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Riflessioni su « storia nazionale e storia locale » *
Scopo di queste note non è di ripercorrere in modo sistematico le vicende e i termini del dibattito che sui rapporti tra storia nazionale e storia locale si è venuto sviluppando nell’ambito della cultura storiografica italiana, ma più modestamente di segnalare alcune implicazioni metodologiche e almeno in parte teoriche di quel dibattito. È parso dunque legittimo superare i confini definiti dal nesso storia locale- storia nazionale e far riferimento a quanto negli anni recenti si è venuto dicendo in tema di storia locale, di microstoria, di storia orale, di rapporto tra aspetti quantitativi e aspetti qualitativi della ricerca storica. Se questa impostazione ha forse importato rischi di sovrapposizione e intersecazione di piani diversi di discorso, aggravati dall’evidente sommarietà dei riferimenti, siamo tuttavia persuasi che solo entro questo contesto più generale possa prender l’avvio una riflessione sistematica sul ruolo che è in grado di svolgere oggi la ricerca storica a livello locale.La storiografia italiana sull’Italia contemporanea ha conosciuto, nel secondo dopoguerra, un momento particolarmente significativo di dibattito sul tema dei rapporti tra storia locale e storia nazionale. Coinvolta fu allora la storiografia che si richiamava al marxismo; e non a caso al centro del dibattito fu la storia del movimento operaio così come appunto era stata praticata dal gruppo di collaboratori della rivista « Movimento operaio » >. La grande fioritura di monografie locali che aveva preceduto quel dibattito (che si concluse, come è noto, con la chiusura della rivista) rispondeva, tra l’altro, a quel che Manacorda ha chiamato un risveglio di domanda storica coincidente con il generale rilancio dell’attività culturale nel secondo dopoguerra2. Metodologicamente, il genere monografico locale era incoraggiato (Bosio, Della Peruta, Ragionieri) per l’esigenza di procedere con rigore filologico alla sistemazione delle fonti della storia nazionale, in modo da rimediare — nel campo specifico della storia delle classi subalterne (operai, contadini) — alle insufficienze della tradizione storiografica liberale, e peggio ancora alle deformazioni della storiografia del ventennio fascista. Il dibattito ebbe allora grande risonanza e coinvolse — dentro e fuori la rivista — molti specialisti di storia del movimento operaio. Da un lato, esso valorizzò la ricerca locale ai fini del recupero o accertamento della documentazione di base indispensabile per rico
* Testo di una relazione preparatoria al seminario dell’Istituto nazionale e degli istituti associati sul tema Storia d'Italia, storia della Resistenza e storia locale, che si terrà ad Ariccia dal25 al 27 maggio 1979.1 Per i termini del dibattito, cfr. « Movimento operaio », 1955, nn. 1, 2, 3-4 e 5 e 1956, nn. 1-3.2 oastone Manacorda, Sinistra storiografica e dialettica interna in La ricerca storica marxistain Italia, Roma, 1974, p. 18.
Studi e documenti
struire la nascita e lo sviluppo delle organizzazioni politiche ed economiche della classe operaia e dei contadini, secondo una « prospettiva dal basso » che rimandava a un concetto della storia emergente dai grandi movimenti di massa. Dall’altro lato, vennero illustrati i limiti e le possibili deviazioni di un tipo di storiografia che, esprimendosi a livelli specialistici sempre più rigorosi e senza una sufficiente correlazione con la « storia complessiva », con lo sviluppo della società nel suo insieme, si esponeva all’accusa di corporativismo, di filologismo, di monografismo erudito. Si può dire che allora, per grandi linee, l’alternativa storia locale/ storia nazionale sembrò abbastanza vicina a equivalere all’alternativa tra storia dal basso (dei grandi movimenti popolari e di massa, secondo la lezione di Le- febvre) e storia dall’alto (storia politica, in senso accademico tradizionale, come storia degli stati, con tutte le varianti della storia diplomatica, histoire-batdille, histoire événementielle ecc.). In questi termini, l’alternativa prese perfino il significato di una contrapposizione frontale, che, oltre a essere scientificamente discutibile, si dimostrava addirittura contraddittoria. Ci fu allora chi fece osservare (M. Spinella) che il postulato di una « storia dal basso » concepita come storia delle classi subalterne «dal loro interno», implicava — contro le stesse intenzioni dei proponenti — l’accettazione del punto di vista della cultura dominante e del suo obiettivo di relegare le vicende delle grandi masse nella storia in un corpus separato e diverso, e di fatto culturalmente subordinato.Questo approdo, e il mutamento di prospettiva della ricerca storiografica ad esso connesso, benché almeno in parte giustificato dal taglio istituzionale e localistico di molti studi di storia del movimento operaio, non potrebbe tuttavia essere compreso appieno se non si facesse riferimento al « mutato clima culturale e politico » degli anni 1955-56, nei quali il dibattito si svolse3.
La premessa politica da cui erano nati « Movimento operaio » e gli altri studi del genere, ossia quella di una autonoma presenza delle classi sociali subalterne nella storia d’Italia, rispetto alla esclusione e « ghettizzazione » delle organizzazioni operaie dei decenni precedenti, veniva progressivamente meno [...]. Lo schema «classe contro classe» appariva semplicistico e definitivamente superato; la tensione ideale antagonista offuscata; sembrava opportuno, anzi più agevole, ridefinire e sottolineare il « ruolo nazionale » della classe operaia: da portatrice di quanto vi era di sano nella cultura e nella storia del paese — secondo il canone nazionale-popolare — ad elemento centrale e dinamico della vita italiana senza cui nessun progresso era possibile e realizzabile, come si era preannunciato — senza seguito, peraltro •— al tempo della guerra di liberazione e dei governi antifascisti4.
Sul terreno storografico, questo processo comportò un allargamento della problematica e degli interessi di coloro che furono coinvolti nel dibattito, l’abbandono dell’impegno prevalente sul terreno della storia locale e il concentrarsi dell’attenzione sulla storia nazionale con un’accentuazione della storia politica e delle istituzioni da un lato e, in anni più recenti, della storia delle strutture e dello sviluppo economico. Inevitabilmente sacrificati da questo orientamento restarono perciò gli studi di storia sociale, con particolare riferimento a quelli relativi agli aspetti quantitativi e soprattutto qualitativi delle classi e dei gruppi sociali; con un paradosso solo apparente, poi, uscì ribadito il carattere subalterno e specialistico degli studi di storia del movimento operaio e la storia locale, lasciata alle cure di studiosi spesso ai margini del dibattito storiografico nazionale, venne progressivamente perdendo la capacità di stimolare e riorientare la stessa problematica com
4 G. D’Agostino, N. Gallerano, R. Monteleone
3 Cfr. renato covino, Storia del movimento operaio, storia nazionale e storia locale. Per una ricerca sul movimento operaio e contadino in Umbria, in Università degli studi di Perugia, Annali della Facoltà di scienze politiche, Perugia, 1977, n. 13, pp. 87-140.3 lbid., p. 91.
