdu-zione del simbolo. Il bambinogioca e col gioco riesce a farnequalcosa di questa perdita disoddisfazione abolita dall’in-gresso nell’Altro del linguag-gio. Il gioco è un operatore es-senziale (l’assenza di gioco èsempre un indicatore di gravepatologia) sulla strada della“costruzione” di una realtà incui trasformare gli oggetti pie-gandoli ad un utilizzo simboli-co (si pensi al rocchetto delpiccolo Ernst di Freud). Laviolenza della struttura, quellache chiamiamo alienazione, èresa tollerabile tramite quell’at-tività massimamente simbolica– che significa del tutto sgan-ciata dalla realtà in senso empi-rico – rappresentata dal gioco.Freud ci ricorda che l’adole-scente, al contrario del bambi-no, non gioca. Al gioco sosti-

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tuisce il fantasticare. Con l’atti-vità fantastica l’adolescentecontinua con altri mezzi quellamediazione simbolica, un tem-po garantita dal gioco, checonsente alla pulsione di mani-festarsi in forma meno distrut-tiva. La fantasia è per l’adole-scente il termine medio fra laviolenza della pulsione chepunta alla soddisfazione imme-diata e l’oggetto che questasoddisfazione può arrecare. Ilfantasticare è un modo per te-nere insieme e ad una certa di-stanza, grazie al lavoro dell’im-maginario, il reale della pulsio-ne che insiste nel corpo, cheormai conosce l’orgasmo, el’oggetto che questa soddisfa-zione può arrecare.Col fantasticare l’adolescentetenta di individuare i nuovi og-getti di soddisfazione e insiemedi padroneggiare la violenza

della spinta pulsionale che av-verte in sé circoscrivendola inun quadro (fantasmatico ap-punto). Il fantasma che si co-struisce nell’adolescenza, co-me risposta nuova alle antichequestioni che l’infanzia ha la-sciato in sospeso, funziona co-me cornice, come «supporto»,dice Lacan, all’utopia del desi-derio. Desiderio come man-canza inscritta nell’essere che ilfantasma vela tracciando lecoordinate singolari di un pos-sibile incontro con l’oggettoche a questa mancanza può ap-portare una soddisfazione.Il fantasma, soluzione inedita,rappresenta così il modo concui il soggetto può scollarsidall’Altro ritagliando nellamancanza incontrata in que-st’ultimo una sua specifica mo-dalità di godimento. Lo strut-turarsi del fantasma implica un

lavoro soggettivo di ancorag-gio dei desideri infantili a nuo-vi oggetti di soddisfazione. Lacaratteristica di questi nuovioggetti, come sappiamo, èquella di essere estranei all’o-rizzonte familiare. Tuttavia daquesto orizzonte sono ipoteca-ti e ne porteranno il marchio.Ma come incontrare questinuovi oggetti? L’adolescentefantastica l’incontro. Ma lo te-me quanto più lo desidera, e sidedica, con modalità diverse inrelazione alla diversa posizionein rapporto alla sessualità, adimmaginare gli scenari di que-sto incontro, le sue variabili, atentare di rivelarne le incogni-te. È un esercizio acrobatico, intaluni momenti incessante, gra-zie a cui tentare una sutura ine-dita della propria divisione ri-spetto all’Altro e al suo deside-rio enigmatico, andando a in-

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Jean Léon Gérôme (1824-1904), Combattimento dei galli (1846). Parigi - Museo d’Orsay.

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terrogarlo nella fantasia colporsi nel luogo da cui vedersivisto dall’altro. Un altro però,sconosciuto, un coetaneo, unestraneo, a cui si domanda direcuperare quella soddisfazio-ne, perduta insieme all’infan-zia, che è ormai alle spalle. Daun punto di vista logico, cioèdal punto di vista del soggetto,l’infanzia sorge solo nell’adole-scenza, innanzitutto nella for-ma del proprio mito individua-le grazie a cui pensarsi prove-nienti da un passato e proce-denti verso un futuro. Questocome dato di struttura in forzadel quale il paradiso (l’infanzia)non si rivela tale che nel mo-mento della sua perdita.Nei preadolescenti maschi ilgesto aggressivo verso il coeta-neo dell’altro sesso prende so-vente il posto di quello di se-gno opposto che non riesce atrovare il modo di essere “si-gnificato” all’altro. Nel timoreche il proprio desiderio di con-tatto si palesi con i connotatiimperativi con cui viene avver-tito sono l’aggressione verbale,lo scherno, talvolta anche laviolenza fisica ad essere espres-si. Il desiderio abbisogna di ri-conoscimento e il timore delrifiuto, il timore che l’abbozzodi una domanda non trovi ri-sposta nell’altro mettono l’a-dolescente sulla difensiva: at-taccare per difendersi dal desi-derio dell’Altro, metterlo in fu-ga con l’aggressione perché lasua vicinanza tanto agognataha qualcosa di insopportabile.L’adolescente si trova cosìspesso a distruggere ciò chenon può avere, ciò che nonpuò avere nei tempi della spin-ta pulsionale: «lo ha visto, lovuole», per dirla con Freud.Anche quando l’approccio sicompie, “si sta con qualcuno”,“ci si mette” col tizio o il tal al-tro, i legami sono il più dellevolte, in questi debutti della vi-

ta amorosa, all’insegna dei“rapporti di forza”, all’insegnadella rivalità o della sottomis-sione di uno all’altra, e vicever-sa, in un impasto di aggressi-vità e spinta sessuale: si ha bi-sogno dell’altro ma lo si nega,si pretendono continue confer-me della propria importanzaper l’altro e quando non arri-vano si preferisce “trionfarne”umiliandolo, ferendolo emoti-vamente, quando non eserci-tando una effettiva violenza fi-sica, caso quest’ultimo non in-frequente nel maschio che netrae un plus di rassicurazionesul suo possesso del fallo. Pos-sedere il fallo alla stregua incui nel gioco del domino sipossiede la tessera giusta pertenere in scacco l’altro, nellaconvinzione che amare siaesercitare un potere sull’altro,il potere di pensarsi necessari:amo, dunque l’altro mi “deve”amare, reciprocità sempre de-lusa cui spesso opporre unadegradazione dell’altro a og-getto, perché negandone lasoggettività ci si illude di po-terlo controllare, di poter azze-rare il rischio della vulnerabi-lità personale che l’istituzionedel legame con l’altro necessa-riamente porta con sé.Per l’adolescente la violenzaagita è talvolta un modo di sca-ricare verso le cose o verso glialtri tensioni intollerabili chelo attraversano. Spesso il gestoaggressivo nei confronti delcoetaneo o dell’adulto è unamodalità attiva per portare al-l’esterno, nel mondo circostan-te, la discordanza intimamenteavvertita fra fantasma e azione.Dal punto di vista della matu-rità organica l’adolescente puòrealizzare ciò che fantastica.Ma tra la fantasmatizzazione el’atto c’è un passaggio attraver-so l’Altro della domanda.Quando questo passaggio vie-ne saltato si crea un cortocir-

cuito e l’elemento pulsionaleche abita al cuore del fantasmapassa senza mediazioni nell’at-to in forma violenta.«Ero arrivato al punto che ladomenica allo stadio durantela partita voltavo la schiena aquello che succedeva in cam-po, la mia attenzione era tuttaper quello che capitava intor-no a me: le grida, gli insulti, leminacce dei tifosi dell’altrasquadra, le manganellate deglisbirri, e poi lo scontro fisicoquando la situazione degene-ra…» mi racconta Paolo du-rante il colloquio al Servizioper le dipendenze in cui lavo-ro. Ci è arrivato a causa del-l’alcool che è il problema peril quale si sono allertati i geni-tori che lo hanno convinto avenire. Bravo ragazzo, lavora-tore e «dedito agli straordina-ri» durante la settimana, a 26

anni vive coi suoi, non ha unaragazza, nei momenti liberi èsempre alla playstation e poic’è la domenica dove final-mente si può sfogare. «A cosadà sfogo?», domando. Non losa, sembra sorprendersi perquesta domanda. Nelle dome-niche allo stadio all’insegnadella violenza, già da adole-scente, Paolo trova il modo disvincolarsi brutalmente dalleforme di una dipendenza in-fantilizzante che non ricono-sce come tale – che cioè non èin grado di simbolizzare,quindi di tenere a distanza. Loscontro in campo è mero pre-testo per quello scontro all’in-segna della violenza verbale efisica in cui affermare qualco-sa di sé, in cui cercare una vit-tima da insultare o da picchia-re per sentirsi a propria voltameno vittima, essere “contro”per “essere” comunque, pertentare disperatamente disfuggire all’inesistenza sogget-tiva sperimentata durante ilresto della settimana in cui è

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niente più che la controfiguradegli ideali di “normalità”della famiglia.È la stessa molla che troviamonei fenomeni così diffusi delbullismo nelle scuole, di cuiuna città come Milano ha l’in-sospettabile primato. In questicasi la violenza è “gratuita” nelsenso che essa manca di unmovente utilitaristico, comeprova il fatto che sia più diffu-sa laddove c’è maggiore ric-chezza. L’estorsione di denaroo di oggetti sotto la minaccia disubire violenza non ha di mirail valore monetizzabile, ciò chesi può avere, quanto ciò che sipuò essere agli occhi degli altri– non c’è atto di bullismo chenon comporti un pubblico: èun gesto che dà esistenza a chilo compie in virtù dello sguar-do dell’Altro, sguardo ango-sciato o ammirato a secondadei casi. Si va così a estorcereall’altro ciò di cui si è già prov-visti, non per rettificare unamancanza-ad-avere, ma unamancanza-a-essere. Si va a pu-

nire nell’altro ciò che è intolle-rabile per se stessi. Si cerca difar sperimentare all’altro il me-desimo senso di impotenza dicui si è preda, per il fatto di es-sere solo delle appendici di undiscorso familiare da cui sem-bra impossibile separarsi.Così il teatro delle crisi adole-scenziali, in generale, si spostasempre più dall’intimità fami-liare agli edifici scolastici, alquartiere. La violenza – talvoltamediaticamente riflessa, nellamaggioranza dei casi oscura esilenziosa, esercitata sugli arrediurbani o sui coetanei, sugliadulti emblemi della margina-lità (vagabondi, barboni, extra-comunitari) o anche su di sé tra-mite condotte a rischio – testi-monia di una “disseminazione”caratteristica della nostra epo-ca, che è l’epoca del tramontodel conflitto generazionale.Laddove l’adulto batte in ritira-ta, l’intima violenza che abitada sempre il passaggio fra unagenerazione e l’altra non trovapiù una controparte, non trova

più quel polo di scarica e insie-me di tenuta che può trasfor-marne le forze distruttive in ca-pitale simbolico grazie a cui co-struire nel tempo identità defi-nite e separate. La violenza cheanimava il conflitto generazio-nale che oggi pare sopito, sisfrangia in manifestazioni mol-teplici, apparentemente senzaun fine, immotivate. In esse nonè difficile leggere le difficoltà incui si dibatte una generazionelasciata all’individuazione dipercorsi obliqui, autopoietici,in cui anche la violenza si tra-sforma, da indice di energia at-tiva di trans-gressione al di làdella condizione presente, inappello muto alla necessità diun Altro della Legge che pongai suoi interdetti, per avere un li-mite effettivo da valicare.

1. Colette Soler, Los poderes y la vio-lencia, «Vel», ottobre 2003, p. 14.2. J. Lacan, Sovversione del sogget-to e dialettica del desiderio nell’in-conscio freudiano, in Scritti, vol. II,Einaudi, Torino 1979, p. 806.

Vieni, giochiamo. Braccio testina puntadisco amplificatore altoparlanteacuti bassi velocità volume.Mozza la lingua al radiociarlatano:si accampi Boccherini, ripercorrain bilico sulle corde l’inquietantebaratro che apparenta il silenzio ai gridi.Siamo qui nel passato – presenti antichigià nel futuro – chini l’uno sull’altro,tu per me io per te specchio parlante.Ti scopro in bikini e soggòlo, mi scopriin calzoncini e zimarra. Moderne

macchine montate con pezzi di scavo,vorremmo muoverci; ma i nostri ingranaggisi lagnano, e invano invochiamo un po’ di oliodalle mani di mercanti grifagni.Ridi di questo imbroglio. Già s’intravvedono– il violoncello impetuoso ci spoglia –nude le nostre immagini bizzarre.

Poesia tratta da Sfregazzi.Dispositivo poetico di emergenza,

Guido Guidotti Editore, Roma 1988.

Il gioco di Boccherini(a Mary)

Sabatino Ciuffini

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Gioco e violenza: sono terminicontrastanti*. Cerchiamo di di-stinguere: per i bambini piccoliil gioco costituisce un vero ap-prendimento. Essi provano nelgioco qualche aspetto della vitaadulta; non essendo ancoracompleti cercano nel gioco,senza saperlo, il loro completa-mento fisiologico. Ad esempioessi manipolano la sabbia: ser-ve, e i bambini non lo sanno, asviluppare i recettori di pressio-ne; camminano sulla sabbia peraffinare inconsciamente gli or-gani dell’equilibrio, in ogni ca-so da queste attività resta sem-pre lontana la violenza (che po-trebbe soltanto confondere lesensazioni); queste loro azionisi svolgono senza vera aggressi-vità, non diversamente dalle“lotte” dei gattini, le quali,quando i cuccioli di felino sonopiù grandi, risultano utili perprendere i topi. I bambini piùgrandi (preadolescenti ed ado-lescenti) s’incamminano versola vita adulta, e nei loro giochimettono una dose di violenzache viene avvertita dai loro coe-tanei e dagli adulti stessi.Diciamo che per i bambini pic-coli il gioco è necessario, per-ché li aiuta a diventare adulti.Per gli adulti il gioco è invecepuro divertimento e, natural-mente, non può che riflettere ivalori che in questo momentostorico li governano. Un valored’oggi è “individuo”; valoreche è posto in contrasto col va-lore “società” cui eravamo abi-tuati da tempo (è appena il ca-so di ricordare che lo stessoAristotele constatò che ànthro-pos polìticon zòon –“l’uomo è

un animale politico” – inten-dendo così dire che l’uomo siunisce ad altri uomini nellacittà, polis), “individuo” cheha il suo termine psicologicocorrispondente in “narciso”: ènoto che gli esperti trovano ungrande aumento delle patolo-gie che hanno origine nel nar-cisismo; l’individuo pensa so-prattutto alla propria immagi-ne e cerca (con la medicinaestetica, gli esercizi in palestra,l’abbronzatura) di renderla si-mile ad una propria immagineideale. In una società a una di-mensione, che premia solo l’af-fermazione dell’individuo, an-che se non ha capacità, non in-teressano molto gli altri, ciòche solo interessa è primeggia-re, anche se questo vuol direutilizzare la forza, per esempiocontro i giocatori della squa-dra avversaria, spingendoli, fa-

cendoli cadere, sputando lorocontro, insomma usando quel-lo che nel gergo dei gazzettierisportivi del lunedì viene defini-to “gioco maschio”. Possiamodunque sottolineare che all’in-dividualismo nello scambioquotidiano corrisponde la vio-lenza: per esempio si enfatizzala forza e la velocità, e non silasciano parlare gli altri neigruppi di discussione. In unmondo siffatto il gioco degliadulti non può che andar d’ac-cordo con la violenza, comemezzo più rapido per vincere.Il gioco può essere gioco disquadra (assai poco) o giocoindividuale (molto). Il giocoindividuale di gran lunga piùdiffuso tra gli adulti (più di te-levisione e telefono cellulare,molto più del gioco delle carte,e certamente più dei gokart) èguidare l’automobile, cosa chedi per sé risulta piuttosto vio-lenta e che provoca ogni annomigliaia di morti e feriti, oltre amoltissimi giovani invalidi, e ilcui costo economico, per nondire altro, è sicuramente moltoelevato.Visto che questo è il gioco piùdiffuso vale la pena, parados-salmente, di stilare un Manualeper il suo uso, e poiché di soli-to non vengono rispettate leregole del Codice della strada,stilare un Manuale di maledu-cazione stradale.

Manuale di maleducazione

stradale

■ Pedoni: in un mondo a mo-tore fare il pedone è certo peri-

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Gioco e violenza

Lucio Schittar

* Sono cose in realtà contra-stanti, ma la cronaca quotidianastranamente le accosta: peresempio a Eurodisney (gioco) èstato arrestato un boss della Ca-morra (violenza) che colà si na-scondeva da tempo.

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coloso, tanto che alle volte ilpedone resta quasi bloccato,poi si scuote improvvisamentee per far vedere che è ancoravivo attraversa la strada. Il pe-done spesso fa jogging, alle vol-te sul lato sbagliato, ma nell’in-sieme, se sopravvive, non creamolti problemi.

■ Ciclisti: più complesso è ilmondo dei ciclisti, cioè di chiva in bicicletta. Essi, per il fat-to che non vanno a benzina,sono convinti di aver sempreragione, anche quando passa-no con il rosso o vanno contro-mano in un senso unico. Certa-mente sfugge loro che la bici-cletta è considerata dal Codicedella strada (e nella sentenza19547 della Corte di Cassazio-ne) alla stregua di un qualsiasiveicolo e che quindi anch’essadeve sottostare alle regole dellacircolazione (cosa che si do-vrebbe chiarire agli amantidella bicicletta).

■ Automobilisti: finalmentearriviamo alla categoria chepiù usa la strada; la usa così in-tensamente che ha condiziona-to anche coloro che costruisco-no i marciapiedi (marciapiedidai quali si tengono lontane lemamme con bambini in car-rozzina, per non farli rigurgita-re). I marciapiedi sono spessodelle vere “montagne russe”tra un cancello di casa e l’altro,e talora si affondano dove c’è ilcancello per l’automobile, perlasciarla uscire sulla strada intutta comodità. Osservate co-me un automobilista si com-porta su un marciapiede: perdimostrare il suo disprezzo peri pedoni egli spesso parcheggiasopra il marciapiede, e non la-scia alcuno spazio per chi hadifficoltà a camminare; tantomeno per chi va in sedia a ro-telle o, se bambino, viene con-dotto in un passeggino.

È evidente che la cilindrata èsoprattutto uno status symbol:chi guida l’auto di solito pensache secondo una giusta pro-porzione più la persona valepiù grossa deve essere la suaautomobile. Naturalmente il li-mite di velocità non riesce afrenare la potenza del motore(che negli anni del secolo scor-so è andata gradualmente au-mentando, avvicinandosi peri-colosamente a quella di un an-tico aeroplano). L’automobili-sta continua la sua caccia al pe-done, specie che alligna soprat-tutto sui passaggi pedonali, do-ve l’auto ne abbassa la soglia disicurezza e forse anche la sogliadi malattia. Se poi l’automobi-lista scopre un’area di parcheg-gio per disabili, la occupa subi-to e se ne va, oppure mette ilampeggianti e con l’aria piùsorpresa del mondo sbotta:«Solo per un minuto!». Oggil’automobilista è sicuramentel’utente della strada che più su-scita l’aggressività degli altri,ma non gliene importa niente,egli è così veloce che vive or-mai nel futuro, è un automobi-lista futurista; con i Futuristicondivide molti valori: guerra(nel suo caso ai pedoni) e velo-cità. Se talora vedete un auto-mobilista che si guarda attornofurtivo e poi vuota per terra,con naturalezza, il contenutodel portacenere: non pensateche stia sporcando la città; inrealtà egli fa di tutto per rende-re utile il lavoro degli “opera-tori ecologici”.

Molto spesso, se deve girare adestra o a sinistra, non mette isegnalatori (le vecchie “frec-ce”): egli non cura questi parti-colari, che in fondo fanno soloperdere tempo. Tutto chiuso inse stesso e nel suo sogno, sem-plicemente non vuole rivelareagli altri da che parte andrà.In autostrada, dove natural-

mente esistono limiti di velo-cità, il nostro amico automobi-lista corre senza alcun limite,semplicemente fa come se fossein Germania. Finalmente è rea-lizzato il suo sogno, finalmentepuò andare contro le sue fru-strazioni, contro ciò che di soli-to lo inibisce, la moglie, la Stra-dale col suo palloncino, tutticoloro che sono pronti ad alza-re l’indice in un rimprovero,che gli impongono dei limiti, ecorre. In autostrada le auto cor-rono ben oltre i limiti, tanto dipiù quanto più sono potenti. Vipossono correre anche le gros-se motociclette e il nostro ami-co pensa: «Finalmente qui vin-ce la bella gente: macché Parla-mento! Macché democrazia!Qui è la vera goduria! Altroche!». Corrono tutti; anche ifuoristrada, forse per vendicar-si del fatto che alcune città han-no loro inibito il centro storico.Poi negli autogrill tutti parteci-pano ad un rito collettivo: alza-re l’inflazione dimostrando aglialtri di poter pagare le cose ildoppio del loro prezzo.Ma non scivoliamo in questio-ni economiche, peggio ancorapolitiche. Possiamo tirarci fuo-ri dal nostro Manuale di male-ducazione stradale, che a benvedere non è così essenziale: lacattiva educazione stradale ècomunque diffusa e non ha bi-sogno di incentivi.Piuttosto vado pensando aquesta questione dell’ironia:nell’ultimo numero de «L’Ip-pogrifo» c’era un bello e spas-soso articolo del professor DiTerlizzi. Mi chiedo ingenua-mente se non nasconda sotto lespoglie dell’umorismo un’ama-ra constatazione sulla condi-zione attuale della scuola ita-liana. Sembra che ormai sucerti argomenti si possa far so-lo dell’umorismo: il prossimopasso avanti sarà quello dellacompleta afasia. ■

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Mirco, un amico che si dilettaa sublimare le sue inquietudiniin sublimi battute, un giornomi ha detto di essere conforta-to dal fatto che in un mondocosì altamente tecnologico cisia ancora chi lancia le bom-be… a mano. Gli ho risposto che l’uso dellamano di fronte a immagini dialta tecnologia lo conoscevoanch’io, ma per sublimare lemie inquietudini sessuali.Quel mio gesto però non im-plicava interferenze nella vitadi altre persone, altrimenti do-vrei rendere conto di una lun-ghissima sfilza di misfatti. Chel’uomo sia un animale e si ab-bandoni talvolta ai suoi istinti,anche se vestito in doppiopet-to blu e cravatta regimental e nonostante pre-ceda i suoi interventi con degli educati «miconsenta», ce lo ricordano il nostro corpo ognivolta che ci chiudiamo in bagno e la nostramente tutte le notti in cui non riusciamo a dor-mire. La bestialità dell’uomo ci viene sbattutain faccia a tutte le ore anche dalla televisione; ipugni di Totti, le tragedie familiari e le stragidei kamikaze si susseguono con la stessa rapi-dità con cui ci propone un nuovo reality show.Di fronte a certi comportamenti vien da chie-dersi quanto la nostra società riesca a camuffa-re l’orco che è in noi, e quanto invece essa stes-sa ne sia brodo di coltura. Se l’ordine con ilquale ci organizziamo una vita di quotidianaprevedibilità, la perseveranza con la quale ce-mentiamo a noi stessi possibili vie di fuga nonsia altro che la preparazione di future esplosio-ni di inimmaginate violenze.Prendiamo come esempio gli episodi di recentesquallida violenza accaduti nella nostra zona.Unabomber, così come i ragazzi delle baby gangcoinvolti nei pestaggi di handicappati e omoses-suali, dimostrano di conoscere molto bene lesubdole arti della comunicazione. Piccoli gesti,azioni mirate, anonime, mai eclatanti, rivolte

preferibilmente a bersagli vul-nerabili, sono la ricetta vincen-te che ha portato il nome diPordenone alla ribalta del pa-norama mediatico nazionale.Costo dell’operazione quasinullo; roba da proporli comeresponsabili dell’immagine edella comunicazione del Co-mune, tutt’al più con un rim-borso a piè di lista.Altro che tirarsi dei gran pip-poni davanti al computer! Laloro è vita vera! Tensione,paura, progetto e poi azione,altro che byte o pixel! Il loro èsfogo reale, vero, sanguigno esanguinolento contro l’illusio-ne dell’esistenza. Altro che ri-cercare un possibile mondonuovo; loro adattano quello

vecchio alla loro fantasia, lo piegano in base al-le loro pulsioni. Certo, non avranno l’organiz-zazione di una banda armata, né la preparazio-ne tecnica delle teste di cuoio, ma il sacro fuo-co, la tensione che ti scoppia dentro, l’orgasmocerebrale provocato dal gesto reale, l’effetto va-sodilatatore causato dalla visione concreta del-la propria azione, li provano anche loro. Perché questo mondo non ci va, ci ha fatto tan-to male e tanto ci emargina e tanto ci fa patire.E allora noi ci prendiamo la licenza di sfogarcicome ci pare.Ma ragazzi… dài… su… onestamente… non èmeglio tornare ai gran pippotti?… Voi, espertidi comunicazione come siete, rivelarvi così co-me le vittime di una totale assenza di comuni-cazione che, così evidentemente, ha contrasse-gnato la vostra esistenza. Sì perché nessunonasce imparato al mondo; tutti noi si impara,no? E a voi chi è che ha insegnato a vivere co-sì? I vostri genitori? La famosa società in cuisiete cresciuti?Perché, parliamoci chiaro: siamo tutti d’accor-do che la vita è un grande gioco di società spes-so grigio, ingiusto, irriconoscente, privo di pic-chi di adrenalina, eccetera eccetera… ma ci sia-

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Viuuulenza!

Andrea Appi

Marco Tracanelli, I matti.

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mo dentro tutti. I giochi di società hanno delleregole; o ci si mette d’accordo oppure ognuno acasa sua (si ritorna ai gran pipponi!).A mia figlia provo ad insegnare a dire buon-giorno e buonasera, arrivederci e grazie… no,ecco… tagliare le falangi alla tua compagna dibanco no… non si può fare… ma come per-ché? No e basta! E non m’importa se ti diverte!Non si tagliano le dita alle compagne di ban-co… non si può!A voi, baby gang, e a te, Unabomber le hanno in-segnate ’ste regole? Regole valide per tutti siachiaro; di destra, di sinistra, poveri, ricchi,brokers o no global. Regole valide in tutto ilmondo, che stabiliscono che tutti dobbiamo ave-re gli stessi diritti-doveri. Diritto alle stesse op-portunità, di fare ciò che vogliamo, quando e co-

me lo vogliamo. E il dovere di farlo senza rom-pere le balle al prossimo.Regole valide per tutti; stesse opportunità, stes-so diritto a scegliere il proprio futuro, stesso va-lore del lavoro, stesso dovere a non torturare,uccidere, discriminare, stesso divieto di specu-lare sul lavoro degli altri, sulla salute degli altri,sull’ignoranza degli altri, di fare guerre preven-tive, di fare dichiarazioni e di smentirle il gior-no dopo, di costruirsi ville abusive e coprirne ilreato con il segreto di Stato. Stesso tutto.Perché, visto che le persone ci sono in tutto ilmondo e che, a quanto si dice, tutte le personesono uguali, è giunta l’ora di puntare davveroalla vera globalizzazione, quella sociale. E se uno non ci sta ha sempre la possibilità nondisprezzabile delle pippe! ■

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Spinto a sognare da una naturaparticolare, e ogni volta risve-gliarmi, porco mondo, nellalotta! E capire che non è (solo)la mia natura sognante a spin-germi verso l’utopia, ma tuttal’organizzazione sociale. «Siibambino, sii felice, gioca, ab-bandonati!», ci consigliano agara il giornale, la radio, la Tv. Forse che ignoroil mio posto di battaglia? Certamente, no. Ma lostesso preferirei non combattere.

La vita dei singoli e delle società è sempre ag-ganciata a un centro di potere, che dovrebbefunzionare come amministratore imparziale,raccogliendo in sé, con lo stesso rispetto, tutte leforze. È penoso osservare come gli organi opera-tivi usano, solo al fine di conservarsi la poltronadel comando, tutti i ritrovati dell’ingegno uma-no: siano essi religione o agricoltura, arti, scienzee filosofie. Che fatica, che lotta ogni giorno perfarlo funzionare, questo potere, così necessario ecosi odioso!

Chi propugna la rivoluzione, accetta i metodiviolenti e diventa come quelli che combatte. Chisceglie la non-violenza, favorisce e incoraggia isopraffattori – in più gli rompono le ossa.

Dall’horror vacui, siamo passati all’horror pleni.Lo spazio tra un rintocco e l’altro della campana,necessario perché i due colpi possano essereascoltati distintamente, è abolito. Nella confusio-ne, speriamo di fare scoperte straordinarie, comechi pesca in acqua torbida. Magari il pesce non sipiglia, ma qualche sorpresa – anzi, la sorpresa inassoluto – è assicurata. Di che cosa si tratti pare

che ci interessi poco, data la no-stra educazione all’alloccheria.

L’ottimismo è una necessità. Piùsi è indigenti, più si ha bisognodi credere che andrà meglio.«Per nostra fortuna il mondoabbonda di bisognosi”, diconocon un ghignetto i paperoni.

Se i prepotenti non li puoi combattere e vincere,non puoi neanche allearti con loro. Devi sotto-metterti, prepararti a subire. Puoi sorridere ofingere di sorridere o ucciderti: a scelta.

Sembra chiaro che le trasformazioni sociali nonle richiede la ragione (che interviene quasi sem-pre dopo), ma un sentimento nuovo che nasceda una diversa e più viva sensibilità dell’anda-mento delle cose. È la necessità di sopravvivereche sviluppa quelle spinte adatte a superare ladecadenza continua, a vincere una situazione dimorte incipiente e spesso avanzata.

Nel cielo o universo, le cose tutte, stanche dimuoversi, pensarono bene, per riposare, di ri-dursi a quadrati. Non lo avessero mai fatto! Inpoco tempo cominciarono a marcire. La puzzache ammorbava l’universo, costrinse subitoognuna di esse a riprendere la forma rotonda, aruotare. Meglio l’affanno che la putredine.

«Chi si contenta è pazzo». (A. F. Doni).

Tratto da Sfregazzi.Dispositivo poetico di emergenza,

Guido Guidotti Editore, Roma 1988.

Zucchero

Sabatino Ciuffini

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Lo sport, nella nostra civiltà,ha acquisito caratteristiche so-ciali e culturali di massa. Lungidal restare un’attività ricreativadel tempo libero, si è reso vei-colo di “linguaggi” e d’investi-menti affettivi della nostra vitaquotidiana.Il linguaggio sportivo usato daigiornali e dalla televisione sinutre di termini bellici, in par-te mutuati dal gergo militare,in parte da quello politico, e diuna vasta retorica “mitologica”che spazia dalle imprese dell’e-roe, ai “fenomeni” dello sportfino ai frequenti “miracoli”compiuti sul campo. Spararebordate o cannonate, essere“ultras” o irriducibili, fare apezzi l’avversario, realizzare ungioco maschio, sono espressio-ni, fra le altre, entrate nel lin-guaggio comune che fannopensare ad un mondo d’eroicon caratteristiche sovrumane.Ho dedicato una particolareattenzione a come queste fan-tasie d’onnipotenza, veicolatedal linguaggio sportivo, pote-vano influire sul discorso deibambini e sulle loro rappre-sentazioni interne di questeimmagini idealizzate.Ne è scaturita una piccola ri-cerca condotta in una scuolaelementare di Roma, su uncampione di 73 bambini di etàcompresa tra gli otto e gli un-dici anni. A loro è stato datoun questionario di dodici do-mande sulle preferenze sporti-ve e la richiesta di un disegnosu una situazione sportiva gra-devole o sgradevole vissuta inprima persona. Le risposte alquestionario e i disegni sono

stati oggetto di discussione daparte dei bambini, divisi in pic-coli gruppi condotti dallo scri-vente con la tecnica del Role-Playing, derivante dallo Psico-dramma analitico.I bambini, seduti in cerchio,erano invitati dall’animatore acommentare liberamente il te-sto delle loro risposte e adascoltare quelle dei compagni.In base all’ascolto dell’anima-tore si sono coagulati dei temiproposti dai discorsi dei bam-bini, temi che sono stati rap-presentati con il gioco psico-drammatico, vale a dire cheun frammento del racconto diun bambino è stato dramma-tizzato, scegliendo i personag-gi raccontati tra i partecipantialla seduta.Terminato il gioco, che si èsempre svolto su uno spaziodiverso da quello del raccon-to, si ritornava nel cerchio pre-

cedente per commentare ilrapporto tra la narrazione e larappresentazione avvenute.Tutte le sedute sono state fil-mate da un insegnante, chefungeva da operatore.L’obiettivo principale di que-st’esperienza è consistita nel-l’aprire uno spazio di elabora-zione per i bambini che partis-se dalle loro dichiarazioni sullosport e dalla rappresentazionegrafica che ne avevano fatto.Era importante cogliere, purnella sua parzialità, il rapportotra il linguaggio sportivo neldiscorso del bambino e i valorie i significati impliciti o esplici-ti attinenti alla sua dimensioneprivata e personale.A differenza dello psicodram-ma, in quest’esperienza di Role-Playing i bambini hanno potu-to sperimentare in che modo ildiscorso sullo sport fosse colle-gato ad aspetti importanti dellaloro vita personale: il rapportocon l’altro sesso, le relazioni fa-miliari, l’affermazione persona-le, le emozioni suscitate dallosport come l’aggressività e ilpiacere del divertimento.Lo scarto tra narrazione e rap-presentazione, là dove è statocolto ed elaborato, ha prodot-to una riflessione da parte deibambini, che in parte è stataraccolta in alcuni temi svolti inclasse successivamente. Infine,quest’esperienza s’inserisce al-l’interno di una sperimentazio-ne didattica, di cui si è rivelatauno strumento utile e interes-sante. Tra i diversi temi trattatimi limiterò al tema della vio-lenza, che si è rivelato partico-larmente interessante.

gioco e violenza

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Bambini, sport e violenzaUna ricerca in una scuola elementare di Roma

Renato Gerbaudo

Ludere, non laedere.

Marco Tracanelli, Giancampione (1993).

