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A U T O B I O G R A F I A di Sergio Letizia

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A U T O B I O G R A F I A

di Sergio Letizia

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I N D I C E

-

1-MIO PADRE................................................................................................................................3

2.L’INFANZIA................................................................................................................................6

3. L’ADOLESCENZA..................................................................................................................14

4. IL MIO PRIMO LAVORO.......................................................................................................19

5. LA GUERRA............................................................................................................................20

6.L’8 SETTEMBRE A ROMA....................................................................................................27

7.IN MISSIONE PER L’APPROVVIGIONAMENTO DI ROMA..............................................28

8.LA VITA DIFFICILE................................................................................................................32

9. LA CLANDESTINITA’............................................................................................................33

10. LA DELUSIONE....................................................................................................................36

11. LE MIE RAGAZZE................................................................................................................39

12. IL MATRIMONIO..................................................................................................................41

13. L’ESPERIENZA POLITICA..................................................................................................43

14.L’AVVOCATURA..................................................................................................................45

15. GIUDICE A SULMONA........................................................................................................49

16.PRETORE A CASTEL DI SANGRO......................................................................................53

17.TERRACINA...........................................................................................................................64

18. A ROMA.................................................................................................................................71

19. L’ATTIVISMO ASSOCIATIVO...........................................................................................76

20. LA SCHEDATURA..............................................................................................................100

21. IL SINDACATO NAZIONALE MAGISTRATI..................................................................104

22 IL PUBBLICISTA.................................................................................................................108

23 IL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA...............................................110

24 I VIAGGI ALL’ESTERO.....................................................................................................121

25. IN QUIESCENZA.................................................................................................................130

26. L’AVVENTURA DI MIA NUORA.....................................................................................133

27.IL CALVARIO DI LORENZA..............................................................................................137

28.IL CENTRO ANZIANI..........................................................................................................144

29. LA LUNGA STORIA DI UN SOPRUSO............................................................................148

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1-MIO PADRE

Figlio di un agricoltore, mio padre Pietro Letizia nacque il 13

novembre 1896 a Vetralla, una cittadina del viterbese. Aveva perduto la madre,

ritenuta la più bella donna del paese, quando aveva appena 8 anni e con il fratello

più piccolo, Francesco, era stato allevato da una zia, che abitava nello stesso

fabbricato, occupato tutto da parenti.

Mentre il padre Giovanni Battista detto “Titta”, che non si era

risposato, era un tipo chiuso e silenzioso, probabilmente perché la morte della

moglie aveva inciso fortemente sul suo carattere, mio padre sin da piccolo aveva

dimostrato di essere molto sveglio, aperto e in un certo senso ribelle. A 15 anni

aveva aderito al partito socialista, come tutti i parenti (uno zio era sindaco del

Paese), e si era dato alla lettura di testi storici, di filosofia e di economia, benché

avesse conseguito soltanto la licenza elementare.

Allo scoppio della prima guerra mondiale mio padre aveva 18 anni e fu

spedito subito al fronte quale artigliere da campagna addetto ad un cannone da 75

mm. trainato da cavalli in un reggimento che faceva parte della III armata guidata

dal Duca d'Aosta. Nella ritirata di Caporetto, nel 19l7, fu colpito da una granata

nemica, che gli asportò la mano destra, oltre a procurargli ferite all'addome.

Dopo le prime cure presso un Ospedale militare del Veneto fu

ricoverato nel palazzo del Quirinale, che Vittorio Emanuele III aveva messo in

parte a disposizione dei feriti, e poi in una villa di Vallombrosa nei pressi di

Firenze.

Durante la degenza mio padre, oltre ad esercitare la mano sinistra

in modo da supplire alla perdita di quella destra, accrebbe la propria cultura, con

la lettura di testi di vario genere e, dimesso, si trasferì a Roma. Qui, avendo nel

frattempo conseguito il diploma di computista commerciale, trovò impiego presso

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la Banca di Sconto ed iniziò ad esplicare intensa attività politica in favore del

partito socialista.

La crisi delle case di abitazione, che a Roma non avrebbe avuto più

fine, lo indusse nel 1920 a fondare la Lega degli Inquilini, di cui divenne

Segretario Generale, e per questo fu designato a far parte della commissione per

gli alloggi. . Negli anni fino all'avvento del fascismo la lega da lui guidata riuscì

praticamente a bloccare gli sfratti, in quanto, ogniqualvolta si era tentato di

eseguirne uno, gli aderenti alla lega erano intervenuti in blocco dinanzi

all'immobile, impedendo l’accesso dell’ufficiale giudiziario e delle forze

dell’ordine.

Per l’azione a difesa degli inquilini mio padre era tacciato di

estremismo dalla stampa ed in particolare da "il Giornale d'Italia", orientato a

destra.

Nel Congresso del Partito Socialista, tenutosi nel 1921 a Livorno,

passò dalla parte degli scissionisti, aderendo al partito comunista, retto allora da

un triunvirato composto da Bordiga, Fortichiari e Terracini.

A Roma aveva allacciato rapporti di profonda amicizia con Nicola

Bombacci, divenuto per i fascisti romani il simbolo del comunismo, tanto che

nelle loro marce e manifestazioni erano soliti cantare: "Ce ne freghiamo di

Bombacci e del sol dell'avvenire".

L'adesione al comunismo doveva però durare molto poco. A causa del

comportamento autoritario del partito in Russia, che mio padre considerava

contrastante con le tesi di Marx, ancor prima della marcia dei fascisti su Roma

(ottobre 1922) ritornò alle origini socialiste.

Nonostante fosse componente della Commissione per gli Alloggi e

Segretario della Lega degli inquilini, mio padre nel 1921 preferì ottenere in affitto

dall’Istituto per le case Popolari, in coabitazione con un tassista padre di due figli,

un appartamento di sole tre camere e servizi sito a Via Alessandro Cialdi nel

popolare quartiere periferico romano della Garbatella, perché quella sistemazione

lo sottraeva a qualsiasi critica da parte dei compagni e degli associati alla Lega.

All'inizio del 1922 fece un incontro che determinò la svolta decisiva

della sua vita.

Si trovava nella sede della Lega degli Inqulini quando una donna, che

esercitava la attività di bustaia in Via dei Cartari in un locale a livello stradale, che

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nel contempo costituiva l'abitazione sua, del marito e di una figlia adottiva, si recò

da lui in compagnia di mia madre, allora ventenne,. per sollecitare il suo

intervento al fine di ottenere l'assegnazione di una abitazione.

La bustaia era di mezza età e di notevole corporatura (a suo tempo in un

circo si era esibita come "donna cannone"), mentre mia madre Iolanda, figlia di

una sua amica defunta appena un anno prima, originaria come lei di un paese nei

pressi di Frosinone, era magra, alta e bella.

Mio padre, che all’epoca aveva venticinque anni, si innamorò subito di

mia madre, più giovane di lui di cinque anni e dopo pochi mesi la sposò in

municipio.

La abitazione in Via Alessandro Cialdi, condivisa con il tassista Camillo

Brandoni, era situata al secondo piano di una palazzina di quattro piani,. I suoi

inquilini usufruivano, per piccoli appezzamenti di uso esclusivo, di un orto-

giardino a terrazze situato nella parte retrostante della palazzina rispetto alla via e

alcuni di essi nella loro porzione avevano impiantato anche un gallinaio.

.Sul ballatoio del secondo piano, come negli altri piani, si aprivano le

porte di tre appartamenti, uno dei quali abitato da Guido Marino, un calabrese in

pensione, già maresciallo della polizia proveniente dalle disciolte Guardie Regie,

padre di tre figli, due maschi ed una femmina. Era un uomo grande e grosso che

aveva continuato a lavorare dopo il pensionamento come persona di fiducia di un

noto avvocato penalista di Roma, Guido Aroca, con studio in Via Crescenzio.

La moglie, che tutti chiamavano “donna Amelia” era piccolina ed esile:

poteva avere all’epoca una quarantina d’anni. La sua famiglia, di cognome

Rapagnetta, era originaria di Pescara ed ella rivendicava una stretta parentela con

Gabriele d’Annunzio, in quanto, a suo dire, figlio del fratello di suo padre ed

adottato da un cognato dello stesso, che gli aveva trasferito il proprio cognome.

Mia madre mi dette alla luce il 13 Settembre del 1923 e mio padre mi

impose come primo nome quello di Sergio, un prete russo rivoluzionario, e come

secondo quello di Lenin, Vladimiro. La repressione contro gli uomini della

sinistra da parte del fascismo, che aveva assunto il potere nell’ottobre 1922,

all’epoca non era ancora iniziata.

Subito dopo la mia nascita mio padre vinse un concorso presso

l’Amministrazione comunale di Roma e fu assunto come impiegato del servizio

di riscossione dell’Imposta di Consumo.

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2.L’INFANZIA

Ho sempre conservato vivo il ricordo della mia prima infanzia

passata in Via Alessandro Cialdi. All’età di due anni, tutte le mattine scendevo nel

piano inferiore e bussavo alla porta dell’abitazione della famiglia Marino,

ripetendo le parole “Meia, pepè”, con ciò reclamando la colazione, consistente in

caffellatte con biscotti, che mi veniva servito puntualmente dalla signora Amelia,

padrona di casa,

Alcuni episodi dei miei primi cinque anni di vita passati in Via

Alessandro Cialdi sono rimasti ben impressi nella mia mente, come le grida di

dolore di una madre abitante al terzo piano della palazzina, il cui figlio di 5-6

anni, allontanatosi di casa con altri ragazzi per giocare sul greto del vicino Tevere

era caduto in acqua e vi era scomparso e quelle di un bambino di quattro anni

abitante al piano terra, che era caduto su un braciere acceso ustionandosi i glutei.

Ricordo ancora un signore distinto, magro, di una certa età, con una

barbetta a pizzo, che tutti chiamavano “Cavaliere” (probabilmente la persona più

importante che abitava in quel palazzo) e la bella moglie soprannominata “la

Cavaliera”,

Nel 1925 mia madre mi condusse in braccio in un locale chiuso

ornato di bandiere rosse, dove si teneva con la partecipazione di molti panettieri

di Roma un comizio vietato dalle autorità perché organizzato da elementi ritenuti

“sovversivi”. Mio padre vi doveva tenere un discorso e proprio mentre parlava

intervenne la polizia, che arrestò tutti i presenti..

Con mia madre rimasi tre giorni nel Carcere femminile delle Mantellate,

il che mi consacrò definitivamente come vero romano, perché fra il popolo si

riteneva tale chi era stato almeno una volta in carcere.

L’anno successivo la palazzina do Via Alessandro Cialdi tremò per una

scossa abbastanza forte di terremoto. Mi trovavo nel corridoio della mia

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abitazione, quando aveva sentii oscillare il pavimento sotto i miei piedi e vidi nel

contempo il lampadario trasformarsi in un pendolo.

Proprio in quell’anno, il 20 maggio del 1926, nacque il primo dei miei

fratelli, Alberto, che sin da piccolo sarebbe stato poi chiamato Lillo, soprannome

impostogli dalla commare Teresa Marino.

Mio padre, che non era credente, dietro pressioni di mia madre si indusse a

farmi battezzare insieme con mio fratello Alberto , quando avevo tre anni. Fui

battezzato nella Basilica di S.Paolo fuori le mura, rispondendo direttamente, e non

tramite il padrino, alle domande che mi poneva il prete circa la mia intenzione di

ricevere il sacramento.

La nascita di mio fratello Alberto indusse mia madre ad iscrivermi presso

un asilo infantile situato nello stesso quartiere della Garbatella a breve distanza

dalla Via Alessandro Cialdi. Dell’asilo ricordo solo una sala di aspetto e in

particolare un divano di vimini, seduto sul quale un giorno attesi angosciosamente

per un’ora l’arrivo di mia madre, che, a causa di un impedimento rimasto

sconosciuto, era stata costretta a dare l’incarico di riprendermi ad una ragazza,

che giunse con notevole ritardo.

In altra occasione, di ritorno dall’asilo, mentre passavo con mia madre

dinanzi ad una farmacia, vidi all’interno del retrobottega della stessa, attraverso

una finestra molto basse, una bambina sdraiata sul bacino di una donna,

probabilmente la madre, che fra le gambe allargate presentava tracce di sangue

all’altezza dell’inguine. La scena rimase impressa nella mia mente con un

interrogativo ancor oggi senza risposta sulla causa di quel sangue.

Poco prima che io compissi i sei anni mio padre ottenne l’assegnazione

da parte dell’Istituto delle Case Popolari di un appartamento di due camere e

servizi al secondo piano di una palazzina facente parte del complesso con

ingresso dal numero 16 di Via Francesco Passino, sempre nel quartiere della

Garbatella, ed io nell’ottobre del 1929 iniziai a frequentare la scuola elementare in

un plesso composto da baracche di legno sparse sulla sommità di una collina

confinante con Via delle Sette Chiese. Sul terreno adiacente era in costruzione un

edificio scolastico al quale sarebbe stato dato un anno dopo, alla ultimazione dei

lavori, il nome di “Michele Bianchi”, uno dei quadrumviri del movimento

fascista.

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La mia maestra, una giovane piccola sarda dal cognome Usai con i

capelli neri tirati e raccolti dietro la nuca a forma di cipolla, proseguì

l’insegnamento nel nuovo edificio dove iniziai a frequentare la seconda classe e

solo al terzo anno del corso fu sostituita da un maestro di origini siciliane, di

nome Giovanni Spagnuolo.

Proprio mentre frequentavo la terza classe, un giorno entrò nell’aula il

direttore e pose ai singoli scolari alcune domande per saggiare la loro

preparazione. Ad una di esse soltanto io fui in grado di rispondere. Era stato

chiesto il motivo per cui la lavagna sita nella classe fosse pesante, nel senso che

occorreva della forza per sollevarla, ed io risposi che ciò era dovuto alla forza di

gravità della Terra.

In realtà ero il primo della classe sin da quando avevo iniziato a

frequentare la scuola elementare e per i voti conseguiti mi fu assegnato alla fine di

ogni anno scolastico il massimo riconoscimento: una medaglia d’argento in

profitto: alla fine del corso elementare avevo collezionato cinque medaglie

d’argento in profitto e tre medaglie di bronzo, di cui due in educazione e l’altra in

religione.

Della frequenza del corso elementare ricordo che andavo a scuola con un

canestrello che conteneva la colazione, costituita di solito da un pane con

mortadella, e che, dopo la consumazione del pranzo (pasta asciutta o pasta in

brodo, un secondo piatto di carne o pesce e frutta), mi veniva somministrato

nell’edificio scolastico un ricostituente costituito da olio di fegato di merluzzo dal

sapore disgustoso.

Nel pomeriggio, dopo la scuola, andavo a giocare in un prato situato tra la

propria abitazione e la scuola. Nel prato talvolta pascolavano dei cavalli, uno dei

quali una volta colpì con un calcio la tempia di un mio coetaneo, figlio di un

ragioniere abitante in un palazzo attiguo al suo, che aveva corso pericolo di vita.

Io stesso fui colpito al petto in altra occasione da un puledro, sfornito

fortunatamente di ferri agli zoccoli, che mi scagliò a terra.

In quel prato mio fratello Lillo, all’età di circa quattro anni, cadendo

mentre correva con in mano un pezzo di latta tondeggiante, rinvenuto poco prima

in mezzo all’erba e che aveva costituito la copertura di un grosso barattolo di

conserva, riportò un taglio longitudinale sulla guancia sinistra che aveva

interessato tutto il tessuto sino a far intravedere la dentatura e per suturare il quale

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occorsero dieci punti metallici. Mia madre, quando io e la bisnonna Rosaria,

presenti al fatto, lo portammo ferito in casa, non aveva potuto reprimere grida di

disperazione: si trattava di un bambino molto bello con gli occhi azzurri e i capelli

biondi che ricadevano a riccioli ed ora appariva sfregiato. Il segno della sutura,

una linea rossastra che scendeva dallo zigomo al mento, sarebbe rimasto per tutta

la vita, coperto in gran parte nell’età adulta da una barba.

Nello stesso prato i divertimenti possibili consistevano nel trascinare con

un filo, il più alto possibile, un aquilone costruito con strisce di canna e carta

multicolore oppure facendo saltare in aria un barattolo privo della lamiera

inferiore di chiusura, precedentemente completamente interrato con all’interno un

pezzo di carburo immerso nell’acqua, il cui gas veniva acceso attraverso un foro

praticato sulla parte superiore del barattolo.

All’interno del lotto di fabbricati di Via Passino esisteva ed esiste tuttora

un piazzale rotondo recintato con tubi di ferro, nel quale si giocava a “ferretto”,

facendo cioè roteare nell’aria con un colpo della mano sinistra sull’anello

costituente una delle due estremità un fil di ferro inserito con l’altra estremità

rettilinea fra l’indice e il medio della mano destra ovvero lanciandolo con la mano

in modo da inserirlo in un mucchietto di sabbia in posizione verticale con l’anello

posizionato in alto.

Altro gioco praticato era quello delle palline di terracotta che, attraverso

2 colpi inferti con scatti del pollice di una delle due mani trattenuto dall’indice, si

dovevano far entrare in una piccola buca (“zipidì, zipidè, in buca c’è” era la

locuzione che descriveva il gioco) ed inoltre si raccoglievano, mediante vittoria

nei vari giochi o attraverso scambio, oltre a “figurine” (fotografie su piccoli

cartoncini di giocatori delle squadre di calcio), fogli o parte di fogli in cui erano

raffigurati soldati di varie epoche, a piedi o a cavallo, e mezzi bellici come aerei,

carri armati, sottomarini e navi, ognuno dei quali aveva un determinato valore di

scambio.

Il gioco denominato “nizza” consisteva, poi, nel percuotere con un bastone

ricavato dal manico di una scopa una delle due estremità appuntite di un pezzo di

legno rotondo lungo dai 15 ai 20 centimetri in modo da farlo balzare in aria per

poi colpirlo nuovamente al centro e mandarlo il più lontano possibile in modo da

oltrepassare il punto raggiunto da altri gareggianti.

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Quello del “picchio”, invece, consisteva nel far ruotare velocemente su un

piano (di solito la pavimentazione di un marciapiede) un oggetto di legno

appuntito a forma di cipolla più o meno allungata, tirando velocemente un

cordoncino precedentemente avvolto in lievi scanalatura della sua parte inferiore,

mentre lo “yò–yò” era costituito da un disco metallico con circonferenza scanalata

entro la quale si avvolgeva un filo, che, lasciato cedere in basso, ritornava in alto

verso la mano in cui era tenuta l’estremità del filo, dopo che questo si era

completamente svolto, avvolgendosi nuovamente a seguito di richiamo da parte

della mano, sicché era possibile ripetere l’azione continuamente.

Sulla Via Francesco Passino transitava un tram recante il n.22 e,

ogni tanto, al suo passaggio, si avvertivano scoppi provocati da ragazzi che

poggiavano sulle rotaie pasticche formate con potassio e zolfo. Le automobili in

transito erano pochissime, mentre numerosi erano i carri trainati da cavalli, fra cui

le caratteristiche “botticelle”, ossia carri trasportanti botti di vino dei castelli

romani tutti infiocchettati, e i carri carichi di fusti di birra trainati da grossi cavalli

bavaresi. Da un locale sito nella parte bassa della strada, che saliva verso la

scuola “Bianchi”, proveniva l’odore acre provocato dai chiodi infuocati, che un

maniscalco usava per fissare i ferri agli zoccoli dei cavalli.

Ogni tanto si udiva la voce alta di un “arrotino”, che richiamava

l’attenzione della gente che aveva necessità di affilare coltelli e forbici.

L’affilatura avveniva mediante una mola azionata da una cinghia applicata al

pedale di una bicicletta.

D’estate sostava per qualche tempo nella via il triciclo di un gelataio,

che manteneva al freddo il suo prodotto in un grosso recipiente di rame inserito in

un recipiente più grande e circondato da sale di cui era stata riempita

l’intercapedine. Il gelato veniva servito agli acquirenti compresso fra due ostie

con una speciale macchinetta.

. La Via delle Sette Chiese, parallela alla Via Passino, subito dopo il

punto in cui si ergeva la scuola “Michele Bianchi”, si snodava in discesa

nell’aperta campagna circondata da siepi fra cui di sera, in autunno, si vedevano i

piccoli lampi intermittenti delle lucciole. La strada in quel punto si prestava

all’uso di carrelli, le cui ruote erano costituite da quattro grossi cuscinetti a sfere,

due dei quali inseriti nelle estremità di una sbarra di legno applicata alla parte

anteriore del carrello e resa mobile con un perno in modo da essere manovrata,

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per eventuali deviazioni, mediante una corda legata ai suoi due estremi, mentre gli

altri due erano applicati ad una sbarra sporgente della parte posteriore..

I ragazzi salivano in due su ogni carrello o “carrettino” e, percorsa tutta la

discesa, risalivano a piedi la china trascinando a mano il mezzo per ripetere la

manovra.

Proprio mentre risalivo a piedi, un giorno il pedale di una bicicletta

condotta da un uomo vestito da postino, rasentandomi asportò un brandello di

carne dal polpaccio della mia gamba sinistra. Altra volta il pezzo di un copertone

di automobile che si trovava su un fuoco fatto con pezzi di legno sull’altro lato

della strada, infuocato, fu colpito con un calcio da un giovane a causa del cattivo

odore che emanava e andò a impattare bollente sul polpaccio della mia gamba

destra, mentre io camminavo sul lato opposto della massicciata.

Attaccata alla carne del polpaccio rimase gomma fusa, che mi provocò un

dolore intenso e che mia madre lentamente asportò servendosi di cotone idrofilo

imbevuto con olio di oliva.

Il 10 settembre del 1928 nacque il secondo dei mie fratelli, Alvaro.

Tutte le domeniche faceva visita ai miei genitori una coppia formata da un

collega di mio padre, laureato in legge e perciò appellato “Avvocato”, e dalla

moglie: lui molto magro e distinto, originario di Anghiari e lei molto elegante.

Non avevano figli ed avevano in casa un piccolo cane, che dopo alcuni anni

avrebbe provocato la morte di ambedue per cisti da echinococco, evidentemente

per non completa adozione di misure idonee ad evitare l’infezione. I coniugi Ligi,

così si chiamavano, portavano a me e ai miei fratelli caramelle e cioccolatini.

Altra coppia di amici di famiglia era costituita dai coniugi Semproni, genitori

di due bambine, Edda, la maggiore, quasi mia coetanea, e Gabriella detta “Gaby”,

la minore, coetanea di Lillo. Quest’ultima studiava anche musica ed imparava a

suonare il violino.

I rapporti con la famiglia Marino, e specialmente con i figli Pietro e

Teresa, si erano mantenuti stretti. Pietro, quando nacque Alvaro, aveva 19 anni ed

era così alto e grosso da pesare oltre 100 chili; Teresa, una bella ragazza di 17

anni, era molto corteggiata ed era amica di due sorelle abitanti nel quartiere, che

spesso portavano con loro un fratellino sempre taciturno e per ciò da loro

rimproverato, il quale sarebbe poi divenuto un celebre attore loquace, Alberto

Sordi.

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D’estate talvolta andavamo al mare, al lido di Ostia, insieme con i

Semproni e con la signora Marino e la figlia Teresa. Per andare al mare si

prendeva il treno, che nei giorni di festa partiva ogni 5-10 minuti dalla stazione

Ostiense e percorreva la linea lunga circa 25 chilometri che portava ad Ostia.

Vicino alla stazione di arrivo e quasi al centro della località si affacciava sulla

spiaggia lo stabilimento balneare denominato “Lido”, munito di cabine di legno, il

cui corpo centrale in muratura, sopraelevato rispetto alla spiaggia e adagiato su

piloni che affondavano nella sabbia, consisteva in un ampio locale rotondo adibito

a bar dal quale si accedeva ad un lungo pontile che si inoltrava nel mare. Le gite al

mare duravano dalla mattina alla sera.

Nel 1930 mio padre prese in affitto per tutto il mese di settembre un

appartamentino situato al primo piano di una palazzina nel centro di Ostia, dove si

trasferì per la villeggiatura la famiglia. Mio padre, rimasto in servizio, veniva a

trovarci a fine settimana. Un giorno il mare grosso inondò la località e mia madre

riportò, a causa della forte umidità, febbri reumatiche che la costrinsero al letto e

le causarono dolori tali da indurla a ritornare a Roma prima del tempo. Fui io a

telefonare, da un apparecchio pubblico esistente nei pressi della abitazione presa

in affitto, all’ufficio di mio padre per avvisarlo della malattia di mia madre e della

sua intenzione di fare ritorno.

In una Piazza da cui si dipartiva la Via Passino esisteva un

cinematografo dove qualche volta venivo condotto da mio padre a vedere dei

films: in un primo tempo muti, come “Il figlio dello Sceicco” ed altri interpretati

da Rodolfo Valentino, e poi parlati come “La grande parata” e “Il dottor Jekill”.

Anche a scuola, sia pur raramente, venivano proiettati brevi films muti,

che in genere avevano per oggetto episodi ispirati a Tarzan, l’uomo della

giungla creato da Borroughs, ovvero documentari.

Durante l’anno scolastico 1933-34 un ragazzo della V classe elementare

da me frequentata, dal cognome Scala, morì per malattia e l’avvenimento luttuoso

si aggiunse in modo indelebile ai miei ricordi giovanili

Mio padre ottenne l’assegnazione di un appartamento di tre camere e

servizi nel Quartiere Flaminio a Piazza Melozzo da Forlì n.4 nel luglio del 1934,

quando io avevo appena finito la quinta classe elementare ed ero impegnato negli

esami di ammissione alla prima classe del ginnasio. Gli esami si svolsero presso il

ginnasio-liceo Virgilio, che allora occupava un palazzo nei pressi del Portico

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d’Ottavia e della sinagoga di Roma. Gli esaminandi erano molti e parecchi di essi

sostennero la prova scritta di italiano sedendo su banchi sistemati nei corridoi

della scuola, come si verificò per me, che superai brillantemente la prova.

La mia famiglia si trasferì a Settembre dello stesso anno nella nuova

abitazione, sita al sesto piano di un palazzo privo di ascensore. La nuova

sistemazione comportò la mia iscrizione nel ginnasio più vicino, il “Terenzio

Mamiani”, situato nel quartiere Prati con ingresso principale lungo la Via delle

Milizie. Alla prime tre classi del ginnasio si accedeva dalla parte posteriore

dell’edificio confinante con la Via Mordini.

Il 4 Settembre 1934 nacque il terzo dei miei fratelli, al quale fu imposto

il nome di Giorgio.

Nell’ottobre successivo, il giorno di apertura della scuola fui l’ultimo

ad entrare nella classe I ginnasiale Sezione G, alla quale era stato destinato, e

quando declinai, su invito del professore di italiano e latino Gaeta, il mio cognome

lo stesso commentò ad alta voce “Letizia bel nome italico”.