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plessiva della storia nazionale. È un quadro questo, qui rapidamente tracciato, certamente assai sommario e schematico: pure, sembra corrispondere, nelle sue linee generali, a quanto recentemente è stato affermato circa i percorsi seguiti dalla cultura storiografica italiana nel secondo dopoguerra, e cioè che « il < politico >, l ’< economico > e il < sociale > costituiscono settori sviluppatisi di fatto in successione » 5.Si è visto nelle pagine precedenti come il dibattito sulla storia locale e sui suoi rapporti con la storia nazionale o generale, anche quando non venga concepito nei termini di una contrapposizione programmatica, sottenda in realtà problemi più generali di natura teorica e metodologica e individui un campo problematico se non conflittuale circa la natura e il carattere dei soggetti storici da privilegiare. Sicché, per molti versi, la querelle travalica i confini dell’oggetto specifico di queste note (del raccordo tra una « parte » e un « tutto » considerati in termini prevalentemente spaziali nell’impostazione tradizionale: centro/periferia; generale/ particolare ecc.) e investe i grandi, i massimi problemi della concezione e del ruolo della storia. È del resto entro quest’arco problematico che, negli anni settanta, per allusioni e riferimenti continui ma frammentari piuttosto che per un sistematico confronto, è possibile cogliere, dalle più diverse sponde, appelli a una nuova fioritura di studi locali come antidoto, correzione, approfondimento e, talvolta, più radicalmente, come alternativa quanto meno temporanea alle sintesi generali. Così, per restringersi a un dibattito che ha impegnato larga parte degli storici italiani sui risultati di un lavoro di grande impegno come la Storia d’Italia edita da Einaudi, è caratteristico come due studiosi che formulano — è stato osservato da Edoardo Grendi — diagnosi assai diverse sullo stato della storiografia italiana sull’Italia contemporanea, come Villani e Romanelli, concludano poi i loro interventi con un comune appello alle microanalisi. Diversi sono naturalmente i compiti e il significato che i due autori assegnano a questo riferimento: e ciò potrebbe bastare a mettere in luce quali equivoci e ambiguità contenga il concetto stesso di storia «locale ». Ma su questi problemi torneremo più avanti.Ci preme invece in primo luogo tracciare alcune rapide osservazioni circa il valore e i limiti di alcuni tentativi recenti di sintesi della storia dell’Italia post-unita- ria, dal cui bilancio, l’abbiamo visto, si sono tratti e si traggono auspici per l’approfondimento dell’indagine storiografica a livello locale. La nuova domanda di storia locale ■—- nei termini che preciseremo più avanti — non nasce certamente solo dall’insoddisfazione per le sintesi generali: in essa convergono una coscienza che non è eccessivo definire drammatica della crisi della ragione storica, della rottura di nessi praticabili e coerenti tra presente e passato, di incertezze e più di impotenza a scegliere un criterio di lettura del passato teoricamente definito (una volta che ci si sia lasciati alle spalle — e questa tentazione riemerge continuamente — il feticcio della « ricostruzione » di « ciò che è realmente accaduto » )6.Se si sceglie questo punto di partenza, però, è perché nel caso italiano i tentativi di sintesi della storia dell’Italia postunitaria possono essere presi a paradigma di quella « evoluzione » « di quanti si sono occupati di storia sociale in Italia in questi ultimi decenni » dalla storia locale a quella nazionale, di cui si discorreva
5 paolo macry-a. Palermo, Prelazione a Società e cultura dell’Italia unita, Napoli, 1978, p. 7.6 Cfr. lu isa passerini, Conoscenza storica e storia orale, in Storia orale. Vita quotidiana e cultura materiale delle classi subalterne, Torino, 1978. Vedi anche M. mazza, Ritorno alle scienze umane. Problemi e tendenze della recente storiografia sul mondo antico, in « Studi storici », 1978, n. 9, pp. 469-507.
precedentemente7. Esemplare di una vicenda che travalica il caso personale per diventare specchio di una tendenza di una intera generazione di storici che si richiamano al marxismo (ciò che ci consente di tralasciare, per ragioni di economia interna di questo lavoro, riferimenti ad altre sintesi di grosso valore come, per non citarne che alcune, quelle di Candeloro e di Carocci), è il caso della storia sociale e politica scritta per Einaudi da Ernesto Ragionieri. Non è tanto qui un problema di contrapporre la sua ricerca su Sesto Fiorentino ai temi più generali di storia italiana e internazionale successivamente affrontati (giustamente Collotti ha osservato come tra lo studio suH’amministrazione di un comune socialista e quello dell’apparato politico-amministrativo dello stato liberale non vi sia « alcuna contraddizione», essendo il secondo uno sviluppo e un allargamento delle stesse esigenze di ricerca che avevano mosso il primo8); quanto di sottolineare la particolare curvatura che assume questo allargamento dell’analisi che tende a legare in una visione unitaria, la storia dello stato nazionale a quella delle forme organizzate di opposizione. L’ultimo lavoro di Ragionieri — di cui va rilevata l’altissima qualità scientifica e cui va riconosciuto il pregio di aver riorientato problematicamente intere aree di ricerca (tra queste, va almeno segnalata quella relativa allo studio della politica estera italiana) — segna compiutamente il distacco dalla storiografia etico-politica si potrebbe dire sul suo stesso terreno, la storia dello stato unitario, appunto, analizzata tuttavia con la precisa coscienza e puntuale ricostruzione dei nessi che si stabiliscono con la società civile. Si tratta dunque, a pieno titolo, di una storia « istituzionale », dove tuttavia l’area delle istituzioni si allarga a comprendere nuove forme e nuovi soggetti storici, « invadendo » e esaurendo per questa via Tintero campo del « sociale ». « Istituzioni — ha osservato Galasso — non sono ora più soltanto Tamministrazione centrale e quella periferica dello stato, il parlamento, la corona, le amministrazioni locali, bensì anche le forze politiche e sociali in quanto formalizzate in organizzazioni definite, come i sindacati e i partiti » 9.Un’esemplificazione non appare qui necessaria dal momento che la dimensione « istituzionale » è il carattere fondante delTintero lavoro: valgano ad esempio, per contrasto, del significato e del ruolo che viene assegnato alla storia sociale le lucide pagine dedicate, quasi all’inizio dell’opera, alla « scoperta dell’Italia », dove la riva- lutazione sacrosanta dei materiali d’inchiesta ispirati e prodotti dalla classe dirigente e dalla cultura positivistica e la deprecazione dell’oblio cui la « rinascita idealistica » successivamente li condannò configurano una dimensione del « sociale » fortemente « oggettiva » (« le condizioni di vita delle masse popolari ») che solo può acquistare luce e spessore storico da una iniziativa « soggettiva » esterna 10.Nell’ambito di un giudizio che è largo di riconoscimenti al lavoro di Ragionieri, è stato R. Romanelli a sollevare un insieme di problemi di grande interesse per la valutazione delle caratteristiche della storiografia italiana contemporaneistica. Il consueto rilievo sulla forte prevalenza della storia politica viene da lui collegato a una analisi della specifica cultura storiografica italiana di impianto marxista e gramsciano. L’assunto è che il diffìcile rapporto che questa tradizione ha intrattenuto con le scienze sociali e viceversa l’apertura alTeconomia praticata all’in-
6 G. D’Agostino, N. Gallerano, R. Monteleone
7 Cfr. Giu se ppe ricuperati, Storia locale e storia nazionale. A modo di introduzione, in « Quaderno dell’Istituto per la storia della Resistenza in provincia di Alessandria », 1978, n. 1, pp. 18-26. La citazione è dalla p. 12.8 enzo collotti, Il lavoro dello storico, in « Italia contemporanea », 1975, n. 120, p. 6.8 Giu se ppe galasso, La storiografia di Ernesto Ragionieri: società e stato, in Società e cultura, cit., p. 62.10 Ernesto ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, voi. IV, tomo 3, Torino, 1976, pp. 1714-1729; in particolare p. 1716.