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Lo sport e la violenza Hopreso come esempi due sedu-te di due gruppi diversi, il pri-mo composto da bambini del-la Terza elementare e il secon-do di Quinta. La differenzad’età ci permette di cogliereaspetti “evolutivi” del proble-ma della violenza, sotto dueangolature diverse.Nel primo gruppo il discorsoparte dai disegni dei bambini,che mettono in evidenza il pro-blema diretto dello scontro fi-sico, rappresentato da varisport, in particolare il karate.Un lottatore di kung fu che dàun calcio volante ad un lottato-re di karate, che secondo l’au-tore rappresenta se stesso. Allafine quest’ultimo vincerà.Quello che colpisce nel dise-gno è l’espressione grafica delcolpo, come in un altro dise-gno sul basket gli avversari so-no disegnati “pallidi e calvi”: èl’effetto della sconfitta, com-menta a sua volta il bambinoche l’ha disegnato. Appare su-bito come la sconfitta, rappre-sentata da colpi più o menosimbolici, provochi una distor-sione nell’immagine del corpodel perdente.Inoltre, il discorso dei bambiniche commentano i disegni ten-de a confondere l’aspetto “mi-metico” di questi sport con lasua realizzazione concreta.Portare il colpo senza toccarel’avversario acquista un valoresecondario rispetto all’effettovisibile del colpo sull’antagoni-sta. Naturalmente è semprel’altro il primo ad attaccare e ladifesa è necessaria, anche concolpi mortali.I bambini conoscono benissi-mo la differenza tra provare edeffettuare, ma, come di fronteai cartoni animati o ad un filmdi karate, tendono ad esaltarela violenza come affermazione.Solo una bambina rimane nel-l’ambito di questa distinzione,

descrivendo un combattimen-to di judo con un compagno.Domando che differenza ci siatra sport e violenza e questa miviene descritta da un bambinosotto un duplice aspetto, dovedivertimento e rispetto delleregole si mescolano alla neces-sità di convincere l’altro attra-verso la forza (un pestone valepiù di cento discorsi, affermaun bambino!).Lo sport appare nel loro di-scorso sia come un’attività diloisir, termine che riprenderònel commento alle sedute, checome “assimilazione” dell’im-magine dell’altro alla propria.I bambini fanno alcuni esempiin cui allo stadio i tifosi di unasquadra vogliono che i tifosidell’altra siano annullati, quasiper essere tutti tifosi della pro-pria squadra del cuore. Perquesto allo stadio, dicono, glispettatori vogliono “intimori-re” gli avversari attraverso attidi violenza, culminanti nell’i-dea di annullarli.Da qui partono una serie diracconti anche personali, in cuiad esempio un bambino vieneattaccato durante una gita daaltri tre, due molto più grandidi lui, senza una motivazioneapparente. La lotta finisce soloquando sua mamma allontanaquesti ragazzi a male parole.Nel racconto sembra emerge-re un certo transitivismo, incui l’immagine di chi colpiscee di chi subisce sembranoconfondersi. La necessità diun arbitro sembra fondamen-tale, visto soprattutto nella suafunzione d’adulto che ammo-nisce, espelle, punisce, dice«Stop», per usare la termino-logia dei bambini. Uno di lorodice che se l’arbitro non è unadulto e per esempio lui stessoo un amico svolgono questafunzione, va a finire che simettono a giocare invece di farrispettare le regole. Astenersi

dal gioco è un’impresa fatico-sa! Una bambina, che per gra-vi problemi motori si deveastenere dal gioco, fa invecenotare l’utilità dell’arbitro perimpedire l’emergere della vio-lenza e concedere al gioco lapossibilità di continuare.In mezzo a queste osservazionipiene di Rocky e di Rambo,chiedo di rappresentare un mo-mento in cui, secondo loro, neltentativo di convincere qualcu-no, si arriva alla violenza: si gio-ca una discussione tra due ami-ci, in cui uno cerca di convince-re l’altro a diventare tifoso dellapropria squadra di calcio.Il gioco è interpretato dai duebambini che maggiormenteavevano esaltato quest’aspettodella violenza. Ripeto, comenelle sedute precedenti, che nelgioco si fa “come se”, non sicolpisce veramente l’avversario.Il protagonista, mentre chiedeinsistentemente all’altro dicambiare squadra, gli dà conti-nuamente degli spintoni. Leparole sono scarne e ripetitive,non ci sono argomentazioni, fi-no a quando uno non sferra uncazzotto immaginario all’ami-co, arrestandosi a pochi centi-metri dalla sua faccia e que-st’ultimo precipita a terra, condivertimento dei presenti. Nel-l’inversione di ruolo il prota-gonista, dopo una sola richie-sta, passa subito alle mani. Af-ferma che era stupido parlare.I commenti al gioco mettonoin evidenza una certa difficoltànella rappresentazione di farefinta: i due sembravano dellemacchinette che ripetevanosempre la stessa cosa. Il bam-bino che ha fatto l’antagonistaconfessa di essere stato caccia-to dalla scuola di karate, per-ché picchiava gli altri bambini.Sembra un pochino più chiarala differenza tra agire e rappre-sentare, anche se si accendonofocolai di discussione tra cop-

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pie di bambini che si scambia-no qualche spintone. L’eccita-mento prodotto dal gioco nonriesce completamente a trova-re il canale delle parole.Nella seconda seduta, conbambini più grandi, è abbor-dato lo stesso tema, con la dif-ferenza che alcuni sembranopercepire più chiaramente laloro rabbia che impedisce dicontinuare a stare nel gioco e asostenerne l’aspetto immagina-rio. Questo dopo molte consi-derazioni in cui è più facile,proiettivamente, accorgersisoltanto della rabbia e dellaviolenza degli altri.Propongo di vedere un mo-mento in cui si manifesta que-sta rabbia, che rischia di rom-pere i confini del gioco. Si rap-presentano due situazioni,quella di una bambina che su-bisce uno sgambetto fatto ap-posta dalla sorella, e un’altradello scontro di un fallo volon-tario del protagonista ai dannidi un compagno che vinceva.Nel primo gioco è quasi impos-sibile alle due bambine rappre-sentare questa rabbia, masche-rata da risatine imbarazzate: ilgioco è diverso dal racconto.Nel secondo caso, invece, larappresentazione è molto effi-

cace e ribalta praticamente lateoria sostenuta nel discorso:non sembra tanto la violenza fi-sica ad essere convincente o adottenere un risultato, quanto leparole. Il bambino colpito rea-gisce colpendo con alcune frasiarrabbiate l’avversario che am-mutolisce. L’effetto fisico diprostrazione del protagonistasembra superiore all’effettodella violenza causata dal fallo.I bambini, nelle associazionisuccessive, pur continuando ateorizzare che la violenza pro-duce un effetto concreto dipersuasione, affermano anchedi aver provato delle sensazio-ni nel gioco, prodotte per ef-fetto dell’inversione di ruolo,al posto dell’altro. Hanno sen-tito non solo la rabbia ma an-che il dispiacere, che fa emer-gere la presenza dell’avversa-rio e non lo annulla. Usare leparole rimane sempre un mo-do di tappare la bocca all’al-tro, ma mantiene il gioco inuna dimensione più simbolicae si coglie l’aspetto significantedel linguaggio.Le sedute che hanno avuto co-me tema l’arbitro riprendonogli argomenti che abbiamo trat-tato nell’esposizione preceden-te: la necessità di qualcuno che

faccia rispettare le regole, comefreno alla confusione e alla vio-lenza, la difficoltà ad entrare inquesto ruolo da parte dei bam-bini e la conseguente utilità chesia un adulto a prendere questoposto, il dubbio che anche inquesto caso i grandi non sianosufficientemente rappresentati-vi della legge che garantiscal’imparzialità. Soprattutto, te-ma centrale di quest’esperien-za, è il terrore che l’adulto rap-presentativo (genitore, inse-gnante, mister) svaluti o annullil’immagine corporea del bam-bino, e tutto ciò è sentito piùcome giudizio di valore chequestione narcisistica.Si tratta ora di vedere, nell’am-bito della limitatezza dell’espe-rienza, quali riflessioni teori-che si possono trarre sul rap-porto tra il linguaggio dellosport e le strutture linguistichenel discorso dei bambini.

Mimesi e catarsi Cominceròcon il prendere a prestito daNorbert Elias e Eric Dunning(Sport e aggressività, Il Mulino,1989), due sociologi che si so-no molto occupati di sport, ilconcetto di loisir. I termini sva-go, passatempo e ancor menotempo libero, non rendono ra-

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gione a pieno della definizionedi questo concetto. I due auto-ri ne rintracciano una struttu-ra, a partire da Aristotele: l’at-tività di loisir come attività“mimetica”, in cui lo sport, adesempio, è un’imitazione dellecontese della vita reale, cosìcome l’arte, in special modo latragedia, è un’imitazione di vi-ta e d’azione, di felicità e disofferenze. A sua volta il carat-tere imitativo di queste attivitàè meglio riassunto nel terminedi “mimesi”, per sottolinearenon la riproduzione di avveni-menti ma la loro rappresenta-zione. Così come per il terminecatarsi si deve intendere l’effet-to di un purgante, mediatodalla terminologia medica eapplicato allo psichismo. Laqualità di questa trasformazio-ne produrrebbe la possibilità,attraverso la mimesi espressanella tragedia, di rivivere delletensioni psichiche, espellendo-ne il senso di colpa e alimen-tando l’amore per se stessi.Pur descritti in modo cosìschematico, si può coglierel’interesse per questi concettiall’interno di una teoria anali-tica e nello specifico dello psi-codramma. Non ci troviamoper nulla nell’ambito morenia-no né della rappresentazionecome superamento della con-servazione dei ruoli quotidia-ni, in quanto noti, né della ca-tarsi come abreazione e purifi-cazione attraverso le emozionistratificate.Siamo piuttosto nell’area dellarappresentazione come ri-pre-sentazione, in uno scenario im-maginario, dell’evento raccon-tato nei suoi effetti metonimici.Con la catarsi, che non chiame-remo più così, siamo nell’areadella sostituzione significante,che produce uno spostamentometaforico e un’apertura all’e-mergenza della catena signifi-cante. Il gruppo permette, nel-

la sua eterotopia, il manteni-mento dello scenario immagi-nario, dove poter reperire, at-traverso le scelte dei parteci-panti al gioco e l’intervento de-gli psicodrammatisti, gli ele-menti simbolici nel discorsodei bambini.

Già Freud, come ho scritto al-trove (Il bambino reale, FrancoAngeli, 2002), ci ha descritto ilprocesso di partecipazionedello spettatore al dramma nelsaggio Personaggi psicopaticisulla scena (in Opere, volumeV, Boringhieri, 1980), nel con-cedere un’attenzione partico-lare al piacere preliminare che,eliminando provvisoriamente imeccanismi della rimozione,permette un’identificazione al-l’evento rappresentato.In questo contesto lo psico-dramma, nella forma del Role-Playing, si è rivelato uno stru-mento analitico utile all’elabo-razione degli effetti personaliin relazione al linguaggio dellosport. Ho accennato, nella de-scrizione delle sedute, a comeil problema dell’idealizzazionemi sia sembrato il leit-motiv,che unisse tutti i temi abborda-ti dai bambini. Entriamo orapiù nel dettaglio.Il termine idealizzazione è usa-to non nell’accezione specificadi Anna Freud, come meccani-smo di difesa, ma come l’insie-me dei due versanti, descrittida Freud e sistematizzati daLacan, dell’Io Ideale e dell’I-deale dell’Io. Abbiamo vistocome il problema dell’ideale sipone subito per i bambini apartire dalla rappresentazionegrafica di campioni, di vincito-ri, e come prevalga l’immaginefortemente investita di sé, rap-presentazione speculare di for-za e di prestanza.Nel momento in cui il bambi-no rischia una parola ed entranel gioco, si trova confrontato

con i pari, ed è qui che le dueimmagini speculari, i’(a) e i (a),quasi rischiano di sovrapporsie di confondersi, provocandoquei fenomeni di transitivismodi cui abbiamo fatto accenno.Il fare “come se” nella rappre-sentazione, visto che comportaun’astinenza, permette un’a-pertura simbolica, in cui emer-ge l’Altro come terzo. Il dispo-sitivo analitico funziona cometra due tennisti funzionano leregole del gioco e il dispositivologistico, la rete, la delimitazio-ne del campo etc.L’intervento dello psicodram-matista non è tanto quello dioccupare quel posto, ma di la-sciarlo vacante, suscitando cosìil desiderio del soggetto, poi-ché ne sostiene la causa. Inquesto modo l’Ideale dell’Io,in quanto significante nel cam-po dell’Altro, può agire da mo-tore, sia alimentando le imma-gini di Io Ideale del soggetto,sia smascherandone la lorofunzione di misconoscimento.Per spiegare perché questo av-venga, è necessario riprendereuna distinzione tra idealizza-zione e sublimazione, rilevantein questo contesto. L’idealizza-zione, come afferma Elena B.Croce (“Trama del discorsodel gruppo e irruzione del gio-co in psicodramma analitico:inevitabilità di una ristruttura-zione mai definita del conte-sto” in Acting out e gioco inpsicodramma analitico, a curadell’autrice, Borla, 1985), haper obiettivo la perfezione,l’immagine senza buchi, e tut-to l’investimento libidico si ap-poggia su questo oggetto so-pravvalutato. Da qui l’impor-tanza del gioco, come percorsoa ritroso: dagli eroi, in cui cis’identifica, ai significanti per-sonali che emergono dalla rap-presentazione.Nella sublimazione, non c’èqualcosa di già noto, la base su

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cui poggia, al contrario, non èun oggetto ma un vuoto, se-gnalatore di una mancanza, lascoperta di non poter riempireed essere riempito totalmentedall’altro.Ma mentre il processo di idea-lizzazione è refrattario a che ilsuo oggetto o l’io sia mancante,nel qual caso l’oggetto decade esi sposta su un altro oppure sirovescia nel persecutore, il pro-cesso di sublimazione compor-ta una soddisfazione nel reale,vale a dire che il soggetto, piùche cercare di riempire il vuo-to, lo organizza in una formaoriginale, a partire dagli ele-menti a sua disposizione, inclu-sa la mancanza stessa, che trovala sua via nel significante.Questa duplicità dialettica lariscontriamo nel discorso deibambini succitato, sia quandosono alla prese nel confrontocon l’altro sesso, sia quando at-traverso l’imbroglio o la vio-lenza cercano di colmare unvuoto improvviso, derivanteda una emergenza immagina-ria in sé o nell’altro. Nell’esem-pio del calcio, in cui i bambinisono socialmente più afferma-ti, abbiamo visto come i parte-cipanti, in quanto parlanti, inun primo tempo si fanno rap-presentare da significanti fallicidi affermazione e di potere at-traverso le immagini idealizza-te; in un secondo tempo, pereffetto delle associazioni deglialtri e dell’intervento dello psi-codrammatista, si apre un in-terrogativo là dove c’è un pun-to di sospensione nel discorso,nelle sue emergenze inconsce;infine nel terzo tempo del gio-co e della sua elaboraziones’introduce un taglio simboli-co, in cui il bambino, partitoda un problema come la con-quista immaginaria della pre-valenza del fallo del propriosesso, si trova nel gioco non adifendere questo trofeo, ma ad

essere confrontato con la suapaura o imbarazzo nei riguardidel desiderio dell’altro.Ritrova cioè quei significantipersonali, occultati dalla cattu-ra immaginaria dell’Io Ideale.In questa esperienza il proces-so è appena accennato, non es-sendo un’esposizione di casiclinici, ma serve a descrivere lastruttura che originerebbe unsintomo a partire dai meccani-smi descritti. L’aspetto straor-

dinario, se così posso dire, èche la questione della violenza,se da un lato appare come af-fermazione fallica di distruzio-ne dell’altro, in realtà cela unaquestione ben più importante,così come ci viene rivelata daquesti bambini: là dove il sog-getto è stato ed è oggetto di undesiderio particolare, mediatodalla presenza di una trasmis-sione paterna, qualunque sia,allora c’è la possibilità d’elabo-rare la violenza simbolicamen-te, senza agirla; là dove invecequesto desiderio è anonimo,opaco alla trasmissione, il sog-getto sente dentro di sé unaviolenza cieca, originata dal-l’indifferenza dell’Altro, che loporta verso l’agire distruttivo.Il legame sociale e la trasmis-sione simbolica, da questopunto di vista, sono i vettoriprincipali contro gli effetti dimassa e la pulsione di morte.Questi pochi accenni non ser-vono certamente a spiegare lacomplessa origine della violen-za, ma credo servano senz’al-tro a far riflettere maggiormen-te sulle attività di loisir, sul-l’importanza che in esse acqui-sta il gioco, non come elemen-to che si oppone alla serietàdella vita, bensì come conteni-tore che ha al suo interno dellepotenzialità non solo di auto-mantenimento, ma soprattuttodi riconoscimento e di effet-tuazione del proprio desiderio,fino alle espressioni artistiche escientifiche più importanti.Sono convinto che offrire aibambini una possibilità di ela-borare i contenuti e i modi aloro offerti sia dai mezzi di co-municazione di massa che dal-la loro esperienza sociale e fa-miliare, costituisca un passo inpiù per fondare un legame so-ciale, basato sul riconoscimen-to del desiderio del soggetto enon sull’immaginario colletti-vo dei miti di massa. ■

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Gioco d’un giornoGiancarla Taddeo

La verde algaDalle ali del ventoÈ accarezzata.

Io l’alga tu il vento.

Piccola sirenaCullata dall’acquaSogna e sospiraUn esotico giardino.

Io la sirena tu il giardino.

Piuma dell’OceanoSfuggita alla chioma

di AfroditeTremula danzaAbbracciando l’onda.

Io la piuma tu l’onda.

Trastullo delle mareeVolteggia su un giaciglio

di sabbia.

Tu la marea io il tuo trastullo.

Sotto i raggi del soleGiace lambita dai baciDella risacca.

Io l’alga tu la risacca.

Immenso è l’OceanoMinuscola l’alga.

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Gioco e salute: non è difficilevedere una connessione traqueste due parole, anche se suquesto argomento non è faciletrovare qualcosa di scritto, al difuori degli specialistici testi dipsicologia ovviamente. E que-sto vale sia per il bambino cheper l’adulto, e molte delle coseche mi vengono in mente aproposito delle mie esperienzecon i bambini, a pensarci benevalgono anche per noi adulti.Pochi di noi pediatri si sonooccupati o si occupano dei gio-chi dei nostri pazienti, anchese ormai in molti reparti di pe-diatria ci sono sale-gioco, spaziin ogni caso dedicati e organiz-zati a misura di bambino, pare-ti colorate o affrescate con fi-gure in cui i bambini possonoriconoscere cose note o in gra-do di farli giocare, distrarre,fantasticare. E anch’io, a parte per alcuniaspetti che potremmo definireterapeutici, a cui accenneròpoi, ho considerato il gioco co-me qualcosa a cui i bambinihanno diritto, ma che fa partedi qualcosa di esterno o, nellamigliore delle ipotesi, collate-rale alla professione sanitariarivolta ai bambini.Forse il fatto di essere nonno,da pochi anni, di quattro nipo-tini, non è estraneo a questopercorso di comprensione. Macosa c’entrano i nonni? Pensoproprio che se il gioco è al cen-tro della crescita del bambino,ed il tempo che lui gli dedicanei primi anni di vita è quasi to-tale, dopo gli anni dell’impe-gno (la scuola, il lavoro poi,spesso totalizzante, come prima

lo era il gioco), riemerge nel-l’età matura il tempo-bambino. Credo di aver riscoperto questispazi proprio in questi ultimianni: il giocare con i miei nipo-ti mi ha permesso di riscoprireil gioco come piacere, ma an-che di riconoscere, per l’espe-rienza dovuta all’età, le sue im-plicazioni. C’è un celebre di-pinto di Peter Brueghel in cuiil rito del gioco mostra unapartecipazione collettiva, evecchi e bambini giocano as-sieme nella grande piazza diuna città fiamminga. Oggi que-sto sembra non esserci più, mami piace pensare che alcunigrandi riti collettivi di questiultimi anni, le manifestazioniper la pace o contro la globa-lizzazione, per esempio, chehanno visto la colorata e gioco-sa partecipazione di persone ditutte le età, non siano altro cheuna ripresa di quegli antichigiochi di piazza.

Un altro fattore del mio cambia-to atteggiamento nei confrontidel gioco è sicuramente l’esserestato stimolato, in qualche casoprovocato, dalla vicinanza dipersone, una in particolare mol-to… familiare, che si sono occu-pate di questo argomento inmodo molto più professionaleed approfondito di quanto pos-sa finora aver fatto io.

Gioco, dunque esisto Misembra un buon sillogismo perun bambino. E anche i percor-si di crescita intellettiva ed eti-ca non possono che passareper il gioco, con le sue varie ac-cezioni, diverse per ogni età.Credo peraltro che noi adultiin genere sottovalutiamo que-sto aspetto fondamentale dellavita dei bambini. E, se non ri-cordo male, negli ormai lonta-ni primi anni della paternitàanch’io credo di non aver avu-to sempre presente questoprincipio. Il modo di pensare del bambi-no è magico, totemistico, pre-logico, talora votato all’onni-potenza, nel senso che il bam-bino (come noi adulti spessodel resto) è disturbato dal nonpoter essere padrone del mon-do. Così procede per simboli,per giochi, che quindi non so-no per lui finzione di realtà, marealtà vera, che va solo guarda-ta dal suo punto di vista.Quante volte siamo capaci difare lo sforzo di metterci neisuoi panni?Il passaggio dalla realtà-giocoalla realtà-reale (nella nostraaccezione), dalla fantasia allarealtà in altre parole, è un per-

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Giocare con i bambiniEsperienze da un reparto di pediatria

Leopoldo Peratoner

Vorrei fare con te quello chela primavera fa con i ciliegi.

Pablo Neruda

Marco Tracanelli, Giocano? (2002).

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corso lento e non uguale, neitempi e nei modi, per ognibambino. Mediamente avvie-ne, così sostiene chi ha scienti-ficamente studiato questi mec-canismi, verso la fine del primodecennio di vita. Ma mi sembra importante cheun residuo di pensieri magici,più o meno rilevante, facciaparte dell’età adulta. In questorientrano il sognare (nel sensodi Martin Luther King), lo spe-rare, la religione stessa.Cercherò ora di descrivere al-cune caratteristiche del giocoin rapporto all’età del bambi-no, facendo riferimento soprat-tutto a quelli che tutti noi con-sideriamo dei maestri in questocampo: Bettelheim, Winnicotte Brazelton.Dopo la nascita (ma sappiamooggi che già nell’utero maternoil feto gioca, nel senso che hapercezioni di rumori, suonimusicali, nuota, danza quasi,reagisce a stimoli di vario tipo)il gioco si fa quasi esclusiva-mente tra il neonato e la ma-dre, anche perché è l’unica per-sona che lui “conosce” da or-mai molto tempo. È un giocofatto di esplorazione del corpomaterno, mediato dalla suzioneal seno e dal gioco degli sguar-di, sorprendente per un essereche sembra non aver pensieri,complice ed erotico a volte. Così possono diventare mo-menti di gioco altre praticheabituali, come il bagnetto, ilcambio dei pannolini e perfinoun momento di distacco comel’addormentamento può di-ventare gioco, ma questo spes-so solo in un’età più avanzata. E sarà così per diverse settima-ne, poi lentamente riconosceràaltre cose, imparerà a toccarealtri oggetti e a giocare con que-sti, riconoscerà altre voci ed al-tri volti, uscirà da questo rap-porto esclusivo con la madre. Nel mio lavoro quotidiano di

pediatra mi capita spesso di os-servare come i piccoli anche di2-3 mesi sembrino attenti aquello che sto dicendo ai lorogenitori, e considero un eventoclinicamente significativo il riu-scire non solo a non far piange-re il bambino, ma a strappargliqualche sorriso durante la visi-ta, giocando con loro. Come nonno, sono rimastosorpreso del fatto di riscoprireche a questa età, pur ovvia-mente non capendo le parole,questi piccoli siano capaci diporre attenzione prolungataalle filastrocche o ai giochi ocanzoncine di movimento(«tutù-tutù mussetta, la mam-ma è…», «din don campa-non…», «manina maninapiazza…»).

Prima dell’anno, ma già versola fine del primo semestre, ilbambino ha imparato a gioca-re, inizialmente per tempi bre-vi, anche da solo, con gli og-getti che ha toccato in prece-denza e che sa quindi ricono-scere. In questo suo giocare dasolo tuttavia richiede prima opoi l’interessamento dell’adul-to. Nel momento della visital’osservazione, da parte del pe-diatra stesso o delle infermiere,di queste capacità e delle mo-dalità e dei tempi di interazio-ne con i giochi a disposizionediventa una fonte di importan-ti informazioni sul suo svilup-po, sui suoi bisogni e sul suotemperamento. Da questo pos-sono seguire, se ne siamo capa-ci, ma soprattutto se ne abbia-mo voglia e tempo, consigli espunti di riflessione da fare as-sieme ai genitori. C’è poi il “terribile secondo an-no”, durante il quale il bambi-no impara a giocare con gli altribambini, mostrando lui stessoun desiderio di distacco dai ge-nitori. Sta bene al nido, gioca,imita i coetanei o i bambini piùgrandi, è capace spesso di ade-guarsi alle esigenze degli altripiù che non a quelle dei genito-ri. D’altra parte questo distac-co, che apparentemente soddi-sfa un suo bisogno, non è di-sgiunto dalla sensazione di es-sere stato abbandonato. E que-sto crea nel bambino un atteg-giamento a volte “vendicativo”nei confronti dei genitori. In questa età, che è anche lapiù difficile per chi si occupadella sua salute, comincia qua-si inevitabilmente a manifesta-re reazioni violente, non soloverbali, nei confronti dei suoicoetanei. Mi viene in mente lafrase, spesso sentita da genitoridispiaciuti e preoccupati, «og-gi al nido ha morso il suo mi-glior amico!», come se questofosse il massimo dell’abiezione

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Felice Casorati, Beethoven (1938).

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morale. Dobbiamo ricordareche anche questo è un gioco eche la reazione della vittima fasì che l’aggressore sia spessopiù sconvolto della vittimastessa. Un intervento “duro”dei genitori o degli educatoripuò essere alla fine più delete-rio che utile, perpetuando uncircolo vizioso: senso di colpa– accumulo di tensione – per-dita del proprio controllo –malessere. Un atteggiamentoinvece pacifico e pacificantedell’adulto può facilitare lacomprensione dell’accadutoed evitare così che in altre oc-casioni il fatto si ripeta. Ci sono libri per bambini cheaffrontano questo problema inmodo molto efficace: Che rab-bia! di Mireille D’Allancé (Ba-

balibri) è uno di questi, e l’hosperimentato come un verostrumento per un approccio ditipo cognitivo-comportamen-tale con il più grande dei mieinipotini. Verso i 3 anni il bambino saesprimere al massimo grado lasua fantasia: non solo osservaed imita, ma è in grado di in-trodurre nei suoi giochi deglielementi immaginari, simboliciche qualche volta possono es-sere considerati preoccupantidai genitori. Tipico il caso del-l’amico immaginario, che ilbambino, di norma senza fra-telli nella nostra realtà sociale,è quasi obbligato a costruirsi.Serve quindi a raffigurareesperienze che non riesce adavere, ma di cui sente la neces-

sità. In questo modo scoprequello che vuole essere, essen-do alla fine questo uno dei mo-di in cui forma la sua identità.L’adulto potrebbe essere por-tato a cercare di interromperequesto gioco come se fosse ge-loso di questo amico del bam-bino, o come se avesse pauradi qualcosa di poco controlla-bile. Ma non dovrebbe farlo; ilbambino è oltretutto in gradodi difendersi spesso dalle vio-lazioni della propria fantasia“privata”, negando la realtà diqueste sue invenzioni pur diproteggerle. In definitiva si può immagina-re che il gioco modelli tutte lefunzioni di apprendimento delbambino e che la qualità deigiochi, scelta che spetta anche

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Félix Vallotton (1865-1925), Il pallone (1899). Parigi - Museo d’Orsay.

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a noi adulti, possa modulare losviluppo della sua personalità.

Giocare in ospedale L’offri-re questa opportunità al bam-bino, come dicevo all’inizio, èrispettare un suo diritto, masoprattutto è uno strumento dicrescita per noi operatori sani-tari, per il bambino e la sua fa-miglia. Nel bambino serve adestrutturare una sua idea difondo, quella di essere amma-lato perché “cattivo”. Perce-zione legata ai comportamentidi noi adulti, evidentemente:«ecco, se tu ti fossi messo ilmaglioncino…», «se tu nonavessi giocato con l’acqua, tel’avevo detto io …». Il non far vivere le giornatepassate in ospedale come unapunizione può mitigare questivissuti. La sala giochi, la possi-bilità di ascoltare storie, di gio-care con i genitori e, se possi-bile, con gli altri bambini sonoopportunità che ormai ritenia-mo obbligatorie e possono es-sere in grado di far sì che «unadisgrazia non sia altro che unabenedizione travestita» comeafferma uno dei guru del pen-siero positivo. La fine della malattia e quindidel ricovero può essere trasfor-mata in una conquista, unafonte di gratificazione e di cre-scita personale. Il gioco è fondamentale in que-sto processo: anche nelle pro-cedure, abitualmente fonte didolore, si possono utilizzarestrumenti ludici, che sarebbetroppo lungo esplicitare qui.Ma, solo esemplificando, van-no dal far succhiare il seno ma-terno o del glucosio al gioco disimulazione nei bambini piùgrandi, utilizzando disegni,pupazzi e animali di pelouche.Nel reparto di pediatria diPordenone questa attività hamolteplici forme di attuazione,dalla lettura di storie alla co-

siddetta arteterapia, sia purenon sempre portate avanti concontinuità, essendo legate alladisponibilità di volontari. Una esperienza molto interes-sante l’abbiamo fatta nei dueultimi anni con l’accoglienzaperiodica di bambini di alcuneclassi delle elementari, che ve-nivano a giocare (sempre nelprogetto e con le metodichedell’arteterapia) con i nostri ri-coverati, ma soprattutto neglispazi gioco del reparto; facen-do così acquisire ai bambini ri-coverati e a quelli ospiti unapercezione dell’ospedale moltodiversa da quella comune di“luogo di sofferenza”. Ci aspet-tiamo che questi bambini, qua-lora abbiano in futuro bisognodelle nostre cure, le vivano inmodo molto più sereno e gio-coso che altri. Ma abbiamo an-che la speranza che i genitoriche vedono e vivono queste co-se siano poi alla fine una cassadi risonanza nell’acquisire unadiversa cultura della salute.

Giocare “con” (e “come”) i

bambini Se è vero che il gio-co è la dimensione naturale delpensiero infantile, allora neconsegue che il pediatra, o inogni caso chi “si prende cura”del bambino, deve cercare difar uscire il bambino che stadentro di lui. Potremmo discu-tere se in certe situazioni siaconveniente o meno tentarequesta operazione o se invecenon convenga reprimere, ab-bandonare questo bambinoche gioca in noi, mettendo cosìmaggiormente in evidenza ilgioco di potere, la disparità trachi cura e chi è curato.Questo è stato un significativocambiamento nella mia prassiprofessionale negli anni più re-centi, sulla linea dell’insegna-mento di Winnicott: riferendo-si al gioco terapeutico, affermache «si deve svolgere nella so-

vrapposizione di due aree digioco: quella del bambino equella del terapeuta». E sostie-ne che «se il terapeuta non è ingrado di giocare, non è adattoa questo lavoro». Se anche ilbambino viene recuperato aquesta capacità, il curarsi deisuoi problemi diventerà più fa-cile. Stiamo parlando evidente-mente di problemi che abbia-no almeno una componentepatogenetica di natura relazio-nale o psichica: ma quandopossiamo dire che questa com-ponente non ci sia? Il rischio di una eccessiva leg-gerezza, che può essere unostacolo a confrontarsi con ireali bisogni dell’altro, mi paretuttavia da tener presente. Inaltre parole il riuscire a rag-giungere una buona sintoniacon il bambino che stiamo cu-rando, che è l’obiettivo primo ela condizione irrinunciabileper un rapporto terapeuticoefficace, richiede un equilibriotra l’atteggiamento ludico equello serioso; equilibrio chepuò essere spostato in un sen-so o nell’altro a seconda del ti-po di patologia, del contesto edella personalità del bambinoche abbiamo davanti e dellasua famiglia.Il gioco terapeutico presuppo-ne che ci sia il piacere di gioca-re, non può essere una cosaimposta e fatta perché si deve.Ma questa dimensione ludicarichiede che ci si metta in gio-co, da entrambe le parti, e que-sto rende il tutto più difficile epiù rischioso, perché ci siespone alle dinamiche piùprofonde e meno controllabili.Nel gioco di ruolo questa di-mensione viene portata alloscoperto: nel proporre «faccia-mo che…» ogni cosa può esse-re un’altra, si possono immagi-nare nuovi modi di essere almondo. Alla fine questa è l’es-senza del gioco. ■

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Tra Oriente e Occidente

Nel valutare la peculiarità delgioco nella società romano-bar-barica, è importante considera-re che l’originario nomadismoaveva impedito per secoli ilcrearsi di strutture come i circhie le arene, caratteristici, invece,delle stanziali società greca eromana; solo nel tempo, a se-guito della modificazione strut-turale frutto dell’incontro fra ledue civiltà, si sentì l’esigenza dicreare nuovamente spazi stabilied organizzati dedicati specifi-catamente ad attività ludiche.Il mito della forza fisica rimaseper lungo tempo centrale nellacultura dei popoli venuti dalNord o dal lontano Oriente eche si spinsero sempre più adovest fino ad invadere, prima,ed amalgamarsi, poi, con la ci-viltà Tardo Antica.La svolta si avrà con i tornei ca-vallereschi che iniziano adiffondersi in epoca merovingiae che, almeno nei primi tempi,erano organizzati entro le muradei castelli e solo per la cerchiaprivata dei feudatari; lentamen-te si evolveranno ma si dovràattendere il IX ed il X secoloperché si consenta alle plebid’assistervi. È interessante no-tare come questo ampliarsi del-la platea di spettatori avvenne aseguito della nascita di villaggio mercati ai margini dei castelliche, a loro volta, favorivano oc-casione per entrate economicheconnesse alle fiere ed ai raduni.Queste occasioni d’incontrimercantili e baratti s’abbinaro-no sempre più spesso alla cele-brazione d’importanti riti litur-gici, all’esposizione di nuove

reliquie o alla fondazione dimonasteri, chiese, cattedrali.Di contorno spuntarono rapi-damente eventi cavallereschi,disfide, gare di tiro con l’arco otiro alla fune. In particolare fral’XI e il XII secolo i tornei sitrasformarono: in taluni casidivennero vere e proprie batta-

glie simulate (anzi, stando adalcune cronache spesso si finivain veri e propri scontri carichidi violenza) poiché si cercavadi risolvere controversie di po-tere evitando guerre ed assedi elasciando alle disfide la soluzio-ne del problema. La stessacomposizione del “campo dagioco” si dilatò fisicamentecomprendendo, talvolta, vasteradure comprensive di boschi efiumi fino a lambire qualchecentro abitato. Alcune crona-che narrano anche che proprioin occasioni dei tornei, vistol’afflusso di popolo, si potevaassistere a sermoni apocalitticida parte di eremiti, penitenti omonaci girovaghi (quest’ultimifortemente osteggiati da sanBenedetto nella sua Regola1)oppure si svolgevano riti dal-l’antico sapore pagano ma “re-cuperati” dalla Chiesa, come la“prova del fuoco” consistentenel camminare sui carboni ar-denti a piedi nudi e tenendo inmano una colomba che nondoveva essere lasciata sfuggirefino alla fine del cammino2.Cavalieri e trovatori, giullari edaraldi che facevano da corniceai tornei, non hanno cessatoper secoli di indicare e descri-vere i tornei come scuola dilealtà, coraggio e dimostrazio-ne di forza. Eppure la Chiesa,almeno nel periodo che va dal-l’VIII all’XI secolo, non fu pernulla tenera.Innocenzo II, nel 1130, emanòuna bolla in cui condannòsenz’appello «…le detestabilifiere e mercati, dètte volgar-mente tornei, nei quali i cava-lieri son soliti riunirsi per esibi-

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Il caso degli scacchiGioco e violenza nell’Alto Medioevo

Enzo Marigliano

Enzo Marigliano Pubblici-sta, nato a Salerno nel 1952,risiede a Pordenone dal 1958.È studioso dell’Alto Medioe-vo, ed in particolare di storiadel Monachesimo. Ha pub-blicato, oltre a vari saggi in ri-viste specialistiche locali e na-zionali, Medioevo in Monaste-ro. Vita quotidiana in un’abba-zia del XII secolo. Storia, sto-rie e figure di grandi monaci(2001) e la biografia diSant’Anselmo, dottore dellaChiesa, dal titolo Anselmod’Aosta. La vicenda umana diun grande monaco del Medioe-vo (2003), editi dalla Casaeditrice milanese Àncora.

