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Storia nazionale e storia locale a confronto Il seminario degli Istituti Espressione dell’Istituto che la promuove, « Italia contemporanea » non può che riecheggiarne orientamenti e scelte. E tanto più questo legame acquista significato quanto più rinuncia a presentarsi come obbligo istituzionale per trasformarsi in oc- casione di dibattito, in sede di confronto tra le diverse matrici che concorrono ad elaborare la politica culturale dell’Istituto stesso. Il seminario su « Storia d’Italia, storia della Resistenza, storia locale » — svoltosi a Rimini dal 25 al 27 maggio per iniziativa dell'Istituto nazionale e degli istituti locali ad esso associati offre sicu- ramente più di una suggestione in tale direzione. Documentarne sia pure parzial- mente i lavori diventa allora doppiamente opportuno: e per consentire una più diffu- sa conoscenza degli esiti dell’iniziativa e per porre l’accento sulla tematica affrontata, sulla quale questa rivista intende sollecitare ulteriori contributi di ricerca e di discus- sione in parallelo con gli approfondimenti e le sperimentazioni che emergeranno dall’attività degli Istituti. L’incontro di Rimini si colloca alla confluenza di due distinti ma complementari problemi. Da un lato esso era chiamato a verificare le condizioni operative e l’atti- tudine scientifica degli istituti (ed è significativo che proprio gli istituti locali per primi si siano fatti promotori del seminario) nella fase di avvio di una nuova tappa della loro evoluzione; dall’altro intendeva assicurare un più diretto scambio con le esperienze in atto nella nostra cultura storica. Come è stato cercato il collegamento tra le due esigenze? Dopo un primo tempo lo ha ricordato Guido Quazza nella prolusione al seminario essenzialmente consacrato alla ricostruzione filologica- documentaria della vicenda antifascista e resistenziale ed un secondo (sviluppatosi tra gli anni sessanta e settanta) tendente all’inserimento di quei temi nella trama complessiva dell’Italia contemporanea, si trattava, per gli istituti, non tanto di can- didarsi a diretti interlocutori degli studi sul Novecento (candidatura già suffragata dai programmi adottati in questi ultimi anni), quanto di precisare la fisionomia di tale collocazione. Il conseguimento di un maggior affinamento metodologico e di un più stretto coordinamento nella programmazione delle ricerche rientra con ogni evidenza nelle esigenze primarie di questa transizione verso compiti più vasti e am- biziosi. Diventava allora necessario portare « in pubblico » le tematiche prevalenti nel lavoro degli istituti, incrociarne la riconsiderazione e l’approfondimento con un aspetto centrale del dibattito storiografico complessivo. Di qui la scelta di ripropor- re come naturale trait d’union tra i due ambiti di questioni chiamati in causa il rapporto storia nazionale-storia locale, scorgendo in esso un punto obbligato di riferimento sia verso l’interno che verso l’esterno. Di qui l’intento di assicurare al seminario una partecipazione che coinvolgesse ricercatori operanti negli istituti e

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Storia nazionale e storia locale a confronto Il seminario degli Istituti

Espressione dell’Istituto che la promuove, « Italia contemporanea » non può che riecheggiarne orientamenti e scelte. E tanto più questo legame acquista significato quanto più rinuncia a presentarsi come obbligo istituzionale per trasformarsi in oc­casione di dibattito, in sede di confronto tra le diverse matrici che concorrono ad elaborare la politica culturale dell’Istituto stesso. Il seminario su « Storia d’Italia, storia della Resistenza, storia locale » — svoltosi a Rimini dal 25 al 27 maggio per iniziativa dell'Istituto nazionale e degli istituti locali ad esso associati — offre sicu­ramente più di una suggestione in tale direzione. Documentarne sia pure parzial­mente i lavori diventa allora doppiamente opportuno: e per consentire una più diffu­sa conoscenza degli esiti dell’iniziativa e per porre l’accento sulla tematica affrontata, sulla quale questa rivista intende sollecitare ulteriori contributi di ricerca e di discus­sione in parallelo con gli approfondimenti e le sperimentazioni che emergeranno dall’attività degli Istituti.L ’incontro di Rimini si colloca alla confluenza di due distinti ma complementari problemi. Da un lato esso era chiamato a verificare le condizioni operative e l’atti­tudine scientifica degli istituti (ed è significativo che proprio gli istituti locali per primi si siano fatti promotori del seminario) nella fase di avvio di una nuova tappa della loro evoluzione; dall’altro intendeva assicurare un più diretto scambio con le esperienze in atto nella nostra cultura storica. Come è stato cercato il collegamento tra le due esigenze? Dopo un primo tempo — lo ha ricordato Guido Quazza nella prolusione al seminario — essenzialmente consacrato alla ricostruzione filologica- documentaria della vicenda antifascista e resistenziale ed un secondo (sviluppatosi tra gli anni sessanta e settanta) tendente all’inserimento di quei temi nella trama complessiva dell’Italia contemporanea, si trattava, per gli istituti, non tanto di can­didarsi a diretti interlocutori degli studi sul Novecento (candidatura già suffragata dai programmi adottati in questi ultimi anni), quanto di precisare la fisionomia di tale collocazione. Il conseguimento di un maggior affinamento metodologico e di un più stretto coordinamento nella programmazione delle ricerche rientra con ogni evidenza nelle esigenze primarie di questa transizione verso compiti più vasti e am­biziosi. Diventava allora necessario portare « in pubblico » le tematiche prevalenti nel lavoro degli istituti, incrociarne la riconsiderazione e l’approfondimento con un aspetto centrale del dibattito storiografico complessivo. Di qui la scelta di ripropor­re — come naturale trait d’union tra i due ambiti di questioni chiamati in causa — il rapporto storia nazionale-storia locale, scorgendo in esso un punto obbligato di riferimento sia verso l’interno che verso l’esterno. Di qui l’intento di assicurare al seminario una partecipazione che coinvolgesse ricercatori operanti negli istituti e

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studiosi esterni appartenenti sia al campo tradizionale della storiografia che alle aree delle altre scienze umane e sociali. Di qui infine il carattere complesso — e composito — del seminario, le sue continue oscillazioni tra la illustrazione di singole ricerche in svolgimento e la volontà di meglio caratterizzare quella che da più di un intervento è stata definita la crisi delia « ragione » o delle « ragioni » storiche. Questo secondo nucleo di questioni ha di fatto egemonizzato la fase centrale dei lavori, anche al di là delle risposte che possono scaturire dai nessi tra storia nazio­nale e storia locale. Le cause di tale « insistenza » sono molteplici e certo è difficile resistere alla tentazione di interpretarle, di sommare altre valutazioni a quelle che il seminario ha portato allo scoperto. Ma non è evidentemente questa nota di pre­sentazione la sede più pertinente. Limitiamoci perciò a registrare alcuni dati già sufficientemente delineati. In primo piano è salita senza dubbio la difficoltà di riu­nificare armonicamente i due obiettivi posti alla base del seminario, ma anche, e so­prattutto, l’urgenza con la quale, sull’impostazione dei programmi di ricerca, pre­mono gli interrogativi irrisolti sull’ufficio attuale e le prospettive della nostra cul­tura storica. Affermare che il proporsi di questi quesiti ha connotati organici e costi­tuzionali — al limite, di « generazione » — non sembra sprigionare quegli effetti consolatori che in altre occasioni sono stati chiamati in causa e che riposano peraltro sulla convinzione che la storiografia si riproduce essenzialmente dal proprio interno: i libri dai libri, le « scuole » dalle « scuole ». In effetti, il bisogno impenitente di fare i conti con eredità di lavoro ancora recenti — e verso le quali l’insoddisfazione, nonostante la consapevolezza dei gravosi impegni affrontati, è probabilmente desti­nata a crescere — appare come un tratto comune a matrici culturali diverse e con­trapposte. Poche storiografie, forse, come quella italiana degli ultimi trent’anni ma­nifestano esemplarmente la funzione preminente che può rivestire una chiarificazione degli scambi tra locale e nazionale, tanto più in una congiuntura caratterizzata da assidue anche se frammentarie e poco orientate attenzioni alla problematica della storia sociale. La ricca stagione — che in parte ci sta alle spalle, in parte prosegue — di sintesi sull’Italia unitaria ci dice che non siamo in presenza di un quadro da com­pletare, ma di un profilo da reinterpretare. I nuovi scandagli sulla formazione della classe dirigente, sulle interrelazioni tra rapporti di classe e intelaiatura istituzionale, sulla genesi dei grandi partiti di massa, sui caratteri della presenza internazionale dell’Italia a fronte dei conflitti interimperialistici sono ancoraggi obbliganti per ogni avanzamento degli studi, ma non di meno hanno bisogno di confrontarsi con ritmi complessivi di sviluppo della società italiana che restano tuttora avvolti da gravi oscurità, specie se analizzati nella prospettiva del passaggio dall’Otto al Novecento. E non occorre ricordare quanto pesi su queste « arretratezze », sulla possibilità stessa di utilizzare strumenti concettuali meno empirici dei consueti, l’ostinato divorzio dalle scienze sociali. Le rapide e spesso esterne fiammate degli ultimi anni verso la tradizione delle « Annales » confermano — per limitarsi ad una osservazione a mar­gine — che improvvisazioni e virtuosismi riescono diffìcilmente a coprire lacune tanto vistose. Confermano soprattutto i limiti delle conoscenze sul retroterra della nostra cultura storica. La stessa estrema « politicizzazione » che abitualmente si riscontra nella contemporaneistica italiana resta, secondo i casi, un superficiale capo di imputazione o un altrettanto schematico titolo di merito, se non è rivisitata sul filo del processo di aggregazione dei ceti intellettuali all’interno della società ita­liana. Ma su questi aspetti si era già soffermata la relazione di apertura del semi­nario, dovuta a Guido d’Agostino, Nicola Gallerano e Renato Monteleone ed ap­parsa sul fascicolo del dicembre 1978 di questa rivista. Il dibattito di Rimini, nelle sedute plenarie come nelle commissioni, ha certo tenuto ben presente la cornice ap­pena richiamata. Sia con impegnativi inviti ad approfondire il consuntivo storiogra­fico degli ultimi decenni, sia battendo con forza sulla crisi di identità delle nuove generazioni rispetto alle forme canoniche di trasmissione del sapere storico, sia ri­

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marcando le insidie di un persistente uso della storiografia come legittimazione, il seminario ha mostrato la propria tempestività e la propria disponibilità. E nel me­desimo contesto hanno trovato rilievo i contributi delle scienze sociali, fuori, ci sembra, da richiami formali e quindi ripetitivi sulla interdisciplinarità e tesi invece a indicare sbocchi concreti di collaborazione. A fianco, ma non certo subalterno (anche in ragione della vastità dell’interesse suscitato), si è dipanato il dibattito sulla storia orale, inevitabilmente in bilico tra le ambizioni degli « esperti » e le cautele degli « esterni » a questa area di studi.Va però aggiunto che, a fare le spese delle molte diramazioni e tentazioni del dibat­tito è stato proprio il tema di partenza, talora rimasto sullo sfondo. Questa circo­stanza renderebbe assai arduo il tentativo di estrarre direttamente dagli esiti del se­minario elementi suscettibili di comporre immediatamente un programma di ricer­che. Né l’obiettivo era nei propositi dell’iniziativa. È vero che non è mancato chi opportunamente — anche per ricondurre il discorso sulla storia sociale sul terreno di concrete sperimentazioni — si è spinto a delineare la possibilità di un sistematico corso di indagini sulla società italiana nella transizione dal fascismo alla repubblica, facendo perno sugli anni della seconda guerra mondiale, ma va da sé che queste ed altre analoghe proposte debbano anzitutto essere riportate alla capacità del­l’Istituto nazionale e dagli istituti locali di sviluppare nell’esperienza di lavoro i temi affrontati dal seminario. E qui si tocca un’ulteriore acquisizione dell’incontro di Rimini, non meno rilevante per la sua qualificazione di quanto lo sia stata la discussione storiografica. Il fatto che si sia realizzata — non solo senza preclusioni verso l’esterno, ma anzi sollecitandone l’intervento più ampio — una fitta parte­cipazione di quanti collaborano alla vita scientifica degli istituti, è un dato che con­ferma la peculiarità della struttura stessa di questi istituti, l’importanza che riveste per ciascuno di essi il disporre di una propria base associativa e di una piena auto­nomia, entrambi visti come motivi di arricchimento e non di dispersione nel quadro dei vincoli federativi che li legano all’Istituto nazionale. Ne è perciò scaturita la conferma non solo di quella struttura (e degli elementi che la contraddistinguono dagli altri enti, universitari ed extra universitari, che attendono alla ricerca storica), ma l’esigenza di renderla tramite verso ulteriori acquisizioni. I lavori della commis­sione espressamente dedicata a questi aspetti ha portato nuovi elementi alla defini­zione dei compiti e degli impegni degli istituti. Dalla richiesta di meglio definire l’ambito di iniziativa degli organi scientifici rispetto a quelli politico-amministra­tivi all’esigenza di far posto a competenze e interessi che vadano al di là del campo tradizionale della storiografia, emergono obiettivi che sarebbe riduttivo concepire come strettamente interni, perché da essi discendono conseguenze di rilievo per quanto riguarda la collocazione stessa degli istituti sia in rapporto con l’istituzione scolastica (e universitaria in primo luogo), sia soprattutto con i giovani studiosi che si accostano ai problemi della ricerca storica. Le risultanze del seminario vanno perciò lette non solo in aderenza al tempo specifico dei lavori — che pure, come s’è detto, sarà ripreso nelle diverse sedi, a cominciare da « Italia contemporanea », — ma dentro un arco più vasto, nel quale trova posto l’ambizione degli istituti a far valere i dati della loro originale esperienza* (Massimo Legnani).

* Presentiamo ora un resoconto dei lavori del seminario coordinato da Nanda Torcellan. Gli interventi di Masulli, Santomassimo, Rossi-Doria, Pavone e Ronconi, di cui diamo il testo integrale, sono stati rivisti dagli autori.

