APRILE-SETTEMBRE 2013- Numero Trentatré -...

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IPPOGRIFO APRILE-SETTEMBRE 2013 - Numero Trentatré - Periodico in distribuzione gratuita B IMESTRALE DI L ETTERE E C ULTURA DEL G RUPPO S CRITTORI F ERRARESI CARLA SAUTTO, LE MURA DI FERRARA l IPPOGRIFO 33/2013_GRIFO26_02_2010 15/10/13 18:04 Pagina 1

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’IPPOGRIFOAPRILE-SETTEMBRE 2013 - Numero Trentatré - Periodico in distribuzione gratuita

B IMESTRALE DI L ETTERE E C ULTURA DEL G RUPPO S CRITTORI F ERRARESI

CARLA SAUTTO, LE MURA DI FERRARA

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EDITORIALE di Gianna Vancini p. 2

RECENSIONICLAUDIO CAZZOLA - L’ENIGMA DI OMERO di Emilio Diedo p. 3NICOLA LOMBARDI - MADRE NERA di Danilo Arona p. 4LUCIANO MONTANARI - GLI ULTIMI LUOGHI DOVE... di Emilio Diedo p. 5LUCIO SCARDINO - L’ALBUM POMPOSIANO, PIETRA... di Daniele Rossi p. 6

NARRATIVAUN GIORNO DI VITTORIA di Leda Maccaferri p. 7DDOING di Francesco Ottanà p. 8E SE FOSSE ANDATA COSÌ?... di Amedea Esposito p. 9L’ISNARDA di Stefano Muroni p. 10

LETTERATURAIL BARONE VINCENZO AMARELLI VISITA FERRARA di Giuseppe Inzerillo p. 13UN CELEBRE APOCRIFO: LE VEGLIE DI TASSO... di Sandro Ferranti p. 15

OLTRE LA POESIAVIDEOPOESIA: L’INNOVATIVO MODO DI COMUNICARE... di Stefano Caranti p. 18

UMORISMOUMORISMO ED ENIGMISTICA di Francesco Benazzi p. 19

POESIAPRIMATTORI NELLA NOTTE di Corrado Guzzon NULLA HO PERSO di Nicoletta ZucchiniSOLITUDINI – DICEMBRE di Antonio Breveglieri pag. 20E POI... di Gabriella BragliaVAGHI UGGIOLII – FANTASIE TRA IL VERDE di Marco Vaccari pag. 21IL RE DEI FIORI di Luca GrigoliFONTANA DELLA MUSICA di Raimondo GalanteUN AMORE di Mara Novelli IMPRESSIONE di Valentino Tartari pag. 22IL COLORE DELL’ACQUA di Maria Teresa MentrelliCADONO LE FOGLIE di Anna Maria Boldrini pag. 23LA NEBBIA di Renato VeronesiPIOGGIA di Maria BigazziNOVEMBRE di Emilia Manzoli PER MAMMA di Antonio Di Paola p. 24

TRADUZIONITU – IL COMMENTO di Matteo Bianchi p. 25

AL DIALÈTSUL DIALETTOA TITI LIVIO, CULTORE DEL DIALETTO di Francesco Benazzi p. 26

MEMORANDUMAPPUNTAMENTI CON LA CULTURA p. 27

l’IPPOGRIFOBimestrale di Lettere e Cultura dell’Associazione GRUPPO SCRITTORI FERRARESIRegistrato al n. 3 del 2000 nel Registro Stampa di Ferrara - Numero Trentatré

ASSOCIAZIONEGRUPPO SCRITTORI FERRARESI

via Mazzini, 47 - 44121 FerraraSegreteria:

martedì 10,30-12,00 - venerdì 15,30-17,00tel. 339 6556266

[email protected]

PRESIDENTEGianna Vancini

DIRETTORE RESPONSABILERiccardo Roversi

COORDINAMENTO E CURA EDITORIALEEmilio Diedo

Luciano MontanariGianna Vancini

COMITATO EDITORIALE

Nicola LombardiAlessandro Moretti

Gina NaliniEleonora Rossi

PROGETTAZIONE E REALIZZAZIONE GRAFICA

Piera Pregrasso([email protected])

TIPOGRAFIA & STAMPATipolitografia SIVIERI

- Ferrara -

L’IPPOGRIFO È DISEGNATO DAVito Tumiati

L’apparato iconografico in questo numeroè di Carla Sautto

EDITORIALE

La rivista l’Ippogrifo, nata comebimestrale di Lettere e Cultura,per ragioni economiche, da qual-che anno esce ogni tre mesi.Questo n. 33 copre un lungovuoto temporale (aprile-settem-bre) che evidenzia chiaramente ledifficoltà che un’associazioneincontra a pubblicare quandoviene meno il sostegno economi-co di uno sponsor, nel momentoin cui la Cultura, a tutti i livelli,viene penalizzata. Nel nostro ca-so, per di più, ciò accade nellacittà di Ariosto e Tasso, per trala-sciare Boiardo ed altri illustrinomi della letteratura fino ai con-temporanei più noti.Se il n. 33 offre ai lettori, ancorauna volta, inediti dai temi piùvari è puramente grazie all’AU-TOFINANZIAMENTO dei Socidel Gruppo Scrittori Ferraresi.Potrà il n. 33 avere un seguito?Affido la risposta alla sensibilitàdelle istituzioni locali, perché farmorire dopo 14 anni una rivistaletteraria, che è lo specchio dellaproduzione ferrarese, a me sem-bra un fatto culturale assai grave.

Gianna Vancini

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CLAUDIO CAZZOLA

L’ENIGMA DI OMEROdi Emilio Diedo

Claudio Cazzola, insegnante liceale digreco e latino, ora collaboratore pressoil Dipartimento di Studi Umanistici del-l’ateneo ferrarese, è, come lo si può age-volmente evincere, lo studioso più adat-to ad un’analisi come questa, egregia-mente sostenuta dal titolo dell’opera inquestione.«Se è impresa ardua scovare il nome delcalzolaio che ha cucito l’otre dei venti diEolo, ancora più disperato si presenta iltentativo di offrire una bibliografiacompleta concernente l’argomento diquesto volume», così esordisce, in chiusura, nella suanota appunto bibliografica (cfr. p. 159) l’autore. Maper lui questo tipo di cimento dev’essere stato pres-sappoco un giochetto da ragazzo. Di questo ne sonoconvinto, conoscendolo bene. Talmente vasta ne è lacompetenza in materia. E quando si tratti di prepara-zione, be’, è cosa altrettanto ottimale ed altrettantoscontata. Cazzola si (e ci) scaraventa ex abrùpto, senza tantipreamboli (nessun cenno a superflue note introdutti-ve o ad altre pantomime del genere – la fattispeciedel costrutto si percepisce da sé!) nel vissuto d’unarealtà ormai abbondantemente superata sul pianocronologico della Storia, ma tutt’altro che superatasu quello, sempre intelligibilmente attuale del sape-re. Iniziando sostanzialmente un percorso, in tre suc-cosi e non meno appetibili capitoli, che, nel pragma-tico disvelarsi dell’enigma finalizzato all’uso del let-tore, come quel famoso nonché analogamente mitico“filo d’Arianna”, interroga un redivivo Omero, tra-mite esemplificativi ed alquanto significativi, sia sulpiano della verisimiglianza che su quello oppostodell’epos, squarci di narrazione compenetrata in unainvogliante saggistica. Non è certo Omero che parla. Piuttosto, del miticocantore ne emergono mille ammaglianti sirene, estra-polate negli interstizi d’un polveroso ma indimenti-cato tra-passato, che coincidono con la rievocazionedi puntuali (almeno nelle aspettative teleologichedella pubblicazione) messinscene i cui protagonistisono solamente gli ipotetici, vari Omero, che hanno,nei successivi secoli, dato differenti identità al mede-simo (cosiddetta “questione omerica”). Si dice che il rapsodo Omero assommi in sé ben setteidentità, se mai sia davvero esistito un solo, autenti-co Omero, tradizionalmente riconosciuto come men-dicante addirittura cieco, in base ad una larga collo-cazione che scorre dall’VIII al IX secolo a.C.. Un per-sonaggio che, spaziando nell’invenzione, dall’appe-na probabile reale esistenza fisica, arriva a sviluppa-re una serie d’ulteriori, altrettanto probabilistiche,identità. Sette, com’è risaputo che siano. Sette s’in-tenderebbe che fossero anche le città che ne vantanoi natali: Argo, Atene, Chio, Colofone, Pilo, Smirne,

Cuma o, alternativamente, Itaca (p. 34).Se si dovesse guardare alla versione delNovissimo Melzi – scientifico, s’indiche-rebbero Smirne, Rodi, Colofone, Sala-mina, Chio, Argo ed Atene. Sempre set-te sarebbero, in ogni caso avvallando lapreziosità di quel numero sette. A porsi un paio di domande circa lacecità di Omero ed il numero delle suetante vite, alla seconda bisognerebberispondere che, come i gatti, visti anchedagli Egizi quale forte richiamo religio-so e magico, le sette vite potrebbero

implicare la latitudine da attribuire quanto meno allatradizione della poesia greca. Per rispondere allaprima domanda invece occorre affidarsi all’abbina-mento “cecità-saggezza”, che di Omero ne farebbel’ideale, eloquente cultore del sapere di quell’epoca.E non solo! Perché è un sapere che si tramanda nellastoria. Tra la sua produzione di certo c’è che almeno duepoemi, Iliade ed Odissea, grandissime, immortaliopere epiche, siano a lui attribuibili… sempre conbeneficio d’inventario, ammesso cioè che almeno unautentico Omero sia davvero esistito. Sta di fatto chesono opere tuttora nella mente di tutti. Si può peraltro dire, a completamento del pathos cheil titolo suscita, che in verità L’enigma non è da inten-dersi in maniera univoca bensì duplice. Proprio l’e-sergo posto nella primissima pagina, subito dopo lacopertina, ci indica una pista che, pur non essendoapparente, in quanto, lo ripeto, ha un concreto riferi-mento, ma non è quello principale, pieno, che l’ope-ra vuole sottolineare, mette al fruitore la prima, im-mediata, comoda sensazione d’avere esaurito, quan-to a compenetrazione argomentativa di fondo, ilsignificato del libro. Nella geniale e stimolante trova-ta di due versi («”Ciò che catturammo lo abbiamo getta-to, / ciò che non prendemmo lo portammo con noi”»), perla sviante chimera del suo singolare significante, ilquale significato, sibillino come non mai, circoscrittoalle pp. 157 e 158, individua la soluzione nelle pulciinfestanti il corpo umano, sta l’incipiente, straordina-ria forza dell’abile destreggiarsi tra le righe di Caz-zola, che si fa arguto narratore vestendo i panni del-l’esaustivo saggista. Detto enigma fu tale e, semprestando al una certa mitologia, fatale allo stessoOmero: a causa d’esso, si pensa possa essere decedu-to, per non essere riuscito a decifrarlo, lui uomo sag-gio per eccellenza, che tra l’altro scrisse, nella secon-da metà dell’Odissea proprio sul pitocco (p. 158).Inoltre, e non poteva essere diversamente, quest’ope-ra è latrice d’un esauriente insegnamento delle tecni-che e delle correlative strutture della poesia classica,teatrale e dialogica, saliente caratteristica della greci-tà.

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NICOLA LOMBARDI

MADRE NERAdi Danilo Arona

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Il mitologema della Madre Terribileabbonda tanto in letteratura quanto alcinema, trovando una clamorosa spon-da “mitografica” e speculare nella cro-naca nera con quel triste repertorio dipsicopatologia al femminile che in unatroppo facile semplificazione giornali-stica è stato chiamato “Baby Blues”.Nel grumo multimediale si va dallaMadre di tutte le Madri Norma Bates(da Psyco di Robert Bloch) alla MaterTerribilis di Valerio Evangelisti, tran-sitando per la triade alchemica desuntada Thomas De Quincey e immortalatada Dario Argento nella trilogia delle Tre Madri, senzadimenticarci dell’ossessionata quanto ossessionanteMargareth White (da Carrie di Stephen King) e ditante serial mom del cinema americano.Per quanto si stia parlando di horror, il contraltareantropologico risuona dalla cronaca troppo spesso ein modo sincronico: ovvero, molte donne, giovanissi-me o non più tali, si trasformano in Medea o in qual-che altra Dea Oscura. E così può capitare, come capi-ta da tempo, che scrittori e registi di rango scelganosempre più spesso di confrontarsi con quell’OmbraMaterna, compagna implacabile destinata a rammen-tarci sempre che vita e nascita vanno di pari passo conmorte e distruzione. Ed eccoci, con la logica delle stra-de obbligate, a un capolinea che potrebbe svelarsicome nuovo punto di partenza: la Madre Nera diNicola Lombardi.Nicola è di terra emiliano-romagnola, patria di quelGotico Padano così sdoganato da Pupi Avati dovesono nati quei pezzi da 90 della letteratura di tensio-ne che si chiamano Baldini, Lucarelli, Nerozzi e tantialtri ancora. La scuola romagnola, oltre all’innatotalento, vanta una location quanto mai congrua e sug-gestiva. È il loro Maine: la bassa, la nebbia, il folclore.È in queste campagne che Nicola ha ambientato unodei capolavori della narrativa horror degli ultimianni, I ragni zingari (2010). Ma se I ragni zingari procu-rava notti insonni, Madre nera inchioda al posto di let-tura, anche se è giorno fatto e splende il sole.Nell’ovvio precetto di chi scrive, è risaputo doverequello di non svelare giochi né passaggi della trama.Ma qualcosa si può e si deve dire. Primo, che Nicola,con un meccanismo sottile e niente affatto scontato,sovverte in maniera positiva più di una regola, proce-dendo per sottrazione quasi alchemica dalla deflagra-zione iniziale a un azzeramento fenomenico che risul-ta ben più tagliente ed efficace di scontate scene-shock. Poi, che gli ingredienti tipici del genere (bam-bini, boschi misteriosi, la fusion perfetta tra cronaca eapproccio fantastico, i posti segreti, i poteri paranor-mali, la metafora dello scrittore horror, i flashback e i

flashforward, il passato che ritorna) cisono e il piatto è perfettamente dosato, enon abusato. Infine, che il tòpos del“buco nel tempo”, che in molti intendo-no coralmente attribuire a King, ma chefa parte invece della letteratura toutcourt – quello di un’antica estate iniziati-ca e spesso così orribile dall’essersi“nascosta” nell’inconscio – qui risplendedi luce propria, nonostante la presenzanella storia del genere di altre estati indi-menticabili e letali. Perché pochi comeLombardi sono in grado di rinnovare latradizione di un genere autoreferenziale

quale l’horror.L’Archetipo, infine. Al pari dell’Uomo Nero – ormaiceleberrimo e dilagante per merito di King, Carpentere di tanto cinema recente, la Donna Nera è fonte diambivalenza: da un lato attrae e/o seduce, dall’altroincarna aspetti mostruosi e disgustosi. La Madre pro-posta da Nicola è, sotto l’aspetto dell’epistemologiadelle paure infantili, un Babau perfetto. Incarna untrauma primario non superato e ritorna nella vitaadulta in forme fobiche, psicotiche, oniriche quandonon “materializzate”, influenzando in modo pesante-mente negativo le virtuali strutturazioni delle perso-nalità di alcuni protagonisti. Costretti a seguire laLupa Cattiva in un mondo ctonio e sotterraneo con lagaranzia di non poterne mai uscire con la mente e conlo spirito. La Madre Nera è tutto ciò che interiormen-te non è per nulla benevolo, pietoso ed empatico, edispone veli su veli sopra la presenza di pulsionimortifere e abissali. Ed è interessantissimo a questoriguardo il viaggio iniziatico del protagonista diMadre nera nel mistero trascorso della Madre e del suoLuogo di Elezione, che lo porterà ad acquisire consa-pevolezza di sé così da capire e realizzare lo scopodella propria esistenza e della sua solitaria missionedi scrittore, quello di elargire “racconti che nonmuoiono mai”.Buona paura!