Per ragioni di spazio questotesto è stato e rielaborato del-l’Autore da una ricerca origi-nariamente intitolata: Gioco eviolenza morale nei confrontidegli artisti dal Tardo Anticoall’Alto Medioevo.

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re la loro forza e la loro impe-tuosa temerarietà…»; una con-danna che verrà ribadita dalSecondo Concilio Laterano del1139, ove si giunse a negare ildiritto di sepoltura in terraconsacrata ai caduti in torneo.Gli stessi predicatori gareggia-vano fra loro per incutere il ti-more delle plebi contro i gio-chi militari; evidentemente,però, con scarsi risultati.Bisognerà attendere il 1316 per-ché un altro pontefice, GiovanniXXII, elimini il divieto, comun-que inutile, poiché le tenzonis’erano consolidate per contoloro3. A ben vedere non potevaessere diversamente, se si consi-dera che dal IX secolo in poil’intera Europa era stata percor-sa da violenze senza tregua.Nel medesimo periodo s’assi-ste, in quasi tutto l’Occidentecristiano, all’estendersi del gio-co degli scacchi, in particolarenei secoli XI e XII, in corri-spondenza alla “rinascita Altomedievale”4.Il gioco era certamente prati-cato già in epoca carolingia,ma è al ritorno dalle crociateche si diffuse su ampia scala,grazie ai contatti con il MedioOriente ed in generale colmondo arabo5, che, a sua volta,aveva avuto mutuato lo sche-ma di gioco dall’India.Le ascendenze orientali del gio-co sono anch’esse ampiamenteaccertate. Il nome deriverebbedalla locuzione persiana shah (sipronuncia: sciàch) che signifi-cherebbe “Re”; il termine, poi,sarebbe stato tradotto, moltogrossolanamente, prima in pro-venzale e poi in catalano antico.Le due diverse locuzioni, poi,sarebbero confluite in un ambi-guo, ma unificato, “escac”. Lacomplessità etimologica nondeve meravigliare: questo è unperiodo di confusione che si ri-verbera in tutti i campi e, quin-di, anche sul piano linguistico a

causa dell’incrociarsi di varie et-nie e della difficoltà del latino direstare lingua unificante; tuttoquesto sfociò in contaminazionilessicali ben studiate a proposi-to della “crisi scrittoria”6 supe-rata fra l’VIII ed il IX secolograzie al ruolo degli amanuensimonastici e alle cancellerie, so-prattutto dei Longobardi e deiFranchi.Gli scacchi sono, per se stessi,un gioco che intrinsecamenteha un forte valore come surro-gato della violenza: richiede,infatti, una visione strategica etattica che corrisponde signifi-cativamente ad un evento bel-lico o ad un torneo cavallere-sco. Tutto ciò dovette appariretanto più evidente ed attraentenell’ambito d’una società, co-me quella Alto medievale, for-temente impregnata di valoribellici e segnata dalla strutturapiramidale feudale. La solaipotesi di riuscire a mettere “inscacco il re” (o la regina) do-vette apparire, anche simboli-camente, di forte impatto emo-tivo sia nelle élites sia in queglistrati intermedi che vennero acontatto col gioco che vi lesse-ro un segnale di riscatto o ri-vincita possibile verso il poten-te sovrastante senza dover ri-schiare la pelle attraverso con-giure o tradimenti.La stessa articolazione del gioco(torri, cavalli, alfieri) sembròcorrispondere alla visione effet-tiva degli scontri bellici poichéproponeva, seppur in miniatu-ra, anche la struttura socialedell’epoca rendendo evidentel’identificazione ed interrelazio-ne fra gioco ed assetto sociale.Fu il legame con la pratica belli-ca, però, che contribuì mag-giormente alla diffusione delgioco. Ne fa fede un brano delXII secolo riferito all’assedio daparte dei Franchi della cittadinadi Acri, allora in mano araba,che richiama il ruolo delle torri

di legno utilizzate dagli asse-dianti. Scrive lo storico arabo:«…c’era un uomo di Damasco,appassionato raccoglitore deglistrumenti degli artificieri e de-gl’ingredienti che rafforzanol’opera del fuoco… Costui, peruna combinazione voluta daDio, si trovava ad Acri durantel’assedio e quando vide le torririzzate contro la città cominciòad apprestare gl’ingredienti dalui conosciuti che rinforzavanoil fuoco… preparati che li eb-be… disse di ordinare all’arti-gliere di gettare con la catapultaciò che aveva preparato… Que-sti fece lanciare alcuni recipienticolmi di nafta ed altri ingre-dienti segreti senza, però, ap-piccarvi il fuoco. I Franchi, alvedere che i recipienti scagliatinon bruciavano, gridavano eballavano e giocavano sul tettodella torre; quando il lanciatoresi fu reso conto che le sostanzeavevano bene appreso la terra,la torre e il legno, lanciò un reci-piente pieno a cui aveva appic-cato fuoco e subito le torri tutteandarono a fuoco… così essebruciarono con tutti quelli cheerano dentro e fu una memora-bile giornata mai vista prima».7

È da queste considerazioni cheho trovato molto opportunoche anche la Mostra Il medioe-vo europeo di Jacques Le Goff,svoltasi a Parma dal 28 settem-bre 2003 al 3 gennaio 2004,abbia dedicato una sezione algioco nella società medievale,esponendo e commentando al-cuni rari pezzi di scacchi. Inquesta sede, per brevità, mi li-miterò a citare e commentaresolo due opere fra le tanteesposte: una scacchiera, inrealtà non ascrivibile all’Altoma al Basso Medioevo (XV se-colo), e gli scacchi cosiddetti“di Carlo Magno”8.

Due esempi significativi Nelprimo caso l’interesse per l’ope-

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ra è legato innanzitutto alle suedimensioni (cm 65x65x5) ed alfatto d’essere pieghevole, facil-mente trasportabile, in tutto si-mile, dunque, a molte di quelleattualmente in uso.I quadri chiari sono d’avorio,mentre quelli scuri d’ebano.Quest’ultimi sono intarsiati conricorrenti ornamenti di stelle,losanghe, quadri e triangoli di-pinti prevalentemente in rosso everde. La cornice, a sua volta, èformata da 16 rettangoli d’avo-rio ognuno dei quali occupatoda una scena di vita quotidianadei ceti feudali: corteggiamenti,musica, battute di caccia ed altrigiochi come tornei e tenzoni ca-vallereschi, il tiro alla fune e,quasi in un gioco di specchi, lariproduzione proprio d’unapartita a scacchi. Ai quattro an-goli stemmi araldici, forse riferi-ti ai proprietari. A tal proposito,Paola Ericoli, collaboratrice delMuseo archelogico parmense9,ha dedotto che dovrebbe trat-tarsi d’esponenti della borghe-sia mercantile borgognona poi-ché le donne riprodotte porta-no alti copricapo con velo e lun-ghi strascichi, mentre gli uominihanno maniche a sbuffo, corte

camicie ed ampi cappelli tipicidi quell’area.Il secondo caso è quello dei co-siddetti “Scacchi di Carlo Ma-gno”, dei quali la Mostra ha of-ferto la visione solo di quattroesemplari10.Si tratta di splendidi pezzi inavorio, risalenti certamente al-l’XI secolo, e quindi, a dispettodella denominazione, certa-mente non riconducibili al Redei Franchi e primo Imperatoredel Sacro Romano Impero. Ilfatto è che per centinaia d’anniessi furono ritenuti un dono delcaliffo Harûn al-Rashid, ma s’ètrattato d’un clamoroso errore,poiché è certo che il Califfo diBagdad fece giungere a Carlo,attraverso varie ambascerie indieci anni, ben altri regali, an-che se non meno strabilianti perl’epoca, ma certamente non gliscacchi. Un documento dell’e-poca dice, infatti, che il Re deiFranchi ebbe in dono: «…unelefante, tre scimmie, tessutipreziosi, aromi ed unguentiorientali, un orologio meccani-co munito d’automi e suoneria,candelabri d’oricalco e persinoun padiglione da campo, in-somma, tutte le ricchezze d’O-

riente, concludono abbagliati icronisti occidentali…»11.Il fascino di queste opere deri-va, oltre che dalla fine manifat-tura12, anche dal fatto che rap-presentano figure inusuali ri-spetto a quelle a noi note nellastruttura del gioco: un elefantecavalcato da due figure (chepoi, però, s’è compreso corri-spondere agli alfieri), una dellequali regge una sorta di bastonedi comando; una quadriga dicavalli cui è legata una biga gui-data da un sol’uomo, in tutto si-mile a quelle in uso durante i lu-di gladiatorii del Tardo imperoromano (corrispondenti allenostre torri); un re, posto inpiedi entro una cornice nellaquale due uomini porgonoomaggio in armi ed, infine, unaregina assisa in trono accompa-gnata ai lati da due ancelle chela rendono visibile tenendo ac-costati drappeggi di tende. Pur-troppo, dei 30 pezzi che, secon-do un regesto, sembra esistesse-ro ancora nel 1598, ne sono ri-masti solo 16: due re, altrettan-te regine, quattro elefanti, trecarri da guerra ed un pedone:resta un mistero dove siano fini-ti tutti gli altri pezzi. ■

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1. San Benedetto Abate, Regula Monasteriorum, Ca-pitolo I: “Dei diversi tipi di monaci”. Milano, Abbaziadi Viboldone, VII edizione. 1998, pp. 29-31.2. Un caso fra i tanti, riferito all’eremita PietroIgneo, è descritto da Andrea da Strumi nel “Vita disan Giovanni Gualberto” in Alle origini di Vallom-brosa. Giovanni Gualberto nella società del XI seco-lo [a cura di G. Spinelli e G. Rossi], Jaca Book, Mi-lano 1998.3. Il mutamento di posizione della Chiesa è ascrivibileanche ad un più ampio e generale cambio di ottica a pro-posito del ruolo stesso del guerriero nella società Altomedievale. Rinvio, a tal proposito, alle acute osservazionidi Franco Cardini in “Il guerriero e il cavaliere”, Cap. IIde L’uomo medievale [a cura di J. Le Goff], Laterza, Ba-ri 1993, pp. 83-123.4. G. Constable ed altri, Il secolo XII: la “renovatio”dell’Europa Cristiana, Il Mulino, Bologna 2000.5. AA.VV., Da Maometto a Carlomagno, Jaca Book,Milano 2001.6. G. Cencetti, “Scriptoria e scritture nel monachesi-

mo benedettino” in AA.VV., Il monachesimo nell’AltoMedioevo, CISAM, Spoleto, a.s., pp. 197-219.7. Ibn Al-Athir, “Storia perfetta o Somma delle Sto-rie” in Storici arabi delle crociate, Einaudi, Torino1997, pp. 186-187.8. Si veda l’omonimo libro-Catalogo della Mostra,curato da Donatella Romagnoli, edito da Silvana Edi-toriale.9. La descrizione riportata è desunta dalla schedacurata dalla citata studiosa, così come l’immagine, re-peribile alle pagine 174-175 del Catalogo di cui allanota precedente.10. Anche la successiva descrizione deriva dal Catalo-go di cui alla nota 5 ed, al pari delle immagini, è repe-ribile alle pp. 176-177.11. A. Barbero, Carlo Magno. Un padre per l’Europa,Laterza, Bari 2000. Cit., dal Capitolo IV, par. c) “Car-lo Magno ed Harûn al-Rashid” pp. 110-112.12. È opinione condivisa che siano stati frutto del la-voro d’intagliatori di scuola salernitana vissuti o fra lafine dell’XI o verso la prima metà del XII secolo.

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Non erano undici campioni.Erano undici buoni giocatoriche vincevano in Italia ma, al-l’estero, faticavano ancora. L’e-stero allora era lontano. I gio-catori che venivano da fuori,venivano davvero da fuori. Zi-co, Platini, Maradona doveva-no arrivare, non erano ancoraroba nostra. Da lì a poco, sa-rebbe sopraggiunta la piena distranieri, con grandi campionie anche qualche ciofeca. Nelprimo girone, avevamo stenta-to. Tre pareggi (Polonia, Ca-merun, Perù) per passare unturno polemico, contestato,sofferto. Poi, l’incanto control’Argentina, con Tardelli incorsa e Cabrini di sinistro. Ma,ora, era impossibile. Il Brasile?Noo… impossibile!■ In Inghilterra il calcio lo se-guivano, eccome! Per loro nonera un fatto di sport. Era unafaccenda di sangue. Per loro,che il calcio lo hanno inventatoe diffuso, il campionato ingleserestava il più bello del mondo.Il mio “padrone di casa”, agiochi fatti, quando vincemmoil mondiale, mi disse che co-munque meritava l’Inghilterra.Io, alzando il dito medio dietrola schiena (loro alzano anchel’indice), annuii convinto. Per-ché io e mio fratello eravamostati convogliati, assieme ad al-tri coetanei (io dovevo com-pierne 16, mio fratello ne ave-va da poco 17) in quel di Tun-bridge Wells (a trenta chilome-tri da Londra) per imparare lalingua. Va da sé che si impara-va poco, ma in gruppo (tuttiitaliani) succedevano cose benpiù interessanti. Almeno per

me, in quel periodo. L’Inghil-terra, per noi, era quella cheandava dai Beatles ai Sex Pi-stols, era quella dei punk e de-gli skin-heads, di Wimbledon edi Wembley. Era l’Inghilterradei prati con un’erba tenera eforte come da noi non ce n’era,di Carnaby Street, di quellatrasgressione dolce e violentacome l’età che stavamo viven-do. Io (mio fratello no) avevocondiviso un paio d’orecchinida bancarella con Nicola. Sen-za buco. Ne tenevamo uno atesta all’orecchio sinistro (a de-stra significava che ti piaceva-no gli uomini). Avevo acquista-to, a Carnaby, una magliettanera dei Motorhead (anche orami sfuggono le loro canzoni)con su scritto “gimme some…”ed un pugno borchiato im-presso sullo stomaco. Mangia-vamo poco, mangiavamo male.La “padrona di casa” ci davaogni giorno il “packet-lunch”per pranzo, che diventava, ap-pena usciti, “lunch il packet”.Destinazione: ignota. Dove ca-pitava. In termini relazionali,in famiglia (quella inglese) noneravamo il massimo. La primasera, appena arrivati, la signoraci aveva preparato un riso conpollo, pesce, ma anche con ba-nana e con frutta d’altro gene-re. Mio fratello, guardandomi,mi chiese: «Cos’è questa mer-da?». Certo, lui non poteva sa-pere che la famiglia masticavaun po’ d’italiano ma, come sidice in questi casi, la prudenzanon è mai troppa.■ Lei si chiamava Anna. Nonsaprei dire se erano più belle lecose che diceva o se era bello

perché le diceva lei. Sta di fat-to, che me ne ero innamoratoperso. Ma perso, perso. Miofratello se ne vergognava. Cer-cava in tutti i modi di giustifi-carmi agli occhi degli altri econtinuava a ripetere che miero rincoglionito. Insomma,una botta terrificante!Le partite le vedevamo assie-me. Ci sedevamo per terra inordine sparso, ma in modo chela testa dell’uno non impallas-se gli occhi dell’altro. Io ero inseconda fila. Lei in prima, da-vanti a me. Mi si appoggiavaaddosso. Io, non so se sia nor-male ma… c’era la partita, tut-ti gli amici, lei vicino… sì in-somma, per me era “bene co-sì”. A quella cosa lì non ci pen-savo neanche. Adesso, a ripen-sarci, ci sto dentro, ma propriodi misura.■ Tardelli, per me, era il mas-simo. Non perché fosse juven-tino. Ma perché era poesia emovimento assieme. Già cor-rere molto è una qualità di po-chi. Saper trattar bene la palla,di un numero forse ancora piùesiguo. Bene: Tardelli era unocapace di correre chilometri edi non sbagliare una palla. Seavessi dovuto fare una squadracon un solo giocatore, avreiscelto undici Tardelli.Loro avevano sette fuoriclassee quattro scarsi. Il portiere erauna sagoma di legno. I centra-li difensivi non sapevano di-fendere. La prima punta erauno che, se ci fosse stato Care-ca, non ce n’era per nessuno.Gli altri erano i migliori almondo se ci aggiungevi Platinie Maradona. Erano più che fa-

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Noi ci credevamoItalia-Brasile dell’82

Paolo Lutman

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voriti. Bastava loro un pareg-gio. Scesero in campo con ilrisultato in tasca.■ Noi, che il calcio non l’ab-biamo conosciuto alla “Scuolacalcio” ma sui campetti diquartiere, sappiamo cosa vuoldire che una squadra di amicine affronti un’altra. Non per-ché gli altri fossero nemici. Po-tevano essere anche i miglioriamici al mondo. In quel mo-mento lì però erano avversari.Da affrontare lealmente (ci siarbitrava da soli), ma erano pursempre ciò che si frapponevatra noi e la nostra affermazione.■ Noi ci credevamo. A quel-l’età ci si crede per forza. Conil grande “Dino Dio” in porta(così l’avevamo ribattezzato

nei cori che accompagnavanola partita) non potevamo certouscire. Il Brasile? Buona squa-dra, ma noi eravamo noi! Rossiera il ragazzo che avremmo vo-luto essere, Gentile aveva affi-lato le armi, Oriali correva permille… Non avremmo mai po-tuto perdere quella partita.Come tutte le altre, del resto.■ Ad Anna piaceva cammina-re tenendo per mano un ami-co. Non so sinceramente per-ché, ma a quel tempo non misembrava una cosa strana. Iomi mettevo nel gruppo e sfrut-tavo la scia degli altri. Quandoera sola, piombavo con un ar-gomento qualunque. Con leiera facile parlare di tutto. Sipoteva parlare di Dio come di

Rummenigge. E non è che ci siconfondeva.■ La gara fu bellissima. Se-gnò Rossi, pareggiò Socrates,tornammo avanti ancora conRossi e poi Falcao per il due adue. Un goal che non ci vole-va. Un goal evitabile se soloun uomo fosse uscito a difen-dere, al limite dell’area, inmodo decente. Mancavano22’ tra noi e la fine di un so-gno. «Dino Dio!».■ Anna aveva gli occhi scurima chiari. Li aveva castani mafacevano molta luce. Come ilsorriso. La carnagione era unpo’ olivastra. Era minuta (maio, a quel tempo, ero appenapiù alto di lei), piuttosto ma-gra, con seni e fianchi normali.

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Claudio Bravo, Prima della partita (1973). Collezione privata.

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Però si vedeva che era già don-na. Avevamo la stessa età, malei era un po’ più grande.Quando la tenevo per mano,ogni tanto stringevo un po’.Lei aspettava un attimo e poistringeva anche lei. Era il no-stro modo per dirci che ci vo-levamo bene. Non chiedetemiperché, ma io sapevo che lei midiceva «Ti voglio bene».■ Un giorno, con mio fratelloGuido, Stefano e Arnaldo, an-dammo al British Museum.Delle opere non ce ne potevafregare di meno. Ci interessavauna sorvegliante, a dir il veroneppure troppo carina. Ini-ziammo a farle gesti osceni co-me una sorta di invito. Leichiamò la vigilanza e noi scap-pammo lungo i corridoi di unmuseo che non finiva più, finoall’uscita e dietro una siepe.■ Per noi, che il calcio l’ab-biamo imparato al campetto, ilcampo è un mondo a sé, se nonil mondo intero. Ci sono le li-nee (anche immaginarie), l’a-rea di rigore, le regole in gene-rale. Ci sono i goal, i ruoli, lafascia da capitano, la gioia, ladelusione, il respiro affannato,l’urlo, la trepidazione, la con-centrazione… il gioco insom-ma. Il gioco che per me era lavita stessa. E non sono sicuroche non sia ancora così.■ Un altro giorno, e c’era an-che Nicola, andammo a Sohoper vedere una che si spoglia-va. Ci spennarono vivi. All’u-scita, la ragazza mulatta, co-perta solo da una vestaglietta,diede a Nicola un bacio sullabocca. Noi per giorni gliela ti-rammo che gli sarebbero venu-te malattie gravissime e dalleconseguenze irreparabili.■ I minuti passavano. Lasquadra, in campo, c’era. Con-ti teneva la palla ad un centi-metro dal piede, per tutto iltempo che voleva. Oriali eradiventato bravo anche a saltare

l’uomo. La difesa era ciò che dimeglio, in quel reparto, si eramai visto. Antognoni insegna-va calcio e Graziani non rece-deva di un passo. Il Brasile eraun cigno ferito.■ Io, ad Anna, avevo paura adire che le volevo bene, chel’amavo, che avrei voluto starecon lei per sempre. Avevotroppa paura. Se mi risponde-va che per lei andava bene checi tenessimo solo per mano?Che tra poco tempo saremmostati una a Padova e l’altro aPordenone? Che non mi vole-va tanto bene quanto glienevolevo io? No, non l’avrei sop-portato. Era meglio tenersi ledomande e lei per quello cheaveva voglia.■ Nicola (che aveva l’età dimio fratello) già fumava e tuttinoi gli andammo dietro. Annanon fumava. Fumava moltoanche Beppe, uno che era an-che mio compagno di classe, aPordenone. A Tunbridge Wel-ls, mio fratello, Beppe ed iopassammo un pomeriggio inte-ro a prendere in giro, tra dinoi, le persone che passavano.Ridevamo come disperati.Una sera gli skin-heads ci inse-guirono. Eravamo in quattro.Abitavamo in periferia. Ci ave-vano notati e avevano capitoche eravamo italiani. Capireanche noi l’andazzo e darcela agambe fu tutt’uno. Ci insegui-rono sino a casa. Noi riparam-mo dentro. Il “padrone di ca-sa” dei miei amici, in giardino,ebbe un alterco con uno di lo-ro. Si misero le mani addosso.La moglie chiamò la polizia.Quando arrivò, lo skin-headera sparito e la polizia, sottosotto, se la rideva anche un po’.■ È il 75’. Conti calcia un cor-ner dalla destra. La palla spiovecentralmente, tra il dischettodel rigore e la linea esterna del-l’area. Cade tra tre, quattro gio-catori. Antognoni la gira verso

la rete. La palla rimbalza spor-ca. La difesa non sale. Rossi,sotto porta, la tocca d’istinto.L’esultanza di Rossi era davve-ro singolare. Correva con lebraccia tese, ma quasi se ne ri-traeva. Noi, nella sala, eravamoun mucchio selvaggio conscarpe in bocca e urla sconsi-derate. Mancavano ancora 15’.Mancava davvero poco. Man-cava un’eternità.■ Per noi che passavamo piùtempo fuori che in casa, il cal-cio era anche sdraiarsi sull’erbatra un tempo e l’altro o a finepartita. Se il cielo era limpido ec’erano le rondini, andava be-ne. Se il cielo era coperto e lerondini volavano alte, andavaancora. Se c’erano le nubi sen-za rondini, eravamo a rischio.Si dicevano scemenze, si ab-bozzavano pensieri, si chiac-chierava del più e del meno.Quando il cielo era pulito etutt’attorno c’era un ronzio diprimavera, le parole erano fiori.■ Durante il viaggio di ritor-no in aereo, io e Anna eravamoseduti vicino. Quanto fossi tri-ste, è difficile dire. Ma non c’e-ra tempo per pensare. L’avevoancora per un paio di ore.■ Non feci nulla, come sem-pre. Lei a un certo punto mi siavvicinò e mi baciò sulla boc-ca. Per me, ma anche per lei(ne sono certo), era il primo.Ne seguirono almeno altri die-ci sino all’atterraggio. Ce lidemmo senza dirci quasi nullae l’ultimo durò di più.■ “Dino Dio” parò sulla lineae fu annullato anche un goalbuono ad Antognoni. Aveva-mo vinto. Vinto con i più fortidel mondo e ora Polonia eGermania non potevano (e fucosì) spaventarci. Eravamo iprimi al mondo ma ce ne senti-vamo al di sopra. Come su unaereo, in volo di ritorno, erava-mo in undici, in cento, in mi-lioni di campioni.

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Premetto che quanto ho volu-to esprimere in queste righenon va in alcun modo assolu-tizzato: il contesto preso inesame è solo uno dei tanti acui ci si può riferire per cerca-re un riscontro alla continuaespansione della violenza. Co-me spero sarà chiaro ai più,l’applicazione dei principi d’a-zione e reazione che esporròpuò essere associato a pratica-mente tutti i momenti aggre-gativi e di massa dell’uomo:dallo sport, ormai vissuto qua-le dimensione a sé stante ri-spetto la quotidianità, in cui laviolenza, soprattutto negli ul-timi anni, e particolarmentenel mondo del calcio, è au-mentata a dismisura in mododifficilmente arginabile; allapolitica, attiva e non, con co-mizi e manifestazioni d’odioed intolleranza sempre più fre-quenti che infiammano perico-losamente animi e coscienze.In un panorama così vasto edarticolato quale quello dellepotenzialità sociali della vio-lenza, mi sono occupato di unaspetto che forse potrà sem-brare marginale ma che inve-ce, con le sue potenzialità d’in-fluenza sociale, ritengo agentesu un piano sociocognitivo piùintimo e più intenso, quindimolto più pericoloso: le atti-vità ludiche informatiche vici-ne alla realtà virtuale.Nella nostra società iperorga-nizzata l’ordine attanaglia i suoimembri con ogni mezzo. I suoitentacoli sono mossi dal potereche cerca in ogni momento dieliminare i pericoli derivati dal-la violenza, ma che inevitabil-

mente, così facendo, generanuova violenza in una spiraleineludibile. Secondo Kant,«L’origine della società non ri-siede nell’azione, ma nella sof-ferenza […] L’agire sociale hasempre un aspetto corporeo equesto ostacola la libertà altrui:ogni atto è un atto di violenza»;ma con l’avanzare della tecno-logia e con la realizzazione del-le potenzialità umane ci siaspettava anche una progressi-va diminuzione della violenza.Così non è stato e la violenzaoggi non è scomparsa, anzi, hasolo modificato il suo volto. Il potere istituzionale, non po-tendo evitarla, cominciò sem-pre più ad utilizzarla e a legitti-marla in un progetto dell’ordi-ne che ha condotto gli uomini

al centro dell’infinito progres-so di una nuova “società di ve-tro” già ravvisata tra gli altri daautori come Huxley, Orwell eBradbury. La violenza cosìvenne pianificata, organizzatae meccanicizzata accrescendoed estendendo la sua efficacia.Assistiamo così ad una modifi-ca dell’uso della violenza sem-pre più veicolata attraverso isistemi ed i supporti informati-ci per la creazione di un nuovoordinamento sociale gestito dauna nuova violenza sempre piùattuata e fornita in pillole inuno stato di inconsistenza fisi-ca ma emozionalmente e men-talmente molto consistente. Da sempre e per sempre il con-cetto di tecnologia va ben oltregli oggetti, e l’agire umano de-ve adattarsi ai nuovi mezzi chedanno sempre nuovi stimoli,nuove conoscenze e nuove abi-tudini. Per questo il corpo è unmezzo della violenza tra i prin-cipali, ma è anche tra i più fra-gili: il corpo degli uomini è l’ar-ma più semplice perché ciascu-no può essere pericoloso pergli altri, ma gli altri possono es-sere pericolosi per lui. La nuo-va violenza prima mediatica edoggi virtuale risulta essere unsottoprodotto della più anticaviolenza fisica, quindi la massi-ma protezione ricercata, ancheoggi, è l’autoestensione di sé,un qualcosa che “filtri” e cheprotegga dalla violenza, ma chene dia tutte le sensazioni libera-torie. Ottenuta coi molteplicimezzi ausiliari che la tecnica of-fre all’insufficienza dell’uomoin quanto essere vulnerabile, lanuova violenza si espande at-

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Guerrieri? Volete che giochiamo a fare la guerra?Violenza virtuale: un reale pericolo?

Massimiliano Zane

La cultura è un prodotto delsuo agire e della sua immagi-nazione. La sua opera è solola sua immagine riflessa.

W. Sofsky

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traverso uno spazio fisico fitti-zio, liberata dai vincoli di unluogo, e vede il suo esecutoresolo da lontano in un regno dianonimato ed asimmetria. Lospazio è spazio di transito e laviolenza, costantemente in mo-vimento entro questo spazio,grazie ad un’ampia rete comu-nicativa, può giungere ovun-que esulando anche dai limitidel tempo. Fortunatamentequest’ultimo non ha ancoraperso la sua natura, ma sempredi più possiamo assistere aduna “relatività culturale deltempo” secondo cui ciò che untempo sembrava veloce oggi èinvece molto lento.I giochi d’azione multimedialioggi utilizzano costantementequesti parametri, ed essendo

costruiti su una base in scaladella società sono vere e pro-prie riproduzioni fedeli dispazi o di momenti storici del-le società in cui sono ambien-tati. I protagonisti attivi e pas-sivi si muovono in questi am-bienti che hanno come sfondostorie ed avvenimenti, veri eno, manipolati ad arte per giu-stificare l’azione/missione cheessi devono compiere solita-mente seguendo il principioche «il fine giustifica i mezzi».L’azione evolutiva della storiache si viene a creare si articolacosì bene che può portare, neicasi estremi, proprio ciò chela nuova violenza richiede: laperdita di coscienza dei pro-pri limiti di essere umano. Inquest’ottica la violenza espan-

sa è particolarmente democra-tica e non fa distinzioni di sor-ta creando una macchina so-ciale che tutto travolge, e l’ir-riconoscibilità dei suoi fauto-ri, che si rivolge direttamentea desensibilizzare le percezio-ni degli altri partecipanti, ne èl’arma più efficace. I giocatorisono immersi in una situazio-ne fisica ed emotiva che esulacompletamente dalla realtà incui essi vivono e spesso questonuovo io è letto come libera-torio. Che sia del futuro, percrearvi un alone di finzioneattorno, del passato, inseren-do molto spesso il protagoni-sta in periodi e situazionicruente e caotiche per opaciz-zarne le azioni violente, o con-temporanea, farcita senza re-

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Alberto Savinio (1891-1952), Le boxeur (1927). Collezione privata.

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more con azioni di violenzaspesso gratuite ed ingiustifica-bili, l’ambientazione gioca unruolo principale nella giustifi-cazione della violenza resasempre più vera. L’illusioneattuata, oltrepassando la quo-tidianità, sottrae il giocatoredalla realtà dandogli un nuo-vo scopo e canalizzandone leattività verso un uso della vio-lenza non più solo necessario,ma auspicabile. Ciò che contaè la missione, anche se talvoltapossiamo assistere, anche nel-la realtà vera, a certe azioniviolente compiute volontaria-mente che non seguono alcunobiettivo. Sono pura praxis.La cornice sociale del senso direciprocità è sostituita dalmeccanismo di causa/effetto.

La violenza in queste struttureparallele sorge senza scopo omotivo, viene azionata auto-maticamente dalla strutturastessa, da situazioni d’impulsoche si impossessano completa-mente dell’uomo. La passione che nasce dall’eli-minazione dei propri freni ini-bitori è un’importante chiavedi comprensione della violen-za. Le emozioni ingeneranouna propria realtà della violen-za in cui riflessioni e decisionisono superflue. La febbred’euforia entusiasma sé stessain uno sconfinamento di sé inuna realtà di libertà assolutadove il peso delle inibizioni,della morale e della società nonesistono, sono invalidati. Con-venzioni, tabù e remore sono

d’ostacolo. L’uomo ne è al di là.Egli è oltre sé, raggiunge unapseudo-autocoscienza senzaprecedenti e, riparato dalla fin-zione informatica, agisce indi-sturbato fuori dell’ordine so-ciale. Il gioco non è più tale, lamissione è la vittoria sui suoipari, la vittoria è la sopravvi-venza, la sconfitta è la morte. Inogni nuova rappresentazione lebarriere percettive attuaterinforzano i suoi confini pre-servando il giocatore dai senti-menti sociali, che sono supera-ti; nessuna pietà o compassio-ne, nessuna vergogna o colpa,ciò che nella vita non gli è per-messo qui gli è concesso, quitutto è possibile. Si infrangeogni divieto e l’eccesso di vio-lenza che risiede nel gioco stes-

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In queste pagine alcune immagini tratte da videogiochi dell’ultima generazione.