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terno di quella stessa tradizione, al di là dei risultati anche rilevanti che sono stati conseguiti, trova una sua spiegazione nell’impiego di categorie elaborate per affrontare egregiamente l’analisi della società ottocentesca, ma inadeguate a cogliere i caratteri nuovi della società novecentesca. Lo schema dicotomico applicato a una realtà investita dalla «grande trasformazione», che modifica i rapporti tra stato ed economia e modella diversamente anche i soggetti sociali, frantumandone la coesione secondo rigide demarcazioni di classi, anche quando viene arricchito dalla flessibilità degli strumenti di analisi resta alla base dell’impianto storicistico e progressista dominante (significativa è, in questo senso, l’insistenza con cui i teorici della storia sociale discutono sul concetto di classe in termini di « relazione » piuttosto che di « misura » quantificata e isolata, o riconsiderano il nesso struttura/ sovrastruttura in una accezione antideterministica). Di qui l’incapacità di quel tipo d’impianto di abbracciare e annettere entro uno schema unificante propriamente la dimensione sociale dei fenomeni che meglio potrebbero essere indagati con categorie di derivazione antropologica o tratte dalla psicologia sociale. E qui si innesta l’appello alle «micro-analisi», necessariamente imposte dall’uso di quelle categorie, e nelle quali Romanelli coglie « come una sospensione del giudizio una presa d’atto dello < smarrimento del senso >, che [gli] pare il primo passo per la conquista di una verità » u.Su un altro versante si collocano le considerazioni svolte da Pasquale Villani. Anche Villani prende le mosse dal lavoro di Ragionieri, che è naturalmente vincolato alla natura e alle caratteristiche della produzione esistente e mette in luce quindi la scarsezza dei risultati conseguiti sul terreno della storia sociale, per invitare a un impegno massiccio sul « molto, moltissimo... da fare nel campo quasi vergine della storia sociale. » Ma quale storia sociale? Una storia « che intenda seguire lo sviluppo del capitalismo nel suo dispiegarsi articolato, nei rapporti fra città e campagna, nei processi di proletarizzazione, ma anche di terziarizzazione, nella costruzione di una rete urbana e in altri vari e complessi processi sociali di aggregazione e di disgregazione», esplicitamente contrapposta alla «storia di classe» praticata da Merli, che consegue il risultato, secondo Villani, di « isolare » il proletariato di fabbrica « dal più generale contesto della società » n. Benché temperata da alcuni accenni alla necessità di salvaguardare il nesso tra aspetti quantitativi e qualitativi della ricerca, la sua proposta è chiaramente indirizzata verso un modello di storia sociale che non si discosta in realtà da quella auspicata da Ragionieri: si tratterebbe in sostanza di « colmare i vuoti » di conoscenza su questo terreno con il ricorso massiccio alle fonti statistiche disponibili, una stretta collaborazione con demografi, sociologi, studiosi di storia urbana, ecc., privilegiando « i mutamenti nella dislocazione territoriale e nella stratificazione socio-professionale » 11 12 I3. Un programma «ottimistico», come è stato definito, singolarmente parco di riferimenti alla necessità di ridefinire le categorie interpretative che hanno sino ad ora dominato il campo di analisi della storia italiana contemporanea.La diagnosi sulla scarsa presenza e rilevanza della storia sociale trova in ogni caso conferma dall’esame di un’opera collettiva che, per la sua stessa impostazione, si presta particolarmente ad essere utilizzata per una valutazione della produzione storiografica italiana: intendiamo riferirci alla Storia d’Italia curata da Levi, Le-
11 Raffaele Romanelli, Storia politica e storia sociale: questioni aperte, in Società e cultura, cit., pp. 89-111; Edoardo grendi, Micro-analisi e storia sociale, in «Quaderni storici», 1977, n. 35, pp. 506-520.12 pasquale villani, La storia sociale: problemi e prospettive di ricerca, in Società e cultura, cit., p. 78.13 Ibid., pp. 84-85.
vra e Tranfaglia 14. 11 suo impianto rispecchia in modo sostanzialmente equilibrato, anche al di là degli inevitabili dislivelli di qualità, il modo in cui storici di diverso orientamento nell’ambito della sinistra valutano il panorama degli studi esistenti. Una semplice scorsa al lemmario basta in ogni caso a confermare la netta prevalenza dei temi di storia politica o economica, non senza per la verità aperture a filoni che si sono venuti via via sviluppando in ambito storiografico (come la storia amministrativa) e a discipline altre dalla storia; sociologiche, giuridiche e polito- logiche in primo luogo. La scarsa propensione degli storici a impegnarsi sul terreno sociale è poi in qualche modo sancita dalla delega che, su questo terreno, viene fornita a sociologi per la redazione delle poche voci esplicitamente dedicate a fenomeni di grossa rilevanza sociale come la famiglia (Manoukian), le classi sociali (Pichierri), il mercato del lavoro (Paci)l5. Si trattava probabilmente di una scelta obbligata e per questo appunto particolarmente significativa; e d’altra parte i « non storici » in questione si segnalano per una spiccata attitudine a dare il necessario rilievo alla dimensione storica dei problemi affrontati. Per il nostro tema, è comunque importante che venga con forza sottolineata l’esigenza di una disaggregazione a livello locale come l’unica via per cogliere nella loro concretezza i ruoli giocati da determinati fenomeni sociali. Così è per la famiglia, di cui Manoukian sottolinea la centralità come fattore che qualifica gli stessi caratteri del processo di industrializzazione e grossi fenomeni come l’emigrazione e le forme di « resistenza » interne a quel processo. L’esigenza di lavorare sul terreno locale anche a livello storiografico è in primo luogo imposta dalle stesse caratteristiche delle fonti censitarie che « nascondono » la famiglia « storica » restituendoci soltanto la famiglia «anagrafica»; e d’altra parte solo studi per aree omogenee possono render ragione dell’intreccio, storicamente significativo, tra storia della famiglia e storia degli ordinamenti e delle strutture produttive, della fabbrica, delle classi e dei gruppi sociali16 17. Analoghi rilievi, di metodo ma anche frutto di giudizi e valutazioni ricavabili dalla ricerca storica sulle società italiane preindustriali e sull’Ottocento, muove Pichierri, a partire dall’osservazione di Caracciolo circa il carattere composito e misto della società italiana postunitaria. « Non si tratta tanto — argomenta Pichierri — dei tradizionali divari regionali, quanto dell’emergere continuo di elementi di dualismo, di ineguaglianza, di dialettica centro-periferia, all’interno della stessa regione, dello stesso settore economico, della stessa classe, della stessa impresa® n. Né vale la pena di insistere sulla rilevanza della frammentazione del mercato del lavoro specifica del caso italiano, che è all’origine dell’intera proposta interpretativa di Paci e che ha del resto trovato significative conferme e sviluppi anche in ricerche di taglio storico sulla fase della prima industrializzazione italiana 18.Dagli stessi lavori di sintesi comparsi negli anni settanta come dai dibattiti che intorno ad essi si sono sviluppati discendono dunque indicazioni per un approfondimento a livello locale, anche come riflesso della difficile tenuta, allo stadio attuale delle ricerche, di un discorso storico unitario.
8 G. D’Agostino, N. Gallerano, R. Monteleone
14 Cfr. Il Mondo contemporaneo. Storia d ’Italia, a cura di Fabio lev i, Umberto levra, Ni cola tranfaglia, 3 voli., Firenze, 1978.13 A questa tendenza fanno tuttavia eccezione le voci di brunello mantelli, Emigrazione, pp. 291-301 e di Mariella bezza-marco revelli, Salari, pp. 1167-1194, che individuano entrambe temi cui la riflessione storiografica non si è sottratta.16 agopik manoukian, Famiglia, in Storia d'talia, cit., pp. 377-390.17 angelo pichierri, Classi sociali, ibid., pp. 88-106. La citazione da p. 99.ls massim o paci, Mercato del lavoro, ibid., pp. 629-648; Andreina de clementi, Appunti sullaformazione della classe operaia in Italia, in « Quaderni storici », 1976, n. 32.