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Resoconto del dibattito

I lavori del seminario sono aperti dal presidente dell’Istituto nazionale GUIDO QUAZZA, che nella sua prolusione traccia il quadro delle iniziative culturali e di ricerca portate avanti dall’Istituto fin dalla sua fondazione e culminate nel « Programma per l’attività scientifica generale » del 1972. Dopo aver rilevato come il programma abbia sostanzialmente assolto alla sua funzione orientativa, Quazza sottolinea lo scopo precipuo del seminario: costruire un nuovo e più stretto rapporto di collaborazione fra gli istituti. Per conseguire questo obiettivo è opportuno utilizzare le nuove tendenze emerse nel dibattito storiografico soprattutto per quanto riguarda la storia sociale, non soltanto sul terreno nazionale, ma anche nell’ambito della storia locale, considerata come occasione di verifica del rapporto fra soggettivo e oggettivo, fra pubblico e privato. In questo campo aperto a nuove indagini si impone la necessità di inventare nuovi strumenti di ricerca e di formare quadri impe­gnati nell’aggiornamento critico e nel ricupero operativo dello stesso programma del 1972.Prende poi la parola RENATO MONTELEONE per illustrare alcune proposte anche a no­me di Guido D’Agostino e Nicola Gallerano, autori con lui della relazione introduttiva del seminario (pubblicata su « Italia contemporanea », dicembre 1978, n. 133). In particolare l’intervento di Monteleone sviluppa due problemi specifici: l’esigenza di una chiara defi­nizione del concetto di « storia sociale » e l’applicabilità delle indicazioni metodologiche e tematiche emerse nella relazione al campo proprio della storia della Resistenza. Per quanto riguarda il primo punto egli sottolinea che la storia sociale intesa come « storia del protagonismo collettivo » richiede una parallela attenzione sia alla definizione delle componenti sociali, sia all’interpretazione scientifica del comportamento collettivo. Questa problematica presuppone da parte dello storico sociale la possibilità di realizzare alcune precondizioni essenziali, quali una formazione sufficientemente interdisciplinare, la possi­bilità di fare ricorso all’équipe, e la presenza di strutture adeguate per il rilevamento, l’elaborazione e il calcolo dei dati. Queste premesse sono essenziali e indispensabili se si vuole procedere ad una ricostruzione della storia sociale d’Italia non solo nel periodo della Resistenza, ma anche nell’arco complessivo della seconda guerra mondiale, come è già indicato nel programma del 1972.Alcune riflessioni di carattere metodologico sul rapporto fra storia locale e storia del movimento cattolico sono presentate da STEFANO PIVATO; egli ritiene che allo studioso del movimento cattolico si pongano innanzi tutto due ordini di problemi. Il primo è dato dal pericolo di cadere nel municipalismo, qualora si voglia affermare l’autonomia delle realtà locali del mondo cattolico, nel quale invece fin dagli inizi del Novecento, prevale una tendenza centralizzatrice e la rigida struttura della gerarchia ecclesiastica. Tuttavia poiché la storia del movimento cattolico non si identifica necessariamente con quella della chiesa è possibile farne una storia a livello locale individuando, e in qualche misura iso­lando, le sue varie componenti — Fuci, movimento dei cattolici comunisti, l’antifascismo cattolico, ecc. —. Un secondo pericolo per la storiografia del movimento cattolico è costi­tuito dalla sottovalutazione del carattere di massa da esso assunto in Italia. Per evitarlo bisogna esaminare dall’interno alcuni fenomeni di carattere socio-religioso, importanti per un’analisi della società italiana nel suo complesso e non solo per il mondo cattolico. Nell’ambito della storia locale Pivato indica alcuni temi privilegiati per lo studio della soggettività, quali la famiglia, la parrocchia, lo sport, la scuola cattolica, momenti e stru­menti attraverso i quali si realizza la candidatura cattolica all’egemonia durante il regime fascista.Sui temi della ricerca quantitativa interviene poi LUCIANO BERGONZINI. il quale muove alcune critiche alla presunzione degli storici che sia sufficiente inserire alcuni dati quan­titativi per conferire una supposta maggiore compiutezza scientifica ed obiettiva alla loro ricostruzione, mentre la statistica non può che limitarsi a una pura e semplice rile­vazione del fenomeno se non è integrata da una approfondita ricerca sulle fonti locali. A conferma di tale assunto porta la testimonianza di proprie dirette esperienze di ricerca. Bergonzini conclude riaffermando la necessità che l’indagine quantitativa abbia una sua coerenza logica oltre che statistica, e che nel campo proprio degli studi storici vada ridiscusso il ruolo della stessa indagine quantitativa, a cui è preferibile, a volte, il metodo del sondaggio attraverso indagini di base.II rapporto fra storiografia e scienze sociali viene poi affrontato da Mariangiola Reineri, che indica come elemento prioritario nella metodologia della storia sociale la necessità di giungere all’acquisizione di esperienze pluridisciplinari e di categorie che appartengono alle scienze sociali, individuando tuttavia nella ricerca dell’ «antecedente logico » l’ele­mento distintivo tra storia sociale e scienze sociali. Trattando poi il problema del rap­porto tra storia nazionale e storia sociale Reineri afferma che esso può essere anche posi­tivamente strumentale, considerando il locale come il terreno più favorevole per verificare

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la possibilità di leggi generali dello sviluppo storico. Sono indispensabili, a questo pro­posito, nell’ambito di una storia che voglia raggiungere maggiore completezza teorica e documentaria, studi sui salari, la famiglia, le condizioni abitative, ecc., analoghi a quelli condotti nei paesi anglosassoni.A sua volta Giovanni Levi, riprendendo il tema del rapporto fra storia e scienze sociali, afferma che la storia ha il compito di accertare l’accaduto, mentre non deve fare previ­sioni per il futuro. Per quanto riguarda invece il rapporto fra locale e nazionale egli rileva come molto spesso il livello istituzionale non abbia riflesso sui vari « locali » e come la « microstoria » abbia il compito di studiare le singole istituzioni nel loro carat­tere precipuo e non come riflesso del nazionale sul locale. Una analisi di questo tipo im­pone la creazione di una ricerca nuova basata su indagini di tipo strumentale, catego­riale e individuale.Successivamente Angelo Bendotti e Giuliana Bertacchi, proponendosi di raccordare il dibattito generale con le esperienze di lavoro dei singoli istituti, illustrano i risultati rag­giunti da una ricerca sulla composzione sociale delle formazioni partigiane nella Berga­masca. Tenendo conto del già ricordato « Programma per l'attività scientifica generale » del 1972 e della nuova domanda di storia posta dalle ultime generazioni, i ricercatori dell’Istituto di Bergamo hanno analizzato la composizione sociale del partigianato muo­vendo da alcuni elementi essenzialmente sociologici quali la provenienza, l’età, la scolarità, la professione, il servizio militare, la partecipazione femminile e gli pseudonimi. Gli autori ritengono che già sulla base di questi riferimenti siano emersi alcuni dati interes­santi, che confermano l’ipotesi di una subalternità delle sinistre, del prevalere della com­ponente moderata e le particolari caratteristiche del movimento cattolico bergamasco.A Bendotti segue IGNAZIO MASULLI il cui intervento pubblichiamo integralmente.

Siamo alla ricerca di un « senso del passato, diverso e trasformato ». I problemi del mutamento quali si pongono oggi, in maniera radicalmente diversa, e senza con­fronti o continuità possibili, hanno messo in crisi una « funzione sociale del pas­sato »,l capace di legittimare il presente o di ispirare certezze quanto a soluzioni e modelli sociali per il futuro. Le inadeguatezze e le usure che si scontano in questo presente, rispetto ai problemi posti dal mutamento ed alle incognite che lo accom­pagnano, ci fanno misurare, tutta intera, una crisi della conoscenza storica, che corrisponde a quella più generale dei rapporti politica-cultura-società, e rispetto alla quale è davvero diffìcile lavorare sulla base di ipotesi che presuppongano formula­zioni di sintesi.Dalla constatazione di questa difficoltà non può non partire una qualsiasi riflessione o bilancio storiografico oggi. Sono d’accordo quindi con la relazione di D’Agostino, Gallerano e Monteleone2 quando da una simile constatazione prendono le mosse per il loro discorso. Come sono d’accordo sul fatto che il problema specifico del rapporto tra storia locale e storia nazionale, in questo quadro, non può essere trattato senza rinviare a quello più generale della storia sociale, e ad una disamina delle lacune che su questo versante esistono nella storiografia italiana contemporanea.Non che l’auspicato rinnovamento degli studi di storia locale rappresenti la risposta, unica e sufficiente, all’esigenza di colmare quelle lacune, ma non vi è dubbio che per questa via passi una parte importante di tale sforzo, se una nuova storia locale può e deve concorrere a riguadagnare le prospettive di una storia sociale, come storia della società, fondata sulla « complementarietà tra i modelli generali delle strutture e dei mutamenti sociali e lo specifico insieme dei fenomeni realmente occorsi, qualunque sia la dimensione geografica o cronologica dell’indagine »3, e quindi tendenzialmente globale.

1 Eric J. hobsbaw m , La funzione sociale del passato, in «Comunità», gennaio 1974, n. 171.2 Riflessioni su «storia nazionale e storia locale», in «Italia contemporanea», ottobre-dicem­bre 1978, n. 133, pp. 3-18.3 eric j. hobsbaw m , Dalla storia sociale alla storia della società, in « Quaderni storici », gen­naio-aprile 1973, n. 22, p. 64.

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Per questo bisogna allora rendersi ragione dei motivi di fondo che hanno portato a quella grave e non casuale carenza di, tutta intera, una dimensione di storia sociale nello studio dell’Italia dalla Unità ad oggi.È vero infatti che tali studi, per gran parte della produzione storiografica anche recente, sono svolti essenzialmente su due piani staccati: da un lato la storia poli­tica, troppo spesso ristretta nei limiti del breve e del brevissimo periodo, incapace di cogliere il rapporto tra la struttura e l’evento, dall’altro la storia economica, in­sufficiente anch’essa, se condannata dalla astrattezza dei suoi modelli e dall’insuffi­cienza di valutazioni prevalentemente quantitative. L’oscillazione, come tra due ter­mini di un pendolo, non è però particolare della storiografia marxista4, sibbene contrassegna in generale la storiografia dell’Italia contemporanea ed anche quella marxista; e, ciò che è più importante notare, per ragioni in gran parte coincidenti al di là delle impostazioni e motivazioni assai differenti. Per ragioni quindi che attengono allo stesso processo storico; e che consistono essenzialmente nel limite storico della democrazia nel nostro paese — dall’Unità al fascismo, al centrismo — problema che si è posto, e dal punto di vista delle classi dominanti, e da quello del movimento operaio e contadino, e che ha indotto sia gli uni che gli altri a ricercare in una storia essenzialmente politica le proprie ragioni : gli uni per giustificare una azione politica che dal principio ha eluso la questione sociale, gli altri per ripercorrere una strategia tesa costantemente a surrogare il mancato compimento di una rivolu­zione democratico-borghese. Le ragioni della prevalenza del dato politico nella ricerca storica corrispondono in ultima analisi al particolare rapporto tra politica e società come si è stabilito e si è andato evolvendo in un paese caratterizzato da quello che Trockij avrebbe definito uno «sviluppo storico combinalo»5: con un continuo so­vrapporsi e integrarsi di elementi vecchi e nuovi, con uno sviluppo economico pog­giante su molti elementi costitutivi, in definitiva con una funzione preminente ed alterata della politica, come è dato riscontrare nell’evoluzione particolare dei rap­porti stato-economia, potere politico e società civile.Se è dato rilevare rapporti tra ragioni oggettive e soggettive di un difetto comune nella storia d’Italia, pur tra modi diversi di intenderla, allora quello della storia so­ciale non è tanto un vuoto da colmare, quanto una connessione da ristabilire rispetto ai fatti economici e politici, per riaffrontare i problemi posti dalla interpretazione degli uni e degli altri, stabilendo nuove connessioni e rapporti che consentano gua­dagni di conoscenza.

Il posto da fare in questo senso alla storia sociale è tanto più necessario di fronte alla specificità del caso italiano, del caso cioè, mai sufficientemente sottolineato, di un processo di trasformazione economico-sociale non omogeneo, particolarmente contrastato nelle sue linee interne, frammentato quanto agli esiti, generatore di di­vari e squilibri particolarmente accentuati, caratterizzato dal sovrapporsi continuo e dalla commistione ricorrente di elementi vecchi e nuovi della formazione sociale, un processo in definitiva tutt’altro che lineare, e per lo studio del quale si richiede più che mai il ricorso ad una analisi ravvicinata del tessuto sociale e dei vari agenti,

4 Come sostiene Renzo Romanelli, Storia politica e storia sociale dell’Italia contemporanea: problemi aperti, in «Quaderni storici», gennaio-aprile 1977, n. 34, pp. 234-37.5 « L’ineguaglianza di sviluppo, che è la legge più generale del processo storico, si manifesta con maggiore vigore e complessità nelle sorti dei paesi arretrati. Sotto la sferza delle necessità esterne, la loro cultura in ritardo è costretta ad avanzare a salti. Da questa legge universale del­l’ineguaglianza deriva un’altra legge che, in mancanza di una denominazione più appropriata, può essere definita legge dello sviluppo combinato e che vuole indicare 1’accostarsi di diverse fasi, il combinarsi di diversi stadi, il mescolarsi di forme arcaiche con le forme più moderne. », lev trockij, Storia della rivoluzione russa, Milano, 1970, p. 20.