Era una classe formata da ragazzi ben preparati, tanto che l’anno

successivo tutti in blocco con i nostri professori passammo alla Sez.B della II

classe, prendendo il posto di quelli che nel primo anno avevano frequentato la

Sezione B e che furono retrocessi alla sezione G.

Fuori della scuola di mattina sostavano dei carretti o tricicli adibiti a

banchi di vendita di una specie di torta fatta con farina di castagne e denominata

“castagnaccio”; di una pizza fatta con farina di granturco con inseriti pezzi di fichi

secchi o uvetta; di castagne secche prive del guscio dette “mosciarelle”; di fichi

secchi; di cannelli di liquirizia nera; di bacche di carrubo e di altri prodotti

similari.

Molti dei compagni della prima classe ginnasiale sarebbero rimasti con me

negli anni scolastici successivi sino al secondo liceo classico e con alcuni ha

mantenuto stretti rapporti anche nell’età matura. Fra questi in particolare Angelo

Miele, che, laureato in filosofia, sarebbe divenuto professore all’Accademia delle

Belle Arti e pittore di un certo valore. Con altri, sopravvissuti al Miele, morto

relativamente giovane, i rapporti si sarebbero protratti nella vecchiaia. Fra essi

Enzo Franzero, il primo della classe e Salvatore Scripilliti.

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Nel 1935 si verificò una epidemia di tifo, che causò tra i giovani diverse morti

e che si disse provocata dal fatto che il latte venduto dalla azienda comunale

veniva usato prima da signora per fare bagni di bellezza-

Fu colpito dal morbo anche mio fratello Alvaro, che rimase degente per oltre

un mese con febbri altissime, che venivano contenute mediante bagni in acqua

resa gelida da colonne di ghiaccio. Quando terminò la malattia, mio fratello, che

aveva poco più di sei anni, non riusciva a poggiare i piedi a terra, in quanto ridotto

a pelle ed ossa.

Io mi recavo a scuola a piedi da Piazza Melozzo da Forlì, percorrendo il

lungotevere Flaminio. All’altezza di Via Cimabue mi incontravo con il compagno

di scuola Concone, figlio di un collega di mio padre che abitava in quella via, e

insieme attraversavamo il Ponte Risorgimento per imboccare il Viale delle Milizie

dove si trova il liceo-ginnasio “Terenzio Mamiani”.

Il Concone morì di setticemia originata da un foruncolo sulla faccia non

curato nel corso del secondo anno di ginnasio e poiché pochi giorni prima avevo

avuto un litigio con lui per una banalità, la morte provocò in me, oltre al dolore

per la perdita di un compagno di scuola, una specie di senso di colpa per non

avere mantenuto il rapporto di amicizia durato oltre un anno e mezzo.

Al termine del funerale la commemorazione fu fatta da un altro compagno di

classe, Ciaffi di cognome, di cui non ho saputo più nulla dall’epoca in cui terminai

gli studi liceali.

3. L’ADOLESCENZA

Frequentai tutte le cinque classi ginnasiali nell’Istituto “Terenzio Mamiani”

al Viale delle Milizie.

I primi tre anni ebbi come insegnanti, oltre al .Gaeta, docente di italiano,

latino, storia e geografia, la signora Milletti, maritata Dresda, docente di

matematica, che mi seguì anche negli anni successivi fino al conseguimento della

licenza liceale, e una professoressa di francese (nel secondo e terzo anno) di cui

non ricorso il nome.

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Nel 1937, dopo la nascita del quinto figlio (Gianni). la mia famiglia si trasferì

in un appartamento al secondo piano di un palazzo dell’Istituto dei Dipendenti del

Comune di Roma.sito in Via Andrea Doria n.1, occupato anche da maestri, che

all’epoca erano dipendenti comunali. Mio padre nel frattempo aveva fatto carriera

ed era divenuto Ispettore delle Imposte di Consumo gestite del Comune di Roma.

Per raggiungere il “Mamiani” percorrevo soltanto il Viale delle Milizie, in

quanto l’abitazione si trovava all’inizio della Via Andrea Doria, che costituiva il

proseguimento del Viale.

Nei due anni del ginnasio superiore docente di lettere fu la signorina Erra,

sorella di un alto magistrato, mentre insegnanti rispettivamente di greco e di

francese erano i professori De Paola e Rostaing. Quest’ultimo .all’inizio del suo

insegnamento manifestò il convincimento che tutta la classe avesse appreso il

francese come poteva apprenderlo “une vache espagnole”.

Avemmo anche una professoressa di stenografia. Infatti, a titolo del tutto

sperimentale ed esclusivamente in due sole classi del ginnasio “Mamiani”, venne

introdotto lo studio di quella materia : nella sezione A secondo il metodo

Gabelsberg-Noe e nella mia Sezione B secondo il metodo “Meschini”.

Credo che l’insegnamento, dopo il nostro esperimento, non abbia avuto più

seguito nel “Mamiani” o in altre scuole ginnasiali.

Nella scuola era diffusa la voce che il Preside Salaris, un uomo arcigno di una

certa età, avesse una certa propensione verso la professoressa Erra. Certo è che

tutte le mattine tra le 9,30 e le 10,30, nei giorni di scuola, il Preside faceva visita

alla nostra classe. Egli non bussava e in quell’ora stavamo tutti intenti a guardare

la maniglia della porta affinché, avendo fama di essere molto severo e pronto ad

infliggere punizioni, potesse trovarci attenti e composti allorché entrava nell’aula.

In quell’epoca in tutte le aule era stato impiantato un altoparlante collegato

con un sistema centrale, attraverso il quale venivano date notizie e impartite

disposizioni.

Talvolta venivano trasmessi brani d’opera cantati da studenti, fra i quali

ricordo un Papi Spano, che in seguito avrei incontrato negli uffici giudiziari di

Roma come avvocato, ovvero brani di commedie o tragedie recitati sempre da

studenti, fra i quali ricordo Anna Proclemer, che poi sarebbe divenuta una grande

attrice di teatro.

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Frequentava il ginnasio anche Corrado Mantoni, di un anno più grande

di me, che sarebbe divenuto uno dei migliori presentatori di spettacoli radiofonici

e televisivi, morto recentemente.

La vita si svolgeva senza particolari emozioni: la mattina a scuola e il

pomeriggio in casa a fare i compiti. Il sabato pomeriggio era destinato, per ordine

dell’autorità scolastica alle “adunate” di giovani studenti, che, a seconda che

fossero minori o maggiori degli anni 14, si distinguevano in “Balilla” soprannome

del ragazzo Giovanni Battista Perasso che nel 1746 in Genova dette inizio alla

rivolta contro gli austriaci scagliando una pietra contro un loro ufficiale, e in

“Avanguardisti”. I primi vestivano con pantaloncini corti neri, una camicia bianca

con un foulard azzurro legato sul petto e un cappello nero con fiocco, mentre gli

avanguardisti avevano una divisa grigio-verde tipo militare con pantaloni alla

zuava, fasce ai polpacci delle gambe tra essi e gli scarponi, cappello da alpino

senza penna nera e un fodero con pugnale nella cintura, che nella parte anteriore

aveva due contenitori di cartucce sempre vuoti A tutti veniva dato, in occasione

delle adunate in divisa, un moschetto (fucile corto con baionetta incorporata), di

dimensioni ridotte per i balilla. Le esercitazioni consistevano principalmente in

marce ordinate per plotoni e dirette da ufficiali della Milizia Volontaria Sicurezza

Nazionale (M:V:S:N.), la milizia fascista, i cui gradi erano ripresi dalla

terminologia dell’antica Roma: centurioni, seniori, consoli.. Noi eravamo

comandati dal nostro professore di ginnastica e talvolta nella palestra della scuola

venivamo addestratii in esercizi ginnici con il moschetto o con il pugnale.

In due occasioni fummo impegnati per molto tempo, forse mesi, per

addestrarci in saggi ginnici con uso di pugnale, che si svolsero la prima volta nello

stadio poi denominato “Torino” e la seconda vclta nell’attuale stadio olimpico, la

cui costruzione non era stata ancora terminata, in quanto esistevano solo le

strutture in cemento armato che furono completate esternamente con lastre di

“Carpilite”, dal nome dell’ingegnere Carpi che le aveva ideate, e che erano

composte da trucioli di legno e da cemento in modo da dare l’impressione che si

trattasse di cemento armato.

Il primo saggio fu dato in occasione della visita a Roma del Primo Ministro

inglese Chamberlain (un ometto che portava sempre con sé un ombrello) nel 1936

ed il secondo nel maggio del 1938, quando fu data accoglienza trionfale ad Adolfo

Hitler, divenuto alleato di Mussolini.

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In occasione della visita di Hitler ricordo che la Via dell’Impero, collegante

Piazza Venezia con il Colosseo e di recente costruita sulle rovine del centro della

Roma antica, erano stati posti su colonne fiancheggianti la strada enormi lampade

ad olio.

Dinanzi ad Hitler nello stadio si svolsero diversi saggi ginnici, non solo da

parte di noi avanguardisti, ma anche da parte di giovani fascisti e fasciste.

In definitiva nell’anno scolastico eravamo liberi soltanto la domenica: la

mattina di solito andavo a giocare a pallone con i miei compagni di classe e di

scuola in campi sportivi presi in affitto, senza l’equipaggiamento dei calciatori di

professione e in particolare usando scarpe normali, anziché quelle con i tacchetti,

e il pomeriggio andando al “cinema”.

Allora nella maggior parte delle sale cinematografiche si proiettavano due

pellicole intervallate dal documentario “Luce”, che aveva solitamente per oggetto

principale l’attività del “Duce” con risvolti propagandistici, e in alcune, oltre alla

proiezione di un solo film, si dava uno spettacolo di varietà con fantasisti, cantanti

ed attori. Fra essi ricordo Totò, Rascel, Nino Taranto, Bambi, Renato Maddalena,

i fratelli Di Maggio, i fratelli De Rege.

A tredici anni passai l’estate a Sutri, ospite di una famiglia amica della

famiglia Marino, che era proprietaria di una palazzotto prossimo alle arcate di un

acquedotto romano, la cui facciata era parzialmente ricoperta da maioliche.

L’anno successivo mio padre prese in affitto un appartamento a Sperlonga,

nella parte bassa situata a nord e contigua alla spiaggia, abbastanza larga.

Sull’arenile sorgeva uno chalet, che, oltre al bar munito di una radio che

trasmetteva continuamente musica ripresa da stazioni radiofoniche francesi e

monegasche, aveva una saletta dove era possibile mangiare. Un paio di volte la

mia famiglia si servì del servizio ristorante per consumare zuppe di pesce, di cui

conservo un ottimo ricordo.

Sull’ampia spiaggia prendevano il sole al massimo quattordici o quindici

persone, comprese quelle della mia famiglia. Ricordo, fra queste, la moglie e la

giovane avvenente cognata del brigadiere comandante la stazione delle guardie di

finanza, situata sulla parte alta del paese e proprio sulla punta del promontorio

sporgente sul mare.

Al di là della parte alta del paese si stendeva nuovamente la spiaggia sino

alla imboccatura di una grotta detta “di Tiberio”, nella quale molti anni più tardi si

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sarebbero rinvenuti i resti della villa di quell’imperatore ed una copia della statua

del Laocoonte, Io più volte mi ero inoltrato con altri ragazzi in quella grotta senza

notare alcunché di speciale.

La grotta in questione aveva dato il nome a Sperlonga, giacché la villa

dell’imperatore, per essere addossata ad essa, aveva preso il nome di “Spelonca”.

La zona ove si trovava l’appartamento da noi occupato era servita da acqua

potabile di sapore salmastro e per bere acqua pura ogni mattina facevamo

rifornimento in una fonte situata sul monte retrostante alla cittadina, raggiungibile

in una ventina di minuti a passo normale.

La parte della spiaggia in direzione di Terracina era interrotta da una canale,

sulla cui riva si diceva solesse sostare la regina Margherita intenta alla pesca.

All’epoca Sperlonga era raggiungibile soltanto da Fondi attraverso una

strada bianca, percorsa nei due sensi una sola volta al giorno da una “corriera”,

ossia da un autobus che provvedeva, oltre al trasporto dei passeggeri, anche al

servizio di posta.

Nel luglio del 1939 superai gli esami per l’ammissione al Liceo. I nuovi

professori, sempre presso il liceo “Terenzio Mamiani” (Sezione B), furono: per la

lingua italiana ed il latino Moro, per il greco sempre De Paola, per la matematica

ugualmente la Milletti, per storia e filosofia Mercanti, per scienze una bella

ragazza di cui non ricordo esattamente il nome (credo fosse Tucci) e per storia

dell’arte un docente che si era occupato, come architetto, del trasferimento di un

palazzo d’epoca, mediante demolizione e successiva ricostruzione, dalla spina del

quartiere Borgo, che occupava l’attuale Via della Conciliazione, alla parte

terminale del lato sinistro di questa per chi volge lo sguardo verso la basilica di

San Pietro,

Erano gli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale e gli

studenti delle varie scuole di Roma venivano continuamente spinti a

manifestazioni contro la Francia e l’Inghilterra sotto le rispettive ambasciate. In

quelle occasioni, oltre a cantare inni fascisti che proclamavano la immancabile

vittoria in caso di guerra, si ripeteva lo slogan “E se scoppia un’altra guerra ci

pappiamo l’Inghilterra.”

Compagno di liceo era Gian Luigi Fiandaca, un ragazzo di media statura con i

capelli rossi, che portava lunghi fino alle spalle. Ciò sarebbe parso normale oggi,

ma allora costituiva una eccezione più unica che rara: i capelli corti pettinati

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all’indietro, con basette o addirittura senza (detti “alla Mascagni” dal nome del

compositore che li portava in quel modo) ovvero divisi da una riga, con la parte

maggiore a destra come li portava l’attore Cary Grant, costituivano la regola per

tutti i giovani. I capelli, poi, in genere venivano tenuti a posto da una pomata

gelatinosa denominata “brillantina”, mentre in casa si usava a quello scopo una

“retina”.

Il Fiandaca, invece, li teneva sciolti sulle spalle. Era un tipo intelligentissimo,

che scriveva articoli culturali su giornali e conosceva anche il gaelico. Io con lui,

che abitava al Piazzale Clodio, non lontano dalla mia abitazione, facevo lunghe

passeggiate, parlando normalmente di problemi esistenziali e di filosofia. Era

sostanzialmente un non conformista, un contestatore e lo dimostrò anche a scuola

svolgendo un tema in cui negava valore alla Divina Commedia di Dante e

irrideva alla persona di quest’ultimo. Un giorno, poi, in classe (frequentavamo il

secondo liceo), poiché non condivideva il voto (quattro) che il professore di lettere

aveva scritto sul registro, versò su quest’ultimo l’intera boccetta di inchiostro che

si trovava sulla cattedra e per questo fu espulso “da tutte le scuole del Regno” con

provvedimento del Preside Salaris.

Da allora non lo ho più visto e seppi anni fa da altro collega di classe che

viveva more uxorio con una donna, con la quale aveva aperto una profumeria nei

pressi di Via Ugo de Carolis

4. IL MIO PRIMO LAVORO

Il 1° Giugno 1940, poco prima del giorno in cui l’Italia entrò in guerra, io

iniziai il mio primo lavoro.

Qualche giorno avanti, quando avevo già terminato la prima classe del liceo

classico ed ero stato promosso alla seconda classe, avevo incontrato casualmente

nei pressi della mia abitazione il figlio più grande di Camillo Bandoni, il quale mi

raccontò che aveva trovato impiego presso la Cassa Mutua dei Commercianti e

prospettò la possibilità per me di lavorare presso lo stesso Ente nel periodo delle

vacanze scolastiche estive, in quanto molti degli impiegati erano stati richiamati

alle armi e si cercava di sostituirli con persone non soggette agli obblighi militari,

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La prospettiva dell’impiego mi parve un’ottima soluzione, perché mi avrebbe

consentito di guadagnare e quindi di disporre di una somma di danaro

considerevole per la mia età (non avevo compiuto ancora i 17 anni) e mai

posseduta fino ad allora

Presentai domanda e fui immediatamente assunto, con decorrenza dal 1°

giugno 1940, in qualità di impiegato giornaliero in sostituzione provvisoria di

personale richiamato alle armi con una retribuzione giornaliera lorda di 14 lire,

pari a 350 lire mensile, nella sede centrale della Cassa Nazionale Malattie per gli

Addetti al Commercio in Roma a Piazza dei Caprettari.

La sede si trovava in un vecchio palazzo al quale si accedeva da un ampio

scalone. Compagni di lavoro mi avvertirono di stare attento quando salivo lo

scalone perché dall’alto soffitto potevano cadermi addosso delle cimici e ricordo

che quando salivo al primo piano mi guardavo continuamente addosso per

sincerarmi che sul vestito non si trovassero insetti.

Fui addetto ad uno sportello per fornire informazioni agli assicurati sulle

pratiche che li riguardavano (si trattava di rimborsi di spese per malattie). Ogni

giorno dinanzi allo sportello si formava, ancor prima della sua apertura, una lunga

fila di persone ed io facevo continuamente la spola tra lo sportello e la stanza

adiacente nella quale si trovavano raccoglitori di schede intestate agli assicurati,

sulle quali venivano annotati tutti i dati relativi alle pratiche di rimborso.

La mia attività appariva del tutto soddisfacente, come potei dedurre dal fatto

che un funzionario del Banco di Roma, che mi aveva visto al lavoro, mi propose

l’assunzione presso una filiale dell’istituto in Cina a Tien-Tsin. La proposta mi

piaceva, ma mio padre si oppose recisamente a quell’impiego

Prestai lavoro per poco più di due mesi, fino al 3 agosto 1940/

5. LA GUERRA

Alla fine dell’anno scolastico 1940-1941, durante il quale avevo frequentato

la seconda classe liceale Sez.B ottenendo la promozione alla classe successiva,

partecipai agli esami di maturità classica, resi possibili da una disposizione che li

consentiva per chi avesse compiuto i 18 anni entro l’anno, come me, nato il 13

settembre 1923.

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Conseguito il diploma, si pose il problema della scelta della facoltà

universitaria alla quale iscriversi. Nonostante mio padre percepisse uno stipendio

buono come ispettore del Servizio Imposte di Consumo gestito

dall’amministrazione del Comune di Roma ed usufruisse di una pensione di

guerra di seconda categoria, il tenore di vita della famiglia era modesto, dal

momento che si dovevano mantenere agli studi cinque figli, di cui io ero il primo

per età. L’esigenza di contribuire al mantenimento della famiglia, mi indusse a

scegliere la facoltà di giurisprudenza, che consentiva di poter lavorare e nel

contempo di studiare, non essendo assolutamente necessaria la frequenza delle

lezioni

Difatti nell’ottobre dello stesso anno, subito dopo l’iscrizione alla facoltà di

legge, ottenni un impiego presso il Comune di Roma. Si era in tempo di guerra,

iniziata il 6 giugno dell’anno precedente, e perciò, dato il gran numero di persone

richiamate alle armi, non era difficile trovare una occupazione. In realtà il posto

ottenuto era puramente esecutivo: si trattava di consegnare a domicilio le tessere

annonarie (quelle che consentivano ad ogni persona di prelevare settimanalmente

modeste razioni di pane, pasta e carne). Per di più mi fu affidata una zona

estremamente periferica di Roma, che si stendeva intorno a Via della Pisana, dove

non vi erano palazzi, ma solo di tanto in tanto dei casolari, sicché occorreva una

giornata intera per distribuire un numero di tessere che nelle zone maggiormente

abitate di Roma con palazzi di 20-30 appartamenti richiedeva al massimo un’ora.

Ricordo che un giorno, mentre ritornavo nella casa di Via Andrea Doria

aggrappato con una mano all’asta centrale della porta posteriore di un autobus

zeppo fino all’inverosimile (l’altra mano teneva una borsa ove avevo conservato

le tessere annonarie da distribuire), la pressione esercitata sul mio corpo, in

corrispondenza di una curva e per effetto della forza centrifuga, dal gruppo di

persone, anch’esse aggrappate, che si trovava dinanzi a me provocò il distacco

della mia mano dal sostegno e la mia caduta con urto della testa sul bordo di un

marciapiede. Persi in quell’occasione la memoria e fortunatamente ricordavo

soltanto la via della mia abitazione, che raggiunsi a fatica chiedendo alle persone

che incontravo per strada quale percorso avrei dovuto fare.

Per alcuni giorni non ricordai perché mi ero trovato nel posto della caduta e

che cosa avevo fatto nei giorni immediatamente precedenti.

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L’incidente m’indusse a chiedere l’assegnazione ad un posto che comportava

la permanenza in un ufficio. Ottenni dopo qualche giorno, verso la fine del

novembre 1941, il trasferimento dall’Ufficio Tesseramento all’Ufficio

Razionamento del Comune di Roma, che si trovava in un palazzo della Via

Labicana.

Le mansioni erano piuttosto semplici: si trattava sostanzialmente di compilare

per ogni persona la tessera che consentiva il prelevamento dei generi alimentari

razionati.

Ero intento appunto a compilare una tessera seduto ad uno dei numerosi

tavoli di un salone pieno di impiegati con le mie stesse mansioni quando, uno o

due mesi dopo, fui avvicinato da un funzionario, il dott.Romualdo Faussone, il

quale, dopo essersi informato sullo stato dei miei studi, mi chiese se ero disposto a

trasferirmi presso la Direzione dei Servizi Annonari in Piazza Vittorio dove egli

prestava la propria opera come capo servizio..

Acconsentii e dopo poco tempo divenni Capo dell’Ufficio Stampa

dell’Azienda Servizi Annonari del Comune di Roma. Il dott,Faussone, infatti,

godendo di appoggi notevoli presso il Governo dell’epoca, ottenne che la

Ripartizione del Comune, che in precedenza si occupava dei mercati generali e

rionali di Roma fosse trasformata in Azienda Autonoma con nomina di lui a

Direttore Generale. Avendo bisogno di un Ufficio Stampa, mise a capo di esso

me, che fino a quel momento ero stato, sia pure per poco tempo, il suo braccio

destro.

Il mio compito non era facile. Di prima mattina, verso le ore 5 dovevo essere

ai Mercato Generali in Via Ostiense per raccogliere tutti i dati relativi al

rifornimento alimentare di Roma (ortaggi, frutta, carni e pesce), in quanto

Mussolini e il Ministro dell’Agricoltura Pascolato pretendevano di avere alle ore 8

di ogni giorno un bollettino statistico relativo ai quantitativi affluiti presso i vari

Mercati Generali con note relative all’andamento dei mercati stessi, giacché

l’approvvigionamento della Capitale era ritenuto di fondamentale importanza per

il regime impegnato in una guerra i cui effetti disastrosi erano stati già avvertiti

dalla popolazione.

Spedito il bollettino tramite Agenti municipali motociclisti, mi recavo nel mio

Ufficio presso la Direzione, dove effettuavo lo spoglio di tutti i giornali d’Italia,

dal “Piccolo” di Trieste all’”Ora” di Palermo per raccogliere tutte le notizie

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riguardanti il settore annonario, che venivano poi sottoposte al Direttore Generale,

prima di essere catalogate ed archiviate a cura di due impiegati e di una

dattilografa, che erano alle mie dipendenze.

Tenendo il Direttore un Corso di Politica Annonaria presso la Facoltà di

Economia e Commercio, ero, inoltre, incaricato, di preparargli le dispense per i

suoi allievi, poi raccolte in un volume.

La mia classe (1923) era stata chiamata alle armi, ma gli studenti universitari

come me erano stati obbligati a frequentare un Corso Allievi Ufficiali di

Complemento dell’Esercito, tenuto da Ufficiali della Milizia Universitaria.

A seconda della facoltà frequentata i partecipanti al Corso erano assegnati alle

diverse discipline militari. Così gli iscritti alla facoltà di ingegneria erano arruolati

nel genio, altri nella cavalleria, mentre io ero stato arruolato come specialista di

fanteria e in particolare come bersagliere, il che comportava, quando eravamo al

campo, che ogni percorso venisse fatto al passo di cosa.

Circa trecento studenti universitari natii nel 1923 partecipavano al mio

corso, .che poi sarebbe stato chiamato dei “culi pallidi”, perché nel campo di

Civitavecchia tenuto nell’agosto del 1942, le latrine erano costituite da lunghe

fosse attraversate a tratti da travi di legno, sulle quali doveva stare e piegarsi con i

pantaloni e le mutande calate chi intendeva fare i propri bisogni, mostrando in tal

modo scoperto il fondo schiena, ove non avesse inteso, come me, attendere l’ora

dell’uscita serale per servirsi a quello scopo di un bagno pubblico a pagamento

esistente nella cittadina. Essi, col tempo, dopo la fine della guerra, sarebbero

divenuti avvocati (Walter Celli, Giuseppe Di Mauro, Walter Cianfrocca, Massimo

Annesi, Franco Ligi, Vittorio Mandel, Gualtiero Rueca, ecc.), giudici (Filippo

Anglani, Italo Bologna, Giuseppe D’Avino, Giuseppe Menichino, Franco

Paolicelli,, Rocco Pafundi., Filippo Antonioni, Vito Librando, Romolo Zamagni),

professori di università (Luigi De Lucia, Gustavo Romanelli, Giorgio Tecce),

notai (Marcello Terzi, Mario Orsini), direttori di banca, funzionari dello Stato e

qualcuno sarebbe divenuto famoso per l’attività esercitata, come Cesare Romiti,

Presidente della FIAT; Vincenzo Milazzo, Ragioniere Generale dello Stato;

Giorgio Azzariti, Avvocato Generale dello Stato; Massimo Franciosa, scenografo

e soggettista cinematografico; Renato De Carmine, attore teatrale; Pietro Verga,

prefetto e alto commissario per la lotta contro la mafia. Alcuni di essi sostenevano

che avesse partecipato al corso anche Eugenio Scalfari, che peraltro negava.

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Il corso consisteva in due lezioni teoriche ed una lezione pratica settimanali

per la durata di due anni accademici; e in due campi d'arma di un mese ciascuno.

Al termine di questo corso di carattere preparatorio, avremmo dovuto frequentare,

a seconda delle specialità, con il grado di sergente, le varie scuole dell'Esercito

( dei bersaglieri come me, del genio o di cavalleria ) e, dopo due mesi, conseguire

il grado di sottotenente.

Vestivamo una goffa divina di panno grigioverde, sia in inverno sia in estate

con i pantaloni alla zuava e le famose "fasce mollettiere”. Avevano in dotazione il

moschetto '91, del tipo "Cavalleria” (con baionetta ripiegabi]e); allo spallaccio

portavamo appese due giberne con sei caricatori da sei cartucce ognuna e i 72

colpi costituivano la “giornata di fuoco" (non so di quanti colpi disponessero le

armi automatiche che avevano in dotazione gli eserciti nemici).

Il primo campo d’arma si svolse a Civitavecchia, dove arrivammo nel luglio

1942 in 300 con una tradotta militare composta da carri merci recanti la scritta

“cavalli8, uomini 40".