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Va osservato, tuttavia, che un tale impegno è predicato non in assenza ma in presenza di una cospicua produzione di storia locale sull’Italia contemporanea. L’altra faccia del predominio nella cultura storiografica italiana della dimensione politica e istituzionale in senso lato è stata per l’appunto il moltiplicarsi di contributi di storia locale a dimensione fortemente localistica o, viceversa, di pura notomizzazione subalterna dei discorsi storiografici dominanti al livello nazionale; in direzione cioè esattamente contraria a quella auspicata, a suo tempo, da Gastone Manacorda: « una monografia locale può ben contenere gli elementi problematici del quadro generale se coglie non per sovrapposizione dall’esterno ma facendoli scaturire dall’indagine i temi essenziali della trasformazione del mondo negli ultimi cento anni » 19.È significativo che queste ricerche si siano addensate pletoricamente attorno ad alcuni « nodi » storiografici di breve periodo successivamente individuati dalla storiografia « nazionale » ; oppure abbiano sezionato fino all’esaurimento per così dire geografico la storia dei partiti nazionali nelle singole realtà provinciali e comunali (ciò è soprattutto vero per la storia del Partito comunista). È il caso, ad esempio, delle ricerche •— non tutte, evidentemente -— dedicate alle origini del fascismo o alla storia della lotta di liberazione. Qui agisce nel modo più evidente quella subalternità della ricerca locale alle tendenze prevalenti nella storiografia nazionale e ai suoi ritmi di svolgimento che sembra giustificare la diffidenza e il fastidio verso una produzione peraltro fortemente sollecitata e alimentata dal mercato editoriale. Non tutto, in questo panorama, è ovviamente così scoraggiante. A semplice titolo di esempio — e quindi ben consapevoli di peccare per omissione — si possono al contrario segnalare alcuni lavori o gruppi di lavori su scala regionale e locale, che hanno avuto il non piccolo pregio di cogliere la specificità delle realtà sociali ed economiche prese in considerazione e insieme di portare contributi di grosso rilievo alla reimpostazione di temi di interesse complessivo.Un esempio particolarmente felice è costituito da quel gruppo di ricerche che hanno per asse interpretativo quello che è stato definito il «modello veneto». Per restare alle sole occasioni di impostazione e verifica collettiva di questo lavoro, svolto con taglio esemplarmente interdisciplinare — i due convegni sul movimento cattolico del 1973 e del 1976 — vanno rilevate sia l’attitudine a investire da un « osservatorio privilegiato » temi e problemi che attengono alla specificità dello sviluppo capitalistico italiano nei suoi aspetti economici, sociali e politici, sia l’ampiezza dell’arco cronologico via via investito dalla ricerca, in una prospettiva che intende dichiaratamente fare i conti e consumare le ipotesi tradizionali sull’arretratezza, i ritardi storici, la fisionomia non pienamente « borghese » della borghesia italiana20. Nella regione veneta, gli autori individuano un
luogo di gestazione e sperimentazione di un modello di sviluppo, economico e politico, che sopravvanza largamente i confini regionali. Da sacca periferica di strutture e sovrastru tture rese obsolete dallo sviluppo, area emarginata e depressa, appendice subalterna del triangolo industriale [...] il Veneto ci si configura invece come l’osservatorio privilegiato per l’analisi delle modalità e degli effetti dell’incontro storico tra moderatismo laico e cattolicesimo politico lungo l’arco dell’Otto-Novecento; e nel contempo per verificare tempi e proporzioni dei tentativi di dissidenza -— variamente motivata in senso intransigente, democratico cristiano, sociale, popolare — rispetto al progetto, che allo stato degli studi ci appare egemonico e vincente, di un blocco d’ordine capace di gestire lo sviluppo senza rinunciare ai pregi e alle garanzie del sottosviluppo 2l.
19 gastone Manacorda, I caratteri specifici della storiografia dell’età contemporanea, in « Quaderni storici », 1972, n. 20, pp. 390-391.20 Cfr. aa.vv., Movimento cattolico e sviluppo capitalistico, Padova, 1974 e aa.w ., La Democrazia cristiana dal fascismo al 18 aprile, Padova, 1978.21 Cfr. Movimento cattolico, cit., p. 7.
Una conferma e un arricchimento di questa impostazione viene dal convegno del1976. Qui si può vedere come fare storia di un partito — nel caso la De — possa non risolversi ed esaurirsi entro un impianto tutto ideologico e teso a ricostruire la linea politica come sintesi del dibattito politico ai vertici e richieda al contrario uno scavo in profondità sul terreno economico e sociale. I risultati consentono non a caso di ribaltare alcune delle tesi dominanti: dall’individuazione dell’intreccio inestricabile tra industrialismo e « modernità » da una parte e ruralismo e confessionalismo dall’altra, al chiarimento sulla natura di massa della De e al significato cruciale che assume, in tutto il suo spessore storico, l’organizzazione del consenso, come fatto non solo ideologico e propagandistico ma materialmente fondato.Così, per procedere rapidamente per esempi, la ricerca di Paul Corner sulle origini del fascismo a Ferrara si distingue per il rilievo accordato al programma agrario del primo fascismo: il primato degli interessi agrari che scatena la repressione violenta contro le organizzazioni di classe e i lavoratori agricoli (un dato acquisito e scontato fin dai più lontani reperti documentari e memorialistici) si accompagna ad iniziative per Fallargamento dell’area della piccola proprietà contadina, a fini di organizzazione del consenso e della creazione di una base di massa22.Analoghe valutazioni potrebbero svolgersi a proposito di alcuni contributi piemontesi e siciliani che hanno avuto il merito di rompere il silenzio su alcune zone ancora oscure — salvo alcuni tentativi di impostazione generale — della storia italiana del Novecento: dalle ricerche di Sapelli su fascismo, grande industria e sindacato a Torino a quelle, frutto di un lavoro collettivo, sulla dislocazione del blocco industriale-agrario in Sicilia tra età giolittiana e fascismo23.Né, per concludere questa rapida elencazione di titoli con un riferimento a lavori su periodi più recenti, lo stesso bilancio che della storiografia sulla Resistenza sullo sfondo della storia d’Italia ha tracciato Guido Quazza sarebbe stato possibile senza il supporto, largamente valorizzato nel suo volume, di una parte almeno delle numerose ricerche sulla guerra, la Resistenza e l’immediato secondo dopoguerra 24.Se tuttavia il bilancio continua a restare nel complesso insoddisfacente, ciò dipende da un insieme di fattori: accenneremo brevemente a due di questi.In troppe ricerche di storia locale la dimensione spaziale investita dall’indagine tende a identificarsi naturalmente, senza cioè che il fatto venga sottoposto ad alcuna riflessione metodologica, con le circoscrizioni amministrative (comunali, provinciali, regionali) che non sempre, e anzi di regola assai di rado, corrispondono ad aree omogenee o in qualche modo significative perché nodi di squilibri e contrasti geografici, demografici, sociali ecc. In altre parole, non si ha sufficiente consapevolezza del fatto, per estendere anche alle circoscrizioni minori un’osservazione di Gambi svolta a proposito delle regioni, che le ripartizioni amministrative sono di norma « astoriche ». « Le nostre regioni — ha scritto Gambi — sono [...] ripartizioni statistiche riverniciate di nome [...] e fondate, poco dopo l’unificazione nazionale, su una situazione economica e urbanistica, di reti viabili e di panorami demografici che nei quindici lustri venuti poi si modificò radicalmente in molte plaghe e oggi è quasi ovunque irriconoscibile » 25.
10 G. D’Agostino, N. Gallerano, R. Monteleone
22 Paul corner, Il fascismo a Ferrara, 1915-1925, B a r i , 1974.23 C f r . Giu lio sapelli, Fascismo grande industria e sindacato. Il caso di Torino 1929/1935', M ila n o , 1975; aa.vv., Potere e società in Sicilia nella crisi dello Stato liberale, C a ta n ia , 1977.24 guido quazza, Resistenza e storia d'Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, M ila n o , 1976.25 Lucio gambi, Le « regioni » italiane come problema storico, in « Q u a d e r n i storici » , 1977, n . 34 . p . 292.
