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LE ORIGINI Una città multietnica Chi sono i triestini? Cittadini del mondo, bisognerebbe dire. Il nome antico della città, Tergeste, rivela la sua fondazio- ne da parte dei Veneti: in venetico, infatti, la radice terg significa “mercato” e il suffisso este vuol dire “città”. La Este odierna (che i Veneti avevano chiamato Ateste) non a caso fu con Padova il centro più importante di questo popolo tra l’VIII e il III secolo a.C. L’origine dei Veneti, però, risulta ancora più antica e ci porta addirittura al 1250 a.C. più di 3000 anni fa, sotto le mura di Troia dove, come ricorda il poeta greco Omero, essi combatterono valorosamente accanto ai Troiani grazie ai loro meravigliosi cavalli da battaglia. Prima ancora erano vissuti nella Russia meridionale, come tutti i nostri antenati. È da lì, infatti, che deriviamo tutti noi che parliamo lingue indoeuropee (Veneti, Latini, Greci, Celti, Germani). Emigrati dopo la sconfitta troiana, essi popolarono a mac- chie di leopardo zone lontanissime fra loro: la Bretagna, la Polonia, i Colli Euganei. Qui il loro porto principale era Adria, da cui deriva il nome dell’Adriatico. Poi, un giorno, fondarono Trieste. Tutt’intorno, Trieste era circondata dagli Istri, che invece erano Illiri come gli attuali Albanesi, contro i quali i Vene- ti combatterono e vinsero. L’allontanamento degli Istri fece posto a una popolazione celtica (o gallica, se la chiamiamo alla latina): i Carni. Contro di loro i Veneti si allearono con i Romani e accettarono di esserne assimilati. In conclusione: Veneti, Istri, Celti, Romani. Già in origine, a Trieste ce n’era per tutti i gusti. STORIA LOCALE 1 L’“atto di dedizione all’Austria” per difendersi dai Veneziani Nel 1918 Trieste diventò italiana. La sua storia di città austriaca era stata lunga: anche se con interruzioni, era cominciata nel lontano 1382 quando, dopo essere stata espugnata dai Veneziani pochi anni prima, aveva capito di non avere la forza per contrastare quei vicini sempre più potenti e tutt’altro che teneri e aveva quindi firmato un “atto di dedizione” che la legava per sempre ai destini della casa d’Asburgo. Esso era stato un atto spontaneo, come dimostrano i documenti, e non una “usurpazione austriaca”, come, senza alcuna prova, aveva sostenuto la storiografia qualche tempo fa. Per diversi secoli la città non aveva tratto molto giovamento dalla sua parteci- pazione alle sorti del Sacro romano Impero. Venezia l’aveva riconquistata più volte e, quando faceva sentire il suo dominio, tassava il vino triestino, che in tal modo diventava troppo caro e non poteva essere esportato, le concedeva di vendere pesce fresco dove preferiva, ma pretendeva l’esclusiva del pesce salato pagandolo molto meno del suo valore. È vero che le comprava candele e pellami a prezzo pieno e le concedeva di vendere il sale delle sue saline ad Ancona, ma non era con queste attività che un’economia diventava florida. Un altro prodotto locale, l’olio, era appena sufficiente al consumo interno. Come se non bastasse, l’Austria e Venezia si combatterono per il possesso dell’entroterra veneto e friulano devastando le campagne intorno a Trieste, nel 1510 ci fu la peste e nel 1511 un terremoto-maremoto che finì di distruggere le mura, già cannoneggiate dalla Serenissima. Poi vennero le lotte contro i Turchi, la fuga degli abitanti, un’economia in rovina. Nel 1700 la città non contava più di 3000 persone. Ma nel fatidico anno 1719, la ruota della fortuna girò. Trieste asburgica

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le origini

Una città multietnica

Chi sono i triestini? Cittadini del mondo, bisognerebbe dire. Il nome antico della città, Tergeste, rivela la sua fondazio-ne da parte dei Veneti: in venetico, infatti, la radice terg significa “mercato” e il suffisso este vuol dire “città”. La Este odierna (che i Veneti avevano chiamato Ateste) non a caso fu con Padova il centro più importante di questo popolo tra l’VIII e il III secolo a.C.L’origine dei Veneti, però, risulta ancora più antica e ci porta addirittura al 1250 a.C. più di 3000 anni fa, sotto le mura di Troia dove, come ricorda il poeta greco Omero, essi combatterono valorosamente accanto ai Troiani grazie ai loro meravigliosi cavalli da battaglia. Prima ancora erano vissuti nella Russia meridionale, come tutti i nostri antenati.