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di fenomeni interconnessi e di relazioni subordinate, per il quale è più che mai utile una scomposizione ed un riferimento ai soggetti sociali di base6. Di qui l’esigenza di un costante riferimento alle diverse realtà sociali.Veniamo allora ai problemi d’impostazione dello studio di tali realtà sociali, delle loro diversificazioni, ma anche del rapporto originario con i processi complessivi, delle esemplarità che esse possono rappresentare per singoli e molteplici aspetti che com­pongono i processi generali.Nella relazione è stato fatto un esempio di rapporto tra storia locale e storia nazio­nale con indicazioni a mio avviso senz’altro probanti. Mi riferisco all’esempio del Veneto, del quale si è voluto giustamente mettere in rilievo il carattere di « osserva­torio privilegiato » per aspetti specifici e caratterizzanti dello sviluppo capitalistico italiano in ordine a tutta una serie di rapporti economici, sociali e politici, l’emble- maticità dei quali travalica largamente i confini regionali. Molti altri esempi si po­trebbero fare : così, se il caso del Veneto risulta particolarmente interessante per l’analisi dell’incontro tra moderatismo laico e cattolicesimo politico, nonché « per il costituirsi di un blocco d’ordine capace di gestire lo sviluppo senza rinunciare ai pregi ed alle garanzie del sottosviluppo » 7, nel caso emiliano, ad esempio, altri ele­menti è dato analizzare egualmente significativi e centrali per le vicende sociali e politiche nazionali. E penso intanto alle peculiarità dello scontro sociale e politico in questa regione, per cui se da un lato esso presenta aspetti d’eccezione, d’altro lato proprio i suoi caratteri molto marcati meglio consentono di cogliere alcune linee di fondo del conflitto di classe nel nostro paese, sì da rivelare aspetti estremamente importanti della dinamica che ha condotto alla rottura sociale ed all’inizio delle lotte di massa alla fine del secolo scorso, e poi gli elementi che hanno caratterizzato il riproporsi di quella conflittualità sociale nei periodi successivi, sempre che si voglia appunto vederli in rapporto alle varie fasi dello sviluppo capitalistico ed agli aspetti complessivi della trasformazione sociale. Ma non solo su questi aspetti più noti (e per i quali tuttavia nella produzione storiografica locale troppo spesso si trascurano proprio i nessi salienti con il processo generale di trasformazione), si tratterebbe di ritornare in sede di rapporto tra storia locale e storia nazionale a proposito del caso emiliano. Esso costituisce un osservatorio privilegiato, e comunque un punto d’osservazione quanto mai utile, anche per lo studio di tutta una particolare tipologia economica, formatasi nel corso del processo d’industrializzazione del paese, e ri­spetto al quale la tipologia economica e la morfologia sociale presenti nell’area emi­liana rappresentano aspetti assai meno particolari o periferici nel confronto con i luoghi ritenuti più centrali ed emblematici dello sviluppo capitalistico in Italia, solo che invece di guardare alle situazioni di punta si consideri il corpo largo della tra­sformazione sociale. Per cui quella emiliana si presenta come una delle aree strate­giche dello sviluppo capitalistico italiano8. Non è un caso che anche negli studi di storia economica, tranne alcune e tuttavia rilevanti eccezioni9, oltre a scontare i

6 SuH’importanza, per lo studio della storia d’Italia, della osservazione « dall’interno del si­stema » dei «rapporti sociali di base», ha richiamato l’attenzione ruggiero romano, Una tipo­logia economica, in Storia d’Italia, voi. I, I caratteri originali, Torino, Einaudi, 1972, p. 258; mentre altri ha sottolineato l’esigenza di « misurare gli elementi oggettivi e soggettivi dello svi­luppo, in Italia, di rapporti capitalistici » e di considerare quindi anche i « destini » delle diverse forze sociali, paolo macry, Sulla storia sociale dell'Italia liberale: per la ricerca sul ceto di frontiera, «Quaderni storici», maggio-agosto 1977, n. 351, pp. 534-35.7 Come è stato evidenziato in uno dei convegni citati su « Movimento cattolico e sviluppo capitalistico», Padova, 1974.8 Come tento di dimostrare in un lavoro di prossima pubblicazione.3 Quali i lavori di Dal Pane, Poni, Porisini e Zangheri (che si riferiscono però per la mag­gior parte a fenomeni e periodi precedenti l’età contemporanea).

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limiti propri del genere, e di cui si diceva al principio, si sia teso ad isolare il caso Emilia, molto più attenti alle particolarità che lo connotavano che ai rapporti ed alle connessioni generali. Corrispondentemente del resto ad un atteggiamento che si è riscontrato in sede politica prima ancora che in sede storiografica.L’altro problema molto importante — e pure toccato dalla relazione — è quello di come possa essere inteso il rapporto tra storia e scienze sociali nell’ambito della storia locale. Vorrei entrare nel merito del problema cercando di fare qualche esempio.A proposito del rapporto tra storia e sociologia, mi sembra assai utile un recupero ed un chiarimento della nozione di « contesto sociale » per lo studio dei fenomeni propri della formazione sociale, e che si svolgono su un piano, in un certo senso, intermedio fra il livello della struttura e quello della sovrastruttura (fenomeni che ha ragione Galli della Loggia ad indicare come erroneamente trascurati dalla storio­grafia marxista in Italia)10 11. In molti casi infatti risulta assai importante valutare il comportamento proprio del contesto sociale in presenza dei processi di crisi e tra­sformazione, in quanto gli elementi di resistenza, la capacità di tenuta o i fattori di reazione favorevole o sfavorevole che esso presenta riescono tali da modificare, talora in modo molto rilevante, l’andamento generale di quei processi. Così ad esempio nella crisi dell’economia montana nel secondo dopoguerra e nei nuovi sviluppi in­dustriali, con forti caratteri di localizzazione e specializzazione, durante la crescita industriale della fine degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta, è dato spesso di rilevare particolari gradi di resistenza o il determinarsi di condizioni partcolar- mente favorevoli da parte dei contesti socialiu .A proposito invece di rapporti tra storia ed antropologia, un contributo importante può venire da studi di storia locale, ad esempio, per quel grosso problema costituito dalle conseguenze di un allontanamento dal mondo rurale là dove si prospetta come definitivo, e quindi dalla rottura di radici vitali della nostra cultura e del nostro modo di essere. Che un’attenzione particolare per questo problema venga soprat­tutto da studiosi cattolici12 può essere comprensibile, ma non sarebbe né compren­sibile né giustificabile una sua sottovalutazione da parte degli altri13.Per ciò che riguarda poi il rapporto storia-economia, a proposito di squilibri regionali e sviluppo capitalistico, per fare un altro esempio, mi sembra che molto si potrebbe e si dovrebbe fare in sede di storia locale per affrontare problemi come : la polariz­zazione spaziale 14 15, la dinamica della concorrenza ineguale ls, gli elementi favorevoli

10 ernesto galli della loggia, Verso gli anni Trenta: qualità e misure di una transizione, in «Belfagor», 30 settembre 1974, pp. 499-500.11 Un buon esempio per la considerazione di fattori di questo tipo fu fornito dalle relazioni presentate al IV congresso mondiale di sociologia e raccolte nel volume « Aspetti e problemi so­ciali dello sviluppo economico in Italia», Bari, 1959, purtroppo senza che trovassero successivi ed adeguati sviluppi nell’elaborazione storiografica.12 Si pensi, ad esempio, alla problematica del gruppo di « Economie et humanisme » diJ.L. Lebret.13 Sull’esigenza che « quanto più un paese tenda ad allontanarsi dal tradizionale modello < agricolo > tanto più si renda necessario lo studio della sua agricoltura » e di « riproporre lo studio della società (contadina) o (rurale) e dei suoi rapporti con la restante parte della società globale proprio per meglio comprendere i complessi problemi delle società industriali», nonché sul fatto che per tale studio è « necessario il contributo di specialisti di diverse discipline », si veda g.a. m arselli, La civiltà contadina e la trasformazione delle campagne, Torino, 1973, pp. 3-14, e le utili indicazioni bibliografiche sui vari versanti del problema.” F. perroux, L ’economie du XXe siede, Paris, 1961, pp. 123-242.15 p. sylos labini, Oligopolio e progresso tecnico, voi. I, Torino, 1967, pp. 25-45 e 167-78.

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alla concentrazione e quelli favorevoli alla dispersione 16 la dipendenza dallo sviluppo e dalla localizzazione 17, e così via. Con il superamento quindi di una dimensione nazionale che per molti di questi fenomeni risulterebbe del tutto fittizia.Ho voluto fare questi esempi per indicare l’utilità di questo tipo di rapporti inter­disciplinari per un rinnovamento della funzione degli studi di storia locale, mentre sono molto meno convinto, anzi non lo sono affatto, dell’utilità di attribuzioni molto specifiche, ed in ultima analisi riduttive, alla storia locale, e sia pure dietro la sug­gestione della storia orale, dello studio della cultura materiale, o delle problematiche dell’organizzazione del territorio, poiché ciò significherebbe costringere la storia locale ad un genere; quando invece uno studio di storia locale deve recare in sé tutta intera la dimensione di storia sociale, come storia della società, « che non può essere una specializzazione, in quanto il suo oggetto non può essere isolato»18. Sicché le analisi di realtà locali devono portare a reinterpretazioni di storia generale studiando — come solo un’analisi ravvicinata del tessuto sociale può consentire — l’intreccio di fenomeni svolgentisi su più piani (economico, sociale, politico, culturale) e il con­corso di vari agenti nel determinare le risultanti, le quali immediatamente trascen­dono la situazione locale e mettono in grado di indicare il suo peso specifico nella vicenda sociale e politica nazionale. L’ambito della storia locale va inteso quindi come quello che meglio consente di individuare la genesi, i modi e le forme assunte da una struttura sociale rispetto ad un processo generale di trasformazione, che per parte sua concorre a determinare, e rispetto al quale, non solo misura le differenze, ma di esso dà conto quanto ai caratteri effettivi e ai passaggi concreti che lo conno­tano e lo determinano, quanto cioè alle componenti ed agli andamenti che in defini­tiva lo spiegano.

ETTORE ROTELLI affronta in un successivo intervento il tema della storia delle ammini­strazioni locali, per la quale mancano studi adeguati, anche per carenza di preparazione tec­nico-giuridica; invita ad una maggiore attenzione alla storia amministrativa considerata sul lungo periodo, e per quanto ci riguarda specificamente, dal fascismo alla Repubblica. In que­sto ambito sarebbe necessario ricostruire la struttura del personale politico e burocratico, analizzare le attività amministrative e, in particolare, i modi in cui vengono applicati gli ordinamenti giuridici, specialmente nei rapporto tra enti locali e apparato statale centrale. Solo con una verifica sulle singole amministrazioni si può cogliere l’importanza della Resistenza e il nesso di continuità o di rottura che esso ha rappresentato nella storia d’Italia.In una successiva comunicazione ALBERTO TAROZZI illustra il metodo seguito da un gruppo di sociologi in una ricerca sul partigianato emiliano condotta sulle fonti orali e sul­l’indagine quantitativa (cfr. Società civile e insorgenza partigiano, Bologna, Cappelli, 1979), I risultati della ricerca hanno modificato alcune convinzioni correnti sulla composizione sociale dei partigiani della zona, facendo emergere l’ipotesi di un movimento resistenziale basato su una forte base operaia, solidamente radicata però nella campagna e legata dalla solidarietà di gruppo tipica del mondo contadino.L’intervento successivo di AURORA LOM BARDI ha lamentato le gravi carenze della ri­cerca storiografica in alcune zone del Mezzogiorno, e, facendo riferimento al Molise, ha illu­strato la necessità di un lavoro di ricerca che, basandosi su un’ipotesi di lungo periodo, e utilizzando soprattutto le fonti orali e gli archivi privati e parrocchiali, sappia cogliere il rapporto con la storia nazionale.Interviene poi con una comunicazione scritta AURELIO RIGOLI, dell’Istituto di scienze antropologiche della facoltà di Magistero di Palermo, il quale esamina il rapporto tra antro­

16 e .m . hoover, The Location of Economie Activity, New York-Toronto-London, 1963, pp. 145-164 e 186-212.17 s. ku zn ets, Modem economie Growth. Rate, Structure and Spread, New Haven - London, pp. 160-219.18 ertc J. hobseaw m , Dalia storia sociale alla storia della società, cit., p. 56.

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pologia e storia e si chiede se sia analogo a quello tra storia ufficiale e storia subalterna. Illustrando la metodologia adottata in una ricerca sulle fonti orali per la storia dello sbarco degli Alleati in Sicilia egli espone i dati caratterizzanti la ricerca etnologica. Precisa tuttavia che l’oralità non è propria delle fonti subalterne, ma costituisce un patrimonio generalmente utilizzabile come integrazione delle fonti scritte; in questo modo la « non storia » contribuisce a una storia totale, che rivaluti il privato e il quotidiano delle classi subalterne, escluso finora dalla storia.A Rigoli segue GIANPASQUALE SANTOMASSIMO di cui riproduciamo integralmente l’intervento.

Penso che il rischio maggiore di queste riunioni è che si traducano, da un lato, nel­l’esposizione frammentaria e dispersiva di ricerche in corso, e, dall’altro, in una passerella dove ognuno espone esigenze e bisogni di studio, di ricerca e di integra­zione metodologica; spesso con la massima incoscienza, perché i formulatoli pro­fessionali di bisogni sanno benissimo, in genere, di non essere in grado di soddisfarli. Per quanto mi riguarda, vorrei intervenire liberamente e con la massima franchezza sui temi generali in discussione, rispettando quello che mi pare il carattere duplice dei lavori del nostro convegno, che è a metà fra seminario e conferenza d’organiz­zazione, che contempla cioè il piano della discussione storiografica ma anche quello della verifica del lavoro e dei programmi, e della ricerca di orientamenti fra gli istituti storici che fanno capo all’Istituto nazionale. Partirei da una valutazione som­maria della relazione preparatoria del convegno, che si fonda sull’asserzione di una « crisi della ragione storica » e che, in effetti, registra e rispecchia climi e atmosfere molto diffusi negli ultimi anni. Mi pare che essa pecchi, al tempo stesso, di cata­strofismo e di trionfalismo : da un lato per la valutazione (o la mancata valutazione) della tradizione storiografica da cui muoviamo e delle correzioni e delle integrazioni più prossime nel tempo che questa ha subito negli ultimi dieci anni; dall’altro per il rischio, che a tratti lascia intravedere, della costituzione di nuovi miti e nuove contrapposizioni artificiose che potrebbero sostituirsi a quelle del decennio trascorso ; « spontaneità »/« organizzazione », « base »/« vertice », «spinte dal basso »/« poli­tica istituzionale », e così via. Infantilismi che oggi si tende a dimenticare e sui quali si tende a sorvolare, ma sui quali sarebbe opportuno che l’Istituto riaprisse un di­scorso critico ed autocritico.In realtà, prima di accettare il terreno di discussione proposto dalla relazione, prima di accertare 1’esistenza di una crisi della ragione storica, è più utile procedere per sintomi e comprendere l’esatta natura di questa crisi. La storia non occupa più il ruolo che aveva in passato nella formazione dell’autocoscienza delle avanguardie come dell’opinione media colta. La stessa incidenza dei dibattiti storici è calata sen­sibilmente in tutta la sinistra italiana, se non per rigurgiti polemici che a tutti paiono strumentali e astorici (Marx e Proudhon, ad esempio). Più in generale, negli stessi orientamenti culturali delle nuove generazioni, di quelle masse che decretarono il boom della storia negli ultimi anni sessanta e nei primi anni settanta, si avverte un calo verticale di interesse e di sensibilità; a volte la stessa « memoria storica » che era sempre stata fattore di coesione e di omogeneità culturale sembra aver subito una brusca frattura, collocandosi come uno dei molti sintomi della disgregazione della società italiana.A mio avviso al fondo di questi fenomeni, per quanto ci riguarda più direttamente, stanno da un lato l’estinzione dell’uso della storia come forma di « legittimazione » individuale o di massa delle scelte politiche contemporanee, il processo per cui il presente (o l’interpretazione mitica del presente) schiacciava il passato e ne restituiva lineamenti distorti e spesso paradossali; d’altro canto stanno gli effetti del crollo im­provviso (e precisamente databile, non a caso, dal 1976) della politica intesa come sublimazione per masse vastissime di giovani e meno giovani intellettuali.