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Il secondo fattore è quello delle fonti, che richiederebbe una trattazione a parte. Qui si può solo accennare al fatto che le ben note carenze di organizzazione e funzionamento del patrimonio archivistico e librario e i singolari squilibri nell’accessibilità alla documentazione da zona a zona (cui recentemente hanno cercato di ovviare meritorie iniziative di alcune amministrazioni locali) vengono aggravate da un uso spesso indiscriminato e eccessivamente dipendente dalle fonti disponibili (non si ripeterà mai abbastanza che le fonti rispecchiano l’istituto che le produce) e dalla ricerca molte volte fuorviante dell’inedito.Il riferimento alle condizioni diffìcili che nel nostro paese sono poste ai ricercatori dallo stato di conservazione e disponibilità delle fonti introduce agevolmente a un confronto, su questo terreno largamente scontato, con altre situazioni nazionali. A prima vista, sia la ricchezza e la disponibilità di archivi e biblioteche accessibili e ordinate, sia la tradizione lungamente coltivata di studi locali, sia infine la qualità dei contributi di ricerca su questo terreno che possono vantare paesi come la Francia, l’Inghilterra o gli Stati Uniti sembrano giustificare gli accenti malinconici di chi lamenta il « ritardo » che deve registrare la storiografia italiana26. E in effetti sono le peculiarità della cultura storica di quei paesi a spiegare la fioritura di monografie locali di altissimo livello scientifico27 28: in Francia, grazie alla tradizione storica dominante delle « Annales », con l’esplicito ripudio dell’evenemenziale e dello « statale » e il taglio « strutturalista » e aperto al contributo delle scienze sociali che particolarmente si presta a studi su aree storiche e geografiche omogenee; in Inghilterra e negli Usa per la radicata coscienza delle autonomie e del governo locale e l’importanza che vi assume la vita delle comunità 2S.In Germania, invece, l’interesse per le ricerche locali sembra ricollegarsi in primo luogo allo stimolo di un dibattito piuttosto recente che, in relazione ai problemi di analisi delle strutture, si è acceso sul modo di concepire la storia sociale come « scienza settoriale » o come principio di « storia universale » 29. Nel complesso, ha avuto ampio riconoscimento la tesi secondo la quale — specie per quanto riguarda il processo di industrializzazione e della « transizione demografica » — è dimostrabile che i mutamenti strutturali dell’« economico » e del « sociale » traggono spesso origine dagli avvenimenti locali o regionali30.In tutti questi paesi, la dimestichezza con l’uso delle scienze sociali (di lunga tradizione per la Francia e gli Stati Uniti, meno per la Gran Bretagna e la Germania) ha inoltre consentito, anche per la storia locale, una curvatura della ricerca assai lontana dalla storia politica e, viceversa, un privilegiamento degli aspetti sociali, culturali e anche delle istituzioni locali. Nel caso della storiografia tedesca, però, il privilegiamento di questi temi rispetto al « politico » risulta meno scandito, perché la tradizione della scuola storica rankiana fa sentire il suo peso anche su certe correnti (come quella degli storici strutturalisti) che pure hanno una evidente portata innovativa; resta valido, invece, il discorso per quanto si riferisce alle
26 C f r . , a d e se m p io , marco palla, Firenze nel regime fascista (1929-1934), F i r e n z e , 1978, p . 9.27 S u lle d if f e re n z e t r a la c u l tu r a s to r io g ra f ic a i ta l ia n a e q u e l la d eg li a l t r i p a e s i e u ro p e i , c f r . le a c u t e c o n s id e ra z io n i d i ernesto galli della loggia-raffaele Romanelli, Età contemporanea: storia del capitalismo o storiografia « volgare »?, i n « Q u a d e r n i s to r ic i » , 1973, n . 22 , p p . 20-48.28 P e r u n e fficace b i la n c io c r i t ic o d e lle s to r io g ra f ie te d e s c a , f r a n c e s e e in g le s e e le v ic e n d e d e i lo ro r a p p o r t i c o n le sc ie n z e s o c ia li , c f r . g.g. iggers, New Directions in European Historiography, M id d le to w n , 1975.29 S u i t e rm in i d i q u e s ta d is c u s s io n e c f r . H.u. w ehler , Geschichte und Soziologie, K ò ln , 1972 e , p iù in g e n e ra le , J. kocka, Sozialgeschichte, G o tt in g e n , 1977.30 V e d i in p a r t i c o la r e w. kollmann, Zur Bedeutung der Regionalgeschichte, in « A rc h iv f i i r S o z ia lg e s c h ic h te » , X V B a n d , 1975, p p . 43-50.
scelte degli storici sociali che si rifanno alla scuola di H.U. Wehler o al metodo di W. Abendroth per gli studi di storia operaia31.Pure, non è senza significato che negli anni settanta, tanto nel caso francese (e basterebbe cogliere quanto di non inutilmente provocatorio c’è nel pamphlet di Chesnaux per rendersene conto), quanto in quello americano (con il rilancio massiccio e politicamente connotato delle storie delle comunità locali), quanto in quello inglese (sul quale ci soffermeremo brevemente), si avvertono sintomi di stanchezza e insoddisfazione per le rispettive tradizioni di storia locale e richieste di rinnovamento.Si prenda per l’appunto il caso inglese. I locai historians di Leicester e i demografi di Cambridge hanno portato a compimento quella che R. Samuel ha definito felicemente « la rivoluzione borghese nella storia locale », avviata in Gran Bretagna nel corso di questo secolo32. È questo un passaggio che in Italia non è avvenuto o almeno è avvenuto in forme assai diverse, legate al culto delle memorie patrie e dell’unità nazionale e non all’assunzione delle trasformazioni capitalistiche e dei loro effetti sociali; un processo che ha trovato nei ceti medi intellettuali i suoi interpreti e mediatori nei confronti delle masse e che è degenerato in senso nazionalistico tra la prima guerra mondiale e poi nel fascismo: è toccato se mai agli intellettuali di tendenza marxista nel secondo dopoguerra di ereditare questo compito non svolto e di affrontarlo nei termini indicati dalla riflessione gramsciana. In Inghilterra, al contrario, la rottura con la tradizione precedente, che insisteva sulla storia delle comunità locali legate alla vita della parrocchia e al gossip quotidiano (quel quadro di maniera nel quale la miss Marple di Agatha Christie introduce quasi surrettiziamente il delitto) avviene con l’assunzione al centro della scena dei fenomeni economici e sociali connessi all’industrializzazione e la sostituzione delle vecchie dramatis personae con le fabbriche, i movimenti della popolazione, la stratificazione sociale, lo sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni ecc. A giudizio di Samuel, i risultati di questo imponente lavoro di ricerca33 portano con sé i caratteri della ripetitività, facendo apparire spesso intercambiabili, quando vengano affrontate sul lungo periodo, le storie di comunità diverse. Al centro dell’analisi stanno in primo luogo le località, gli ambienti fisici, le case, le fabbriche piuttosto che le persone che le abitano: riflesso del recente e rapido sviluppo di discipline e sottodiscipline come l’archeologia industriale, la storia della cultura materiale, la storia urbana ecc. e dell’abbondanza di fonti disponibili per questo tipo di ricostruzione. Quanto al contributo dei demografi, che pure hanno compiuto un ottimo lavoro in un campo fino a tempi assai recenti praticamente inesplorato, Samuel osserva che le loro ricostruzioni « suggeriscono un panorama arido, abitato da variabili statistiche e rocce sociologiche». Ad esempio, « invece della vita familiare, ci danno elaborate carte di nascite matrimoni e morti » 34.
Sono obiezioni che, in generale, valgono anche per la produzione storiografica tedesca di questi ultimi anni, dove peraltro si può riscontrare una specifica « cu
12 G. D’Agostino, N. Gallerano, R. Monteleone
31 Per una rapida rassegna degli orientamenti della recente storiografia tedesca del movimento operaio v. h .g. h a u pt , h .j. steinberg, Tendences de l’histoire ouvrière en République fédérale allemande, in « Le mouvement social », juillet-septembre 1977, n. 100, pp. 113-141.32 Cfr. raphael Samuel, Local History and Oral History, in « History Workshop », 1976, n. 1, pp. 191-208. La citazione da p. 193.33 11 saggio di Samuel citato alla nota precedente è corredato da una bibliografia orientativa ricca di guide alle fonti, dei lavori più importanti e delle numerose riviste consacrate alla storia locale.34 Ibid., p. 195.