È da lì, infatti, che deriviamo tutti noi che parliamo lingue indoeuropee (Veneti, Latini, Greci, Celti, Germani). Emigrati dopo la sconfitta troiana, essi popolarono a mac-chie di leopardo zone lontanissime fra loro: la Bretagna, la Polonia, i Colli Euganei. Qui il loro porto principale era Adria, da cui deriva il nome dell’Adriatico. Poi, un giorno, fondarono Trieste.Tutt’intorno, Trieste era circondata dagli Istri, che invece erano Illiri come gli attuali Albanesi, contro i quali i Vene-ti combatterono e vinsero. L’allontanamento degli Istri fece posto a una popolazione celtica (o gallica, se la chiamiamo alla latina): i Carni. Contro di loro i Veneti si allearono con i Romani e accettarono di esserne assimilati. In conclusione: Veneti, Istri, Celti, Romani. Già in origine, a Trieste ce n’era per tutti i gusti.

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L’“atto di dedizione all’Austria” per difendersi dai Veneziani

Nel 1918 Trieste diventò italiana. La sua storia di città austriaca era stata lunga: anche se con interruzioni, era cominciata nel lontano 1382 quando, dopo essere stata espugnata dai Veneziani pochi anni prima, aveva capito di non avere la forza per contrastare quei vicini sempre più potenti e tutt’altro che teneri e aveva quindi firmato un “atto di dedizione” che la legava per sempre ai destini della casa d’Asburgo. Esso era stato un atto spontaneo, come dimostrano i documenti, e non una “usurpazione austriaca”, come, senza alcuna prova, aveva sostenuto la storiografia qualche tempo fa. Per diversi secoli la città non aveva tratto molto giovamento dalla sua parteci-pazione alle sorti del Sacro romano Impero. Venezia l’aveva riconquistata più volte e, quando faceva sentire il suo dominio, tassava il vino triestino, che in tal modo diventava troppo caro e non poteva essere esportato, le concedeva di vendere pesce fresco dove preferiva, ma pretendeva l’esclusiva del pesce salato pagandolo molto meno del suo valore. È vero che le comprava candele e pellami a prezzo pieno e le concedeva di vendere il sale delle sue saline ad Ancona, ma non era con queste attività che un’economia diventava florida. Un altro prodotto locale, l’olio, era appena sufficiente al consumo interno. Come se non bastasse, l’Austria e Venezia si combatterono per il possesso dell’entroterra veneto e friulano devastando le campagne intorno a Trieste, nel 1510 ci fu la peste e nel 1511 un terremoto-maremoto che finì di distruggere le mura, già cannoneggiate dalla Serenissima. Poi vennero le lotte contro i Turchi, la fuga degli abitanti, un’economia in rovina. Nel 1700 la città non contava più di 3000 persone.Ma nel fatidico anno 1719, la ruota della fortuna girò.

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L’Istria e il Friuli tra VIII e III secolo a.C.

Il CarsoIl Carso della provincia di Trieste è un altopiano calcareo esteso per 130 chilometri quadrati a ridosso della città. Nelle sue viscere scorre il fiume più amato dagli speleologi: il mitico Timavo che i Veneti ritenevano un dio e che fu cantato da Virgilio. Dopo un lungo percorso sotterraneo esso rivede la luce a San Giovanni di Duino.Un altro mistero del Carso sono le doline (cavità circolari) e le foibe (cavità a imbuto).Un depliant turistico dice: “Ve ne sono a centinaia, ognuna diversa dall’altra: dai declivi dolci o dirupati, profonde pochi metri o decine, a volte veri e propri baratri, sprofondati come se una forza immane avesse perforato la superficie di pietra per uscire allo scoperto. Cosa ci sarà sul fondo? Un praticello un tempo coltivato, un caotico ammasso di pietre, una sterpaglia, un declivo coperto di fiori, pareti di roccia, un pozzo carsico che scende chissà quanto dentro la compagine calcarea o una grotta che spalanca il suo ingresso invitando ad affacciarsi su quel mondo sconosciuto”.