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Tali fenomeni non hanno in sé nulla di negativo, possono anzi ricondurre la storia a funzioni più consone alla sua natura e alla sua stessa possibilità di risposta.In questo senso, la crisi del sapere storico (preferirei questa formula a quella della « ragione storica », di cui ignoro 1’esistenza) non è altro che la crisi di un vasto set­tore di storici. È questo un primo punto fermo da fissare : non crisi della storia, ma crisi di alcuni storici, di una intera generazione se vogliamo, e del rapporto da essa inconsapevolmente instaurato con la politica. È crisi del politicismo esasperato e con- troversistico introdotto negli studi storici, constatazione della impraticabilità e steri­lità di un modo di intendere la lotta politica e culturale in Italia che aveva visto alcuni storici in prima fila nella creazione e nel mantenimento di questo clima.Le responsabilità andranno ben distinte, e coinvolgono gran parte della cultura de­mocratica e di sinistra in Italia, tanto di quella legata ai grandi partiti di massa, quanto di quella extraparlamentare, per le rispettive connotazioni e venature di « te- leologismo », e per la creazione surrettizia di miti come di controversie politicistiche applicate al terreno storico.Dimesse le ambizioni o le illusioni direttamente e immediatamente politiche, dimessi volta a volta i panni di «guida della Nazione», di «consigliere del Principe», di eccitatore e suscitatore di movimenti di massa alternativi, resterà di fronte allo sto­rico il problema del più giusto e circostanziato ruolo « culturale » che egli può as­sumere nella società italiana e nell’organizzazione degli studi, che è anche, a ben vedere, l’unica utile e possibile funzione « politica » a cui potrà assolvere in quanto storico, qualunque sia il suo orientamento personale.Paradossalmente mi sembra si possa dire che questa situazione di crisi, scontate le inevitabili lacerazioni personali degli storici più direttamente coinvolti (ma in qual­che misura lo siamo tutti), può essere positiva se si resiste alla tentazione di inven­tare nuove contrapposizioni e nuovi miti, ricercando invece un terreno di discussione e di lavoro comune.Se si rilegge il programma generale di ricerca approvato dall’Istituto nei 1972, si resta colpiti dalla sostanziale validità delle indicazioni programmatiche e delle ipotesi sto­riografiche di fondo (pure con l’ambiguità di una duplice accezione della tesi della « continuità » che era presente in quel programma e che è stata presente in seguito nell’attività dell’Istituto). Sono indicati vastissimi terreni di ricerca validi e ancora da esplorare. La discussione autocritica andrebbe invece impostata sulla esecuzione pra­tica di quel programma, e suH’impoverimento della prospettiva originaria che ne è derivato : studio privilegiato di alcuni aspetti della Resistenza e del secondo dopo­guerra, scarsa incidenza o completa assenza dell’Istituto sul terreno dell’analisi del fascismo. Ancora oggi sappiamo pochissimo sulla società italiana durante il fascismo, sulle trasformazioni da essa subite; abbiamo addirittura un numero di studi locali nettamente inferiore alla mole di ricerche, diseguali e frammentarie, prodotte negli ultimi dieci anni sul secondo dopoguerra. Ma senza lo studio e la comprensione del fascismo l’ipotesi della « continuità » rimane una semplice intuizione o una scommessa, e la cronaca minuto per minuto delle lotte operaie in questa o in quella fabbrica è pura « archeologia di sinistra », priva del respiro dei tempi lunghi della storia sociale.Come Istituto toscano ci siamo mossi da tempo su un terreno di ricerca abbastanza isolato: siamo stati i primi con il convegno su La Toscana nel regime fascista del 1969 a intraprendere lo studio dell’articolazione concreta del regime reazionario di massa in una realtà regionale; per riferirmi a ricerche in qualche misura collegate all’Istituto anche se non direttamente commissionate da esso, per povertà di mezzi e di strutture, abbiamo affrontato temi di storia sociale della Resistenza e del rap­

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porto fra Resistenza, clero e mondo contadino tentando di sfuggire a un’ottica cro­nachistica ed evenemenziale della Resistenza; con il lavoro di Marco Palla su Firenze nel regime fascista si è raggiunto, a mio avviso, uno dei risultati più importanti, an­che sul terreno metodologico del rapporto fra storia locale e storia nazionale e della possibilità di far convergere un linguaggio pluridisciplinare nell’autonomia irrinun­ciabile della sintesi storica. Organizziamo per i prossimi mesi un convegno su Pre­senza e attività dell’antifascismo a Firenze e provincia che vuole essere il corrispet­tivo di quello sulla Toscana nel regime fascista e che dovrebbe tendere a privilegiare sui temi partitici gli aspetti sociali e culturali della storia delle classi popolari, attra­verso il largo uso di documenti di polizia e degli archivi delle organizzazioni antifa­sciste come di testimonianze e di fonti orali. Tutto questo però nella prospettiva di una storia che non si contrapponga aprioristicamente e in maniera subalterna a quella che qualcuno definiva oggi « macrostoria », consapevoli della possibilità e della necessità di tendere a una visione storica globale non scissa né lacerata nelle microstorie, ma che utilizzi e sussuma tutto quanto di valido può emergere da ogni campo della ricerca.La stessa teorizzazione che sembra, profilarsi nei risvolti di alcune posizioni, della storia locale come alternativa alla sintesi e alla stessa propensione alla sintesi è a mio giudizio autolimitativa e pericolosa. La storia locale non è semplicemente ter­reno di verifica di ipotesi generali : può accadere il contrario, e la specificità del « caso veneto » (giustamente richiamato nella relazione introduttiva) ma anche, ag­giungerei, del « caso toscano », lo confermano. È pure vero, e va ricordato, che i migliori studi di storia locale sono nati sulla base di sollecitazioni e di ipotesi prove­nienti dalla storiografia « nazionale ».Nuove contrapposizioni e nuovi miti assurdi: ho sentito in un intervento parlare a lungo della « spoliticizzazione » dei partigiani del bergamasco. Mi chiedo che senso possa avere un termine del genere applicato a combattenti che rischiavano la vita in una situazione ben determinata ed erano, ai più vari livelli di coscienza, consa­pevoli di far politica. C’è evidentemente una concezione molto singolare e molto povera della politica che può condurre a questa problematica; ed è naturale il so­spetto che dopo avere usato la storia per legittimare la politica, si tenti oggi di usarla per legittimare il rifiuto della politica o la fuga da essa. L’invito di Levi a definire preliminarmente le categorie adoperate, contestualmente alle situazioni storiche de­terminate è, da questo punto di vista, pienamente da accogliere.Nonostante i luoghi comuni accettati supinamente negli ultimi anni e le robuste iniezioni di provincialismo (perché è provincialismo recepire acriticamente le mode culturali senza verificare il senso e le implicazioni, così come accogliere il « nuovo » in quanto « nuovo » e contrapporlo infantilmente al « vecchio » : ma bisognerebbe smettere del tutto di adoperare questi termini da persuasori occulti, degni più di pubblicitari di professione che non di storici), la storiografia italiana ha una tradi­zione di serietà, di rigore e di sensibilità critica assai maggiore di quanto si possa immaginare sulla base delle « rifondazioni » a cui viene periodicamente sottoposta. Lo stesso quadro di ricerche e di interessi sollecitati dagli istituti, nel suo piccolo,10 conferma.Potremmo anche ammettere che sia preliminare e inevitabile « lo smarrimento del senso » della ricerca storica, come si citava autorevolmente nella relazione introdut­tiva: non c’è nulla di più facile da realizzare che « smarrire il senso », per i singoli come per i gruppi; ma non ce lo possiamo permettere.Quella tradizionale tensione alla storia totale, alla storia « senza aggettivi », che è11 tratto caratterizzante delle ipotesi e dei tentativi della cultura storiografica italiana, tratto distintivo al quale, a ben vedere, attraverso le divisioni e le scissioni di scuole

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e di dottrine la migliore storiografia italiana si è sempre tenuta fedele, è una ere­dità che dobbiamo aggiornare ma che non possiamo lasciare disperdere. Questa è anche la condizione per un serio rinnovamento, che questa cultura offre con le sue caratteristiche di antidogmatismo metodologico, di apertura ad apporti e sugge­stioni di altre discipline, nella piena autonomia e distinzione della ricerca storica. Sono caratteristiche che la storia non può abbandonare se non vuole cessare di as­solvere alla sua unica possibile funzione culturale, che è quella di elemento insosti­tuibile di unificazione dell’autoconsapevolezza umana.

Riferendosi alle indagini sulla composizione sociale dei partigiani nel Bergamasco fa rife­rimento anche PANNOCCHIA che nel suo intervento fa presente che l’uso dei documenti ufficiali come fonte principale per la classificazione rischia di portare a una valutazione par­ziale e limitativa ed a schematizzare eccessivamente le componenti sociali presenti nella lotta.All’intervento di Pannocchia si riallaccia JOYCE LUSSU, la quale sostiene la necessità me­todologica di partire da un approfondito studio della storia locale per giungere alla deli­neazione di una coscienza storica nazionale. A questo scopo sono utili tutti gli strumenti derivati dalla etnostoria e dalle nuove metodologie; di qui sorge la necessità di usare con pari dignità scientifica le fonti orali e di esplorare in profondità il mondo subalterno, la coscienza e la cultura femminile.A Joyce Lussu segue ANNA ROSSI DORIA il cui intervento pubblichiamo integralmente.

Io vorrei fare delle osservazioni generali e spero non del tutto generiche, anche se forse lo saranno, sul dibattito che c’è stato oggi. Io condivido molte delle cose che ha detto Santomassimo, ma quello che non credo è che evitare il catastrofismo, evitare la creazione di nuovi miti, possa significare sottovalutare la gravità della crisi che tutti attraversiamo. Il ritrovare un rapporto tra la storia e la teoria non è un problema così astratto come sembra, non a caso proprio quegli storici sociali inglesi a cui tanto oggi ci rivolgiamo e che sono per tradizione così empiristi — penso all’editoriale dell’ultimo numero della rivista « History Workshop » — oggi pongono al centro la questione di dare alla storia autonomia teorica rispetto alle altre scienze sociali. Io questo vorrei un momento vedere: perché questa crisi dello storicismo? cioè proprio detta nel modo più banale, questa crisi dell’idea in cui tutti siamo cresciuti, della storia come una catena fatta di anelli tutti necessari, per cui quello che succedeva dopo era sicuramente determinato da tutto quello che era successo prima? Perché oggi tutti gli storici di sinistra, di qualunque sfumatura politica, debbono porsi questa domanda? Evidentemente gli elementi teorici di critica allo storicismo c’erano da decenni, non è che lo strutturalismo sia nato adesso, ma noi oggi abbiamo un problema civile e politico nuovo, e molto grave: si è spezzata la trasmissione della memoria collettiva, in qualche modo, che non conosciamo, e ne vediamo i segni ogni giorno nelle cose che accadono. Io qui vor­rei porre un problema che non è stato sollevato stamattina e che in una riunione di istituti della Resistenza io penso vada posto.Mentre gli istituti, e l’Istituto nazionale in primo luogo, da molto tempo, come Quazza ricordava stamattina, sono usciti da una visione circoscritta e reducistica dell’antifascismo e della Resistenza, per quanto riguarda la loro attività scientifica, invece, per quanto riguarda l’altro filone della loro attività, quella didattico-divulga- tiva, non sono andati molto avanti su questo terreno.Io vivo a Roma. A Roma noi sappiamo e vediamo da almeno due anni che l’anti­fascismo non è più nella società civile una quasi automatica base di aggregazione. Noi tutti, con angoscia crescente, ci rendiamo conto che tra i giovani e i giovanis­simi, fascisti o antifascisti, non c’è più quella differenza sicura, garantita, che noi vedevamo fino a pochissimi anni fa. E quando Pasolini queste cose le scrisse, pen­

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sammo che fosse ammattito; mentre oggi questa mutazione antropologica ci sta di fronte in tutta una serie di episodi. Non c’è più quella differenza che non era solo politica, aveva ragione Pasolini, era antropologica, tra il giovane fascista e il gio­vane antifascista.10 penso che questo problema sia importante, e sia collegato a quello della crisi dello storicismo. E allora, tornando a Santomassimo, io credo che non si possa proporre in nessun modo una restaurazione, neppure appellandosi alla validità della tradizione nazionale, che può essere giusto ricordare se si teme che gli influssi stra­nieri diventino mode, come poi alle volte può avvenire, ma che non deve diventare un alibi di fronte alla gravità di questa crisi che invece bisogna cercare di attra­versare, naturalmente per poi trovare delle vie di uscita.11 problema della storia come legittimazione delle scelte politiche, ricordato anche nella relazione introduttiva, non è un problema che riguardi solo la storiografia italiana a sinistra del P C I del post-1968; proprio i due autori che più ci hanno indi­cato questo rischio, che sono stati Oskar Negt e Georges Haupt, ci hanno dimo­strato come tutta la storia del movimento operaio, a partire dalla II Internazionale, e soprattutto in modo massiccio con la III Internazionale, sia connotata da questa caratteristica. E quindi noi dobbiamo oggi questa critica farla ma estenderla ben oltre la storiografia post-68. Dobbiamo fare i conti con una grossa tradizione. Natu­ralmente criticare la legittimazione non basta a garantirsi dal rischio di ricaderci, perché per esempio io credo che anche nella relazione introduttiva e in molte delle cose che andiamo cercando ci sia questo rischio: come sino a poco tempo fa cer­cavamo la legittimazione della politica, così oggi cerchiamo la legittimazione della crisi della politica, così almeno come la crisi della politica è vissuta ed è intesa da una fascia di storici di sinistra che poi nell’Istituto nazionale in buona parte si sono riconosciuti.