Raggiungemmo a piedi, in formazione militare e al. passo della fanteria

calcolato in 120 passi al minuto, l’uliveto allora esistente in località San

Francesco, dove in una radura venimmo sistemati . in tende a base quadrata

formate da teli mimetici, capaci di quattro posti-letto con relativi pagliericci

Avevamo ognuno una borraccia da un litro, coperta di panno verde, e una

gavetta di alluminio.

Allora l'Italia era in piena guerra e un quotidiano bollettino informava sulle

vicende dei vari fronti, su quelle alterne dei combattimenti in Africa, sulle

"correzioni" del fronte, sulle “gravi perdite inflitte al nemico”, sulle “ritirate

strategiche”.

La vita di campo comportava, oltre a marce ed esercitazioni in formazione di

pattuglia, l’uso di armi varie. Dovevamo sapere a memoria le sei parti di cui si

componeva il moschetto e ci esercitavamo a montare e smontare il mitragliatore

Breda 35 e le mitragliatrici Breda 37 e Fiat35.

Le esercitazioni a fuoco avvenivano nel poligono di tiro alla Mattonara e sulle

Colline dell'Argento, dove usavamo anche il mortaio da 45 mm.Brixia e quello da

81 mm., nonché le bombe a mano Oto e “Balilla”..

Le armi più pesanti ci venivano mostrate in una caserma di Civitavecchia,

dove erano esposti il cannone anticarro 47/32, i carri armati L 4 ed M 13 e carri

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armati, cannoni e mitragliatrici ben più potenti che i tedeschi avevano catturato

agli Alleati nel corso dell’invasione del Belgio e della Francia..

La sera, in libera uscita, andavamo nel centro di Civitavecchia dove molti di

noi, che si rifiutavano di fare i loro bisogni insieme con altri accovacciati su

tavole poste trasversalmente su un fossato, usufruivano, a pagamento, dei bagni

pubblici, prima di andare a consumare una pizza napoletana presso una delle

tante pizzerie del luogo.

Al ritorno a Roma, avvenuto nei primi giorni dell’agosto 1942, ripresi la mia

attività normale lavorativa. con il solito ritmo, che mi impegnava dalle 4 del

mattino sino al tardo pomeriggio, con un intervallo di circa un’ora per il pranzo,

che consumavo in una trattoria sita in un largo della Via Merulana.

Con uno dei miei collaboratori il giovedì mi recavo per vedere le corse dei

cavalli all’Ippodromo delle Capannelle, dove era sempre presente nel “Peso”,

ossia nel reparto più costoso, il noto attore Fosco Giachetti . che portava un

cappello nero a larghe falde. La Domenica frequentavo l’Ippodromo di Villa

Glori, dove si svolgevano le corse al trotto, ma difficilmente partecipavo alle

scommesse, essendo per principio contrario al giuoco d’azzardo

Una sola volta, trascinato dal mio collaboratore partecipai con lui ad una

scommessa, spendendo 10 lire al totalizzatore e realizzando una vincita di 1.036

lire, che in quell’epoca rappresentavano uno stipendio mensile di un impiegato di

concetto.

Il 19 luglio 1943 verso le ore 11, mentre percorrevo i portici di Piazza

Vittorio Emanuele II per fare ritorno in ufficio (ero disceso da dieci minuti per

prendere un caffè in un bar vicino), udii il rombo di un motore di aereo

accompagnato da raffiche di mitra e contemporaneamente suonare le sirene di

allarme. Subito dopo in direzione degli archi della ferrovia di Santa Bibbiana e del

quartiere di San Lorenzo vidi sollevarsi un alta colonna di terriccio e, non

sapendo dove rifugiarmi, rimasi sotto i portici del palazzo dietro una delle colonne

rispetto alla piazza ad attendere che il bombardamento, denotato dalle esplosioni e

dal rumore cupo dei motori degli aerei che volavano ad alta quota cessasse. Non

so dire quanti minuti fosse durato il bombardamento. Solo il giorno dopo appresi

dai giornali l'entità dei danni causati nella zone circostanti lo scalo ferroviario di

San Lorenzo e quello Casilino, i più importanti, se non i soli di Roma per le

merci, e che era stata colpita anche la Basilica omonima, una delle sette antiche

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basiliche romane. L’entità dei danni indusse persino il Papa Pacelli ad accorrere il

giorno dopo sul posto per tranquillizzare gli animi della cittadinanza

La radio ed i giornali del regime fascista non avevano però fatto menzione,

per ovvii motivi, del numero dei morti, che solo in occasione della ricorrenza,

cinquanta anni dopo, la stampa e la televisione dell'Italia democratica avevano

indicato in tremila.

In precedenza l’allarme per l’eventualità di bombardamenti era stato dato

ogni giorno, anche di notte. Di giorno verso le ore 11 si vedevano passare sul cielo

della capitale a grande altezza le “Fortezze Volanti” americane che luccicavano ai

raggi del sole dirette verso il nord emanando un caratteristico rumore sordo. Di

notte raggiungevamo in pigiama o in vestaglia il rifugio sito negli scantinati del

fabbricato di abitazione, puntellato da travi e con sacchi di sabbia sistemati lungo

le pareti. Eravamo dotati tutti di maschere antigas, che dovevamo mettere sul viso

a pena di richiamo da parte del capo-fabbricato, invenzione del fascismo per

controllare tutta la cittadinanza.

Nei Bar sotto il ritratto di Mussolini si leggevano scritte del tipo “Qui non si

parla di politica, né di alta strategia” ovvero “Vinceremo” e simili.

Il 25 luglio successivo al bombardamento di Roma cadde il regime fascista.

Mi trovavo in casa quando la radio dette l’annuncio delle dimissioni di Mussolini

e subito discesi in strada raggiungendo, insieme con mio fratello Lillo, allora

diciassettenne, la Via Cola di Rienzo affollata di persone che inneggiavano alla

caduta del fascismo.

Per la mia famiglia e specialmente per mio padre, da sempre antifascista, era

un giorno di festa, al quale però sarebbero subentrati giorni bui.

Il 5 agosto, sotto il Governo Badoglio, fui richiamato per partecipare al

secondo campo d’arma del Corso Allievi Ufficiali, che si svolse in un bosco nei

pressi di Manziana,

In quella estate la situazione era molto diversa da quella dell'anno

precedente. Tutto il territorio nazionale era sottoposto a continui bombardamenti

e gli americani erano sbarcati in Sicilia

Il campo doveva chiudere il secondo anno del Corso preliminare Allievi

Ufficiali di complemento dell’Esercito, tenuto fino alla caduta del fascismo dalla

Milizia Universitaria. Figuravamo come volontari, sebbene, come già esposto,

tutti coloro che avevano compiuto i 18 anni nel 1941 ed erano iscritti ad un corso

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universitario fossero stati arruolati obbligatoriamente a decorrere dal 15 Dicembre

di quell’anno..

Il campo di Manziana si concluse il 6 settembre 1943 con una lunga e

faticosa marcia a piedi dalla località La Storta, dove eravamo giunti in treno, sino

alla città universitaria (oltre ad una divisa invernale grigio-verde composta da

pantaloni alla zuava, da fasce di lana avvolte intorno alla parte inferiore della

gamba, da scarponi, da giacca con giberne e da un cappello da alpino senza penna,

portavamo a tracolla un moschetto mod.91 e sulle spalle uno zaino pieno di effetti

personali).

In quella atmosfera di incertezza sostenemmo gli esami conclusivi e fummo

messi in congedo provvisorio sino al 20 novembre 1943 in attesa di essere avviati

alle scuole dell'esercito per gli ultimi due mesi. Tornammo a casa, dopo una lunga

marcia sotto il sole cocente e con uno zaino pesante sulle spalle il 7 Settembre.

6.L’8 SETTEMBRE A ROMA

Nella mattinata dell’8 Settembre 1943, uscito di casa dopo l’annunzio

dell’armistizio dato dalla radio, mi sembrò che Roma fosse pronta a respingere

qualsiasi tentativo dei tedeschi, i quali avevano una divisione corazzata alle porte

della città.

Infatti, all’incrocio della Via trionfale con il Viale delle Milizie e al centro del

quadrivio Viale Giulio Cesare – Via Leone IV erano stati piazzati due cannoni

anticarro assistiti da soldati italiani, mentre in lontananza sul Viale delle Milizie,

costeggiato da caserme, si notava movimento di soldati.

Senonché un’ora dopo cannoni e soldati erano scomparsi.

Appresi da persone riunite in capannelli che cercavano di rendersi conto della

situazione che nei pressi della Piramide di Caio Cestio e dei Mercati Generali era

stato organizzato un centro armato di resistenza.

A piedi raggiunsi i Mercati Generali e mi resi conto che la strada era

completamente deserta. Proprio di fronte ai Mercati, sul marciapiede, vi erano

due mucchi di bombe a mano “Balilla”. Pensando che i tedeschi erano già entrati

in Roma e che potevo incontrarne qualcuno sulla via del ritorno a casa, presi due

bombe a mano e le misi nelle tasche dei pantaloni a scopo di difesa.

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Si erano fatte le 2 o 3 del pomeriggio e attraversai Roma senza incontrare

anima viva. Evidentemente la gente si era rinchiusa in casa nel timore di

sparatorie o altro.

Giunto in casa, mio padre, al quale dissi di avere con me le due bombe, mi

impose di disfarmene subito perché se i tedeschi ci avessero trovato in possesso

delle stesse ci avrebbero fucilato senza esitazione,

Allora, con le bombe in tasca, percorsi tutto il Viale delle Milizie e giunto

sul ponte Risorgimento gettai le bombe nel Tevere e ritornai a casa senza

problemi.

Il giorno successivo un mio ex compagno di scuola, che era sotto le armi con

il grado di sottotenente presso una divisione corazzata che aveva sede nella

Caserma della Cecchignola, mi disse che la mattina dell’armistizio si trovava a

compiere delle esercitazioni con mezzi corazzati fuori della Caserma e che al

ritorno egli e gli altri militari del gruppo, ignari della nuova situazione creatasi,

erano stati colti di sprovvista da quattro tedeschi armati di mitra, i quali li avevano

disarmati e si erano impossessati dalla caserma.

L’episodio rende evidente la disorganizzazione e la mancata

preordinazione, da parte del Governo e delle autorità militari, delle misure

necessarie per far fronte alla situazione creata a seguito dell’armistizio.

7.IN MISSIONE PER L’APPROVVIGIONAMENTO DI ROMA

Ritornato a Roma dal campo in Manziana, che aveva concluso il secondo

anno del Corso allievi Ufficiali di Complemento, il 9 settembre 1943 ripresi

servizio presso l’Azienda Servizi Annonari. La mia situazione nell’ambito

dell’azienda era però mutata, in quanto ero stato nel frattempo sollevato

dall’incarico di Capo dell’Ufficio stampa e destinato al servizio ispettivo. Dopo

un breve incarico di ispettore presso il mercato di Via Monte Santo fui destinato a

Bologna per provvedere all’acquisto di frutta ed ortaggi da inviare ai Mercato

Generali di Roma per l’approvvigionamento della città.

Fui munito di un lasciapassare firmato dal Comandante delle Forze Armate

tedesche in Italia generale Kesserling e fu aperto un conto a mio nome sulla

Filiale di Bologna della Banca Nazionale dell’Agricoltura con deposito di 128

milioni di lire, che poteva essere utilizzato con assegni da me firmati

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accompagnati da bolle di spedizione, via ferrovia, di prodotti agricoli di ogni

genere, fra cui principalmente frutta e patate, nonché dalle relative fatture di

acquisto.

L’acquisto dei prodotti avveniva attraverso l’U.C.A.P.O. locale (Ufficio

Centrale Approvvigionamento Prodotti Ortofrutticoli) e riuscii a spedire da

Bologna prodotti contenuti in ben 26 convogli ferroviari composti in media da 25-

30 vagoni per merci. Alcuni quantitativi furono da me acquistati anche in Ferrara,

Ravenna e Padova.

Il 19 ottobre 1943, mentre per curare una spedizione di prodotti

ortofrutticoli mi trovavo nella stazione ferroviaria di Padova, ebbi occasione di

assistere ad uno spettacolo, che non ho mai potuto cancellare dalla mia mente: nei

vagoni di un treno merci proveniente da Roma ed in viaggio da tre giorni, come

mi fu riferito da ferrovieri, erano ammassati ebrei di tutte le età. Il treno era

appena arrivato e militari tedeschi avevano aperto i vagoni per far prendere aria

agli occupanti, tra cui vecchi e donne con in braccio bambini piangenti. Al centro

di ogni vagone era una botte contenente acqua da bere.

Lo spettacolo era talmente sconvolgente, che i militi fascisti della Repubblica

Sociale che prestavano servizio nella stazione volgevano lo sguardo altrove per

non vedere l’interno dei vagoni.

Di quegli ebrei, erano 1053 come seppi anni dopo, soltanto 15 sopravvissero

nei campi di concentramento tedeschi.

Nell’ottobre 1943, mentre ero in Bologna fui testimone del più grave

bombardamento aereo della città da parte degli Alleati

. Avevo preso alloggio in un albergo di fronte alla Stazione ferroviaria per

poter più agevolmente controllare la spedizione dei generi alimentari verso Roma,

dichiarata “città aperta” e verso le ore 11 mi trovavo nei pressi delle Due Torri al

centro di Bologna quando avvertii il rumore di bimotori alleati. Li vidi volare a

bassa quota e sentii mitragliare la zona dove mi trovavo ancor prima che suonasse

l'allarme. Mentre una colonna di fumo e polvere si levava nei pressi della Torre

degli Asinelli vidi vicino a me un vecchio con una papalina in testa, che si

accingeva a chiudere il portone di un palazzo con porticato che si apriva sulla Via

Emilia Levante. Poiché era in corso il bombardamento cercai immediatamente

rifugio nel palazzo facendo forza sul portone che il vecchio si ostinava a chiudere

davanti a me, asserendo, per allontanarmi, che nello stabile non vi era rifugio.

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Riuscii con la forza ad entrare e seguii il vecchio nel piano interrato, dove,

contrariamente alla sua asserzione. trovati un rifugio munito di tutti i conforti,

compreso un mobile pieno di medicinali, e nel quale erano già una signora e due

figlie sedute su sedie di vimini e tutte tremanti.

Il comportamento del vecchio che, pur di evitare l'ingresso di un estraneo nel

palazzo da lui abitato, probabilmente in modo esclusivo quale proprietario, mi

aveva esposto al mitragliamento degli aerei alleati, mi è rimasto impresso nella

memoria come un fatto inconcepibile in un paese civile..

L'eco delle esplosioni si protrasse per oltre mezz'ora e alla fine, uscito sulla

via, vidi due motofurgoncini pieni di corpi di persone apparentemente senza vita

che la percorrevano verso in direzione opposta rispetto alle Due Torri e cioè verso

la periferia.

I fabbricati lungo la via che dalla Stazione conduceva alla Piazza del Nettuno

apparivano tutti colpiti dalle bombe e gravemente danneggiati. In Piazza della

Montagnola contigua a quella della Stazione brandelli di corpi umani si notavano

sparsi sull'asfalto e persino appiccicati sui muri; ma quello che maggiormente mi

impressionò fu lo spettacolo offerto dall'interno di una autovettura, nella quale si

trovavano un uomo e una donna sul sedile anteriore e due ragazzi, maschio e

femmina, nel sedile posteriore, tutti morti e ridotti per effetto di compressione a

dimensioni più piccole di quelle dei nani.

Anche l'albergo fronteggiante la Stazione ferroviaria, dove aveva preso

alloggio, era stato distrutto ed a malapena riuscii a recuperare fra le macerie la

mia valigia, che avevo l'abitudine di riempire e chiudere ogni mattina prima di

uscire. La difficoltà di trovare un alloggio, data la entità delle distruzioni operata

dal bombardamento, mi costrinse a recarmi fuori Bologna servendomi di un

trenino delle ferrovie vicinali e, dopo vane ricerche, a tarda sera, attraverso

l’intervento di un maresciallo dei Carabinieri al quale mi ero rivolto, trovai

ospitalità in un ospedale di Baricella.

Presi posto per dormire in uno dei letti di una lunga corsia, ma le continue

lamentele e le grida dei ricoverati impedirono di prendere sonno, nonostante la

stanchezza per il lungo girovagare con la pesante valigia in mano, per cui verso le

4 del mattino, quando era ancora buio, mi rivestii e me ne andai via. Ritornai a

Bologna con il primo trenino in partenza, nel quale ebbi modo di dormire per

qualche tempo.

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Il 22 gennaio 1944 mi trovavo a Venezia, dove mi ero recato in gita con

un collega da Bologna, e la sera in un albergo della città appresi dalla radio

inglese, ascoltata di nascosto dai clienti in una stanza appartata, che gli alleati

erano sbarcati ad Anzio.

Pensando che in pochi giorni le truppe alleate sarebbero giunte a Roma

ed io sarei stato diviso dalla famiglia, il giorno successivo di prima mattina lasciai

l’albergo e mi recai alla stazione ferroviaria per acquistare un biglietto per Roma.

Allo sportello mi fu fatto presente che la linea ferroviaria era interrotta a seguito

di bombardamenti e si poteva arrivare sino alla stazione di Allerona, distante da

Roma circa 100 chilometri.

Acquistai il biglietto per quel paese. Dove giunsi la sera stessa insieme

con molte altre persone che tentavano di raggiungere Roma. Il paese era talmente

affollato che non era possibile trovare da dormire in abitazioni private, anche

pagando somme esorbitanti. Fui costretto a dormire in una grande autorimessa

dove erano accampate centinaia di persone. Fra queste riconobbi il preside del

“Mamiani” Salaaris, che era accompagnato dalla moglie e da due giovani figli.

Con me era sceso ad Allerona un collega, che era stato inviato con

missione analoga alla mia a Ferrara e che mi aveva accompagnato in gita a

Venezia ed insieme, disponendo di molto danaro residuo dei fondi messi a nostra

disposizione dall’Azienda Servizi Annonari e ritirati dalla Banca Nazionale

dell’Agricoltura, decidemmo di finanziare la riparazione di una autovettura

“Balilla” di proprietà di un cittadino di Allerona che non disponeva dei fondi

necessari. Quest’ultimo pretese la somma di 10.000 lire, pari al prezzo di una

“Balilla” nuova per portarci a Viterbo, distante 30 chilometri, dove era possibile

servirsi di una delle due linee ferroviarie che portavano a Roma.

Occorsero tre giorni per la riparazione dell’autovettura e non appena

pronta fummo trasportati a Viterbo, da dove raggiungemmo Roma a mezzo della

ferrovia che passava per Civitacastellana

A casa trovai l’invito della Repubblica Sociale a presentarmi in una

Caserma per essere arruolato come sottotenente senza terminare il corso allievi

ufficiali, ma non ottemperai all’invito.

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8.LA VITA DIFFICILE

Mio padre, con a carico cinque figli, godeva nel 1943, come funzionario

del Comune di Roma (Ispettore superiore del servizio Imposte di Consumo) e

invalido di guerra, di un reddito sensibilmente superiore alla media (quando

nell’immediato anteguerra una canzone di moda ripeteva: "se potessi avere mille

lire al mese", il suo stipendio superava tale cifra e ad esso andavano aggiunte 270

lire di pensione di seconda categoria, avendo perduto la mano destra nella guerra

1915-18). Tuttavia nell’ultimo periodo, cessato il mio aiuto, essendo stato io

costretto ad abbandonare l'impiego presso l’Azienda Servizi annonari, in quanto

disertore dall'8 Novembre 1943, non era stato più in grado di mantenere

adeguatamente la famiglia a causa della forte svalutazione monetaria e della

necessità di procurarsi i viveri al mercato nero per la insufficienza delle razioni

legalmente consentite e prelevabili con le tessere annonarie, tanto che aveva

dovuto vendere un appartamento lasciatogli dal padre in Vetralla e persino una

macchina da cucire.

Mia madre, per soddisfare le esigenze alimentari della famiglia, era costretta,

a causa della estrema carenza in Roma di generi di prima necessità, a continui

viaggi nell'alto Lazio e in bassa Toscana.con mezzi di fortuna, non funzionando

più i servizi pubblici. Infatti, solo in quelle zone, era possibile procurarsi farina,

legumi ed ortaggi sempre a prezzi proibitivi e con rischio della vita, stanti i

continui bombardamenti delle vie di comunicazione da parte degli aerei alleati.

Ciò nonostante io e i miei fratelli (Alberto, Alvaro, Giorgio e Gianni, la cui età

variava dai 17 ai sette anni), a fine giornata stentavamo ad addormentarsi per i

morsi della fame.

Il costo dei generi alimentari necessari per integrare le scarse razioni

consentite dal Governo, enormemente aumentato a causa della forte svalutazione

monetaria, assorbiva interamente anche un reddito medio come quello di mio

padre e alla carenza di generi alimentari si aggiungeva cosi la impossibilità di

provvedere alla sostituzione degli effetti di abbigliamento e delle calzature logori.

Sotto la giacca le camicie si erano ridotte ai soli polsini, al colletto e alla parte

anteriore, legata con nastri al dorso, perché le parti rimanenti erano servite a fare

polsini e colletti di ricambio. Così i calzini, per impossibilità di ulteriori rammendi

alle parti sottoposte ad usura corrispondenti alle dita ed al tallone,

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progressivamente eliminate, si erano ridotti a poco più della parte visibile al di

fuori delle scarpe, che era assicurata al piede dalla striscia residua passante sotto

la pianta. Le scarpe, poi, venivano risuolate in casa alla meno peggio con

apposizione alle estremità della suola di semilune metalliche per evitare che si

consumassero, il che però non evitava la usura della parte sottostante la parte

centrale del piede. Nella stagione estiva si calzavano sandali fatti anche con parti

di copertone d'auto e con sughero.

A ciò si erano aggiunti il timore e la interruzione del riposo notturno per i

continui allarmi aerei, che costringevano la mia famiglia a rifugiarsi nello

scantinato del palazzo della propria abitazione insieme con le altre famiglie, in

tutto dodici per ognuna delle quattro scale.

Il rifugio era rinforzato, se così si può dire, da travature di legno puntellate da

pali e in esso erano di tanto in tanto ammucchiati sacchi di sabbia. Vi si scendeva

di corsa in pigiama o con abbigliamento sommario indossato di fretta al primo

acuto squillare delle sirene e con in mano la maschera antigas. Gli allarmi notturni

si erano tutti dimostrati inutili, giacché l'unico bombardamento di Roma era

avvenuto di giorno ed aveva devastato il quartiere di San Lorenzo all'estremità

opposta della città rispetto a quello di Trionfale.

9. LA CLANDESTINITA’

Nonostante fossi considerato un disertore per non essersi più presentato alle

armi, incoraggiato dal fatto che migliaia di giovani in Roma si trovavano nelle

mie condizioni e i “repubblichini” (militi della Repubblica Sociale di Salò fondata

da Mussolini dopo la liberazione dal rifugio del Gran Sasso ad opera dei tedeschi)

non erano in grado di controllare Roma, continuai ad uscire di casa, sia pure

sporadicamente. Stavo, però, sempre all'erta rispetto alla presenza, anche lontana,

di poliziotti, Carabinieri o militari in genere.

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Debbo aggiungere che ero a ciò maggiormente obbligato, in quanto dall'inizio

della guerra avevo preso parte all'attività di un gruppo clandestino facente capo al

partito socialista che si riuniva in un appartamento sito al primo piano di un

fabbricato di Piazzale Clodio, facente angolo con Viale Mazzini.

I componenti del gruppo, sette o otto persone, svolgevamo propaganda

antifascista lanciando manifestini e numeri dell’”Avanti2 in locali

cinematografici e, per quanto mi riguardava principalmente nei cinema “Giulio

Cesare” e “Delle Vittorie”. Ricordo che un giorno mentre ritornavo a casa su un

tram, un pacco di giornali che nascondevo sotto i pantaloni all’altezza della

cinghia scivolò sul pavimento del tram., In quel momento il tram, pieno di

persone fra cui due militi fascisti era prossimo alla fermata ed io feci a tempo a

scendere prima che qualcuno si accorgesse della cosa.

Mio padre aveva addirittura costituito un sindacato clandestino dei dipendenti

del Comune di Roma ed avevamo in casa materiale compromettente che

nascondevamo nella spalliera metallica del letto dei miei genitori, formata da tubi

metallici vuoti. Quelli laterali, con diametro di circa 10 cm. erano sormontati da

una copertura di metallo a forma di pigna, che era possibile rimuovere per

introdurvi fogli di carta stampata ed appunti arrotolati.

L'11 febbraio percorrevo il Viale Giulio Cesare di ritorno a casa, quando

improvvisamente mi accorsi militari tedeschi avevano circondato la zona. Si

trattava di uno dei tanti "rastrellamenti" effettuati per procurarsi mano d'opera

necessaria per opere militari in prossimità del fronte o altrove.

Insieme con altri giovani rastrellati nella zona fui caricato su un camion e

condotto in una fattoria adiacente alla Via Salaria nei pressi di Monterotondo.

Lì erano stati radunati circa duecento giovani, per lo più ragazzi, fatti dormire

in una vaccheria trasformata in dormitorio con letti di legno a castello, che verso

le sette del mattino, sotto scorta di militari tedeschi armati di mitra, venivano

condotti dall'altra parte della strada in una vallata di una zona collinosa boscosa

per scavare ai due lati della stessa alloggiamenti nascosti dagli alberi e dalla fitta

vegetazione per aerei da caccia, che avrebbero dovuto decollare dalla zona

pianeggiante adiacente alla fattoria e compresa tra la Via Salaria ed il Tevere. I

giovani rastrellati, che venivano alimentati verso mezzogiorno con pane nero

acido, minestra di farro e talvolta con salsicciotti di carne immangiabili, veniva

ricondotto alle ore l7, dopo un duro lavoro di manovalanza, nella fattoria, dove,

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sempre controllati da militari tedeschi armati, veniva loro concesso di prendere

aria per circa un'ora prima del rientro definitivo nella vaccheria per trascorrervi la

notte.

Dopo una quindicina di giorni, appunto mentre nel recinto della fattoria dopo

le l7 mi trovavo a prendere aria un militare austriaco, che aveva mi preso a

simpatia e con il quale ero solito scambiare alcune parole in parte in tedesco

(cartoffel, spasieren, studenten, essen. schlafen, ecc,) ed in parte in italiano, mi

fece capire che la mattina successiva tutti saremmo stati trasferiti in Germania.

Preoccupato delle conseguenze di un tale trasferimento, resi subito compartecipi

della notizia due altri giovani italiani con i quali avevo fatto amicizia e tutti e tre

d'accordo decidemmo di affrontare il rischio di una fuga, ritenendolo minore del

trasferimento preannunciato.

Facendo finta di conversare mentre passeggiavano ed usando l'accortezza di

tenerci a mezza strada tra due militari tedeschi di guardia, ci avvicinammo alla

Via Salaria nel punto in cui dalla nostra parte esisteva un casello stradale che

poteva coprire la fuga una volta immessisi sulla strada. Nel momento in cui i due

militari tedeschi di guardia nei nostri pressi si erano fermati e non potevano

vederci, perché si erano voltati verso la vaccheria sita ad una cinquantina di metri

dalla strada, di corsa ci spingemmo verso la Via Salaria e si portammo dietro il

casello prima ancora che i militari tedeschi, colti di sorpresa avessero iniziato a

sparare con i mitra.