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so penetra il campo sociale chesi divide in dicotomie dirette: oamici o nemici, chi non è unamico è un nemico, fino a chesi scatena inevitabilmente il“tutti contro tutti”. L’antagonismo che segna ilpunto di confine della recipro-cità sociale non è più superabi-le e la sovrastruttura sociale disignificati non fa che nasconde-re il problema. La realtà è scis-sa da qualunque impulso e nonriguarda più l’uomo, che non èpiù in essa; ciò che gli accadeattorno è annientato, non ha al-cun significato, non è nemme-no più oggetto della sua perce-zione, sparisce ogni differenzatra esterno ed interno. Il trionfo dell’emancipazione edell’impunibilità si basa suun’illusione: questi giochi, co-me la realtà, esigono un atto au-tenticamente sociale: l’assun-zione di un ruolo. Ma essendola vicinanza fisica impossibile,si pone la violenza come azio-ne/interazione astratta con unainevitabile rimozione della sof-ferenza e delle vere sensazionilegate ad essa. La conseguenzaè la rovina della coscienza di séche perde ogni riferimento. L’a-zione afferra il giocatore crean-dogli un nuovo io. La fantasiaha libero corso, il potere d’azio-ne e l’immaginazione sono illi-mitati. L’autoespansione ècompiuta ed infiamma la suainteriorità ampliando le suepercezioni virtuali: il giocatorenon ha più limiti, egli è unanuova totalità, egli è il mondointero. La violenza che espri-me, che si fonda sempre sullacertezza di non doverne mai es-sere vittima, lo libera dandogliemozioni che non sospettavanemmeno di poter provare.L’illusione nutre l’illusione.Partecipare non comporta al-cun rischio, nessuno è colpevo-le, la cultura e la società sonosoppresse, il tempo si scompo-

ne e si moltiplica, la violenza siespande nello spazio.Questa fuga da sé stessi rischiadi sovrapporre all’io reale l’iofittizio del gioco riportando elegittimando così il gioco/vio-lenza anche nella vera realtà. E

non si creda che questa “tra-sformazione” colpisca solo uo-mini e donne privi di educazio-ne e rigore civile: secondo re-centi studi compiuti presso lafacoltà di Psicologia dell’Uni-versità di Padova su un campio-ne misto di un migliaio di stu-denti dell’ateneo, i partecipantia simulazioni virtuali, dopo uncerto un periodo di tempo, ten-dono ad ambientarvisi così afondo da avere difficoltà a di-staccarvisi creando una sorta dimondo di confine: la percezio-ne di sé è ancora presente, mala condizione di assonanza per-cettiva ed i vincoli emotivi conquesta iper-realtà sono moltopotenti. Lo dimostra il fatto chequalora si fosse verificato unqualunque problema, voluto omeno, sia all’interno della realtàvirtuale sia alla struttura multi-mediale di supporto, i soggetticoinvolti, dopo alcuni attimi dismarrimento, cercavano di por-vi rimedio, ma mai tentando diuscire dal mondo artificiale, an-zi, nella maggior parte dei casicercavano di farvi entrare chipotesse risolvere il problemasopraggiunto. Questa è la dimostrazione chela realizzazione dell’autodifesatotale legata alla creazione diuna propria incorporeità men-tale e fisica multimediale è giàin atto, ed in futuro potrà soloche migliorare divenendo ungiorno una vera e propria sosti-tuzione della realtà. Violenza ecultura sono e saranno semprepiù intrecciate l’una all’altra el’alta tecnologia, che contribui-sce al progresso di entrambe,in un tempo non così lontanoprodurrà l’autoespansione chel’uomo ricerca per permetterglidi mettere in atto in piena li-bertà ciò che sempre più desi-dera: una comunità emozionaleal di là di qualsiasi morale, conil superamento dello spazio,del tempo e di se stesso. ■

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Quando lessi il titolo del temade «L’Ippogrifo» che ora avetein mano, il mio primo pensieroandò immediatamente ad unodei problemi che, ad intervalliquasi ciclici, viene ripropostosu giornali, radio, televisioni eforum in Internet: la “perico-losità dei videogiochi”.Almeno una volta all’annoquesto argomento diventa ter-reno di polemiche e dibattiti incui noto, con rammarico, lamancanza – nel vorticare diparole, emozioni, giudizi e,concedetemelo, pregiudizi – diun elemento chiave: il pareredei videogiocatori.

Quando il Ministro Sirchia, framolte polemiche, vietò di fu-mare nei locali pubblici, gli or-gani di stampa si premuraronodi dar voce a tutti, fumatori enon fumatori.Chi frequenta il mondo dei vi-deogiochi sa bene quante di-scussioni nascano, specie all’e-stero, attorno a determinati “ti-toli” (termine usato per indica-re uno o più giochi in senso ge-nerico, o a giochi già citati inprecedenza da altri interlocu-tori), ma sa altrettanto beneche spesso ad esse non segueuna informazione completache veda contrapposti detratto-ri e sostenitori in dibattiti equi-librati e costruttivi e che nonfacciano leva su estremizzazio-ni da ambo le parti.Mi reputo una videogiocatrice“moderata”, non gioco perabitudine ed in modo acritico;faccio un’attenta selezione dei“titoli” da acquistare cercandodi dare delle priorità alle carat-

teristiche che devono assoluta-mente possedere: una storiaben costruita, impatto graficopiacevole ed un accompagna-mento musicale adeguato. Pre-diligo i giochi giapponesi basa-ti spesso su storie di delicatapoesia dove amore e odio, reli-giosità e artificiosità, onore edisonore si rincorrono, si con-trastano o convivono in un sus-

seguirsi di eventi che coinvol-gono coscienza e morale piut-tosto che facili moralismi e si-tuazioni “politicamente corret-te”. E devo dire che “titoli”aderenti a queste caratteristi-che ve ne sono davvero molti eriscontrano notevole successotra persone di età, Paesi e cul-ture differenti.Più volte mi sono domandatacosa differenzia le persone “co-me me”, che anche in un video-gioco ricercano la poesia deglieventi e dialoghi intelligentiframmezzati da puro svago, dal-le persone che cercano esclusi-vamente “sangue e violenza”.A questo proposito ricordouna triste polemica che seguìl’uscita, parecchi anni fa, di un“titolo” successivamente dive-nuto un cult: Carmageddon.Il videogioco consiste in unagara automobilistica. I puntivengono assegnati in base altipo di persona investita, aidanni causati a lampioni, car-telloni pubblicitari, alla pro-pria vettura e alle vetture av-versarie. Inutile dire che loscandalo in America fu enor-me e che i genitori insorserocontro la vendita di questogioco ottenendone la momen-tanea sospensione.Confesso che sono stata unadelle persone, a dispetto diquanto scritto precedentemen-te sulla tipologia di giochi cheprediligo, che ha provato laversione demo (dimostrativa)del gioco in questione. Si tratta-va di un’anteprima limitata apochi minuti e alla scelta di po-che vetture. Non sapevo di chegioco si trattasse né della pole-

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Figli del demonio?

Anna Piva

Illustrazioni di alcuni giochifra più amati degli ultimi anni.

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mica che aveva suscitato e, sedevo essere sincera, mi sono di-vertita a correre lungo le stradeall’impazzata e contro ogni re-gola. Chi l’avrebbe mai detto?La polemica di cui venni a co-noscenza solo dopo qualchemese mi lasciò amareggiata.Carmageddon, per me comeper altri ragazzi, era solo ungioco che iniziava e terminavacon l’accensione e lo spegni-mento della consolle, ma nonfui meravigliata delle criticheche suscitò e che, dal punto divista puramente morale, condi-videvo e condivido tuttora. Adamareggiarmi fu ciò che neconseguì. Infatti, faccio notare,pur essendo stato sospeso dalladistribuzione, il giocò arrivòsul mio tavolino legalmentecontenuto in un Cd allegato aduna prestigiosa rivista di com-puter, prevalentemente dedica-ta al settore della grafica pro-fessionale. Come fu possibile?La risposta è semplice: l’azien-da produttrice del gioco e le as-sociazioni dei genitori si accor-darono su alcune modifiche algioco dove tutto restò identicofatta eccezione che per un par-ticolare: agli uomini furono so-stituiti zombi, alieni e animali.In questo modo si diceva ai gio-vani: «Non si deve uccidere unuomo per divertimento... ma sesi tratta di un altro tipo di esse-re vivente allora è diverso». Lamia indignazione fu tanta... eforse non mi è ancora passata.Mi sono più volte chiesta se èquesto il modo giusto di risol-vere le polemiche e da qualsia-si punto mi sia imposta di valu-tare il problema la mia rispostaè sempre stata la stessa: «No!».

I giapponesi hanno capito, damolti anni, qualcosa che moltisottovalutano e che accomunatantissime passioni di personepiù e meno giovani, come vi-deogiochi, fumetti e cartoni

animati: a dispetto del loro no-me, non tutto ciò che appartie-ne a queste categorie è creatoper i bambini. Come The Simp-sons è un cartone animato ri-volto ad un pubblico più “for-mato”, così ci sono giochi divarie tipologie e per differentietà: dagli educational (per bam-bini dell’asilo e delle scuole in-feriori) fino ad arrivare a “tito-li” complessi con trame “adul-te” creati per ragazzi che han-no già acquisito determinateconoscenze e derminati valori,facendoli propri. Partendo daquesto principio, penso che oc-correrebbe un maggior dialogotra adulti e ragazzi per non ar-rivare alla demonizzazione diun mezzo non tanto dissimileda altri a cui siamo abituati (oè meglio dire assuefatti?) sem-plicemente perché, oramai,parte integrante della vita ditutti da molti anni.In questo credo che gli organidi informazione abbiano dellecolpe correlando eventi tragiciad abitudini diffuse anche trapersone tranquille ed equili-brate. Pertanto, se dei bambinisparano con la pistola di papàai compagni di classe, l’“infor-mazione” si sente in obbligo diricordare che tutti quei bambi-ni giocavano a Doom. Per chinon ne fosse a conoscenza,Doom è un gioco appartenenteal genere “sparatutto” che haavuto un certo successo e pro-prio per questo ritenni l’acco-stamento “artificioso” perchélimitava il giudizio, seppur ve-lato, su uno “sfortunato” caso.Nessuno si sarebbe sognato dimettere in evidenza il fatto se,invece che giocare a Doom, iragazzini avessero ascoltatomusica classica, e, se anche fos-se successo, nessuno avrebbealzato il dito contro Beethoven.Questo cercare il colpevole nelmezzo e non nel singolo indivi-duo e nella società in cui vive,

oltre a generare allarmismi fini-sce con il “ghettizzare” una pas-sione e chi la possiede, creandoincomunicabilità tra questi ulti-mi e chi vive accanto a loro.

Tempo fa entrai in EveryEye,forum dedicato ai videogiochi,ponendo una semplice doman-da: «Perché giocate?». Moltiiscritti sono adolescenti ma visono anche molti ventenni etrentenni.Il quadro generale che ne èuscito è che il videogioco ha lacapacità di dare spensieratezzae di distaccare il videogiocato-re dalla realtà per un tempo li-mitato. Per molti è un modo dipoter interpretare ruoli diffe-renti – impossibili da viverenella vita reale – e decidere leazioni da compiere diversa-mente dal film, dove la speran-za di riscatto morale avvienenei tempi decisi dalla sceneg-giatura e dal regista. La vogliadi giustizia prevale, il buonodeve vincere, lottando, senzaipocrisia. Con spade, pugnali,coltelli, fruste, magie, armi coneffetti speciali strabilianti, po-co importa. Ogni personaggioha il proprio stile e cambiandogioco ogni giocatore può pro-vare emozioni diverse.I giochi disponibili sul mercatosono tantissimi e si differenzia-no notevolmente. Tra essi vene sono di indubbio cattivogusto che insegnano, tra le al-tre cose, a diventare perfettimafiosi o falsificare soldi. Maquesto accade in tutte le formedi intrattenimento.Quando qualcuno, che non co-nosce assolutamente il mondodei videogiochi, mi chiede sesono pericolosi, porto sempreil medesimo paragone: «La se-dia è pericolosa? Cosa c’è dipiù piacevole di una sediaquando si è tanto camminato esi è stanchi? Ma se in uno scat-to d’ira la scagliamo contro

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qualcuno può divenire un’ar-ma capace di uccidere. Allorapossiamo definire la sedia unoggetto pericoloso?».

Le soluzioni adottate di voltain volta quando le polemiche sifanno più accese ed insistentisono spesso “rattoppi” più uti-li a curare le coscienze di chivive accanto ad un appassiona-to di videogiochi che all’appas-sionato stesso. Quando una so-luzione è dettata da un pregiu-dizio, anche se esso potrebberivelarsi fondato, finisce con ilperdere la sua efficacia e la suaautorevolezza.Fra tutte le soluzioni adottatefino ad ora, la più inutile credosia la famosa scritta: «Questogioco contiene scene violente ecruente» che compare all’ini-zio dei giochi “action” e “spa-ratutto”, seguita dalle opzioni“Con sangue”, “Senza san-gue”, “Tanto sangue”, “San-gue rosso” e “Sangue verde”.Il bambino che acquista uno“sparatutto”, che opzione sce-glierà? Quante famiglie sono aconoscenza di queste opzioni ele fanno applicare? Un colpodi pistola acquista un valorediverso se, a seguire, non fioc-ca il sangue a fiumi o se il san-gue è verde?Questi quesiti sono trattati an-che nei forum tematici. Sonoinfatti gli stessi giocatori e vi-deogiocatori, anche giovanissi-mi, a porsi problemi di ordine“morale” e nelle risposte sipuò leggere, nella maggioranzadi esse, un malessere che nascedal sentirsi giudicati senza di-ritto di replica in quello che,per molti, resta un hobby, pia-cevole, vissuto con la stessa in-tensità di un bel film o di unbuon libro ma che non trovagli stessi consensi da chi osser-va il fenomeno esteriormente.Discutendo dell’argomento conchi lo vive, oltre al giudizio, si

può avvertire l’amarezza e, intaluni casi, la rabbia dovuta allamancanza di rispetto verso lascelta di come disporre del pro-prio tempo, quando la stessacosa, al contrario, succede rara-mente. È più comune, infatti,veder giudicare come “infanti-le” o “perditempo” una perso-na dedita al gioco piuttosto cheuna dedita alla lettura, all’ascol-to di musica o alla visione di unfilm. Ma difficilmente chi giocadà giudizi “forti” in merito adaltre passioni, limitandosi asoddisfare la propria.A mio avviso vi sono fenomeniben più diseducativi su cui do-ver riflettere e che, invece, ven-gono trascurati o neppure rico-nosciuti. Quando mi trovo innegozi dove si vendono video-giochi mi capita, non di rado,di osservare la facilità con cuiad un bambino (anche di 7-8

anni) viene data la possibilità dispendere 60 Euro (costo mediodi un gioco appena uscito) sen-za il controllo né tanto meno lapresenza di un adulto. Fortu-natamente esistono ancora ne-gozianti che “agiscono secondocoscienza” e ne sono testimo-ne, ma possiamo essere certi siasempre così?

Vi sono due realtà agli opposti,una che vede un netto rifiuto aquesto tipo di divertimento eduna che lo accetta passivamen-te ed acriticamente. Nel mezzovi sono tanti giovani – e badateche ho detto volutamente“tanti”, sapendo che ve ne so-no tanti che aderiscono alledue realtà suddette – che vivo-no il gioco come un momentodi “pausa giornaliera” parago-nandola, non vogliatemene, al-la lettura o al cinema dove, co-me per i giochi, non tutto è diqualità ma esiste anche la me-diocrità o peggio.Credo che per risolvere il pro-blema dei videogiochi sia indi-

spensabile, prima di pretende-re l’esame di coscienza da par-te delle aziende il cui scopo èesclusivamente vendere, con-cedersi il tempo per un’esamedi coscienza personale per ca-pire i nostri limiti, i nostri ti-mori senza sfidarli neppure ingioco se non sappiamo di esse-re abbastanza forti per vincer-li. Occorre dialogo, prima ditutto in famiglia, per conoscerele persone che ci stanno vicinoe capire fino a che punto sannoriconoscere una consolle dallavita reale.Forse questo, assieme ad unacostante ricerca dell’auto-con-trollo, della propria individua-lità, ed il sentirsi responsabiliz-zati potrebbero servire a seda-re quel fanatismo che rende gliocchi dei potenziali giocatori-dipendenti ciechi di fronte allarealtà, senza dover demonizza-re quello che è un oggetto ina-nimato, che funziona quando

e come noi vogliamo.

Non si voglia leggere nelle mieparole del fanatismo o il tenta-tivo di costringere ad apprez-zare qualcosa che si ha tutto ildiritto di non capire o di nonvoler avvicinare.Ognuno ha dei gusti personalie delle personali inclinazionifrutto del proprio tempo e del-la propria esperienza. Trovogiusto però aggiungere la miavoce, tanto simile a quella dimolti altri, che ricorda che ilbene ed il male dipendono dal-l’uso o dall’abuso di qualun-que oggetto e che questi sonoil frutto di scelte personali e diumane debolezze a cui, a volte,cediamo senza conoscerne leconseguenze, sottovalutandoleo sopravvalutando la nostracapacità di opporvisi.

Insomma, ascolto musica rocke gioco... ma come tutti, nonmi sento figlia del demonio.

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Luminoso come sa essere, ilsole greco accendeva l’erba deldeclivio e le piante secolari sul-lo sfondo. Al centro della con-ca, dove quotidianamente turi-sti di ogni angolo del pianetaglobalizzato si sfidano sulla di-stanza che diede gloria al piùtipicamente italiano (e quindiimprobabile, scostante, popu-lista e geniale) dei velocisti,Pietro Mennea da Barletta, orasi scaldavano per la gara atletimuscolosi e concentrati.C’erano, stando agli inviti uffi-cialmente distribuiti, quindici-mila persone, compresi giorna-listi e autorità, e sugli schermiRai Franco Bragagna, come dirigore concitato e sintattica-mente estremista, diceva che lospettacolo era intenso: leOlimpiadi erano tornate dinuovo a casa loro, nel villag-getto del Peloponneso che diOlimpia ha nome. Gli atleti, vada sé, avrebbero onorato ilmomento, naturalmente stori-co, o mitico, che son due cosediverse, ma nelle telecronachesportive non importa.

A poche centinaia di metri dalluogo della gara c’è il MuseoArcheologico, limpidamenteorganizzato dalla scuola ar-cheologica tedesca. La salacentrale è occupata dai resti deifrontoni del tempio di Zeus. Sitratta di uno dei capolavoridell’arte antica, ma questo è unaltro discorso. Parliamo invecedei soggetti trattati: da una par-te, i preparativi per una garaatletica, quella tra Enomao ePelope, con in palio l’interoPeloponneso; dall’altra parte,

la lotta tra i Lapiti e i Centauri,che hanno interrotto una festadi nozze. I lati corti della salaospitano quanto rimane delletavolette della decorazione checorreva ai lati del tempio. Sitratta di un ciclo che tratta del-le dodici fatiche di Eracle.L’insieme di queste tre storierende bene un’idea importanteche i Greci hanno dello sport,ed essa è fortemente connessacon l’idea di scontro, contesa,lotta (in greco agòn, da cui“agone”). Possiamo interpretare l’intrec-ciarsi dei racconti nel tempiocosì: la rappresentazione dellaCentauromachia ci dice che lavita è lotta tra forze primordialidel disordine e forze civilizza-trici, che fondano le istituzioniche garantiscono la convivenza,come il matrimonio. Le fatichedi Eracle aggiungono che l’eroecivilizzatore si assume il compi-

to di aver ragione delle tenden-ze caotiche primigenie, con laconsapevolezza che questo im-portante lavoro è fatto, lo si vo-glia o no, a suon di bastonate edi prove fisiche. Ne vien fuori,quindi, un atto di consapevo-lezza realistico e non particolar-mente consolante: la civiltà, peraffermarsi, non può svolgere ilproprio discorso, fatto di regolee di istituzioni, ma deve accet-tare il discorso dello scontro diforze. Per concludere, la sfidatra Enomao e Pelope ci raccon-ta che lo sport è un modo con ilquale la civiltà regolamenta eaccetta l’esigenza della sfida.Aggiungiamo: quest’ultima sto-ria ci dice inoltre che lo sport èuna cosa seria e che le poste ingioco possono essere altissime.

E, proprio per l’importanzadegli oggetti del contendere, siimbroglia.I primi, grandi, maestri d’in-ganno sono gli Dei, e questo cifa capire che l’inganno è unmodo con il quale l’uomo vie-ne ricondotto al suo posto, cheè quello, appunto, di mortale. È noto come gli Dei inganninogli eroi omerici nei duelli (siveda quello che combina Ate-na al povero Ettore): tra i rac-conti mitici, poi, ne abbiamotanti nei quali gli inganni sonoancora più smaccati. Uno dei più esemplari è quelloche riguarda la contesa tra Arac-ne e Pallade, magistralmentenarrata da Ovidio, (Metamorfo-si, 6. 1-145). Aracne ha sfidatoPallade a tessere col filo una sto-ria, e al termine del lavoro di en-trambe, non c’è dubbio, la vin-

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Inganni, doping e violenzanello sport dell’antica Grecia

Piervincenzo Di Terlizzi

Alberto Savinio, Gladiateurs (1928).

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citrice dovrebbe essere la fan-ciulla. Cosa fa, allora, la Dea?Distrugge l’opera dell’avversa-ria e la picchia, per soprammer-cato. Diremmo che fa la prepo-tente, in altri termini. Ma questaprepotenza è strutturale, per co-sì dire, e il racconto della sfida èparadossale: uomini e Dei sonodiversi, e gli uomini, anche seteoricamente potrebbero, con-cretamente non sono abilitati asuperare le divinità.Ci sono casi nei quali gli ingannihanno esiti meno cruenti, comequello della sfida tra Atalanta eIppomene (anche di questa unabella versione è in Ovidio, Me-tamorfosi, 10. 560-707). Atalan-ta è una campionessa della cor-sa, e grazie a questa sua abilitàsfida tutti i suoi pretendenti: iquali, sconfitti, perdono la lorovita e i loro beni. Fino a che, unbel giorno, arriva Ippomene,che la sfida a sua volta, con l’in-

ganno. Egli, infatti, ha come al-lenatrice Venere, che compieuna specie di “doping ammini-strativo”, donando ad Ippome-ne tre frutti d’oro. Facendoli ca-dere lungo il percorso, il giova-ne distrae la ragazza, e mentrequella si ferma a raccogliere econtemplare i frutti d’oro, egliraggiunge vincitore il traguar-do, ottenendo così la mano dilei. Che poi alla fine anche adAtalanta Ippomene piaccia,non toglie che l’imbroglio siastato grosso.

Insomma: lo sport, con regolee tempi precisi, è segno di civi-lizzazione, ma la sua sostanza èla gara, nella quale gli elementidi civilizzazione non bastano.E nella gara l’importante è vin-cere, pertanto è lecito inganna-re: lo fanno anche gli Dei. (Ca-so mai, è la letteratura a chie-dersi se queste vittorie siano

sempre, davvero, belle, e acreare una galleria di “grandiperdenti”: modello, per tutti,l’Ettore di Omero, che comun-que si rassegna al gran gesto diaccettare una sfida persa inpartenza quando non ha piùnessuna altra possibilità).Per tutte queste ragioni, la re-torica della pulizia e dellalealtà dello spirito olimpico ri-portato nella terra d’origine,che il nostro buon telecronistaogni tanto rammentava nel po-meriggio d’agosto, risultavafrancamente, ed etimologica-mente, fuori luogo.Ci ha pensato qualche atleta,di quelle stesse gare di lanciodel peso che lì si svolgevano, afarsi trovare positivo all’anti-doping e a rimettere le cose aposto: se volete una gara equa,non fatela ad Olimpia. E poinon dite che i Greci non viavevano avvertito. ■

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Giorgio de Chirico, Combattimento (1929). Milano - Civica Galleria d’Arte Moderna.

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Premessa Negli ultimi ventianni abbiamo assistito ad unaprofonda trasformazione dellavoro e delle sue rappresenta-zioni; la crisi del lavoro indu-striale e la conseguente crescitadelle pratiche di produzionesimbolica e immateriale (terzia-rizzazione); lo sviluppo cre-scente di forme di lavoro giuri-dicamente autonomo e una di-minuzione della forma salario;e, infine, una crescente impren-ditorializzazione del lavoro,una crescita cioè delle capacitàdi rischio e innovazione comecondizione indispensabile perpotersi affermare in un merca-to sempre più competitivo.Questi elementi di trasforma-zione strutturale e culturaledel lavoro concorrono a defini-re quest’ultimo come semprepiù compenetrato con la vita econ i saperi che si sviluppanonel quotidiano.Il lavoratore autonomo che sirappresenta come imprendito-re di sé stesso è il nuovo proto-tipo del lavoro post-fordista;autonomia, flessibilità cogniti-va ed emotiva, innovazione ecapacità di rischio, indistinzio-ne tra lavoro e vita diventano inuovi requisiti di una forza la-voro all’altezza dei processi ditrasformazione delle economieproduttive.

Competizione e vita sociale

L’elevata competizione, l’alea-torietà delle regole che gover-nano il successo lavorativo edesistenziale, costringono il lavo-ratore autonomo ad una co-stante presenza sul mercato allaricerca di nuove commesse e

opportunità di conoscenze; ladilatazione dello spazio/tempodi lavoro investe direttamentequello della socialità e convivia-lità. L’accesso e il mantenimen-to della possibilità di lavoro sialimenta infatti attraverso l’in-tensificazione delle reti di rela-zioni micro-sociali; amicizie su-perficiali e conoscenze occasio-nali, maturate all’interno dicontesti informali e ricreativi,diventano risorsa produttiva econdizione indispensabile perlo sviluppo del proprio posizio-namento sul mercato.In questo senso le competenzeche vengono richieste al lavora-tore post-fordista vanno ben ol-tre gli skills tecnico-professio-nali; il successo lavorativo, oltreche al possesso di competenzespecifiche nell’esecuzione diuna determinata prestazione,dipende anche, e forse soprat-tutto, dalla capacità di intessererelazioni con soggetti in posi-zione significativa nei circuitiproduttivi, di attivare processidi collaborazione competitivacon colleghi, di costruire un’ap-petibilità di sé, attraverso l’uti-lizzo di tecniche comunicative eseduttive.

Lavoro e cura di sé In que-sto senso pertanto cura di sé e

costruzione di una competenzalavorativa tendono a sovrap-porsi. La stessa locuzione “im-prenditore di sé stesso”, che èoramai diventata un luogo co-mune nelle retoriche del lavo-ro, esprime nitidamente unasorta di coazione all’individua-lismo narcisista e alla sua decli-nazione in termini produttivi.È qui all’opera una rappresen-tazione dell’identità socialedell’individuo svincolata daqualsiasi ipotesi di appartenen-za e filiazione collettiva; è unafantasia di auto-generazionequella che sostiene l’imperativodel farsi da sé ma, si badi bene,sottratta a quell’aurea eroicache esprime il mito del self ma-de man del capitalismo fordi-sta. Essere imprenditori di séstessi è diventata una condizio-ne esistenziale generale, requi-sito indispensabile per potersopravvivere in una societàcompetitiva. Vi è pertanto unintimo legame tra iper-laborio-sità, per la quale è stata coniata,nel mondo anglosassone, l’effi-cace neologismo workaholismper sottolinearne le componen-ti compulsive, e l’iper-vitalismodell’individuo contemporaneo.

Apologia dell’intraprende-

re Nelle retoriche imprendi-toriali cresciute dentro alla cri-si del fordismo vengono enfati-camente valorizzate qualità in-dividuali quali la produzionedi visioni intuitive e l’esplora-zione solitaria di nuovi scenariproduttivi, l’investimento libi-dico e corsaro e la capacitàcreativa di innovazione, la te-nacia nel perseguimento degli

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Lavoro post-fordista e gioco

Marco Cerri

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obiettivi e la risolutezza nel-l’assunzione delle decisioni.Come noto Schumpeter, eco-nomista austriaco delle primametà del 1900, fu, nella suaprima produzione teorica, ilcantore della volontà di poten-za dell’imprenditore comecreatore di nuovo senso. Misein luce condizioni ed esiti delprocesso innovativo; da unaparte la necessità di uno statodi grazia, inevitabilmente tem-poraneo, dall’altro la gioia nelcreare il nuovo. Nei suoi scrittipiù maturi segnalò l’esauri-mento della funzione impren-ditoriale e la superiorità dellequalità razionali e pianificatricidel manager. Ma si trattò diuna cattiva profezia.Nel pathos post-fordista l’agireimprenditoriale, attraverso lavalorizzazione ideologica dellequalità dell’imprenditore delprimo capitalismo, ritorna adessere intrapresa. Intraprendi-tore rimanda a entrepreneur-ship, agli aspetti più dinamicidell’agire imprenditoriale, alsuo continuo movimento disuperamento dell’esistente ecreazione del nuovo, al gustoper l’avventura e al piacere lu-dico per la sperimentazione,alla tensione corsara e trasgres-siva nella ricerca di nuovi spazidi scoperta, alla rottura dellaroutine e del quotidiano.Nulla a che vedere con l’eticadel sacrificio dell’imprenditoreprotestante weberiano; dili-genza e parsimonia, frugalitàed ascetismo. È una diversaconcezione della prassi e deltempo che si afferma. Da unaparte lungimiranza, sobrietà,prudenza, accumulazione len-ta, consapevolezza storica del-l’irreversibilità delle propriescelte; dall’altra espressività,eccesso, rapidità, aleatorietà.

Lavoro e gioco Il soggettode-storificato, per il quale gli

esiti del proprio agire sonosempre e comunque reversibi-li, non può che connettere nel-le proprie rappresentazioni illavoro al gioco.Nel pensiero borghese l’atti-vità ludica viene rappresentatacome pratica inutile e dispen-diosa; per contro del lavorovengono enfatizzati gli aspetticonnessi alla capacità di diffe-rimento del desiderio, allevirtù della perseveranza e dellamoderazione.Ford (1982, p. 166) nella suaautobiografia mette in eviden-te risalto l’inconciliabilità digioco e lavoro: «Quando lavo-riamo dobbiamo lavorare.Quando giochiamo dobbiamogiocare. Non serve a nulla me-scolare le due cose. Quando illavoro è finito allora può veni-re il gioco, ma non prima».Ma nel modello post-fordistadi accumulazione il lavoro im-prenditivo si rappresenta comeretoricamente segnato da unapulsione libidica e corsara,l’imprenditore diventa games-man e la capacità di godere lu-dicamente assume una funzio-ne direttamente produttiva.Si consideri inoltre come i pro-cessi di terziarizzazione e leconseguenti centralità assuntedalle pratiche cognitive di pro-duzione, manipolazione e in-novazione di simboli, informa-zioni e linguaggi tendano a da-re un’immagine della soddisfa-zione lavorativa svincolata dalperseguimento di un risultatoutile e remunerativo e si espri-mano invece, nelle retorichepost-fordiste, nel piacere del-l’inventare e del creare1. Lestesse pratiche innovative siesprimono come capacità delsoggetto, non solo e non tantodi eseguire un compito consufficiente cura e professiona-lità, quanto piuttosto di mette-re in atto qualità creative diproduzione del compito stes-

so; in questo senso le pulsioniauto-generative di creazioneda sé del prodotto lavorativoesaltano la caratterizzazionedell’atto produttivo come di-vertimento, trasgressione, in-novazione.Anche in un altro senso il lavo-ro come imprenditività si avvi-cina allo statuto del gioco; lacontingenza, l’imprevedibilità,l’inevitabile provvisorietà dellapropria condizione produconoun depotenziamento dell’espe-rienza e della sua funzione neiprocessi di crescita e socializ-zazione dell’individuo, costrin-gendo ad un pensiero centratosul presente, sul qui ed ora,alieno a qualsiasi ipotesi diprogetto e di sedimentazionedell’esperienza come condizio-ne di accesso al reale e alla ma-turità psichica.

Gioco e memoria Benjamin(1997), analizzando le caratte-ristiche dell’operaio massifica-to, ne sottolineava la contiguitàcon la figura simbolica del gio-catore; il ritorno costante allepremesse del proprio agire, laripetitività vuota dei gesti el’impossibilità di fare tesorodell’esperienza acquisita. Inquesto contesto la rappresen-tazione temporale che si espri-me è ciclica, un eterno ritornoma desacralizzato, routinario;antitetico quindi alla progres-siva e cumulativa temporalitàdell’ethos borghese e socialista.In questo senso il lavoro, comeil gioco, è costretto costante-mente a “ricominciare di nuo-vo” (p. 115).Anche nel lavoro imprendito-riale post-fordista, in un conte-sto di aleatorietà e contingen-za, la memoria delle praticheviene depotenziata nella suadimensione funzionale alla ac-cumulazione dell’esperienza;ma i tragitti dei soggetti al la-voro, se non presentano la li-

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nearità deterministica dellafreccia di una temporalità pro-gressiva, non hanno nemmenonessuna contiguità con la per-fezione insensata dell’eternoritorno; i percorsi evocanopiuttosto un’indeterminata se-quenza zigzagante delle traccedella passione farfallante2, in-stabile, metamorfica, ludicadel soggetto che mette al lavo-ro la propria onnipotenza.Si consuma qui la rivincita delpuer contro il senex; contro iltitanismo sacrificale di Prome-teo emerge la duttilità, astuta ecinica, di Hermes (Formenti,1986).

Agon e mimicry Callois(1981) classifica i giochi si-tuandoli lungo un continuumche va dalla gratuità, improvvi-sazione e aleatorietà della pai-deia alle caratteristiche di cal-colo, combinazione e regola-mentazione, tipiche del ludus.All’interno di questo contestogenerale, egli individua quat-tro tipologie di giochi; in pri-mo luogo viene rilevata la pre-senza di attività agonistiche(agon) connesse alla ricerca delprimato sull’altro, sostenute dapulsioni di volontà di potenzae da comportamenti impronta-ti all’astuzia, alla forza e all’in-ganno, e riconducibili aglisport agonistici. Una secondatipologia viene rinvenuta nel-l’alea, antico nome latino delgioco dei dadi e alla quale van-no ricondotte le attività carat-terizzate dalla fortuna e dal ca-so e sostenute da atteggiamentisuperstiziosi.Un’ulteriore area di classifica-zione è quella alla quale vienedato il nome di mimicry, ossiale attività nelle quali è preva-lente il mimetismo, l’assunzio-ne ludica di ruoli, il travesti-mento, rintracciabili, ad esem-pio, nella recitazione e nellepratiche carnevalesche.

Infine, l’ultima area tipologicadel gioco ha come oggetto laricerca dello smarrimento, del-la distruzione fine a se stessa,dell’ebbrezza determinata daldominio della vertigine (ilinx).A questa tipologia afferisconogli sport estremi, le praticheacrobatiche, le esperienze del-le giostre al luna-park; e ad es-sa vanno ricondotti, nella fasedegenerativa della pulsione lu-dica, gli atteggiamenti compul-sivi e dipendenti dell’assunzio-ne di droghe.Mi sembra interessante rintrac-ciare nelle rappresentazioni dellavoro post-fordista caratteriche ricorrono nella definizionedi agon e mimicry; il primatodel lavoro autonomo e impren-ditoriale è riconducibile, nelleretoriche diffuse, da una parte,all’esasperazione della compe-tizione e della lotta per l’affer-mazione di sé; dall’altra, al“marketing di se stesso”, allanecessità cioè di costante pre-senza nei nodi strategici dellarete dove passano le più consi-stenti possibilità e occasioni edall’imprescindibile competen-za di simulazione e seduzione.

La cultura della scommes-

sa Negli anni Ottanta, l’eleva-ta redditività ha convogliato ilrisparmio nei titoli del debitopubblico, favorendo processidi crescita della rendita e tra-sformando la composizione so-ciale; la proprietà azionariadiffusa è diventata un luogosimbolico di ricomposizionedegli interessi e di produzionedi un’ideologia proprietaria.Nell’ultimo decennio, in uncontesto di crisi economica edi politiche volte alla riduzionedel deficit statale, l’apologiadel rischio e della scommessaha accompagnato la crescita dimassa del gioco borsistico edella partecipazione a lotteriee concorsi.