Il carsismo: il percorso sotterraneo del Timavo

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Trieste, porto franco

Il 1719 è l’anno in cui l’imperatore Carlo VI d’Austria, padre della famosa imperatrice “illuminata” Maria Teresa e nonno del suo “illuminatissimo” figlio Giuseppe II, decise di concedere a Trieste lo statuto di porto franco, ovvero di porto in cui le navi di tutte le provenienze possono caricare e scaricare merci, venderle e comprarle, scaricare prodotti grezzi e caricare prodotti lavorati, insomma compiere ogni genere di operazioni, senza pagare doga-na. È chiaro che un porto franco è destinato a diventare ricco, perché tutti lo vorranno frequentare. Ottenere lo statuto di porto franco, però, non fu facile: occorsero molte suppliche e molte promesse.Il fatto è che il porto di Trieste, il vecchio Mandracchio, era un disastro. Prima di tutto era (ed è) spesso falciato dalla bora e dallo scirocco, che rendevano insicuri gli ormeggi.In secondo luogo era piccolo e di acque basse, incapace di accogliere per-sino navi di media grandezza. In terzo luogo, il lazzaretto della città era in rovina e le navi provenienti dal Levante non potevano compiervi la quarantena, resa obbligatoria sin dai tempi della Peste Nera del 1348. Infine il Carso non permetteva l’apertura di agevoli vie di comunicazione e l’agricoltura dell’entroterra era troppo povera per riuscire ad approvvigionare la popolazione in crescita che il porto franco avrebbe determinato. I concorrenti erano Buccari, per la sua posizione strategica sul piano militare, e poi Cervignano, Aquileia, San Giovanni di Duino, Portorè e Carlopago. Ma una parte dei Triestini (contro l’altra, che si mantenne passiva) inviò tali e tante missioni con tali e tanti progetti a Vienna, che dopo dieci anni di fatiche riuscì ad ottenere l’agognata “patente”.

il DoCUMenTo

La composizione etnica dell’Istria nel XVII secolo

Prospero Petronio, medico, letterato e naturalista istriano del XVII secolo, indagò sulle origini della popolazione dell’Istria nell’opera Memorie sacre e profane dell’Istria.

Descrizione dei popoli della provinciaI primi e più numerosi sono gli Schiavi o Slavi, che pro-vengono dalla Dalmazia ovvero Schiavonia, che è l’an-tico Illirico. Sono gente possente e adatta alle fatiche.I secondi sono i Carni, artigiani che filano la lana e tessono i panni per la gente semplice, ma sono anche sarti, fabbri, riparatori di scarpe e scalpellini. Gente di buon senso e parsimoniosa che in poco tempo riesce ad arricchirsi. Sono anche di piacevole presenza e molto utili a questa terra. (Simili ai Carni sono i Friulani, che lavorano a stagione e dopo, con quanto guadagnato, tornano a casa.)Il terzo ceppo è di Grado, uomini nati pescatori quanto gli altri contadini, conoscitori del mare e della naviga-zione. Vivono sulla costa, a Umago, Cittanova, Parenzo, Orsera e laddove si può fare commercio di pesce con Venezia. Non sono inclini al chiasso e non fanno sfoggio

delle loro imprese marinare. Quei molti che si arricchi-scono con la pesca e con il commercio hanno comperato poderi e sono diventati cittadini delle città maggiori.I quarti sono gli abitanti nuovi, venuti dall’Albania e dalle altre regioni dei Turchi. Da ultimo ci sono gli indigeni, i quali, a causa delle numerose pestilenze e guerre, avevano radici non su-periori a duecento anni. Per cui si possono considerare indigeni anche i fiorentini, i bergamaschi e i veneziani e altri che qui, ben presto, si sono acclimatati.Sono venuti anche i Morlacchi1 che i Veneziani hanno portato dalla Dalmazia e dall’Albania. Sono inclini al furto e alla rapina e hanno causato disordini, ma col tempo si sono calmati.