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riosità » per gli aspetti del «soggettivo nella storia», che cresce (non senza vivaci controversie teoriche e pericoli di degenerazione)35 assieme ai suggestivi sviluppi della psicologia sociale, della storia delle idee e delle culture, della storia orale ecc. Tutto questo non solo ha ridestato una nuova sensibilità per il genere biografico, ma ha sollecitato in modo particolare l’interesse a dilatare il campo d’indagine dalle azioni alle sofferenze di massa, che accompagnano il processo storico di trasformazione della società, provocando, ai diversi livelli della piramide sociale, cariche di «potenziale protestatario», disomogeneo nelle motivazioni quanto problematico nei possibili sbocchi politici. È vero, comunque che troppa parte anche degli studi condotti in Germania in tema di demografia storica, di industrializzazione, di condizioni di vita materiale (salari e stipendi, famiglia, alloggi, consumi, tempo libero, istruzione ecc.) si mantiene sul terreno arido del calcolo statistico puro e superspecializzato, di cui si lamenta Samuel.Tipica sindrome da abbondanza, si dirà. E certamente, a paragone con i vuoti di conoscenza denunciati da Villani e la scarsa dimestichezza con strumenti ormai indispensabili per il laboratorio dello storico, benvenute sarebbero queste ricostruzioni anche da noi36. Ma le osservazioni di Samuel sono pure un avvertimento salutare contro l’appiattimento sociologistico che fa perdere rilievo o astrattizza le concrete relazioni tra i soggetti sociali; e al tempo stesso invitano gli storici a una maggiore consapevolezza teorica nei confronti degli imprestiti subalterni dalle discipline di impianto sociologico37. Lo stesso Wehler, che pur si esprime positivamente sull’utilità dell’indagine psicologica, però mette in guardia contro la tendenza a sopravalutarne la funzione nel metodo della ricerca storica38. Una deformazione del « soggettivo » in termini meramente psicologistici non potrebbe che ribadire il difetto (largamente avvertito e denunciato) di elaborazione teorica delle categorie della storia sociale: ciò per cui lo stesso rapporto oggettivo/soggettivo (non proponibile come equivalente a quello pubblico/privato) andrebbe chiarito anche nei confronti dell’assunzione dello «spontaneo» o dell’« imprevedibile » nella storia, senza sconfinamenti nel metapolitico, nel metaeconomico ecc. Paradossalmente, il fatto di « venire dopo » le molte esperienze straniere di cui si è discorso, può consentire di evitare errori commessi altrove.Pure, il nuovo interesse con il quale si guarda alle esperienze straniere non può essere ridotto a una semplice concessione a tematiche di moda o a un pedissequo tentativo di imitazione. In un bilancio delle tendenze dominanti nella storiografia mondiale degli ultimi quindici anni, A. Momigliano ne ha colto le novità più rilevanti nella attenzione ai « gruppi oppressi e/o minoritari nell’interno delle civiltà più avanzate: donne, bambini, schiavi, uomini di colore o, più semplicemente eretici, contadini, operai »; e ancora nell’interesse prevalente per la « cultura di massa, la magia, il folklore e, fino a un certo punto, la tradizione orale», sottolineando il ruolo cruciale assunto da tematiche di taglio antropologico39. Si tratta,
35 Cfr., ad esempio, J. rüsen , Historische Objektivität und Parteilickheit, München, 1977; R. koselleck, Objektivität und Parteilickheit, München, 1977.36 Considerazioni assai sensate sull’opportunità di non emettere verdetti di condanna preventivi nei confronti delle metodologie quantitative svolge paolo frascani, Per la storia della stratificazione sociale in Italia: i ruoli dell’imposta di ricchezza mobile, in « Quaderni storici », 1978, n. 39, pp. 1063-1114, specialmente alle pp. 1063-65 e alla nota 5.37 Cfr. RAPHAEL sam uel-gareth stedman jones, Sociology and History, in « History Workshop », 1976, n. 1, pp. 6-8; e anche gareth stedman jones, Class Expression versus social control? A critique oj recent trends in thè social history of « leisure » , ibid., 1977, n. 4, pp. 162-170, con particolare riferimento alla scuola funzionalista americana.38 H .u. w ehler , Geschichte und Psychoanalyse, Köln, 1971.39 Arnaldo Momigliano, Linee per una valutazione della storiografia del quindicennio 1961- 1976, in « Rivista storica italiana », 1977, fase. III-IV, pp. 596-609.
come è chiaro, di quelle stesse tematiche che vanno emergendo negli ultimi anni anche da noi, pur se stentano a consolidarsi in risultati storiografici definiti; e anzi, in molti casi, esprimono un rifiuto della dimensione storica e interesse per altri ambiti disciplinari, dopo il boom postsessantottesco della storia. Questo nuovo orientamento ha le sue radici in ragioni lato sensu politiche, che hanno concorso a mettere in crisi quella concezione razionale e progressiva della storia, che abbiamo visto essere alla base della connotazione « politicistica » della storiografia italiana sull’età contemporanea. È, se si vuole, un aspetto di quella « crisi del marxismo » che non poteva non investire un settore in cui, a partire dal secondo dopoguerra, assai forte è stata la presenza di energie intellettuali che al marxismo in qualche modo si richiamavano. Da questo punto di vista, le sintesi generali prodotte negli anni settanta danno l’impressione di essere uscite in qualche modo controtempo, come valutazione, attesa e prefigurazione di un corso della storia italiana prossimo a trovare sbocchi a più o meno breve scadenza risolutivi, sia che questi sbocchi venissero individuati come coronamento di un processo profondamente radicato nel passato, sia che se ne sottolineassero gli elementi di radicale rottura. È un’impronta, in ogni caso, largamente comune al pur differenziato ventaglio della storiografia marxista, che sconta, per questa via, l’incrinatura di alcuni concetti-chiave; ad esempio quelli di totalità e centralità.Nel 1972, Gastone Manacorda, intervenendo nel dibattito sulla storiografia contemporanea aperto sulle colonne di « Quaderni storici » da Caracciolo e Villani, aveva individuato i suoi caratteri specifici nella difficoltà, ma anche nella necessità di cogliere quello che si presentava come un processo mondiale e unificante, l’espansione del capitalismo su scala planetaria, entro una visione globale. Aveva inoltre insistito sulla « nuova unità » che, rispetto al mondo moderno, tendeva a caratterizzare, nel mondo contemporaneo, il rapporto tra politica e economia, tra stato e società40. Alla luce di quanto accennato precedentemente e in sintonia con quanto emerge dal serrato dibattito intellettuale dei successivi anni settanta (pensiamo specialmente ai contributi di Michel Foucault), si può quanto meno dire che si tende a dubitare della possibilità di cogliere in una visione globale un mondo nel quale si rilevano spezzature, frammentazioni, diversità, permanenze del vecchio nel nuovo, diffusione e disseminazione dei poteri ecc.; assenza, in una parola, di un « centro » stabile e di un punto di vista univoco dal quale poterlo traguardare. La cesura forte posta da Romanelli, come abbiamo visto, tra Ottocento e Novecento41 individua proprio nell’« età dell’imperialismo » la fase in cui non reggono più le classiche dicotomie ottocentesche; mentre la stretta connessione stabilita tra stato e società civile appare continuamente attraversata da fenomeni sociali —• la società di massa — che continuamente ripropongono momenti di opposizione e di conflitto.In questo quadro, le due centralità, storicisticamente fondate, del politico e dell’economico anche a dispetto dei tentativi di legarle in un quadro organico, come è stato caratteristico della storiografia d’impronta gramsciana, rivelano la loro inadeguatezza a cogliere la complessità e l’intersecazione di piani proprie della società italiana contemporanea.Simmetricamente, sul versante della storiografia di impianto « operaista » o legata alle posizioni della «nuova sinistra», vengono sottoposte a critica alcune delle categorie o dei privilegiamenti tematici che ne avevano caratterizzata la storia. Tra quelle in primo luogo la categoria della centralità della fabbrica e del terreno della produzione come luogo esclusivo della formazione delia coscienza di classe e