Si tratta indubbiamente diesperienze sociali che mettonoin campo competenze, aspetta-tive e rappresentazioni diffe-renti; in borsa vi è la presenzadi un calcolo razionale e di unprogetto di investimento, at-traverso, per esempio, la diver-sificazione del portafoglioazionario o l’affidamento adun broker, che riconduconotendenzialmente tale praticasociale ad una dimensione diagire razionale orientato alloscopo. Per contro, il consisten-te aumento degli investimentiin giochi e lotterie non può cheessere riconducibile all’emer-genza e alla diffusione di prati-che sostenute da un pensieromagico e basate sulla sollecita-zione del fato e della contin-genza. Vi è peraltro da rilevarecome la crescita e l’andamentodel mercato borsistico abbianoprodotto una significativaemergenza di comportamenticollettivi profondamente se-gnati da una declinazione ludi-ca e speculativa dell’investi-mento borsistico. A ciò si ag-giungano la velocificazione deiflussi e l’estemporaneità del-l’investimento riconducibili al-le nuove forme on-line dellepratiche azionarie e ai fenome-ni di day-trader.Da questo punto di vista per-tanto, la consistente diffusionedel gioco borsistico da una par-te e del gioco d’azzardo dall’al-tro (video-poker, slot machine,lotterie, concorsi, scommessepiù o meno legali, ecc.), rinvia-no ad elementi comuni dellapsicologia collettiva; narcisismoonnipotente, piacere ludicodella trasgressione, rottura dellimite e della routine, apologiadel rischio, della sfida e dell’in-certezza, destorificazione.

Gioco e morte È evidenteper esempio come il piaceredell’azzardo non sia connesso

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solo alla possibilità magica eonnipotente (“il denaro che pro-duce denaro”3) di moltiplicare ipropri guadagni e ad evadere,attraverso l’esperienza ludica,dalla fatica del lavoro4, ma an-che al gusto della sfida e dell’as-sunzione di rischio di per sé.La ricerca di sensazioni preda-torie e l’emozione di trovarsisul confine tra la vita e la mor-te, tra l’agio risolutore e la di-struzione di sé, è riconducibilealla condotta ordalica (Le Bre-ton, 1995), laddove la costru-zione dell’identità personale edella propria onnipotenza pas-sa attraverso reiterate provedella propria capacità di gioca-re con il limite e l’estremo; ilpiacere dell’uscire indennedalla sfida con il rischio estre-mo, rinvia, in questo senso, algodimento connesso all’inten-sa esperienza del sopravvivere.Nella scommessa impossibiledi prevedere un futuro e di go-vernare il caso, nell’illusione dicontrollare l’incontrollabile, viè una commistione di ciò cheCallois definisce alea e ilinx,tra il padroneggiare il fato chediventa superstizione e il pia-cere estremo che si tramuta incompulsione estatica. Ed è aquesto livello che l’esperienzaviene costantemente azzeratadalla reiterazione dell’attivitàludica e il rischio diventa giocosimbolico con il limite; Freud(1927), nella sua celebre anali-si della vita e dell’opera di Do-stoevski, associa simbolica-mente la passione per il giocod’azzardo e l’onanismo, con-nettendoli alla pulsione parri-cida. Quando l’investimento li-bidico ed emozionale non tro-va limiti all’interno dei qualiessere elaborato e dotato disenso, il principio di piacere sicontamina con suggestionimortifere. In questo contestol’incertezza diventa valore insé, svincolata da ogni altra pos-

sibilità di significazione; la fan-tasia di una casualità libera-mente scelta si tramuta in fatosubito e alla libertà dal lavorosi sostituisce la dipendenzaestatica. Al ciclo magico e ac-quisitivo di denaro/gioco/de-naro subentra quello additivodi gioco/denaro/gioco.

Gioco e regressione In que-sto contesto l’esperienza ludicasi svincola quindi dalla sua fun-zione strumentale di renderepraticabile la fuoriuscita dal la-voro oppure da quella pedago-gica e progressiva di essereesperienza di accesso al reale,attraverso una crescita della co-noscenza di sé e della conse-guente capacità di autonomianel mondo. È questa infatti laposta in gioco dei processi diautocomprensione del soggetto,di cura di sé, di costruzione del-

la propria identità, che possonopassare anche attraverso ritualidi presentificazione simbolica diun’assenza. Mi riferisco alla fun-zione che assume il rocchettonel bambino, citato da Freud(1920), laddove la reiterazionedell’atto ludico diventa accessoal linguaggio e al simbolico.Vista dal vertice della dimen-sione patologica e compulsivadel rischio e del piacere ludico,la cura di sé si spoglia della suaintrinseca valenza pedagogicae diventa espressione dell’im-perativo all’individualismo,della coazione al narcisismo ealla sua declinazione in terminiproduttivi.E ciò consente di mettere inevidenza le componenti re-gressive dell’ideologia del lavo-ro come gioco. La negazionedelle componenti costrittive elimitanti del lavoro, la sua ri-duzione a divertimento e pia-cere, la “riattivazione dell’ero-tismo polimorfo pre-genitale”(Marcuse, 1968, p. 230) diven-tano manifestazione compiutadelle fantasie autogenerative eonnipotenti dell’individuo nel-la crisi del fordismo.

1. Ancora Schumpeter ci accom-pagna nell’esplorazione dei caratte-ri psico-dinamici dell’imprenditoreinnovatore: «Come il giocatore gio-ca per fare punti soltanto in questosenso l’industriale lavora spessoper il guadagno» (cit. in Berta,2004, p. 30).2. Come è noto, è questa una dellepassioni che Fourier cerca di valoriz-zare nella sua ipotesi falansteriana; èaltrettanto nota la stroncaturamarxiana, laddove evidenzia che «unlavoro realmente libero… è la cosamaledettamente più seria di questomondo» (Marx, 1976, p. 278).3. «La più rozza superstizione mo-derna» lo definisce Arendt (2003,p. 75).4. «Il gioco – annota Callois (p.169) – si fa beffe del lavoro».

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Bibliografia

Arendt H., Vita activa. La condi-zione umana, Bompiani, 1982.Benjamin W., Di alcuni motivi inBaudelaire, in Angelus Novus,Einaudi, 1995.Berta G., L’imprenditore. Unenigma tra economia e storia,Marsilio, 2004.Callois R., I giochi e gli uomini,Bompiani, 1981 (ed. or. 1958).Ford H., Autobiografia, Rizzoli,1982.Formenti C., Prometeo e Hermes.Colpa e origine dell’immaginariotardo-moderno, Liguori, 1986.Freud S., Al di là del principio dipiacere (1920), in Opere, IX,Bollati Boringhieri, 1989.Freud S., Dostoeski e il parricidio(1927), in Opere, X, Bollati Bo-ringhieri, 1989.Le Breton D., La passione del ri-schio, EGA, 1995.Marcuse H., Eros e civiltà, Ei-naudi, 1968.Marx K., Lineamenti fondamen-tali di critica dell’economia politi-ca, Einaudi, 1976.

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Se ne va il vecchio Cioran su egiù per i corridoi di un miseroalberghetto del Quartiere Lati-no con i suoi capelli da diavoloelettrizzato e il suo sguardo dabalcanico inconsolabile, in-quieto, con la mente borbot-tante. Sono le 4 e 20 del matti-no. Nemmeno stanotte ripren-derà più sonno fino al sorgeredel sole. Da una camera esce un uomo basso,baffuto e pallido. I due si salutano con soddi-sfatta complicità, come due affiatati compagni digolf, anche se non si sono mai visti prima. Per-corrono uno in un verso, uno nell’altro il corri-doio in tutta la sua buia lunghezza. Una lerciamoquette marrone assorbe il peso dei loro passi.«Loro dormono…» sbuffa Cioran, gettando losguardo sulle porte delle altre camere.«Già… loro dormono… anche lei ha dovuto fa-miliarizzare con l’insonnia?».«Ci conosciamo bene, è la mia migliore ami-ca…».«La chiama amica? Non le sembra piuttostouna creatura fatta salire in terra da Lucifero?».«È un onore essere stato scelto dal diavolo per isuoi esperimenti» risponde Cioran.«Lucifero si diverte a giocare con i nostri corpi,riducendoci a spettri senza forza, tutte le nottisiamo prostrati da un combattimento contro unnemico invisibile e lei trova la forza di scherzar-ci sopra?» chiede l’uomo baffuto.«Non ho mai pensato che il diavolo possa esserepiù luciferino di me… e poi l’insonnia è il mo-mento in cui si è totalmente soli nell’universo».«Che ne dice se ci sediamo? Non è il passeggia-re un’arma in grado di sconfiggerla».«Se lei preferisce, ma nemmeno stare seduti cidarà maggiore conforto» afferma Cioran.Si accomodano su due polverose poltrone dipelle rossa. Dalla vetrata osservano le stradebuie e deserte di Parigi.«L’idea che l’uomo prima o poi possa scompa-rire non mi dispiace affatto…» afferma il balca-nico elettrizzato.«Effettivamente la pace di questi momenti nonè per nulla disprezzabile…».

«Loro dormono… ma prima opoi si sveglieranno e rovine-ranno tutto… tutto questo su-blime silenzio…».«Non mi sembra preoccupatoper le sorti dell’umanità…».«L’uomo passerà, ma non mo-rirà nel suo letto. Se tutto va be-ne finirà da degenerato, ridottoa una caricatura di se stesso…».

«A volte penso che il nostro cinismo nasca dal-l’invidia per loro… che conducono una vitanormale» afferma l’uomo baffuto. «Può darsi… io ho scritto migliaia di pagine sulnichilismo per sconfiggere la noia, lei che solu-zione ha adottato?».«Io lavoro… sono rappresentante di giochi inscatola, di carte da gioco, di dame e scacchiere,di piccole trovate per maghi alle prime armi, ci-lindri da cui escono le colombe e i conigli… lagente si stupisce ancora e si diverte…».«Chi lavora, poi ha bisogno di giocare, io non homai lavorato, forse per quello non amo il gioco».«Anche costruire sistemi filosofici, alla fine è ungioco, un po’ più impegnativo del poker, ma èsempre un gioco con le sue ferree regole».«Prediligo gli aforismi, sono più divertenti, an-che perché i sistemi sono destinati a crollare epoi voglio conservare il privilegio di rimanereilleggibile…» dichiara Cioran.«Riesce a vivere dei suoi libri?».«No, vivo di una borsa di studio alla Sorbona emangio alla mensa studentesca. È da vent’anniche devo finire la mia tesi di dottorato e nelfrattempo ho girato tutta la Francia in biciclet-ta. Mi hanno lasciato la borsa di studio perchéhanno ritenuto che anche andare a zonzo per laFrancia fosse pur sempre un merito!».«Vede che tutto sommato anche a lei non di-spiace giocare…».«Siamo costretti a giocare per disperazione, noiin più siamo nevrotici perché non possiamo di-menticare durante il sonno… ci manca la selezio-ne, di notte il cervello riordina tutto, elimina lecose inutili, loro dormendo fanno pulizia, noistando svegli, non possiamo ripulirci il cervel-lo… loro possono sopportare tutto perché la not-

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Anatomie notturne

Giovanni Ciot

Giovanni Ciot, laureato inLettere a Padova, ha conse-guito il diploma in Regia aRoma. Alcuni suoi raccontisono apparsi nelle riviste:«Go wine» ed «Ex vinis» diVeronelli. Sta per pubblicareil suo primo romanzo.

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te hanno il tempo di dimenticare… io sono soloun indiscreto che vende le proprie miserie…».«Le sue miserie avranno consolato qualcuno,come le mie colombe che escono dai cilindri…– afferma l’uomo baffuto – …comincia a spun-tare la luce… mi dà quasi fastidio…».«Il sole sorge… ci dice che tutto è stato solouna proiezione delle nostre coscienze, come es-sere stati al cinema, è il lato salottiero delleidee, le abbiamo proiettate al buio, le abbiamoesposte a chi aveva voglia di ascoltarci, così ab-biamo conferito loro maggiore consistenza…senza passione le idee non esistono, anche il lo-gici sono passionali… ma ora la luce non siconfà ai nostri ragionamenti…».«A movie is a girl and a gun… and this is the end».«Andiamo a stenderci per qualche minuto, loro

si stanno svegliando, lasciamo pure ai sani dimente il possesso di questo pianeta fallito…».L’uomo baffuto augura buon riposo a Cioran,poi si toglie il cilindro dalla testa e fa uscire duecolombe bianche.Cioran sorride e chiude la porta della sua stan-za, si siede e apre il suo quadernetto nero. Di là nella sua camera l’uomo baffuto collaudasul proprio corpo un coltello retrattile. Finge diconficcarselo sul costato, sulla schiena, sullegambe e più prova a ferirsi, più ride.«La mia forza sta nel non aver trovato risposta aniente» scrive Cioran nel suo quadernetto.L’uomo baffuto appoggia il coltello retrattile eentra in una grossa scatola magica, la chiude edice:«Uno, due, tre e io adesso non ci sono più!».

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Wasilj Kandinskij (1866-1944), Tagliente nel morbido (1929). Parigi - Collezione Nina Kandinskij.

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Il gioco rappresenta l’essenzastessa dell’infanzia, l’età nellaquale si cresce e si impara a di-ventare adulti. È un’attivitàimportante, che richiede moltoimpegno e molta concentrazio-ne da parte del bambino, chequando gioca non vuole esseredisturbato e sembra dire: «La-sciatemi stare perché sto lavo-rando». Già da piccolo si met-te lì con serietà, quasi “perso”nei suoi giochi e non si riesce adistoglierlo per nessun motivo.Continua così man mano checresce, ogni volta che si dedicaad esso o a qualsiasi forma diattività del tutto libera e auto-noma. Il piacere di metterla inatto seguendo i propri impulsiè più forte: dalla scoperta delproprio corpo (le mani nei pri-mi mesi di vita) a quella deglioggetti e dello spazio attorno asé, via via fino a forme di giocopiù complesse che esigono piùfantasia da parte sua.L’adulto magari si chiede a cosaserva tutto questo giocare e senon sia da considerarsi una per-dita di tempo… Ma se a un ge-nitore, a volte, capita di chieder-selo, vuol dire che si dimenticadi esser stato bambino e tende asottovalutare il grande piacereche quest’attività gli ha datoquand’era piccolo e l’importan-za che ha avuto per la sua vita.Se non tiene ciò nella dovutaconsiderazione, può pensare dioffrire qualcosa “in più” al pro-prio bambino, riempiendo lasua giornata con attività piùconcrete ed istruttive, spronan-dolo ad utilizzare in modo “piùproduttivo” il suo tempo rega-landogli giocattoli “intelligenti”,

studiati per affinare le sue capa-cità manuali e logiche. In questomodo, però, sacrifica e soffocala sua fantasia e il suo ingegno! Icuccioli dell’uomo, infatti, a dif-ferenza degli altri cuccioli dellaspecie animale, durante l’infan-zia, imparano ad esercitare lecapacità che riguardano non so-lo la sopravvivenza fisica, ma an-che la vita mentale ed affettiva.È proprio con il gioco, con l’ap-porto personale di immagina-zione e di creatività che il bam-bino può creare un ponte fra lafantasia e la realtà, imparando acostruire la propria “arte di vi-vere” e non solo di sopravvive-re. I giocattoli preferiti, ce ne ac-corgiamo se ci pensiamo un po’,sono quelli che danno più spa-zio alla creatività del bambino:basta pensare a quando sonopiccoli, a come si divertono coni coperchi delle pentole o con lecarte colorate e a come riman-gono estasiati dal rumore quan-do sbattono per terra un mesto-lo di legno. È interessante e bel-lo, per me, notare che, nei grup-pi di mamme con neonati,quando l’operatrice del Nido ti-ra fuori bottigliette di plasticapiene di bottoni o pastina, lemamme rimangono dapprimaperplesse perché la bottigliettadell’acqua minerale sembra ungiocattolo povero, e poi sorrido-no quando il loro bimbo, incu-riosito e attratto dal rumore edai colori, allunga il braccio perafferrarle. Il gioco, insomma,non è solo piacere e divertimen-to: per il bambino è una neces-sità, un “lavoro” che sviluppa lesue capacità intellettive. Passadal fare il piccolo scienziato but-

tando tutto per terra o portandoogni cosa alla bocca all’avventu-rarsi nell’immaginazione e uti-lizza gli oggetti per inventarestorie, creare situazioni o mette-re in scena fantasie, sentimenti edesideri. «…mentre gioca, e for-se soltanto mentre gioca, il bam-bino o l’adulto è libero di esserecreativo», ha scritto Donald. W.Winnicott, mettendo in eviden-za che solo così egli può esplora-re e scoprire i suoi desideri, isuoi sogni o può immaginare ilproprio futuro. Il tempo pergiocare, quindi, va custodito edifeso, altrimenti si rischia dav-vero di far diventare i bambiniadulti prima del tempo, o peg-gio ancora, di farli crescere infretta o in modo non equilibra-to, per esempio mettendoli ingrado di saper maneggiare condisinvoltura computer, telefoni-ni o quant’altro, ma continuan-do a tenerli piccoli allacciandoloro le scarpe e preparando lorola cartella.Selma H. Freiberg ha definitogli anni dell’infanzia «Gli annimagici», non ritenendoli magi-ci, però, nel senso di conside-rarli “gli anni dell’età dell’oro”,di un’età nella quale il bambinovive in un mondo incantato,bensì riferendosi al fatto cheegli, nel primo periodo della vi-ta, in senso psicologico funzio-na proprio come un mago. Ma-gica è la sua concezione delmondo, di se stesso, dei genito-ri e crede fermamente che isuoi pensieri e le sue azionepossano produrre eventi. Lacreatività, di cui parlavo più so-pra, trova nutrimento in questesue credenze, nell’“onnipoten-

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Non è facile fare i genitori,ma non è facile nemmeno fare i figli

Maria Teresa Santin

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za soggettiva” come la defini-sce Winnicott. Più in là neltempo estenderà questo siste-ma magico dando attributiumani a fenomeni naturali e ve-dendo cause umane o sovrau-mane negli avvenimenti dellasua vita quotidiana. Più avantiancora, quando sarà più gran-de, riuscirà a ridimensionare ea trasformare tutto questo, maper farlo ha bisogno di essereaiutato a crescere.Frequentemente siamo noiadulti a ritenere che il periododell’infanzia sia il periodo dellaspensieratezza, dell’innocenzae della gioia, non tenendo con-to, anche in questo caso, dellafatica che comporta il cresceree di tutte le energie che sononecessarie per farlo.Ma il tempo dell’infanzia,troppo spesso, non è né quellodel gioco né quello della spen-sieratezza, perché, troppospesso, i bambini diventanooggetto di violenza (trascura-tezza, maltrattamento, abuso,abbandono) da parte degliadulti, e alla fine sono lorostessi a sentirsi i cattivi della si-tuazione. Il problema del mal-trattamento ai bambini affon-da le sue radici nel passato e,nelle diverse epoche storiche,ha assunto modalità di espres-sione, dimensioni etiche, socia-li e culturali molto diverse.Conseguentemente la tolleran-za e la legittimazione nei con-fronti di determinati compor-tamenti abusanti, non possonoessere lette in modo avulsodalla loro collocazione storica.Nell’ epoca nostra, purtroppo,assistiamo a fenomeni di vio-lenza non isolati , e in ogni ca-so, quando ce li troviamo difronte, non possiamo trince-rarci dietro ad atteggiamentigiudicanti e punitivi o, al con-trario, acriticamente e dema-gogicamente difensivi della fa-miglia. Si sa, all’interno del nu-

cleo familiare, i fattori protetti-vi, quelli che aiutano a cresce-re, e quelli che, per contro,concorrono a creare situazionidi sofferenza, interagiscono traloro, influenzando lo sviluppodel bambino. La psicoanalisi siè occupata di questi aspettidell’esperienza (lo studio deltrauma psicologico iniziòquando Freud scoprì che lesue prime diciotto pazientiisteriche erano state abusatesessualmente da bambine) emolto è stato scritto e si scrive,cercando di comprendere e dicurare. Se si vuole proteggere ibambini ci si deve occuparedei genitori. Ne Il sostegno allosviluppo Selma H. Freibergpropone proprio questo: l’aiu-to al genitore, alla madre, nonlimitandosi a tener presente ifattori di rischio nelle situazio-ni di disadattamento, ma cer-cando di capire quali possonoessere i fattori di protezioneche contribuiscono ad aumen-tare la possibilità di recupero. Come affermato più sopra, ainostri giorni la violenza suibambini non è un’esperienzacosì rara ed essi possono subiredanneggiamenti gravi a causadel comportamento e dell’at-teggiamento della famiglia.Questa è un’epoca complessa,«L’epoca delle passioni tristi»come Benasayag e Schmitl’hanno chiamata, riferendosialla diffusa e grave insicurezza

degli adulti, resi incapaci diguardare al futuro con serenaprogettualità. Sono presi dallatecnica, nel senso di confidareeccessivamente in essa come ri-solutiva di tutti i problemi, ri-manendo delusi e afflitti quan-do capiscono che non ha fun-zionato e non può funzionareper tutto. Non c’è più tempoper pensare, per gli spazi dicompagnia, per la consolazionedelle tristezze, perché bisognaaccelerare i tempi relazionalitrasformandoli in messagginifrettolosi. Il sistema familiare èstato ed è il primo ad aver per-cepito e a percepire questi mu-tamenti e, come si può ben im-maginare, a risentirne.Fare i genitori non è facile enon è facile fare i figli, ho datocome “cornice” a questi mieipensieri. Sicuramente, torno adire, ma non sono parole mie,bensì parole che qualcuno piùesperto di me e tutte le perso-ne sofferenti che ho incontratofino ad ora mi hanno insegna-to, per occuparsi dei figli biso-gna occuparsi dei genitori. Le situazioni di maltrattamentofamiliare si possono mettere inrelazione con aspetti di inade-guatezza degli adulti, inade-guatezza che costituisce il risul-tato di esperienze esistenziali erelazionali conflittuali e distur-bate. Per la tutela del bambino,perciò, si deve tener presenteun quadro complessivo di valu-tazione e di sostegno alla fami-glia,. che deve essere aiutata ariconoscere il danno provocatoe le cause che l’hanno determi-nato, al fine di recuperare le ri-sorse genitoriali smarrite o cheignorano di avere. Ai nostrigiorni è molto urgente riusciread intervenire in questo senso,considerando che le cose sonoancor più complicate visto che,nel contesto in cui viviamo, vi-vono anche persone di diversanazionalità e cultura. ■

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Bibliografia

Benasayag, Schmit, L’epoca dellepassioni tristi, Feltrinelli.Selma H. Freiberg, Gli anni ma-gici, Armando editore.Selma H. Freiberg, Il sostegnoallo sviluppo, Raffaello Cortina.Silvia Vegetti Finzi con AnnaMaria Battistin, A piccoli passi,Oscar Saggi Mondadori.Donald W. Winnicott, Gioco erealtà, Armando Editore.

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Si infila la giacca davantiallo specchio, aggiusta ilnodo della cravatta chesi è messo un po’ di tra-verso, tira fuori la lin-gua; è bianchiccia, nonha digerito bene e, oltre-tutto, ha dormito poco emale. Poi l’avvocatoMarco Moras si dirige apassi nervosi verso lostudiolo. Raccoglie dallascrivania alcune cartesparse, le mette in ordi-ne dentro una cartellinagialla su cui campeggia –in pennarello nero – lascritta “Causa Tomma-sella” e la infila in unavaligetta di pelle. Esce di casa, chiude laporta senza girare lachiave. Fra poco arri-verà la donna delle puli-zie, non vale la pena dichiudere. Il tempo èbello, un gruppetto dibambini all’incrocio aspetta che il semaforo di-venti verde per raggiungere la scuola sull’altrolato della strada. L’avvocato arriva alla fermatadel tram. Oggi il 25 non è in ritardo, strana-mente, sarà di buon auspicio. Scende due isolati dopo, entra in un bar, ordinaun caffè ristretto. Niente di meglio per svegliar-si, la mattina, e scacciare la patina di sonnolen-za che ancora gli offusca la mente. Paga allacassa. «Buon giorno, avvocato Moras» lo salutala cassiera, una donna sulla quarantina, con icapelli tinti di un giallo pannocchia fuori modada diversi anni. «Buon giorno a lei, signora Anna» rispondel’avvocato, con un lieve cenno del capo. In ufficio, la segretaria è arrivata da un po’. Hagià alzato le tapparelle, acceso il computer. «Buon giorno, signor avvocato. Dormito be-ne?». La gentilezza un po’ servile della ragazzagli urta i nervi.

«Buon giorno, Adria-na» risponde, senza sor-ridere. «Ho dormito dacani». «Continuo a inserire lapratica Bortoluzzi?».«Sì, vai pure avanti conquella» risponde di-strattamente l’avvocato,entrando nel proprioufficio e appoggiando lavaligetta sopra il tavolo.«Senti – continua, rivol-to alla ragazza che stacontrollando la tenutadel nuovo smalto da un-ghie – stamattina nonvoglio essere disturbatoper nessun motivo. Solose dovesse chiamare ilProcuratore distrettua-le, o il giudice Antonini,ma per il resto non pas-sarmi nessuno, nientescocciature».«Come vuole, signor av-vocato».

Chiude la porta, si toglie la giacca e la appog-gia allo schienale della poltrona di legno ecuoio bordeaux, accostata all’imponente scri-vania di mogano. Prende a camminare su e giù, misurando a pas-si lenti la stanza. Sta riflettendo su un caso mol-to delicato. Il cliente, che fra due giorni dovràdifendere in tribunale, è accusato di rapina amano armata. Colto in flagrante, e fortuna chenon ci è scappato il morto. L’avvocato cammi-na, pensa, ogni tanto si ferma e parla da solo,come se si trovasse già nell’aula davanti al giu-dice, a patrocinare la causa del rapinatore. Sidirige alla scrivania, si siede, scarabocchia ner-vosamente un appunto sul foglio di un blocknotes che porta in cima il logo e il nome del suostudio, poi si ferma, si mette la penna in bocca escuote la testa. No, niente da fare, non va…Straccia il foglio, si rialza in piedi e ricomincia acamminare su e giù. Non ha ancora deciso la

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L’avvocato

Luigina Battistutta

Lucien Freud, Due irlandesi in W11.Collezione privata.

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strategia di difesa. Il suo cliente, un ragazzo dibuona famiglia, figlio dell’Assessore ai lavoripubblici della città, ha voluto solo fare una bra-vata. Una prova di coraggio per dimostrare agliamici di avere del fegato. L’influenza delle com-pagnie – le cattive compagnie – i riti di passaggiodei giovani, che per sentirsi adulti ne combinanodi cotte e di crude. Un gesto sciocco, scellerato,sulla cui gravità il ragazzo non si è soffermato ariflettere, certamente. Ma, comunque, semplice-mente una bravata, niente di più. Senza inten-zione di fare del male, senza quasi la consapevo-lezza di infrangere la legge. No, no, no! Chi la beve?! Attirerà subito l’anti-patia sul cliente. Un ragazzino viziato che, perdimostrare ai suoi amici di non essere una fem-minuccia, entra in una gioielleria e tiene sotto iltiro di una pistola un brav’uomo, mentre difuori un delinquentello suo pari lo aspetta conlo scooter acceso… Poteva anche scapparci ilmorto. E cosa si sarebbe detto ai parenti dellavittima? Che i ragazzini hanno bisogno dei ritidi passaggio, per crescere? No, no! Strappa il foglio dal block notes, lo ap-palottola e lo lancia facendo canestro nel cesti-no della carta straccia. Suona il telefono. L’avvocato pigia il pulsantedel viva voce, con un’espressione infastidita. «Il signor Tonegut, quello della causa di divor-zio, chiede un appuntamento. Va bene se lofaccio venire mercoledì pomeriggio?».«Lo sai che mercoledì ho la partita di tennis alcircolo» risponde laconicamente l’avvocato. «Mi scusi, avevo dimenticato… Venerdì, allo-ra?».«Va bene. Ma fammi una cortesia, non inter-rompermi più. Stamattina sono irreperibile,fuori ufficio, fuori città. Dove ti pare, ma non cisono per nessuno».«Benissimo, signor avvo…» risponde solerte lasegretaria, interrotta dal “clic” del ricevitoreriattaccato. Dov’era rimasto? Ah, sì… No, piuttosto un ra-gazzo bisognoso di affetto, vittima di una so-cietà dove gli unici valori sono il denaro e ilsuccesso. Nessuno gli ha saputo dare altro chebenessere materiale. Ai nostri giorni – signorgiudice, cari colleghi – le famiglie hanno smar-rito la propria identità, la consapevolezza delruolo a cui sono chiamate, non riescono più ainfondere nei ragazzi valori, regole morali. Ri-spondiamo ai bisogni dei nostri figli comperan-do loro cellulari e jeans di marca. Il mio clienteha compiuto il gesto scriteriato che ha compiu-to per attirare l’attenzione su di sé, per chiede-

re aiuto. Una vittima, signor giudice, non unrapinatore, una vittima della nostra società fri-vola e distratta. Sì, questo funziona. L’avvocato si siede, scri-bacchia qualche appunto sul block notes daifogli intestati, si infila una pipa nell’angolo del-la bocca e si rilassa, appoggiandosi allo schiena-le della poltrona di pelle. Accende la pipa conun accendino da tavolo d’argento a forma didelfino e soffia fuori dei circoletti di fumo bian-co. Sì, questa linea di difesa funzionerà.

«Marco, Marco!».Porca miseria, quell’oca non ha capito che nonvuole essere disturbato. Dovrà licenziarla. «Marco, sbrigati! Il papà è già arrivato».«Uffa! Vengo subito!».«“Subito” non è abbastanza presto! Dai, che ilpuré si raffredda».«Arrivo!».«Arrivo, arrivo… Ma che stai facendo?». «Gioco».«E a che cosa giochi?» insiste la mamma, en-trando nella cameretta e facendogli il solleticosui fianchi. «Ah-ah-ah! Basta, basta!» grida ridendo Mar-co, alias l’avvocato Moras. «Giocavo all’avvo-cato».«Così, da grande vuoi fare l’avvocato, come ilpapà?».«Sono già un avvocato famoso» risponde Marco,togliendosi dall’angolo della bocca il calumet daindiano, per l’occasione trasformato in pipa allaMaigret. «Ho una causa difficile, e tu mi hai in-terrotto» aggiunge, mettendo il broncio. «Mi dispiace… ma anche gli avvocati mangia-no. Vieni a tavola, magari potresti discutere iltuo caso con il papà».«Magari…».Alla porta della cameretta si affaccia il padre. Ilragazzino si alza dal tappeto, butta da un lato lacartellina gialla con la scritta “Causa Tomma-sella” e sul pavimento si sparpagliano dei foglicolorati e delle pagine strappate di giornale.Marco si lancia tra le braccia del papà. «Com’è andata la giornata, ometto mio?».«Grattacapi. Nient’altro che grattacapi! Ho perle mani un caso molto complicato» risponde se-rio e compunto il ragazzino. Il papà sorride.«Ah, sì? Anche tu hai avuto una giornata pe-sante, a quanto pare. Vieni, andiamo insieme alavarci le mani. Ci rifaremo con le polpette del-la mamma, e intanto ne discuteremo da avvoca-to ad avvocato, ti va?».

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Durante la partita Quilmes-San Paolo di Coppa Liberta-dores il difensore argentinoLeandro Desabato ha rivoltoad un avversario brasiliano in-sulti razzisti ed è stato arresta-to dalla polizia brasiliana diret-tamente in campo. Desabatoha trascorso 40 ore in guardinaed è stato scarcerato su cauzio-ne (diecimila reais, poco menodi tremila euro). «Gli argentininon sono razzisti», ha dichiara-to in sua difesa Daniel Passe-rella (ex commissario tecnicodell’Argentina Ndr), «facevacaldo, è stato un disguido».

«la Repubblica», 16/04/2005

Io “fumo” da 30 anni, ne ho46 suonati e, mai e poi mai, misono anche solo sognato di darfuoco a qualsivoglia cosa. Allo-ra, basta con questa falsa cul-tura antidroga! Basta con 4idioti che dicono: «Eh, sì, sesemo drogati e semo sbotta-ti!!». Ma basta! Basta davvero!E vorrei ricordare al saccentedi turno che le bombe delloStato, i nazisti in Germania, ifascisti in Italia, i compagnistaliniani nella Russia dellePurghe, non hanno avuto certobisogno di tirare la “coca” pertorturare ed uccidere, lo han-no fatto al naturale. Allora,Egregio signor Saccente di tur-no, perché non dice la vera ve-rità. E, cioè, che in questo scas-satissimo e fascistissimo paese,c’è una rabbia tale che le fran-ge più povere (come al solito)non ragionano, menano!

I lettori scrivono:Tifo e Violenza

www.caffeeuropa.it

«Buona fortuna, Tom», gli sus-surrò. «Mettilo giù!».«Già, mettilo giù!» ripeté lui.«Già, non c’è altro da fare: so-lo metterlo giù».

Jack London, Storie di boxe,Sugarco edizioni

«Noi usciamo dallo stadio e citengono indietro coi furgoni e icani» dice Mark. «Sono andatia fare rifornimento, han tiratofuori gli scudi e ingrassato imanganelli. Metà del canile diBattersela era in strada tutti col-la bava alla bocca per guada-gnarsi la loro scatoletta extra diChum. Cani lupo dappertutto ecellulari pieni imballati di sbirriincazzatissimi. Nervosi comedelle merde. I Millwall eranogiù in fondo alla strada col san-gue agli occhi che volevano dar-gli addosso al Chelsea. Tuttoquello che potevi sentire era ve-tro che si rompeva e le squadreantisommossa che correvano».

John King, Fedeli alla Tribù,Guanda

Polizia, idranti, cani feroci e ilricorso ai manganelli servonoalla repressione, ma abbiamoimparato da Freud che ciò cheè represso ritorna sempre.

James Hillman,Città, Sport e Violenza,

Adelphiana.it

Incidenti erano accaduti a di-stanza di poche settimane l’u-no dall’altro, ed erano solo lapunta di un iceberg. L’Heysel

stava arrivando, com’è inevita-bile che arrivi il Natale.

Nick Hornby, Febbre a 90,Guanda

La maggior parte dei videogio-chi di guerra nell’ultimo decen-nio (M1Tank, Platoon 2, i variepisodi di Medal of Honor)non approfondiscono per nullale tematiche “umane”, non rac-contano di persone che vannoin guerra, ma di nobili obbietti-vi da perseguire con un M16 inbraccio. E qui si arriva forse allato più oscuro del wargame: lapropaganda che da esso puòscaturire e guarda caso tutto èpartito proprio dall’esercitoamericano. Il progetto si chia-ma America’s Army, videogiococreato nel 2002 per Pc e distri-buito gratuitamente, ora ha 3,5

milioni di giocatori registrati edinsegna a “fare” la guerra.