1 Morlacchi: nomadi della penisola balcanica.

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I grandi lavori per il porto franco

Naturalmente fu necessario rimediare ai problemi della città. Per quanto riguardava il porto vinse il progetto di far avanzare la linea di costa in modo da arrivare a maggiori profondità marine per assicurare alle navi il massimo del pescaggio.Con grande entusiasmo si cominciò ad effettuare l’interramento delle sa-line dalla linea di mare fino all’altezza dell’attuale via Roma (oltre la quale alcuni bacini salati si incuneavano tra prati e orti) e dalle mura della città fino all’attuale via Geppa. Per colmare i fondali si cominciò addirittura a erodere la collina di San Giusto, fin quasi a farla franare e a minacciare il cimitero ebraico.A metà lavori scoppiarono due guerre1 e le opere dovettero interrompersi, ma poiché la patente era già stata concessa, le navi arrivavano e la città dovette fronteggiare emergenze di tutti i tipi, come dimostra il documento In attesa della ristrutturazione.1 La Guerra di successione polacca (1733-1738) e la Guerra di successione austriaca (1741-1748).

L’età di Maria Teresa e di Giuseppe II

Dopo la fine della seconda guerra, intorno alla metà del Settecento, furono l’imperatrice Maria Teresa e suo figlio Giuseppe II a capire l’importanza che Trieste rivestiva per l’Austria: uno sbocco sul mare per un impero quasi completamente continentale. Sotto questi due grandi imperatori fu finalmente potenziato il porto, fu co-struito il Borgo teresiano, a sinistra della Città Vecchia, un quartiere di ma-gazzini e uffici per i traffici portuali che in seguito divenne anche quartiere alto-borghese, e furono varate leggi per facilitare i commerci. Ma soprattutto Giuseppe II pensò a ripopolare la città dando le massime garanzie agli immigrati di tutte le provenienze con i seguenti provvedimenti:

Maria Teresa d’AustriaUn ritratto dell’imperatrice ancora adolescente.

Giuseppe II L’imperatore, a destra, con suo fratello Pietro Leopoldo.

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• equiparazione di tutti i sudditi cattolici, ebrei, luterani e ortodossi;• nessun obbligo per i figli di matrimoni misti (se non di padre cattolico) di essere educati al cattolicesimo;• concessione alle comunità protestanti costituite da almeno cento famiglie di costruire una propria chiesa, una scuola e di eleggere il proprio pastore;• autorizzazione per ebrei, ortodossi ecc. a “comprare e possedere terre e case”;• divieto di segregazione degli ebrei e abbattimento delle porte del ghetto.Grazie a questi provvedimenti illuministi e veramente lungimiranti, Trieste conobbe uno dei periodi più belli e floridi della sua storia e divenne un’invi-diabile oasi di pacifiche contrattazioni mercantili e di sicuro e ben regolato commercio di transito. Numerose ditte straniere cominciavano a investirvi i loro capitali e l’afflusso di immigrati era tale che vi si parlavano tutte le lingue, dall’italiano al croato, allo sloveno, al greco. Per far loro posto furono costruiti altri borghi, a partire dal Borgo franceschi-no (perché voluto dal nuovo imperatore, Francesco II, con decreto del 1796) che inaugurò l’espansione della città a oriente, tra le contrade del Molino grande (oggi via Cesare Battisti), del Torrente (via Carducci) e del Coroneo, fin a quel momento occupata dagli orti dei Padri armeni.Dopo di allora, gli imperatori cessarono di costruire i borghi con il denaro dello Stato e tutti gli altri sorsero per iniziativa di ricchi privati; il primo fu il Borgo Chiozza che nacque intorno alla fabbrica di saponi del genovese Carlo Luigi Chiozza, ubicata presso la confluenza di due torrenti che scen-devano dalle vallate di San Giovanni e delle Sette Fontane. Quella fabbrica divenne una delle più importanti della città. Alla fine i borghi furono dieci, sui dieci colli che circondano la Città Vecchia, prima del Carso.Borghesi e lavoratori si godettero questo periodo tra il lavoro indefesso e le gite in campagna diretti alle osmize, le trattorie dei contadini ai quali Maria Teresa, un’imperatrice che sapeva godersi la vita, aveva permesso con un apposito editto di vendere per “giorni otto” (osem in sloveno) ai visitatori le primizie dei loro orti, vino compreso. Ancora oggi, dove vedi i fraschi, i ra-moscelli d’edera, lì c’è una osmiza dove puoi fare un pranzetto con i fiocchi.