Superata la strada ci addentrammo nel bosco e vagammo in esso, sempre con

le orecchie tese ad avvertire voci di uomini, per ore e per tutte la nottata fino a che

di prima mattina. Dopo una lunga sosta in una caverna, dove ci eravamo riscaldati

accendendo un fuoco con pali divelti da una recinzione, avvistammo di prima

mattina le case della periferia di Roma nella zona di Piazza Vescovio. Qui ci

dividemmo e, servendosi di mezzi pubblici, guadagnammo le rispettive

abitazioni.

In uno dei primi giorni del marzo 1944, per evitare di essere preso dai

tedeschi una seconda volta o dai fascisti repubblichini, il che mi avrebbe esposto

ad una condanna a morte in base all'editto che il Maresciallo Graziani aveva

emesso l’8 di quel mese, fui costretto a trasferirmi dalla mia abitazione in altra di

un compaesano di mio padre situata al sesto piano di un palazzone di Via Candia,

più sicura, perché sotto le sue finestre correva un cornicione largo almeno un

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metro e mezzo, che circondava tutto il fabbricato e rendeva così possibile, in caso

di irruzione della polizia o della milizia fascista, l'entrata attraverso di esso in altro

appartamento o addirittura nel ballatoio di una delle quattro scale, ciascuna con

uscita ad uno dei quattro lati del palazzo.

Nell'appartamento occupato da una famiglia di quattro persone. due coniugi e

due figli, di cui uno, Lamberto, mio coetaneo ed esposto allo stesso pericolo,

rimasi senza mai uscire, leggendo, scambiando idee con Lamberto, che aveva

perduto il fratello maggiore a seguito del siluramento da parte di sottomarino

alleato di una motonave che lo trasportava insieme con molti altri soldati italiani

verso la Libia, e imparando a ballare al suono di vecchi dischi emesso dalla

tromba di un grammofono a puntine "Voce del Padrone".

La mattina del 4 Giugno 1944 appresi da un bollettino della radio inglese che

i tedeschi si stavano ritirando da Roma e che gli Alleati erano giunti alle porte

della città. Immediatamente mi recai nella mia abitazione, dalle cui finestre era

possibile scorgere l’inizio della Via Trionfale.

Affacciatomi da una delle finestre vidi allora, intervallata a tratti da autocarri

e grossi carri armati, una lunga colonna di soldati tedeschi visibilmente stanchi e

demoralizzati, che percorreva la via verso Monte Mario. La visione dell’esodo mi

procurò un senso di liberazione, come se ogni pericolo e ogni preoccupazione

fossero improvvisamente scomparsi..

10. LA DELUSIONE

Il giorno successivo all’entrata degli Alleati in Roma mi recai alla Direzione

dell’Annona, che nel frattempo si era trasferita nei pressi di Via Veneto, per

riprendere servizio.

All’esterno numerose persone, di cui alcune armate, inveivano contro il

Direttore Faussone, ritenuto legato agli ambienti fascisti. Anch’io ero nutrivo

rancore verso di lui, perché, quando ero stato chiamato alle armi dalla Repubblica

Sociale fascista, non aveva voluto farmi esentare, benché gli possibile ove mi

avesse dichiarato persona indispensabile all’azienda quale ispettore annonario ed

inoltre, nel periodo della mia clandestinità, si era rifiutato di accogliere la

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domanda di assunzione di mio fratello Alberto al mio posto, presentata da mio

padre per sopperire alla perdita dell’indispensabile aiuto economico costituito da

gran parte del mio stipendio sino ad allora conferito in famiglia,

Lo folla tentava di penetrare nell’edificio per impossessarsi del Direttore e

probabilmente linciarlo, ma la Polizia Militare degli alleati lo impediva e

l’assembramento si sciolse non appena si diffuse la notizia che il Faussone era

fuggito attraverso una finestra protetto proprio dalla polizia alleata.

La parte dell’Italia fino ad allora liberata era governata dal Comitato di

Liberazione Nazionale, composta dai rappresentanti dei 6 partiti, che avevano

lottato contro il fascismo durante il periodo clandestino (Democrazia Cristiana,

Partito Socialista Italiano, Partito Comunista Italiano, Partito d’Azione, Partito

Repubblicano e Partito Liberale). L’autorità locale del Comitato nominò

Presidente dell’Azienda un democristiano (tale Vicentini) e Direttore della stessa

un comunista proprietario di immobili nei pressi di Piazza Vittorio Emanuele II, il

cui cognome era Marzi Marchesi.

Nell’azienda iniziai a svolgere attività sindacale unitamente ad Aldo

Lattanzi, a me unito da amicizia risalente al 1940.

In occasione del licenziamento immotivato di un impiegato padre di

famiglia, di cui non ricordo il nome dato il tempo trascorso, io e Lattanzi

prendemmo l’iniziativa per convocare un’assemblea nel corso della quale fu

approvato un ordine del giorno che imponeva l’immediata riassunzione

dell’impiegato licenziato, ma ad esso non fece seguito alcun provvedimento dei

dirigenti dell’azienda.

Ciò ci indusse a segnalare il fatto, inconcepibile per noi, ai giornali che

ritenevamo più democratici, fra i quali l”Avanti”e “La Voce Repubblicana”.

Soltanto un giornale di estrema sinistra, se ben ricordo “Italia Proletaria” o

“Democrazia Proletaria”, pubblicò la notizia. Proprio mentre ci recavamo alla

Direzione di questo giornale, nei pressi della Piazza delle Cinque Giornate, ci

imbattemmo in un gruppo di giovinastri armati a capo dei quali, a quanto ci fu

riferito da passanti, vi era il “Gobbo del Quarticciolo”, un malavitoso della

estrema periferia romana, che peraltro durante il periodo dell’occupazione tedesca

aveva partecipato alla resistenza. Dopo poco tempo apprendemmo dalla stampa la

sua uccisione in un conflitto a fuoco con la polizia.

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La notizia dell’arbitrario licenziamento pubblicata da quel giornale irritò

talmente i dirigenti dell’azienda da indurli a promuovere immediatamente nei

confronti miei e di Aldo Lattanzi, tramite il Direttore del personale, un rapido e

sommario procedimento disciplinare, a seguito del quale fummo licenziati in

tronco immotivatamente.

Fino a quel momento eravamo convinti che con la democrazia fosse finita

definitivamente l’epoca dell’autoritarismo sopraffattore e dell’arbitrarietà.

L’ingiustificato nostro licenziamento, determinato dal fatto di avere lottato contro

l’ingiustizia commessa ai danni di un collega, provocò in noi la più amara delle

delusioni.

Debbo precisare che, mentre io non avevo famiglia, il Lattanzi all’epoca

era già sposato con moglie e una figlia a carico e l’essere rimasto senza lavoro lo

privò dell’unico mezzo di sussistenza. Fortunatamente un suo amico, fornitore di

carbone per impianti di riscaldamento domestico, gli affidò l’incarico di

rappresentante della sua azienda.

Io rimasi disoccupato e, dopo alcuni mesi, trovai lavoro come manovale,

insieme con due dei miei fratelli, in uno dei cantieri di lavoro istituiti dal Ministro

Fanfani. Si trattava di opere di sbancamento del terreno connesse alla

realizzazione del Viale Libia in Roma: dovevamo ciascuno scavare con la zappa,

caricare su una carriola e trasportare poi tre metri cubi di terra al giorno per

ripianare la sede della costruendo strada.

All’epoca (1946) era difficile trovare lavoro, in quanto la ricostruzione era

stata appena avviata, tanto che con me lavoravano anche persone laureate.

La mia attività di manovale durò circa tre mesi fino a quando fui assunto

come impiegato presso una azienda, che. oltre ad effettuare trasporti con un

autocarro, gestiva un servizio bisettimanale di trasporto di passeggeri a mezzo di

un pullman da Roma a Chianciano e viceversa.

Avevo il compito di tenere la contabilità e di curare le pratiche

amministrative. Dopo un anno il titolare dell’azienda decise di trasferirsi in

Venezuela ed io rimasi nuovamente disoccupato.

Nel frattempo studiavo e incominciavo a dare i primi esami presso la Facoltà

di giurisprudenza della Sapienza.

Il sabato e la domenica spesso andavo a ballare in casa di amici della mia età

e talvolta ci riunivamo in casa mia. Io possedevo un giradischi portatile con pick-

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up ed una collezione di dischi in gran parte con brani musicali cantati da Natalino

Otto. Si trattava di musica sincopata molto adatta per il ballo.

All’epoca andavano di moda il valzer, il big-apple, la rumba, la raspa e

soprattutto il tango.,

Del gruppo di giovani amici faceva parte anche Elena Varzi, futura moglie di

Raf Vallone, la quale abitava nei pressi della mia abitazione e che avrebbe avuto

una certa notorietà come attrice nel film “Il cammino della speranza” ed in altri

che non ricordo.

11. LE MIE RAGAZZE

Il termine “ragazza” nel contesto di un periodo può assumere significati

diversi: in genere fanciulla, adolescente, giovane donna a servizio, nubile ed altri

ancora. Io adopero il termine “le mie ragazze” anche per indicare le due mie nipoti

ex filio, che dal giorno della morte di mia moglie si sono trasferite nella mia

abitazione per farmi compagnia, ma il termine “ragazza” associato ad un aggettivo

possessivo o specificativo (“la mia ragazza”, “la ragazza di….) ha nell’accezione

comune il significato di fidanzata non ufficiale, ossia di giovane donna amata non

ancora legata ad una promessa di matrimonio.

Parlerò in questa sede delle mie ragazze intese nell’ultima delle accezioni

suddette.

La mie giovanili esperienze amorose prima di conoscere mia moglie

furono tre.

Nel giugno del 1941 avevo 18 anni ed eravamo in piena guerra, quando un

mio collega d’ufficio (dirigevo allora l’Ufficio Stampa dell’Azienda Servizi

Annonari) mi propose di partecipare ad una festa da ballo che si sarebbe tenuta di

Domenica in un casolare sito in Torre Maura, zona allora in aperta campagna.

Aderii alla proposta e nel primo pomeriggio con lui raggiunsi il posto a

bordo di un trenino delle ferrovie vicinali in partenza da Via Marsala, adiacente

alla Stazione Termini delle Ferrovie dello Stato.

La sala da ballo era piena di ragazzi e ragazze e io fui attratto da una di

queste: bellina, esile, di media statura, dell’apparente età di 17 anni, che mostrava

particolare simpatia nei miei confronti e da me ricambiata, tanto che ballai

soltanto con lei.

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Ad un certo punto della festa la ragazza volle uscire all’aperto. Vicino al

casolare vi era un campo coltivato a grano, i cui steli, pressoché giunti alla

maturazione erano alti.

Ci inoltrammo nel campo correndo e, infine, ci gettammo a terra. La

abbracciai e la baciai lungamente. La sera ritornammo a Roma con il trenino e ci

demmo appuntamento per la Domenica successiva in Piazza Vittorio Emanuele II,

dove si trovava il mio ufficio e nei cui pressi era l’abitazione della ragazza.

Non ricordo più come si chiamasse, anche perché la relazione si limitò ad

alcuni incontri nei pressi di Piazza Vittorio, dove si trovava la sua abitazione.

In quegli incontri serali, cinque o sei in tutto, mi limitavo a baciarla, perché

nell’abbraccio stretto e nel bacio si esauriva la mia spinta amorosa.

Nell’ultimo degli incontri mi confessò che era affetta da tubercolosi e ciò

mi spaventò talmente da indurmi, sia pure con dispiacere, a lasciarla (allora la

malattia, incurabile, conduceva a morte sicura ed era così diffusa che lo Stato

promuoveva in continuazione campagne antitubercolari).

Nel 1943 ebbi la seconda esperienza amorosa con Aurelia, familiarmente

chiamata Lia, una bella ragazza, alta, slanciata e bionda naturale, più grande di me

(aveva 26 anni, mentre io ne avevo 20).

Era impiegata presso il Comune di Roma ed era fidanzata con un giovane,

che, pur essendo innamorata di me, non poteva in quel momento lasciare, perché

temeva di procurargli uno shock irreversibile, amandola ed essendo affetto da

grave malattia che lo costringeva al letto..

Lia abitava in Via Taranto nel Quartiere San Giovanni ed i nostri incontri

serali avvenivano al Colosseo, sotto i cui archi, al buio, potevamo abbracciarci e

baciarci cercando di non essere notati, perché all’epoca un bacio in luogo pubblico

costituiva reato.

Tutte le Domeniche, poi, ci incontravamo di mattina dinanzi alla Chiesa di

Santa Maria Maggiore, dove partecipavamo alla Messa.

Ci telefonavamo continuamente e dopo circa un anno la relazione finì

proprio a seguito di un litigio telefonico. Si trattò di una impuntatura di ambedue

del tutto ingiustificata, perché determinata da un banale scambio di parole

considerate offensive.

Anna fu la mia terza ragazza. Bruna, alta e snella, piuttosto interessante

che bella, era figlia del proprietario di una fabbrica di sapone situata in Via

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Garibaldi e la madre, di modi signorili, si vantava di essere nipote di un cardinale

di origine viterbese.

Anna, che aveva un anno più di me, abitava con i genitori e la sorella

Tullia, più giovane di lei, in un appartamento di Via dei Cartari e faceva parte con

la sorella di un gruppo composto da una diecina di giovani di ambo i sessi, che di

Domenica si riuniva per ballare a turno nella casa di uno di loro. Io ero entrato

nel gruppo, di cui faceva parte anche Elena Varzi, che poi divenne una attrice e

sposò Raf Vallone, indottovi da un mio amico, Carlo Carducci studente di

ingegneria

Possedevo allora un giradischi “Voce del Padrone” e una settantina di dischi

di vinile a 33 giri, in gran parte incisi con musiche suonate da Gorni Kramer e

canzoni cantate da Natalino Otto, che venivano usati in quelle occasioni.

Ci innamorammo quasi subito dopo esserci conosciuti e, nei giorni feriali,

ci vedevamo quasi tutte le sere nei pressi della Piazza della Chiesa Nuova, quando

non andavamo a sentire i concerti di musica classica che si tenevano nel Teatro

Adriano in Piazza Cavour.

I rapporti sessuali, come con le precedenti mie ragazze, si limitavano ad

abbracci e baci.

Anna mi aveva fatto conoscere i genitori, inviandomi a casa più di una

volta, ma essi erano decisamente contrari alla relazione, in quanto più giovane di

lei e non ancora laureato, mentre volevano che la figlia sposasse un uomo con

una buona sistemazione economica.

La loro ostinata contrarietà indusse Anna a troncare la relazione dopo

oltre un anno e per un lungo periodo ne rimasi addolorato.

12. IL MATRIMONIO

Nel 1947 in un festa da ballo in casa di una ragazza che abitava nei pressi

della Stazione Termini conobbi Lorenza Boccabella, che sarebbe divenuta moa

moglie..

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Fra le ragazze avevo notato una biondina di 16-17 anni e durante tutta la festa

le avevo fatto la corte, riuscendo a strapparle un appuntamento.

La biondina andò via presto, mentre io rimasi a ballare. La mia futura moglie,

durante un ballo, mi fece presente che aveva dei biglietti per un circo equestre che

dava spettacoli in un’area adiacente al Piazzale Clodio e mi invitò ad

accompagnarla il giorno dopo al Circo. Io accettai l’invito, ma di ciò rese edotta la

sua amica Vanda, figlia della proprietaria della casa che ci ospitava, che a sua

volta comunicò la notizia alla biondina con la quale avevo preso appuntamento.

Quest’ultima mi telefonò arrabbiatissima, disdicendo l’appuntamento e

manifestando la ferma intenzione di non volermi più vedere, nonostante le avessi

fatto presente che fra me e Lorenza non vi era altro rapporto che quello di una

incipiente amicizia.

Lorenza continuò a telefonarmi ogni qualvolta aveva biglietti di omaggio e

continuammo a vederci saltuariamente, finché il rapporto da amicizia non si

trasformò in un rapporto d’amore.

Fu Lorenza ad indurmi a recuperare negli studi gli anni perduti durante la

guerra e così, continuamente da lei spronato, finii per laurearmi..

Penso che pochi studenti abbiano conseguito la laurea come me, nel senso

non già di averla meritata, bensì con riferimento al modo di effettuazione degli

studi necessari.

Infatti, io non ho mai sentito una lezione del corso di giurisprudenza presso

l’Università di Roma “La Sapienza” (l’unica allora esistente, mentre oggi ne

esistono tre), al quale mi iscrissi nell’ottobre del 1941, dopo il conseguimento

della maturità classica nel liceo “Terenzio Mamiani”.

All’epoca prestavo servizio come impiegato del Comune di Roma e non

avevo, quindi, possibilità di seguire le lezioni, che si svolgevano di mattina.

Ricordo che un giorno, essendo libero da impegni di lavoro, mi presentai

all’Università per seguire una lezione di istituzioni di diritto romano, materia del

primo anno. Non riuscii ad entrare nell’aula dove si svolgeva la lezione, in quanto

era piena di studenti, tanto che parecchi erano fuori della porta.

Compresi che non era il caso di perdere tempo e da quel giorno andai

all’Università solo per gli esami che si tenevano in tre sessioni, a giugno, ad

ottobre ed a febbraio di ogni anno.

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Il lavoro, la frequenza del Corso allievi ufficiali (oltre al campo estivo di un

mese, lezioni serali bisettimanali di due ore presso l’Università) e da ultimo il

rimanere nascosto per oltre sette mesi sino alla liberazione di Roma in un

appartamento di Via Candia, in quanto disertore rispetto alla ripresa del Corso

allievi ufficiali e alla chiamata alle armi da parte del Governo fascista nel

dicembre 1943 con successivo editto Graziani, che condannava a morte i

disertori, mi impedirono di dare regolarmente gli esami, tanto che nel 1947,

quando conobbi mia moglie, ne avevo dato solo sette dei venti prescritti per la

laurea.

Nell’ottobre del 1947 riuscii a dare ben 8 esami quasi tutti su materie

fondamentali e senza il beneficio concesso agli ex combattenti di limitazione a

parte di esse. Nel successivo febbraio superai l’esame su altre cinque materie,

sicché rimase soltanto l’esame della materia più difficile: procedura civile e la

redazione della tesi, che scelsi su un argomento sul quale ero abbastanza

preparato “Lo Stato nella concezione materialistica della storia” e che il

Professore di Filosofia del diritto Cesarini Sforza, che nel suo esame mi aveva

dato il voto massimo di trenta trentesimi, approvò.

Riuscii a superare l’esame di procedura civile nell’ottobre del 1947 con il

voto di 23 trentesimi e conseguii la laurea con il voto di 90 su 110. La tesi da me

svolta piacque talmente al Professore Cesarini Sforza, facente parte della

Commissione esaminatrice, che indirizzò a me per consigli un redattore del

giornale socialista “L’Avanti”, tale Tabacchi, il quale intendeva svolgere una tesi

analoga.

Laureatomi ed avuta assicurazione che, a seguito di mia domanda, sarei stato

assunto presso i Consorzi Agrari a distanza di due mesi, mi sposai in Fossa, luogo

di nascita di mia moglie, il 6 giugno 1948.

13. L’ESPERIENZA POLITICA

Durante il periodo bellico e in particolare durante la fase dell’occupazione

tedesca, avevo militato in una sezione clandestina del partito socialista,

diffondendo in Cinema come il “Delle Vittorie” e il “Giulio Cesare” il giornale

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clandestino “Avanti” mediante lancio dalla galleria nella platea quando le luci

erano spente.

Ci riunivamo in poche persone in un appartamento al piano rialzato di un

palazzo sito al Piazzale Clodio all’angolo con Viale Mazzini, dove mi venivano

consegnate le copie del giornale da diffondere. Si trattava di singoli fogli in

formato ridotto rispetto alle dimensioni normali di un giornale con articoli e

messaggi di propaganda antifascista e antinazista, che io nascondevo sotto la

camicia, per portarli a casa e poi diffonderli. Una volta, mentre mi trovavo su un

tranvai nei pressi della mia abitazione, il pacco dei giornali discese lungo un

pantalone e finì sul pavimento del mezzo pubblico, che per fortuna era gremito di

passeggeri stretti fra loro in modo tale da occultarlo, sicché potei scendere poco

dopo dal mezzo prima che due militi fascisti, che si trovavano fra i passeggeri,

potessero vederlo

Mio padre nel contempo organizzava clandestinamente il sindacato dei

dipendenti del Comune di Roma, mantenendo rapporti con antifascisti, dei quali

ricordo soltanto uno, direttore di un ufficio comunale, di nome Imbornone.

Dopo la liberazione mi iscrissi, insieme con mio padre e mio fratello Alberto,

alla sezione del partito socialista del quartiere Trionfale, che aveva sede nei pressi

di Via Candia. Nella sezione, come in altre, esistevano due fazioni, l’una

autonomista e l’altra favorevole all’accordo con il partito comunista. Io facevo

parte della prima. Ero anche un esponente della federazione giovanile romana,

che contava oltre tremila iscritti, e di cui presto divenni il Segretario, nominato da

un Comitato Direttivo, di cui facevano parte Giorgio Ruffolo, Franco Iannelli,

Roberto Maffioletti ed altri. Il primo sarebbe divenuto in seguito ministro e gli

altri due senatori rispettivamente per il partito socialista e per quello comunista.

Nell’Assemblea nazionale del P.S.I.U.P.(Partito Socialista di Unità

Proletaria), indetta nel gennaio del 1947 in Roma in un salone del Palazzo

Barberini si verificò la scissione del partito e la Federazione Nazionale giovanile

si schierò con Saragat e con la corrente autonomista capeggiata da Mario Zagari,

che, in contrapposizione con la maggioranza legata a Pietro Nenni, fondarono il

Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI).

Ricordo che nel corso dell’assemblea, quando ormai era sicura la scissione,

io ed altri compagni della ci recammo nella sede del Partito in Via del Corso e

alla presenza di Pietro Nenni, che sulla soglia della sua stanza ci guardava

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sbigottito, asportammo tutti gli incartamenti, nonché macchine da scrivere ed altro

dai locali della Federazione giovanile e li portammo in un appartamento sito in un

edificio di Via Quattro Fontane fronteggiante il Palazzo Barberini, dove Saragat

aveva stabilito il suo quartiere generale e dove ci illustrò la sua idea di dare vita ad

un partito socialista riformatore aderente all’internazionale socialista con un

simbolo, poi non adottato, nel quale primeggiavano tre frecce che significavano

qualcosa, che dato il lungo tempo trascorso non ricordo.

La mia permanenza nel nuovo partito, che stabilì la sua sede in Via

Nazionale al n.243, durò poco, perché nel 1948, poco prima di sposarmi, mi

dimisi dalla carica di Segretario della Federazione Giovanile Romana e non

rinnovai più la tessera, avendo compreso nella breve esperienza maturata che

l’attività politica, nel senso di attivismo teso alla carriera, comportava continui

compromessi non compatibili con la mia indole.

14.L’AVVOCATURA

Dopo il matrimonio e la mancata assunzione presso i Consorzi Agrari,

essendo estremamente difficile trovare un impiego senza un appoggio politico o di

altro genere, decisi di partecipare ad un concorso per 100 posti di ispettore delle

poste. Superai gli esami scritti e quello orali classificandomi al 67° posto. Un

terzo dei posti, però, era riservato agli impiegati in servizio e sfortunatamente tutti

costoro si classificarono dopo di me, sicché i primi 33 di essi occuparono dal 67°

al 100° posto ed io andai ad occuparne il 101°.

I documenti da me presentati per partecipare al concorso furono trattenuti

dall’amministrazione per 6 mesi per l’eventualità che qualcuno dei vincitori

rinunciasse all’impiego e mi furono poi restituiti con la comunicazione che tutti i

vincitori avevano preso regolarmente possesso del posto nel termine stabilito.

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Vista l’impossibilità di impiegarmi, optai per l’esercizio della professione

forense.

Mio fratello Alvaro conosceva Ida Mandolesi segretaria di un noto avvocato

di Roma, Vittorio Puddu, e attraverso la stessa venne a sapere che avrei potuto

fare pratica presso di lui per i 2 anni prescritti per l’ammissione agli esami di

procuratore legale ed essere retribuito per l’assistenza relativa alle sue cause

presso la Pretura di Roma, essendo consentito il patrocinio legale ai praticanti

procuratori.

L’avv. Puddu, tra l’altro, era legale esterno dell’Opera Nazionale Combattenti

per tutte le cause dinanzi gli uffici giudiziari d’Italia, compreso il Consiglio di

Stato. All’O.N.C. il regime fascista aveva trasferito tutti i latifondi della pianura

pontina, della Campania, della Puglie e della Sicilia e, dopo averli suddivisi in

appezzamenti di limitata estensione, aveva assegnato questi ultimi ad ex

combattenti o cooperative di ex combattenti. Numerose controversie erano insorte

dopo le assegnazioni per occupazioni abusive, regolamento di confini e

successioni, oltre a quelle riguardanti la regolarità delle espropriazioni e delle

assegnazioni.

Per trattare le cause della normale clientela e quelle dell’O.N.C. dinanzi agli

uffici giudiziari di Roma e di Latina (per gli altri uffici operavano corrispondenti

del luogo) l’ avv. Puddu si avvaleva già dell’opera di un giovane avvocato,

Giuseppe Di Stefano, che esercitava la professione anche in proprio, quale

sostituto nelle udienze e di un professore universitario, titolare della cattedra di

diritto romano presso l’Università di Macerata, Giannetto Longo, incaricato di

redigere comparse e ricorsi relativi a cause di competenza della Corte di

Cassazione e del Consiglio di Stato.

Io iniziai quale sostituto per le cause civili pendenti dinanzi alla Pretura di

Roma con una retribuzione iniziale mensile di 30.000 lire.

Oltre alla sostituzione in udienza provvedevo alla redazione delle citazioni in

giudizio e delle comparse di costituzione e conclusionali.

Dopo i due anni di pratica superai gli esami per l’iscrizione nell’Albo dei

Procuratori legali, risultando decimo fra i seicento vincitori. In quel tempo il

procuratore legale poteva iscriversi nell’Albo degli Avvocati dopo sei anni di

esercizio professionale, mentre attualmente il superamento del primo esame

abilita immediatamente all’iscrizione nell’albo degli Avvocati, il più nutrito

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dell’Europa, contando oltre 130.000 iscritti, di fronte ai 34.000 della Francia ed

agli 86.000 della Germania,

Con l’iscrizione nell’Albo dei Procuratori Legali la mia attività in favore

dello studio Puddu si estese alla sostituzione nelle udienze anche del Tribunale e

della Corte di Appello. Ogni mattina io e l’Avv. Di Stefano ci suddividevamo la

partecipazione alle udienze presso i vari Uffici giudiziari della Capitale.