Candido Romano, Wargamesed etica del videogioco,

culturavg.altervista.org/

«Per un momento realizzo lamia esistenza, mi mischio congli altri facendo un tutt’uno. Silevano cori terrificanti, esaltan-ti, le nostre personalità sonoancora una volta cancellate…Arriva il treno, lasciamo i no-stri ghetti e partiamo, fregan-docene se il giorno dopo sare-mo “teppisti”, “imbecilli” o“soliti idioti”, consumando ilmito che ci vede protagonistialmeno una volta…».

www.asromaultras.it

Un colpo solo Mike, avanti, uncolpo solo!!

Michael Cimino, Il Cacciatore

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FlashbackGioco e Violenza

Fabio Fedrigo

Gli scacchi sono lo sport piùviolento che esista. Kasparov

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I riflettori si sono spenti sullafacciata del Maderno e sullacupola di Michelangelo. La fol-la immensa non si assiepa piùtra le ampie braccia del colon-nato del Bernini. Piazza SanPietro è rientrata nella routineordinaria, percorsa da gruppidi turisti in visita d’arte o dipellegrini diretti alle udienze diBenedetto XVI.Le televisioni hanno cessato disomministrarci, a tamburo bat-tente, commenti e interviste,ospiti illustri che ci sciorinano illoro pensiero sul papa defuntoe su quello nuovo; a parte unafuggevole ripresa di interesse inoccasione dell’annuncio dell’in-troduzione della causa di beati-ficazione di Karol Wojtyla.Il quasi silenzio sulle vicendevaticane propizia i ricordi e leriflessioni pacate, ormai sgom-bre da emotività mediatiche eda attese cariche di curiosità.A quasi due mesi di distanzadalla morte di Giovanni PaoloII che cosa rimane da dire? Siha la sensazione che tutto siastato detto e scritto, ancheperché la sua scomparsa hamobilitato un numero impres-sionante di cuori e intelligenzedi ogni latitudine, geografica eculturale.Devo confessare che l’elezionedel Papa polacco, nel già lon-tano 1978, e i primi anni delsuo pontificato non mi aveva-no entusiasmato. Non tantoper un sottile e inconfessatosciovinismo: sul trono di Pie-tro, a Roma, era infatti salitoun non italiano, evento al qua-le non eravamo abituati da ol-tre 450 anni.

Era invece la memoria di PaoloVI che la faceva da padronanella mia sensibilità e attiravaancora tutta la mia simpatia,dopo l’apparizione fugace diPapa Luciani. La figura di Gio-vanni Battista Montini, con lasua ricerca tormentata di tra-ghettare la Chiesa del VaticanoSecondo in una modernità chesi stava dimostrando via via piùrefrattaria alla mano tesa delConcilio, mi affascinava. Viscoprivo e rivivevo la tensionedrammatica denunciata dall’a-postolo Paolo fra la sapienza diquesto mondo e la stoltezza del-la predicazione del Crocifisso.E poi i suoi scritti, encicliche,discorsi, omelie… tutti elabora-ti con logica stringatissima, dichiara impostazione classico-occidentale, e sempre contrap-puntati da una vena poetica diprofonda spiritualità.Giovanni Paolo II mi si pre-sentava altrimenti. Giovane, si-curo di certezze certamentenon sue ma che tali appariva-no, quasi ancorato a una visio-ne di Chiesa che sentivo ormaialle spalle e che non rimpian-gevo. E poi quel suo periodarea centri concentrici e interse-cantesi che me ne rendevanolaboriosa la lettura e la com-prensione gustosa!Il tutto durò finché non parlòdei due polmoni con cui laChiesa respira, quello occiden-tale e quello orientale, e finchénon proclamò patroni d’Euro-pa, assieme a San Benedetto, iSanti Cirillo e Metodio, gliapostoli degli Slavi.Allora mi si aprirono gli occhie cominciai lentamente ma

EREDITÀDI UN PAPA

Il donodella Slavia

Otello Quaia

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progressivamente a compren-dere la novità Giovanni PaoloII, il Papa «venuto di lonta-no», come egli stesso si definì,dalla loggia della basilica diSan Pietro, la sera della suaelezione.E mi vergognai non poco perla mia ottusità “occidentale” ecominciai ad ammirarlo e adamarlo questo prete polaccoassurto al supremo pontificatodella Chiesa cattolica. Più iltempo passava e più mi accor-gevo che la sua figura e il suomagistero faceva scoprire allaChiesa una dimensione da se-coli trascurata: quella del Cri-stianesimo dell’Europa orien-tale slava.E il mio pensiero andava allastoria tormentata di quei paesi,della Polonia innanzitutto.

Costretta a difendersi dall’as-salto dell’Islam turco, strettafra Russia e impero germanicoche ne spartiscono il territorioe negano per lungo periodo lasua identità nazionale. Poi, ag-gredita dal nazismo, ne subiscerepressioni atroci, di cui Au-schwitz rimane macabro mo-numento. Infine si vede umilia-ta e repressa dal tallone del so-cialismo reale bolscevico.Tutti gli sfregi subiti non rie-scono però a deturpare il voltocristiano della sua gente, anzi lorendono splendente, capace ditestimoniare con giovanile bal-danza a ogni popolo che Cristoè la strada vera dell’uomo. Ka-rol Wojtyla è stato l’icona vi-vente di quel Cristianesimo.Un Cristianesimo che è convis-suto anche con una presenza

ebraica di grande e anticospessore. Secoli di vita accantoai figli della Torah, per cui idue popoli del Libro hannoimparato, se non sempre adamarsi, certamente a conoscer-si e a percorrere insieme ilcammino quotidiano di vita.La visita di Giovanni Paolo IIalla Sinagoga di Roma, le sueaperture rispettose alle altreconfessioni cristiane e alle altrereligioni affondano qui le lororadici. Radici che egli ha inne-stato con decisione nel troncosecolare, ma troppo occidenta-le, della Chiesa di Roma.Questa, anche dopo la suascomparsa, non sarà più lastessa di prima, non certo peraver mutato il suo Dna ma peraverlo arricchito e reso capacedi stagioni di nuova fecondità.

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Al termine del Pontificato diPapa Wojtyla, un po’ tutti sisono appropriati del Suo Ma-gistero, o, almeno, di qualcheaspetto di esso: dal credente alnon credente, dal cattolico allaico. È un fenomeno, per mol-ti versi, sorprendente, soprat-tutto in relazione ad autorevoliesponenti del mondo laico, trai quali basterebbe, per tutti, ci-tare un titolare di premio No-bel quale Dario Fo.L’avvenimento merita, dun-que, qualche riflessione, nonl’unica possibile certamente, inpartibus infidelium: innanzitutto, va rilevato come la bi-partizione cattolico/laico sia,in qualche modo, limitativa e,in definitiva, fuorviante, poi-ché si fa spesso coincidere, nellinguaggio comune, il cattolicocol credente ed il laico con lapersona di sinistra. Si tratta dideterminazioni assai parziali,dal momento che non tutti icredenti sono, non dico catto-lici, ma neppure cristiani, cosìcome non tutti i laici sono, ne-cessariamente, “di sinistra”.Per quali motivi, allora, tutti,indipendentemente dalla posi-zione filosofica di ciascuno,siamo rimasti così colpiti dal-l’uscita di scena di questogrande Personaggio?Ricordo le prime, preoccupa-te, reazioni, alla salita al Sogliodi Pietro da parte del Papa“venuto da lontano”, esplicita-te da un laico autentico, noncertamente di sinistra, quale fuIndro Montanelli, allorché,dalle colonne del suo «Il Gior-nale», sosteneva con qualchetimore – cito a memoria e me

ne scuso – che un Ponteficestraniero alle Cose italianeavrebbe avuto l’orecchio (o ilnaso, non ricordo bene) pocoallenato, poco attento, allu-dendo al fatto che, dal dopo-guerra fino alla morte di PioXII, nulla si era mai mosso, neiministeri, nell’industria e nellafinanza, financo nelle consulta-zioni elettorali, senza che laCuria romana non avesse datoil proprio preventivo assenso.Come avrebbe potuto “unostraniero” cogliere i sottintesi,i messaggi subliminali, appenaappena accennati con un sorri-so o con un motto di spirito,da parte di tutto quell’entoura-ge che si muoveva, da sempre,al di là del Tevere, per trasfe-rirlo in fatti concreti, concre-tissimi, al di qua di esso? Non teneva conto, il grande In-dro, che a Papa Wojtyla tuttociò non sarebbe interessatogranché, il suo sguardo correvalungo “l’universo mondo”: benaltri problemi, di natura univer-sale, assillavano il Suo animo.Il mondo laico “di sinistra”, odi una parte consistente di es-so, riceveva da Enrico Berlin-guer, in quegli anni, alcune di-rettive in forma di triplice lito-te: il Partito Comunista Italia-no non era “né laicista, né atei-sta, né teista”, e il singolo mili-tante sapeva così che il suopartito gli vietava, in termini dicoscienza, tutto e nulla al tem-po stesso.Tuttavia, in questi ventisette an-ni di Pontificato, tutti abbiamoavvertito che qualcosa di nuo-vo, o, almeno, di insolito, stavaavvenendo o era avvenuto, e,

oggi, ci scopriamo un po’ smar-riti, privi di una tutela che perquel lungo arco di tempo ci ave-va, in forme diverse, protetto. Non si trattava della protezio-ne di cui Montanelli paventavala fine e, neppure, della prote-zione dovuta ad un rinnova-mento forte della Chiesa, qualeaveva rappresentato il ConcilioVaticano di Giovanni XXIII:paradossalmente, la grandezzadi questo Pontificato – ed il ca-risma che emanava da Coluiche lo esercitava – sembravaderivare proprio dal fatto cheEsso non si avvertiva più nonsoltanto come Italocentrico oEurocentrico, addirittura nep-pure incentrato unicamentesull’Occidente. Il che equivale-va, in buona sostanza, a decre-tarne il ritorno all’Ecumeni-smo delle Scritture Evangeli-che, da troppo tempo, se nondel tutto abbandonato, almenoparzialmente rimosso. In que-sto senso, la grandissima “no-vità” del Pontificato di Gio-vanni Paolo II consisteva nelsuo Grande Conservatorismo,se si considera questo terminenella sua accezione neutra, so-stanziata da un’interpretazionealtissima del ruolo di Capo delcattolicesimo che coincidevacol rispetto del dettato lettera-le della tradizione evangelica,con l’attenzione per gli umili eper i poveri della terra, con lagenerosità verso coloro chesoffrono; riconoscendo e chie-dendo perdono, col Giubileodel Duemila, per le violenzeperpetrate dalla Chiesa, cheaveva così tradito il Vangelo,nel corso dei secoli.

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Il conservatorismo rivoluzionariodi Giovanni Paolo II

Massimo Riccetti

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Non c’era alcun progressismo intutto ciò, anzi si connotava, taleimpostazione, come un ritorno,di fatto, alle origini: ma questo,dopo secoli di intolleranza e dicompromessi, appariva ai più,credenti e non, come un fattonuovo e rivoluzionario. L’Ecumenismo sembrava as-sumere il suo significato au-tentico, contenendo la parolaquell’oìkos che è la casa di tut-ti, di tutti in quanto umani, ac-comunati dal destino che ci hafatti venire in un mondo che èla nostra casa, appunto, in cui,non credenti o credenti diqualsiasi fede, abbiamo dirittodi cittadinanza. È così che sispiega l’insistente intransigen-za di Papa Wojtyla controogni forma di guerra, controogni forma di violenza, controogni forma di sopraffazioneche ha assunto, in alcune oc-casioni, i toni profetici di Chiè certo della Giustizia Ultima.Così si spiega la Sua condanna

incessante ed incessata controlo sfruttamento dell’uomo sul-l’uomo, di una Nazione sul-l’altra; così si spiegano i conti-nui appelli per la pace, la pacenel mondo, cui, simbolica-mente, l’appello al digiunonell’Occidente, nel 2003, fa-ceva riferimento, ravvisando-ne la condizione pregiudizialenella rinuncia, da parte dei po-poli più fortunati.Sono, queste, soltanto alcunedelle caratteristiche che hannoavvicinato Giovanni Paolo IlGrande, a chi, pur da una vi-suale laica dell’esistenza, ne haavvertito la fortissima istanzaetica, il forte ecumenismo nondimentico delle sofferenze del-la maggior parte dei cittadini diquesto mondo, pur nella radi-cale, irriducibile differenza chesussiste tra chi creda che nel-l’Aldilà si realizzi, escatologica-mente, il destino degli uomini echi pensi, invece, che soltantosu questa terra si svolga l’av-

ventura umana, di ciascuno edi tutti, felice o infelice, poverao ricca, quale la Sorte si è inca-ricata di determinare.Ventisette anni sono molti,moltissimi: abbiamo visto laspaccatura del mondo tra Est eOvest, che l’ascesa al Sogliopontifico di Papa Wojtyla hacontribuito fortemente a sutu-rare, spostarsi lungo l’asseNord-Sud del Mondo, sullaquale l’opera di questo Ponte-fice si è maggiormente concen-trata negli ultimi anni. Conquesta necessità, ora, qualsiasiistanza etica – laica o religiosache sia – non potrà esimersidal misurarsi. Chi non vogliarinchiudersi utilitaristicamentenel proprio particulare dovràprendere a riferimento ciò cheGiovanni Paolo II, indicandola via del ritorno alla purezzaevangelica delle origini, ha ri-voluzionariamente individuatoquale problema principale delTerzo Millennio. ■

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Mi sembra utile proporre sullepagine dell’«Ippogrifo», dasempre attento alla realtà deiservizi pubblici di salute menta-le, una riflessione sul tema dellaformazione degli operatori. Ildibattito di questi anni sullaformazione nei servizi nati dalgrande movimento di rinnova-mento della psichiatria italiana,culminato nella Legge 180, haforse pagato il prezzo della dif-fidenza, per altro storicamentelegittima, di Franco Basaglia edel suo gruppo di lavoro, pertutto quello che andava sotto ilnome di “tecniche”.Le tecniche, psicoterapiche diogni orientamento, riabilitativeo quant’altro, erano viste so-prattutto come rischio di nuo-va alienazione, oggettivazionedei pazienti, forme di distanzae teorizzazione sulla e dellasofferenza. Il monito, impor-tante di Franco Basaglia era dinon dimenticare mai il «prima-to della pratica».Mi pare importante ricordare,in questo contesto, il problemache Pier Francesco Galli, e conlui alcuni altri protagonisti dellacultura psicoanalitica contem-poranea, da anni pone, interro-gando il movimento psichiatri-co, e cioè: come tenere aperto ilprocesso di conoscenza?Cito da La persona e la tecnica(Il ruolo terapeutico, 1995):«La cultura del nostro settoreè particolarmente vulnerabiledi fronte a certi meccanismi diregolazione ideologica social-mente determinati. Questoperché non possediamo unatecnologia dura, non abbiamola salvezza procedurale dei chi-

rurghi, che sanno quali atticompiere per raggiungere uncerto risultato».Galli prosegue in questo testoparlando di cose che moltioperatori del settore conosco-no e riconoscono: l’insicurezzadei risultati del nostro lavoro,le scarse gratificazioni, il ri-schio sempre presente dell’on-nipotenza, l’influenza dell’i-deologia, ecc. Segnala comecosa grave e deleteria nel no-stro settore che i tanti rivoli diuno stesso sistema di cono-scenza siano stati isolati l’unodall’altro, creando scuole diappartenenza, steccati ideolo-gici e professionali.Parla dell’incertezza del lavorocon la “follia”, della necessità ditrovare riferimenti teorici, certoa partire dall’esperienza, limi-tando l’uso della teoria comedifesa dall’angoscia e dall’altro,ma utilizzando in modo critico icontributi presenti sul campo.Le conseguenze di tutto ciòcredo siano sotto gli occhi ditutti noi. Abbiamo visto spessopassar alla ribalta della scenapsichiatrica italiana, di volta involta, l’epidemiologia piuttostoche il cognitivismo, l’evidencebased medicine piuttosto che leneuroscienze, ogni volta pro-

posti come sistemi di sapereforti, con il continuo rischio didiventare nuove ideologie.Credo che Franco Basaglia, manon solo lui, temesse nelle“tecniche” contrapposte al sa-pere della “pratica”, il poteredell’uomo sull’uomo. Sarebbemolto lungo il discorso su tut-to questo, il dibattito svoltosiin questi anni, molti gli autorida citare. Mi limito a dire che èevidente come tutto ciò abbiacomportato importanti conse-guenze, alcune evidentementein negativo, sulla formazionedegli operatori della salutementale.Credo che questo tema possaessere di interesse non solo pergli “addetti ai lavori”, ma chetocchi aspetti importanti dellepolitiche della salute mentalenella comunità. Tocca infattidirettamente il tema della pra-tica dei servizi di Salute Menta-le, e quindi della qualità deiservizi offerti ai cittadini. Que-sta della qualità dei servizi nonè infatti questione di poco: lacrisi del welfare, i tentativi diriforma della Legge 180, lenuove epidemie psichiche (de-pressione, disturbi narcisistici,panico, patologie psicosomati-che, ecc.), la crescente privatiz-zazione della Sanità, l’emerge-re del Privato sociale, i rischi dimedicalizzazione della psichia-tria, la contrastata vicenda del-l’Aziendalizzazione della Sa-nità, i fenomeni emergenti delvolontariato, dei gruppi di Au-to Mutuo Aiuto, dell’associa-zionismo dei familiari, in gene-rale la crisi della società postmoderna e della famiglia pon-

FORMAZIONE

Sulle buonepratiche

Margherita Gobbi

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gono problemi enormi ai servi-zi pubblici di Salute Mentale. Cosa vuol dire oggi parlare dipsichiatria di comunità, e qualeè la formazione possibile? Nel-l’ultimo anno è partito a livellonazionale e in particolare nellanostra Regione Friuli VeneziaGiulia, un grosso dibattito al-l’interno del Forum per la Sa-lute Mentale, che vede coinvol-ti operatori, associazioni, fami-gliari, politici, proprio sul temadella dissociazione tra praticheed enunciazioni teoriche, traprincipi e modelli organizzati-vi. Nuovamente dunque il te-ma è quello di come tenere in-sieme pratica e teoria, esperien-za storica ed innovazione, den-tro una capacità di analisi com-plessiva dei cambiamenti socia-li,culturali, tecnico-politici.La formazione gioca a mio av-viso un ruolo strategico in que-sta dialettica, e può rappresen-tare una importante leva dicambiamento.Vi propongo alcune considera-zioni sul tema formazione ri-prendendo alcune questioniaffrontate nel numero de«L’Ippogrifo» dedicato ai ven-ticinque anni della Legge 180.– Lo sforzo che si sta attuan-do di una migliore definizione,concordata da più soggetti, diquali sono le buone praticheper migliorare la qualità deiservizi, non può non porsi , ilproblema di quali sono le buo-ne pratiche formative, tese a so-stenere gli obiettivi, a motivareed “animare” gli operatori, adagire come leva di cambiamen-to e di innovazione nel lavoroistituzionale.– Molti sottolineano come ilnuovo grande rischio sia quellodi produrre più che progettipersonalizzati per i pazienti,progetti di «invalidazione assi-stita» (Foucault), quale esitodella pianificazione delle cureda parte del potere biopolitico

moderno (Mario Colucci). Inaltre parole, nuove forme di“istituzionalizzazione”, dove latendenza alla medicalizzazioneda un lato, ed una logica assi-stenzialistica dall’altro, riprodu-cano forme nuove di cronicità,al posto di nuove competenze ecapacità di “cura” e promozio-ne della salute mentale.– La formazione degli opera-tori diventa allora un fattorestrategico decisivo per contra-stare la costruzione di servizi“iposociali” (Franco Fasolo),sufficientemente buoni magari,ma nuovamente invalidanti.Ma qual è oggi la situazione deiservizi pordenonesi parlando dibuone pratiche formative?Riprendo un po’ di storia: il Di-partimento di Salute Mentaledi Pordenone ha da anni unaattenzione e una pratica su que-sto tema, legata ad una vicendaincominciata ancora con EnzoSarli, direttore della strutturadopo Lucio Schittar, che invi-tando, con un grande coraggioper quegli anni, Michele Risso,Pier Francesco Galli e molti al-

tri, diede inizio ad un dibattitoculturale, tecnico e politico digrande interesse.In tempi in cui, come dicevo,tutte le tecniche venivano guar-date con sospetto, in quantopotenzialmente oggettivanti lapersona, aprire un confrontocon la psicoanalisi, e con uncerto tipo di psicoanalisi è stataun’esperienza formativa cen-trale per molti operatori.L’esperienza è poi proseguitacon la Scuola di psicotera-pia/riabilitazione del CentroStudi regionale FVG, che harappresentato per alcuni anniun importante punto di riferi-mento per gli operatori dei ser-vizi pubblici della Regione enon solo. Questi ultimi annihanno visto proseguire l’impe-gno di molti operatori del DSMdi Pordenone per mantenerevivo l’interesse e l’analisi sullegrandi questioni che la psichia-tria, o meglio, la salute mentale,propone a chi lavora nei servizi.La questione centrale che laformazione pone è quella di da-re “anima”, “respiro”, ai pro-cessi di cambiamento e miglio-ramento dei servizi, motivandogli operatori e ascoltando i lorobisogni e, perché no, desideri.La nuova sfida che oggi i servizipubblici si trovano ad affronta-re, è quella rappresentata dallanormativa ministeriale ECM,che richiede a tutti gli operatoridella sanità di acquisire un cer-to numero di crediti annuali at-traverso programmi formativiaccreditati dal ministero.Questo, se da un lato ha riba-dito l’importanza della forma-zione, dall’altro ha aperto unconsiderevole numero di pro-blemi. Ne elenco alcuni.Sono lievitati i costi, si è scate-nata la corsa ai crediti a scapitodel reale interesse e motivazio-ne degli operatori; le AziendeSanitarie, in questi tempi di ta-gli, non sono in grado di inve-

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stire, proliferano le agenzieprivate che spesso propongo-no pacchetti preformati, lonta-ni dalle reali problematiche deiservizi, è aumentato enorme-mente il carico di lavoro buro-cratico, ecc.Nel caso specifico della psi-chiatria poi, uno strumento co-me quello della supervisione dicasi clinici in équipe, strumen-to prezioso nella cultura e nellapratica dei servizi che si occu-pano prevalentemente di pa-zienti gravi, non trova posto edignità formativa, non rien-trando nei criteri previsti di“verifica dell’apprendimento”.In buona sostanza mi pare sipossa dire che esiste un forterischio che l’ECM sia un busi-ness per alcuni e un problemain più per gli operatori, al di làdei buoni principi dichiarati.Nel Dipartimento di SaluteMentale di Pordenone si è co-struito negli anni un gruppo dilavoro inter professionale, chelavorando in maniera integrataanche con altri interlocutori(privato sociale, associazionidel volontariato, famigliari, al-tri servizi), sta tentando di af-frontare queste difficoltà e dimantenere viva una dialetticainterna ed esterna al serviziosul tema formazione attivandotutte le risorse e le competenzepresenti tra gli operatori. Sia-mo tra l’altro alle prese con im-portanti cambiamenti anche incampo strettamente clinico. Inostri servizi sono sempre piùattraversati dalle nuove patolo-gie, nuove malattie dell’anima,come alcuni autori sostengo-no, o comunque nuovi sinto-mi. Anche questo comportaevidentemente la necessità diinvestire sulla formazione deglioperatori.A partire da questa esperienzapropongo alcune riflessioni.– Buona pratica formativa èquella che coinvolge già nella

fase di progettazione, i servizi,gli interlocutori della Comu-nità, le associazioni della Salu-te Mentale, il Privato sociale.– Buona pratica formativa èquella che si collega agli obiet-tivi condivisi del servizio, aquelli dei Piani di Zona, quan-do esistono, alle pratiche inno-vative esistenti.– Buona pratica formativa èquella che offre agli operatori“nuovi”, che entrano nei servi-zi, l’occasione di conoscere ifondamenti, anche teorici dellaPsichiatria di comunità, nelloscambio con i colleghi più an-ziani o esperti.– Buona pratica formativa èquella che continua a confron-tare gli operatori dei servizicon i contributi significativiche vengono dal mondo dellaricerca e della clinica (Eviden-ce Based Medicine).– Buona pratica formativa èquella che tiene conto dei biso-gni espressi dagli operatori,senza negare le famose con-traddizioni tra sapere e potere.– Buona pratica formativa è

quella che tende a favorire lacapacità di lavoro in équipe enelle nuove équipes integrateterritoriali.– Buona pratica formativa èquella che propone una cultu-ra della responsabilità, dei do-veri oltre che dei diritti.– Buona pratica formativa èquella che favorisce e promuo-ve il lavoro di rete ed il prota-gonismo degli utenti.– Buona pratica formativa èquella che si dirige alla cittadi-nanza, al volontariato, all’automutuo aiuto promuovendouna cultura di auto promozio-ne della salute mentale.– Buona pratica formativa èanche confrontarsi con le nuo-ve normative ECM, come sem-pre con un po’ di spirito criti-co, ma cercando di garantireagli operatori, e soprattuttoagli infermieri, questo dirittodi cittadinanza dentro la “co-munità sanitaria”.– Buona pratica formativa èvalorizzare le competenze e leesperienze degli operatori deiservizi e attivare reti interne diformazione permanente. Que-sto non solo per esigenze dibudget ma come pratica realedi trasmissione e di scambio diesperienze e cultura di servizio.Spero con questo contributodi aprire una discussione sultema formazione, tema spessoeluso, certo difficile ma impre-scindibile nel ripensamentosulla qualità e la pratica deiservizi di Salute Mentale. Chiudo questo intervento conuna citazione di Pier France-sco Galli: «Non possiamo pre-scindere dalla teoria, ma deci-sivo è il rapporto che con essaintratteniamo. Ai fini della co-noscenza, una teoria è buonase aiuta a tenere aperta la stra-da della ricerca e ad avanzaresu di essa, non quando ostrui-sce e sbarra questa strada consoluzioni e risposte definitive».

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Sempre più siamo consapevolidella necessità di “procederein rete”, al di là di sterili setto-rializzazioni, per far sì che lecomunità locali si riappropri-no della capacità di accompa-gnare tutti i cittadini in ognifase della loro crescita.Questo documento intende es-sere uno snello contributo peruna progettualità sociale cheveda i più diversi soggettiugualmente coinvolti nella co-struzione di nuovi orizzonti. Èricerca di una verità (obbliga-toriamente sinfonica) che rac-colga da più parti il frutto dipercorsi certamente diversi,ma ugualmente tesi alla pro-mozione di cittadinanza libera,solidale e responsabile. Citta-dinanza che proprio nell’assu-mersi consapevolmente unafunzione educativa si fa primaed originaria radice di un’au-tentica politica, intesa questacome “promozione di giusti-zia” per accompagnare tutti icittadini, nessuno escluso, inogni momento della loro cre-scita e cambiamento.

Strategie per una coerenza

progettuale Fare in modoche gli indicatori direzionali delproprio progettare si rendanovere e proprie proposte (realiz-zate e realizzabili) chiede strate-gie capaci di dare concretezzaed operatività ad ogni possibilepercorso. Chiede – soprattutto– alle strategie di essere coeren-ti ed in continuità tanto rispettoai principi che hanno dato il viaalla progettazione, quanto ri-spetto ai bisogni ed alle esigen-ze di riposizionamento che via

via emergono nel corso dellaprogettazione e realizzazionedel percorso.

1. Non chiudersi nello specifi-co di un’agenzia, non irrigidirsinel mandato istituzionale delproprio ente di appartenenza.La progettazione sociale è frut-to di un lavoro di rete, capace

di moltiplicare punti di vista,prospettive ed opportunità tan-to per chi propone gli interven-ti quanto per i destinatari. Nonpuò essere il singolo soggetto ogruppo a costruire il cambia-mento. Può solo essere un pun-to della rete sociale, al cui inter-no si muove – come co-prota-gonista – inventando nuove op-portunità con il contesto. Ri-spettoso della storia di quellarete sociale, tentando di rico-noscerne gli aspetti più sani.Educare e progettare dentro lacomplessità significa impegnar-si innanzitutto a non ridurre ilsociale ad una sola prospettiva,abituandosi in prima persona agestire l’incertezza che la ri-nuncia a punti di vista assoluticomporta e tenendo presenteche le rigidità dovute al manda-to dell’istituzione di cui si èparte non sono solo vincoli cheagiscono come ostacolo marappresentano anche opportu-nità, punti fermi su cui far leva,pur nella consapevolezza dellaloro parzialità. Significa staredentro le alleanze educativecon la fantasia e la creativitàche la rete permette e con l’o-biettivo di facilitare l’emergeredi nuove opportunità, possibi-lità, prospettive ed occasioni.

2. Nessuna agenzia è più quali-ficata di altre nella regia-proget-tazione degli interventi, ma sitratta di educarsi nel condivide-re la progettazione. Tenendopresente che il lavoro di retenon può strutturarsi nei terminidi un’organizzazione rigida, incui gli obiettivi, gli scambi, ilflusso di informazioni, le inter-

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L’integrazione dei percorsi di progettazioneDecalogo della “Progettazione condivisa”

Guido Tallone

Guido Tallone Laureatoin filosofia, giornalista, è unattento osservatore di que-stioni educative e politichegiovanili e sociali. Dal 1990

collabora (svolgendo anchel’incarico di Vicepresidentefino al giugno 2004) con ilGruppo Abele di Torino co-me formatore, redattore eanimatore di contesti giova-nili e scolastici. Dal 1998 col-labora con il CNCA (Coordi-namento Nazionale Comu-nità di Accoglienza) in qua-lità di Consigliere Nazionalee parte del Comitato Esecuti-vo, referente per le tossicodi-pendenze e responsabile del-le politiche culturali. Nel giu-gno 2004 è stato eletto sinda-co della città di Rivoli.

Tra le sue pubblicazioni:

Dalla parte dei giovani. Politichegiovanili per costruire reali percor-si di prevenzione, Comunità Edi-zioni, Capodarco di Fermo 2000. La pianta della conoscenza. Per-corsi didattici per la scuola su dro-ghe e sviluppo, a cura di LuciaBianco e Guido Tallone, Edizio-ni Gruppo Abele, Torino 2001.Con Luigi Ciotti, Chi ha pauradelle mele marce? Giovani, dro-ghe ed emarginazione, SEI -EGA, Torino 1993.

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dipendenze ed i ruoli sono con-trollati in modo forte ed a prio-ri, ma siamo in presenza di una“organizzazione” caratterizzatada legami che, per quanto coin-volgano in modo significativodimensioni personali dei parte-cipanti all’azione, sono “debo-li”. Ciò permette a ciascuno dimantenere una propria identitàed autonomia di azione ma ri-chiede una costante interazioneper negoziare e costruire insie-me le decisioni ed il significatoche si attribuisce alla propriaazione. È importante quindi –da una parte – che sia valorizza-ta e rispettata la capacità deci-sionale dei singoli, e – dall’altra– che sia garantita una costantee fitta circolarità dell’informa-zione, per cui nessuna comuni-cazione deve mai essere dataper scontata. Per quanto riguar-da, inoltre, la responsabilità deisingoli progetti ed interventi, èimportante ed essenziale che nevenga decisa di volta in voltauna titolarità specifica, a partiredalla sempre ridiscutibile valu-tazione su chi ne possa risultareil “tutor” più adeguato.

3. La progettazione sociale èsempre esposta alle difficoltàdi inter-azione fra un certo nu-mero di persone. Non è sem-plice non confondere ruoli ecompetenze, non delegare néinvadere il lavoro di altri, evi-tare giudizi sui modelli educa-tivi altrui, superare atteggia-menti di critica e di difesa, nonnascondere né vergognarsi dierrori, difficoltà, ecc… Tuttigli attori realmente coinvoltinel progetto sono implicatipersonalmente sia da un puntodi vista emotivo sia da un pun-to di vista cognitivo. Ottimiz-zare le risorse – in questa situa-zione – significa soprattutto sa-per prendere in considerazio-ne, contenere ed incanalare inmodo costruttivo le stesse di-

mensioni personali degli ope-ratori protagonisti della pro-gettazione. Attivare percorsi dicambiamento mobilita spessoinfatti, negli stessi operatori,dimensioni affettive profonde,che a volte sono i primi ostaco-li alla progettazione sociale.Fare in modo che in ogni fasedella progettazione vi sia unacondivisione – per quanto ri-guarda l’individuazione deiproblemi e delle possibili solu-zioni – fa sì che sia possibileuna progettazione in cui tuttigli operatori si identificano e siriconoscono negli obiettivi enelle azioni. È questa la primacondizione per assicurare l’ef-ficacia ed efficienza della pro-gettazione, perché è la effettivaed affettiva partecipazione del-le persone coinvolte nel pro-getto a farsi automaticamentegarante della pertinenza delleazioni che si intraprendono ri-spetto alle caratteristiche realidei contesti in cui si opera.

4. Centralità dei bisogni e del-le potenzialità dei cittadini. So-no loro, con i particolari biso-gni di cui sono portatori, da ri-leggere come ben precisi diritti,i principali protagonisti del no-stro lavorare insieme. Oggi nonè facile – vista la frammentazio-ne e la complessità esistenti –ascoltare ed analizzare tanto larealtà quanto i reali bisogni del-le persone. Ciò è particolar-mente evidente per quanto ri-guarda il disagio delle giovanigenerazioni. Pur essendo spes-so profondamente colpiti dalleesplosioni più drammatiche,siamo spesso sordi ai segnaliche quotidianamente ci arriva-no dall’arcipelago giovanile edè forte la tendenza a non rico-noscere od a leggere in modoerrato le effettive richieste edesigenze dei nostri ragazzi egiovani. È invece essenziale “in-contrare” effettivamente le do-

mande ed i bisogni dei destina-tari di ogni progettazione favo-rendo la creazione o l’utilizzo diluoghi di scambio, di dibattito edi confronto. Ciò eviterebbe –fra l’altro – il frequente rischiodell’imposizione “dall’alto” diprogetti a volte anche molto in-teressanti ma non congruenticon le caratteristiche e le esi-genze presenti. Solo un ascoltoed un dialogo sofisticato edacuto fanno sì che la progetta-zione non perda mai di vista ilparticolare contesto e le parti-colari persone portatori di benprecise caratteristiche e risorse.