il DoCUMenTo

In attesa della ristrutturazione

Ecco la descrizione delle precarie condizioni di Trieste fatta da un viaggiatore dei primi del XVIII secolo.

La ristrettezza dei vicoli impedisce il passaggio dei carri che, giunti a fatica in piazza, vi debbo-no scaricare le merci per farle portare dai facchini (con notevole dispendio) alla pesa pubblica, situata in una viuzza presso la porta del Mandracchio, dove è impossibile il transito dei carri.Ugualmente disagevole è lo scarico delle merci dal mare: il Mandracchio è in gran parte insab-biato e tanto ingombro di navigli che per consentirvi l’ingresso di un bastimento è necessario spostare tutti gli altri. È perciò necessario ricorrere a costose operazioni di scarico, ancorando le navi nella rada e utilizzando barche e zattere per portare a terra le merci. L’inagibilità del lazzaretto tiene lontane da Trieste le navi provenienti dal Levante, che si recano a scontare la quarantena ad Ancona. In città scarseggia l’acqua potabile, la pulizia delle strade è inesistente e le immondizie scaricate nel fossato che cinge la città contribuiscono, con le esalazioni delle saline, ad ammorbare l’aria.

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La floridezza della Restaurazione

Durante l’età napoleonica Trieste subì tre volte l’occupazione francese; di conseguenza le navi inglesi bloccarono l’accesso al suo porto e l’economia ne fu gravemente danneggiata. Ma con la Restaurazione tornò la prospe-rità. La flotta mercantile crebbe del 22 per cento, si sviluppò un’industria navale meccanica e cantieristica e nacquero le assicurazioni, onore e vanto dell’economia triestina. Tra queste i Lloyd’s austriaci. Li fondò un tedesco approdato per caso a Trieste di ritorno dalla Grecia, dove aveva combattuto a fianco dei patrioti contro i Turchi; si chiamava Carlo Lodovico de Bruck ed era un uomo colto, intelligente, cosmopolita, molto legato al mondo tedesco. I Lloyd’s nacquero come compagnia assicurativa a imitazione dei Lloyd’s di Londra, ma presto si trasformarono in una Compagnia di navigazione florida, proprietaria verso la fine dell’Ottocento di un’invidiabile flotta di navi a vapore.

La seconda metà dell’Ottocento

Intanto la popolazione aumentava e di conseguenza esplodeva l’attività edi-lizia. Si ristrutturarono numerosissimi spazi, tra cui la Piazza Grande che, si intuiva già, un giorno sarebbe stata aperta sul mare. Per costruire la stazione della Ferrovia meridionale, che dal 1857 collegò Trieste con Vienna, furono riaperte le cave di marmo romane di Aurisina i cui blocchi verranno utiliz-zati in tutto l’Impero per i palazzi di Vienna, Praga, Budapest e, ovviamente, Trieste.Conobbe nuovo splendore anche l’allevamento dei lipizzaner, i cavalli di Lipizza, fondato dagli Asburgo nel 1580, dove si selezionavano animali che nascevano con il manto nero o marrone e diventavano bianchi dopo 4 o 6 anni. Molti di loro partivano per Vienna dove venivano addestrati al dressage,

Trieste La pianta della città sotto Maria Teresa d’Austria, in una stampa settecentesca.