In altre parole io voglio dire che il problema oggi non è certo quello di buttarsi nella storia sociale in modo fideistico, cercando quasi di contrapporre un’autonomia del sociale agli altri che propongono un’autonomia del politico. Evidentemente così non può essere e di questo mi sembra l’attività dell’istituto dia prova. Per esempio, il gruppo di ricerca centrale, quello cosiddetto vecchio, che in effetti è troppo vec­chio, nel corso dei suoi lavori è arrivato a un diverso ripensamento di questo rap­porto tra sociale e istituzioni rispetto alle ipotesi da cui era partito. Analogamente mi sembra giustamente stamattina Giovanni Levi ci ricordava che la ricerca del nesso tra soggettività e istituzioni va condotta sempre, anche per esempio a livello locale: non dobbiamo pensare che chi studia il generale, studia le istituzioni, e chi studia il locale, studia le persone. Occorre in ogni caso indagare il rapporto tra il diverso tipo, in questo caso, di istituzioni, come è vissuto a livello generale o a livello locale, e i singoli soggetti.A me sembra che noi dobbiamo guardarci, come sempre avviene quando si è in un momento di crisi e si cercano strade nuove, dalla ansiosa ricerca di scorciatoie. Per esempio, tutti non facciamo che invocare la storia sociale, che denunciare il ritardo con cui la storia italiana arriva a questo appuntamento e ad invocarla, pro­prio noi che siamo tutti, bene o male, storici contemporanei. Però dovremmo porci un problema : i grandi esempi di storia sociale, sia francese, sia anglosassone, si fer­mano tutti al massimo alla fine dell’800. Come mai? Come mai proprio per il pe­riodo più recente sembra essere più difficile l’applicazione di questo approccio? Un’ipotesi può essere che proprio quella tradizione teleologica a cui siamo abituati renda più facile ai modernisti che non ai contemporaneisti un’impostazione per sua natura non univoca e non teleologica.Un’altra scorciatoia come è stato detto anche da altri il cui rischio mi sembra pre­

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sente sia nella relazione, sia un poco nelle cose che ha detto Quazza stamattina mi sembra quella di caricare la storia locale quasi fideisticamente della garanzia di nuovi contenuti, che non si vede proprio perché debbano essere legati più alla storia locale che ad altri tipi di storia. Giustamente stamattina Mariangiola Reineri ci diceva che la storia sociale è caratterizzata non dai soggetti, ma dal metodo e faceva l’esempio della storia dell’aristocrazia di Stone. Analogamente io vorrei dire che, se ci siamo convinti che dobbiamo fare storia della soggettività, la soggettività può essere pure quella degli alti burocrati, non necessariamente delle donne, per esempio. Lo dico io che alla storia delle donne sono interessata ma per altri motivi. Così la storia del quotidiano non è necessariamente legata alla storia di una comu­nità contadina, perché io voglio vedere il quotidiano anche nei modi di penetrazione delle ideologie di massa, di formazione di quel « senso comune » di cui parlava Pivato stamattina. E così via.Secondo me, noi dobbiamo in primo luogo ricordarci che nessuna garanzia di nuovi contenuti è data dalla scelta di per sé di un nuovo settore di studi, che altrimenti di­venta veramente una scorciatoia, una falsa soluzione. Non è che se studiamo gli emarginati, i vagabondi, i matti siamo più sicuri di arrivare ai contenuti che fino ad oggi la storiografia italiana ha trascurato. Analogamente questo non è garantito da una nuova metodologia assunta come totalizzante, e qui c’è il discorso già ampiamente fatto in tante sedi, che non ripeto, degli equivoci e dei miti che può suscitare la storia orale proprio in questo senso.A me sembra soprattutto che prima di stabilire qual è la strada per uscire dall’im­passe in cui ci troviamo, dovremmo riflettere meglio sul perché non ci basta più o non ci va più bene la strada che abbiamo percorso sino ad ora. E qui di nuovo aveva ragione Santomassimo, dicendo : facciamo più critica e autocritica degli ulti­mi dieci anni, nell’ambito dell’istituto e oltre. A me sembra che in parte si vada proprio facendo questo, ma che occorra continuare. Noi dobbiamo capire meglio che cosa non siamo riusciti a capire della storia generale prima di stabilire che al­lora, se ci buttiamo nella storia locale, lo potremo capire, una volta stabilito che la storia locale non è, come è stato detto dall’Istituto di Alessandria nella relazione, sinonimo di storia sociale, né come è stato detto da Giovanni Levi stamattina, sino­nimo di microstoria.Insomma, a quali domande noi non riusciamo più a rispondere? Riesaminando me­glio da questa parte il problema, possiamo meglio evitare i rischi di scorciatoie o di nuove mitizzazioni, e quelli di dovere fra cinque o dieci anni di nuovo dire: ab­biamo sbagliato. Da ultimo io vorrei anche accennare al rischio di un altro mito, che magari oggi qui non è emerso tanto, però circola ampiamente, che è la que­stione della riappropriazione della storia o della storia dal basso, intesa come storia fatta finalmente dai protagonisti, dai soggetti sociali e non dagli addetti ai lavori. Questo tema è intrecciato alla nuova domanda di storia che c’è, io sono d’accordo, perché se è vero che non c’è più il ruolo egemone della storiografia se è vero che non c’è più la domanda di storia come legittimazione politica, è vero anche che tutta una serie di giovani, di donne, che hanno attraversato una certa crisi della politica, oggi hanno una grossa domanda di ripercorrere la loro storia. Ma proprio su questa domanda si innesta il grosso equivoco della riappropriazione, su cui credo gli istituti della Resistenza debbano riflettere, perché giustamente l’Istituto di Ber­gamo stamattina ricordava come questo problema noi ce lo troviamo davanti. È chiaro che oggi la nuova domanda di storia che non è più la storia della Resi­stenza, come legittimazione politica, può far cadere in questa trappola. Il libretto di Chesnaux, che io trovo orrendo, è un esempio chiaro di una facile demagogia, che sostituisce la risposta al diffìcile problema che cosa significa fare storia a par­

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tire dal presente o restituire la storia ai suoi protagonisti. Io ho anche molta diffi­denza per proposte alla Paul Thompson che presume che, intervistando delle per­sone di classe subalterna e poi distribuendo loro un opuscolo divulgativo sulle loro storie di vita (accanto al libro « scientifico » sulla storia orale) sia risolto il problema della storia dal basso. Di queste cose, ne cominciano a serpeggiare in Italia mol­tissime, io credo che noi dovremmo porci questo problema.

Ad Anna Rossi Doria fa seguito CLAUDIO PAVONE con un intervento che pubblichiamo integralmente.

Vorrei fare alcune osservazioni che spero non appaiano troppo slegate e ripetitive di cose che già sono state dette. Vorrei cominciare con un’osservazione sulla prima parte della relazione a stampa, dove si tracciano le grandi linee di una storia della storiografia della storia locale in Italia sul secondo dopoguerra.Nella prima fase tratteggiata nella relazione — intendendo per prima fase quella che si chiude con la crisi della rivista « Movimento operaio », più volte ricordata in questi ultimi tempi come una svolta della storiografia sul movimento operaio — ci fu indubbiamente un forte rigoglio di storia locale, che subì non a caso un’eclissi quando prevalse la linea che richiedeva il passaggio a una storiografia ‘egemonica’. C’è un aspetto di quel rigoglio che va messo in luce, e cioè che era un rigoglio con­centrato essenzialmente sul momento delle origini. Si trattava di vedere come qua e là in Italia si venissero sviluppando società di mutuo soccorso, leghe di resistenza, altre forme di organizzazione, più o meno durature ma destinate a confluire ideal­mente, alla fine, nella formazione del Partito socialista italiano, nel 1892. L’avere insistito essenzialmente sul momento delle origini, credo abbia, fra gli altri, due significati che vanno sottolineati. Innanzi tutto, lo studio del momento delle origini era meno condizionato politicamente, perché, ovviamente, i protagonisti non erano i protagonisti ancora operanti e quindi c’erano meno inibizioni e meno auto-censure.In secondo luogo — e qui la relazione è silenziosa — questa fioritura di studi sul movimento operaio visto a livello locale, fu accompagnata da un parallelo sviluppo di studi sul movimento cattolico indagato allo stesso livello. Questo parallelismo rispondeva a una visione generale che aveva implicita una proposta di raccordo fra la storia locale e la storia nazionale. Si partiva dall’ipotesi, che era comune a un vasto arco di forze politiche e culturali, che lo stato italiano unitario nato dal Ri­sorgimento fosse privo dell’apporto di operai, contadini e cattolici (sul carattere poco rigoroso di questa non è il caso qui di soffermarsi). Sembrava allora che quei sog­getti sociali fossero meglio individuabili a livello locale e partendo da quello si po­tessero meglio ricostruire le tappe del loro inserimento nello stato. Era una tema­tica che ereditava, fra l’altro, un aspetto della migliore storiografia nazionalfa- scista. Penso soprattutto al libro di Goacchino Volpe, L’Italia in cammino, centrato sul tema di uno stato unitario che manca della forza e dell’apporto delle masse po­polari, che progressivamente ad esso si avvicinano e in esso si inseriscono.Mi sembra che questo quadro generale di riferimento, pur con tutte le modifiche che ha subito, continui ad essere operante rispetto ad un filone storiografico tutt’altro che morto. Qui mi vorrei rifare anche a quanto ha detto Santomassimo. In realtà quello che è entrato in crisi — parlo di contenuti e non di metodi o di teoria — è proprio questa visione della storia dell’Italia unita, la visione di uno stato che va riempito, poco alla volta, con apporti che derivano appunto dai cattolici e dai co­munisti. Ho fatto senza volerlo il passaggio da ‘operai e contadini’ a ‘comunisti’, perché in effetti il significato storiografico, proprio come premessa legittimante una

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linea politica, è quello di considerare rincontro suddetto, come gestito essenzial­mente dai partiti e come sbocco cui tende la storia tutta dell’Italia unita. Dico questo senza volere fare alcuna polemica spicciola sulla formula del compromesso storico, che ritengo anzi vada inteso come organico punto d’arrivo di una visione della storia d’Italia finalizzata, anche nelle sue espressioni locali, alla costruzione di partiti, di rappresentanze politiche nazionali e generali, e al loro incontro ritenuto decisivo.Un secondo punto cui volevo accennare era che la crisi della storiografia, che ci ha angosciato e ci angoscia anche in questo seminario, non dobbiamo pensare che sia una cosa che sia avvenuta solo ora, solo in questi ultimi due o tre anni. Io credo che sarebbe utile ricordare che la centralità del sapere storico era stata messa in mora già alla fine degli anni cinquanta, sia pure con altra angolazione teorica e con altre implicazioni politiche. Nella fase, che un po’ rozzamente posso riassumere nella formula del boom neocapitalistico, lo storicismo, cui in Italia si rifaceva sia la storiografia di matrice crociana sia la storiografia di matrice gramsciana, subì una prima grossa crisi e vacillarono concetti come quello di totalità e assunzioni come quelle del valore ‘civile’ della ricerca storiografica. A maggior ragione furono con­testate la politicità e la non neutralità della ricerca che mal si conciliavano con l’ondata neopositivistica che appariva vincente. Tutto questo però avveniva in un clima di baldanzoso ottimismo, stimolato dal successo, anche ideologico, anche mo­rale, del neocapitalismo. Oggi, soprattutto i più giovani, possono avere cancellato dalla memoria questa fase di crisi di una storiografia a contatto, già allora, con lo strutturalismo, con le scienze sociali che cominciavano appena ad arrivare dal­l’America e, in generale, con altre culture. Questo può accadere perché l’ondata del 1948 ripoliticizzò la ricerca storiografica, ed è solo poi dalla crisi della ripoliticiz­zazione post-68 che rinasce la coscienza della crisi della ragione storica, questa volta pessimisticamente connotata.Io credo che se noi dobbiamo capire le motivazioni profonde di tutto un arco di sviluppo della cultura e del pensiero contemporaneo, non possiamo non ricollegarci, al di sopra del 1968, a tematiche e discussioni che ci sono state anche ben prima del 1968. Altrimenti rischiamo di fare, del 1968, e della sua crisi, una specie di perio- dizzazione della storia universale sotto tutti i suoi possibili profili, che sarebbe forse eccessivo. Proprio per questo credo che quando Santomassimo, di cui anch’io con­divido in misura notevolissima le puntuali osservazioni critiche, quando Santomassi­mo però sembra concludere (forse ho capito male) con la invocazione a chiudere una triste parentesi che ha fatto dimenticare alcune saggezze che adesso sarebbe il momento di riesumare, egli si fa banditore di una restaurazione —- è stato già detto — che passa sopra ai motivi più antichi di crisi, alla ripresa successiva e alla nuova crisi. Io credo che le restaurazioni non sono mai feconde, in nessun settore; e il cinese che aspettava di veder passare il corpo del suo nemico stando seduto sulle rive del fiume non era molto produttivo, né per sé, né per il corpo che avrebbe dovuto passargli davanti.Ora passo brevemente all’aspetto più di metodo delle questioni che sono state sol­levate. Senza ripetere cose che sono già state dette, mi sembra che il rischio mag­giore, che avevo colto nel leggere la relazione, già ad Ariccia, e che è emerso con molta chiarezza dagli interventi finora svolti, è che questa storia locale appaia dav­vero come la via della salvezza. Poiché ci si trova un po’ nelle peste è certo una via da rilanciare, da sperimentare, ma senza creare aspettative non legittime. Questo è stato detto con molta chiarezza da Anna Rossi Doria, e non sto a ribadire argo­menti che mi trovano del tutto consenziente. Aggiungerei solo una cosa: che forse ci può essere un equivoco che alimenta questo rischio: pensare, più o meno conscia­mente, che il piccolo sia più « concreto » del grande, presuppone cioè, nella ri­