All’epoca mentre presso il Palazzo di Piazza Cavour avevano sede il

Tribunale, la Corte di Appello e la Cassazione, la Pretura civile occupava un

palazzo in Via del Governo Vecchio e quella penale si trovavo in via Giulia.

L’attività pomeridiana presso lo studio dell’avv.Puddu si svolgeva dalle 16

alle 20 ed io prestavo la mia opera nello studio sito in Via dei Gracchi n.161,

provvedendo alla redazione dei vari atti giudiziari.

La mia retribuzione, intanto, era salita a 110.000 lire mensili e mi era stata

conferita la delega per rappresentare l’Opera Nazionale Combattenti nelle cause

pendenti dinanzi alla Pretura e al Tribunale di Latina (circa 70), con conseguente

diritto ai diritti di procuratore (all’epoca non esisteva quello agli onorari).

L’attività legale assorbiva tutta la mia giornata. La mattina io e l’Avv.Di

Stefano dovevamo partecipare alle udienze presso gli uffici giudiziari di merito

concentrati nel Palazzo di Piazza Cavour (Tribunale Corte di Appello) e presso la

Pretura civile situata in Via del Governo Vecchio per trattare le numerose causa

patrocinate dall’Avv.Puddu. Ogni giorno sull’agenda dello studio erano segnate

da un minimo di 8 ad un massimo di 12 cause, che io e Di Stefano ci

suddividevamo. Le udienze dinanzi ai Pretori iniziavano alle ore 9 e quelle

dinanzi al tribunale e alla Corte di Appello alle ore 10. Capitava sovente che nelle

stessa ora ciascuno di noi doveva trattare più cause, il che ci costringeva ad una

spoletta fra un giudice e l’altro, usando la precauzione di iniziare il verbale, dando

atto della nostra presenza in sostituzione dell’avv.Puddu ed articolando le

richieste. Ciò per evitare da un lato che in cause urgenti dove assistevamo gli

attori la controparte, in nostra assenza, ottenesse un lungo rinvio dal giudice e

dall’altro che si verificasse alcuna delle numerose decadenze, che il codice di rito

allora vigente, assai più rigido dell’attuale, prevedeva in difetto di presenza del

difensore o di richieste da parte sua.

Terminate le udienze o bisognava provvedere alle varie incombenze

procuratorie: richiesta o ritiro di copie di sentenze, di verbali e di altri atti;

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iscrizione di cause a ruolo e deposito di comparse o memorie; richieste di

notificazione e ritiro di atti di citazione, di precetto e di pignoramento

immobiliare; assistenza ad atti di esecuzione mobiliare.

Le cause dinanzi alla Corte di Cassazione e al Consiglio di Stato venivano

trattate personalmente dall’Avv.Puddu.

Il pomeriggio, verso le ore 16, mi recavo nello studio dove rendevo conto

dell’attività mattutina e provvedevo alla estensione di atti di citazione, comparse e

memorie, mentre l’Avv.Puddu era impegnato con i clienti.

La sera, tornato a casa, pensavo ai miei pochi clienti faticosamente acquisiti.

Nel Dicembre 1951 fui affetto da una nefrite che mi costrinse a letto per

alcuni giorni e ciò preoccupò mia moglie, che non vedeva sicurezza di reddito

nell’attività di avvocato, perché priva di forme di previdenza ed assistenza in caso

di malattia (dovevo provvedere anche al mantenimento del mio primo figlio, il

quale in quell’epoca aveva due anni), tanto da indurla a spingermi alla

partecipazione di un concorso per magistrati.

Erano già passati alcuni anni dalla laurea e se da una lato ero avvantaggiato

dall’esperienza nel campo della giustizia civile, dall’altro si era affievolita la

memoria delle altre discipline giuridiche oggetto degli esami scritti ed orali del

concorso (in particolare diritto romano e amministrativo, diritto penale e di

procedura penale).

Ciò mi costrinse per circa un anno a rivedere le materie del concorso durante

le prime ore notturne (dalle 21-22 alle 1-2 lasciate libere dalla professione). Devo

aggiungere che mio figlio Maurizio rimaneva spesso sveglio durante tutta la notte

e ciò, anche se a lui provvedeva mia moglie, mi impediva di dormire con

continuità.

Superai le prove scritte, che sostenni preavvisando l’avv.Puddu della mia

assenza durante i giorni di svolgimento di esse, e superai anche le prove orali

classificandomi fra i primi 100 dei 215 promossi.

Appreso il risultato, che comportava l‘abbandono del suo studio a breve

scadenza, l’avv.Puddu decise di intervenire nei miei confronti per convincermi a

rimanere presso di lui. Mi convocò tramite l’Avv.Di Stefano, anziché nel suo

studio, come sarebbe stato naturale dal momento che vi prestavo opera tutti i

pomeriggi dei giorni feriali, nell’Aula degli Avvocati del Palazzo di Giustizia di

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Piazza Cavour. Probabilmente non voleva che la moglie (l’abitazione di Via

degli Scipioni n.161 era comunicante con lo studio) ascoltasse il colloquio.

Mi fece presente che non aveva figli che potessero succedergli nello studio

legale (una delle due figlie, sposata, infatti, non era laureata in giurisprudenza e

l’altra più piccola non aveva intrapreso studi in quella facoltà) e che mi avrebbe

concesso una partecipazione del 10% sugli utili dello studio, oltre lo stipendio di

cui godevo, e la facoltà di esercitare la professione in proprio, ove avessi

continuato l’opera di collaborazione con lui Risposi che mi mancava una capacità

essenziale: quella di chiedere adeguati compensi ai clienti. Replicò che anche lui

da giovane si comportava come me, ma che col tempo era riuscito a superare

quella limitazione.

Espressi ostinatamente la mia intenzione di intraprendere la carriera del

giudice ed il colloquio non sortì per l’Avv.Puddu l’effetto da lui sperato. In verità

la mia decisione fu condizionata dal fatto che l’avvocato, pur sapendo un anno e

mezzo prima che io avevo partecipato agli scritti e poi che ero stato ammesso agli

orali, non mi aveva dissuaso con la proposta vantaggiosa formulatami allorché

vinsi il concorso, probabilmente nella speranza che non avrei superato gli esami

relativi, e mi aveva costretto a ristudiare per tutto il lungo periodo del concorso le

materie giuridiche fondamentali nelle ore notturne, essendo impegnato fino a tarda

sera presso il suo studio.

15. GIUDICE A SULMONA

Fui destinato come uditore giudiziario al Tribunale di Sulmona dal Ministero

di Grazia a Giustizia (all’epoca non era stato ancora costituito il Consiglio

Superiore della Magistratura). La sede era buona per due motivi: il costo della vita

in Abruzzo consentiva di vivere ad una famiglia come la mia (moglie ed 1 figlio)

con lo stipendio di 60.000 lire mensili e il periodo di tirocinio poteva svolgersi in

modo completo, giacché i pochi giudici assegnati a quell’ufficio (1 presidente e 3

giudici, oltre me) svolgevano tutte le mansioni civili e penali.

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Presi possesso dell’ufficio l’11 marzo 1953 e subito dopo mi trasferii con la

famiglia in un villino di due piani nei pressi di Porta Napoli, che mi fu locato per

30.000 lire mensili. In quel periodo il tirocinio non si svolgeva come oggi negli

uffici giudiziari del luogo di residenza ma nell’ufficio di destinazione, sicché non

potendo configurarsi il mio come trasferimento d’ufficio esso avvenne a mie

spese.

Il tirocinio durò molto poco, perché quattro mesi dopo la presa di possesso mi

furono conferite le funzioni di giudice del Tribunale ed essendo l’ultimo arrivato,

oltre ad occuparmi delle cause civili come istruttore e a fare parte del Collegio per

le cause civili e penali, mi furono affidate le funzioni di giudice istruttore penale e

di giudice di sorveglianza.

All’epoca la vecchia Badia dei Benedettini, distante otto chilometri da

Sulmona, era stata adibita a stabilimento di pena con annessa colonia agricola e

all’interno vi erano una falegnameria e una tappezzeria per il lavoro dei detenuto.

La maggior parte dei reclusi, che erano in media oltre 360, doveva scontare infatti

lunghe pene e vi erano anche ergastolani.

Il mio compito era quello di controllare il vitto e di ascoltare una volta la

settimana i detenuti che avevano lagnanze o comunicazioni da fare

Nel maggio 1954 trasferii la mia abitazione nella villa di proprietà della

famiglia Lancia in Via della Stazione d’Introdacqua n.2. Mi fu locato l’intera

piano terra al quale si accedeva dal giardino circostante la villa, nel quale era

anche una fontana. La vedova Lancia e le figlie occupavano invece il primo piano.

Mia moglie era rimasta incinta verso la fine del dicembre 1953 e quando

aveva già compiuto i nove mesi di gravidanza inciampò in uno dei due gradini,

attraverso i quali si accedeva nell’abitazione, e si procurò la frattura esposta della

tibia e del perone della gamba sinistra. Avvertito dell’incidente mentre mi trovavo

in ufficio accorsi immediatamente nella casa, sita nelle vicinanze e feci trasportare

mia moglie nell’ospedale, dove le fu ingessato l’arto. Il giorno successivo, 23

settembre 1954, mia moglie dette alla luce il secondo figlio, al quale fu imposto il

nome di Piero Maria Stefano.

L’ingessatura fu tolta dopo due mesi, ma Lorenza, per quasi due anni ebbe

difficoltà nella deambulazione.

A Sulmona, situata in una conca e per tale motivo molto calda d’estate e freda

d’inverno la vita si svolgeva in modo monotono e ripetitivo.

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Nei giorni feriali passavo tutta la mattina in ufficio, al primo piano

dell’antico palazzo Mazara. Nel pomeriggio verso le ore 17 passeggiavo lungo il

Corso con mia moglie e mio figlio, spesso in compagnia di colleghi.

La passeggiata, che veniva effettuata in massa dalla popolazione (cosiddetto

“struscio”) ai svolgeva nel percorrere piò volte il Corso da Porta Napoli sino alla

villa comunale e si protraeva sino all’ora di cena e cioè fin verso le ore 20.

A Sulmona esiste un magnifico teatro comunale nel quale la Camerata

Musicale organizzava concerti con artisti di fama nazionale.

A volta passavo la tarda serata, dopo cena, in casa del Pretore

Alessandro Bonafede, che abitava al piano terra di una villa, unitamente con i

colleghi Vincenzo Biagini, Corrado Rossi e Francesco Garella.

Il lavoro presso il Tribunale non era molto e si svolgeva interamente

nella mattinata. Quale giudice istruttore mi occupavo generalmente di furti

aggravati e di altri reati di non rilevante importanza sociale.

Trovai pendente nella fase finale dell’istruttoria un processo per

uxoricidio commesso dieci anni prima, relativamente al quale il Pubblico

Ministero aveva avanzato richiesta di assoluzione perché il fatto non sussisteva

nei confronti dell’imputato, la cui moglie era deceduta a seguito della

precipitazione in un burrone del camioncino condotto dal marito, che, invece,

riuscito a gettarsi tempestivamente fuori del mezzo secondo le sue affermazioni,

non aveva riportato apparenti contusioni o ferite, ma aveva accusato dolori ad una

gamba.

Il procedimento aveva avuto inizio a seguito di voci su una sua relazione

extra coniugale e della testimonianza di una persona che aveva visto i due coniugi

a bordo del camioncino litigare poco prima che esso precipitasse nel burrone.

L’accusato si era difeso asserendo che improvvisamente l’automezzo, mentre

percorreva la strada lungo un costone di montagna in salita, aveva deviato a

destra verso il burrone senza che egli potesse far nulla per riportarlo sulla

carreggiata, sicché era stato costretto ad aprire la sportello e a gettarsi fuori del

mezzo prima che precipitasse.

Il procuratore dell’epoca aveva omesso di fare accertamenti sul posto, nella

supposizione che si trattasse di un incidente ed aveva ordinato la restituzione del

messo su richiesta dell’uomo, che aveva provveduto a demolirlo, sicché, una volta

iniziata l’istruttoria per uxoricidio, il perito nominato dall’ufficio per accertare se

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potesse essersi verificato un incidente secondo le modalità descritte dall’imputato,

aveva concluso la sua relazione non escludendo che potesse essersi rotta la barra

di accoppiamento delle ruote anteriore divenute in tal modo incontrollabili.

Prima di accogliere la richiesta del Pubblico Ministero accertai che

l’accusato, allo scopo di sottrarsi alla chiamata alle armi, aveva simulato durante

tutto il periodo della guerra 1915-1918 di essere impedito in una gamba,

ritornando poi alla normale deambulazione a guerra finita, sicché non poteva

attribuirsi valore certo all’impedimento ad una gamba denunciato dopo la

precipitazione del mezzo da lui condotto. In presenza di indizi non concludenti

(lite con la moglie prima dell’incidente, mancanza apparente di contusioni o

lesioni dopo la caduta dal mezzo e esistenza di una relazione extraconiugale) e in

difetto, quindi, di una prova certa emisi, in contrasto con la richiesta pienamente

assolutoria del P.M., sentenza di proscioglimento del preteso uxoricida per

insufficienza di prove, pur essendo intimamente convinto che avesse ucciso la

moglie con un qualche arnese prelevato nella cabina dell’automezzo in seguito del

diverbio notato dal testimone ed insorto probabilmente per essere venuta la moglie

a conoscenza della sua relazione con una giovane donna del paese.

Quale giudice istruttore mi fu rimesso in rogatoria un procedimento in

corso a Palermo riguardante la morte del bandito Giuliano. Dovevo interrogare in

merito ad essa il capitano dei Carabinieri Perenze, allora comandante della

Compagnia di Sulmona, che, secondo la versione ufficiale aveva partecipato al

conflitto a fuoco nel corso della quale sarebbe stato ucciso dai Carabinieri il

bandito. Si contestava al capitano Perenze che la versione da lui fornita non

rispondesse a verità, in quanto nel corso dell’istruttoria erano emersi elementi in

base ai quali era da ritenere che il bandito Giuliano fosse stato ucciso nel sonno in

casa di un tale avvocato De Maria dal cognato Pisciotta, che poi a distanza di

qualche anno sarebbe morto nel Carcere dell’Ucciardone a seguito di ingestione di

un caffè avvelenato ricevuto dopo aver dichiarato al sostituto procuratore

Scaglione di voler parlare.

Il Perenze, da me interrogato, confermò la versione dell’uccisione del

Giuliano da parte dei Carabinieri da lui comandati nel corso di un conflitto a

fuoco.

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Nel Tribunale di Sulmona esercitavo anche le funzioni di Giudice di

Sorveglianza del reclusorio di Badia Sulmonese, ove erano ristretti oltre trecento

detenuti condannati per gravi delitti.

Nella qualità predetta fui incaricato di eseguire dal giudice di sorveglianza di

Venezia, se ben ricordo, di impartire le opportune prescrizioni di controllo alla

contessa Bellentani, nata Caroselli, detenuta per l’omicidio dell’amante Sacchi,

alla quale era stato concesso da quel giudice un permesso di un mese da

trascorrere, sotto sorveglianza nel Comune di Rocca Pia.

16. PRETORE A CASTEL DI SANGRO

Dopo due anni di servizio come Uditore Giudiziario, superai l’esame per

l’acquisizione della qualifica di Aggiunto Giudiziario continuando a prestare

servizio presso il Tribunale di Sulmona. Tuttavia per ottenere senza ritardi nella

carriera il passaggio nella qualifica superiore (Aggiunto Giudiziario), occorreva

prestare servizio per almeno un biennio presso una Pretura.

Avrei potuto facilmente ottenere il trasferimento presso la Pretura di

Sulmona, ma il Presidente del Tribunale mi consigliò come più favorevole il

trasferimento a Castel di Sangro, sede rimasta vacante a seguito della morte in

incidente stradale avvenuta il 23 Aprile 1955 del Pretore Rainaldi. In Castel di

Sangro, infatti, il Pretore sino ad allora aveva goduto dell’alloggio gratuito per

concessione dell’Amministrazione comunale e se da un lato costituivano elementi

negativi il trasferimento a proprie spese e il maggior aggravio del costo della vita

determinato dal clima molto più freddo rispetto a quello di Sulmona, tuttavia il

risparmio del canone di affitto sino a quel momento corrisposto in lire 30.000

mensili, pari a metà dello stipendio, appariva sicuramente più vantaggioso.

Il trasferimento su domanda fu disposto con telegramma dal Ministro di

Grazia e Giustizia (allora non esisteva il Consiglio Superiore della Magistratura) e

io presi possesso del nuovo ufficio il 14 luglio 1955.

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I locali della Pretura facevano parte di un edificio adibito anche a sede

dell’Amministrazione Comunale di nuova costruzione (l’87% delle abitazioni era

rimasto distrutto nel corso dell’ultima fase della seconda guerra mondiale) e si

trovavano al primo piano. Il gabinetto del Pretore, le cui finestre si affacciavano

sulla Piazza principale del Paese, era ampio, luminoso e ben arredato: oltre alla

scrivania con poltrona e ad una libreria, un salotto composto da tavolino, due

poltrone e un divano. Nell’ultimo cassetto a sinistra della scrivania rinvenni un

grosso corno rosso e la cosa sul momento mi parve senza interesse.

Senonché nell’udienza civile tenuta due giorni dopo notai che

l’Avv.Pietro Savastano, allora Sindaco di Castel di Sangro, recava in tasca un

piccolo corno rosso a forma di coda di porco ed altro corno rosso vidi

successivamente in un cassetto della scrivania del Cancelliere Penale Mannella.

Ciò mi indusse a chiedere spiegazioni a quest’ultimo sulla presenza di tanti

oggetti “anti-iella”, e lo stesso si meravigliò del fatto che io non sapessi che nel

Paese vi era un potente iettatore. La rispondenza a verità della cattiva fama di

quest’ultimo era comprovata da molti episodi: la moto Lambretta di proprietà

dell’Ufficiale Giudiziario Arimondi si era fermata più volte proprio quando lo

iettatore vi era salito a bordo e da ultimo era rimasta distrutta in un incidente

provocato da un giovane al quale era stata prestata; il genero dello iettatore,

precedente Pretore, era morto in un incidente stradale insieme con l’Ufficiale

Giudiziario, il Notaio Pellegrini e il titolare di una officina meccanica, mentre

precorrevano con una autovettura la Via Adriatica e ciò dopo che in una cena

immediatamente precedente al viaggio, lo iettatore aveva detto che al loro posto

non sarebbe partito per la Fiera di Milano; il padre del Cancelliere Mannella era

deceduto per infarto nello stesso momento in cui il presunto iettatore dava la mano

al figlio con atteggiamento tale da far pensare che stessa porgendo le

condoglianze.

Altre presunte prove delle infauste facoltà del personaggio, di cui non

ricordo più le generalità perché mai indicato con il nome ma solo con la parola

“innominabile”, mi furono fornite sia dal Sindaco Savastano, secondo il quale lo

iettatore, mentre era a bordo della sua autovettura, aveva detto che il Cinema

Patini, ove fosse dipeso da lui, sarebbe rimasto chiuso e ciò poche ore prima di un

incendio che aveva devastato il Cinema. determinandone la chiusura; sia dal Vice

Sindaco Mario Santostefano, la cui autovettura di grossa cilindrata si era fermata,

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dopo che aveva peso a bordo lo iettatore, a causa dell’ingrossamento del

galleggiante del carburatore, del tutto inspiegabile secondo il meccanico che

l’aveva riparata; sia dal Preside della Scuola Media Lopez, il quale ricordava che

quando frequentava il ginnasio a Sulmona, dove lo iettatore all’epoca prestava

servizio come Direttore dell’Ufficio Postale, tutti gli studenti al vederlo ponevano

i piedi per scaramanzia sui binari del tranvai allora esistente nella città.

Non sono stato mai superstizioso ed ero convinto che un presunto

iettatore non fosse altro che una persona sfortunata, perseguitata cioè alla cattiva

sorte di trovarsi presente in circostanze ad altri sfavorevoli.

Nel corso della mia permanenza a Castel di Sangro tale convinzione fu

rafforzata da molti fatti.

.Pochi giorni dopo aver preso possesso del nuovo ufficio mi indussi a

fare visita di cortesia alla vedova del suo predecessore, figlia del presunto

iettatore, il quale in quel momento era presente. Al ritorno nella abitazione

concessami in via precaria dal Comune si sviluppò un principio di incendio

fortunatamente subito circoscritto per tempestivo intervento mio, di mia moglie e

di mia suocera. Mio figlio Maurizio subito dopo cadde, riportando una ferita alla

bocca, per la quale fu necessario un pronto soccorso presso il locale Ospedale.

Tornato un giorno da un pranzo al quale aveva partecipato il presunto

iettatore, mentre mia moglie sulla porta apprendeva di tale partecipazione dal

Maresciallo dei Carabinieri che mi aveva accompagnato a casa, mio figlio Piero,

di poco più di due anni, cadde da un tavolo riportando un vasto ematoma alla

testa.

Indotto dalle pressioni degli addetti alla Pretura, che temevano tutti la

presenza infausta, ad invitare il postino a consegnare la posta indirizzata al

presunto iettatore, anziché in Pretura con la quale egli non aveva alcun rapporto,

bensì presso la sua abitazione situata nelle vicinanze, ricevetti dal postino la

risposta che egli non se la sentiva di ottemperare all’invito. in quanto l’ultima

volta che si era recato in quella abitazione era caduto per le scale ed aveva

riportato una frattura guarita dopo molti mesi.

Il garzone di un fornaio, che portava ogni giorno il pane in casa mia, un

giorno si presentò con ambedue le labbra tumefatte e, alla richiesta di spiegazioni,

rispose che gli era scoppiata in bocca una delle castagne che il presunto iettatore,

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diffidandolo di non toccarle, aveva consegnato per la cottura e ciò mom appena

tolta dal forno.

L’episodio più significativo si verificò, se non erro, il 26 aprile del

1956. Pochi giorni prima il Parroco Rossi si era presentato nel mio ufficio per

chiedermi, su incarico dello iettatore, di mettere a sua disposizione la mia toga,

affinché, in occasione dell’anniversario della morte del Pretore Rainaldi e della

messa funebre, fosse collocata su un catafalco. Non fui in grado di rifiutare, ma,

dopo la cerimonia sia mia moglie, sia i componenti dell’Ufficio, sia gli amici e

conoscenti gli fecero presente che quella toga, per la particolare circostanza in cui

era stata usata e per il coinvolgimento dello iettatore, non poteva più essere

adoperata se non con assunzione di gravi responsabilità da parte dell’indossatore

per gli eventi luttuosi che ne sarebbero derivati.

A scanso di equivoci telefonai a mio padre in Roma perché acquistasse

una nuova toga, che non fu possibile far pervenire prima del martedì in cui si

sarebbe dovuto tenere la prima udienza penale dopo la cerimonia funebre.

Tenni così l’udienza penale senza toga l’unica volta della mia vita l’ultimo

martedì dell’Aprile 1956. Verso mezzogiorno vidi affacciarsi dalla porta in fondo

all’aula il viso dello iettatore, che subito si ritrasse e cinque minuti dopo

avvertimmo il rumore di una forte esplosione. Affacciatomi, al balcone dell’aula

di udienza vidi persone accorrere verso la piazza adiacente alla Pretura e sentii

gridare da più parti grado di aiuto. La situazione mi apparve subito grave, per cui

sospesi l’udienza e scesi nella piazza dove mi resi conto che una esplosione,

dovuta probabilmente ad una fuga di gas, si era verificata in un locale adibito a

rosticceria. La porta del locale era stata divelta dall’esplosione e frammenti di essa

e della vetrina avevano colpito numerose persone che sostavano nel piazzale

antistante in attesa dell’arrivo o della partenza di autobus di linea. Oltre trenta

persone avevano riportato ferite e fratture varie, di cui alcune molto gravi.

Con la collaborazione della Stazione dei Carabinieri, iniziai le indagini per

acclarare le cause della esplosione e le eventuali responsabilità penali. Le

indagini si protrassero oltre le ore 17 e stavo per tornare a casa quando l’usciere

della Pretura mi chiese se avessi visto lo iettatore affacciarsi nell’aula

dell’udienza. Alla mia risposta affermativa mi disse che lo stesso si era informato

presso di lui sul numero delle cause che mi restavano ancora da trattare e alla

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risposta che esse erano due, aveva replicato che non avrei terminato l’udienza,

così come poi si era verificato.

Il presunto iettatore, da ultimo, dovette abbandonare Castel di Sangro in

quanto, sfrattato dalla ex abitazione del Pretore di proprietà del Comune, non

riuscì ad ottenere dalla Commissione per l’Assegnazione delle Case ai Senza

Tetto da me presieduta un alloggio, non avendone diritto.

La sua richiesta fu respinta con 2 voti negativi, fra cui quello mio, ed uno

favorevole, mentre gli altri membri della Commissione si erano astenuti,

nonostante io avessi disposto la votazione segreta. temendo che la pessima fama

del richiedente potesse indurre i componenti, che mi erano apparsi riluttanti, a

votare in suo favore in caso di votazione palese, che certamente sarebbe divenuta

di pubblico dominio in un ambiente ristretto come quello di Castel di Sangro.

Il clima del luogo era per la maggior parte dell’anno freddissimo. Dal mese di

novembre sino a tutto aprile, anche di giorno, quasi sempre la temperatura si

manteneva sotto zero.

Ero costretto ad indossare, oltre a mutandoni di lana, al vestito e al cappotto,

guanti di lana ed un passamontagna che copriva le orecchie, sotto il cappello.

In quel periodo le strade erano ghiacciate e non era consigliabile sostare

perché, nonostante calze di lana e scarponi, il freddo invadeva i piedi.

Ricordo che una sera, al ritorno dalla visione di un film nel Cinema locale,

mia moglie aveva i piedi così freddi e doloranti che fu costretta ad accendere il

forno e ad inserirli nello stesso per poterli riscaldare più rapidamente.

Nel marzo 1956 si verificò una improvvisa copiosa nevicata eccezionale.

Era una Domenica e numerosi pullman provenienti da Roccaraso, che

trasportavano sciatori napoletani che avevano trascorso la fine della settimana in

quella località rimasero bloccati a Castel di Sangro per inagibilità delle strade che

conducevano verso Napoli. Si trattava di oltre mille turisti,la maggior parte dei

quali furono ospitati nei locali del Comune e della Pretura per impossibilità di

alloggiarli nell’unico albergo e nelle poche pensioni della cittadina, tutti occupati.

Soltanto dopo tre giorni fu possibile spazzare la neve, alta 40 centimetri, e far

ripartire i pullman.

In Castel di Sangro, fra i vari fatti aventi rilevanza penale di cui mi occupai

due sono rimasti impressi nelle mia memoria per le loro modalità e per la

personalità degli autori.

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Il primo, obiettivamente non grave, acquistò rilevanza per il modo tragico con

cui si concluse.

Un appartamento sito al primo piano di un edificio con ingresso dalla via che

conduce all’Ospedale era occupato soltanto d’estate dalla famiglia di un generale

della Guardia di Finanza residente in Roma.