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Questi sedici racconti, ennesima pubbli-cazione di Luciano Montanari, appog-giata da ben sette ditte ferraresi, allequali il ringraziamento è esternato nellaseconda aletta di copertina, non sorpren-dono affatto quanto a capacità linguisti-ca e descrittiva. La fama scrittoria del-l’autore è pienamente collaudata. Ma,d’acchito, ci si potrebbe trovare spiazza-ti per l’inatteso cimento nella formabreve del raccontare. Brevità che, percirca una metà dei contestuali racconti, èquanto mai palese, in forza d’una sintesiespressa in non più di tre pagine. Lo stesso eponimoracconto ne sfrutta addirittura solo due. E qualora ci sidiscosti da una siffatta performance, non si giungecomunque al superamento delle sei pagine. Va doverosamente aggiunto che si tratta d’una strin-gatezza sempre esaustiva, che non abbisogna in nes-sun caso d’un debordamento dall’intreccio da partedella mente del lettore, il quale riesce ogni volta a farsua l’esatta scaturigine che smuove l’intenzione e lapuntuale realizzazione narrativa degli individui per-sonaggi. Marionette che, a loro volta, si muovono sulpalco d’una realistica (nel senso di non dissimile anchequalora siano narrati accadimenti solamente potenzia-li) teatralità. Si parlava poc’anzi di “spiazzamento”. Perché, in effet-ti, Luciano Montanari ha abituato il suo pubblico, ormaida un settennio, per una produzione d’almeno quattroromanzi, ad una dimensione narrativa medio-lunga (Lasconfitta, 2005; Cecilia a Ferrara, 2006; Il velo dell’illusione,2007; Una triste felicità, 2010). Si sottolinea, aprendo una legittima parentesi, che ilnostro autore ha pubblicato ancora tante altre opereletterarie che spaziano dal teatro alla poesia (dialettaleo in lingua per entrambe le proposte) e che anche nelromanzo egli non denota propensione al prolisso bensìuna tenuta appena, ma comunque sufficientemente,demarcante tali tipologie, a parte la poesia, la cuiampiezza d’impaginazione ha poco significato. Comepure non si dovrebbe scordare che proprio con la for-ma breve o semibreve delle Novelle francesi, già nel2003 egli esordì. È d’altronde risaputo come la norma-lità d’un narratore stia nel progressivo transitare dauno scrivere sobrio e condensato ad uno scrivere viavia più sofisticatamente articolato e complesso. Tuttavia non è da escludere che, una volta imboccatala strada del romanzo, uno scrittore non possa ritorna-re sui suoi primi passi, prediligendo una forma spessopiù incisiva, più appagante, che sia sostanzialmentemeno impegnativa nello scrivere. Anche perché, nellemore di un estenuante impegno dedito al romanzo,non è detto che il medesimo scrittore non si possa sbiz-zarrire nella completezza di fulminei eventi scritturalifondanti il racconto. Dato incontrovertibile, fattuale, ci

fornisce la nutrita casistica di remotapoietica, per cui taluni brevi elaborati,pensati anche in epoca giovanile o in ognimodo in periodi lontani e/o diversivirispetto ad altri di creatività romanzesca,possano essere stati accantonati comes’usa dire “in un cassetto”. Ed è naturaleche, prima o poi, si possa pensare di rive-derne sia la forma sia la trama, per darnealle stampe appunto una pubblicazioneche possa essere giudicata, solo apparen-temente, sui generis. Ecco, credo che siasuccesso qualcosa d’analogo a Luciano

Montanari. Perciò nessuna sorpresa dovrebbe giustap-punto suscitare quest’ultima pubblicazione… ma almassimo, come s’è anticipato, un leggero senso dispiazzamento.La passione nutrita nei confronti del classicismo fran-cese, unita a quella del melomane, da sempre dichia-rate dal Montanari, sono anche qui evidenziate senzaindugi o sotterfugi di sorta. E, proprio per questa inte-riore motivazione dell’autore, poteva forse mancare ilsimbolico esergo di Émile Zola? Aggiungo poi che il titolo del libro, peraltro ben in sin-tonia con la foto di copertina, emula, con più defilatodécalage, un luogo molto caro alla letteratura di Zola:l’osteria, recuperando l’immediata realizzazione delsuo celeberrimo L’Assommoir.Nell’insieme il risultato è di fatto un delizioso, calibra-to pastiche capace di far rifulgere molteplici sfaccetta-ture tanto letterarie quanto umane, nell’abbozzaturatalvolta di caricature, genuine e nel contempo origina-li. Soprattutto è la filosofia dell’esistenza, trafitta dalleimpellenti, contingenti, talora paradossali ma nondi-meno effettuali, cogenze che, nelle sue variabilisequenze ed apparenze (dicendola col pirandellianopiglio che meglio connota l’innata affezione delMontanari per l’Autore siciliano), quotidianamentecostellano l’umano cammino.Quanto pesi e come sia bilanciata la vita terrena nell’e-sistenza della persona umana lo si evince, brano abrano, nello sfoglio delle variegate (e purtuttavia, pre-cisamente nell’altra, opposta direzione che induce allameditazione d’una onnicomprensiva filosofia ricondu-cibile all’unum, omogenee) letture. È una danza enplein air interpretata nell’intermittenza della metaforacondensata a sua volta nella continuità-discontinuitàtra tempo e spazio. Essere e non-essere si scontrano esi combinano nel momento della disaggregazione deisentimenti, dei ripensamenti, delle illusioni o delle fasioniriche, siano esse parte d’un alienante sonno o d’unaconturbante analisi meditativa (“La fuga di Dario”;“Un vento dagli accenti amari”, «un vento inventatoda un poeta?»; “Marianna”; “Villa Alba” che, circo-scritta in un’oasi di cielo, considerata la medesimaparola secondo l’etimologia greca, «si cancellava, per-

LUCIANO MONTANARI

GLI ULTIMI LUOGHI DOVE ANCORASI PARLA E ALTRI RACCONTI

di Emilio Diedo

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deva il suo potere»; “La camelia”, altra reminiscenzadel classicismo francese di Dumas; “Lacrime d’argen-to”; “L’incatenamento delle cause”; “Lo specchio”;nonché il verdiano refrain “Quando la mia giornata ègiunta a sera”. Laddove gli altri, non menzionati, racconti coltivanoun più concreto culto della vita, aperto al ‘tutto-può-

accadere’, a partire dall’imprevedibile e giungendoalla simmetrica sponda dell’ineludibile.Sedici racconti, in ultima, sommaria analisi, esplicati-vi d’altrettanti avvincenti romanzi. E, in definitiva,credo che ciò sia tutto dire!

«È stato un lavoro di ricerca intenso eprolungato nel tempo - ha dichiaratoLucio Scardino, il letterato ferrarese estorico dell’arte che ha pubblicato conla sua casa editrice Liberty houseAlbum pomposiano. Iconografia dell’Abba-zia di Pomposa da metà Ottocento ad oggi– e che ha ricevuto un impulso decisivonel corso di una conferenza tenutanella primavera del 2011 presso ilPalazzo del Vescovo di Codigoro nelquadro delle iniziative della Universitàdel Tempo Libero». In quella occasioneScardino parlò della Abbazia di Pomposa nell’arte del’900: quadri, disegni e ceramiche, proponendo conte-stualmente anche alcuni esempi concreti delle realiz-zazioni artistiche con tema pomposiano, da due cera-miche faentine a tre incisioni della Occari. Dal volume è nata una mostra “didattica” che portalo stesso titolo, organizzata tra settembre e ottobre2013 in una sala del Palazzo della Ragione dallaParrocchia di S. Maria Assunta di Pomposa, con ilpatrocinio della Direzione Ragionale per i BeniCulturali e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna. Nel libro-catalogo sono presenti trentasei immaginidi vedute pomposiane con eccellenti schede descrit-tive e critiche, nonchè un esaustivo saggio dell’auto-re che documenta la presenza della abbazia codigo-rese nelle arti figurative, nella letteratura, nella musi-ca e nel cinema nell’ultimo secolo e mezzo. Molto sti-molante è anche la prefazione di Corinna Mezzetti,funzionaria dell’Archivio Storico Comunale diFerrara e che si appresta a pubblicare i documentipiù antichi dell’Abbazia, risalenti al Mille, epoca incui vi operarono il famoso musico Guido Monaco eSan Guido degli Strambiati. Vi sono inoltre ripubbli-cate una poesia di Corrado Govoni (già apparsa sulla

“Strenna della Ferrariae Decus”) e unabellissima novella (1922) del comme-diografo Luigi Antonelli, entrambededicate a Pomposa.La interessante mostra esposta al primopiano, sopra la biglietteria del monu-mento romanico, attraverso grandipannelli plastificati ha illustrato algrande pubblico le migliori immaginidella produzione artistica che hannoavuto per oggetto l’abbazia di Pompo-sa. Tra queste, opere di Bigioli, Miglia-ri, Tommasi, Fontana, Laurenti, Previa-

ti, Martelli, Crema, Nardi, De Pisis, Quilici, Capuzzo,Piccoli, Gardellini, Piva, Brindisi, Torresi, Farinella,Lunghini. La mostra si conclude con due recentissi-mi interni pomposiani, opera dei pittori Crociara eFerrari, il primo dei quali eseguito in occasione del950° centenario del campanile della chiesa, ricorren-za che ha stimolato l’edizione del libro-catalogodello Scardino. La manifestazione è stata organizzata dalla Associa-zione Pomposa Eventi (A.P.E.), con il contributodella Parrocchia Santa Maria Assunta in Cielo diPomposa. La mostra è già stata richiesta da un paiodi altre località legate alla storia della millenariaabbazia: e se son rose fioriranno…

LUCIO SCARDINO

L’ALBUM POMPOSIANOPIETRA MILIARE NELLA RICERCA

ICONOGRAFICA SULLAABBAZIA DI POMPOSA

di Daniele Rossi

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Francesco aveva vinto e ritornava in città con la suabella corona d’alloro in testa.La notizia era rimbalzata di bocca in bocca, di villag-gio in villaggio e, ancor prima che il messaggio fossea palazzo, già tutta Mantova lo sapeva e gruppi digiovani cantando invadevano le strade e sventolava-no le bandiere.Aveva vinto! Un’impresa davvero temeraria consi-derando gli avversari. Dal balcone, sotto il rosso bal-dacchino, dove le più celebri donne di Roma china-vano le belle chiome verso la piazza, il papa guarda-va allibito Cesare perdere la corsa mangiando polve-re dietro gli snelli zoccoli del nero stallone delGonzaga. Una vittoria inaspettata che tutta Romaguardava ora con sospetto e timore perché, se pur sitrattava solo di una gara, già brillavano stiletti espade tra i facinorosi spagnoli e gli opposti sosteni-tori di Francesco.La vittoria era stata una follia. Il Mantovano avevaavuto la sfacciata baldanza di un novellino che nonsa a quale guaio va incontro. Ma, ecco: sceso dallasella del suo cavallo, bagnato di sudore ma sorriden-te e lieto, Francesco tendeva la mano a Cesare chenon poteva non stringerla. Sul volto arrogante delgiovane porporato si leggeva tutta l’ira e la rabbiaper la palese, inattesa sconfitta ricevuta; dunque, nonsi potevano imbracciare le armi anche perché ilGonzaga gli porgeva le redini del suo lucente caval-lo pregandolo con gesto cavalleresco di accettarlo indono. Non sarebbero toccate al Borgia le terre inpalio ma “tutto il mondo” riprendeva fiato. Tutto siera risolto e risplendeva il sole su Roma.Francesco era in viaggio per rientrare a Mantova eIsabella incitava i valletti, i servi e le sue dame a rice-verlo degnamente. Felice già per i bei cartoni delMantegna, ricevuti in mattinata, ora dava gli ordiniper imbandire la tavola che doveva essere ricca diargenti e porcellane, di pizzi e di cristalli.Si fermavano davanti alle cucine, sul retro del palaz-zo, i carri dei contadini stracolmi di verdure e di pol-lame. Si rincorrevano nell’aria chiara le voci dei ban-ditori e degli artigiani, dei musici e dei piccoli com-mercianti mentre burattinai e banditori si preparava-no per lo spettacolo serale.Senza alcun dubbio sarebbe arrivato in serataFrancesco con il suo seguito. Si diceva che Lucreziaavesse approfittato di quel viaggio, pur se scomodo,per venire a salutare Isabella e avesse occupato conle donzelle tutto il carro. Non era questa una buonanotizia per la nobile signora ma l’Ariosto che laseguiva per le belle stanze tanto riccamente istoriate,non aveva che parole di lode per lei. Isabella si com-piaceva guardandosi allo specchio per la sua nuovapettinatura a riccioli sotto l’altra cuffia splendente digemme. E l’abito? Solo le migliori tessitrici diMantova riuscivano a lavorare così: fili d’oro e di

perle per un tessuto a broccatello moro impreziositodi ricami di fiori e note musicali. Dunque, perchéfarsi l’animo cattivo?!Che venisse pure la Borgia… avrebbe visto lo splen-dore della sua corte, ascoltato i canti dell’OrlandoFurioso, assaggiato le delizie dei suoi cuochi e nulla,nulla al mondo avrebbe potuto in quei giorni super-bi rannuvolare la sua mente. In fondo al cuore pre-gustava già, dopo quella del consorte, una seconda,personale vittoria.Purtroppo per i mantovani era notte fonda e ormaitutti dormivano tranquilli, quando Francesco arrivòcon il suo seguito. All’indomani, dunque, la grandefesta ma, intanto, Isabella fresca e profumata comeuna rosa, con le sue dame al seguito, scendeva dallescale verso il consorte e lo abbracciava. Solo unarapido saluto a Lucrezia, stanca e insonnolita, con ilvolto smunto e i capelli arruffati.Per lei e Francesco si spalancavano le porte dellesegrete stanze, dove solo le loro parole potevanointrecciarsi con i loro sguardi, lasciandosi fuori criti-che, pericoli, ripicche, invidie.Il loro mondo era lì, era dietro i vetri della loro fine-stra: era Mantova e le stelle brillavano chiare e bellesu nel cielo.