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pulsa sacrosanta dell’ideologismo, delle generalizzazioni vacue, politicistiche, reto­riche, che più ci si avvicina al piccolo, più ci si avvicina alla concretezza della vita, dell’atto, dell’esistenza. Non c’è in realtà alcun motivo di ritenere che il restringi­mento del campo di indagine sia di per sé qualcosa che abbia a che vedere con il problema del rapporto fra concretezza del vissuto e astrazione o generalizzazione concettuale della scienza, quella generalizzazione senza la quale nessun discorso scientifico può farsi. Si tratta, mi pare, di un problema completamente diverso, e che va tenuto presente proprio nella sua diversità per non creare inutili confusioni. Se vogliamo andare alla ricerca della soggettività (che non c’è alcun motivo di con­siderare sinonimo di ‘privato’) dobbiamo partire dal punto di vista che questo è un problema la cui specificità non dipende solo dalle dimensioni dell’oggetto che stu­diamo. Dipende anche da altre cose e se veramente dovessimo ridurre quella spe­cificità alla concretezza dell’atto, allora probabilmente staremmo fuori da ogni pos­sibilità di storiografia di qualsiasi tipo, perché finiremmo con l’essere degli attualisti alla Giovanni Gentile. Oggi Gentile è di nuovo di moda, molto più di quanto possa sembrare, anche se pochi lo nominano. Posto l’Atto puro, non ha molto senso affa­ticarsi sul problema del suo paragone con altri atti, che vengono per definizione con­siderati tutti irripetibili e incomparabili.A proposito della soggettività, mi sembra che la definizione che ha dato Monteleone stamattina della storia sociale come protagonismo delle forze collettive sia interes­sante ma anche non molto convincente.Mi sembra infatti che qui sia nascosto un grosso problema, quello della soggettività collettiva, che si riconnette all’altro, appena ricordato, della concretezza come sog­gettività. La soggettività collettiva non è affatto detto che compaia sempre nella storia. Ci possono essere dei momenti in cui il « soggetto collettivo » non esiste o esiste su scale molto ristrette. Dovremmo comunque trovare dei criteri per distin­guere una autentica soggettività delle masse, nel senso che le attribuiva Monteleone, da un mero assembramento. È stato fatto più volte l’esempio della differenza tra i tifosi che stanno in uno stadio e gli operai di una fabbrica: quale è la differenza? perché gli uni costituiscono o possono costituire un soggetto collettivo e gli altri no? Analogo discorso può farsi se si prende come punto di riferimento una comunità che esiste su un determinato territorio. Sono tutti problemi che detti così, molto rozzamente, possono apparire — anzi, lo saranno senz’altro — a loro volta ideolo­gici. Mi sembra comunque che siano proprio da ricondurre ai problemi che pone l’uso del campo più ristretto di indagine come approccio utile, ma non certo esau­stivo, per la ricerca della soggettività. Mi ha colpito, in questo quadro, l’intervento dei compagni di Bergamo, quando hanno parlato della spoliticizzazione che è sem­brato loro di riscontrare nei partigiani. Mi sembra che l’affermazione abbia sollevato un certo scandalo, sia nell’intervento di Santomassimo, sia in quello di Pannoc­chia. Si tratterebbe di convenire su cosa debba intendersi per ‘politicizzazione’, in particolare in quel contesto storico. Valutiamo la politicizzazione in base alla con­sonanza con l’istituzione, il partito in particolare e, al limite, lo stato, allora effet­tivamente credo che potremmo anche riconoscere senza scandalizzarci che questa soggettività politica si è realizzata in misura scarsa. Però in molte formazioni par- tigiane in momenti di tensione morale o meglio, — senza voler fare un gioco di parole — di tensione morale e politica, la politica può assumere un significato di­verso, più ricco e meno vieto e la politicizzazione di una banda partigiana non può pertanto essere vista solo sul metro dell’adesione ad organismi partitici definiti spesso in base a storie completamente estranee alla biografia individuale di giovani o giovanissimi che forse non conoscevano nemmeno quelle storie in che consistes­sero. Mi pare insomma che il problema sia piuttosto complesso e che costituisca un esempio della difficoltà e degli equivoci che possono allignare in questo campo.

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Così anche a proposito del rapporto fra storia e scienze sociali riproposto ancora una volta nella discussione finora svoltasi, trovo che il problema andrebbe forse ricondotto a una, del resto ovvia, questione generale, che io non oso affrontare, perché non la saprei né correttamente enunciare né tanto meno risolvere. Mi rife­risco ancora al problema cui ho già accennato, dell’uso di astrazioni, — senza le quali credo nessun discorso con pretese di scienza si possa fare — in storiografia, in una disciplina, che ha per oggetto fatti diacronici e che sembra assumere fra i suoi presupposti quello che non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume, mentre la scienza parte invece dal punto di vista che ci si può bagnare tre o cento volte nello stesso fiume. Questo problema mi veniva in mente sentendo l’intervento del bergamasco e del sociologo che ha parlato oggi pomeriggio. Mi veniva cioè da riflettere che i due hanno fatto ricerche molto analoghe, l’uno su Bologna e l’altro su Bergamo, solo che uno è uno storico e l’altro è un sociologo. Che differenza c’è? Forse confrontando metodi, risultati, quadri di riferimento concettuale di questi due studiosi di diversa formazione, che si autodefiniscono cultori di discipline di­verse, si potrebbe provare a fare un passo avanti e capire un po’ meglio perché •— lo ricordava ora Anna Rossi Doria —- i metodi della storia locale abbiano trovato scarsa applicazione nello studio della nostra epoca contemporanea.Io ho il sospetto che le scienze sociali taglino in parte l’erba sotto i piedi, da questo punto di vista alla storiografia sul mondo contemporaneo. È solo un sospetto, che10 lascio alla discussione altrui. Infine, credo anch’io che il tema della ‘riappropria­zione’ del passato potrebbe essere a sua volta fonte di equivoci, perché potrebbe diventare una nuova forma di legittimazione non più del partito ma di qualche altra cosa. Vorrei dal mio canto aggiungere che, come può avvenire in molte di queste discussioni, o capovolgimenti apparentemente improvvisi di fronti e di convinzioni bisogna stare attenti a non dare per eliminati problemi che poi in realtà rimangono e possono ripresentarsi distorti o marciti in maniera cattiva dopo anni. È fra questi11 problema del definire se stessi come individui, come gruppi, come classi in rap­porto al passato. Io credo che questo sia un problema che va al di là della polemica contro la legittimazione. Io credo che se non si riesce a ristabilire il senso del collo­carsi consapevolmente rispetto al proprio passato nelle dimensioni individuali, di gruppo, di comunità, di classe — qui non voglio entrare nel merito dell’uso di queste categorie —, allora veramente non è questione di crisi più o meno temporanea della storiografia. È questione che concerne la molla stessa del sapere storico, che, significa appunto un rapporto fra presente e passato. Questo non lo possiamo dimenticare. Combattiamo dunque la legittimazione, combattiamo anche la semplicistica formula della riappropriazione. Non dimentichiamo però che se mettiamo da parte il proble­ma della fondazione di un corretto rapporto con il passato, non solo potremmo cessare noi, per quel tanto che ne siamo capaci, di fare gli storici, e questo sarebbe probabilmente poco male, ma proprio la storia in quanto tale verrebbe cassata dal­l’ambito degli interessi e del sapere umani. Non vi è naturalmente alcuna garanzia assoluta che ciò non possa avvenire; non credo tuttavia — qui non sono proprio catastrofico — che la storia stia per imboccare questo baratro senza ritorno.

La discussione generale prosegue la m attina di sabato 26 con l’intervento di NICOLA GAL- LERANO che si sofferma principalmente sul problema dei rapporti fra ricerca quantita­tiva e storia sociale. Gallerano pone in guardia contro la tentazione di compiere affrettate ed arbitrarie equazioni fra questi termini, mentre è necessario affrontare i temi legati alla nuova domanda di storia sociale e locale da parte di vari settori di studiosi, in parti­colare dai cosiddetti « storici scalzi », in una fase di reazione alla tradizionale storiografia istituzionale. Gallerano si sofferma infine sul rapporto fra storia locale e storia nazionale denunciando il pericolo di concepire l’autonomia del locale come scissione, isolamento e contrapposizione rispetto al quadro complessivo.

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All’intervento di Pivato sulla storiografia del movimento cattolico si riallaccia MAURILIO GUASCO, che invita a una maggiore chiarezza terminologica e concettuale nell’uso di ter­mini che si riferiscono indifferentemente al mondo cattolico e alle sue istituzioni, come ad esempio Chiesa e De. Movimento cattolico e Azione cattolica, ecc. Anche nella storia del movimento cattolico, secondo Guasco, è importante verificare il rapporto locale/ nazionale, proprio per lo specifico riferimento a modelli ideologici legati a tradizioni religiose che sono proprie di determinate realtà locali.In un breve intervento ENZO RONCONI dà notizia di lavori condotti dall’Istituto to­scano ed accenna all’importanza di mantenere il carattere federativo dell’Istituto nazionale, pur nella necessità di stabilire un più stretto coordinamento delle attività scientifiche.Il successivo intervento di Giancarlo Consonni si riallaccia ai temi trattati da Anna Rossi Doria per sottolineare l’importanza di individuare modelli complessivi di trasformazione della società e invita a doverose cautele nell’uso di categorie come « soggettività » e « locale », che possono essere astoriche se non sono considerate come elementi dinamici di una realtà complessiva.GANAP1NI prende le mosse dalla comunicazione di Gallerano per quanto riguarda il pro­blema della collocazione del lavoro dello storico nel presente, e sostiene, sottolineando il ca­rattere polemico della sua asserzione, che in ogni ricostruzione storica è presente il rischio della legittimazione, rischio che non può essere eliminato se non ricorrendo all’alibi di una falsa neutralità. 11 vero problema sta nell’instaurare un corretto rapporto fra ipotesi di ricerca, alla cui formulazione concorrono evidentemente componenti ideologico-politi- che, e il lavoro di ricerca stesso.Seguono poi alcuni interventi legati a particolari aspetti della ricerca di storia locale: così lo storico sloveno BRATINA esamina se e come sia possibile tracciare una storia della comunità slovena in Italia, date le caratteristiche particolari di questo gruppo etnico, per il quale il termine nazionale assume caratteristiche diverse a seconda del periodo storico a cui ci si riferisce. Analogamente FRANCO BRUNELLO nel presentare i risultati di un lavoro di storia locale, condotto a Castelfranco Veneto sulla base soprattutto delle fonti orali, sottolinea come, sotto l’urto delle trasformazioni socioeconomiche degli anni ses­santa, si sia verificata una crisi di identità del mondo contadino dovuta alla rottura della memoria collettiva, della famiglia patriarcale, delle stesse conoscenze tecnico-pratiche di cui era depositaria tutta una comunità. Anche CESARE BERMANI insiste sull’importanza, per costruire un’immagine storica alternativa a quella trasmessa dai gruppi dominanti, di raccogliere e classificare il maggior numero di testimonianze orali sulle lotte contadine e operaie e sui movimenti studenteschi.A Bermani segue SILVIO LANARO con l’intervento che ripubblichiamo integralmente.

Vorrei partire anch’io per qualche riflessione a seguito degli interventi di ieri, di Santomassimo e di Anna Rossi Doria, scusandomi preventivamente se sfonderò qual­che porta aperta o sarò ripetitivo perché non ho potuto sentire gli interventi di ieri mattina e in particolare di Giovanni Levi che è stato più volte richiamato.Dunque, critica della ragione storica, dice Santomassimo, rottura della trasmissione di memoria collettiva, dice Anna Rossi Doria. Io però credo che questo discorso, importantissimo, debba essere approfondito parlando di crisi delle ragioni storiche, degli intelletti storici. Io sono sempre di quelli che preferiscono con Timpanaro parlare di intelletto piuttosto che di ragione, mi sembra un concetto molto meno equivoco e molto meno metafisico.Crisi delle ragioni, crisi delle forme di trasmissione collettiva, della memoria collet­tiva e delle memorie collettive. Crisi di tutti i linguaggi appresi, che mi pare si possa registrare oggi nel panorama della produzione storiografica italiana e che dia luogo — vi tornerò su tra poco — a una situazione che definirei di egemonia va­cante. Vacante da parte degli storici della sinistra, marxisti, del movimento operaio, (anche genericamente intesa), ma vacante anche l’egemonia della storiografia liberal- borghese.Allora partiamo proprio con un discorso su questa storiografia liberal-borghese, che pure aveva le sue forme di trasmissione delle memorie collettive, le sue memorie storiche, il suo pensiero storiografico, da un discorso proprio, specificamente abili­

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tato sulla storia locale. Se noi consideriamo sotto il profilo dell’offerta comples­siva, la storia locale come produzione di merce, suscettibile anche di una defini­zione, di una analisi quantitativa, non possiamo dimenticare quell’enorme mole che ci è stata rovesciata addosso negli ultimi anni di municipalismo giubilare e di erudizione bancaria, direi. Municipalismo giubilare e erudizione bancaria che non a caso si è sposata con una pigra eventografia, con il voyerismo storio­grafico, la storia spiata dal buco della serratura, dove evidentemente non è pos­sibile vedere soltanto... Pensate alle coincidenze coassiali cronotipiche di cui par­lava qualcuno, qualche anno fa, per giustificare il fatto che scriveva di storia come buttava giù i pochi appunti sull’agenda della spesa; non si può spiegare evidente­mente con la nevrosi cartacea o con la tenacia di certi pregiudizi accademici nel mondo della cultura italiana. Non è che io non vi veda dietro una crisi profonda dei valori della civiltà liberal-borghese, come si esprime attraverso la produzione di conoscenza storica. Come non vedere in tutto questo la volontà di asserire per via additiva la razionalità di tutto ciò che è avvenuto? L’illusione di avere una visione cinematografica della processualità storica, per cui ripulendo i singoli fotogrammi si riesce a possedere la sequenza.Come non vedere la volontà etica — da certi punti di vista — di cercare un’identità attraverso gli oggetti di cui ci si circonda, ridotti a soprammobili, tanto confortevoli quanto inerti? E allora qual è la crisi specifica per quanto riguarda l’Italia del pen­siero storiografico della cultura liberal-borghese che sta dietro tutto questo?C’è una cultura e una storiografia che non può più fare aggio o capitalizzare sul­l’idea crociana come storia dello spirito. Né sull’idea della fiducia di Gioacchino Volpe nell’epopea dell’etnos. Né sul fissismo positivistico alla Pareto che riduceva trenta secoli di storia dell’umanità a un enorme bazar di exempla sociologici, buoni a dimostrare che la natura umana è sempre uguale a sé stessa e che le élites si for­mano e si riproducono secondo leggi costanti dall’epoca della polis greca fino alla formazione dei sindacati.Quindi probabilmente non era possibile un esito diverso dal frammentismo, dal- l’eventografia, dal localismo passivo visto anche proprio come soggiacenza di fronte alla classificazione amministrativa delle fonti, per cui laddove c’è, e solo dove c’è un archivio di prefettura e di curia, c’è un problema storico, forse non era possibile altro esito che questo frammentarismo con qualche intrusione di rissosità nostalgica in altri casi, per una cultura, una produzione storiografica che ha perso il suo centro, i suoi centri, le sue certezze.Perché allora questo discorso sulla crisi di un altro linguaggio appreso e non secon­dario? Proprio per affermare, io credo che questo sia un punto molto importante, che se vogliamo costruire il pensiero storiografico, ricostruire attraverso la ricerca di categorie, non dobbiamo pensare — e mi pare che questo pensiero invece sia ser­peggiato in alcuni degli interventi che abbiamo ascoltato — alla costruzione di una nuova memoria storica attraverso quella che chiamerei un’ideologia dell’infrazione massima. Cioè la costruzione di una memoria appartata, sospettosa, difensiva, pate­ticamente e disperatamente nostra, di noi, i soggetti. Ecco il pericolo dell’uso di questa categoria reiterata della soggettività. Non è che il problema è quello di ri­spondere a una situazione complessiva di egemonia vacante con una produzione di pensiero storiografico — e qui debbo abbreviare e buttarla giù proprio rozzamente — per una prospettiva di transizione al socialismo, perché noi stiamo vivendo una fase storica in cui c’è comunque la transizione verso qualche cosa: molti sperano che sia transizione al socialismo invece che a una democrazia autoritaria. Ma una transizione che sia valida per l’intera società nella quale viviamo e ci muoviamo, e per questo parlo di costruire egemonia in una situazione di egemonia vacante, di crisi di tutti i linguaggi appresi.