Era appunto l’estate del 1956 quando nell’appartamento predetto si verifico

di mattina il furto di alcuni gioielli di rilevante valore quando la proprietaria era

fuori di casa per fare acquisti.

L’appartamento in questione era attiguo a quello da me occupato, ma faceva

parte di un edificio adiacente con altro ingresso sulla via.

Nel corso dell’ispezione dei luoghi da me effettuata con l’assistenza dei

Carabinieri riscontrai che era aperta la porta vetrata di un balcone di una delle

stanze dell’appartamento diversa da quella ove si trovavano in un armadio i

gioielli sottratti. Dal balcone in questione si poteva accedere facilmente alla

collina retrostante il fabbricato, perché a livello di campagna. Apparivano altresì

estratti dalle sedi superiore e inferiore i chiavistelli del battente normalmente fisso

della porta d’ingresso, che appariva chiusa.

Tale situazione portava a credere che i ladri fossero entrati dalla finestra del

balcone e fossero usciti dalla porta d’ingresso, ma appariva incoerente il fatto che

fossero stati estratti i due chiavistelli, dal momento che si poteva uscire dalla porta

d’ingresso semplicemente azionando la maniglia interna della serratura.

Evidentemente l’autore del furto intendeva attirare l’attenzione sui chiavistelli

per far credere che non era entrato dalla porta, la quale non presentava tracce di

effrazione, e l’inutilità dell’estrazione dei chiavistelli per l’apertura della porta

dall’interno induceva a ritenere che avesse aperto la porta d’ingresso con l’uso di

chiavi.

L’appartamento sito al secondo e ultimo piano dell’edificio era occupato dalla

famiglia di un noto chirurgo, il quale, in sede di testimonianza su circostanze

interenti al furto, dichiarò che mentre scendeva le scale con la moglie ed il figlio,

studente universitario in giurisprudenza, questi aveva fatto notare come la porta

dell’appartamento sottostante non fosse chiusa, ma semplicemente accostata,

mentre al ritorno con la moglie dopo circa un’ora aveva visto la porta chiusa. Da

ciò doveva dedursi che il ladro o i ladri stessero nell’appartamento quando i tre

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scendevano per le scale e fossero già andati via, dopo aver chiuso la porta, al

momento del loro ritorno.

Tuttavia la testimonianza di una persona che nella mattinata era rimasta

seduta dinanzi ad un fabbricato antistante quello del furto indirizzò i sospetti

proprio verso il figlio del chirurgo, in quanto era stato visto rientrare nell’edificio

del furto e della sua abitazione dopo esserne uscito insieme con i genitori e

allontanarsi dallo stesso dopo alcuni minuti con un pacchetto in mano.

Da informazioni assunte sul giovane emerse che talvolta si era appropriato di

oggetti esistenti in negozi, i cui proprietari, pur avendo notato la sottrazione, si

erano astenuti dal denunziarla per rispetto al padre, noto e stimato professionista.

Per di più mi giunse la voce che il giovane si era procurato la copia delle

chiavi dell’appartamento ove era avvenuto il furto e nello stesso si era intrattenuto

più volte con amici in periodi in cui la famiglia del proprietario era in Roma. Uno

degli amici introdotti nell’appartamento era ignaro del furto, in quanto viveva a

Roma, dove frequentava la facoltà di medicina dell’Università La Sapienza.

Pensai che con uno stratagemma avrei potuto indurlo ad ammettere che era

stato nell’appartamento su invito del sospettato e quindi formulai una domanda da

rivolgergli tramite i Carabinieri di Roma incentrata sulla circostanza non vera

dell’esistenza sul divano sito all’ingresso dell’appartamento dove si era verificato

il furto di una macchia di sangue. Tale circostanza, obiettivamente greve, avrebbe

fatto passare in secondo piano ogni altra considerazione e in effetti l’interrogato

rispose immediatamente che non aveva notato alcuna macchia di sangue, con ciò

ammettendo di essere stato nell’appartamento. Alla successiva domanda sulle

modalità dell’ingresso disse che era stato l’amico ad aprire con le chiavi

l’appartamento.

Veniva così acquisito un elemento d’accusa importante nei confronti del

giovane abitante nell’appartamento sovrastante quello del furto, tanto che egli,

informato telefonicamente dallo studente in medicina amico dell’interrogatorio, di

cui ignorava il movente, venne a trovarmi in Pretura per protestare la sua

innocenza.

Gli feci presente che allo stato non era stato presentato alcun rapporto sul

furto da parte della Stazione dei Carabinieri incaricata delle indagini, il chi era

vera, e che se era innocente non aveva nulla da temere, perché le indagini

sarebbero state condotte accuratamente per verificare ogni indizio e ogni ipotesi.

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Aggiunsi, dichiarando a questo punto di agire non già da giudice bensì da padre di

famiglia, per l’ipotesi malaugurata che egli avesse commesso il furto, che ove si

fossero ritrovati i gioielli il fatto si sarebbe notevolmente ridimensionato, come

del resto egli poteva sapere in quanto studente di giurisprudenza.

Io mi auguravo che, essendo in possesso della chiave, avesse rimesso i

gioielli nell’appartamento, i cui proprietari nel frattempo erano ritornato a Roma.

Per questo il giorno dopo ordinai al Comandante della squadra di Polizia

Giudiziaria presso la Pretura di effettuare una nuova ispezione nell’appartamento

per l’eventualità che la presenza dei gioielli fosse sfuggita la prima volta, ma

l’ispezione non dato l’esito sperato.

Il giorno successivo mentre facevo ritorno nella mia abitazione per il pranzo

notai un assembramento di fronte all’ingresso dell’edificio del furto. Mi fu

comunicato che pochi istanti prima si era udito in colpo d’arma da fuoco

proveniente dall’appartamento del giovane sospettato. Acceduto immediatamente

accertai che quest’ultimo si era suicidato nella sua camera con un colpo alla

tempia esploso da una pistola che egli deteneva di nascosto dei suoi genitori.

Il suicida aveva consegnato al parroco Rossi tre lettere indirizzate

rispettivamente a lui, a me quale Pretore e al Maresciallo Cinalli comandante della

Stazione dei Carabinieri. Nella lettera a me indirizzata affermava di non essere in

grado di sopportare che cittadini di Castel di Sangro lo considerassero colpevole e

mi chiedeva perdono per non aver seguito il mio consiglio, mai portato a

conoscenza di alcuno sino ad oggi.

Essendo la lettera indirizzata al Pretore, la allegai al rapporto dei Carabinieri

sul furto e sul suicidio, che inoltrai al Procuratore della Repubblica di Sulmona

per competenza.

Il giorno successivo l’avv.Savastano per conto del medico padre del suicida

mi interpellò sul contenuto della lettera ed io risposi che non potevo rivelarlo in

quanto facente parte dell’incartamento inviato al Procuratore della Repubblica, il

solo abilitato a disporre in merito

Decisi, dopo lunga riflessione, di partecipare ai funerali del

giovane suicida, che aveva pagato con la vita quello che consideravo un errore

per il quale la giustizia umana avrebbe tutt’al più irrogato una condanna con la

sospensione condizionale della pena anche per le ripercussioni positive che

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avrebbe avuto la mia presenza sulla cittadinanza, ignara delle indagini, e sulla

famiglia.

Era un giorno piovoso di novembre e nel cimitero, appena disceso

dall’auto a bordo del quale avevo seguito il feretro unitamente con il vice Pretore

Ennio Fioritto, fui aggredito verbalmente dalla sorella quindicenne del defunto

che, di fronte ad una folla assiepata intorno al carro funebre pronunciò più volte

ad alta voce la parola: “assassino”.

Senza pronunciare parola risalii a bordo dell’autovettura e mi feci

riaccompagnare in Pretura.

Poiché la ragazza aveva accompagnato fin sotto la Pretura il fratello quando

era venuto a parlarmi ed il suicidio era avvenuto a breve distanza di tempo, pensai

che ella fosse convinta di una stretta connessione fra i due episodi e cioè che il

suicidio fosse stato determinato da un mio comportamento fortemente inquisitorio

ed accusatorio e, sebbene amareggiato, non detti importanza all’increscioso

episodio.

Due mesi dopo mentre percorrevo la Piazza principale della cittadina fui

avvicinato dal padre del ragazzo suicida, il quale mi salutò perché su sua richiesta

era stato trasferito come primario in un Ospedale della Puglia.

Lo ringraziai senza alcun commento: avevo capito che era stato portato a

conoscenza dal Procuratore della Repubblica di Sulmona del contenuto della

lettera a me indirizzata, che attestava un mio comportamento più che corretto, nei

confronti del figlio (“mi perdoni se non ho seguito il suo consiglio…..”)

Il secondo episodio riguardò un giovane professionista trasformatosi in

incendiario.

Nella tarda serata del 27 Giugno 1957 nella vano sottotetto di un fabbricato

dove era lo studio di un avvocato si sviluppò un incendio, certamente di natura

dolosa, rapidamente domato perché avvertito agli inizi, di cui non fu possibile sul

momento individuare l’autore, né comprenderne il movente.

Altro incendio, anch’esso avvertito agli inizi e rapidamente estinto senza

danni, si sviluppò nella serata del giorno successivo in una soffitta aperta di un

fabbricato contiguo. Infine il 29 giugno verso le ore 2 di notte, alcuni giovani di

Castel di Sangro, che rientravano a bordo di una autovettura da Roccaraso dove

avevano passato la serata, notarono alte fiamme elevarsi dal tetto dell’edificio che

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si ergeva sull’altro lato della strada rispetto a quelli dove si erano sviluppati i due

primi incendi.

Si trattava di un palazzo il cui piano terra era situato un grande magazzino di

proprietà del Sindaco ed un piano era occupato dagli uffici della Società

Meridionale di Elettricità, mentre l’ultimo piano era abitato da una famiglia, di cui

faceva parte un giovane praticante procuratore legale, la cui nonna era

immobilizzata al letto. L’allarme dato tempestivamente dai giovani ed il pronto

accorrere dei vigili del fuoco evitò il pericolo che la persona anziana disabile

rimanesse vittima del fuoco.

In sede di accesso eseguito il mattino successivo con l’ausilio dei Carabinieri

rinvenni affisso con un chiodo su una delle travi verticali di legno che

sostenevano il tetto un foglio vergato a mano con lettere stampatelle che indicava

come obiettivo dell’incendiario la proprietà del Sindaco.

La Procura della Repubblica di Sulmona, a cui i fatti furono

immediatamente segnalati in quanto di sua competenza, mi delegò per le

indagini.

L’unico elemento da cui partire per individuare l’autore degli incendi era

costituito dal foglio di carta rinvenuto nel sottotetto, che presentava la particolarità

di una leggerissima colorazione verdognola e perciò mi rivolsi ad un fornitore

grossista di carta del luogo, il quale indicò fra gli acquirenti della particolare carta

il legale che aveva lo studio nel fabbricato dove si era sviluppato il primo

incendio.

L’esistenza nell’edificio del terzo incendio degli uffici della Società

Meridionale di Elettricità suscitò in me il ricordo di un apparente tentativo di furto

avvenuto in quegli uffici qualche mese prima. Ignori, penetrati di notte, avevano

aggredito una cassaforte murata ed avevano tentato di aprirla, riuscendo soltanto a

piegare verso l’esterno un angolo dello sportello. Nell’interno era stata rinvenuta

dai Carabinieri della carta bruciata, come per far luce sul contenuto.

Sul muro sottostante la cassaforte vi era impressa l’impronta chiara della

suola di gomma di una scarpa con un disegno particolare.

Nel corso delle indagini, rimaste senza individuazione del colpevole, avevo

interpellato i venditori di calzature di Castel di Sangro, che mi avevano fatto i

nomi degli acquirenti di scarpe aventi quel particolare tipo di suola, tutte persone

insospettabili, fra cui il giovane laureato che faceva pratica legale presso lo studio

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sito nell’edificio del primo incendio e che abitava nel palazzo dove erano gli uffici

della S.M.E. e dove si trovava all’ultimo piano la sua abitazione.

Tali coincidenze indirizzarono verso di lui i miei sospetti e, al fine di

avvalorarli o escluderli, pensai di comparare la sua grafia con quella dello scritto

anonimo lasciato sul sottotetto del palazzo del terzo incendio.

Fortunatamente, poiché il sospettato aveva compiuto diversi atti presso la

Pretura per conto dell’Avvocato presso il quale faceva pratica, ero in grado di

rinvenire suoi scritti e una comparazione delle lettere maiuscole di questi ultimi

con l’anonimo mi convinse che ambedue le scritture provenivano dalla stessa

mano.

Comunicai i miei sospetti al Procuratore della Repubblica di Sulmona, che

inviò il Sostituto Salvatore Sambenedetto al fine di verificare l’attendibilità dei

miei sospetti. Onde evitare che potessero trapelare all’esterno i miei sospetti su un

giovane avviato alla professione di avvocato, che, ove innocente, avrebbe subito

comunque grave danno, il Sostituto predetto, coadiuvato dal Capitano dei

Carabinieri comandante il nucleo di Polizia giudiziaria presso la Procura Generale

dell’Aquila lo esaminò come teste unitamente con le numerose altre persone che

potevano fornire indizi sui tre incendi.

Dopo l’esame Sambenedetto e il Capitano dei Carabinieri espressero la

convinzione, maturata a seguito dell’interrogatorio del giovane legale, che costui

fosse del tutto estraneo agli incendi.

Ciò non influì sul mio convincimento, che fu rafforzato dal ricordo delle

indagini sul furto di un giradischi e di diversi dischi fonografici avvenuto pochi

giorni prima del Natale 1956 presso il Centro istituito da Adriano Olivetti mentre

si svolgeva una riunione di giovani.

In quella occasione avevo interrogato molti dei presenti, fra cui il sospettato

degli incendi.

Interrogai nuovamente alcuni dei giovani che si trovavano nel Centro al

momento del furto ed appurai che il giovane praticante procuratore legale si era

allontanato mentre si svolgeva la riunione.

Essendosi il furto verificato in prossimità del Natale e dell’Epifania presi in

considerazione l’ipotesi che fosse stato commesso al fine di poter effettuare un

regalo a persona fuori di Castel di Sangro. Incaricai perciò il Comandante della

Sezione dei Carabinieri di Castel di Sangro di svolgere indagini per accertare se la

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persona da me sospettata avesse una fidanzata. Mi fu riferito dopo alcuni giorni

che era fidanzato con la sorella di un tenente dei Carabinieri residente in Venafro,

la quale dava lezioni di piano, fra gli altri, alla figlia del Comandante della

Stazione dei Carabinieri del luogo. Quest’ultimo fu incaricato di verificare con

molta discrezione, tramite la figlia, se la maestra di piano possedesse il tipo di

giradischi e i dischi oggetto del furto, di cui fu fornita una precisa descrizione.

Mentre erano in corso le indagini il sospettato aveva occasione di frequentare

la Pretura per ragioni professionali e più di una volta, incontratomi, aveva chiesto

se era stato individuato l’autore degli incendi. Naturalmente in tali occasioni mi

ero limitato a rispondere che dalle indagini non erano emersi elementi idonei

all’individuazione del colpevole.

Nei primi giorni di agosto, mentre mi trovavo in ferie a Francavilla a Mare, il

Cancelliere della Pretura mi comunicò telefonicamente che le indagini svolte

Comandante della Stazione dei CC. di Venafro avevano avuto esito positivo. A

mia volta resi edotto di ciò il Procuratore della Repubblica di Sulmona, che emise

ordine di cattura nei confronti del giovane legale per il furto del giradischi e dei

dischi. A distanza di qualche giorno un perito calligrafo confermò le mie

conclusioni in merito alla provenienza dello scritto trovato sul luogo del terzo

incendio e furono emessi altri due ordini di cattura per il tentato furto alla S.M.E.

e per i tre incendi a carico della medesima persona, che, dopo due giorni di

interrogatorio, finì per confessare tutti i reati a lui addebitati, chiarendo che negli

uffici della SME aveva cercato di distruggere con il fuoco quanto (denaro ed altro)

contenuto nella cassaforte per danneggiare la SME e che i due primi incendi erano

stati appiccati per sviare le indagini rispetto al terzo diretto contro la medesima

Società, verso la quale nutriva rancore per non avere assunto la propria sorella

dopo la morte del padre dipendente della stessa.

Il giovane legale fu sottoposto a perizia psichiatrica, in quanto la madre aveva

compiuto atto insano e soprattutto perché con il terzo incendio aveva messo in

pericolo la vita della nonna impossibilitata a muoversi dal letto

Successivamente fu prosciolto in istruttoria per infermità di mente e

ricoverato in un manicomio giudiziario dove conobbe una assistente sociale, che

lo sposò.

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17. TERRACINA

In quell’epoca era estremamente difficile ottenere il trasferimento a Roma,

che era la mia meta finale, e un avvicinamento costituiva la soluzione intermedia.

Perciò, quando sul bollettino fu pubblicata la vacanza nella Pretura di Terracina,

facente parte della Corte di Appello di Roma, nel marzo del 1958, se ben ricordo,

presentai la domanda di trasferimento di quella sede. La domanda venne accolta

alcuni mesi dopo.

Io non ero stato mai in quella cittadina e, quindi, ancor prima della data

fissata dal Ministero per la presa di possesso vi andai per vederla ed anche per

reperire una abitazione.

Da Castel di Sangro partii a bordo dell’autovettura guidata dall’Avvocato

Ennio Fioritto, Vice Pretore di Castel di Sangro, e quando, dopo essere passati per

Venafro, Cassino e Formia, iniziammo a percorrere la Via Flacca, da poco

costruita e che costeggia il mare, mi sembrò di essere giunto nel posto più bello

d’Italia: rocce protese verso il mare colorato di un azzurro intenso, piccole spiagge

in insenature rocciose e la veduta, fra due ampie spiagge, di Sperlonga alta con le

sue caratteristiche case imbiancate.

Il Direttore dell’Ufficio del Registro di Castel di Sangro, Mario Tracia, mi

aveva indirizzato per aiutarmi nel reperimento di un alloggio, ad un suo

concittadino di Frosinone, residente in Terracina, Romeo Spaziani, che aveva lì

molte conoscenze, in quanto rappresentante per la provincia di Latina di

importanti ditte come la “Perugina”, “Cinzano” e “Buitoni”.

Romeo Spaziani, la prima persona conosciuta nella nuova sede, mi

accompagnò presso il Banco di Santo Spirito, perché sapeva che era libero un

appartamento di tre camere ed accessori di proprietà dello stesso sito in Via

Derna, nella zona centrale di Terracina. Fui autorizzato a visitarlo ed avendolo

trovato idoneo alle esigenze della mia famiglia lo presi immediatamente in

locazione.

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Presi possesso della nuova sede alla fine del settembre del 1958. La Pretura

si trovava allora in Via degli Uffici, una traversa di Via Roma, tratto della Via

Appia che attraverso la cittadina di cui costituisce la principale arteria. Occupava

l’intero primo piano di un palazzo adiacente alla Chiesa del Salvatore, che

ospitava al piano terreno l’Ufficio Postale e al secondo piano il Liceo Scientifico.

Le finestre della stanza del Pretore e del Cancelliere Dirigente davano sulla

Piazza della Repubblica, mentre le altre (della Cancelleria Penale, dell’Aula di

Udienza, dell’Ufficiale Giudiziario e dell’Archivio) avevano l’affaccio sulla Via

degli Uffici o su un cortile interno. Sullo stesso piano si trovava l’Ufficio di

Conciliazione. La parte posteriore del palazzo era occupata al piano terra e al

primo piano dal Carcere Mandamentale, che poteva ospitare fino a 28-30 detenuti

in espiazione di pena, anche residua, inferiore ad un anno. Il carcere, di cui era

direttore il Pretore, che aveva anche il compito di leggere ed eventualmente

censurare la posta dei detenuti in arrivo e in partenza, aveva due custodi ed un

cuciniera, la quale provvedeva al vitto.

Il Foro locale era composto da 8 avvocati, di cui uno, l’avv.Lucci, esercitava

le funzioni di Vice Pretore, e da 3 giovani procuratori legali.

L’ambiente forense non mi parve inizialmente ben disposto nei miei confronti

ed appresi più tardi che ciò era dovuto al fatto che il Rag. Amoroso, Vice

Direttore della Banca Popolare di Castel di Sangro, che era stato chiamato a

dirigere per un certo periodo quella di Terracina, interpellato da alcuni avvocati

sul mio carattere e sulle mie qualità non appena si era appreso del mio

trasferimento da Castel di Sangro, mi aveva definito che giudice estremamente

severo.

Il mio predecessore non aveva lasciato in Terracina buona fama di sé, in

quanto era ritenuto un Don Giovanni, pur avendo moglie e due figlie, ed inoltre

era un giocatore accanito di poker, considerato della legge gioco d’azzardo e come

tale punito.

La cattiva opinione di lui in fatto di donne era tale che, essendomi io

affacciato sulla spiaggia verso l’ora di pranzo qualche giorno dopo il mio arrivo,

per avvertire mia moglie che avevo terminato l’udienza e stavo andando a casa,

una signora che prendeva il sole vicino a mia moglie, nell’apprendere da una

amica seduta vicino a lei, alla quale aveva chiesto chi fossi, che ero il Pretore,

esclamò, come mi riferì mia moglie: “Chi, quel porco!”.

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La mia permanenza in Terracina durò sette anni, fino al 1965, quando il mio

trasferimento a Roma si rese necessario perché mio figlio Maurizio stava per

terminare il liceo classico, che tra l’altro era in Latina, ed avrebbe dovuto

frequentare l’Università, che nell’ambito del Lazio si trovava solo in Roma, per

raggiungere la quale con il treno o con un autobus in servizio di linea

occorrevano oltre due ore.

In quel periodo lavorai sodo. Per scrivere le sentenze e le ordinanze mi

recavo in ufficio alle 5 o alle 6 di mattina, perché dalle 8 alle 9-9,30 dovevo

leggere i rapporti e le denunce (circa 2000 l’anno), elevare le imputazioni e

redigere i decreti penali Successivamente tutti i giorni feriali tenevo udienza

civile o penale. Nel pomeriggio, poi, quasi tutti i giorni tenevo udienza istruttoria

penale, interrogando imputati ed esaminando testimoni, soprattutto per rogatoria

da parte del Procuratore della Repubblica di Latina.

Si trattava di 10-12 persone ogni pomeriggio e calcolai che in un anno

interrogavo o esaminavo più di 3000 persone tra imputati e testimoni.

Va aggiunto che all’epoca non era stata ancora costruita l’Autostrada del

Sole, sicché il traffico da Roma a Napoli si svolgeva tutto lungo la Via Appia, il

cui tratto rettilineo di circa 40 chilometri da Cisterna a Terracina era

particolarmente pericoloso durante la notte, sia per la esigua larghezza della strada

(poco più di 6 metri), sia per il continuo abbagliamento da parte dei fari della

vetture provenienti dal senso inverso.

Un incidente mortale (e nel corso dei sette anni se ne verificarono oltre 200)

richiedeva il mio accesso sul posto per le direttive da dare alla Polizia Stradale in

ordine ai rilievi e per la redazione di verbale sulla situazione della strada e dei

mezzi coinvolti nell’incidente. Inoltre presso la Camera Mortuaria della Clinica

Villa Azzurra (l’Ospedale, situato in prossimità della cima del Monte Giove era

raggiungibile in tempo più lungo attraverso una strada tortuosa) dovevo assistere

alla visita necroscopica da parte di un medico legale.

Altri miei interventi urgenti erano richiesti in caso di arresto da parte delle

forze dell’ordine, avendo io l’obbligo di interrogare gli arrestati nel carcere entro

le 48 ore e nel caso di commissione di reati gravi di competenza del Tribunale o

della Corte d’Assise di emettere mandato d’arresto.

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Ricordo che in occasione di un tentato omicidio, per assolvere tutti gli

impegni (udienze già fissate, accesso sul luogo del reato, interrogatori ed esami

relativi a quest’ultimo) fui costretto a lavorare per 48 ore di seguito

Per due anni, poi, rimasto vacante il posto di vice Pretore onorario, non potei

beneficiare delle ferie, che costituiscono in base alla nostra Costituzione un diritto

irrinunciabile , senza che mi fosse poi corrisposto alcun compenso.

La particolare condizione del giudice in un ambiente ristretto, gli impedisce

di avere un cerchio ampio di amici e conoscenti, per l’alta probabilità che

qualcuno di essi abbia a che fare con l’amministrazione della giustizia, creando in

tal caso, oltre al disagio per il giudice, ripercussioni negative nell’opinione

pubblica in caso di esito favorevole all’interessato o nei rapporti con quest’ultimo

in caso di esito a lui sfavorevole

Per tale motivo oltre ai naturali rapporti di amicizia consequenziali rispetto a

quelli d’ufficio pressoché quotidiani con il Commissario di P.S. Arienzo, con il

tenente dei Carabinieri Urbani e con il tenente della Polizia Stradale Di Iorio, ne

instaurai pochi altri con persone che difficilmente avrebbero avuto a che fare con

la giustizia. A Romeo Spaziani, che avevo conosciuto nell’occasione che ho detto,

si aggiunsero il dentista Giuseppe Simonelli, il veterinario comunale Attilio

Lauretti, il colonnello di Aviazione Tommaso Quattrociocchi, il Preside

dell’Istituto Tecnico Terzo Pompeo, Ivo Mondini agricoltore in Fondi, il direttore

della Cassa di Risparmio Bondatti, il Vice Direttore della stessa Rossi e il giudice

conciliatore Tonino Dura.

Una o due volte nel corso della settimana con gran parte di essi mi

incontravo a cena in trattorie situate il più delle volte in località fuori di Terracina

e gli incontri con persone della mia età occupate quasi tutto il giorno in attività

altamente impegnative, costituivano per me e per esse veri momenti di relax,

contrassegnati da naturale allegria compensativa della serietà dei lunghi momenti

lavorativi.

Convinto della validità del detto che nessuno dà alcunché per nulla (gli

antichi romani avevano coniato l’aforisma “do ut des”) e che l’accettazione di

regalie ingiustificate da parte di un giudice è atto comunque riprovevole, perché

induce a sospettare di un suo condizionamento da parte del donante, nelle sole due

occasioni verificatesi durante le mia permanenza in Terracina respinsi i regali

offertimi.

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Poco tempo dopo il mio arrivo, in coincidenza con la festa di Pasqua,

un medico del posto fece recapitare nella mia abitazione in Via Petrarca, mentre

ero assente, un bel cesto contenente un grande uovo di cioccolata infiocchettato,

circondato da altre uova meno grandi, ed un biglietto di auguri.

Al mio ritorno in casa telefonai al medico e, dopo averlo ringraziato per

il biglietto di auguri, lo invitai a riprendersi il cesto. Mi fece presente che analoghi

donativi erano stati inviati ad altre autorità, che li avevano accettati, ma io

insistetti nell’invito ed egli vi ottemperò, inviando una persona a ritirare il regalo.