UN GIORNO DI VITTORIA

di Leda Maccaferri

Carla Sautto, Leo, ottobre 2002

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DDOINGdi Francesco Ottanà

Erano due persone vecchie, marito e moglie, che nondicevano mai la loro età a nessuno, o per vezzo o perscaramanzia o, forse, perché non la conoscevano ne-anche loro stessi. Sicuramente erano ben oltre i novanta anni. Erano sopravvissuti ai figli e rifiutavano qualsiasiaiuto gli venisse offerto, anche quello dei nipoti, congentile fastidio ma in maniera ferma, dal momentoche erano ancora bene in grado di gestire la loro vitain maniera indipendente. Oltre all’età forse non ricordavano neanche i loronomi di battesimo. Tutti, compresi i nipoti, li chia-mavano Zitumeu e Zitamea, tralasciando addirittu-ra il Don e il Donna che gli sarebbe toccato per dirit-to di età e di rispetto.Erano nati in due casupole attaccate l’una all’altra dasembrare una sola, lo stesso giorno e la stessa ora. Igenitori, naturalmente, erano compari e ogni cosa lafacevano insieme. Così il giorno dei battesimi, intanto che festeggiava-no davanti a qualche fiasco di quello buono tenutoda parte per gli avvenimenti importanti, il padre del-la bambina in un momento di euforia, prendendoliin braccio tutti e due, disse: “Compare, questi due lidobbiamo fare ‘ziti’ (1)E siccome su queste cose non si scherza anche sedette per dire, il compare approvò: “Compare, se voi mi concedete questo onore io viringrazio e brindo alla salute degli ‘ziti’, e così deveessere”. E tutti, madri, fratelli, nonni, zii, cugini e amici ap-provarono con sonori brindisi e manate sulle spalle.I due bambini crebbero giocando insieme fino a chefu lecito giocare, poi a lavorare nei campi. Di scuolanon se ne parlava anche perché scuola non ce ne era.Furono educati a considerarsi ‘ziti’, anche se noncapivano esattamente cosa significasse se non chedovevano stare sempre insieme. E si chiamavano l’un l’altra Zitumeu e Zitamea (2),come in un gioco che li faceva divertire e sentire im-portanti.Quando arrivò il tempo giusto per farli sposare furo-no convocati davanti alle due famiglie in seduta ple-naria e le due nonne li iniziarono alle cose della vita.Ascoltarono compunti e silenziosi e non dissero chec’era bisogno di tante storie, tanto avevano visto siacome facevano le bestie, sia tanti compari e comma-ri rotolarsi nei pagliai. E non dissero, guai, che ancheloro si erano rotolati nel pagliaio. Nella stessa seduta fu concordata la fujtina. Nonsembri strano, le famiglie erano d’accordo su tutto enon c’erano contrasti di nessun genere, la fujtina ser-viva a sollevare dalle spese di una cerimonia nun-ziale che non potevano sopportare e quindi per nonperdere la faccia. I due ragazzi non avevano saputo resistere ancoradopo tanti anni passati come fratello e sorella, disse-

ro, e gli avevano fatto quel torto, mah, bisognavacapirli, il sangue è sangue.La fujtina non fu per nulla eroica, si concluse un unacasetta ai margini del paese, a pochi metri di distan-za, e lì vissero per poco in pace, fino a che due cara-binieri non vennero a prelevare Zitumeu per portar-lo alla guerra.Fu un periodo brutto e difficile. L’unico di lontanan-za in tutta la vita. Il fatto di non saper leggere e scri-vere li rendeva ancora più lontani e incapaci di com-prendere quello che accadeva. Ma furono capaci diresistere e quando si ritrovarono si accorsero di esse-re più innamorati di prima. E continuarono a volersi sempre più bene.E tuttora continuavano a condividere il fiato, come sidice, sempre insieme, sempre pieni di premure reci-proche e di manifestazioni di affetto e di amore,incuranti delle critiche della gente che giudicavatutto questo disdicevole in persone così vecchie.Una sera, mentre Zitumeu era già andato a letto,Zitamea finì di rigovernare la cucina e diede l’ultimaspazzatina prima di andare a dormire anche lei.E si addormentò, per sempre, serenamente, sorri-dendo, senza dare fastidio a nessuno.Zitumeu sembrò non capire cosa era successo. Comeal solito non la lasciò sola, andò al funerale, poiapparecchiò la tavola per due come faceva tutti igiorni e di fronte ai piatti vuoti le parlava e sembra-va sentire le sue risposte. Non volle nessuno in casa. Andò a letto alla solita orae guardò sbadatamente la fotografia di Zitameadavanti alla quale il nipote aveva acceso una candela.La fiammella ad un tratto cominciò a contorcersi etremolare e Zitumeu sentì lievi aliti di aria freddapassargli addosso. Intanto dalla cucina venivanodegli scricchiolii e dei rumori come se qualcuno stes-se rigovernando e spazzando. “Sei tu, Zitamea?”Non ci fu alcuna risposta ma solo i rumori dalla cuci-na.“Capisco, non puoi parlare, allora facciamo così, un

colpo è si, due colpi è no. Va bene?”“Ddoing.”Intanto la fiammella continuava a tremolare e aliti

freddi entravano nella stanza.“Perché stai qui? ti ho fatto qualche torto?”La risposta fu veloce e molto sonora, due chiari eargentini ddoing, ddoing.“Vuoi stare con me, per questo non vai via?”“Ddoing.”“Siamo nati insieme, siamo stati sempre insieme e tuvuoi che restiamo ancora insieme. Ma come faccia-mo? Tu puoi tornare? Anch’io una volta sono anda-to via, capitò al tempo della guerra, ti ricordi, io par-tii ma poi sono tornato.”Poi capì, “Io devo venire da te per ritrovarci. Tu nonpuoi tornare.”

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“Ddoing.”“Ma io ho paura, Zitamea, tu sei morta e io ho pauradella morte.”“Ddoing, ddoing.”“Non devo avere paura?“Ddoing, ddoing.”“Allora se per stare per sempre insieme a te devomorire, morire non è brutto.”“Ddoing.”“Allora eccomi.”Quando lo trovarono ancora a letto, il dottore disseche aveva sulla faccia la smorfia dell’ictus, ma lecommari che ne sapevano più del dottore disseroinvece che era un beato sorriso.E nessuno fece caso alla finestra della cucina cheaperta dal vento nella notte, cigolava sbattendo. E

nessuno fece caso alle folate di vento freddo cheentravano dalla finestra, muovevano le cose dellacucina, si intrufolavano in casa e facevano tremolarela fiammella della candela. E nessuno fece casoall’innaffiatoio che appeso ad una corda dondolavaspinto dal vento sbattendo sulla lamiera del casottodel giardino. Ddoing.

(1) ziti = fidanzati(2) zitumeu, zitamea = fidanzato mio, fidanzata mia

E SE FOSSE ANDATA COSÌ?...di Amedea Esposito

Raggio-di-Sole e Mezza Penna si sedettero a gambeincrociate davanti al grande capo Alce-che-Corre,insistendo: “Su, nonno, raccontaci la storia del nostroantenato strambo”… Il grande capo riempì con calma la sua pipa, diedeuna tirata, borbottò un poco e schiarendosi la voceincominciò: “Voi sapete che abbiamo avuto in fami-glia un parente un poco strampalato, ma molto cu-rioso e simpatico, Bisonte Pazzo. Un giorno, guar-dando il fiume che scorreva vicino all’accampamen-to della sua tribù, incominciò a chiedersi dove finis-se tutta quell’acqua. Allora decise di scoprirlo e seguìil corso del fiume. Fu un percorso lungo e faticoso,ma finalmente vide… A questo punto Alce-che-Corre fece una sosta, inapparenza per dare una tiratina alla sua pipa, ma inrealtà per sbirciare i visi dei suoi nipotini, tesi e inte-ressati. “Su, nonno” azzardò Mezza Penna. Il grande capo riprese con flemma: “Vide… vide… ilmare..” e allargò le braccia smisuratamente. “Il mare? E cos’è?” chiese perplessa Raggio-di-Sole. “Il mare è grande, grandissimo, una distesa d’acquasenza fine… qui si gettava il fiume”. “E il mare dove finiva?” chiese Mezza Penna. “È proprio quello che si domandò Bisonte Pazzo… eper scoprirlo pensò di costruire una grande barca,molto più grande di una canoa. Ci mise del tempo,ma fortunatamente alcuni amici della sua tribù sta-bilirono di aiutarlo e di seguirlo nell’impresa per sco-prire dove finisse il mare. Partì con i suoi marinai (sichiamano così le persone che lavorano a contatto colmare). Il viaggio fu lungo, lunghissimo, l’acqua in-torno sembrava non esaurirsi mai. I marinai eranostanchi ed arrabbiati. Finchè un giorno uno di loro

avvistò dei rami e dei tronchi; il che significava chenon lontano vi era la terra. Infatti qualche giorno do-po giunsero su una spiaggia: era deserta e BisontePazzo, sceso dalla nave, vi piantò una freccia pren-dendone possesso in nome della sua tribù. Poco allavolta tutti scesero per scoprire dove si trovassero e fucosì che incontrarono alcuni uomini, piuttosto ridi-coli, veramente, con la pelle bianchissima e con vesti-ti coloratissimi. Alcuni avevano perfino i capelli gial-li (loro dicevano biondi, ma erano proprio gialli).Quando videro i ‘nostri’, si gettarono faccia a terra,chiedendo pietà. Bisonte Pazzo rialzò uno di loro egli domandò come si chiamasse quel posto. L’uomobianco tremando balbettò: “E-u-ro-pa” più volte.Quindi Bisonte Pazzo capì di avere scoperto unaterra sconosciuta: l’Europa!Fu in quel momento che Alce-che-Corre si rese contoche la pipa si era spenta e soprattutto che la serastava calando. Guardò i visi trasognati dei nipotini eun impercettibile sorriso gli si stampò sulle labbra.“Andiamo, è tardi, proseguiremo il racconto un’altravolta”. A nulla valsero le proteste dei bambini, il grandecapo aveva deciso. AUGH!!