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E allora, se il problema è questo, una prima grossa difficoltà contro la quale andia­mo a sbattere è quella del rapporto tra storia locale e storia sociale, o storia locale come storia sociale, e viceversa, con il fatto che negli ultimi cento anni sulla società italiana, sull’Italia contemporanea di cui ci stiamo occupando si abbattono dei pro­cessi violentissimi di omogeneizzazione, che direi sono essenzialmente tre: lo svi­luppo capitalistico industriale, l’unificazione nazionale e raffermarsi di una sub-cultu­ra nazionale e nazionalista che attraversa tutte le altre sub-culture.10 qui debbo dire che non sono affatto d’accordo con Lussu sul fatto che non esiste una coscienza nazionale per esempio nelle classi subalterne. Esiste e come, ed è molto spesso coscienza nazionalista, più o oltre che nazionale. Basta che andiamo a vedere le lettere degli emigranti o le lettere dei prigionieri di guerra che sono state pubblicate fino ad ora, e vediamo quante volte proprio il contatto con il « diverso » implichi una forte identificazione di tipo nazionale.D’altra parte questi tre processi storici che vanno in direzione di una omogeneizza­zione forzosa della società italiana, sono fra loro correlati, perché sappiamo che fin dagli anni settanta dell’Ottocento si vedeva l’unificazione come funzione dello svi­luppo, e viceversa. Quelli che dicevano, l’Italia è una costruzione in legno, si tratta di costruirla in pietra adamantina, e la pietra adamantina può essere soltanto vista nello sviluppo capitalistico come cauzione e consolidamento della unità nazionale. E d’altronde ormai sappiamo a sufficienza che l’ideologia del capitalismo in Italia è11 nazionalismo, è l’esaltazione della nazione come parto delle forze produttive sociali e dell’affermazione nazionale come sviluppo delle forze produttive.Allora sembra che, se il problema è questo, evidentemente molti problemi di carat­tere metodologico sul rapporto storia locale/storia sociale si risolvono da sé, senza bisogno che ci si affatichi troppo attorno. Evidentemente se il dato centrale è lo svi­luppo capitalistico — non può non essere così in un paese in cui in sessantanni si capovolge letteralmente in termini percentuali il rapporto fra concorso del settore primario e del settore secondario nella formazione del prodotto nazionale lordo — allora evidentemente ci può essere soltanto una storia locale dell’unificazione, una storia locale dello sviluppo capitalistico, una storia locale del formarsi della coscienza nazionale. Vediamo tra poco se è possibile, se è euristicamente plausibile.Evidentemente si può dire, la storia sociale in età capitalistica è puro problema di analisi del passaggio, detto in termini rozzamente tonniessiani, dalla Gemeinschaft delle solidarietà collettive, dei legami parentali, alla Gesellschaft delle merci e del denaro.Per una storia sociale che non può non essere storia della società capitalistica, del- l’affermarsi del capitalismo non solo come modo di produzione ma come universo sociale onnicomprensivo, evidentemente non c’è più spazio per una storia locale come franche de vie o come cinema-verità, come narratività autogratificante in so­stanza. E nemmeno per una storia locale come indagine su piccole totalità lillipu­ziane e nemmeno per una storia locale come storia di specificità irriducibili, proprio perché la società capitalistica tende a distruggere, a colpire, a omogeneizzare queste specificità e queste totalità in un ambito di pluralismo strutturato, che è proprio dell’età pre-capitalistica.Quindi in sostanza il problema sembra fortemente semplificato : altro da fare non c’è che, se è possibile, non stare su osservatori che siano localmente emblematici e privilegiati, in rapporto all’affermarsi di una nuova antropologia sociale, che è quella portata appunto dal capitalismo.Ma è a questo punto che il problema si complica un attimo e io credo che la possi­bilità di una storia in chiave locale dei grandi processi di omogeneizzazione trova

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tutta la sua plausibilità euristica. Perché, per esempio, evidentemente c’è il proble­ma, nel vedere come reagiscono certi comparti territoriali o areali alPaffermarsi del modo di produzione o dell’universo sociale capitalistico, noi siamo chiaramente in­dotti non soltanto a vedere fenomeni di resistenza o di adesione più o meno lenti, più o meno immediati — una piccola parentesi, dolcemente polemica, con Santomassi­mo — ; io direi, stiamo attenti, non è che le migliori ricerche di storia locale sono state sempre sollecitate dai grandi dibattiti nazionali degli anni sessanta, perché io credo, che per capire che cosa è il capitalismo italiano e per capire i capitalismi al plurale, per capire processi di costruzione di risorse che nascono dalla combinazione di ingredienti sociali e culturali differenti, certi studi, come quelli di Berta o di Ra- mella sulla lentezza del trend di composizione della cosiddetta comunità contadina, proprio in quanto studi locali, siano più suscettibili di considerazioni generalizzanti di quanto non sia avvenuto all’inverso. Dicevo che evidentemente fare uno studio di carattere microareale in un’età che segna l’affermazione del capitalismo, significa procedere anche teoricamente a una nuova identificazione dell’appartenenza comu­nitaria in epoca appunto capitalistica. Che cos’è osservatorio locale possibile? Un comune, una parrocchia, una unità produttiva intesa come sistema sociale tenden­zialmente complessivo, è un’area di mercato piccolo anche su questo ci sarebbe molto da dire, visto che quando Emilio Sereni cercava di costruire un diagramma del mercato unico nazionale attraverso gli indici di co-varianza poi si trovava a sco­prire sostanzialmente che mercato nazionale da quel punto di vista esisteva soltanto per certe aree padane. Che cosa è allora? Un’area di mercato piccolo l’osservatorio locale? Un collegio elettorale uninominale a base ristretta? È un’area urbana? È un’area metropolitana? Oppure sono dei ritagli territorialmente omogenei sotto il profilo dell’integrazione tra rapporti di produzione, gerarchie di reddito e gerarchie di potere? Cioè nuove comunità definibili anche territorialmente e specificamente come capitalistiche, proprio nel senso dell’identificazione di questi elementi appa­rentemente o precedentemente separati. Perché appunto nell’età del capitalismo non è più possibile fare storia della cultura, storia dell’economia, storia della società o storia della politica separatamente. Quindi io credo che proprio per questo un an­coraggio a questo grosso fenomeno, per il processo periodizzante della storia italiana contemporanea, consenta e rilanci una prospettiva di storia locale. Ma anche per quanto riguarda una storia locale dell’unificazione. Erano molto importanti i sugge­rimenti che ci dava Roteili ieri, ma solo sotto il profilo di vedere un certo uso locale dell’ordinamento amministrativo, o certe resistenze locali all’unificazione ammini­strativa attraverso, per esempio, il ricorso alle spese facoltative dei comuni. Ma c’è anche il problema di arrivare finalmente a ricostruire il processo di formazione della classe politica italiana.10 mi trovo di fronte a uno dei nodi più oscuri e irrisolti della storia italiana con­temporanea che è questo : come mai la politica che pilota lo sviluppo capitalistico del paese, dal protezionismo alle misure fiscali, finanziarie, monetarie, è gestita da una classe politica di estrazione prevalentemente meridionale, comunque prove­niente per un lungo periodo dalle sacche arretrate periferiche del paese e non dal triangolo industriale? Farneti ha già dato una certa risposta a questo problema, quando ha notato che, dal punto di vista del rapporto fra votanti e iscritti alle liste,11 tasso di partecipazione elettorale alla vita politica è molto più forte in epoca post-unitaria al sud che non al nord. Ma questo lo diceva già Francesco Saverio Nitti del Partito radicale alla nuova democrazia industriale, quando diceva che l’im­prenditorialità italiana non introduceva, non aveva prodotto classe politica, che in quella fase storica occorreva ancora una erogazione di classe politica dal sud per lo stesso sviluppo capitalistico.Ebbene, non è che questo problema della costruzione del processo di formazione di

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una classe politica capitalistica moderna in Italia noi lo possiamo cogliere andando a vedere la storia elettorale dei singoli comparti, dei singoli collegi come processo specifico di reclutamento di una classe politica nazionale. Andare ad inseguire, in sostanza, i Filippo Meda fino a Rho, o i San Giuliano fino a Catania o i De Stefani fino a Verona.E così pure io credo che sia possibile dare un contributo non eristico appunto, ma euristico, alla definizione del processo di formazione di una coscienza nazionale, attraverso proprio l’analisi delle connotazioni areali, regionali, del patriottismo, di un patriottismo che è diverso in Piemonte o nel Veneto o nell’Italia meridionale, perché si costruisce attraverso la definizione dell’alterità e della diversità rispetto a un altro nemico, che non è lo stesso per i piemontesi, per i veneti, e per i meridio­nali. Quindi anche da questo punto di vista l’indagine sulle connotazioni areali e regionali del patriottismo può dare un contributo alla chiarificazione del processo di formazione di una coscienza anche culturale nazionale.Mi limito a questi esempi perché il tempo corre, non senza fare un ultimo accenno al problema sollevato da Santomassimo del teleologismo. Io non vorrei che questo spunto andasse perduto, perché credo proprio che il teleologismo di certa storio­grafia marxista e di sinistra italiana non sia stato generico, sia stato specifico ancora una volta, al di là di certe forme particolarmente brutali e irritanti di legittimazione politicistica, che qui non interessano. Che cosa è stato il teleologismo di un certo tipo di storia che è stata soprattutto quella del movimento cattolico e del movimento operaio e socialista? Appunto l’illusione di fare storia delle classi subalterne attra­verso la storia del movimento cattolico, del movimento operaio e socialista nel mo­mento in cui si danno una prima definizione sub-culturale, partitica e organizzativa. Sembra quasi che la mediazione politica del sociale sia avvenuta una volta per tutte quando si è costituita l’Opera del congresso, quando è nato il Partito socialista; dopo di che i rapporti delle classi subalterne con le classi dominanti sono evidentemente rapporti di estraneità, quando non sono semplici rapporti determinati dallo sfrut­tamento materiale e dal dominio subito.Quindi questa sorta di ingabbiamento delle società e delle classi subalterne nei par­titi, per cui la storia delle classi subalterne è diventata storia dei partiti lanciati verso fortune postume immancabili, ci ha portato a degli errori evidentemente dal punto di vista semplicemente euristico, all’incapacità di spiegare fenomeni di enorme por­tata come quelli relativi al consenso di massa, per esempio, al fascismo, oppure del moderatismo di massa nel secondo dopoguerra.

Interviene infine GIOVANNI D E LUNA il quale esaminando la storiografia relativa al mo­vimento operaio rileva come essa abbia sempre delineato uno sviluppo lineare e progressivo del protagonismo di massa, lasciando in ombra momenti in cui invece questo sviluppo pareva rallentare. Da questa esigenza di una conoscenza più completa della storia del movimento operaio nasce la necessità di rinnovare le categorie di interpretazione me­diante un approccio interdisciplinare che perm etta di ricuperare il « sociale » in tu tta la sua complessità.Nel pomeriggio del 26 i partecipanti al seminario hanno proseguito i lavori raggruppati in tre commissioni rispettivamente destinate ad affrontare i temi del confronto metodo- logico tra storiografia e scienze sociali, alla storia orale e alla struttura degli istituti in rapporto alle prospettive di lavoro scientifico che intendono perseguire. Nella m attinata del 27 i coordinatori delle tre commissioni danno conto della discussione sviluppatasi in ciascuna di esse.I risultati dei lavori della prim a commissione, imperniati sul tema del rapporto tra storia e scienze sociali, vengono sintetizzati dal professor RIGOLI, il quale precisa come, la complessità del problema e l’assenza di specialisti non hanno consentito di pervenire a formulazioni risolutive. Si è in particolare analizzata la molteplicità dei temi e la com­plementarità dei vari settori di ricerca ed è emersa da questa analisi l’esigenza di avviare

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un lavoro comune fra storici e studiosi di scienze sociali, impegno che potrebbe trovare espressione nell’ambito dell’Istituto nazionale. Questo lavoro dovrebbe avere come esito primo una precisa definizione della nomenclatura e della terminologia da adottare, finaliz­zandole ad un’ampia possibilità di ricerca, per lo storico, nell’ambito delle categorie con­cettuali delle scienze sociali. L’obiettivo risulta tanto più rilevante in quanto la scuola secondaria intende valersi degli strumenti offerti dalle scienze antropologiche non in fun­zione sostitutiva della storia, ma in modo da permettere un approfondimento critico ed una sensibilizzazione a tutti i problemi contemporanei.Sulle conclusioni della commissione dedicata alle strutture degli istituti è intervenuto poi ENZO RONCONI che ha letto la relazione che riportiamo integralmente.