Il medico certamente aveva agito in buona fede, senza considerare lo

stato di disagio che mi avrebbe procurato l’accettazione del donativo se io in

seguito avessi dovuto occuparmi di pratiche giudiziarie che lo avessero riguardato,

il che si verificò quando, a distanza di uno o due anni, fu presentata nei suoi

confronti una querela per lesioni, poi ritirata, e fu da lui avanzata una richiesta di

provvedimento di urgenza nella quale non insistette.

Successivamente una donna si presentò nella mia abitazione con un

involto contenente delle trote (2 chilogrammi circa), asserendo, alla domanda di

mia moglie sulla provenienza, che lo avevo inviato io.

La donna aveva mentito ed io mi trovai in difficoltà per la restituzione

delle trote, in quanto mia moglie non era stata in grado di fornire elementi idonei

per la identificazione della donna.

Poiché uno dei due custodi del carcere era un provetto pescatore,

mostrai a lui le trote per accertarne le provenienza. Mi disse che certamente, per le

loro caratteristiche, erano state pescate nel lago di Sabaudia e ciò indirizzò la mia

ricerca verso una donna che San Felice Circeo che, poco tempo prima, si era

presentata in ufficio per parlarmi di una causa sfratto in cui era interessata e alla

quale avevo fatto presente che ciò non mi era consentito, in quanto soltanto il suo

avvocato poteva, in udienza ed in contraddittorio, esprimere le sue ragioni.

Reperito, con l’aiuto del cancelliere Marcucci, il fascicolo della causa

di sfratto e identificata, attraverso di esso, la donna, telefonai al Maresciallo

Berardini, comandante della Stazione dei Carabinieri di San Felice Circeo,

pregandolo di invitare la donna in questione a venire nel mio ufficio per ritirare il

pacco contenente le trote, ciò che la donna, impaurita, fece immediatamente.

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Come Pretore dovevo occuparmi di numerosissime pratiche civili e

penali non particolarmente rilevanti, ma due di esse ebbero notevole ripercussione

nella stampa.

La mattina di un giorno di uno dei primi anni del decennio ’60, non

ricordo bene, ma probabilmente nel 1962, ricevetti dalla stazione dei carabinieri di

San Felice Circeo un rapporto a carico di Pier Paolo Pasolini quale autore di una

tentata rapina con uso di una pistola ai danni del gestore di un distributore di

benzina di quel paese.

La nota personalità del denunciato portava a ritenere incredibile la

vicenda oggetto del rapporto, per cui, al fine di chiarirne la veridicità o meno nella

quasi immediatezza di essa, citai per il pomeriggio dello stesso giorno in cui

avevo ricevuto il rapporto, al fine di escuterli, il denunciante e il fratello, che nel

rapporto veniva indicato come testimone del fatto

Mentre consumavo il pranzo, si presentò nella mai abitazione verso le

ore 14 il legale del Pasolini per chiedermi notizie in merito alla denuncia. Feci

presente che non potevo fornire alcuna notizia (all’epoca l’escussione dei

testimoni nella fase dell’istruttoria sommaria era segreta, per cui omisi di fare

cenno delle convocazione pomeridiana), che competente a procedere per il reato

denunciato era il Procuratore della Repubblica di Latina e che la mattina

successiva avrei trasmesso il rapporto a quest’ultimo, al quale poi avrebbe potuto

rivolgersi.

I due fratelli da me convocati furono esaminati lungamente e

confermarono in tutti i particolari il fatto denunciato senza cadere in

contraddizione.

L’escussione dei due testi fu resa nota dal Procuratore della Repubblica

di Latina al legale di Pierpaolo Pasolini, il quale si adontò per non avergli io

parlato della convocazione dei testi e mi scrisse una brutta lettera in cui si

lamentava di ciò (e del tutto ingiustamente essendo allora io tenuto al segreto

istruttorio), per cui rimasi per qualche tempo in dubbio se stracciarla o inviarla al

Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Finii optando per la prima ipotesi.

Tempo dopo il Tribunale di Latina, giustamente ritenendo che il

Pasolini avesse voluto soltanto provare l’emozione della vicenda, probabilmente

per narrarla poi in una delle sue opere letterarie, derubricò la tentata rapina in

minaccia mano armata e gli applicò l’amnistia nel frattempo decretata.

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L’altro episodio che ebbe notevole ripercussione sulla stampa fu la sorte

di un bambino di tre o quattro anni, se ben ricordo, rimasto orfano a seguito della

morte dei propri genitori in un incidente occorso sulla Via Flacca, mentre a bordo

di una motocicletta “sidecar” facevano ritorno in Ungheria con il figlioletto

provenienti dall’Australia.

Era l’epoca della “cortina di ferro” e della “guerra fredda” tra i Paesi

occidentali e quelli comunisti d’oltrecortina, e in Italia il viaggio del bambino

nato in Australia e rimasto orfano verso un paese comunista veniva visto come un

viaggio verso la dannazione. In base alla Convenzione Internazionale relativa alla

protezione del fanciullo, quale giudice tutelare del luogo ove il bambino si trovava

(Ospedale di Terracina, perché ricoverato per le lievi ferite riportate

nell’incidente), dovevo adottare i provvedimenti necessari per la sua tutela.

Fui investito da numerose domande di adozione ed intervenne anche il

Vaticano per evitare che il bambino andasse in Ungheria, dove vivevano i nonni,

suoi parenti più stretti. Sebbene da più parti sollecitato, mi astenni dall’adottare

provvedimenti che in qualche modo incidessero sulla destinazione del fanciullo,

dal momento che la Convenzione internazionale demandava la soluzione del

problema agli Stati della cittadinanza dei genitori, di provenienza e di residenza

provvisoria.

In sede di accordo fra detti Stati prevalse la tesi che spettasse ai nonni

residenti in Ungheria di occuparsi del bambino rimasto orfani ed io detti

esecuzione all’accordo.

18. A ROMA

Nell’Aprile del 1965 su mia domanda fui trasferito al Tribunale di Roma.

In Terracina avevo conosciuto Arnaldo Maccarone, amico di Angelo

Jannuzzi, che aveva tenuto a Cresima mio figlio Piero

Maccarone era divenuto Presidente del Tribunale di Roma e quando mi

presentai a lui per prendere possesso mi disse che mi aveva assegnato alla Prima

Sezione Penale. A tale notizia non potei dissimulare il mio disappunto.

Infatti la mia famiglia era costretta a rimanere a Terracina sino alla fine

dell’anno scolastico frequentando Maurizio il liceo di Latina e Piero la Quinta

Classe Elementare a Terracina ed io avevo fatto conto di stare quattro giorni

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consecutivi a Roma presso i miei genitori ed il resto della settimana in Terracina

sino all’inizio del periodo feriale, il che mi era consentito dall’assegnazione ad

una qualsiasi delle Sezioni Penali, tranne la Prima, il cui calendario mi imponeva

di rimanere tutta la settimana, tranne naturalmente la Domenica in Roma.

Maccarone, che riteneva di avermi fatto un favore con l’assegnazione alla

Prima Sezione Penale, notò sul mio viso i segni del disappunto e me ne chiese la

ragione. Risposi che ero contento dell’assegnazione e che si trattava non già di

disappunto, bensì di sorpresa, in quanto, essendo l’ultimo arrivato non pensavo

che fossi destinato a quell’assegnazione, ritenuta da tutti prestigiosa.

Il Presidente Maccarone non credé alla sincerità della mia risposta, ma,

avendo già firmato il provvedimento non aveva motivo per revocarlo e tenne

conto del mio atteggiamento in quella occasione nel successivo trasferimento al

settore civile che avvenne su mia richiesta l’anno successivo.

Il 3 Aprile 1965 iniziai la mia attività presso Prima Sezione Penale, che si

occupava principalmente di gravi reati contro il patrimonio e di favoreggiamento e

sfruttamento della prostituzione.

La Sezione aveva 2 Presidenti. Salvatore Giallombardo, il più anziano e

Antonio Brancaccio, unico vincitore di concorso interno per la nomina a

Consigliere di Corte di Appello, nonostante i posti a concorso fossero 48.

Si trattava di Presidenti con personalità completamente differenti.

Giallombardo più umano e Brancaccio molto rigoroso. Io, partecipando sia

all’uno che all’altro dei due collegi rispettivamente presieduti da essi cercavo di

uniformare le decisioni per reati della stessa gravità optando per pene più miti di

quelle proposte da Brancaccio nel suo collegio e più severe di quelle proposte da

Giallombardo nel suo collegio.

In quell’epoca venne a far parte della Prima Sezione Penale Ugo Niutta,

poi divenuto Consigliere di Stato per nomina governativa e che avrebbe fatto

parlare di sé come “grand commis” del potere politico.

Proveniva da incarico extragiudiziale presso l’E.N.I., che egli anni prima

aveva ottenuto per essere amico del Ministro Bo e di Enrico Mattei, deceduto in

un incidente aereo nell’ottobre del 1962, come mi confidò.

Prestava allora servizio presso il Tribunale Penale quale comandante del

Nucleo dei Carabinieri ad esso addetto il tenente Varisco, che successivamente

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conservò l’incarico sino al 1979, poco prima di essere assassinato dalle Brigate

Rosse.

Al 1966 risale l’inizio del rapporto di amicizia fra Varisco ed Ugo

Niutta, che si mantenne sino alla morte del Varisco, tanto che costui poco prima di

essere assassinato mi confidò di aver presentato domanda di pensione, avendo

ottenuto dal Niutta l’incarico di Capo del servizio di sicurezza della Soc.Carlo

Erba di cui il primo era divenuto Presidente.

Lo stretto rapporto di amicizia fra i due trovò conferma nella presenza di

Ugo Niutta, giunto da Milano, ai funerali del generale Varisco, ai quali partecipai.

Nel gennaio del 1966 su mia domanda per il passaggio al settore civile

venni assegnato alla Sezione Lavoro, che era ritenuta qualitativamente una delle

meno qualificate.

L’assegnazione, come il Presidente Maccarone confidò ad un avvocato,

costituì una specie di ritorsione nei miei confronti per non avere io apprezzato a

sua tempo l’assegnazione alla Prima Sezione Penale.

In quell’epoca la Sezione Lavoro del Tribunale fungeva da giudice di

primo grado per le controversie di lavoro e di previdenza sociale che per valore

eccedevano la competenza del Pretore e che erano numerosissime per ognuno dei

giudici istruttori.

Sul mio ruolo, infatti, erano iscritte oltre 1.200 cause e in ogni udienza ne

trattavo 50 o 60, che arrivavano anche a 200 quando sostituivo - il che avveniva

spesso - colleghi assenti o trasferiti ad altro incarico. Naturalmente, poi, a casa

dovevo stendere le motivazioni di sentenze ed ordinanze in una materia

particolarmente difficile anche per i complessi conteggi (allora non esistevano

ancora i calcolatori elettronici e le operazioni venivano eseguite manualmente) e

per me oltretutto sostanzialmente nuova.

Quando arrivai alla Sezione Lavoro, che era sistemata in un mezzanino

dell’ultimo piano del Palazzo di Giustizia di Piazza Cavour, essa era presieduta

da Facchiano e Martinelli e vi erano addetti una diecina di magistrati.

Una mattina dell'aprile del 1970, mentre l'attività giudiziaria era in pieno

svolgimento, da una delle arcate del pianoterra nelle immediate prossimità di

un'aula di udienza penale si staccò un blocco di marmo, mettendo in pericolo la

vita di un avvocato, che si trovava a passare nel corridoio dove cadde.

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Il fatto ebbe notevoli ripercussioni sulla stampa e, poiché fu accertata la

presenza di alcune lesioni sui muri perimetrali, nonché la possibilità di caduta di

pesanti elementi ornamentali con pericolo per la vita delle persone frequentanti il

Palazzo, fu disposta la evacuazione degli uffici ivi esistenti: Corte di Cassazione,

Corte di Appello e Tribunale di Roma.

Nel corso della costruzione del Palazzo di Giustizia,iniziata nel 1988 e

terminata nel 1910 fu riscontrata nella piattaforma quadrata di calcestruzzo alta 4

metri che costituiva la fondazione una frattura trasversale che andava dall’angolo

Piazza Cavour-Via Ulpiano all’angolo Piazza dei Tribunali-Via Tribuniano. Tale

frattura aveva imposto la modifica dell’originario progetto prevedente 4 piani con

l’eliminazione del quarto piano, il cui peso distribuito principalmente sui muri

perimetrali avrebbe determinato un allargamento della frattura.

La caduta del blocco di marmo e l’esistenza di lievi lesioni fu ascritta ad un

aggravamento della originaria frattura della piattabanda, la cui causa non fu mai

resa nota; ma io ricordo che poco prima della caduta del blocco di marmo sulla

piazza prospiciente la Casa Madre dei Mutilati ed Invalidi di Guerra,

immediatamente adiacente al Palazzo di Giustizia sul lato di Via Triboniano erano

stati iniziati, probabilmente per conto della amministrazione comunale di Roma,

lavori di scavo per la costruzione di un parcheggio sotterraneo; che in una delle

fosse aperte si vedeva scorrere acqua; e che esse furono precipitosamente

riempite, sicché ritenevo e tuttora ritengo che i lavori stessi abbiano inciso

sull'assestamento del terreno sottostante la piattabanda, determinando

l'aggravamento in questione, peraltro irrilevante dal momento che l’architetto che

diresse successivamente i lavori di consolidamento del Palazzo mediante

inserimento di piloni di cemento armato lungo la piattabanda stabilì il suo ufficio

proprio all’angolo del pianterreno fra Piazza dei Tribunali e Via Tribuniano

ritenuto il punto più pericoloso..

Comunque, dopo un tentativo da parte dei giudici della Sezione Lavoro

del Tribunale, fra i quali ero anch'io, di rimanere ad occupare i locali del

mezzanino del piano terra (eravamo convinti che la stabilità del palazzo non

corresse alcun pericolo), tentativo frustrato dal Primo Presidente della Corte di

Cassazione, che minacciò di sporgere denunzia per occupazione abusiva di

edificio pubblico, si dovette provvedere allo sgombero dei locali assegnati al

Tribunale e il Presidente di questo, Angelo Jannuzzi, mi affidò l'incarico di gestire

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il trasferimento delle varie sezioni nel palazzo della Città Giudiziaria di Piazzale

Clodio..

Il trasferimento del Tribunale Civile alla città giudiziaria di piazzale Clodio

non presentò eccessiva difficoltà, dal momento che si trattò di trovare

momentanea e del tutto precaria sistemazione delle cancellerie e dei giudici presso

i locali a disposizione delle Sezioni penali.

La mia opera consistette essenzialmente nell'individuare i locali utilizzabili e

nel far apporre i cartelli indicatori.

Ben più complesso fu il trasferimento del Tribunale dai locali di Piazzale

Clodio a quelli concessi dal Ministero della Difesa siti nel Viale Giulio Cesare.

Si trattava di una sistemazione definitiva e quindi, sulla base della pianta dei

locali, li distribuii alle varie sezioni in modo da rispettare la corrispondenza agli

organici dei giudici e all’entità del lavoro delle Cancellerie.

Diressi poi il trasferimento dei mobili e delle altre attrezzature curato

dall’Istituto Nazionale Trasporti e la loro collocazione nei vari locali.

Furono utilizzati i tavoli e gli armadi che esistevano nel Palazzo di Giustizia

di piazza Cavour, mobili di un certo pregio risalenti all’inizio del secolo, e ciò

contro il volere del Provveditore che ne aveva acquisito il possesso al momento

dell’evacuazione del Palazzo e che minacciò una denuncia nei confronti miei e del

Presidente del Tribunale per averli trasferiti nella nuova sede del Tribunale Civile.

Poiché per la sistemazione interna dei mobili non era stato bandito alcun

appalto vi provvedemmo io e alcuni giudici volenterosi con l’ausilio di alcuni

operai dell’Istituto Nazionale Trasporti che, su invito del loro Capo,

soprannominato Balilla, si erano messi a disposizione pur non essendo un loro

compito. Ricordo che da casa portai un martello, chiodi e nastro adesivo per

attaccare sulle porte i cartelli da me compilati, che indicavano la destinazione dei

vari locali.

Nell’agosto del 1970 intervenne la nuova disciplina delle controversie

di lavoro, che prevedeva la trasformazione del Tribunale in giudice di appello per

le cause da instaurare dopo il 23 dicembre di quell’anno e il mantenimento della

competenza di primo grado sino ad esaurimento per le cause pendenti.

Ciò comportò la suddivisione dei giudici addetti alla Sezione in due

gruppi: uno per le cause di primo grado e l’altro per le cause di appello.

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Nel frattempo erano subentrati quali Presidenti della Sezione Enrico

Blotta e Franco Finadri ed io fui assegnato dal primo alla metà del gruppo dei

magistrati con funzioni di appello presieduta da Finadri, mentre l’altra metà era

presieduta da Blotta, Presidente più anziano.

Il 3 maggio 1972 si verifico uno degli eventi più dolorosi della mia vita: la

morte di Santo Valenza, uno dei più valorosi giudici della Sezione Lavoro con i

quali avevo stretto rapporti di profonda amicizia. Egli era un attivista di “Terzo

Potere”, corrente della Associazione Nazionale Magistrati di cui facevo parte

anch’io ed avevamo passato insieme il pomeriggio del giorno precedente,

parlando delle prospettive delle prossime elezioni del C.S.M., in relazione alle

quali aveva progettato il viaggio a Palermo per il giorno successivo con l'intento

di prendere accordi con il candidato siciliano di "Terzo Potere" Aldo Sebastiano

Rizzo e nel contempo di fare una visita alla sorella, professoressa sposata con un

farmacista di Palermo. Nell'accomiatarmi da lui, sapendo che egli era solito

condurre la propria autovettura a velocità sostenuta, gli avevo raccomandato di

non correre.

Quel giorno mi trovavo nella Sezione Lavoro del Tribunale, quando una

telefonata della Polizia Stradale di Sala Consilina avvisò il Presidente della

Sezione Blotta che Valenza era rimasto vittima di un incidente.

Mi recai sul posto insieme con Blotta ed altri colleghi della Sezione

Lavoro e mi resi conto, anche sulla base delle dichiarazioni di un teste, che

l'incidente si era verificato nel corso di una violenta pioggia, che aveva creato

sull'autostrada un tappeto d'acqua, sul quale la macchina condotta dal mio amico

era slittata nel percorrere una leggera curva, a causa probabilmente dell'uso del

freno al fine del rallentamento della marcia, andando ad urtare contro il guard-rail.

Disgraziatamente quest'ultimo si era spezzato ed uno dei due monconi, penetrato

nell’autovettura dopo avere infranto il parabrezza, si era trasformato in un perno,

facendo ruotare e precipitare l'autovettura al di là della sede stradale, sopraelevata

di circa 8-10 metri rispetto alla campagna sottostante. La caduta dell’autovettura

da tale altezza aveva causato la morte immediata di Valenza, autista ed unico

occupante del veicolo.

Alla morte di Valenza fece seguito un paio di anni dopo la morte a

seguito di infarto di Bruno Gioscia, uno dei più bravi giudici della Sezione.

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Rimasi nella Sezione Lavoro del Tribunale di Roma sino al 28 Luglio

1978, quando il Consiglio Superiore della Magistratura mi destinò a prestare

servizio presso il Tribunale Penale quale Presidente della IV Sezione, ritenuta la

più importante fra quelle penali, che si occupava dei reati di diffamazione a mezzo

stampa, di reati dei pubblici ufficiali e di altri gravi reati.

Fui trasferito come Presidente alla V Sezione Civile del Tribunale il 2

Ottobre 1980 e vi rimasi sino alla mia elezione al Consiglio Superiore della

Magistratura avvenuta nel 1986.

19. L’ATTIVISMO ASSOCIATIVO

La mattina del 5 giugno 1968 il sagrato della Chiesa di S. Pio X in Roma a

Piazza della Balduina era gremito di persone, magistrati in gran parte, ma anche

parlamentari, avvocati, giornalisti, funzionari di cancelleria e dello Stato, ufficiali

ed estimatori di ogni ceto sociale, in attesa del feretro.

Salvatore Giallombardo, da pochi mesi eletto componente del Consiglio

Superiore della Magistratura dagli aderenti di "Terzo Potere", all'epoca la più

importante corrente della Associazione Nazionale Magistrati, della quale era stato

fino alla elezione Segretario Generale, era deceduto improvvisamente a seguito di

un infarto la sera di due giorni prima, mentre si trovava in casa del fratello nella

zona di Monte Mario.

Avevo avuto modo nel corso della mia permanenza nella Prima

Sezione Penale del Tribunale Civile di Roma, durata circa un anno, di apprezzare

le grandi doti di uomo e di difensore della indipendenza e della autonomia della

magistratura di Salvatore Giallombardo.

Ora, mentre confuso tra la folla attendevo il feretro, la mia mente si popolava

di ricordi: il mio incontro mattutino, pressoché giornaliero, con Salvatore

Giallombardo all'edicola di Via Sabotino, dove acquistavamo io "Il Messaggero"

e lui "Paese Sera" e da dove si vedeva il balcone del suo appartamento all'ultimo

piano del grande palazzo con ingresso da Piazza Mazzini costruito da una

cooperativa di magistrati verso il 1930; il successivo incontro, pressoché

giornaliero al bar del Palazzo di Giustizia di Piazza Cavour per prendere il caffé;

le udienze in una delle aule grandi e fredde al piano terra e la adiacente camera di

consiglio, in cui Giallombardo aveva sempre dimostrato il suo grande equilibrio

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ed il rispetto delle opinioni dei giudici a latere. Soprattutto ricorreva nella mia

mente il ricordo di una continua insistenza nei miei confronti da parte di lui

perché mi attivassi nell'ambito associativo. Ripetute volte, mentre insieme

camminavamo lungo il corridoio conducente al bar nella solita pausa dell'udienza

verso le ore 11, mi aveva detto che costituiva un peccato il fatto che io non mi

interessassi dell'Associazione Magistrati, benché, a suo dire, avessi le qualità per

riuscire in un ruolo impegnativo.

In effetti, fino al mio ritorno a Roma ero rimasto completamente

estraneo ai due organismi associativi (oltre all'Associazione si era poi costituita

l'Unione dei Magistrati Italiani, che raccoglieva in massima parte i giudici della

Corte di Cassazione), anche perché, dapprima in un piccolo Tribunale e

successivamente quale Pretore unico a Castel di Sangro e a Terracina, non avevo

avuto possibilità di contatti continui con colleghi e per di più il carico di lavoro,

con affari frequentemente urgenti, aveva richiesto la mia continua presenza,

anche nei giorni festivi, nei luoghi di espletamento delle funzioni, dove peraltro

avevo sempre trasferito la mia famiglia.

Per la verità, presso il Tribunale di Sulmona ero stato designato dai

colleghi quale fiduciario dell' Associazione Nazionale Magistrati, all'epoca unico

sodalizio rappresentativo dei giudici, che vantava un glorioso passato. Costituita

nel lontano 1909, dopo avere lottato per l'adeguamento dell'amministrazione

giudiziaria alle esigenze di una società civile e democratica, già nel Congresso di

Firenze del 1921 aveva posto il problema dell'autogoverno e della indipendenza

interna della magistratura, ma era stata sciolta nel 1925 dal regime fascista e

solo nel 1945 subito dopo la caduta di esso era stato possibile ricostituirla.

In Sulmona, dove prestavano servizio non più di 8-9 magistrati, quale

delegato dell’Associazione Nazionale Magistrati mi ero limitato a distribuire la

rivista "La Magistratura" ed i comunicati che l’Associazione mi inviava.

A Castel di Sangro e a Terracina i contatti con A.N.M. si erano

addirittura interrotti. In quelle sedi del tutto periferiche giungevano solo gli echi

delle battaglie che venivano condotte per assicurare all'ordine giudiziario il ruolo

attribuitogli dalla Costituzione repubblicana.

Quando io ero entrato in magistratura un primo passo verso

l'indipendenza e l'autonomia era stato compiuto con lo sganciamento del

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trattamento economico dei giudici da quello degli impiegati dello Stato, effettuato

con la legge Piccioni del 1952.

Tutto ciò veniva variamente ricordato qua e là nei gruppi formatisi tra la folla

in attesa del feretro e in particolare, tra gli altri che si trovavano vicino a me, da

due giovani magistrati, che avrebbero poi influenzato notevolmente il corso del la

mia vita associativa: Santo Valenza e Luigi Augusto Rossi, ambedue in servizio

presso il Tribunale Civile di Roma, il primo addetto come me alla sezione lavoro

e il secondo alla terza sezione civile.

Essi, infatti, mi determinarono ad una scelta che era stata già incoraggiata da

Salvatore Giallombardo e che prese a maturare proprio nel corso dell'imponente

suo funerale svoltosi il 5 giugno del 1968.

Dopo la morte di Giallombardo le redini del Gruppo romano di T.P. erano

state prese da Angelo Quiligotti, che aveva assunto la carica di Segretario

Generale dell'Associazione Nazionale Magistrati ed aveva come stretti

collaboratori Carlo Sarzana e Carlo De Gregorio. Della sezione romana di Terzo

Potere facevano inoltre parte, con ruolo attivo, Filippo Verde, futuro Capo

Gabinetto del Ministro di Grazia e Giustizia Giuliano Vassalli e Direttore

Generale ministeriale (da ultimo inquisito per fatti di corruzione) Gaetano

Fiduccia, poi componente del C.S.M. per Unità per la Costituzione; Orazio

Chiavetta ed Alberto Cinque, poi Presidenti di Sezione del Tribunale, nonché il

Pretore Ennio Di Cicco, e con costoro mi mise in contatto Santo Valenza, con il

quale avevo consuetudine giornaliera di lavoro, prestando entrambi servizio nel

1969 presso la Sezione Lavoro del Tribunale di Roma.

I miei rapporti con Santo Valenza erano resi ancora più stretti dal fatto

che, essendo egli scapolo ed occupando un appartamento in un palazzo di Viale

Angelico nei pressi della mia abitazione, avevamo spesso occasione di incontrarci

fuori delle ore di ufficio per scambiarci le idee.

La mia adesione al gruppo di Terzo Potere fu inizialmente timida e poco

attiva, anche perché l'attività di giudice presso la Sezione Lavoro assorbiva quasi

interamente la mia giornata.

Probabilmente la mia attività di sindacalista ebbe inizio il 20 febbraio

1969, giorno in cui un "Comitato di agitazione per la giustizia" composto da

avvocati e magistrati organizzò uno "sciopero bianco" presso il Tribunale Civile e

la Corte di Appello di Roma, che allora avevano sede nel Palazzo di Giustizia di

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Piazza Cavour unitamente con la Corte di Cassazione. La manifestazione era stata

promossa per richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica "sui numerosi

problemi che angustiavano da ormai troppo tempo l'applicazione delle leggi e lo

svolgimento delle udienze soprattutto nella loro fase istruttoria, che, secondo il

Codice di Procedura avrebbe dovuto svolgersi sotto la garanzia della riservatezza

e della segretezza". Gli avvocati manifestanti chiedevano appunto, in applicazione

delle norme di rito, la presenza del cancelliere per la verbalizzazione dello

svolgimento della udienza istruttoria e, nella carenza del personale richiesto,

venne disposto dai magistrati in udienza il rinvio di tutte le cause civili.