14 G. D’Agostino, N. Gallerano, R. Monteleone
G. Manacorda, I caratteri specifici della storiografìa, cit. R. Romanelli, Età contemporanea, cit.
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dell’emergere del conflitto sociale; tra questi, la tendenza a concentrarsi sui punti alti del conflitto di classe, dal « biennio rosso » alla Resistenza, alla ricostruzione nel secondo dopoguerra42. Tentativi di revisione sono già stati tentati: a semplice titolo di esempio, l’articolo di M. Vogliazzo e A. Zeppetella comparso in un recente numero di « Classe » e puntualmente segnalato da G. Quazza, propone di mettere al centro dell’analisi il rapporto fabbrica-società, analizzato non unidirezionalmente con l’assorbimento della seconda nella prima ma con una puntuale ricostruzione dei nessi che legano il rapporto di produzione al ruolo della famiglia, della comunità, delle tradizioni culturali ecc.43.In altre parole, sembra aver subito un colpo assai duro la tendenza a studiare la storia come « legittimazione », denunciata con forza e lucidità da Georges Haupt44. Non è comunque una forzatura inserire dentro tutto questo processo di crisi o ri- pensamento di vecchie e consolidate categorie e di nuova sensibilità per il lavoro storiografico svolto fuori dai nostri confini, non tanto allo scopo di colmare un ritardo (con l’eccezione degli Stati Uniti le ricerche straniere hanno solo parzialmente toccato il Novecento) quanto per soddisfare esigenze maturate autonomamente nello specifico contesto italiano, la rinnovata domanda e pratica concreta di storia locale.Questa domanda ha tuttavia, a sua volta, valenze e motivazioni non univoche, anche se tende a presentarsi in un rapporto assai stretto con la didattica e con l’attività di gruppi di ricerca non professionalizzati: si va dalla pura e semplice esigenza di verificare e « confermare » a livello locale una lettura tradizionale della storia unitaria, a ipotesi di lavoro che scontano invece una sostanziale inadeguatezza e insoddisfazione per il discorso storico dominante e dubitano della possibilità di costruire, allo stato delle ricerche, un disegno coerente e unitario della storia nazionale; dalle aperture verso l’antropologia che per loro natura richiedono una dimensione ravvicinata e «micro», agli imprestiti scarsamente mediati e subalterni da tradizioni, e scuole storiografiche altre, a quella che è stata chiamata la « nuova » storia locale che, se pur non sempre in modo limpido e come confluenza di molte delle esigenze qui sopra elencate, mette in questione la figura tradizionale del sapere storico come scienza separata e si appella a una « riappropriazione » del passato e a una « democratizzazione » della ricerca, con il ricorso anche a nuove tecniche di ricerca come la storia orale.In una recente messa a punto di questa tematica, la storia locale viene rivendicata in alternativa alla dominanza del discorso strutturalista, che nega la storia come opera consapevole degli uomini, e dello storicismo (si afferma la necessità di porsi in « discontinuità radicale » con il corso storico); mentre la si carica del compito di rompere con il quadro categoriale nazionale/statale45.C’è qui una concordanza con alcune delle analisi di Samuel, in particolare con la sua critica dell’« impersonalità » della ricerca storica dominante, e viceversa il suo invito a porre in primo piano la costruzione delle relazioni tra gli uomini e i gruppi
42 Cfr. il bilancio che della storiografia di impianto operaista traccia in un articolo di prossima pubblicazione su « Movimento operaio e socialista » Sandra Pescarolo; e le valutazioni autocritiche di s. Bologna, Otto tesi per la storia militante, in «Primo maggio», n. li, pp. 61-63.43 Alberto zeppetella-maurizio vogliazzo, Classe operaia e territorio. Dalle valli tessilialla città metalmeccanica, in « Classe », 1977, n. 14, pp. 17-39; e la segnalazione di guidoquazza in « Rivista di storia contemporanea », 1978, n. 4, pp. 632-634.44 Georges h a u pt , L ’Internazionale socialista dalla Comune a Lenin, Torino, 1978, pp. 22 sgg.45 P.P. poggio, Per una nuova storia locale, in Per una nuova storia locale. Materiali e proposte sul Bresciano, Brescia, 1978, pp. 3-25.
sociali, dove opera senza dubbio la lezione di E. P. Thompson. Samuel individua nella storia orale un correttivo importante in questa direzione: « serve come una misura di autenticità, a ricordare che le categorie dello storico devono alla fine corrispondere alla grana dell’esperienza umana, se hanno da avere forza esplicativa » 45 46.Di fronte agli entusiasmi che hanno accompagnato anche in Italia la « scoperta » della storia orale (che, almeno nelle applicazioni concrete nella situazione italiana si concentrano sulla dimensione locale e « micro ») si sono elevate voci più equilibrate e teoricamente agguerrite, forse con una eccessiva tendenza a codificare e « professionalizzare » un’attività di ricerca che vede soprattutto forze giovani impegnate a stabilire un nuovo rapporto con il passato in tempi di radicale cancellazione della dimensione storica 47. Ci sono in effetti rischi di rapida istituzionalizzazione 48 e al tempo stesso pericoli reali di una ipostatizzazione consolatoria e subalterna della separatezza e autonomia dei gruppi e delle classi oppresse. Sembra, in sostanza, che sia ancora una volta da accogliere un ammonimento di Samuel: « le fonti viventi dovrebbero essere trattate con lo stesso rispetto ma anche con lo stesso senso critico di quelle morte » 49.Più in generale, nella riscoperta di una storia locale come storia del « vicino », della vita quotidiana, del villaggio e del quartiere, delle comunità urbane e rurali, la ricerca degli elementi di omogeneità e di compattezza reca spesso con sé la sottovalutazione degli elementi di conflittualità interna della vita comunitaria o dei rapporti di dipendenza, conflitto, mediazione con l’ambiente circostante, gli effetti dello sviluppo capitalistico, l’impatto con la cultura dominante. In talune ricerche della giovane storiografia americana sulle comunità e la vita familiare, come in recenti lavori italiani che studiano prevalentemente le comunità contadine, l’assenza di ogni verifica dei nessi tra interno e esterno o dei conflitti interni, accredita fenomeni di « romanticizzazione », di idealizzazione e di esaltazione della « espressività di classe » che, come ha visto bene Stedman Jones, è la faccia speculare dell’ideologia del « controllo sociale » cui si ispira la storiografia dominante 50. Da noi, tuttavia, già esistono contributi che vanno oltre queste semplificazioni e dicotomie ideologizzanti, come è il caso del saggio di F. Ramella su una comunità tessile del biellese51.In conclusione, la domanda e la pratica concreta della storia locale corrispondono, nel nostro paese, a una reazione salutare contro categorie falsamente unificanti. In questa ricerca, esse incontrano e riscoprono l’analisi del sociale dopo il sacrificio e il lungo digiuno che questa dimensione ha sofferto nell’ambito delle tendenze dominanti nella nostra storiografia sull’età contemporanea.Del resto, è bene non equivocare sulla « novità » di questo filone di studi, che si qualificano non per la scelta dei temi, ma per il modo di affrontarli. Certo, l’informatica e la quantificazione restano sempre un momento fondamentale della
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45 R. sam uel, Locai history and orai history, c i t . , p . 204 .47 L. passerini, Conoscenza storica e storia orale, cit.48 Alessandro tr iu l z i, A Museum of Peasant Life in Emilia, in « H is to r y W o rk s h o p » ,1976, n . 1, p p . 117-120.49 R. sam uel, Locai history and social history, cit., p . 206 .50 P e r u n b i la n c io d e lla g io v a n e s to r io g ra f ìa a m e r ic a n a , c f r . james r. green, L ’histoire du mouvement ouvrier et la gauche americaine, i n « M o u v e m e n t s o c ia l » , 1978, n. 102, p p . 9 -40 ; p e r le n o ta z io n i c r i t ic h e su lle r i c e r c h e i t a l ia n e , c f r . mirella scardozzi, Comunità contadina e romanticismo rurale, in « Q u a d e r n i s to r ic i », 1978, n . 39 , p p . 1115-1121.51 franco ramella, Famiglia, terra e salario in una comunità tessile dell’Ottocento, in « M o v im e n to o p e ra io e s o c ia l is ta » , 1977, n . 1, p p . 7 -44 .