(1° parte)

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Racconto estivo, scritto il 5 agosto 2012, a casa mia, in cucina, a Final di Rero

Quando le cicale cantano – sì, insomma, cantano:fanno quella specie di cicaleggio – significa chesiamo in estate. Quando poi le senti da fuori – fuoridalla casa o dalla stanza in cui ti trovi – significa chefa davvero caldo. Oggi, poi, si muore. Va bene, sonouno che ha sempre sofferto il calore, fin da bambino– ricordo le estati passate a Gherardi, dai nonni edagli zii, quando, giocando a calcio con mio fratellonel prato di fronte al casolare, sotto il sole di luglio,mi si creavano delle goccioline di sudore nell’arco dipelle sopra il labbro superiore, in quel lembo dicarne dove un giorno, con un certo orgoglio, avreisfoderato i miei primi baffetti –, fin da bambino dice-vo, il caldo l’ho sempre sentito. Ma mai come que-st’anno. “Ferrara città più calda d’Europa”, scrivonoi giornali. Poi, se ti trovi non a Ferrara ma nella suaprovincia, ingabbiato da campi di grano secco, terraarida e afa – accidenti, quanta afa! – allora il caldo sifa appiccicoso e, come una tuta aderente, ti soffoca lapelle e le viscere. Quale doccia? Prova a fare unadoccia! Peggio! Te ne esci con più fuoco addosso. Aquesto siamo ridotti noi sotto-provinciali di campa-gna: a puzzare per tre mesi! Per questo oggi sono voluto uscire: “Puzza perpuzza, almeno mi faccio una sbiciclata”. Insello la bici e imbocco la strada verso Tresigallo.Ecco il solito lungo muraglione della ex Cellulosache mi accompagna fino allo spiazzo che accoglie laLanterna, albergo a tre stelle conosciuto da questeparti per i fastosi matrimoni; e via andare verso ilcentro, osservato – il sottoscritto, non il centro – adogni metro di pedalata dalle finestre delle vecchiecase operaie rosa, tutte allineate fra loro come mas-sicci soldatini stanchi. E poi il piazzale, quello dedi-cato al nostro fiume che da secoli dà acqua ai campie alle genti di queste parti, nonostante l’inquina-mento.Fa caldo, e il tempo, in questa landa desolata d’Emi-lia, fa fatica a scorrere, ad andare avanti. Appoggiola bici sotto il portico del palazzone di fronte al piaz-zale e mi siedo – ci sono tre quattro sedie, in fila, dis-ordinate, superstiti probabilmente da un filò di vec-chierelle, pronte solo ad essere inforcate –, affaticato.Non passa nessuno per la circonvallazione. Le cicale continuano a cantare, mentre quel campodi grano lontano, che scorgo appena da qui – que-st’anno non farà pannocchie, domani sarà distruttoal macero – è fermo, inebetito dal rogo.Quanta noia, qui. E quanto dolore.Solo l’Isnarda mette un po’ di compagnia. Poi miricredo: una parte del muro dell’Isnarda è totalmen-te mangiato dalle edere rampicanti e solo adesso,

alzando lo sguardo, mi accorgo che una parte deltetto – no, perché? – è crollato. Va bene che l’Isnarda è molto vecchia – questa zonaera un feudo in parte vescovile ed in parte estense,ceduto ad importanti casate ferraresi (come quelledei Turchi, o i Fontana) e poi ad appartenenti dellacomitiva di Casa d’Este (e qui, oltre ai Gualengo, aiNigrisoli e ai Macchiavelli Dalle Frutta, c’erano puregli Isnardi ) – ma un crollo di una parte di un edifi-cio del tuo paese è sempre brutto. Se penso comedoveva essere l’ambiente, qui, quando arrivarono gliIsnardi per costruirsi sta cascina: il nucleo dell’anti-ca e poverissima Tresigallo contava 61 anime dacomunicare nel 1431. Erano le famiglie disgraziatedei braccianti e degli addetti alla coltivazione e allagestione del poco terreno emerso di quel territoriovallivo che garantiva ai feudatari i proventi di cacciae pesca. “Che coraggio hanno avuto gli Isnardi – midico – a venire qua da noi”.Continua a fare caldo. E non riesco a pensare a niente. Eppure, se mi con-centro e chiudo gli occhi, vedo nitidamente le bombeche, il 16 novembre 1944, caddero a pochi metri daqui. Colpirono l’Ammasso Canapa e fecero purequalche morto. Poi, nel febbraio del ‘45, quando glialleati volevano colpire le fabbriche in attività – quida noi c’erano canapifici, zuccherifici, ammassi gra-no e canapa, industrie meccaniche; altro che sotto-provinciali! – tutta la zona del Po e di Finale fu presad’assedio, come pure la campagna dietro l’Isnarda.Beppe Sarti aveva visto tutto. E proprio in questigiorni mi raccontava delle zolle di terra trasformatein fuochi artificiali, del frastuono, delle fiamme, delcolero che si trovò davanti. Lui non stava giù, abita-va su, al secondo piano. Faceva il boaro, quelloaddetto alla manutenzione delle stalle e della buonacrescita delle vacche. Lo pagavano anche bene, midiceva. Ed era felicissimo, quando lo presero a lavo-rare lì, all’Isnarda. E non c’era da meravigliarsi:l’Isnarda, anche dopo la scomparsa della famigliaIsnardi, era stata tutto.Ai primi decenni del ‘900 fungeva perfino da luogod’incontro, all’avanguardia. In tutte le cascine delcomprensorio sì, ci si divertiva (qualche ganzega –quando il raccolto lo permetteva –, qualche fisarmo-nica, un’ocarina, se qualcuno ce l’aveva) ma all’I-snarda, nelle sere d’estate, tutte le vecchie della bor-gata si incontravano con il loro bel filarino per filareil filo della canapa, mentre facevano filò, aspettan-dolo. Ed eccolo, nelle notti di luna piena, arrivare!Perché solo con la luna piena? Questo non lo so, maquando la luna era colma, tutti i bambini – dico tutti– partivano dai rioni – chi dai Cortili, chi dal Ghettoo chi dal Pascolone, e qualcuno perfino dai Palazzi eancora più in fondo, più in là, dalla Peschiera! – peroccupare i primi posti a terra della grande stalladell’Isnarda. Verso le nove – già era buio, mica c’era

L’ISNARDAdi Stefano Muroni

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il fuso orario all’epoca, intendiamoci –, si apriva laporta, quasi fosse un sipario, con lui dietro.Indossava, ormai da sempre, pantaloni marroni, allazuava, e un camicino a quadri rossi, come una tova-glia da pic-nic. Barba folta e brizzolata – anche se ilnero stava per finire - attaccata ad una pellaccia pertroppo tempo esposta al sole e un paio d’occhialitondi come il fondo di un bicchiere sopra a quel nasomarmoreo. Temistocle, si chiamava, ma tutti lo chia-mavano Teo. Veniva dal vicino Parasacco, si diceva.E alle nove precise – con le sante cicale che iniziava-no il loro concertino notturno – Teo saliva su di unacassa di legno e incominciava a raccontare le fòle, trale più belle che si fossero mai sentite da queste parti.“Guerrino detto il Meschino” era il suo cavallo dibattaglia, che raccontava sempre nel finale. Ma lo rac-contava così bene – cambiando, ogni sera, il tonodella voce, aggiungendo sospiri e mimiche facciali,gridando alcune parole, altre volte bisbigliandole –che tutti i bambini, e dico tutti, rimanevano incanta-ti, a fauci aperte. E per una sera, questi giovanottidimenticavano – se davvero si poteva dimenticare –la fatica quotidiana sui campi, a fianco dei genitori, adiradar bietole.Continua a fare caldo.E penso che manco Rossoni è riuscito a distruggerla,l’Isnarda. Quando nel ‘35 Rossoni, al tempo ministrodi Mussolini, nativo del luogo, decise di ricostruire ilpaese trasformandolo in una cittadina industriale, lì,proprio dove c’era l’Isnarda, voleva costruire unastrada che portasse fino al paese vicino. Macchè!Stefanini, potente possidente terriero, e mica ha volu-to: “La terra è mia e ci faccio quello che voglio!”, sbot-tava, ringhiando, da sopra il balcone del suo palaz-zotto rosa settecentesco. “E io te la costruisco lo stes-so”, ringhiava il Rossoni, sbottando pure lui, da sottoil balcone del palazzotto rosa di Stefanini, quandoandava là per provare a convincerloLa strada, alla fine, l’ha poi davvero costruita ilRossoni, ma la cascina del contadino e la stalla non leha sfiorate. Forse perché, ancora negli anni ‘30, Teoraccontava le sue fòle in quella cascina e, distrugger-la, significava far insorgere un’intera borgata, tuttaquanta innamorata, ormai da decenni, del cantastoriedi Parasacco. Forse anche perché, il Rossoni, non eraproprio uno sprovveduto, non era proprio propriol’ultimo arrivato, e infatti si accorse che l’edificio siarmonizzava molto bene con il nuovo piazzale –piazzale Po, dove ora son seduto – fungendo da veraquinta scenica architettonica urbana. Ancora oggi’sta cascina ha la medesima funzione: quella di copri-re allo sguardo del pellegrino la campagna circostan-te. Tresigallo è tutto così: è una città chiusa, lo sguar-do si posa sempre, alla fine delle vie e dei viali, su unedificio. Non la vedi la campagna che sta fuori, lì lì,ad un metro. E questo succede pure con l’Isnarda. Poi, come dicevo prima, dopo Rossoni è scoppiata laguerra, Rossoni decadde e il Stefanini fece distrugge-re quella nuova strada: “Ho vinto io, porco di un dia-volo!”, si diceva, da solo, da sopra il balcone del suopalazzotto rosa. E fu qui, nel ‘40, che Stefanini chiamòBeppe Sarti ad allevare e crescere le sue mucche. E fuqui che il Beppe, aperte le finestre di camera sua, su,al secondo piano, vide al colero, come mi puntualizza-va pochi giorni fa, seduto al bar Impero, sotto gli archi

della chiesa. La Fabiana, una cascina che distava auno sputo da quella del Beppe, crollò sotto il peso diuna bomba. E per l’esplosione – e di questo il Sarti eraun testimone diretto, me lo poteva perfino giurare! –un carretto della prima guerra mondiale, adoperato altempo da Previati (il fattore di quella corte dove abi-tavano i veneti Casato) come carro per trasporto diattrezzi agricoli, volò sopra il tetto della stalla dellaFabiana.“Me la sono fatta addosso” mi ripeteva, a macchinet-ta, il Sarti, all’Impero, sotto gli archi della chiesa, ram-mentando quel febbraio del ‘45. Per lo spavento, dopoil bombardamento, per tre giorni interi le mucchedell’Isnarda avevano pianto! “Ti giuro” mu-gugnavacon gli occhi lucidi guardandomi intensamente ilBeppe. “Ho sentito per tre giorni le mie mucche, lemie povere mucche, piangere”. Passarono un po’ digiorni prima che quei manzi potessero poppare unpo’ di latte sano. Sennò solo acqua e piscio, o roba delgenere, prima di latte buono.Continua a fare caldo. E il tempo passa. E penso che il Beppe, poi, andò incittà, operaio alla Fiat. Fu messo in pensione neglianni ‘80, e lo vedevi in giro quasi ogni giorno, al barImpero, a raccontare le sue storie, prima che morisse,due giorni fa, di vecchiaia. Stefanini morì, pure lui,ma negli anni ‘50, non lasciando eredi. Il suo palaz-zotto rosa – compreso il balcone – fu demolito neglianni ‘80 – quando il Sarti andò in pensione – percostruirci sopra villette a schiera. Le sue scuderie –lunghissime come la strada di fronte – stanno oggicadendo a pezzi. Del vecchio Teo non se ne seppe piùniente. Alcuni dissero di averlo visto, subito dopo laguerra, a mendicare una mollica di pane in SanRomano, a Ferrara. Ma forse non era lui. Una partedell’Isnarda fu abitata dai Pozzati fino alla fine deglianni ‘50, ma poi più niente. Nei primi anni ‘60 – men-tre nella circonvallazione iniziavano a passare le pri-me 500 bianche – l’Isnarda fu abbandonata comple-tamente, stalla compresa. Era rimasta lì, sola, a farsi ricoprire dalle edere e adaddormentarsi, ogni sera d’estate, con il canto dellecicale, in attesa, forse, del ritorno del Teo o del Sarti. Gli anni passavano, ma lei ancora niente: non unafinestra rotta, non una tegola scoperchiata. Sembravaavesse deciso di cristallizzarsi così, come quandol’ultima famiglia c’abitò dentro. “Non vi do la soddi-sfazione di cadere giù per poi costruirmi sopra mo-derne case residenziali” pareva che pensasse, orgo-gliosa, ricordandosi di essere una naturale quintascenica del piazzale. Nemmeno il terremoto di que-st’anno l’aveva scalfitta – io stesso, dopo la secondascossa, presi la macchina per assicurami il buonostato del vecchio casolare. “Tengo duro, ma ancora per poco”, avrà detto unanotte di queste, quando nel piazzale passavano solo ifantasmi di quelle 500 bianche degli anni ‘60. Così,forse due giorni fa, forse ieri, forse pure qualcheminuto prima che io arrivassi qui, sotto al palazzonedi piazzale Po, per sedermi in una di queste sedie infila disordinate a ripararmi dall’arrogante calura esti-va – o forse perché alla vecchia cascina era giuntavoce che pure il Beppe ci aveva lasciato –, l’Isnarda siè piegata al tempo e alla stanchezza. “Ahimè”, hasussurrato, piangendo, intanto che cedeva la parte

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sinistra del tetto, mentre pensava che non avrebbepiù rivisto il Teo e il Beppe. Patapunfete, ha fatto, il tetto, quando è crollato.E basta. Finito. Tutto qui. Continua a fare caldo. Le cicale, d’altro canto, non si sono mai fermate.Anzi, adesso pure loro han deciso di smorzarsi. Tutto è fermo, qui. Le nuvole stanno su, immobili, dove le avevo lascia-te. Dell’edera che copriva il muro sembra essercene dipiù rispetto a prima, e anche l’altro muro della casci-na, quello di lato, prima liscio, adesso è coperto inte-ramente da erbacce rampicanti.

O forse anche prima era così. Era così, certamente.Fa troppo caldo per pensare. Un cane – oltre quel campo di grano secco che da qui,nonostante la lontananza, riesco, per oggi, ad adoc-chiare – abbaia. Mi alzo, col viso basso, ed insello la bici, mirandoverso casa, pensando intanto ai conti Isnardi, alle fòledel Teo, alle mucche del Beppe, al colero del ‘45 e altetto dell’Isnarda.Mentre le cicale riprendono la loro gneca.