5. Obiettivi graduali e raggiun-gibili. È necessario che la pro-gettazione sia preceduta daun’attenta analisi della doman-da, delle caratteristiche e dellecompetenze degli operatori edalla consapevolezza delle ri-sorse disponibili perché l’azio-ne non rischi di arenarsi sullesecche di una sterile ideazioneincapace di prendere realtà e difar fronte agli elementi non pre-visti. Tale fase di analisi e valu-tazione tuttavia non può diven-tare un eterno posticipare e rin-viare decisioni incapace di farsiproposta ed azione. In un con-testo complesso come è il “so-ciale”, l’impossibilità di elimi-nare le ambiguità e le ambiva-lenze per pervenire ad una pia-nificazione certa e sicura richie-de la capacità di progettare edintervenire anche con marginidi dubbio e di incertezza, nellaconsapevolezza della possibilitàdi correggere in ogni momentoeventuali “scarti” nell’azione apartire da una maggiore consa-pevolezza della realtà.

6. Non fare progetti standar-dizzati ed astratti. Spesso la no-stra progettazione rischia diavere le caratteristiche di unapianificazione astratta, convintadi poter prevedere e controllare

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situazioni ed azioni medianteforti investimenti standardizzatie razionali, anche di tipo scien-tifico. La pianificazione razio-nale è tuttavia molto distantedalla realtà, proprio per la suatendenza a prestare attenzionea generalizzazioni ed unifor-mità, lasciando in secondo pia-no – se non scartando a priori –le particolarità, le forme molte-plici della realtà e le episodicitàdel quotidiano. Questo tipo diprogettazione spesso è – più omeno – inefficace, proprio perla sua poca capacità di connes-sione con la realtà concreta diun territorio. In realtà il cam-biamento non è qualcosa di de-ducibile e/o controllabile inmodo logico a partire da pre-messe, ma è un lento processointessuto di fattori anche emoti-vi e simbolici, che si radicano suben precise particolarità umanee territoriali, a partire da unarete di interazioni non sempreprevedibili ed all’interno di

condizioni di ambiguità noneliminabili. Progettare a partireda un territorio e radicati su unterritorio ci richiede dunque lacapacità di coglierne la specifi-ca identità – formale ed infor-male – nella consapevolezzache solo calandosi nella concre-tezza della realtà e facendosiparte della situazione si è in gra-do di conoscerne gli elementi,su cui poter poi fare leva per at-tivare percorsi di innovazione ecambiamento.

7. Rinnovare e rilanciare neltempo la progettualità, prestan-do particolare attenzione a co-struire narrazioni condivise de-gli avvenimenti verbalizzandomolto. Valutazione e narrazionecondivisa degli avvenimenti so-no fondamentali in ogni percor-so di progettazione sociale, danon considerare come elementiseparati dalla progettazionestessa. Ne sono infatti un ele-mento interno e necessario,

perché permettono quella co-noscenza relativa a ciò che stasuccedendo che garantisce ilcontatto con la realtà. È peròimportante che siano condivisie concordati insieme sia i criterisia i tempi ed i modi della valu-tazione e della verbalizzazione-narrazione, perché già la sceltadi questi elementi rappresentaben precisi indirizzi di progetta-zione sociale. Per quanto ri-guarda i tempi della progetta-zione e valutazione è necessariosaper ben distinguere – per poipoter ben conciliare – breve,medio e lungo termine. La com-plessità ci richiede infatti – oggi– di saper tenere insieme la ne-cessità di prendere a volte deci-sioni – anche non irrilevanti – intempi quasi immediati con l’al-trettanto fondamentale neces-sità di dare alla progettazionesociale i tempi lunghi che i per-corsi del cambiamento, spessoimprevedibili e tortuosi, richie-dono. L’emergenza che spesso

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H. Poelzig, Serbatoio d’acqua ad Amburgo (1906-07). Max Ernst, Ubu Imperator (1923), Parigi - Museo d’Arte Moderna.

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pervade il lavoro sociale ci ri-chiede infatti – da una parte – laflessibilità di saper prendere de-cisioni rischiose anche in assen-za di tutte le informazioni ne-cessarie. Dall’altra, la progetta-zione sociale è un processo gra-duale che richiede cure, investi-menti, pazienza e fermezza.

8. Non fare troppe iniziative epoco mirate ma costruire mi-cro-progetti all’interno di oriz-zonti ampi e trasversali. Spesso,a fronte delle difficoltà che siincontrano in progettazioniampie, di portata macro-socia-le, per forza di cose deboli ri-spetto alla coniugazione fraidealità e realtà, fragili sul pianodell’analisi, dell’elaborazioneconcettuale e della capacità didefinire degli obiettivi, si è rea-gito con il rifugiarsi nei micro-progetti. La micro-progettazio-ne, o progettazione sui singolicasi – più rassicurante – limitafortemente il campo di inter-vento, ponendo in grande rilie-vo le dimensioni tecnico-spe-cialistiche e lasciando in modoassoluto sullo sfondo ogni rife-rimento a scelte progettuali piùampie. È necessario acquisireinvece la capacità di procederesecondo logiche congiuntive enon disgiuntive (per “e” e nonper “o”), costruendo cerchiconcentrici all’interno di unaprogettazione capace tanto diesplicitare l’ampio orizzonte ri-spetto a cui ci si intende muo-vere – con precise scelte anchepolitico-culturali – quanto diindividuare specifici ambiti diintervento significativi, rispettoa cui porsi obiettivi mirati eprecisi capaci di attivare effetti-vi e verificabili processi di cam-biamento. È inoltre importanteessere attenti alle conseguenzeche le nostre azioni hanno suitempi brevi e sui tempi lunghi:alcuni interventi validi nel tem-po breve possono nascondere

controindicazioni per i tempilunghi o viceversa. Valutare in-sieme questa tensione è respon-sabilità dell’intero gruppo.

9. Lavorare sui propri linguag-gi, che spesso costruiscono in-consapevolmente separazioni.Cercare nuove strade per le no-stre pratiche educative e di in-tervento conduce inevitabil-mente a ridefinire i propri lin-guaggi, che spesso – ed in mo-do purtroppo per noi inconsa-pevole e poco controllabile –sono categoriali, giudicativi odirettivi. I concetti e la sintassiche tendenzialmente noi tuttiutilizziamo evidenziano quantole nostre abitudini linguistichevadano nella direzione di“bloccare” ed incatenare larealtà attraverso pregiudizi estereotipi (anche i più usualiconcetti rappresentano comun-que sempre semplificazioni e ri-duzioni spesso inevitabili), e dicreare distanze nelle nostre re-lazioni attraverso le più svariatemodalità comunicative (dirige-re, giudicare, valutare, biasima-re, definire, generalizzare, ana-lizzare, diagnosticare, rassicu-rare, eludere, indagare, interro-gare, dubitare, sminuire,ecc…). In verità la realtà uma-na e sociale non può mai esseretrattata come un “dato di fatto”da fotografare e categorizzare:anche il nostro linguaggio habisogno di flessibilizzarsi perriuscire a cogliere le sfumaturee il dinamismo di una realtà cheè un processo fluido e mutevolefrutto dell’agire intenzionaledelle persone. È importanteimparare l’arte di una narrazio-ne che si faccia capace di co-municare sé agli altri e di co-gliere – delle altre persone, delmondo che ci circonda e degliavvenimenti – i simboli e so-prattutto i significati. Non sitratta tanto di inventare paroleo sintassi nuove, quanto di im-

parare a decentrare lo sguardo,a non eliminare dal campo diosservazione ciò che è meno fa-migliare e soprattutto a situarsial confine tra i fenomeni collet-tivi e quell’esperienza persona-le ed unica di cui il proprio lin-guaggio costruisce la memoria.

10.Coinvolgere le famiglie nellaprogettazione. Oggi – venutimeno sulla scena sociale i sog-getti ed i grandi movimenti col-lettivi che hanno in passatopromosso grandi orientamentiideali – la progettazione socialepuò e deve agganciarsi alle nuo-ve istanze che stanno emergen-do dalla riflessione su problemiche sono avvertiti, in qualchemodo, da persone e famiglie. Apartire da una condivisione avolte anche parziale intorno adalcuni problemi, è possibile unimpegno comune che poco allavolta individui e proponga al-cuni orientamenti valoriali o li-nee di azione che possono veni-re a rappresentare, a poco a po-co, agli occhi di tutti, apertureinnovative significative capacidi incontrare un grande con-senso. Significa costruire piat-taforme di confronto capaci diaggregare in un percorso comu-ne soggetti, individui e gruppidiversi – con diverse collocazio-ni e diverse competenze – persviluppare processi generatoridi nuove progettualità per oraapparentemente silenti o bloc-cate nella realtà sociale. La pri-ma ed essenziale condizioneper ogni forma di progettazione– condizione da verificare e po-tenziare continuamente – è la“fiducia”, che viene ad esseregradatamente riconsegnata alcontesto sociale lavorando sulcampo, favorendo nelle perso-ne una maggior padronanza ri-spetto ai problemi – pur senzaridurne la complessità – ed unamaggior competenza nel ricer-care soluzioni possibili. ■

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Parlare di parrocchie ed edu-cazione alla non violenza oggi,richiede la disponibilità adinoltrarsi in un suggestivo ca-pitolo di pastorale giovanileche, per essere compreso, esigela rivisitazione anche del passa-to, con i famosi “Circoli” diAzione cattolica e il camminodegli “Esploratori”. Questi ul-timi, impegnati ad attuare ilmetodo di Baden Powell in ri-ferimento allo scoutismo catto-lico e i primi a vivere la propriafedeltà alla Chiesa, sul modellodei fondatori: Mario Fani eGiovanni Acquaderni. Gli unie gli altri contribuiscono a ca-ratterizzare il variegato mondodegli oratori parrocchiali. Manon sono le uniche realtà delmondo cattolico impegnatenell’educazione alla pace.

La variegata realtà attuale

L’educazione dei giovani allanon violenza oggi passa per leesperienze di volontariato chetrovano, in ambito oratoriano,una delle espressioni ideali. IlTerzo Settore viene continua-mente monitorato dalla Caritasdiocesana: opera non certo fa-cile, in quanto è un ambito flut-tuante. Il direttore, don LivioCorazza, ha dato alle stampe loscorso anno il volumetto intito-lato: Il volontariato e le coopera-tive sociali in provincia di Porde-none e nel portogruarese, ormaigiunto alla quarta edizione.Non tutte le 35 cooperative quicensite hanno come etichetta lamatrice: “Cattolico”. Ancheperché molti operatori del Ter-zo Settore sono convinti che lecooperative debbano essere di

carattere “laico” per operarecon democraticità e libertà.Non ci sono però dubbi sul fat-to che la scelta cristiana guidil’operato di numerosi respon-sabili: dalle “Acli” al “Granel-lo” di San Vito o la “Oasi” diCordenons o il “Piccolo Princi-pe” di Casarsa, tanto per citar-ne alcune. Qui l’educazione al-la non violenza emerge esplici-

tamente nelle tematiche postein capitolo, per il cammino diauto formazione degli operato-ri e, indirettamente, affrontan-do i vari aspetti del “privato so-ciale” che, stando alla succitatapubblicazione, può essere di-stinto nei seguenti ambiti: an-ziani, dipendenze, handicap,migranti, minori e famiglie,sofferenza psichica, pace emondialità… Per ognuno diquesti capitoli troviamo nume-rose associazioni di volontaria-to che ottengono, nella realtàoratoriana, uno spazio per farsiconoscere, per operare o diesplicita ospitalità, per quantoriguarda la sede.Un altro settore oratoriano, ri-guardante l’educazione allanon violenza, è offerto dal“Servizio civile volontario”,non tanto maschile, ma spe-cialmente femminile. In questospecifico momento, per esem-pio, sono quattro le ragazzedel territorio della diocesi, im-pegnate in tale occupazione,per la durata di un anno, ric-che di messaggi riguardanti lanon violenza. In questo caso icontenuti vengono censiti eapprofonditi presso la Biblio-teca tematica della Caritas, ac-cessibile a tutti.

Un valore che viene da lon-

tano Il valore della non vio-lenza risulta però vivacementepresente in ambito cattolico eoratoriano anche negli anniVenti, come attestano numero-se pagine del settimanale dio-cesano «Il Popolo». Documen-tano lo slancio di due sodalizispecialmente: i “Circoli giova-

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Oratori come educazionealla non violenza

Leo Collin

San Filippo Neri e, in alto,San Giovanni Bosco.

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nili” dell’Azione cattolica e iprimi gruppi di “Esploratori”.Lo scoutismo allora era suddi-viso in maschile, con l’Asci(Associazione Scout CattoliciItaliani) e l’Agi (AssociazioneGuide Italiane). Là ove nasce-vano gli Esploratori, venivanocollegati alla stessa Azione cat-tolica. In quegli anni non c’eraparrocchia che non venisse in-vitata, in prima battuta, a costi-tuire i Circoli con gli “Aspiran-ti” e, in seconda battuta, congli “Esploratori”. Il fatto che ilRegime fascista abbia provve-duto, nel 1928, a mettere albando l’associazionismo catto-lico, è senza dubbio dovuto alfatto che il tipo di educazioneimpartita, non fosse funzionaleal sistema, in quanto ricca diproposte riguardanti l’area del-la non violenza.Da una ricerca curata da un ap-passionato scout, scomparsoalcuni anni or sono, BalillaFrattini da Spilimbergo, questisono i gruppi scout sorti nelladiocesi di Concordia, negli an-ni precedenti la soppressione:Maniago, gruppo intitolato aGiosuè Borsi, diretto da GuidoVenier, assistito da don Carlodella Gaspera e don Enrico Ca-stellarin; Pordenone, gruppointitolato al Beato Odorico, di-retto da Antonio Zanchetta,con don Sante Pascotto; Porto-gruaro, con Gelindo Marche-san e don Giuseppe Falcon;Prata, con Gianni Casetta emonsignor Giommaria Conci-na; San Michele al Tagliamentoe San Giorgio, con AntonioMecchia e don Osvaldo Cassin;San Stino di Livenza, con Vit-torio Sossai e don Ruggero Co-letti; San Vito al Tagliamentocon Vito Fogolin, ottimo giova-ne, prematuramente scompar-so; Sesto al Reghena con Gio-vanni Battista Peressutti emonsignor Luigi Cozzi, abate;Spilimbergo, intitolato ad En-

rico Toti, con Balilla Frattini edon Giovanni Colin; Sacile conFrancesco Berlese e don Giu-seppe Zanella.

Il Villaggio del Fanciullo

Tra le altre realtà educative dimatrice cattolica, segnate dallospecifico obiettivo di educarealla non violenza, troviamo il“Villaggio del Fanciullo”, fer-mamente voluto dal cordenon-se don Piero Martin, decedutoil 21 marzo 1977 a 89 anni.Venne istituito nel 1948. Sonogli anni del dopo guerra. Sitrattava di salvare dai pericolidella strada tanti ragazzi, moltidei quali rimasti orfani. L’ideadi partenza era quella di creareun “villaggio” ove i ragazzi sisentissero protagonisti. La for-mula vincente fu quella dellacostituzione di piccole comu-nità, con un rapporto caldo,come in famiglia, e con l’impe-gno del lavoro. Un fedele con-tinuatore dell’opera svolta dadon Piero fu il compianto donGiovanni Sigalotti, direttore diquesto ambiente educativo.Il filone dell’impegno nella for-mazione al lavoro, tutt’ora riccodi valenze educative, viene per-seguito anche dall’attuale strut-tura che vede, come presenzaeducativa, don Felice Bozzet,un operatore che crede ferma-mente nel ruolo formativo del-l’oratorio e delle realtà che con-dividono tale metodologia. At-tualmente il tutto trova nell’O-pera Sacra Famiglia il punto diriferimento, con la Casa dellaFanciulla, nel territorio dellaparrocchia del Sacro Cuore e laColonia del Salvatore, affettuo-samente gestite da monsignorGiovanni Perin senior.

Gli oratori Gli oratori furo-no, e sono tutt’ora, degli am-bienti di educazione alla nonviolenza e alla pace. Si possonodefinire come degli ambienti e

delle strutture di prima aggre-gazione, di formazione umanae cristiana, frequentati da ra-gazzi, adolescenti e giovani. Aldi là dei momenti di catechesi edi accoglienza delle varie asso-ciazioni, si differiscono, per l’o-rientamento, in due grossi filo-ni educativi: quello specificodegli “Oratori Salesiani”, volutida San Giovanni Bosco, mortoa Torino il 31 gennaio 1888 e icosì detti “Oratori Milanesi”.Quest’ultimo settore trova nel-le istanze educative di San Fi-lippo Neri, morto a Roma nel1595, i presupposti pedagogici.Nella nostra diocesi il primo fi-lone esprime nell’Oratorio donBosco dei Salesiani il modellodi riferimento, con settantacin-que anni di presenza educativa(8 dicembre 1930) a beneficiodella città e del circondario. Ilsecondo potrebbe trovare unaattuazione nella modalità chesviluppò il parroco don FeliceBozzet, dagli anni Ottanta alDuemila, presso l’Oratorio SanGiorgio, sempre a Pordenone.Entrambi i metodi educativifanno leva sulla presenza delsacerdote e di altri educatoriben preparati che, in qualchemodo, fungono da “comunitàeducante”. Quelli ispirati daSan Filippo Neri, sorti moltoprima e conosciuti anche dadon Bosco, sottolineano mag-giormente la valenza ricreativae del tempo libero, ugualmentericche di possibilità educative.In diocesi, oltre ai due succitatioratori, ne troviamo altri, di an-tica tradizione, come per esem-pio quello di Maniago, sorto ametà degli anni Venti, con i gio-vani sacerdoti Enrico Castella-rin e Casimiro Della Gaspera.Con loro nascono: oratorio,scautismo e il cinema Manzoni.L’oratorio viene poi ricostruito,come Casa della Gioventù, nel-l’ottobre 1970. Punto di riferi-mento per tutta la cittadina,

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per le varie iniziative che ospi-ta. Prima fra tutte, le sala cine-matografica. Ma anche il rino-mato carnevale cittadino, chequi trova le sue radici.L’altra gloriosa vicenda è quel-la dell’oratorio di San Vito alTagliamento. Vide nel parrocomonsignor Pietro Corazza ungrande sostenitore, coadiuvatoda entusiasti direttori: don Si-galotti, don Pandin e don Boz-zet, tanto per citarne alcuni. Inquesto ambiente sorse anche lafamosa “Astra”, la squadra deiderby, con l’altrettanto agguer-rita Sanvitese. Dalle file diquella squadra sorse pure unavocazione sacerdotale: quelladi monsignor Ettore Aprilis.Ci spiace di non disporre di uncompleto elenco di oratoriparrocchiali, con data di nasci-ta e tappe di sviluppo. Un’ope-ra utile che, ci si augura, vengaben presto realizzata, per unpuntuale servizio alla pastorale

giovanile. Pare possa esserequesto un incompleto elenco:Azzano, Concordia, Corde-nons San Pietro, Maniago,Pordenone: Sacro Cuore, SanGiorgio, San Giovanni Bosco,San Giuseppe, San Lorenzo;Portogruaro: Beata Maria Ver-gine Regina della Pace, San Vi-to al Tagliamento e Spilimber-go. Merita di aggiungere un se-condo elenco: Annone Veneto,Aviano, Bibione, Casarsa, Ca-stions, Chions, Cordenons:Santa Maria Maggiore, Corva,Fiume Veneto, Fontanafredda:San Giorgio, Fossalta di Porto-gruaro, Pordenone: Cristo Re,Immacolata, San Francesco;Portogruaro: Sant’Andrea, Ro-raipiccolo, San Giovanni diCasarsa, San Michele al Taglia-mento, Summaga e Zoppola.

Prospettive educative DalPrimo gennaio 1967 il mondocattolico si è arricchito di una

proposta esplicita riguardanteil capitolo dell’educazione alletematiche della non violenza edella pace, su iniziativa di pa-pa Paolo VI il quale promossela Prima giornata mondialedella pace. Da allora, di annoin anno, il mondo cattolico ele persone di buona volontàvengono invitate a mettere afuoco un tema particolareche, in quasi trent’anni, si pre-senta ricco di sfaccettature.Basterebbe solo scorrere i te-mi suggeriti da papa GiovanniPaolo II, dalla Dodicesimagiornata, intitolata: Per giun-gere alla pace, educare alla pa-ce, fino a quella del Primogennaio 2005: Non lasciartivincere dal male, ma vinci conil bene il male.Queste tematiche hanno trova-to in diocesi un’associazioneparticolarmente sensibile nelrilanciarle: il sodalizio “Beati icostruttori di pace”. ■

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Giovani all’interno dell’Oratorio Don Bosco di Pordenone.

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In Italia arrivano persone diogni tipo, da tutto il mondo,mosse da interessi e da ragionidiverse. Io sono fra queste, unafra i tanti venuti qui con unaforte determinazione. Lasciatadietro a me la mia pacifica vitain India, arrivai in questo bel-lissimo paese immaginando dipoter vivere una vita più facile,migliore, tra gente bella, felicee sana (perché è così che noiasiatici immaginiamo che deb-bano essere gli europei). Ma il sogno di una vita facileera davvero un sogno, un erro-re, perché dovevo ancora fare iconti con la solitudine, con ledifficoltà nell’adattarmi ai fre-netici ritmi di vita, con i pro-blemi di lingua, il lavoro fisica-mente stancante, le spese supe-riori all’ammontare delle en-trate, e infine con il fatto di es-sere considerata – a volte – unastraniera ignorante, con losguardo di certa gente pieno dipregiudizio o addirittura dirazzismo. Confesso che tuttoquesto mi ha fatta sentire umi-liata, scoraggiata, e mi ha in-dotta a pensare che la vita pos-sa diventare qualche voltaun’impresa molto difficile. Comunque, a parte questebrutte esperienze, ci sono an-che molte cose assai incorag-gianti che hanno dato alla miavita una coraggiosa spinta inavanti. L’esempio più facile èl’incontro con persone e amiciche mi accettano e mi apprez-zano così come sono, facendo-mi sentire accolta e sostenen-domi nei miei sforzi per mi-gliorare in tutti i campi. Vorreiapprofittare anche per espri-

mere il mio apprezzamentoverso le cooperative di lavoro,che offrono opportunità allepersone come me, senza ri-chiedere qualificazioni specifi-che. In realtà, lavorare in varisettori, con gente di diversi co-lori e culture mi ha aiutatamolto a integrarmi. Chiunque sia chi mi tende unamano, vorrei sempre fargli sa-pere che non sta semplicemen-te aiutando questa particolarepersona – Merenla – ma, indi-rettamente, contribuisce anchea sollevare parte di un paeseche ha bisogno di quella mano.Infatti, nonostante le difficoltàe i sacrifici a cui sto andandoincontro, qui ho avuto la possi-bilità di realizzare il progettoche tenevo nel mio cassetto deisogni: esiste una scuola, in unangolino nel Nordest dell’In-dia, dove ai bambini viene of-ferto un ricovero, del cibo e so-prattutto un’istruzione scola-stica. Ci sono così delle perso-ne che, senza nemmeno saper-lo, contribuiscono al mio sfor-zo per dare una vita migliore adei bambini altrimenti senzaaiuto e senza speranza. E que-sto, non dà forse pace a uncuore travagliato? Ecco, questaè la più grande gioia, la massi-ma soddisfazione che sto speri-mentando in questo momentodella mia vita, e vorrei condivi-dere questi sentimenti con tutticoloro che mi sono vicini.Per carattere mi sento incline apreoccuparmi di chi vive nelbisogno, fisicamente o mental-mente o anche spiritualmente,e qui in Italia, oltre a esperien-ze come addetta alle pulizie,

ora ho avuto la possibilità didedicarmi all’assistenza deglianziani. Vorrei approfittare diquest’occasione per esprimereal riguardo un paio di pensieri. Sembrerà ovvio sottolinearlo,ma provengo da un paese mol-to diverso dall’Italia, addirittu-ra opposto per il modo di vive-re e per la cultura. Perciò ilmio punto di vista, riguardo acome qui vengono trattati glianziani, è molto critico. Nel mio paese non esiste anco-ra una sola “casa di riposo” eprego Dio che, qualunquecambiamento possa avvenire inquesto mondo che cresce cosìin fretta, possiamo sempre con-servare la profonda convinzio-ne che i nostri amati genitori,durante la vecchiaia e fino al lo-ro ultimo respiro, debbano vi-vere in pace nelle loro amatissi-me case. La priorità di ciascu-no di noi dovrebbe essere quel-la di soddisfare le necessità del-le persone più anziane, senzariguardo per il nostro interesse. Da noi, in India, si dà perscontato che i più giovani ami-no e rispettino gli anziani sottoogni punto di vista – culturale,religioso, tradizionale – tenen-doli in grande considerazione,come i membri più importantidella famiglia. Così è anchenella società, perché tutti sonoconvinti che proprio grazieagli anziani si possa godere difortuna e benedizioni nella vitadi tutti i giorni. D’altro canto, è molto tristevedere – qui dove vivo ora –persone tristi e tormentate daisensi di colpa, perché devonomandar via di casa un membro

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L’anziano e la cultura del rispetto

Merenla Imsong

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della famiglia e chiuderlo inuna “casa di riposo” o in unastruttura simile; spesso non c’èaltra scelta a causa di una seriedi complicate circostanze. Le case di riposo, quindi, sonochiamate a svolgere funzioni so-ciali molto importanti, perché: 1) dare una casa a chi rimanesolo a questo mondo è il gestoumanitario più significativoche ci sia; 2) sono luoghi dove le perso-ne che hanno il desiderio di la-vorare per aiutare i più anzianipossono farlo;3) molte persone, lavorandoin queste strutture, hanno lapossibilità di guadagnarsi diche vivere. Non che in casa di riposo siatutto rose e fiori. In alcune, ed èmolto scoraggiante doverlo am-mettere, il lavoro è organizzatosecondo un sistema efficientisti-co, che non dà sufficiente spa-zio agli assistenti perché possa-no essere dolci, amorevoli e pie-ni di attenzioni, come dovreb-bero essere, con gli ospiti. Biso-

gna correre, portare a termine illavoro stabilito in un certo lassodi tempo, e così si finisce perpretendere che un anziano dinovant’anni si muova con lasveltezza di un ventenne.Penso che, con l’aiuto di un si-stema di lavoro organizzatopiù razionalmente da partedelle Amministrazioni e delleCooperative, e con l’incorag-giamento da parte degli utenti,i lavoratori stressati potrebbe-ro ricevere un flusso di energiapositiva e lavorare in manierapiù tranquilla e, in fondo, piùumana. Per quanto riguarda noi, gli as-sistenti, quando lavoriamo sen-za zelo o comunque sentendocistanchi, dovremmo semplice-mente provare a riflettere sucosa voglia dire il termine “as-sistenza”. Rispettarne il signifi-cato potrebbe fare una belladifferenza! Un’ultima considerazione, ul-tima ma certamente non menoimportante delle altre. Benchéio non sia una lavoratrice qua-

lificata, apprezzo l’opportunitàdi imparare. E recentementeho imparato questo: noi assi-stenti, che accompagniamo glianziani nell’ultimo scorcio del-la loro vita, siamo per loro lepersone più importanti; essidipendono da noi e si aspetta-no amore e cura da parte no-stra. Perché non ci mettiamonei loro panni e proviamo sem-plicemente a dare ciò che essici chiedono? Come cristiani, sappiamo cheil nostro Signore ci ha sempreinsegnato ad amare, e alloraperché non proviamo a colti-vare questo sentimento? Sonoconvinta che non esista forzapiù grande, un’energia capacedi attrarre a sé qualunque cosa,capace perfino di cancellarel’egoismo: se ognuno di noi co-minciasse a fare esperienza conil dare, il servire e l’amare, cre-do che ci sentiremmo tuttirealmente, intimamente soddi-sfatti. C’è forse qualcos’altro almondo che potrebbe darci al-trettanto? ■

formazione

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Lucien Freud, La madre del pittore (1982-1984). Collezione privata.

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Trovo che la miglior presenta-zione del libro di Piero Feli-ciotti Vite di confine. La psicoa-nalisi e le nuove patologie del-l’adolescenza (recentementepubblicato nella collana dellaFrancoAngeli “Clinica psicoa-nalitica dei legami sociali”) stianei tre brani che l’autore haposti all’inizio, come esergo,cioè fuori dal testo, per direcome il testo si collochi, comevada letto. È un libro che cipuò dare molto di più di quel-lo che promette una collana di“clinica psicoanalitica”. Il lettoo il lettino della clinica non ri-mane dentro al linguaggio e airiferimenti di un discorso spe-cialistico, ma è la fonte di un’e-sperienza umana, della qualepuò raccogliere la testimonian-za anche il non addetto, geni-tore o educatore e, perché no,il giovane implicato. Sarebbe interessante e innova-tivo leggere alcuni capitoli dellibro, ad esempio l’ultimo (Lagenerazione che danza sulnulla) con una classe delle me-die superiori. L’esperienza diFeliciotti è quella di un’etica edi una politica professionaleche vanno controcorrente, e laverifica di una trasmissibilitàinter-generazionale sarebbedecisiva. L’autore opera nelmondo dei giovani come neu-ropsichiatra e porta in questomondo l’atto rivoluzionario diFreud, l’ascolto della scena in-conscia, orientandosi in questolavoro con l’insegnamentosvolto in Francia nel dopo-guerra da Jacques Lacan. L’originalità di Freud si dimo-stra così una risposta alle in-

quietudini della nostra epoca“postmoderna”, un metodoper rintracciare le improntedella legge paterna (e quindidi una norma possibile), nonpiù soltanto nell’infanzia. In-fatti la vita infantile è a suavolta ormai appiattita dallatecnica, quella dei gadget, maanche quella medica e peda-gogica, e così il luogo dellacreatività, la fonte della fiabao del “mito” diventa l’oggettoa: l’invenzione lacaniana perdire quel buco, quel vuoto,che sono necessari per inse-diarvi la causa del nostro desi-derio di esseri umani.

La perdita dei valori e la man-canza di senso caratterizzanoda sempre la crisi adolescen-ziale, il problema resta quellodi aiutare il giovane a diventa-re l’autore di un nuovo valore(iniziazione). Se egli si precipi-ta a colmare la mancanza conl’oggetto bulimico o con ladroga, dobbiamo cominciare apensare che non abbia trovatodi meglio, ad una scelta obbli-gata. Il prodursi invece dell’og-getto a, del brillìo di una causaè legato solo al fatto che ci sialegame sociale, discorso. Noisiamo fatti dalla e per la paro-la, e invece il mondo ci invadecon le informazioni. La parolascava il buco per l’oggetto a,laddove l’informazione si offrecome oggetto, panacea o far-maco sostitutivi.Che la parola incida nella carneil taglio che ospiti il desiderio èfondamentale nell’esperienzagiovanile del proprio corpo,senza quest’incisione il corpo siriduce a immagine e l’immagi-ne è un tutto completo, nondesidera trasformarsi in un’al-tra immagine. Perlomeno nonpiù dopo un certo numero diprove deludenti; in questo casodiventa il «preferirei di no» diBartleby. Il buco della siringa,lo svuotamento del vomito, laperforazione del piercing sonoautoiniziazioni, fatte in assenzadi figure autorevoli. Queste sisono ritirate dal luogo dei gio-vani, il ’68 è stato devastante daquesto punto di vista: l’autoritàsi è ritratta dal luogo di vita deigiovani e si è piazzata un po’più a valle, dove ormai passanomolti cadaveri.

LIBRI

Vite di confine

Carlo Viganò

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Piero Feliciotti, ispirato daGadda, ci dice quella «mezzadozzina di verità», che gli sonrimaste attaccate stando congli adolescenti. Una di queste èche il nostro è diventato unmondo di adolescenti, comedice il titolo, la nostra è diven-tata una vita di confine. Confi-ne tra due secoli, ma anche traun’infanzia che è da reinventa-re e una vita adulta che sta di-ventando puro dovere, vissutoall’insegna della “depressione”e della sua terapia.Il confine, che di solito ha un si-gnificato geografico, apre sullasperanza di un’esplosione deltempo: il tempo del soggetto.Uno per uno, gli operatori delcampo psico-sociale assiemecon i loro partner-utenti, a in-ventare un legame sociale. È,quella di Feliciotti, una clinicainnovativa, che va contro lo stra-potere delle statistiche ed anchecontro un’idea di salute comepuro diritto acquisito ex lege.L’autore si lascia prendere dauna vena troppo letteraria («gliadolescenti si baciano allabrezza del mare…»)? Ci pro-pone un ideale sociale troppoanarchico? L’ansia universali-stica trasmessaci dalla tecnica ola seriosità di un Superio cogni-

tivista ci potrebbero portare aresistere, a ridurre l’ampiezzadegli argomenti sviluppati inquesto libro. Credo che essonon si meriti questo destino.Per questo avanzo una propostadi lettura “fuori collana”. Pro-viamo a farlo leggere ai direttiinteressati, a rompere la barrie-ra operatore/utente, che non hanulla della frontiera e riproducesolo, in modo più rigido, il diva-rio genitori/figli in vigore primadel ’68. Feliciotti come De Ami-cis o la Montessori. Innovarenel rapporto tra generazionivuol dire affidare la trasmissio-ne del potere (i valori) ad untransfert, ad una relazione checostruisce un terzo, un oggettocomune, al di là del mito.I casi clinici, gli esempi presidalla letteratura (Melville,Dickens, Roth…), gli scorci dianalisi della società, possonodiventare spunti per un labora-torio didattico che forzi la pas-sione per l’ignoranza, la pas-sione della massa che non nevuole sapere del soggetto.A ben vedere tutto il libro èdominato da questa ineludibiletendenza del mondo contem-poraneo, quella che oppone al-le possibilità del soggetto unhabitat che di fatto lo uccide.

La novità di Feliciotti è quelladi non ridurre questa tendenzaagli agenti inquinanti. Il nostrova al di là della caccia alle stre-ghe o dell’antimodernismo emette il dito sulla piaga: la for-ma contemporanea della pul-sione di morte è quella di con-cepire l’individuo come la for-ma unica per la vita del sogget-to. A questa forma tutto si de-ve piegare, anche il discorsod’amore, ridotto a tecnica dievitamento della solitudine.La tendenza alla massa, alla ri-duzione ad unum, oggi non as-sume più le forme dei “massi-malismi”, ma quella, polveriz-zata, delle sette e dei gruppi“monosintomatici”. Infatti i“nuovi sintomi” di cui pullula-no i manuali diagnostici, altronon sono che la disseminazio-ne di un unico e individualegrande sintomo-massa: la dife-sa dalla differenza e dal sogget-to come diverso.Il lavoro con i giovani, di cuiFeliciotti ci racconta, non op-pone a questa tendenza quelladi preservare delle aree di vitapoco o per nulla individuate, ilnirvana, ma al contrario quelladi sostenere la divisione sog-gettiva, la frontiera come occa-sione di nuove forme di vita.

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Otto Müller, Tre teste di ragazza (1921). Particolare.