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ricerca, specie quando è applicata ai versanti di una realtà storica ancora inesplorata o insufficientemente conosciuta, com’è quella emergente da una visione della storia che parte da una « base » priva di una sua storia scritta, muta o parlante attraverso un genere di documenti inediti per provenienza e soprattutto per elaborazione scientifica (quelli, per esempio, che provengono dalla demografia storica, dall’antropologia culturale, dall’etnostoria, dalla storia orale ecc.). Tutto questo pone un problema di ridefinizione delle fonti che legittimi l’uso scientifico di tutto quanto serve a dare risposte plausibili a un modo diverso di interrogare il passato, senza esaurirsi nei canoni archivistici su cui regge il monumento della storiografia tradizionale, come storia di vertice (individui, o gruppi, o classi dominanti). La portata innovativa della ricerca storico-sociale consisterebbe appunto nella novità dei quesiti motivati dalla centralità del contemporaneo di cui trattano Bloch, Lefebvre, Chesneaux: un’inversione prospettica del rapporto passato-presente che contiene l’idea che il lavoro dello storico sia strettamente connesso all’attualità del « mondo sociale » e a una precisa scelta intorno alla sua destinazione (che è poi anche scelta di linguaggio). La consapevolezza della funzione sempre più determinante delle forze collettive nella storia destina ad esse la ricerca storica come strumento di riappropriazione del loro passato. Se con questo si intende ricuperare all’uomo la conoscenza e la coscienza della storicità della sua esistenza e del mondo in cui vive, il ruolo della storia locale si definisce come il settore più adatto a rintracciare con sufficiente chiarezza i presupposti, gli inizi e le fasi di sviluppo della struttura della società, quantificando e periodizzando l’incidenza dei diversi fattori, evidenziando le differenze all’interno di un processo generale,le cause delle sue accelerazioni o ritardi e gli effetti che tutto questo ha comportato sulla specifica organizzazione e sui mutamenti di un « territorio ».Spiegare come un ambiente ha assunto la forma attuale significa far anche capireche, oltre che un risultato, esso è anche parte di uno sviluppo verso il futuro.In tutto questo bisogna cogliere l’indicazione di un valore ermeneutico-didascalico della storia, rilevato in contrasto con il costume accademico di far troppa storia per gli storici e poca per insegnare52. Al limite, ciò può anche portare a vedere nella storia sociale un momento di politicizzazione della ricerca storica, in un senso non partigiano né squalificante, ma certo tale da riaccendere la disputa sul merito della « obiettività neutrale » e dello « specialismo » come requisiti di presunta scientificità e su fino a che punto motivi di questo genere servano, in realtà, di copertura per una storiografia conservatrice o conformista.Il problema si avverte anche negli studi di storia locale, dove il fenomeno del « feticismo delle fonti » e delle sue conseguenze sembra tutt’altro che inconsueto. L’uso di privilegiare la documentazione sui problemi porta a riproporre un modello di storiografia solo apparentemente neutra, «asettica» e «apolitica», perché in realtà essa rispecchia la stessa parzialità politico-ideologica da cui nessuna fonte è immune. Il meno che può accadere è di ridurre la ricerca storica a una sorta di inventario archeologico o a una raccolta di materiale per un « antiquariato di sinistra » 53. È soprattutto nel campo della storia orale (e, più in generale, della storia materiale) che appare più forte la tentazione di esaltarsi per l’indagine sulle tradizioni di vita e di cultura popolare in base alla novità dei risultati senza distinguere precisamente quanto c’è di genuina espressione popolare da quanto
52 Si veda lo sviluppo polemico di questo motivo in j . chesneaux, Che cos’è la storia, Milano, 1977, p. 142 sgg.53 Cfr. in proposito le riflessioni di eric hobsbawm , Labor History and Ideology, in « Journal of Social History », 1974, p. 371 sgg.; analoghi rilievi in j. kocka, Sozialgeschichte, cit., p. 93 sgg.
discende invece da una recezione più o meno consapevole della cultura dominante. Non meno reale è il pericolo di riprodurre nella recente produzione di storia locale le deviazioni tipiche del localismo o del monografismo erudito. Ciò può derivare da una eccessiva compiacenza verso il « miraggio del quantitativo » o da una Einkapselung del microstorico nelle sofisticherìe di tecniche superspecializzate di lettura e di misurazione delle fonti. Non sembra perciò infondata la polemica sorta sulla tendenza a atomizzare anche su questo terreno la conoscenza storica, in una esagerata frammentazione tematico-territoriale per cui anche una esperienza storiografica di alto livello come quella inglese è parsa viziata di « pluralismo eclettico», privo di coerenza e di unità. Si coglie anche qui una delle conseguenze dell’insufficiente definizione teorica della storia sociale, a cui si è accennato. L’approfondimento teorico rispetto all’emiricità dei metodi della ricerca « sul campo » e di rilevamento dei dati riguarda implicitamente il problema di realizzare una storia generale (nazionale) della società come «storia totale». È naturale che la questione non sia risolvibile in termini di semplice sommatoria dei risultati delle singole storie settoriali. Si propone piuttosto di assumere le tesi e le ipotesi elaborate nel campo degli studi locali come criteri di reinterpretazione della storia generale, verificando a questo livello tutto quanto la ricerca locale è in grado di dire sui nessi multicausali, sul peso delle diverse componenti, sul come e perché questo peso muti e con quali conseguenze.Quando per esempio, a conclusione del suo saggio, P.P. Poggio sottolinea 1’« obbligatorietà di uno studio settoriale e specifico e contemporaneamente globale, che cioè comporti l’applicazione in un’area regionale di categorie e griglie del sapere, modelli e ipotesi di portata generale » 54, si avverte che imboccare la strada della storia locale come alternativa secca a quella nazionale o internazionale non significa aver risolti neppure provvisoriamente i problemi teorici che stanno dietro alla crisi della ragione storica, e alla formulazione di uno statuto scientifico della storiografia contemporanea. Perché quella impostazione rinvia a una più matura e persuasiva definizione teorica della storia sociale nei suoi rapporti con le altre scienze sociali, definizione che oscilla tra il massimo che la vuole alla fine puro e semplice sinonimo di storia tout court e il minimo di uno specifico approccio allo studio dei gruppi e degli strati sociali subalterni, tra sintesi globale e micro-analisi; partecipe dell’antinomia, che è delle scienze umane, tra l’identificazione con lo scientifico solo di ciò che sia misurabile quantitativamente e l’impressionismo e l’approssimazione di troppi apprezzamenti di tipo qualitativo, cui non fornisce se non una soluzione puramente verbale la formula di Hobsbawm secondo il quale si tratta di combinare « tipi diversi di quantificazione con affermazioni qualitative » 55.
GUIDO D’AGOSTINO, NICOLA GALLERANO, RENATO MONTELEONE
18 G. D'Agostino, N. Gallerano, R. Monteleone
54 p .p . poggio, Per una nuova storia locate, cit., p. 17.55 Cfr. su questa problematica i lavori già citati di Passerini e Iggers. La citazione da Eric hobsbawm , Labor History and Ideology, cit., p. 390. Ma cfr. anche, per una prospettiva diversa e assai ricca di spunti, Carlo ginzburg, Spie. Radici di un paradigma scientifico, in « Rivista di storia contemporanea », 1978, n. 1, pp. 1-14, specialmente la p. conclusiva.