Carla Sautto, Le Mura di Ferrara

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Pochi italiani, com’è noto, furono interessati al pro-gramma educativo-formativo del Grand Tour (ap-prendimento e perfezionamento nell’arte di governonelle piccole o grandi istituzioni; scoperta ravvicina-ta dell’antico mondo classico conosciuto soltantoattraverso libri ormai inadeguati), e la sterminataletteratura odeporica naturalmente ne registra limi-tate presenze (Leandro Alberti, Pietro Bembo, Cesa-re Spallanzani per indicare qualche nome). D’altraparte le dimesse e subalterne condizioni storico-poli-tiche di allora, se si escludono ricorrenti vagheggia-menti letterari ricolmi di fastidiosa retorica, nemme-no lontanamente consentivano di ritenere prossimao imminente una reale e duratura prospettiva di uni-ficazione nazionale sostenuta dalla disponibilitàsimultanea di personale qualificato sul piano ammi-nistrativo e culturale.L’essenza del Grand Tour per gli studiosi italianirestava pertanto circoscritta generalmente nell’am-bito di acute elaborazioni e ricognizioni di naturascientifica (anatomia umana, geografia nell’accezio-ne più vasta, mondo degli animali, orti botanici, ana-tomia, ecc.). Più tardi, quando migliorarono per l’ap-porto di nuove tecnologie i mezzi di trasporto e levie di comunicazione, e il programma del GrandTour si estese anche ad interessi ludico-sensitivi (pit-tori attratti dalla luce e dai colori vibranti delle areeterritoriali prossime al Mediterraneo, scrittori allaricerca di ispirazione nuova e di se stessi, scoperta epartecipazione alla vita di esclusivi circoli intellet-tuali di ascendenza illuministica), aristocratici italia-ni ed intellettuali forniti di risorse economiche con-sistenti incominciarono numerosi a percorrere itine-rari raccomandati dalle “impressioni” di viaggiato-ri stranieri o/e dalle “Guide” locali di ristretta diffu-sione commerciale (e perciò reperibili con difficoltànei luoghi di provenienza del turista). Poteva capita-re tuttavia di trovarsi tra le mani miseri breviari neiquali soggettive ed opinabili scelte estetiche dell’au-tore finivano per sostituirsi in modo acritico e fretto-loso all’esigenza di una puntuale lettura personaledell’ambiente e delle condotte civili degli abitanti.Sulla percezione visiva e sulla riflessione filosoficasubentrava e prevaleva l’autorità indiscutibile diogni scrittore precedente. Nel contesto nazionalealmeno insolito o raro può essere ritenuto il caso diFerrara. Prima, sotto la Signoria degli Estensi, costi-tuiva una zona di passaggio obbligato pur non pos-sedendo significative testimonianze archeologiche(era nata, come scriverà Ella Noyes, una colta ingle-sina, “con la Croce in mano”“).D’altra parte gli Estensi, secondo un viaggiatored’oltre Manica, attraverso l’arte, avevano trasforma-to felicemente in una Atene deliziosa questa malin-conica Beozia. In seguito, venuto meno ogni interes-se diplomatico e affievolitosi il suo ruolo culturale

propulsivo, morendo ogni giorno di più, lentamenteincominciò ad essere ignorata o trascurata, oppuregiudicata secondo frettolose e ripetute impressioniricavate dal semplice attraversamento delle sue stra-de larghe, solitarie e ricolme di erbacce. Così scrive-vano nei resoconti i rari viaggiatori stranieri, mentrei nuovi strumenti di lettura come Guide locali(Frizzi, Barotti, Aventi, Ginevra Canonici), di limita-ta diffusione, si soffermavano in maniera minuziosae campanilistica, a descrivere con slanci carichi dienfasi una mitica età dell’oro decisamente ormai lon-tana.Certamente nessuna di queste Guide locali era nellamani del Barone Vincenzo Amarelli quando nel 1847fece sosta a Ferrara nel corso di un viaggio che daRoma lo porterà in seguito a Venezia. Lo si desumedalle postazioni frettolosamente visitate e da quelle,molto importanti, trascurate o dimenticate e dall’as-senza di pertinenti giudizi sulla città e sui suoi abi-tanti. Peraltro non sappiamo nemmeno se la sostaferrarese sia stata breve oppure lunga quanto unagiornata. Ma chi era Vincenzo Amarelli? Nato nel1803 e autore di un simpatico “Giornale di viaggio“pubblicato a Napoli nel 1848 (e dal quale traiamo lepresenti considerazioni), fu insegnante di Belle Let-tere, di Letteratura greca e latina, avvocato civile ecriminale ed in seguito sino al 1864, anno della suamorte, docente di Lettere italiane all’Università diFiladelfia (USA).Nelle Ricordanze della mia vita Luigi Settembrini (1813-1876) ne lascia un ricordo affettuoso e riconoscente,avendo frequentato entrambi, a diverso titolo (unoinsegnante e l’altro allievo), il Collegio di Maddaloni.Vincenzo Amarelli, ricorda Settembrini, “aveva gran-de amore ai viaggi, e ogni anno al tempo delle vacan-ze faceva sue escursioni, e viaggiò tutta l’Europa, emolte parti dell’Africa, e l’America, ed è morto pro-fessore nell’Università di Filadelfia. Egli allora c’inse-gnava la storia, la geografia e il latino nelle favole diFedro, e noi gli volevamo gran bene, e si studiava conardore grande: egli sapeva il gran segreto dell’inse-gnamento, fare innamorare i giovani“. Eppure nellasua sosta ferrarese Amarelli qualche breviario turisti-co doveva averlo nella sua disponibilità, probabil-mente il testo delle “Osservazioni sull’Italia“ di unosconosciuto – o quasi – Joseph Forsyth, viaggiatoreinglese che agli inizi dell’Ottocento era stato anche aFerrara. Queste “Osservazioni“ vennero pubblicatepostume, nel 1816, a Londra, e non saranno probabil-mente sfuggite alla sua attenzione onnivora nel corsodi un viaggio in Inghilterra. Alcune annotazioni ediverse descrizioni logistiche, affini nelle due testimo-nianze scritte rilasciate in seguito, farebbero pensareproprio a questa ipotesi.Dunque Amarelli, rinunciando a qualsiasi premessaintroduttiva sulla nascita e lo sviluppo di Ferrara,

IL BARONE VINCENZO AMARELLIVISITA FERRARA

di Giuseppe Inzerillo

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dati come presupposti, dichiara ex abrupto: “Vi nac-quero l’Ariosto e il Guarini“. Se una benevola indul-genza può accompagnare l’errato riferimento all’a-nagrafe ariostesca, disinvolto invece appare il silen-zio sul nome del Guarini e sulla forma e sul conte-nuto della tragicommedia pastorale in cinque attiendecasillabi che va sotto il nome di “Pastor fido“. Eun letterato di fine cultura non può dare come pre-supposto, per tutti i lettori, quando e quanto scriveper un vasto pubblico. Come non può omettere diricordare, avendola visitata, che nella Casa deiGuarini, nel pilastro angolare della porta d’ingresso,si legge un motto antico di qualche importanza perle vicende storiche estensi: “Erculis et musarumcommercio/favete linguis et animis“. Visita rapida-mente la Casa dell’Ariosto ed accenna poi alla prete-sa e controversa prigione del Tasso (un grande poe-ta ormai scemo di ragione aveva scritto GinevraCanonici), appiattendosi sul languoroso romantici-smo di maniera già costruito acriticamente da alcu-ni decenni e grottescamente ribadito dopo i lavoriradicali del primo Novecento apportati al vecchiocomplesso ospedaliero del S. Anna. L’escursioneinclude anche il Castello, la Cattedrale (e qui siinventa fantasiose presenze pittoriche come quelledel Mantegna e di un imprecisato Carracci , dimen-ticando curiosamente il Bastianino), la tomba dell’A-riosto e la biblioteca di Palazzo Paradiso, e la Certosa(ritenuta inferiore a quella monumentale di Bolo-gna). Dato uno sguardo ai Palazzi Villa e Bevilacqua,che nel frattempo avevano cambiato proprietari,l’Amarelli, forse ancora con lo stomaco a digiuno,corre verso Pontelagoscuro, attraversa il Po sulPonte di barche e finalmente si rifugia a Polesella peril pernottamento.È curioso ora osservare che egli, in questa visita a

volo di uccello, dimenticò di trovarsi prevalente-mente anche nell’incanto del quadrivio deiDiamanti, cioè al centro dell’Addizione erculea chetriplicando il perimetro urbano fece di Ferrara, comescriverà di li a poco il Burckhardt, “la prima cittàmoderna d’Europa“. Di certo, trovandosi in quelsito, non l’avevano dimenticato gli antichi ferraresiche ripetevano orgogliosi: “Bel canton-bella faccia-ta/bella porta-bella entrata“. Lascia poi perplessi ilfatto che Amarelli, dopo aver visitato la vicina CasaGuarini, non si sia accorto di Palazzo Prosperi,gioiello di grande valore artistico, che di fronte, pro-prio a due passi, mostrava la sua sfrontata bellezzanel quadrivio delle meraviglie. Egli apprezza esplici-tamente l’architettura delle case nobiliari ma non sicapisce come abbia potuto dimenticare i PalazziSchifanoia, di Marfisa d’Este, Magnanini-Roverella eperfino il magnifico Palazzo di Ludovico il Moro ( oCostabili), grandioso monumento di architettura ci-vile, forse, ancorché incompiuto, il più importante diFerrara. Si conclude così, tra sottolineature ed omis-sioni, l’escursione di un viaggiatore curioso e coltocome il Barone Amarelli a Ferrara, dove tra gli altri,si erano fermati Byron, Stendhal, Dickens, Valery,già preceduti da De Brosses e Goethe, e che sarannoseguiti da Gauthier e Gregorovius. In verità percostoro Ferrara era diventata una città dall’aspettopittoresco e spettrale, una città di morti dove l’erbapigramente si arrampicava per le antiche scale deipalazzi, una città spopolata che viveva nel ricordodel passato e dove, secondo un’espressione del fer-rarese Nino Barbantini, “i fantasmi romantici aveva-no preso il posto della gente viva“. E quell’intellet-tuale europeo della Magna Grecia non volle sottrar-si al fascino seducente di quell’antica letteratura diviaggio.

Carla Sautto, Vendemmia

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Nell’estate del 1800, ottavo anno della Repubblicafrancese, il poligrafo e politico Marco Giuseppe Com-pagnoni, esule cisalpino a Parigi, dette alle stampe inversione bilingue (testo italiano con traduzione fran-cese a fronte impreziosito a giudizio dell’autore – fin-tosi però curatore dell’opera – dalla presentazione diuno dei più prestigiosi esperti transalpini di lettera-tura italiana dell’epoca, Pierre Louis Ginguené), per itipi dell’editore Maradan, Le Veglie di Tasso, cioè adire Les Veillées du Tasse, «manuscrit inédit, mis aujour par Compagnoni et traduit de l’Italien par J.F.Mimaut»,1 un clamoroso falso (ideato nel 1796 secon-do quanto riportato dal suo periodico «Mercurio d’I-talia» e composto – come si apprende dalle sue Me-morie autobiografiche pubblicate per la prima volta nel1927 presso Treves da Angelo Ottolini – al solo scopodi ricavare il denaro necessario al ritorno in Italia,ove, a seguito della vittoria napoleonica di Marengodel 14 giugno 1800, era rinata la Repubblica Cisalpi-na)2 che egli volle invece far credere opera autenticae inedita di Torquato Tasso scomparsa da più di duesecoli e rinvenuta, si legge nell’Avertissement (laPrefazione al lettore), nel 1794 tra le rovine di un anti-co palazzo ferrarese.Sebbene nel 1810 il filologo svizzero Johann CasparOrelli nello studio Kritischer Versuch über die vorgebli-chen ‘Veglie’ von Torquato Tasso [Tentativo critico sullepretese ‘Veglie’ di Torquato Tasso] avesse a chiare lette-re denunciato l’apocrifia del volume, esso riscosseun larghissimo successo europeo (attestato dallenumerose traduzioni,3 perdurò all’apice sino al quar-to decennio dell’Ottocento per cessare definitiva-mente soltanto in età positivistica, allorché la monu-mentale Vita di Torquato Tasso di Angelo Solerti, usci-ta nel 1895, non annoverò il nostro testo fra gli scrit-ti tassiani) destinato ad influire profondamente sullasensibilità dei rappresentanti dell’imminente stagio-ne romantica riguardo alla loro ricezione delle erra-bonde e infelici vicende biografiche del poeta dellaLiberata, elevato con il rilievo di un mito a figuraesemplare dell’«uomo-poeta»,4 martire del propriogenio inconciliabile con gli orizzonti angusti emeschini del vivere quotidiano e delle convenzionisociali, ipostasi dell’impari lotta dell’intellettualecontro il potere costituito, avvertita quale «scontroincessante e perdente tra l’unicità e libertà del Genioe la tristizia dei poteri dispotici».5

La pubblicazione delle Veglie (incentrate su uno de-gli elementi fondativi del mito romantico tassiano: lapassione del poeta per Eleonora d’Este, sorella delduca Alfonso II, tramandata primamente dalla Vitadi Torquato Tasso di Giovan Battista Manso, uscita aVenezia presso Deuchino nel 1621) costituì dunqueuna svolta nel percorso personale e creativo delCompagnoni, il quale fin dalla prima giovinezzarivelò ingegno versatile e curiosità fervida.