La Commissione che ha dedicato i suoi lavori al terzo argomento fra quelli pro­posti in seduta plenaria del seminario e cioè al tema della collocazione degli Istituti associati nel quadro della ricerca scientifica generale ha rivolto la sua attenzione in particolare ai seguenti temi:esame del programma del ’72 e verifica della sua attuale volontà, prospettive e condizioni per il rilancio; rapporti fra gli istituti e degli istituti con l’Istituto nazio­nale; collocazione nel territorio e recupero del significato civile della loro presenza; rapporti e specificità nei confronti degli istituti universitari.La Commissione ha deciso di affidare il compito della sintesi dei suoi lavori a due relatori: a D’Agostino e a me. La mia sintesi concerne i primi tre punti, mentre quella di D’Agostino si riferisce al quarto punto.Per quanto riguarda il primo degli argomenti rapidamente affrontati e cioè la ve­rifica del programma dell’ottobre 1972, il dibattito ha messo in evidenza una totale convergenza su un giudizio positivo. Il programma va recuperato nella pienezza della sua estensione originaria come ricerca sul passaggio della società italiana dal fascismo allo stato repubblicano, rimossa l’accentuazione squilibrata del nesso resistenza-dopoguerra, con opportuni sondaggi retrospettivi verso la situazione ante­riore all’avvento del fascismo e con l’attenzione rivolta a cogliere la totalità dei pro­cessi intervenuti nel corso di questo passaggio e quindi con una larga disponibilità verso tipi di analisi anche non espressamente previsti nella formazione originaria del programma.Da vari interventi, in particolare da quello di Cosenza che ha anche illustrato un progetto di pubblicazione del materiale documentario, (ma penso di essere autoriz­zato a generalizzare questo giudizio) è stata confermata la centralità della Resistenza, intesa come momento rivelatore di tensioni latenti, di contraddizioni e di aperture verso il futuro; collegato quindi ai fermenti preesistenti e alle potenzialità antagoni­stiche al sistema fascista inglobate nella società italiana del ventennio. Nonostante tale centralità, nulla osta pertanto alla costituzione di istituti assimilati anche in quelle aree non impegnate materialmente nella resistenza armata, come del resto si è già verificato, purché la loro struttura e la loro attività risponda ai requisiti che regolano la vita e i rapporti fra gli Istituti associati della Resistenza. Quest’ultima precisazione va formulata con tutta prontezza, perché se può essere auspicabile che gli istituti della Resistenza diventino nel punto di riferimento morale per una mol­teplicità di iniziative e di gruppi, non possono d’altra parte costituirne un indiscri­minato polo di aggregazione organizzativa.I partecipanti ai lavori della commissione ritengono che il legame federativo esistente fra gli istituti rappresenti un fattore originale che va rigorosamente preservato e po­tenziato, favorendo la collaborazione fra gli istituti e incrementando il ruolo di strumento di coordinazione attribuito all’Istituto nazionale. Rilevano, tuttavia, l’in­sufficienza degli organi statutari preposti a tale compito : il Consiglio generale, se non altro fortemente condizionato dalla rarità delle sue riunioni, anche se, in teoria,

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pur rappresentativo; e il Consiglio direttivo, espressione del Consiglio generale, ma non idoneo, per la sua composizione, ad assolvere la funzione di strumento di rac­cordo con gli istituti periferici.Ritengono perciò che debba essere dedicato un mezzo più efficace per favorire la piena assunzione da parte dell’Istituto nazionale dell’onere d’assicurare la continua circolazione delle esperienze fra gli istituti e, reciprocamente, un più efficiente colle­gamento fra le iniziative del centro e la periferia, parzialmente avviato dalla pubbli­cazione del bollettino «Notizie e documenti». Questo allo scopo anche di dissipare più o meno ipotetiche ombre che potrebbero essere insorte in seguito a qualche at­teggiamento dell’Istituto nazionale improntato a un carattere di centralità più verti- cistica che funzionale.Quanto all’erediità ciellenistica presente negli istituti di più antica fondazione, spesso evocata con sottolineature particolari, e ricordata negli interventi di Arbizzani e Bertacchi, i partecipanti non ritengono che essa costituisca un problema né un osta­colo alla caratterizzazione scientifica degli istituti; il patto costitutivo ha un signi­ficato anche per la data in cui fu stipulato; il 1949, anno di guerra fredda e all’in- domani di drammatiche lacerazioni; ha consentito agli istituti di acquisire mate­riale fondamentale di diversa provenienza, di cui essi restano i depositari proprio in virtù del ‘garantismo’ rappresentato dalla composizione degli organi direttivi. Questa impronta originaria, che si va del resto attenuando per legge biologica, viene gradatamente modificata dall’ingresso nei consigli di giovani studiosi. Non è stata motivo di sclerotizzazione; non contrasta con lo svolgimento di una corretta attività scientifica; se mai si contraddice all’opzione per una scuola storiografica ed in questo senso rappresenta una salutare garanzia di pluralismo.Una esigenza particolarmente sentita è quella della promozione, del rilancio dell’im­pegno civile, inserito nella tematica della collocazione degli istituti nel territorio in cui operano e della loro natura di servizio che deve essere connotato da una pecu­liare valenza etico-politica. Una certa perplessità o insoddisfazione è stata espressa nei confronti dell’abbondante produzione di periodici da parte degli istituti; non per la fioritura in sé che può essere segno di salute, ma per la carenza n l’assenza della preoccupazione d’incidere nel settore della informazione e della formazione finalizzata a favorire la crescita e l’orientamento dei circuiti di socializzazione della cultura attivi nel territorio in cui operano e di cui dovrebbero proporsi come gli in­terlocutori privilegiati. Il momento divulgativo non può essere conservato separa­tamente dal momento della ricerca scientifica : una prima indicazione contenuta negli interventi di Bertacchi e Lussu è che non bisogna guardare esclusivamente al committente, ma privilegiare la considerazione dell’utente, adeguandosi alla sua richiesta nei cui confronti occorre contemporaneamente esercitare una funzione sti- molatrice, spesso rivelatrice di inconscie motivazioni. Il problema del radicamento degli istituti nel territorio, nel loro tessuto culturale, collegato con il rapporto con gli enti locali, è un problema delicato e complesso per la cui impostazione la com­missione non presume di essere in grado di esprimere sulla scorta di una rapida rassegna di pareri, nessuna immediata proposta operativa; ritiene che esso debba costituire oggetto di una seria riflessione per recuperare ritardi o per esorcizzare fantasmi di autocompiacimenti.Nel quadro del rilancio dell’impegno civile o per lo meno in quello di una campa­gna pubblica di cui essi potrebbero farsi promotori si può collocare infine anche la preoccupazione espressa da Parisella per la sorte del materiale archivistico apparte­nente a numerosi enti, quali l’Opera nazionale combattenti che cadono sotto la legge per la soppressione degli enti inutili. Tale materiale, corre il rischio di andar disperso. Di qui l’urgenza di essere salvaguardato di cui gli istituti possono farsi portavoce

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nell’interesse della conservazione di un patrimonio comune, che fa parte della storia di tutti.

In un intervento integrativo alla relazione di Ronconi, GUIDO D’AGOSTINO ha sviluppato in particolare il tema dei rapporti fra istituti e università. Per quanto riguarda la ricerca, ha sottolineato come gli istituti non debbano rappresentare un doppione dell’università o esercitare una « supplenza » rispetto ai compiti istituzionali che spettano a quest’ultima. Gli istituti offrono invece un terreno particolarmente adatto ad una ricerca più libera. A questo scopo è indispensabile salvaguardare il carattere pluralistico e originario degli istituti, che è un elemento fondante e caratterizzante della loro attività e dal quale emerge anche la possibilità di avviare un progetto per la costruzione di una nuova professionalità. Secondo D’Agostino la ricerca storica non deve essere solo conoscitiva, ma trasformativa, come ogni ricerca scientifica; questo presupposto implica un rapporto presente-passato meno cautelativo di quanto sia emerso in alcuni interventi nel corso del seminario. Gli istituti devono quindi proporsi come strutture impegnate in una funzione eminente­mente civile e di formazione di quadri i quali non devono porsi come ricercatori « da tavolino », ma devono essere collegati al sociale e ai problemi generali della ricerca. ALESSANDRO PORTELLI ha poi presentato i risultati dei lavori della commissione che ha affrontato la tematica della storia orale individuando due problemi centrali: l’uso delle fonti orali e il rapporto storia locale-storia nazionale. Il dibattito, secondo Portelli, avrebbe evidenziato innanzitutto la problematicità della fonte orale, che è influenzata da chi parla o ascolta, dai concetti impiegati, dalle motivazioni del ricercatore e dell’intervistato. Portelli ha sottolineato come chi usa le fonti orali faccia storia al pari di altri; l’impiego di queste fonti richiede tuttavia una modificazione complessiva dei presupposti storiogra­fici della ricerca, sia perché le fonti orali impongono allo storico un tipo di responsabilità particolare che nasce proprio dal rapporto « politico » che s’instaura tra il ricercatore e l’intervistato, sia. perché tali fonti legittimano a creare storia chi non ha mai potuto espri­mersi attraverso la fonte scritta. Sul rapporto fonti orali-privato, ha sostenuto che è riduttivo dire che questo tipo di ricerca si limiti a ricostruire prevalentemente il privato, in realtà le fonti orali mirano a ricostruire avvenimenti ignorati o soppressi, ciò che rende più diffìcili le manipolazioni teleologiche e gli esorcismi politici.Le fonti orali non sono però le uniche ad affrontare la dimensione della soggettività, né esse sono solo fonti delle classi subalterne. Caratteristica specifica delle fonti orali è il tipo di comunicazione utilizzata dallo storico, che consiste non solo in testimonianze orali dirette, ma anche in archivi sonori, videotape, teatro e cinema.Naturalmente l’attendibilità delle fonti orali è un problema reale, esso però è presente anche in altri tipi di fonte e di ricerca. Per Portelli anche i cosidetti « racconti sbagliati » possono essere utilizzati e interpretati, consentendo allo storico di individuare le motiva­zioni soggettive e le griglie di autocensura degli intervistati. Nelle fonti orali in ogni caso è presente uno stretto intreccio tra fatti e giudizi, e su questi ultimi pesa ovviamente la subalternità delle classi oppresse. La ricerca mediante le fonti orali permette comunque di non fermarsi sui punti « alti », ma di cogliere i momenti di sconfitta e di regresso. Sulla scorta delle relazioni, delle comunicazioni e degli interventi si è aperta la fase con­clusiva della discussione generale.Il primo intervento è stato di IVO MATTOZZI, il quale ha sottolineato come raccogliere fonti orali sia una operazione ben diversa dal fare storia orale, ed ha richiamato alla necessaria prudenza nell’uso di queste fonti stesse, uso su cui esistono parecchie diver­genze anche fra gli storici. A questo proposito ha sottolineato il crescente interesse per l’impiego delle fonti orali nella didattica e ha annunciato l’organizzazione di un seminario a Castelfranco Veneto destinato a tracciare un bilancio critico delle esperienze di storia orale sviluppatesi ai vari livelli della scuola italiana.MASSIMO LEGNANE ha sottolineato come il dibattito abbia presentato due poli di interes­se: le questioni metodologiche e il problema della collocazione degli istituti. Secondo Legna- ni il dibattito avrebbe privilegiato soprattutto il primo momento, mentre è necessario cer­care di raccordare i due ordini di problemi, pur sapendo che le soluzioni immediatamente proponibili possono avere solo un carattere « sperimentale ». Legnani ha rilevato come la richiesta di una riconferma del programma del ’72 non colga sufficientemente i limiti del programma stesso, limiti che fanno sì che il progetto di lavoro sulla società italiana nella seconda guerra mondiale avanzato da Monteleone in apertura di seminario non abbia trovato nel dibattito echi apprezzabili. Si è chiesto se non sia allora necessario, da parte degli istituti, fare preventivamente una ricognizione delle attuali metodologie, con­temporaneamente ad una verifica della capacità delle strutture degli istituti stessi di pro-

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cedere ad una reale riqualificazione della loro attività. Si porrebbero a questo punto, secondo Legnani, tre livelli di questioni: Innanzitutto il problema del rapporto fra organi politici e organi scientifici. È questo un problema che non va diplomatizzato, anche per­ché finora è emersa una effettiva subalternità della progettazione scientifica rispetto alla dirigenza politica. A questo proposito si è dichiarato d’accordo con la proposta formu­lata dalla commissione coordinata da Ronconi di creare ulteriori strutture di coordina­mento tra gli istituti al di fuori di quelle statutarie già esistenti e che hanno la loro sede in organi insufficientemente qualificati a livello culturale. In secondo luogo si pone la questione dei rapporti con la committenza soprattutto locale, rapporti che potrebbero, se non affrontati correttamente, soffocare un reale rinnovamento dell’attività degli istituti. Legnani si ricollega inoltre al problema della formazione dei quadri. A questo proposito, valutando positivamente la larga partecipazione al dibattito seminariale, ha sottolineato come essa dovrebbe essere ulteriormente qualificata attraverso un lavoro di formazione che va svolto anche in collaborazione con gli enti locali presenti nel territorio. Richia­mandosi all’intervento di D’Agostino, Legnani ha infine proposto la formulazione di un « codice scientifico-politico » capace di dare una soluzione positiva al problema della collocazione e della promozione culturale degli istituti nell’ambito delle strutture che presiedono all’attività di ricerca.È intervenuto poi GASTONE MANACORDA, che ha ripreso alcuni temi già affrontati dal­la relazione di Portelli. In particolare ha affrontato il tema della validità scientifica delle fonti orali e del loro uso. Non è infatti possibile contrapporre o privilegiare le fonti orali rispetto a quelle scritte, che avrebbero invece un rapporto statico e fisso con il ri­cercatore. Il vero problema, in entrambi i casi, è l’ipotesi di ricerca e il rapporto con la documentazione. D’altra parte la sopravvalutazione delle fonti orali è spesso strumentale in funzione della polemica contro le istituzioni. Per quanto riguarda il rapporto storia nazionale/storia locale Manacorda ha rilevato come la storia orale difficilmente travalichi i confini della località e si è chiesto se queste fonti possono assumere valore di giudizio storico soprattutto tenendo conto che il rapporto nazionale-locale è già limitativo di un problema storiografico che, soprattutto nella storia contemporanea, va visto nel quadro più generale dello sviluppo capitalistico. Senza mettere in discussione *l’importanza di questo tipo di fonti, Manacorda rifiuta quindi l’ipotesi che esse possano essere considerate fonti privilegiate.Sugli stessi temi successivamente è intervenuto ANGELO VENTURA sottolineando come vi sia un uso arbitrario delle fonti orali, privo di controllo e di garanzia scientifica, ciò che consente spesso una loro strumentalizzazione politica, e d’altronde, dal punto di vista storiografico ripropone spesso la tradizionale concezione evenementielle della storia. Per Ventura in ogni caso, l’uso delle fonti orali non può essere sostitutivo di altre fonti, né è possibile ipostatizzare una astratta coscienza storica della classe operaia separata dalle istituzioni.LUIGI ARBIZZANI ha sostenuto la necessità di trasformare gli istituti per la storia della Resistenza in veri e propri istituti di ricerca, senza che essi perdano il loro originario carattere pluralistico e federativo. Ha ribadito inoltre l’esigenza di riprendere nella sua interezza il programma del ’72, evitando come si è fatto nel passato di isolare il mo­mento Resistenza-dopoguerra, ma ricollegandolo alle problematiche politiche ed econo­miche apertesi con la crisi degli anni trenta, ed ha rivendicato l’uguale dignità dei vari istituti, a condizione che ciascuno di essi sappia porsi correttamente i problemi della programmazione scientifica.DANIELA IALLA ha poi sottolineato, rifacendosi al dibattito sulla storia orale come l’uti­lizzazione delle fonti orali in questi ultimi anni stia proprio in quella crisi della ragione storica emersa più volte nel corso dei lavori, ed ha indicato come elemento caratteriz­zante le fonti orali la capacità di cogliere il momento della soggettività, del locale, per il quale costituiscono indubbiamente una fonte privilegiata.Infine MANTELLI sempre a proposito di fonti orali e in polemica con Ventura ha affer­mato come sia impossibile dedurre da fonti istituzionali e tradizionali la multiformità dei comportamenti sociali.I lavori del seminario sono stati chiusi da GUIDO QUAZZA che, ribadendo il carattere aperto dell’iniziativa e l’apporto ad essa recato dalla presenza di ricercatori esterni agli istituti, ha sottolineato come la crisi della società italiana si riverberi sul lavoro storio­grafico ed imponga ad esso l’acquisizione di nuove metodologie e prospettive di ricerca.