Borgo teresianoCittà vecchia

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cioè a particolari volteggi e figure, perché diventassero le cavalcature da parata della famiglia imperiale e della sua corte. Intanto, tra il 1856 e il 1860, l’arciduca Massimiliano, fratello dell’imperatore Francesco Giuseppe, face-va costruire il Castello di Miramare, una dimora incantata, dal panorama irripetibile, dove si recava spesso anche Sissi, l’imperatrice, amatissima per la sua bellezza e i suoi modi affabili con la popolazione.

L’irredentismo

Perché questi Triestini che l’Austria rendeva così prosperi divennero a un certo punto irredentisti, cioè lottarono per “redimere” la città annettendola al Regno d’Italia?L’espressione “terre irredente” fu coniata in pieno Risorgimento da un ga-ribaldino, Matteo Renato Imbriani, ma la questione dell’italianità di Trieste era già nata durante la Restaurazione nei circoli intellettuali dei quali puoi leggere le notizie nel box Nomi da ricordare. Essa non diede luogo però a episodi di vero e proprio nazionalismo fino al famoso anno 1848 quando i quattro deputati triestini convocati dall’imperatore per saggiare l’umore dei sudditi chiesero inaspettatamente che l’italiano diventasse la lingua ufficiale dell’intera Istria, sebbene essa fosse abitata in maggioranza da Slavi. Fu allora che tra le due comunità – italiana da una parte, croata e slovena dall’altra – cominciarono i primi screzi. L’Impero austro-ungarico ne fu ben felice e cominciò a giocare su queste rivalità facendo di tutto perché i due gruppi restassero deboli e nemici.Il movimento irredentista si sentì tradito nel 1882 quando il governo italiano firmò la Triplice Alleanza con l’Austria e la Germania. In quello stesso anno, Guglielmo Oberdan, repubblicano e irredentista triestino, organizzò un at-tentato contro l’imperatore Francesco Giuseppe, ma fu arrestato e giustiziato prima di realizzare il progetto. Dopo di allora il massimo rappresentante dell’irredentismo fu il socialista

Il castello di MiramareMassimiliano d’Asburgo vi passò con la moglie giorni felici prima di recarsi in Messico dove tentò di conquistarsi un trono e fu fucilato.

SissiLa mitica imperatrice d’Austria ritratta a cavallo, la sua grande passione.

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Cesare Battisti, deputato della pro-vincia di Trento al Parlamento austria-co. Scoppiata la Prima guerra mon-diale, compiendo un atto di grande coraggio, si arruolò nell’esercito ita-liano, invece che in quello imperiale come avrebbe dovuto in quanto sud-dito austriaco, e, preso prigioniero nel 1916, fu impiccato a Trento per “alto tradimento”. Del resto, ormai, essere filoaustriaci non aveva più senso. L’Impero asbur-gico stava sfaldandosi e la guerra ne segnò la fine. Ciò che era grave e che avrebbe avu-to presto conseguenze dolorosissime era piuttosto la rivalità esplosa tra estremisti italiani e sloveni, entram-bi imbevuti di nazionalismo, che una sciagurata dittatura avrebbe presto trasformato in odio feroce.

Cesare Battisti è condotto in cella in attesa dell’esecuzione

noMi Da riCorDare

Pietro Kandler (1804-1872) liberale e grande conoscitore della storia istriana. A metà Ottocento, egli sostenne l’italianità di Trieste ma, rendendosi conto che, senza il suo entroterra legato all’Impero austriaco, Trieste era condannata alla stagnazione economica, era contrario all’annessione all’Italia.

“La Favilla”, la rivista triestina che riunì intellettuali illustri come Francesco dall’Ongaro e Niccolò Tom-maseo (1802-1874), dalmata di Sebenico, patriota, cattolico, repubblicano, difensore della Repubblica di Venezia nel 1849, grande studioso della lingua e autore di numerosi dizionari italiani. La rivista si distinse anche per la sua attenzione nei confronti degli Slavi, in particolare degli Sloveni. I suoi collaboratori immaginavano un’unione di popoli liberi contro i reazionari della Restaurazione, una specie di piccola Svizzera, ed erano consapevoli che un’annessione all’Italia sarebbe stata una violenza contro gli Slavi. Lo stesso Cavour, da Torino, si dichiarò d’accordo.

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