Nato a Lugo di Romagna il 3 marzo 1754, compiuti iprimi studi di umanità, logica e filosofia nelle scuolepubbliche per le ristrettezze economiche in cui ver-sava la famiglia (che aveva conosciuto l’agiatezza),intraprese dodicenne, indirizzato dal padre e sotto laguida del professore domenicano Cavalletti, gli stu-di teologici (a scapito di quelli giuridici sentiti dav-vero congeniali e comunque non trascurati) contrad-distinti nel 1778 dalla laurea e dall’ordinazione sa-cerdotale per mano del vescovo di Imola, tappe sa-lienti di una carriera ecclesiastica che si chiuderàsedici anni più tardi con la svestizione dell’abitotalare.L’adesione alle idee illuministiche e l’equilibrio digiudizio valsero, alla fine di giugno del 1785, all’a-bate Compagnoni (tale il titolo che era solito ante-porre in quel periodo al proprio nome) la direzione– caratterizzata da un brillante rilancio anche grazieagli articoli di cui fu estensore con lo pseudonimo diLigofilo – del settimanale letterario bolognese «Me-morie enciclopediche», momento d’avvio di un’atti-vità di letterato e poligrafo particolarmente intensa,peraltro facilitata dall’ambita nomina, nell’ottobredel 1786, a segretario della potente famiglia ferrare-se Bentivoglio d’Aragona, al seguito della qualedimorò prima a Torino (a questo soggiorno risale lastesura, nel 1787, della sua prima palese falsificazio-ne letteraria sotto forma di un improbabile docu-mento epistolare proveniente dall’aldilà: la Lettera diCattina al marchese Albergati Capacelli suo marito) poi aVenezia (ove rimarrà per un decennio), congedan-dosi dal servizio alla fine del 1788.Nella città lagunare accettò infatti la proposta dellibraio editore Antonio Graziosi di dirigere la rivistapolitica «Notizie del mondo», la quale, benché muo-vesse da posizioni sostanzialmente conservatrici,spiccò fra le concorrenti come un vero periodico d’o-pinione per l’attenzione e l’obiettività dimostratenell’analisi delle incipienti vicende rivoluzionariefrancesi, e pubblicò, tra l’altro, la Corrispondenzasegreta sulla vita pubblica del Conte di Cagliostro (1791)– ulteriore evidente inganno letterario, essendo allo-ra negata al protagonista dell’opera ogni possibilitàdi vita pubblica in virtù della reclusione in San Leo –e le frivole Lettere piacevoli, se piaceranno (1792), car-teggio letterario col marchese Albergati, al cui inter-no risalta tuttavia un Saggio sugli Ebrei e sui Greci rile-vante per il principio di tolleranza religiosa che loinforma.Conclusasi sul finire del 1794 l’esperienza delle «No-tizie del mondo», due anni dopo vide la luce unnuovo periodico fondato e diretto dal Compagnoni,il «Mercurio d’Italia», rivelatore del suo approdo algiacobinismo, sfociato in concreto impegno politicosullo sfondo della campagna d’Italia napoleonica.Tornato a Ferrara nell’ottobre del 1796, prese parte,

UN CELEBRE APOCRIFO: LE VEGLIE DITASSO DI GIUSEPPE COMPAGNONI

di Sandro Ferranti

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quale deputato rappresentante la città estense, ailavori del Congresso di Reggio Emilia, che sancirononon soltanto la nascita della Repubblica Cispadanama anche l’adozione – per sua iniziativa – del trico-lore italiano (7 gennaio 1797), e a quelli del successi-vo Congresso di Modena, nel corso dei quali pro-nunciò un importante discorso (25 gennaio) sulla col-locazione da assegnare alla religione alla luce delnuovo assetto costituzionale.Riconoscimenti ufficiali della sua affermazione inambito giuridico-politico furono poi, rispettivamentenei mesi di maggio e novembre del 1797, il consegui-mento della prima cattedra europea di diritto costi-tuzionale istituita presso l’Ateneo ferrarese (dal corsouniversitario ebbero origine gli Elementi di Dirittocostituzionale democratico, ossia Principi di giuspubblicouniversale, editi a Venezia nel luglio del medesimoanno, ad un tempo con la formazione dellaRepubblica Cisalpina) e l’ingresso nel Corpo legisla-tivo della Cisalpina per il dipartimento del Basso Po,incarico che indusse il Compagnoni a stabilirsi aMilano ove creò, nell’aprile del 1798, un nuovo perio-dico, il «Monitore cisalpino», che, pur proponendosiquale ideale continuatore del foscoliano «Monitoreitaliano», di fatto «già nel titolo, con significativariduzione d’orizzonte, ne abbandonava il program-ma “giacobino” per assumere il ruolo di portavocesemiufficiale del governo».6

La cacciata dei Francesi dalla Lombardia ad operadell’esercito austro-russo guidato dal generale Suva-rov nella battaglia di Cassano d’Adda (27-28 aprile1799) costrinse il Compagnoni a chiudere dopo unsolo anno la rivista e a darsi alla fuga riparando infi-ne a Parigi ove, oltre le Veglie, fece uscire un fortuna-to testo politico di ispirazione marcatamente filona-poleonica, Les hommes nouveaux, ascrivendone però lapaternità all’ignaro amico Vincenzo Dandolo (cono-sciuto all’epoca del soggiorno veneziano) attraversol’indicazione sul frontespizio del nome di quest’ulti-mo, in segno di riconoscenza per il concreto impegnoprofuso nella pubblicazione del volume.7

Rientrato dopo Marengo nel capoluogo lombardo(ove resterà sino alla morte), riprese il proprio iteristituzionale all’interno della Cisalpina, ricevendonel 1801 la nomina a promotore della Pubblica Istru-zione ed Educazione e, soprattutto, nel 1803, quella asegretario del Consiglio legislativo (carica che avreb-be mantenuto senza interruzioni sino al 1810, mutan-do soltanto la denominazione in segretario delConsiglio di Stato con l’istituzione del Regno d’Ita-lia), contribuendo poi alla stesura dei codici militaree commerciale e venendo insignito dell’Ordine dellaCorona di ferro. Perduto ogni ruolo istituzionale nel 1814 a causadella caduta di Napoleone, Compagnoni attese esclu-sivamente all’attività – peraltro mai abbandonata – digiornalista e poligrafo, giovandosi dei rapporti frat-tanto stretti con gli editori Sonzogno e Stella.Fra le opere appartenenti all’ultima fase della biogra-fia compagnoniana meritano menzione i ventinovevolumi della Storia d’America, editi tra il 1820 e il1823, i settecento versi del sermone L’anti-mitologia,pubblicati nel 1825 con intento scopertamente pole-mico nei confronti del montiano sermone Sulla mito-logia e le postume Memorie autobiografiche e Vita lette-

raria del cavalier Giuseppe Compagnoni scritta da luimedesimo (una sorta di versione ridotta delle Memorie)apparsa un anno dopo la morte dell’autore, che locolse il 29 dicembre 1833.La Premessa dell’Editore, che pure rievoca gli elementigenetici della falsificazione da noi esaminata (la scel-ta del personaggio e il fortunoso ritrovamento delsuo «inedito») dispiega anzitutto la novità e l’unicitàdelle trentaquattro brevi prose narrative che formanole Veglie di Tasso, le quali si configurano non già comeun romanzo epistolare (di cui serbano tuttavia intat-ta la psicologia sentimentale richiamandosi per que-sto aspetto alla rousseauiana Julie ou la NouvelleHéloise) bensì come un diario intimo – anche se nonobbediente a una chiara scansione cronologica – incui, attraverso i deliranti soliloqui notturni del poeta(di matrice alfieriano-rousseauiana per l’energicatensione e per la violenta protesta antitirannica eanticortigiana) recluso in Sant’Anna a causa del suoamore folle e disperato per Eleonora d’Este (intonatoa un registro formale patetico-elegiaco), assume perla prima volta dignità letteraria «il linguaggio di unuomo da malinconica fissazione tratto fuori dimente» (p. 41), quale appare dalla sintassi disconti-nua, franta e gridata dei monologhi tassiani, imme-diato riflesso del turbamento psichico del protagoni-sta, a tal punto eccezionale da risolversi in un «viag-gio nel mondo delle passioni ossessive».8

A ben guardare, l’immagine del prigioniero Tassoche campeggia in primo piano dalle pagine delleVeglie – drammaticamente isolato eppure orgogliosa-mente pugnace in quanto consapevole della propriagrandezza poetica – pur essendo biograficamente do-cumentata riesce qui arricchita dal tema amoroso,che da un lato si riduce a mero motivo laudativodella bellezza della sua «alta» amata (l’attributo an-drà inteso in relazione alla posizione preminentedella duchessa nella corte estense) adunando que-st’ultima in sé i tratti distintivi di varie celebri figureletterarie femminili quali la donna-angelo stilnovista(«quel placido sguardo e clemente, quel sorriso cele-ste!», Veglia II, p. 45), una nuova Beatrice della qualedescrive in sogno la morte («Ho fatto un sogno. Chesogno tremendo! Deh! che mai non si avveri! Pre-ghiera inutile. Eccola, freddo cadavere, stesa sul cata-letto. Ohimè! dove sono i suoi occhi, quegli occhiscintillanti di luce, che davano la vita ovunque fissa-vansi? Sono chiusi per man della morte!», VegliaXVII, p. 69), la Laura petrarchesca («La storia avràdue donne rendute immortali dai loro amatori. Chi ècolei che non invidii la sorte di Laura?», VegliaXXVII, p. 90) e le tassiane Sofronia, Erminia, Clo-rinda e Armida («Te veggo in Soffronia; te inErminia; te in Clorinda; e perdonami, di te mi ricor-da Armida istessa», Veglia VIII, p. 55), dall’altroassurge a mezzo di riscatto collettivo, teso a una futu-ra rigenerazione dell’umanità profetizzata dal poetae fondata su un radicale rovesciamento delle gerar-chie sociali, in grado di cancellare ogni iniquità, delquale beneficeranno gli attuali miseri, tra cui il Tassostesso, come prefigura la Veglia XXII, p. 80: «Coloro,che la fortuna collocò in alto luogo; coloro, la cuianima ebbria d’ogni soddisfazione non ha piú chebramare, essi tremino. Che resta loro omai, che diprecipitare in opposto stato? Il misero è a miglior

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condizione. Ogni cambiamento, che sopraggiunga, loavvicina alla sua felicità. Torquato! confortati. Tu seimisero» (a questo proposito non sarà difficile indivi-duare, sottese a tale utopistica visione, le rivendica-zioni compagnoniane, del resto comuni a tutti gli in-tellettuali dell’epoca, di una precisa identità profes-sionale e di una piena autonomia in seno alla societàreclamate per le superiori capacità creative).Lo svanire del trionfante sogno amoroso descrittonella penultima Veglia e simboleggiato dall’appari-zione dell’arcobaleno, rappresenta per Torquato ilpreludio alla cessazione dei deliri e al ritorno dellalucidità, riacquistata la quale egli auspica, nellaVeglia conclusiva, che le vibranti pagine della suamalattia amorosa («Ho scorsi questi fogli. Che malat-tia tremenda è l’amore! Non vorrei esserne attaccatomai piú. È vano però il dissimularlo. Molto ha in sédi che sedurre un’anima codesta malattia tremenda»,p. 108) vengano in avvenire lette con profitto.

NOTE

1 L’edizione più recente e più filologicamente accurata allaquale d’ora innanzi si farà costante riferimento è stata pro-curata da Dietmar Rieger, «Omikron», Roma, Salerno Edi-trice, 1992.2 «Per avere qualche soldo onde dopo la vittoria di Maren-go ritornare in Italia pensai di scrivere una operetta la qua-

le almeno pel nome del soggetto potesse avere fortunapresso i francesi. Scelsi il nome di Tasso, il più conosciutotra essi de’ nostri grandi poeti […] Scrissi adunque le Vegliedel Tasso e il mio amico Mimaut, giovine coltissimo ed ama-bilissimo egualmente, prese a farne la traduzione che fustampata insieme coll’originale. Io dava quelle Veglie comeuna opera originale e autentica, impostura innocente cheavea massimamente in Francia esempi nobilissimi».L’edizione più sicura delle Memorie autobiografiche (dallaquale è tratta la citazione di p. 326) è compresa in M. SAVI-NI, Un abate libertino. Le Memorie autobiografiche e altri scrit-ti di Giuseppe Compagnoni, Bologna, Banca del Monte diLugo, 1988.3 Della quale il Rieger dà diffusamente notizia alle pp.15-17dell’Introduzione.4 U. BOSCO, L’uomo-poeta dei romantici, in ID, Aspetti delromanticismo italiano, Roma, Edizioni Cremonese, 1942, pp.7-132.5 R. FEDI, Torquato Tasso, in AA.VV., Storia della Lettera-turaItaliana, diretta da E. MALATO, vol. V, La fine delCinquecento e il Seicento, «Grandi Opere», Roma, SalernoEditrice, 1997, p. 316. 6 G. GULLINO, ad vocem «Compagnoni, Giuseppe», inAA.VV., Dizionario Biografico degli Italiani, vol. VIII, Roma,Istituto della Enciclopedia Italiana, 1982, pp. 654-661.7 Soltanto nelle già citate Memorie autobiografiche Compa-gnoni confesserà la reale paternità dell’opera.8 W. MORETTI, Le Veglie di Tasso di Giuseppe Compa-gnoni,in AA.VV., Torquato Tasso e l’Università, a cura di W.MORETTI e L. PEPE, «Pubblicazioni dell’Università diFerrara», Firenze, Leo S. Olschki editore, 1997, p. 532.

Carla Sautto, Il gabbiano

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La mia passione per la poesia si è manifestata da diver-si anni, sempre più consolidata grazie alle persone chehanno creduto in me, stimolato a continuare dallavoglia di condividere l’universo di emozioni e sensa-zioni che ci avvolgono ogni giorno. Sono stato semprecurioso del mondo, dei suoi equilibri, e proprio dallasua osservazione m’ero domandato quale ricetta esi-stesse per far diventare qualcosa di poetico, scoprendopoi con il tempo che non esisteva nessuna ricetta masiamo noi che facciamo diventare una cosa “poetica”,dipende in che modo la osserviamo se sapremo guar-darla con meraviglia.E proprio per questo motivo iniziai a guardare il mon-do con occhi diversi e decisi di creare e chiamare ilmio sito personale “i nuovi orizzonti”. Col desiderio didare indizi per trovare quel tesoro che si chiama vita,ho intitolato la mia opera prima Cercatori d’albe, tro-vando la forza, il coraggio di svestirmi dai condiziona-menti, dai pregiudizi e dall’indifferenza, quel metter-mi in gioco in una società dove la sensibilità sembraessere un difetto.Da quel giorno, la gente sembrava diversa, più aperta,più libera, più leggera, trovava con più facilità il mododi condividere i propri pensieri, le emozioni. Avevo la netta sensazione di aver trovato una nuovachiave di lettura e spinto dalla voglia di sperimentare,incoraggiato a continuare questo mio percorso, iniziaiad accostare alle parole le immagini e successivamen-te la musica.Presi un paio di mie poesie che avevo scritto e iniziail’accostamento con qualche ripresa video ed immagini,poi un brano musicale che avevo opportunamenteselezionato; il risultato fu straordinario, una potenzaemozionale nuova, fresca, pronta da condividere conle persone. E così con un piccolo banco, un computer evideoproiettore andai ad una festa paesana e iniziai aproiettare la mia prima videopoesia. Osservavo lagente, molto curiosa, che si fermava, leggeva le parole,guardava le immagini e ascoltava la musica, piaceva!Ero riuscito nei miei due intenti: portare la poesia inuna forma nuova e tra la gente.Penso che anche le persone che non scrivano di poesiasiano sicuramente in grado di apprezzarla e siano sicu-ramente tutte in grado d’avvicinarsi a qualcosa dimolto elevato per farci sentire vivi nella vita. Ciò nonrichiede necessariamente una formazione letteraria mal’attitudine ad ascoltare ed ascoltarsi. È qualcosa cheappartiene a tutti noi, è in noi.Nelle videopoesie ognuno di noi si rispecchierà in certistati d’animo, interpreterà la poesia in maniera diver-sa, in relazione al proprio vissuto, ma la magia dellapoesia sta proprio in questo.Per via del loro suono, le parole possono essere usatecome strumenti musicali, oltre al significato, hannocaratteristiche fisiche che vengono colte dai nostrisensi direttamente o indirettamente.