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Antonio Loperfido, autore in-sieme a Rosèlia Irti di questobel libro dedicato a coloro che“sono rimasti” dopo il suici-dio di un familiare, mi hachiesto di farne una brevepresentazione. Ho accettatocon molto piacere, grata a luie agli altri colleghi per il deli-cato, difficile lavoro fatto inquesti anni su questo tema edi cui il libro rappresenta unaparte significativa.Ricordo che dal 1996, infatti,un gruppo di operatori delDipartimento di Salute Men-tale di Pordenone ha istituitol’Osservatorio del suicidio. Illavoro è proseguito in questianni ed ha visto lo sviluppo diuna strategia operativa terri-toriale che coinvolge su que-sto problema l’ospedale, i Ser-vizi sociali dei Comuni e dellaProvincia, le associazioni delvolontariato, la Caritas, la co-munità nel senso più ampio.In questo periodo sono statiinoltre attivati due gruppi diAuto Mutuo Aiuto e un Cen-tro di Ascolto.L’ottica è sempre quella dicontinuare a costruire rispostenon solo medico-specialisti-che, ma di offrire occasioni disupporto e incontro a livelloumano, che tentino di rimoti-vare esistenzialmente le perso-ne con rischio suicidario.Il libro appena uscito (La Me-tamorfosi della sofferenza. Do-po il suicidio di un familiare,Edizioni EDB) mi sembra sicollochi coerentemente inquesto percorso di lavoro e diriflessione, affrontando il te-ma, delicato e spesso trascura-

to, di quello che vivono e sof-frono le persone vicine a chi siuccide.È un libro ricco di spunti e ri-flessioni, spesso commovente edoloroso nelle storie vere cheracconta, ma che mantienesempre viva la speranza, l’at-tenzione ed il rispetto perognuno dei protagonisti. Nonè facile parlare della sofferenzache prova chi “sopravvive” alsuicidio di un familiare, parla-re di colpa, vergogna, rabbia, econtemporaneamente astener-si dal giudizio, morale, umanoe, cosa ancora più pericolosa,freddamente “clinico”.Gli operatori raccolgono levoci e le storie dei familiari,ognuna delle quali esemplaree ricchissima, con grande at-tenzione ed umanità. Sottoli-neando in ogni momento lestrategie possibili individuateda ognuno non solo per “so-pravvivere”, ma per trovare,pur nella sofferenza, delle

motivazioni in più per conti-nuare a vivere.Per ognuno ci sarà un mododiverso. Le testimonianze deisopravvissuti parlano delladifficoltà di essere e rimanerevivi dopo un trauma così dolo-roso, della difficoltà di accet-tare un gesto spesso sentitocome un’aggressione ed un’ac-cusa. Nelle storie raccontatec’è sempre una possibilitàaperta: la presenza di personecare accanto, la scoperta di ri-sorse interiori insospettate, ilcoraggio di reinventarsi pro-getti nuovi, ecc.Questa sembra anche la moti-vazione degli autori: offrire at-traverso i racconti dei “soprav-vissuti”, «una testimonianza divita, di speranza e di aiuto,non solo per chi si trova in unasituazione come la loro, ma an-che per chi pensa al suicidiocome a una conclusione dell’e-sistenza».Il libro parla, con una bellametafora, della possibile meta-morfosi del dolore.Non posso fare a meno di ci-tare poi le poesie di StefanoCantoni, infermiere del Di-partimento di Salute Mentale,che aprono ogni storia, ac-compagnandola con dolcezza.Ne riporto in conclusioneuna: «Il tempo che si avvicina,/ nel tempo senza tempo,/ co-sì come il ricordo si affacciasu ferite aperte e insolute,/che ancora mi domandoquanto tempo sia passato,/quanto ancora ne deve passa-re,/quanto ancora devo ricor-dare».

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Dopo il suicidio di un familiare

Margherita Gobbi

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Sarà rimasto positivamentesorpreso chi si aspettava daMauro Mazzocut un libro dipragmatica impostazione e difacile consultazione, poiché diprimo impatto, il testo si pre-senta subito corposo e con tut-te le caratteristiche di una ri-cerca/tesi complessa e ricca diriferimenti al contesto socio-culturale e musicale degli anniSettanta/Ottanta, nel porde-nonese e anche nell’ambito in-ternazionale.Alla lettura poi, quelle sensa-zioni iniziali si fanno via via cer-tezze e all’idea del “tascabile”subentra la consapevolezza chel’autore ha dovuto fare i conti,volente o no, con una materiavasta e complessa, per cui am-pliare la sua indagine, aprirel’obiettivo a 360 gradi per inse-guire ambienti, situazioni, per-sonaggi, è stato per forza unapregiudiziale, tanto da obbli-garlo poi a procedere con l’ac-canimento del perfezionista.C’è da chiedersi allora se que-sto suo ampio lavoro di rico-gnizione, così attento, sia riu-scito a rendere comprensibile eleggibile quel fenomeno nao-niano degli anni Settanta notocon il nome di Great Complot-to, a quei tanti che non l’hannovissuto in prima persona, daldi dentro.A me pare proprio che il suosforzo abbia colto nel segno. Ri-peto, non è stato facile per luianalizzare un periodo così com-plesso, fotografare personaggicosì esuberanti ed eccentrici,descrivere un ambiente in conti-nua e rapida evoluzione situa-zionale, eppure armatosi dell’o-

stinazione tipica del ricercatoreha rintracciato ogni prova, ogniindizio, ogni suggerimento, ognidocumento, ogni situazione, tra-lasciando il meno possibile.Ma che cos’è veramente avve-nuto a Pordenone negli anni trail 1977 e il 1985, nell’arco ditempo in cui si è affermata l’e-splosiva creatività dei ragazzidel Great Complotto? E se perquel gruppo si può oggi parlaredi un progetto cultural-musica-le provocatorio e rivoluziona-rio, in che cosa veramente si èconcretizzata la loro ansia dirinnovamento, in che cosa sonostati profeti o visionari utopisti?Scorrendo le pagine veniamo aconoscere le caratteristiche diun mondo multiforme e varie-gato, nato come movimentospontaneo di aggregazione diragazzi di diversa estrazionesociale, insoddisfatti però (co-me capita sempre ai giovani)della realtà circostante e quin-di anche loro alla ricerca di va-lori sentiti come irrinunciabili,alla ricerca di un “meglio” dacreare o da proporre.E propositivi sono stati queiragazzi, distinti in vari gruppima assemblati dalla voglia difare, di creare: prima con pro-poste culturali, filtrate nei mes-saggi diretti e coinvolgenti del-la musica, ma non solo, anchenello stile di vita, anche nell’e-spressione grafica o nelle per-formance più disperata dell’es-serci, anche nell’utopia visio-naria della città futura proget-tata da Ado Scaini (insieme aMiss Xox membro fondatoredel Great Complotto) su unadelle sue famose mappe.

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Il Grande Complotto

Stefano Sabbatini

Copertina della compilation The GreatComplotto Pordenone. Sopra: coperti-na della cassetta Pordenone For Holi-days. Nella pagina seguente: gruppimusicali e giovani punk.

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Se oggi tutti riconoscono algruppo naoniano l’indiscutibi-le leadership musicale italianadi quel periodo, allora non c’èdubbio che ci saranno stati va-lidi motivi per quella loro affer-mazione e proprio su questoversante si è concentrata l’at-tenzione di Mauro Mazzocut. Là dove l’autore, abbandona-te le motivazione sociologichee culturali che fanno da sub-strato al fenomeno naoniano,si addentra nello specificodella musica, della formazio-ne dei complessi e della loroproduzione musicale alloral’indagine diventa quasi esau-stiva e ci passano davanti i

Tampax, i Sexy Angels, iMess, i Fhedolts, gli AndyWarhol Banana Technicolor,gli 001… Cancer, gli intreccidello loro formazioni, le loroperformance live situazioniste,o le loro dissacranti e fascino-se fanzines (davvero numero-se, ricordiamo: «Molody Ma-ker», «Spillon», «MusiqueMecanique», «Onda 400»)scandite da un linguaggioonomatopeico (si veda ancheil Cd in allegato al libro) di ri-chiamo futurista e dadaistacosì caro alla musica punk.A corredo del testo troviamo unbooklet guida e descrizione del-l’immaginario Stato di Naon,

con le sue regole, la sua mone-ta, la sua organizzazione e per-sino la sua nazionale di calcio(Atoms For Energy).Un plauso va certamente allaBiblioteca Civica di Pordeno-ne che ha reso possibile lapubblicazione di questo essen-ziale volume su un periodo im-portante della recente storiamusicale pordenonese ed ita-liana, punto di riferimento im-prescindibile per chi sia inte-ressato a comprendere cosasuccesse un ventennio fa inuna vulcanica Pordenone.

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Questo saggio di Pim Fortuynsembra fatto apposta per stupi-re il lettore italiano: Contro l’i-slamizzazione della nostra cultu-ra, infatti, nonostante il suo au-tore sia stato un uomo politico,è scritto con uno stile fresco,brillante, del tutto coerente conciò che Fortuyn è stato nellapropria vita. Personalità auda-ce, provocatore al limite dellavolgarità, Fortuyn non ha maiavuto paura delle proprie idee enon ha mai voluto saperne direstare intrappolato nei faciliclichè. Proprio lui, sociologo daibrillanti studi marxiani, omo-sessuale dichiarato, che alla finedegli anni ’90 diventò leaderdella destra europea, anzi, permolti, della “destra estrema”,proprio lui che l’estrema destrala detestava profondamente.Ma per comprendere la rilevan-za di Pim Fortuyn nella storiapolitica europea, a cavallo tra lafine del Novecento e gli inizidegli anni Duemila, è utile rive-dere le reazioni che, nel 1997,questo saggio provocò in Olan-da. Marcel Van Dam, del Pvda,definì Fortuyn un «subumano»,ed era stato uno dei più genero-si, perché all’epoca si sprecaro-no gli epiteti: nazionalista, xe-nofobo, fascista, nazista. Persi-no in Italia certi quotidiani co-me «la Repubblica» e «l’Unità»,quasi squittirono di gioia allanotizia della morte di “un lea-der xenofobo”.Nel primo capitolo l’autorepunta immediatamente al ber-saglio grosso, il relativismo cul-turale. «Noi olandesi – scriveFortuyn – non siamo più inte-ressati al nostro retaggio cultu-

rale, né alla memoria dei nostripadri. Per questo motivo, en-trando in contatto con la cultu-ra islamica, spesso fondamenta-lista, dalla forte coscienza iden-titaria, rischiamo di soccombe-re. Il fondamentalismo per me èun atteggiamento politico basa-to su di una visione della societào su una concezione religiosa, incui tale concezione religiosa ovisione della società viene intesain forma assoluta ed è fattoredeterminante dell’atteggiamen-to politico». Fortuyn ha sempredichiarato senza complessi lapropria omosessualità, conside-rando anzi la libertà di poterloessere come segno di maturità

della civiltà occidentale. In que-sto saggio l’autore si occupa an-che del degrado di molti quar-tieri di Rotterdam invasi dal-l’immigrazione extracomunita-ria. Per Fortuyn tali guasti sonostati prodotti soprattutto «dallacarità statale, da sussidi di ognigenere, da quote abnormi dicontributi pubblici». Il leaderolandese, inoltre, critica il com-portamento di molti “liberal”olandesi, che stigmatizzano pre-sunti episodi di intolleranza vi-vendo però in quartieri ricchi,dove dei problemi della convi-venza non arriva neppure l’eco.La soluzione per Fortuyn passaattraverso una nuova politicaurbanistica, basata sulle «map-pe degli immigrati, costruitecon il buon senso e tenendoconto del profilo delle compo-nenti sociali, etniche e naziona-li». Analizzando la società in cuivive e i profondi mutamenti av-venuti nel dopoguerra, Fortuynraccomanda di non aprire lastrada al nazionalismo bieco edetnico, poiché «lasceremo aigruppi di estrema destra il com-pito di definire e incarnare lanostra peculiarità di popolo,cultura, nazione. Peculiaritàunica e distintiva, della qualenon possiamo fare a meno. Lanostra identità non è un datomorto, fisso e immutabile, maun’entità vitale che cresce e siarricchisce di giorno in giorno».

Il libro è stato tradotto in ita-liano e pubblicato dall’Asso-ciazione Culturale «Carlo Cat-taneo» di Pordenone.www.associazionecattaneo.orgassociazionecattaneo@yahoo.it

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La forza delle ideecontro il fondamentalismo

Pierluigi Pellegrin

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Questa volta i miei racconti“neri” mi fregano per davvero,ho pensato appena acceso ilcomputer. I particolari, i luo-ghi e soprattutto i nomi che vitroverete dentro sono molto ri-conoscibili dai protagonisti…E come se non bastasse, inmezzo ad essi, per saziare lacuriosità del lettore, ho inseri-to anche una chicca: la testi-monianza di un “dopato pentito” che ho tra-scritto come me l’ha raccontata il diretto inte-ressato: un omone pieno di muscoli e di ricordi.Ma torno un attimo indietro.Alcuni giorni fa, quelli della redazione mi han-no detto che questo numero è dedicato al temadel “gioco e violenza”. Senza specificare altro,mi hanno lasciato libero di ricordare e raccon-tare. Secondo me questo numero della rivistaserve a comprendere che ruolo ha il “gioco”nella vita dei ragazzi, delle loro famiglie e anchedegli anziani, e perché la “violenza” spesso di-venta un’eventualità collegata al gioco stesso.E io come posso partecipare a questo tema?Nella mia vita ho giocato tanto e continuo afarlo tuttora che ho superato i trent’anni, avolte anche in maniera pericolosa, soprattuttoquando salgo sulla mia moto. Io non sono ca-pace di sviscerare i vizi delle persone, di legge-re nelle menti o nei sentimenti, però possoraccontarvi alcuni fatti che ho visto e toccato,accaduti in un mondo dove il “gioco” e la“violenza” la fanno da padroni: lo sport. Losport è un gioco, però in esso la violenza alle

volte è la cornice delle biogra-fie dei protagonisti.Per quanto mi riguarda, disport ne ho praticato tanto,per tanti anni e sempre a livel-lo dilettantistico, quindi sem-pre a contatto con tante perso-ne. Non avendo mai ottenutorisultati, ho collezionato piùamicizie che vittorie, più diver-timento che emozioni, più

chiacchiere che sudate. Dal judo al calcio, dalculturismo al motociclismo, ho visto un po’ ditutto, compreso appunto il gioco trasformato inviolenza. E in questi ambienti molti giovani nesono le vittime, sia nel fisico che nella psiche.Nei miei racconti troverete la violenza verso sestessi, verso il proprio corpo e il proprio cervel-lo. Violenza che nasce dalla ricerca del massimorisultato, e che spesso spinge all’utilizzo di so-stanze dopanti e pericolose. Una pratica, sap-piatelo, diffusissima, molto più di quello checredete, anche tra i giovanissimi!Questo è quello che posso raccontarvi, comesempre è quello che ho visto e vissuto.Ma tornando all’inizio, volevo dirvi che questiracconti mi fregheranno per davvero, perchémi metteranno di fronte ai musi incazzati deiprotagonisti, i cosiddetti dopati, i quali dopoaverli letti mi spingeranno all’angolino prati-cando un “gioco” appunto “violento” verso ilsottoscritto…Nel prossimo numero vi racconterò com’è an-data. Per adesso buona lettura, e non pensiateche racconti bugie!

QUIPORDENONE

Raccontipordenonesi

Quarta parte

Massimiliano Santarossa

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Sandrino il Toro

Sandrino il Toro ha una stazzada far paura. Capelli corti, collogigantesco, schiena come un ar-madio a quattro ante. Pesa co-me un manzo da batteria, 110

chili per un metro e ottanta.

Frequenta le palestre di tuttala provincia, ci va da oltre diecianni. Ha iniziato da giovanissi-mo che pesava 70 chili.Oggi, quando si allena, tutti lostanno a guardare come fosse-ro al cinema.Alla panca i suoi potentissimipettorali e tricipiti alzano 170

chili per diverse serie da sei ri-petizioni. Roba da stenderebuona parte dei dopati dellaprovincia. Alla pressa le sueenormi gambe alzano 250 chi-li per diverse ripetizioni. Tuttoquesto con una foga disuma-na, accompagnata da urla, ve-ne impazzite che pompano il

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sangue, sudore, dolore, faticae alle volte anche flatulenzeche il poveretto non riesceproprio a trattenere. Se stateridendo del Toro, provate voia fare certi sforzi e poi ne ri-parliamo…Da anni non salta un allena-mento. Tutti ne parlano conammirazione. I giovani loprendono come esempio.Lui si incazza come una bestiaquando sente parlare di alcoli-ci. Dice che rovinano il fegatoe che distruggono il cervello.Si chiede sempre come faccia-no i ragazzi d’oggi a cadere incerte tentazioni stupide. Il To-ro è per la vita sana.Non va mai al ristorante. Odiaprofondamente i grassi e nonpotrebbe sopportare la pastacon il sugo, le grigliate di carneo pesce, l’insalata con il condi-mento. Mangia a casa: petto dipollo, bresaola, uova a volontà,latte scremato, pane rigorosa-mente integrale. Giustamenteperde ore a togliere il grassodal prosciutto crudo: salva so-lo il buono, la parte proteica.Odia l’acqua gasata, gli gonfialo stomaco.Si chiede come faccia la gentea mangiare le schifezze del ri-storante o peggio del pub. Sichiede come si possa odiarecosì tanto il proprio corpo,“perfetta macchina”.Un sabato pomeriggio, dopo ilsolito allenamento, il Toro si èsentito veramente male. Vomi-tava sangue e aveva dolori allu-cinanti allo stomaco.Tutti si sono preoccupati. L’al-lenatore e la morosa hanno ca-ricato in auto l’enorme corporimasto senza forze, schiantatodal dolore, e si sono diretti al-l’ospedale.La diagnosi ha riscontrato nelsuo sangue delle enormi traccedi aminoacidi, creatina, vitami-ne di ogni genere e altri straniprodotti che sembra vengano

usati dagli allevatori per far in-grassare il bestiame.La sua morosa, insegnante distep in palestra, ha candida-mente detto al medico che ilsuo uomo «prende 16 pastigliee 20 cucchiaini di polverina algiorno e due iniezioni di ana-bolizzanti a giorni alterni». Hacontinuato ammettendo che«poteva esser troppa roba»: datempo il Toro aveva i brufolinisulla schiena.

Confessioni di un“dopato pentito”I due racconti che seguono so-no la testimonianza di un mioamico culturista, un omone pie-no di muscoli e ricordi… Nonho esagerato su nulla, lui parla-va e io mi sono limitato a scrive-re. Riporto integrali le sue“confessioni”. Per ovvi motivine ometto nome e cognome.

«Avviene un po’ come per itossici. La prima volta che tibuchi lo fai con leggerezza,convinto che non capiterà a tedi avere le temute reazioni ne-gative del corpo ai farmaci.Sei convinto che le controindi-cazioni terapeutiche siano solodelle esagerazioni e che co-munque capitano a quelli cheabusano, non certo a te che lofai con “testa”… Hai mai lettoi foglietti delle controindica-zioni dei comuni farmaci?Ci trovi scritto che l’aspirinapotrebbe portare a scompensidi varia natura, che gli ansioli-tici potrebbero condurre alladipendenza più terribile, che itanto usati antidepressivi po-trebbero condurre al tentatosuicidio… A queste “con-troindicazioni” ovviamentenessuno fa caso, altrimenti lamedicina e gli imperi farma-

ceutici fallirebbero di botto,per cui perché proprio io do-vevo ascoltare le voci per lequali l’Epo o il Gh o gli steroi-di provocano il cancro, la ste-rilità, o scompensi psichici,depressioni e quant’altro? Eroconvinto che fossero tutte esa-gerazioni, un po’ come i fo-glietti delle controindicazio-ni… Ho iniziato come tutti.Un giorno, nello spogliatoiodella palestra, poco dopo l’al-lenamento, con Marco com-mentavo i nostri risultati.Quella sera alla panca guidata,dove si allenano i pettorali,avevo sollevato in una serie “apiramide” ben 100 chili per 5volte da solo, senza aiuto. Perme era già un bel risultato mache arrivava dopo quasi quat-tro anni di allenamento, cioè a22 anni. Ero insomma lento,indietro rispetto alla mia ta-bella di marcia.Vedevo nei giornali certi be-stioni americani che già a 24

anni erano degli armadi, vera-mente di un grosso da far pau-ra e io, pur essendo un bel to-rello, non potevo certo compe-tere con loro. La competizio-ne! proprio questa cosa delnon poter competere mi man-dava in bestia!Con Marco, dicevo, stavamocommentando l’allenamantoappena terminato, eravamo se-duti lì sulla panca, tutti e duenudi, pronti per farci la doc-cia. I muscoli sudati, gli addo-minali in vista, belli depilati,fisici scolpiti nella roccia equesto non ci bastava. Negliocchi avevamo quelle immagi-ni, avevamo timbrati in testagli americani!Io e Marco in quel periodo fre-quentavamo un ragazzo che la-vorava alla Base Nato di Avia-no, proprio quella delle varieguerre, proprio quella dove so-no parcheggiati gli F16, pro-prio quella dove pare ci siano

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tante bombe atomiche da farsaltare in aria mezza Italia.All’epoca giravano voci che ol-tre alle bombe atomiche, làdentro si potessero trovare an-che altre “bombe”, ma del tipo“speciale” che cercavamo noi:steroidi anabolizzanti!Gli steroidi anabolizzanti han-no diversi effetti, ma per faresintesi devi sapere che aiutanola crescita muscolare perchégonfiano e contemporanea-mente bruciano i grassi oltreche spingere l’organismo a me-tabolizzare alla grande le pro-teine che ingeriamo attraversoi cibi… le controindicazionisono da spavento: ansia, iper-tensione, insonnia, nervosi-smo, depressione, tentati suici-di, abbassamento della voce,varie malattie cardiovascolari,aumento del seno, aumento diben 7 volte sul maschio degliormoni femminili, sterilità emolte altre cose…Ma io e Marco non ci credeva-mo, e siamo andati fino infondo.Il nostro “contatto” aveva tan-ti amici americani e con discre-zione chiese a uno di loro sepoteva aiutarci a recuperarequel ben di Dio, previo paga-mento di tanti bei dollaroni.Il negro dopo poche settimaneavrebbe abbandonato la baseamericana, era un casinista te-sta calda, che per questo moti-vo veniva sempre spostato nel-le basi sparse in mezzo mon-do. Un negro senza casa e pa-tria, nuovo prototipo di schia-vo moderno.Non fece una piega, per 300

dollaroni vendeva anche suamamma, figuriamoci gli ana-bolizzanti!Ci procurò diversi tipi di ste-roidi, sia da assumere via boc-ca che da assumere tramitepuntura.Scegliemmo quelli tramite pun-tura, ci sembravano più effica-

ci… Direttamente nel musco-lo! E poi non rovinano il fega-to, ci diceva il negro.La prima pera la feci a casa diMarco. Mi bucò sua sorella,complice del nostro delirio,appassionata del mio muscolo,e infermiera novella. Non ave-va mai fatto l’infermiera perdavvero, ma aveva seguito uncorso di pronto intervento. Pernoi era più che sufficiente.La prima pera mi entusiasmò.Il costoso liquido faceva faticaad entrare nel muscolo, varca-va la mia pelle pian piano. E inquel lunghissimo istante, lasensazione di aver varcato lasoglia del lecito ci eccitava!Quel giorno io e Marco im-boccammo, nel buio di un sot-toscala di casa sua, la lucente emeravigliosa via del culturi-smo agonista. Dopo quattrointerminabili anni di fatiche,erano bastati cinque minutipassati in un sottoscala incompagnia di una siringa perraggiungere i miei sogni. Queipochi secondi per me eranogià il risultato… Grazie a quelnegro senza patria che mi avvi-cinò al doping toccai il verosogno americano: lo sport sen-za limiti e confini!».

Un’iniezionedi troppoSecondo incontro con il “do-pato pentito”.

«Sarcev è il mio culturistapreferito. Giovane, atletico,dal fisico possente ma non so-vradimensionato, nel sensoche mantiene delle proporzio-ni quasi umane. Dico quasiumane perché ormai è similead un gorilla, alto ed enorme-mente grosso, non comunqueal livello di certi americani

che ormai di umano non han-no più nulla. Se sei curioso divedere a che punto sono arri-vati fatti un giro nel sito diMister Olimpia: www.ronnie-coleman.com.Molto energico negli esercizi,Sarcev esprime la mia filosofiadel culturista. Di culturisti co-me lui se ne trovano pochi:vuole essere il migliore, alme-no a livello europeo, e fa di tut-to per diventarlo.Eticamente lo si può paragona-re all’archetipo dello sportivo:inibito, forte psicologicamente,convinto dei propri mezzi e so-prattutto disponibile al sacrifi-cio. Anche a quello più estre-mo: rischiare la vita come gliaccadde qualche anno fa!L’unica pecca che potrebberofargli i benpensanti riguarda lesue ultime dichiarazioni del di-cembre 2003 nelle quali Sar-cev ammise a diversi quotidia-ni, tra cui Repubblica, il suoutilizzo di sostanze dopanti. Lasua fu solo un’ammissione, co-me quella che io faccio a te, manon un pentimento, o denun-cia di un modo di agire. Perchéè facile doparsi e una voltauscito dal giro denunciare quelmondo corrotto.Sarcev non si è pentito di assu-mere doping nemmeno difronte alla morte, io invece misono disinteressato al doping ene sconsiglio l’utilizzo soloperché rovina la naturale fisi-cità, le naturali proporzioni,cosa di cui mi sono accorto neltempo. Ma non lo rinnego nétantomeno mi ritengo un men-tecatto, quando ci si inetta cer-te sostanze sappiamo benissi-mo quello che facciamo e idanni che producono anche seall’inizio non ci si vuole crede-re. Per cui ripudio i facili mo-ralismi e in questo senso ancheSarcev è ammirabile.Racconta che al massimo dellasua forma utilizzava anche gli

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olii da iniettare direttamentenei muscoli per aumentarne laforma e la massa.L’olio muscolare non è ancoraconsiderato doping perchénon aumenta le prestazioniatletiche, è solo un correttoreestetico.Ci si fanno delle iniezioni mi-rate nei muscoli “carenti”. Imuscoli più bucati sono lespalle, per donare al corpo il ti-pico effetto a V e le gambe, ipolpacci soprattutto che solita-mente sono sottodimensionatirispetto al resto della gamba.Sarcev si faceva iniettare le do-si di olio dalla moglie. Ha rac-contato che una sera la mogliegli ha iniettato direttamente invena l’olio, sbagliando comple-tamente il buco e mandandoloquasi al creatore.Ricoverato d’urgenza è finitoin coma, era più di là che diqua, ma superato il coma e ladegenza ha ricominciato subi-to gli allenamenti. Perché, co-me dicevo prima, il culturistaè sempre alla ricerca del pro-prio limite, e in questo Sarcevha provato anche a combatte-re la morte.Ovviamente mi sono fatto an-ch’io iniettare l’olio nelle spal-le, perché avevo una certamancanza a livello di deltoide,ma l’effetto non fu quello desi-derato. L’“infermiere” non eraproprio capace e invece di far-mi due belle spalle tonde e so-de me le fece come una pera,mi comparvero due punte pro-prio nel bel mezzo del musco-lo. Sembravo un robot dei car-toni animati!Quella volta saltai la gara, sa-rebbe stato impossibile gareg-giare con quelle spalle chesembravano dei palloncini at-taccati con il bostik.Ero incredibilmete ridicolo!Da quella volta abbandonail’olio e aumentai le dosi di Gh,cioè gli ormoni della crescita».

RosinaRosina ha 59 anni. I suoi capel-li sono grigi come la cenere, isuoi vestiti demodé, derivazio-ne diretta degli anni Settanta,la sua borsetta è piccolina eusurata perché Rosina ci mettesempre le mani dentro percontrollare, inserire, estrarredenaro. Rosina è conosciuta intutto il paese.Ha dovuto abbandonare il la-voro da giovane per accudireai figli, causa motivi contingen-ti: la morte dell’amato marito.Dalla disgrazia sono passati an-ni, i figli di Rosina sono ormaiadulti e lavorano come operaispecializzati in una grande fab-brica. Guadagnano bene e ri-sparmiano molto. Sono deibravi ragazzi, senza grilli per latesta. Tutti lavoro, famiglia, la-voro. D’amore e d’accordo vi-vono in una grande casa, a piùpiani, assieme a Rosina.Rosina da qualche tempo, pernon stare sola durante il gior-no, frequenta un bar del quar-tiere sud di Pordenone. Entraalle 7:35 del mattino quando ifigli partono per il lavoro. Escealle 17:15 per tornare a casa adattendere i suoi ragazzi.Dalle 7:35 alle 17:15 Rosinanon mangia, non parla, nonbeve, non fuma, non va in ba-gno né si sgranchisce mai legambe, insomma non si muo-ve proprio.Per quasi dieci ore al giorno stadavanti al Video Poker, appicci-cata allo schermo. Batte comeun’ossessa sui tasti colorati,emettendo spesso dei versi didolore… ai quali ormai nessunofa più caso. Ogni tanto fa uncenno alla barista, significa chele deve cambiare altri soldi. Nonl’hanno mai vista vincere…

Il figlio maggiore di Rosina ungiorno è uscito dal lavoro inanticipo per recarsi in banca a

depositare lo stipendio e di-scutere di alcune pratiche, hachiesto il saldo del conto cor-rente famigliare, perché comeavviene nelle buone famiglietutti tengono i soldini assieme,ma nel foglietto è apparso ungrosso debito.Si è visto cancellati i risparmidi anni.Furibondo ha chiesto spiega-zioni, la cassiera della banca hachiamato subito il direttore equesto ha risposto che la ma-dre li prelevava puntualmente.In verità anche il direttore,tempo addietro, chiese alla Ro-sina il perché di tanti prelievi,lei si giustificò sostenendo chedoveva curarsi diversi acciac-chi che la vecchiaia le avevaportato in dono…Il figlio è andato a casa, nonl’ha trovata. Ha chiesto infor-mazioni ai vicini. Gli hannosuggerito di rivolgersi alla Poli-zia per le ricerche o di vedereal “bar del quartiere”…È andato diretto al bar, è en-trato di gran fretta scontrando-si contro il Cucu che, strafatto,ciondolava tra le macchinettedel Video Poker, poi ha visto lamadre in trance appesa al vi-deo… le ha chiesto spiegazionima Rosina non ha aperto boc-ca, aveva gli occhi fuori dalleorbite, tutta impegnata a cer-care il colore vincente.Il figlio ha preso la madre e l’hasbattuta in auto. Poi è rientratonel baraccio e ha tirato su uncasino della madonna, pren-dendo a calci tavolini e sedie.Il Cucu rideva.Il figlio della Rosina sarà pro-cessato per aver scassato mez-zo locale. In banca non voglio-no più saperne della vecchia.Rosina nella sua testa malatacerca ancora il colore vincente.

Evviva il gioco! Evviva losport! Evviva la società deiconsumi!

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La crisi fortissima della fami-glia e l’inadeguatezza dellascuola a dare risposte all’altez-za delle domande che formu-lano i ragazzi, sono ovviamen-te grandi fattori di disagio.Molte famiglie non hanno veraconsapevolezza della necessitàdi pratiche educative rivolte aifigli. Non hanno tempo ed au-torevolezza morale da offrireai figli. Le direttrici didattichee le insegnanti riferiscono dimadri che chiedono alla scuo-la di educare il bambino, per-ché loro non hanno tempo.Molti genitori non conosconoa volte nemmeno i rudimentidella vita sociale ed è assai dif-ficile che possano trasmetterequalcosa di positivo ai bambi-ni in questa direzione. La stes-sa sfera affettiva dentro le fa-miglie è in grandissima evolu-zione. Troppo spesso è la tele-visione l’unico vero strumentodi educazione: i bambini ven-gono piazzati davanti al mo-stro per ore, mentre padri emadri fanno altro.Ma gli adolescenti ci rivolgonodomande di straordinario li-vello. C’è sempre un passaggiodella loro vita in cui chiedonogiustizia e lealtà. Quel che ve-dono attorno a loro, nelle lorofamiglie, nella loro scuola, ècosì lontano da giustizia elealtà da scatenare un distaccofortissimo come conseguenzadi una formidabile delusione.Il vuoto della delusione vieneben presto riempito da mes-saggi e stili di vita contraddit-tori, difficili da capire per noi,impegnati a fare i conti con labanalità delle nostra vite, con

la competizione quotidiana edi nostri compromessi, che cientusiasmano talmente tantoda non lasciare alcuno spaziodi ascolto riservato ai bambinied agli adolescenti. Poi, difronte ai problemi, ci chiudia-mo nella constatazione che isoldi, però, fanno comodo atutti e che deve pur esistere unfarmaco che risolva i problemidei figli. I ragazzi, quelle so-

stanze, se le procurano da soli.L’apprendimento è possibilesolo in una condizione gerar-chica positiva: l’insegnante(che sa e detiene la conoscen-za) ha ed usa l’autorità e l’allie-vo (che non sa e deve impara-re) accetta la propria subalter-nità studiando e la riscatta conil rendimento scolastico. Que-sta gerarchia non è accettabileper molti bambini e ragazzi siaitaliani che immigrati e dun-que per le loro famiglie. L’ac-cettazione di questa gerarchiapresuppone infatti un forteprestigio sociale dell’insegnan-te ed equità e giustizia sia con-nesse all’insegnamento che al-l’istituzione scuola nel suocomplesso. Per molte famigliel’insegnante non ha prestigiosociale, dunque non è modellosociale di riferimento e non èdotato di autorità. Molti giova-ni, invece, mettono alla provagerarchia ed autorità e consta-tano che gli insegnanti nonhanno qualità morali per giu-stificare una posizione predo-minante. Infine, per un’altraparte di giovani il sapere in sénon è più fonte di utilità e ge-rarchia: non conduce alla ric-chezza immediata tanto ago-gnata né al potere nel gruppo enella banda. Dunque, perchérispettare chi sa, se i modelliprevalenti sono altri?È dentro a queste logiche ed inquesto clima che a Pordenoneun gruppo di ragazzi albanesiha costituito con alcuni ragazziitaliani, per la maggior parte diorigine meridionale, la baby-gang di cui molto ha parlato lastampa nazionale e locale […].

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Se conoscere non serve

Giovanni Zanolin

Proponiamo qui uno stral-cio di un più ampio e artico-lato intervento che saràpubblicato per esteso a set-tembre, in un'uscita specialeche la nostra rivista dedi-cherà alla realtà pordenone-se. Gianni Zanolin è asses-sore alle Politiche sociali delComune di Pordenone.

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Nel prossimo numero

La morte… e noi

Per inviare contributi, riflessioni e impressioni, scrivere a:Redazione «L’Ippogrifo» c/o Studio Rigoni viale Marconi 32 33170 Pordenone

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I sintomi della saluteLa Guerra

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L’eredità di Franco BasagliaLa Provincia nel bicchiere.

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