Possiamo immaginare quattro scale: per quanto riguar-da le parole, quella “del significato”; quella “della fisi-cità”; della “visione”; e della “musicalità”. Ecco la nuo-va frontiera della multisensorialità, una nuova formaespressiva per rafforzare le percezioni derivanti dall’in-tegrazione di parole, immagini e musica con l’ausiliodelle tecnologie informatiche.Usando tutte le scale, i linguaggi, sebbene contrastanti,si fondono, dando alla poesia un messaggio ulteriore,aprono nuove porte alla mente. La videopoesia ci ricor-da che ogni cosa è unica, se riusciamo a guardare conmeraviglia ciò che è intorno a noi, non colpisce solo inostri sensi, bensì è SENSAZIONE + EMOZIONE.Le immagini vengono conservate anche se noi ce nedimentichiamo e così esse se ne stanno lì e aspettano,aspettano che qualcuno le risvegli. Se rimangono lì èperché anch’esse sono legate a un’emozione. Se cosìnon fosse non sarebbero mai entrate nel “magazzinodella memoria”.La poesia non è solo un collage di immagini risveglia-te, ma ci propone un’immagine sua, limitandosi adarci le indicazioni per costruirla, con le immagini chegià conosciamo e con la fantasia, per inventare cose chenon conosciamo, o che non esistono, a partire da coseconosciute.In questo modo prenderemmo vari pezzi delle imma-gini e mescolandole e montandole con la fantasia se-condo le “istruzioni” delle parole vedremmo final-mente la nostra immagine che sarà diversa per ciascu-no di noi: MEMORIA + FANTASIA + “ISTRUZIONI”DELLA POESIA” = NUOVA IMMAGINE.Le immagini poetiche parlano al cuore e all’emisferodestro, dove risiedono quelle risorse profonde che con-ducono all’equilibrio e all’avvicinamento del corpocon la mente.I miracoli che non trovano spazio nella vita quotidia-na, le illuminazioni che non giungono nel momentodel bisogno e il coraggio che non risponde all’appellodisperato della ragione sono invece sempre disponibi-li a colui che si fa poeta e che della videopoesia fa il suopersonale linguaggio d’anima. La mente umana con-tiene una funzione poetica in grado di dare voce all’i-nesprimibile. Il poeta prende l’energia dalla luce dellerealtà per restituirla rinnovata; la poesia è fondamen-tale anche nella sua apparente “inutilità”, per ricordar-ci che la vita è unica e irripetibile.Il poeta è un viaggiatore del tempo con un solo baga-glio essenziale, il proprio cuore, come fonte indispen-sabile per descrivere il momento dell’essere qui, ora.La straordinaria forza della videopoesia è la chiaved’accesso all’inesprimibile, spalanca le porte alla crea-tività, è un’esperienza di confine tra due realtà. È tro-vare il sentimento proprio negli altri. È condivisione. Èleggerezza; ascolto. È condividere e vedere il mondoattorno a noi con occhi diversi. È libertà. È costruzione,risveglio interiore, trasformazione, rinnovamento.

VIDEOPOESIA: L’INNOVATIVO MODO DICOMUNICARE LA FORZA POETICANEL MONDO CONTEMPORANEO

di Stefano Caranti

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UM

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ISM

O

UMORISMO ED ENIGMISTICAdi Francesco Benazzi

Triste quel popolo che non sa ridere dei propri difet-ti. Triste quell’uomo che ignora il senso dell’umori-smo. Per quanto mi sforzi non ricordo più chi l’hadetto. Se nessuno si fa avanti, ne prendo io la pater-nità. Sono scomparsi da tempo i giornali che si auto-definivano satirici. È vero che in TV possiamo usu-fruire di alcuni comici o pseudo tali che si sforzanodi sollevare il nostro morale, arrivato ormai a livellodi bassifondi. È vero che alcuni quotidiani pubblica-no vignette più o meno esilaranti (ahimè, da vecchioincancrenito, ignoro il web e il blog!). Ma il mio pen-siero va ai cosiddetti giornali umoristici che usciva-no settimanalmente fra gli anni ’30 e ’50 pur convarie vicissitudini. Il Marc’Aurelio, fondato a Romada Vito De Bellis nel 1931 e al quale collaborarononomi illustri, come Cesare Zavattini e Vittorio Metze il giovanissimo Federico Fellini in veste di dise-gnatore satirico.La parola satirico va opportunamente annacquata,poiché il regime non tollerava se non una satira allu-siva e nascosta fra le pieghe, satira più di costumeche politica.Dietro il successo strepitoso del Marc’Aurelio seguìnel 1936 il Bertoldo, fondato a Milano dalla Rizzoli e alquale collaborarono Cesare Zavattini (in un primotempo direttore), Giovanni Guareschi e GiovanniMosca. Più innovativo del Marc’Aurelio il Bertoldointrodusse uno stile anticonformista che si opponevaa quello sussiegoso degli altri giornali. Il Bertoldo dif-fuse un nuovo tipo di umorismo, surreale e astratto,in seguito imitato sulle scene dell’avanspettacolo, poidella rivista, da Renato Rascel, che riproduceva gliomini e gli atteggiamenti delle vignette del giornale,con battute vicine al non sense britannico. Mentre ilMarc’Aurelio, dopo aver sospeso la pubblicazione nel’43 ebbe diverse e successive rinascite, il Bertoldochiuse definitivamente in seguito al bombardamentodella sede in piazza Carlo Erba a Milano.Oggi si potrebbe dire che il ruolo svolto allora daquei giornali sia diventato, a un livello più modesto,quello della Settimana Enigmistica: una cinquantinadi vignette per ogni numero. Qualche anno fa peròla rivista ha subito, chissà perché, un forte calo dellivello comico e le sue vignette ospitarono i più vietiluoghi comuni con una monotonia esasperante.Faccio esempi: dove stava una moglie qualsiasi inqueste vignette? In cucina a bruciare l’arrosto. E,invece di curare amorevolmente la buona alimenta-zione del marito, lo avvelenava lentamente (forsed’accordo con l’amante). E il marito? Se ne stavatutto il giorno sdraiato su un divano con ai piedi lat-tine di birra e bottigliette vuote. Come potesse vive-re questa famiglia non si sa. E la suocera? Tenuta ilpiù lontano possibile come la peste; a dispetto diquanto mi risulta di casi in cui suocera e nuoravanno perfettamente d’accordo e la vittima è caso-mai il figlio genero. E al ristorante? Il gestore, invece

di vincere la concorrenza con la buona cucina aprezzi modici, serviva piatti disgustosi a prezzi dacapogiro a tal punto che il cuoco si meravigliava dicome il cliente avesse potuto ingerire quell’intruglioche gli aveva preparato senza batter ciglio. Per fortuna quel periodo funesto è oggi superato. LaSettimana Enigmistica è tornata ai fasti di prima, lebattute sono spesso carine e più che accettabili. Vene regalo due: la prima “Non so proprio come fareisenza di te, Alice; però vorrei provare” la seconda“Suo marito? «È andato sul balcone a fumare».«Ma noi non abbiamo balcone».

Carla Sautto, Gatto sul davanzale

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di Corrado Guzzon

Primattori nella notte

Ormai si vive solo di notte,nel sonno agitato e confusoche spiuma cuscini e trapunte a fiorie fa da regia ribelle ai nostri sognitormentati.

Nel semibuio delle ore più intensedentro piani sequenza amatorialisi compiono le gesta attesedi onirici primattori, nelle scene rubateall’ottusa e avversa quotidianità.

Ad ogni ciak si vola, s’inventa e si crea,si conducono battaglie e lunghi soliloquisi uccide perfino, a volte si muoree molto spesso è soltanto l’amore,perché è ciò che tace e mancache alfine affiorae pretende ascolto dentro di noi.

Siamo eroi minuti e spavaldifino al chiarore dell’alba,marinai davanti al timonedi piccole naviracchiusein bottigliache non approderanno mai.

di Nicoletta Zucchini

Nulla ho perso

Nulla ho persodi quello che ho donatotutto è ritornatoal porto del cuored’esperienza allargato.

Tutto è perdutodel male ricevutoaffogato e sepoltogiace il dolorein un buio dirupo.

Ma con gli occhi persi nel blunon è perduta ancora la voglia di donarenon è perduta ancora la voglia di amarenon è perduta ancora la voglia di sognare.

di Antonio Breveglieri

Solitudini

Dal finestrino del treno,Ferma sul binario, ti osservo,Immobile, sotto la luce pallidaDei lampioni, nella stazione.Infagottata nel tuo cappottoColor cammello, attendi,Nel freddo e nella nebbia, all'albaDi un Novembre ferrarese.Tonfi sordi, sbattono le portiere,Il fischio acuto di un capostazione.Sferraglia lentamente sulle rotaie.Muovi le labbra, dici qualcosa,Il rumore copre le tue parole.Guardo la tua immagineSvanire lentamente.Il treno corre forte,è già lontano.Un nodo nella gola mi assale piano.Nella campagna buiaVolano i miei pensieri.

Dicembre

Sta cominciando a cadere la neve,in questa sera dicembrina,se esci fuori, con me,qui, la pace nel giardinoè così tanta che quasi mi commuove.Se ascolti, puoi sentire, nel silenzio,il vento che al suo passaggio, fa parlare le foglie luccicanti.Intorno, gli alberi, agitano i rami,braccia spettrali, nude.Nell’aria si perde il sapore d’inverno.Sotto queste nubiaspetto risuoni la tua voce,musica per me,ma è solo il cielo a sussurrare.Dentro casa tutto tace,la fiamma nel cammino si è ormai spenta.I bianchi fiocchi ora sono gocce,bagnano il mio viso,spegnendo quello che primaera un sorriso.

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di Gabriella Braglia

E poi...

Eranell’aria la pioggianuvole grevis’addensavano nel cielo.

Piove:cadono fittegocce gelatestillicidio di malinconiaalla vigiliadella primaverasussultidi una stagioneche non vuolefinire.

E poiE poiverrà primaverala sentirai nell’ariapiù leggeratiepidadolcecarezzevole.

di Marco Vaccari

Vaghi uggiolii

Inespresso pathosche urge adesso, vuolespalmare l’essere diparole.Frasi sottili comegiunchi stanchi,arrancano ebbre,arie di labbra.Vaghi uggioliiumani, sussurratialla luna.

Fantasie tra il verde

Giorni di sole e clorofilla,di spettinate parole.Pensieri esaltati, rubatiai moscerini, ai giochidi bambini eccitati.Estati e primavere comebandiere della vita, esinfonie infinite, suonatetra la fantasia e l’aurora.Ore stregate posatesulla poesia.

Carla Sautto, Barche al molo di Goro

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di Raimondo Galante

Fontana della Musica

Zampilli come lapilliGetti d’acqua puraCome eruzioni di lava incandescenteTutto intorno una meravigliosa sinfoniaTutto questo nient’altro è cheSorgente di pura energia.

di Mara Novelli

Un amore

Un amore che va viaè come la risaccaattaccata dal vento.Un amore che va vianon ha bisogno di nientelascia dietro un segnoche è difficile spengere.

A conti fattila sua memoria è un nido.

di Valentino Tartari

Impressione

Prova ora adesso sì proprio oraFra gli spazi bianchi della notteAd assaggiare il canto turchese infreddolitoSenza spazientirti solo per il gusto di farloMentre passeggi leggiadro e silenziosoAssorto e stanco fra gli irti pensieri calmiConfusi ora gli sguardiLa scia delle nubi è sfumata fra l’ecoDei colori e dei rumori piatti cheSi infrangono e gli stridoriSi inerpicano si infilano fra le paroleLa fluida musica vivace scorre negli intervalli mutiDelle soggezioni, delle incomprensioni, delle paure.

di Luca Grigoli

Il re dei fiori

Il tuo volto dipinto in un’immagine sfocata da teneri accenti di candide emozioni.L’oscuro manto dell’imbrunire ci teneva uniti nella veglia.

Le tue parole, come vellutate carezze mi svelavano l’eterno mutare delle stagioni.L’oscurità sarà vinta non disperare.

Il cielo si tingerà del celeste mantello della speranza.Il re dei fiori arriverà, porterà sgargianti colori.

Giovani dai lunghi capelli danzeranno nei campi di giugnonon c’è davvero tempo per disperarsi.

Aspetta il giorno del re dei fiori, e sarà ancora un sorriso.Aspetta il giorno del re dei fiori!

Saranno mille farfalle nel cielo, morbidi guanciali di rugiada del mattino.Non c’è tempo per il pianto.Antico giardino d’autunno.

Culla di tenere illusioni e simboli graziosamente dipinti dalla neve.

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di Maria Teresa Mentrelli

Il colore dell’acqua

Acqualibera, inafferrabileti osservo e mi chiedoqual è il tuo colore,sei tutti i colori del mondo,

verde sei nel ruscelloche timido scorre fra il verde,bianca, spumeggiantequando corri tra i sassinell’impetuoso torrente,o balli frenetica a passo di ondee allegramente ti infrangitra gli scogli,dorata all’alba,mille colori sei nel tramonto,ma nella notte buia, fili d’argento ti decorano.

Mi piaci libera, inafferrabilesenza profumi senza saporiverde, dorata, bianca, d’argentoma tra le mani ti voglio limpidain te si rifletta un mondo incantato.

di Anna Maria Boldrini

Cadono le foglie

È autunno avanzato.Fuori un gran sbatteredi rami.

Il vento smuovele foglie rimastedegli alberidel giardino accanto.

Cadono le foglie ingiallitecome una pioggiadi petali di rose.

Si posano al pianoformando un morbido tappetodai colori d’autunno.

Questa musica lieveporta all’estasi in questa etàavanzata.

Stagione della vitache si va perdendo.

Ignote speranzeper un domani...

Carla Sautto, Cavalli

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di Renato Veronesi

La nebbia

Strano vagar nella nebbia,solo è ogni cespuglio,sola ogni pietra,nessun albero vede l’altro,ognuno è solo.

Pieno di sogni mi è il mondo,quando la giornata è luminosaadesso, che la nebbia cala,nulla vedo più.

Veramente non è saggio,chiunque conosca il buio,che piano ed inesorabilmenteda tutto separa.

Strano viaggiare nella nebbia;vivere è solitudine,nessuno conosce l’altro,ognuno è solo.

C’è una nebbia dentro di meche copre il sole,il suo fitto veloparla una linguache ho udito in sogno.

Non lamenti, non elogi,ma preghiera.In me la nebbia rimane,come una rosa rossasfiorita e sola.

di Maria Bigazzi

Pioggia

Gocce d’acqua battenti,silenti sopra i vetri.

Aria fresca,respiro profondoal profumodella terra bagnata.

Cielo plumbeo,che all’improvvisoun raggio di soleaccendemeravigliose emozioni.

di Emilia Manzoli

Novembre

Fluttua sospesauna sottile nebbiolina biancasul prato ormai ingiallito.Una leggera brezzala scompiglia un po’scivola e sin insinuafra i rami spogli.Fremono le poche foglierimaste appese.Qualche pratolinasorride ancora fra l’erba stanca.

di Antonio Di Paola

Per mamma

Avevi la piantina nell’orto recintato,la proteggevi, l’accarezzavi con il sorrisoraccontavi le favole.

Farla fiorire con cento colori era la tua speranza.Non aspettavi la tempesta d’agosto che,senza rispettare gli acerbi coloridalla terra, l’avrebbe sradicata.

La terra che ti poteva guardaresenza colore era rimasta,luce più non rifletteva.Profonde ferite mai rimarginate.

Nessuna aurora allontana il buio!Alzava la speranza d’abbracciare un’altra tempesta!Non importa di quale mese! Sa che la porteràa contemplare la bellezza della sua piantinadotata ormai di fiori con cento colori!

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TRA

DU

ZIO

NI

Tu

Il tuo visouna parolala variazione di alcuni semplici suoni,di simboli.Il tuo corpoverboe fiume della vitache trascina via tutto con sé,addormentato.Il tuo profumoun ricordo dal futuro.Il tuo saporeun mistero.I tuoi occhiun luogo in cui riposaresognarenuotarevivere.Tuun mondouna parolail tempo di un battito del cuore.Tuconiugazione al tempo futuro.

You

Your facea nounthe variation of sounds,of symbols.Your bodya verband the river of lifeit carries within,asleep.Your scenta future memory.Your tastea mystery.Your eyesa place to sleepto dreamto swimto live.Youa worlda worda lifetime in a heartbeat.Youmy future tense.

Il Commento

In un lampo, il viso sfregiato,una lacrima nel petto.(la mente che urla,la carne, un pianto in un nero abisso melmoso)E il cazzotto diretto in faccia delle consonantiche hanno fatto sanguinare il cuorefurono contenute in un commento di sfuggita.

The Remark

In a flash, a slash in the face,A tear in the chest.(the mind that yells,the flesh, a cry in the crisp dark waters.)And the blunt blow of the consonantsThat made the heart bleedWere contained in a passing remark.

Traduzioni di Matteo BianchiPoesie di Arevalo Rendall

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di Francesco Benazzi

Sul dialetto n. 3

Al progressivo, forse inesorabile, decadere dell’usoorale del dialetto ferrarese, sorte ormai condivisa daquasi tutti i dialetti italiani, fa riscontro da qualchedecennio un incremento nell’uso scritto e letterariodello stesso. È vero che ciò avviene per opera soprat-tutto di scrittori anziani, che hanno più dimestichez-za col dialetto, ma il fenomeno è comunque degno dinota rispetto all’assenza di una nostra specifica tra-dizione. Sul primo punto, sarebbe auspicabile che siattuasse un’inchiesta per verificare il numero deglieffettivi parlanti il dialetto. Per quanto riguarda ilsecondo punto, penso a quanto è avvenuto a suotempo nel rapporto latino-volgare: il latino, scom-parso gradualmente dall’uso orale, è sopravvissutograzie alle opere degli umanisti o come oggetto distudio, erudito o filologico. Sarà così anche per la lin-gua dialettale? La risposta potrebbe essere proprionella conferma che viene dai numerosi scritti in pro-posito. I nomi che vengono alla penna sono quellidegli antesignani del genere: Bruno Pasini, VitoCavallini, Alfonso Ferraguti. Ciò che colpisce, spe-cialmente nel primo, forse il più dotato, è il tono pre-valente, serio, a volte lirico, a volte patetico, tono chesi ripete, pur nella varietà delle espressioni, negli epi-goni Vincenzi, Peverati, Guidetti e molti altri. Ci siaspetterebbe un prevalente tono giocoso, umoristico,satirico a cui il nostro dialetto appare mirabilmenteadatto. Scrive Giorgio Bissi nella prefazione a Pasini“Invero, il dialetto ferrarese, così duro per sua natu-ra, eccessivamente aspro, tronco e poco musicale,sembra essere il meno adatto per piegarsi duttile edocile… ai sentimenti anche i più delicati”. E invece,almeno nelle intenzioni, avviene il contrario, compli-ce anche la tentazione di emulare i moderni poeti inlingua. Questi scrittori sono costretti spesso a ricor-rere a prestiti di vocaboli dalla lingua italiana, che avolte suonano come forzature. Non dimentichiamociche gli scrittori dialettali che si sono guadagnati cita-zioni in tutte le antologie scolastiche, cominciandodai grandissimi Belli e Porta fino ai vari Pascarella,Trilussa, per non dire addirittura di Carlo Goldoni, sisono tutti impegnati nel genere comico o satirico.Oggi forse soltanto Diego Marani, pur dichiarandosinon innamorato di Ferrara, si tuffa in un dialetto fol-clorico farsesco con la sua prosa esplosiva.Debbo comunque riconoscere, a onor del vero, che inmolti casi il dialetto si è dimostrato capace delle piùvarie espressioni.Una considerazione a parte meriterebbero le tradu-zioni da opere letterarie. Meglio dell’ottocentescoCittadella, troppo pedissequo nel tradurre il Canto Idella Divina Commedia (testo particolarmente presodi mira dai nostri scrittori) è soprattutto MendesBertoni, più libero e arguto nel tradurre alcuni cantidell’Inferno: traduzione non priva di evidenti forza-ture, ma che ha il grande merito di conservare la dif-ficilissima terzina dantesca. Bisogna dire che il tra-sferire un testo classico in lingua dialettale implicaun inevitabile, ma certo non meno valido, abbassa-mento ad un livello popolaresco e giocoso, se nonaddirittura parodistico, com’è avvenuto, mi sembra,

nelle mie versioni dall’Ariosto. Qualcosa di analogoè pur accaduto nel trapasso dal latino al volgare,vedi Merlin Cocai cioè Teofilo Folengo!Sorvolo, per brevità, sull’abbondante teatro dialetta-le, dove casomai si esagera nel tono francamente far-sesco e ridanciano. Anche qui si sono fatte traduzio-ni più o meno pregevoli da testi classici, come quellarecente del Malato immaginario di Moliere o quellaintrovabile, di Franco Giovanelli dei goldonianiRusteghi, intitolata I salvàdagh. Molto poi ci sarebbe da dire sui concorsi letterari chesi sono moltiplicati nei vari centri della provincia eche di letterario hanno ben poco (spesso misti, prosa,versi, lingua e dialetti), e dai quali non è emerso nes-sun nuovo nome. Le giurie di questi concorsidovrebbero essere composte di soli critici letterari,cosa che non accade mai, anche perché critici lettera-ri degni di questo nome che conoscono il dialetto fer-rarese non esistono. Meglio sarebbe, a mio parere,abolirli tutti.Nel campo degli studi sul dialetto non si può certotacere l’opera di coloro che chiamerei “dilettantigeniali”: dilettanti, perché non in possesso di qualifi-che che ne escludano la definizione; geniali, perché,ciò malgrado, si sono rivelati compilatori di testimolto validi di cui si avvertiva la necessità: mi riferi-sco naturalmente alla Grammatica comparata del dialet-to ferrarese di Baiolini e Guidetti e al Vocabolario deldialetto ferrarese degli stessi. Chissà che l’opera diquesti studiosi e di quella dei poeti assicuri alla lin-gua ferrarese l’immortalità.

A Titi Livio, cultore del dialetto

I t’à mis un nóm famošmo t’n’à briša prufità,un brav pàdar e un brav spóše cuntent int la tò ca.Zcórar con tì l’era un piašera la lunga d’Arianóvae spadźánd avanti e indrécon al sól o un póc ad piova.Am par d’vedart in cl’altar móndcon chi è gnu anch prima ad tìbaucàr žiránd in tónddal dialet ai nostar dì.«Mi a so bén d’in dóv derivala parola žipadóra, cum s’a scriv o cum a s’ležašé, šćevad e arždóra.»«Par piašér cum a s’a scriv,cum as’ lež che ti t’al sa,la parola Paradiš.»«Cuša conta? An’agh sén žà!»

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MEMORANDUM: appuntamenti con la Cultura EVENTIMercoledì 13 novembre, ore 16,00,all’Istituto di Storia Contemporanea(Vicolo S. Spirito, 11), Alfredo DeFilippis proietterà due filmati di altovalore artistico:- da Salisburgo a Vienna, un percor-so attraverso l’Austria Felix;- nell’antica cattedrale di San Gior-gio fuori le mura risuonano le notedel prestigioso organo secentesco.

Mercoledì 20 novembre, ore 16,30,in sala Arengo (Residenza Munici-pale), nel 150° Anniversario dellanascita di Gabriele d’Annunzio(1863-1938), Claudio Cazzola tratteràil tema “La Fedra di D’Annunzio ele altre Fedre”.

CONSIGLI DI LETTURAEdoardo Penoncini, Lungo è stato ilgiorno, Ibiskos Ulivieri, 2013.

G. Aguzzoni - A. Ghinato, Arte eBottega, Este Edition, 2013.

Lidia Ascenzo Vergnani, Amore persempre, Badiglione Ed., 2013.

Claudio Cazzola, L’enigma di Omero,Este Edition, 2013.

Valentino Tartari, Il destino delle far-falle, Este Edition, 2013.

RIGUARDO LA RUBRICA“CONSIGLI DI LETTURA”,

SI RACCOMANDA AGLI EDITORIE/O AUTORI (SOCI DEL G.S.F.)

DI SEGNALARE E INVIARE (COMECORRETTAMENTE FA PER ESEMPIOLA CASA EDITRICE ESTE EDITION)

LE NOVITÀ LIBRARIE, AFFINCHÉPOSSANO ESSERE INCLUSE NELLA

RUBRICA STESSA.

COMUNICAZIONI

La rivista l’IPPOGRIFO è un organodell’Associazione Gruppo ScrittoriFerraresi ed è perciò tenuta alla pub-blicazione dei testi degli associati, pur-ché questi rispondano ai principi statu-tari.Tutte le collaborazioni alla rivista sonogratuite. I testi proposti al comitatoeditoriale devono essere inediti, incaso contrario la responsabilità ricadesull’autore.

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La rivista, distribuita gratuitamentefino ad esaurimento copie, è reperibilepresso:• Biblioteca Ariostea;• Cartolibreria Sociale

(c.so Martiri della Libertà);• Libreria Feltrinelli;• Libreria IBS;• Libreria Sognalibro (via Saraceno, 43);• Este Edition (via Mazzini, 47);• Associazione Gruppo Scrittori

Ferraresi (via Mazzini, 47);• Club Amici dell’Arte

(via Baruffaldi, 6);• Centro Artistico Ferrarese

(via Garibaldi, 122);• Fioreria Alloni (viale Cavour, 82);• La Bottega del Pane (via Arianuova,

58/A; c.so Isonzo, 115; via Borgodei Leoni 55 (ang. piazza Tasso);via Mazzini, 106; via Bersaglieri delPo, 18).

• Sul sito del Comune di Ferraraall’indirizzo:www.comune.fe.it/associa/scrittori_ferraresi/index.htm

Testi informatizzati e comunica-zioni possono essere inviati, oltreche su supporto CD (preferibil-mente)/floppy e in cartaceo allasegreteria dell’Associazione, viaMazzini 47, 44121 Ferrara, e via e-mail al seguente indirizzo:[email protected].

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Si ricorda che la quota d’iscrizioneper l’anno sociale 2014 è di € 40(€ 20 per minorenni); la suddettapuò essere erogata:1. direttamente in Segreteria(via Mazzini, 47);2. mediante versamento su c/c ban-cario n. 13105-4 della Cassa diRisparmio di Ferrara, Agenzia 5, viaBarriere 12-26, intestato a “Ass.Gruppo Scrittori Ferraresi”, IBANIT48G0615513005000000013105;3. presso la Casa Editrice Este Edi-tion, via Mazzini 47;4. presso Libreria Sognalibro(via Saraceno, 43);5. durante le manifestazioni pro-grammate dall’Associazione.

LA SEGRETERIA DELL’ASSOCIAZIONE GRUPPO SCRITTORI FERRARESI

HA SEDE IN VIA MAZZINI, 47 - FERRARA

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Page 28: APRILE-SETTEMBRE 2013- Numero Trentatré - …associazioni.comune.fe.it/2887/attach/superuser/docs/...è di Carla Sautto EDITORIALE La rivista l’Ippogrifo, nata come bimestrale di

Fugge tra selve spaventose e scure,

per lochi inabitati, ermi e selvaggi.

Il mover de le frondi o di verzure,

che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,

fatto le avea con subite paure

trovar di qua di là strani viaggi;

ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,

temea Rinaldo aver sempre alle spalle.

L. ARIOSTO, Orlando Furioso, canto I, XXXIII

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