Io mi attivai per rendere edotti i giornalisti presenti alla manifestazione delle

gravi carenze di personale e strutturali del Tribunale di Roma, tanto che il giorno

dopo un servizio pubblicato in prima e sesta pagina del quotidiano "Momento

Sera" riportava il mio intervento, che metteva in luce le carenze strutturali e di

personale dell’amministrazione della giustizia negli uffici romani. Fu il primo mio

atto di sindacalista nel senso proprio della parola e cioè di persona che si attiva

per tutelare una categoria di lavoratori alla quale appartiene non solo in ordine al

trattamento economico, ma anche per quanto concerne le condizioni di lavoro, che

per i magistrati sono state in genere e specialmente nei grandi centri come Roma e

Napoli sempre pessime.

In quella occasione i giornalisti poterono constatare che i giudici della

Sezione Lavoro di Corte di Appello tenevano udienza in sei nella medesima aula

(negli altri giorni usata da collegi penali) e alla presenza di almeno cento

persone (avvocati, parti e testimoni), che avevano occupato persino il banco

riservato agli imputati.

La situazione peggiorò quando i giudici furono costretti ad abbandonare il

Palazzo di Giustizia e quelli del Tribunale Civile a trasferirsi dapprima

provvisoriamente presso i locali del Tribunale Penale al Piazzale Clodio e poi nei

locali della Caserma con ingresso dal Viale Giulio Cesare concessi dal Ministero

della difesa.

Fu appunto nella nuova sede del Tribunale Civile di Roma che iniziai

nell'autunno del 1970 a partecipare alle riunioni del gruppo romano di "Terzo

Potere

Il 20 Marzo 1971 l' Assemblea Generale di Terzo Potere,la prima a

carattere nazionale alla quale partecipai, mentre respingeva recisamente l'accusa

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di svolta a destra rivolta alla Corrente dal gruppo uscito dalla stessa nella

assemblea di Napoli e capeggiato da Pasquale Emilio Principe, Antonio Chiavelli,

Michele Coiro ed altri, escludeva la possibilità in quel momento di ogni

collaborazione a livello di Giunta Esecutiva dell'A.N.M. con Magistratura

Democratica, alla quale si faceva l'addebito di perseguire finalità di ordine

politico in contrasto con quelle fissate dallo Statuto dell'Associazione.

Nella mozione approvata dalla grande maggioranza si ribadivano gli

obiettivi di Terzo Potere: integrale abolizione della carriera, temporaneità ed

elettività degli incarichi direttivi, trasformazione dei Consigli Giudiziari in organi

di effettivo governo locale della magistratura e di collaborazione con il C.S.M.,

indipendenza del giudice da ogni ingerenza o pressione anche rispetto a centri di

potere interni o esterni, applicazione delle legge ispirata ai valori costituzionali e

tutto ciò con riferimento all'ordinamento interno. Relativamente alle esigenze

sociali e di giustizia del Paese si sottolineava la necessità della soppressione dei

reati cosiddetti di opinione in quanto incompatibili con la Carta costituzionale, la

revisione del processo del lavoro, la difesa gratuita dei non abbienti, la riforma dei

codici sostanziali e di rito, nonché dell'ordinamento penitenziario.

All'epoca si era costituito il movimento denominato "Giustizia e

Costituzione",che si esprimeva attraverso la rivista egualmente titolata e il cui

maggior esponente era Adolfo Beria d'Argentine, uscito dalla corrente di

Magistratura Democratica da lui fondata con altri, movimento che tendeva alla

aggregazione di dissidenti delle altre correnti ed in special modo di quelli di Terzo

Potere, poi avvenuta con la costituzione della corrente "Terzo Potere- Impegno

Costituzionale", presentatasi come tale alle elezioni del Comitato Direttivo

Centrale del 1973.

Alla fine del 1971, sostenuto da numerosi colleghi, fra cui Santo

Valenza, Luigi Augusto Rossi, Filippo Nicola Zingale, Orazio Chiavetta e

soprattutto dai colleghi provenienti dal Distretto di Milano, il cui esponente,

Adalberto Margadonna, era in contrapposizione con il Segretario della Corrente

Angelo Quiligotti, fui nominato Segretario della Sezione Romana, di cui

Quiligotti faceva parte.

A norma dell'art.104, 6^ comma della Costituzione, i componenti del C.S.M.

non sono immediatamente rieleggibili e Angelo Quiligotti si era ripresentato

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candidato per le elezioni del C.S.M. relative al quadriennio 1972-1976, non

successivo a quello del Consiglio di cui aveva fatto parte.

La riproposizione della sua candidatura era stata fortemente avversata

all'interno di "Terzo Potere", ma inutilmente, in quanto egli, eletto nel 1963 quale

esponente del gruppo siciliano, era riuscito a conquistare la maggioranza nel

Gruppo Romano, sicché era appoggiato dall'intero Collegio elettorale ed inoltre

militava a suo favore il fatto che "Magistratura Indipendente" aveva approvato la

riproposizione della candidatura di Renzo Alessandri, Consigliere della Corte di

Appello di Firenze, anch'egli già componente del C.S.M. 1963 - 1968

(l'Alessandri riuscì poi ad essere eletto per la seconda volta come poi avvenne per

Vladimiro Zagrebescki).

Comunque la tensione all'interno della Corrente, nel momento in cui fui

nominato segretario della Sezione Romana era molto alta, anche perché gli

antagonisti di Angelo Quiligotti, tra i quali primeggiavano Adalberto

Margadonna, leader del gruppo milanese e Armando Olivares, esponente del

gruppo napoletano, non avevano il sostegno della maggioranza del Comitato di

Coordinamento.,

La scissione di Napoli era da molti ascritta alla posizione di Angelo

Quiligotti e la riproposizione della sua candidatura al C.S.M. rischiava di

compromettere ancor più le sorti della Corrente.

La tensione interna, aumentò subito dopo la proclamazione dei risultati della

elezione in prima battuta dei candidati al C.S.M. per i quali avrebbe potuto votarsi

in seconda battuta, dal momento che per tutti i 14 seggi a disposizione delle varie

categorie si classificarono per primi i candidati di "Magistratura Indipendente" e

non poteva essere altrimenti, in mancanza di un accordo fra le altre correnti o con

la stessa "Magistratura Indipendente" per la presentazione di lista mista, dal

momento che il sistema elettorale privilegiava in modo assoluto il gruppo di

maggioranza relativa.

Temendo un risultato favorevole alla coalizione "M.D.-I.C.", che per

l’occasione era stata formata, "Magistratura Indipendente" aveva proposto a

"Terzo Potere", prima delle votazioni del 28 maggio 1972, un accordo in virtù del

quale mediante il ritiro di alcune candidature e la concentrazione dei voti delle

due correnti su nominativi prescelti, si sarebbe conseguita la sicura elezione di 9

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candidati di "Magistratura Indipendente" e di 5 di "Terzo Potere", secondo la

proporzione delle rispettive forze al momento esistenti.

Tale accordo era stato avversato dalla maggioranza del Comitato di

Coordinamento che faceva capo ad Angelo Quiligotti, non tanto perché sperava in

un esito favorevole della votazione, bensì perché sussisteva un grave ostacolo alla

elezione di Angelo Quiligotti, dal momento che per il Collegio elettorale di Roma

e Isole "Magistratura Indipendente" intendeva sostenere, nella stessa categoria dei

Magistrati di Tribunale, per la quale era disponibile un solo seggio, un proprio

candidato (Domenico Pone).

I sostenitori dell'accordo, come me, consideravano del tutto ingiustificata

la ostinata opposizione di Qualigotti, tenuto presente che egli era già stato in

precedenza componente del C.S.M.

Nell'Assemblea del Gruppo Romano tenuta il 6 giugno 1972 l'ordine del

giorno da me presentato per dare mandato ai rappresentanti del Gruppo in seno al

Comitato di Coordinamento di sostenere il raggiungimento di un accordo con

"Magistratura Indipendente" secondo la proposta dalla stessa avanzata raccolse

soltanto l7 voti, mentre ne raccolse 31 quello presentato da Giovanni Micali,

Francesco Maiorano, Carlo Sarzana e Carlo De Gregorio, che respingeva la

possibilità del prospettato accordo e invitava tutti gli aderenti alla corrente a

sostenere col massimo impegno il suo unico candidato Angelo Quiligotti.

Le votazioni del 28 Giugno, come previsto, portarono al Consiglio 13

candidati di "Magistratura Indipendente", ossia la maggioranza dell'organo, ed un

aderente di "Terzo Potere", Giuseppe Grechi, in virtù di un accordo concluso da

Adalberto Margadonna con il Gruppo milanese di "Magistratura Indipendente" in

contrasto con le direttive del Comitato di Coordinamento.

Il risultato delle elezioni del tutto negativo per la Corrente di "Terzo

Potere" segnò la fine del potere di Angelo Quiligotti e la sua sostituzione al

vertice della Corrente con una segreteria di cui io fui chiamato a far parte, insieme

con Augusto Rossi e Filippo Verde nella riunione del Comitato di Coordinamento

di "Terzo Potere" tenuta il 16 Dicembre 1972.

L'Assemblea Generale, convocata presso il Palazzo di Giustizia di Roma

per il giorno 18 marzo 1973, ratificò poi l'operato del Comitato di

Coordinamento, indicò le linee essenziali del programma della Corrente (giudice

monocratico e unico di prima istanza, riforma delle circoscrizioni giudiziarie,

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modifica del processo del lavoro, temporaneità degli uffici direttivi, rotazione in

Cassazione, aumento degli stanziamenti per la giustizia nel bilancio dello Stato,

potenziamento delle strutture giudiziarie modifica delle norme sui reati di

opinione, approvazione di una legge per la difesa dei non abbienti,) ed approvò la

lista dei candidati per la elezione del Comitato Direttivo Centrale

dell'Associazione Nazionale Magistrati, le cui votazioni erano state fissate per la

fine di maggio 1973

I risultati di queste ultime, risentirono della scissione e delle vicende

interne di "Terzo Potere", che, nonostante avesse sin dal 4 Ottobre 1970 governato

l'Associazione unitamente con "Magistratura Indipendente" sulla base di un

programma ricco di riforme (revisione delle norme di diritto penale, di quelle in

materia di lavoro, della procedura penale, dell'ordinamento penitenziario,

dell'ordinamento giudiziario, della posizione della polizia giudiziaria, oltre alla

soluzione dei problemi riguardanti le strutture giudiziarie e l'amministrazione

della giustizia), vide scendere i propri elettori al livello più basso della sua storia

(721 pari al 17,16%), mentre al contrario Magistratura Indipendente, che non

aveva subito scossoni interni, raccoglieva 1.849 voti, mantenendo pressappoco la

stessa percentuale del 1970 (44,04%). "Magistratura Democratica", che aveva già

scontato nelle precedenti elezioni gli effetti negativi della scissione, manteneva le

proprie posizioni con 559 voti, pari al 13,30% del totale, mentre T.P.-Impegno

Costituzionale, che aveva ereditato tutti gli scissionisti delle altre correnti, balzava

al secondo posto con 1.071 voti, pari al 25,51% del totale.

Nel Marzo veniva approvato dalla Commissione Giustizia del Senato in

sede redigente il disegno di legge sulla progressione in Cassazione, ma restava

insoluto il problema relativo all’adeguamento del trattamento economico,

nonostante ripetute sollecitazioni.

Nell'Assemblea Generale Straordinaria dell'A.N.M. tenuta in Roma il 20

Gennaio 1974, "Terzo Potere" prospettò nuovamente la necessità di adozione di

mezzi estremi di lotta, come lo sciopero o l'applicazione rigorosa di norme di

legge (cosiddetto "sciopero Bianco") per indurre il Governo a risolvere il

problema economico e gli altri problemi sul tappeto; ma sia "Impegno

Costituzionale", sia "Magistratura Democratica" si opposero sostanzialmente

all'iniziativa. L'ordine del giorno votato dai soli aderenti di "Terzo Potere" e di

"Magistratura Indipendente" dava mandato alla Giunta di seguire la situazione e al

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Comitato Direttivo Centrale "di proclamare l'astensione dal lavoro dei magistrati,

determinandone tempi e modalità di attuazione", qualora entro il 31 marzo 1974 il

Governo non avesse attuato l'agganciamento previsto dall'art. 3 della legge 28

Dicembre 1970 n.1080, nei sensi già indicati dal Consiglio Superiore della

Magistratura, dal Consiglio di Stato in sede di parere e dallo stesso Ministro di

Grazia e Giustizia, e non avesse adottato in tempi brevi le misure di emergenza

atte a superare la grave situazione di deficienza organizzativa e di carenza di

mezzi degli uffici giudiziari, la soppressione degli uffici giudiziari con scarso

indice di lavoro, l'istituzione del giudice unico di prima istanza, la riduzione dei

componenti dei collegi giudicanti di appello e di Cassazione, l'adeguata

distribuzione del personale ausiliario e l'esonero dei Cancellieri da compiti diversi

da quelli d'istituto.

Lo stesso Comitato Direttivo, riunito in Roma il 26 gennaio 1975, dopo

ampia discussione finì per approvare con 23 voti favorevoli e 7 contrari (6

componenti risultarono assenti) un ordine del giorno presentato da "Terzo Potere"

che, preso atto dell'atteggiamento del Governo e ritenuta la necessità di un

clamoroso atto di protesta, proclamava l'astensione da ogni attività giudiziaria per

i giorni 5 e 6 febbraio 1975.

In quei giorni si verificò un fatto destinato ad avere ripercussioni

positiva per l'agitazione in corso.

Fra i magistrati si era diffusa la sensazione che uno dei più noti

giornalisti, Fabrizio Menghini, capo servizio de "Il Messaggero", che a suo tempo

si era occupato di processi che avevano appassionato l'opinione pubblica (il caso

Montesi, il processo contro Lionello Egidi, il caso Lo Verso, il processo Ghiani-

Fenaroli, ecc.), dando resoconti giornalieri del dibattimento che occupavano intere

pagine del giornale, con un taglio del tutto nuovo che trasformava il cronista

giudiziario in un vero e proprio redattore, non fosse particolarmente ben disposto

verso i magistrati.

Nella Sezione Lavoro del Tribunale di Roma prestava servizio insieme

con me Aldo Modugno, che, prima di entrare in magistratura, aveva svolto

tirocinio di giornalista sotto la direzione di Fabrizio Menghini ed io non mancai di

esternare la predetta sensazione a lui, che ne rese edotto il giornalista.

Fabrizio Menghini, tramite il collega Modugno, mi fece sapere che la

sensazione non rispondeva alla realtà e che egli era disposto a dimostrare ciò,

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sostenendo l'agitazione dei magistrati in corso mediante inclusione nei suoi

articoli ad essa relativi di notizie da me fornite, purché di interesse per l'opinione

pubblica, ed anche di mie dichiarazioni, quale esponente di "Terzo Potere", nei

limiti di spazio consentiti dalla impostazione del giornale.

Ciò mi fu confermato personalmente dal Menghini in un colloquio con lui

avuto ed io approfittai della sua disponibilità, cercando in ogni modo di fornirgli

notizie che potessero sensibilizzare l'opinione pubblica a favore dei magistrati.

Trattandosi di sciopero promosso per motivi economici e consapevole che

il trattamento retributivo dei magistrati era deteriore rispetto a quello di altre

categorie non espletanti attività altrettanto impegnativa e delicata, pensai che

l'unico modo per venire a conoscenza di dati certi era quello di acquistare e

consultare i periodici che si occupavano di bandi di concorso per impieghi, per

alcuni dei quali all'epoca, allo scopo di attirare il maggior numero di concorrenti,

venivano fornite notizie sulle retribuzioni.

Mi capitò di leggere in uno di tali periodici che l'Azienda Tramvie ed

Autobus del Comune di Roma (A.T.A.C.) nei primi giorni del gennaio 1975 aveva

bandito un concorso a 7 posti di Capo Servizio di Seconda classe, indicando la

retribuzione mensile iniziale in lire 845.645 lorde e precisando che sarebbero state

corrisposte 15 mensilità ogni anno con aumenti biennali del 6%. Ciò mi apparve

di estremo interesse a sostegno della nostra agitazione, dal momento che un

magistrato all'inizio della carriera percepiva appena 281.000 lire mensili e che un

Consigliere di Cassazione, con 22 anni di servizio, aveva uno stipendio di 825.000

lire lorde mensili con una sola mensilità aggiuntiva e scatti biennali del 2,50%.

Comunicai ciò al dott. Menghini, che si rese immediatamente conto, da giornalista

esperto qual'era, dell'enorme ripercussione che la notizia avrebbe avuto

nell'opinione pubblica.

Il 30 Gennaio 1975, ad una settimana di distanza dal giorno di inizio dello

sciopero "Il Messaggero" uscì con un articolo su 5 colonne titolato a grossi

caratteri: "Un Capo Servizio ATAC guadagna più di un Consigliere di

Cassazione", contenente anche mie ampie dichiarazioni sui motivi a base

dell'agitazione e sul lungo svolgimento della stessa a causa dell'ambiguo dilatorio

comportamento del Governo.

Il giorno successivo sul quindicinale "Il Posto" lessi un bando di

concorso pubblicato dall'Azienda Tramvie e Filovie del Comune di Firenze per 20

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posti di autista, con indicata la retribuzione annua iniziale di L.4.063.692 lorde,

alla quale potevamo aggiungersi compensi per lavoro straordinario, di per sè

superiore di oltre 430.000 lire a quella onnicomprensiva di un magistrato all'inizio

della carriera (Lire 3.633.068).

Questa volta il rilievo dato alla notizia da "Il Messaggero" fu maggiore,

perché l'articolo fu pubblicato il 1.o febbraio in parte in prima pagina su tre

colonne sormontato dal titolo a grossi caratteri "Il giudice è pagato meno di un

autista" e per il resto in seconda pagina su quattro colonne con un titolo analogo,

Ancora in occasione delle dichiarazioni del Presidente della Repubblica

Leone, secondo cui lo sciopero proclamato dai magistrati sarebbe stato

incompatibile con la posizione costituzionale dell'ordine giudiziario, il servizio

pubblicato da "Il Messaggero" con grande rilievo in prima e seconda pagina

riportava ampiamente mie dichiarazioni con le quali in prima pagina giustificavo

lo sciopero, precisando che esso serviva anche per indurre il potere politico ad

intervenire radicalmente su tutti i complessi problemi dell'amministrazione della

giustizia e relativamente al problema economico fornivo dati riguardanti i

numerosissimi dirigenti di un noto ente pubblico (l'ENEL secondo nota del

redattore) che partivano, senza calcolare recenti aumenti dell'indennità di

contingenza, da un minimo di 850.000 ad un massimo di 3 milioni di lire mensili

per 15 mensilità all'anno, notevolmente superiori a quelle dei Consiglieri di

Cassazione, e ciò "per sfatare la leggenda che nella giungla retributiva dello Stato

e del parastato le retribuzioni dei magistrati fossero le più alte."

Lo sciopero dei magistrati, effettuato nei giorni 5 e 6 febbraio 1975 ebbe

vasta risonanza su tutti i giornali.

Si trattava di un evento del tutto eccezionale, dal momento che per la prima

volta in Italia e nel mondo si verificava uno sciopero di magistrati e per giunta

con una adesione massiccia, calcolata nell'85% degli aderenti alla categoria.

Il 9 febbraio 1975 il Comitato Direttivo dell'Associazione a maggioranza,

con il voto contrario dei componenti del gruppo di Magistratura Democratica e

l'astensione di quelli del gruppo di Impegno Costituzionale e di due rappresentanti

di Magistratura Indipendente, approvava un ordine del giorno presentato da

"Terzo Potere" e da "Magistratura Indipendente", che concordemente ritenevano

non essere state fornite dal Governo concrete garanzie per la adeguata soluzione

del problema relativo al trattamento economico, e deliberava, così come proposto

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dalle due correnti, la proclamazione del cosiddetto "sciopero bianco", a decorrere

dal 1° marzo 1975, invitando i magistrati alla rigorosa applicazione delle norme

processuali e regolamentari.

Lo "sciopero bianco", come io illustrai in un articolo pubblicato su "Il

Messaggero" del 12 febbraio 1975 con il titolo "Sciopero bianco ed opinione

pubblica" costituiva non soltanto un mezzo di pressione sul Governo affinché

mettesse in esecuzione la sentenza del Consiglio di Stato del Novembre 1974; ma

anche a dimostrare all'opinione pubblica che, se l'amministrazione della giustizia

continuava a funzionare, ciò si doveva esclusivamente al sacrificio personale di

gran parte dei magistrati .costretti, per insufficienza di locali, ad espletare nelle

proprie abitazioni il lavoro di studio delle cause e di redazione delle sentenze,

costituente il 70% della loro intera attività lavorativa, non potendo disporre presso

i rispettivi uffici di una stanza e nemmeno di un tavolo al di fuori dei giorni di

udienza (in media tre alla settimana); a servirsi di codici e testi di leggi acquistati

a proprie spese, non fornendoli lo Stato; a fare a meno dell'assistenza del

Cancelliere e dell'Ufficiale giudiziario nelle udienze civili e del Segretario nella

fase dell'istruttoria penale; nonché a stendere di suo pugno gli originali dei

provvedimenti per mancanza del personale ausiliario.,

Lo "sciopero bianco" nelle grandi città come Roma portò alla riduzione del

90% dell'attività dei Tribunali e quasi al blocco delle cause di lavoro (lo stesso

organo della Democrazia Cristiana "Il Popolo" il 16 marzo 1975 dette atto del

rinvio dell'80% delle cause civili al Tribunale di Roma e il 2 aprile successivo che

nel mese di marzo non era stata emessa alcuna decisione nelle cause di lavoro),

tanto da indurre gli avvocati della Capitale ad astenersi dal partecipare a tutte le

udienze penali, civili ed amministrative, in segno di protesta. Esso si protrasse

sino all'11 Aprile 1975, giorno successivo alla emanazione da parte del

Presidente del Consiglio On,le Moro. di un comunicato, con il quale, dopo aver

sentito una delegazione di tutte le categorie che avevano in modo compatto

partecipato all'agitazione, dava atto che egli ed il Ministro Reale avevano

"sostanzialmente aderito alle richieste prospettate in ordine sia ai problemi di

adeguamento delle strutture giudiziarie, sia alla sollecita trattazione parlamentare

dei disegni di legge governativi di estensione alle magistrature amministrative

delle soluzioni accolte per la magistratura ordinaria."

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Il 20 Ottobre 1977 numerosi giornali ("La Repubblica", " Il Messaggero",

"Il Giornale", "il Mattino", "Stampa Sera", "Roma", "Vita" ed altri) dettero grande

rilievo ad un mio studio basato sulla relazione della Commissione parlamentare

d'inchiesta sulla giungla retributiva.

La spinta, se così si può dire, allo studio delle risultanze dell'inchiesta

parlamentare venne dalle notizie pubblicate su alcuni giornali.

Verso la fine di Agosto o i primi di Settembre del 1977 mi trovavo in ferie

a Terracina e rimasi sorpreso nel leggere sulla prima pagina de "Il Tempo", a

grossi caratteri, che i magistrati godevano degli stipendi più alti. In una pagina

interna il servizio raffrontava la retribuzioni dei magistrati con quelle di lavoratori

dipendenti mal pagati, compresi gli impiegati dello Stato. In precedenza, anche in

colloqui avuti con esponenti politici per illustrare i problemi della giustizia e dei

magistrati quale segretario generale di "Terzo Potere", non avevo mancato di far

rilevare la incongruenza e irrazionalità dell'indirizzo che aveva riservato ai

collaboratori diretti del Governo, gli impiegati dello Stato, un trattamento

notevolmente deteriore rispetto a quello dei dipendenti del parastato e degli enti a

partecipazione statale, sul quale possedevo dati precisi, avendo sempre ritenuto

indispensabile per l'espletamento dell'attività di sindacalista essere al corrente del

trattamento degli altri lavoratori.

Al fine di dare una corretta e generale informazione sulla realtà retributiva

italiana e di smentire, quindi, la falsa opinione ingenerata nel pubblico che i

magistrati rappresentassero la categoria meglio retribuita, mi procurai la

Relazione della Commissione d'inchiesta e pazientemente, dal momento che i dati

raccolti riguardavano principalmente gli stipendi minimi, pervenni a stabilire una

graduatoria degli stipendi massimi o maggiormente significativi delle varie

categorie inquisite, ricostruendo per ciascuna la progressione economica sulla

base degli elementi contenuti nella relazione.

La graduatoria vedeva al primo posto con compensi annui per circa 144

milioni di lire l'amministratore delegato dell'Istituto Bancario S.Paolo di Torino,

seguito a breve distanza (oltre 130 milioni annui di lire) dai colleghi della Banca

Nazionale dell'Agricoltura e della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde.

Seguivano nell'ordine i Dirigenti superiori delle predette Banche e gli

Amministratori Delegati del Banco di Roma e della Banca Nazionale del Lavoro

con retribuzioni e compensi annui fra i 110 e i 101 milioni di lire; i Direttori

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Generali della Banca d'Italia e dell'IRI (rispettivamente 92 e 84 milioni), numerosi

dirigenti (IRI, FIAT, MAPOLI-CEN, BANCA D'ITALIA, FINSIDER,

FINMECCANICA) con stipendi compresi fra gli 82 e i 60 milioni annui. Il

Segretario Generale del Senato precedeva con 61.557.000 lire annue i Direttori di

Sede della Banca d'Italia, i dirigenti dell'Olivetti e dell'Alitalia, delle

Assicurazioni d'Italia, della Cassa del Mezzogiorno, della "Fondiaria",

dell'Italsider e della RAI-TV, tutti con stipendi massimi superiori ai 49 milioni di

lire annue. Fra i Direttori dei Giornali figurava al primo posto quello della

"Nazione" con 78.169.000 lire annue, seguito dal collega de "Il Giorno"

(48.126.000), mentre i primi comandanti piloti dell'Alitalia precedevano con 47

milioni e mezzo circa e con differenza di meno di un milione di lire i Consiglieri

del Senato e della Camera dei Deputati.

Il Primo Presidente della Corte di Cassazione, con il grado primo dello

Stato, unico fra i magistrati e i dipendenti dello Stato, raggiunto al termine di una

lunghissima carriere e alle soglie del 70.o anno di età ( per tutti gli impiegati dello

Stato, esclusi i professori universitari, era previsto il limite massimo di età in 65

anni), figurava nella graduatoria con 23,849,000 lire annue, non solo dopo

numerosi dirigenti e direttori di enti pubblici, ma anche dopo i capi servizio della

Cassa del Mezzogiorno (33,6 milioni), i segretari (di concetto) del Senato (32,1

milioni), i capi ufficio della Banca d'Italia (30,8 milioni), i referendari del Senato

(29,8 milioni),i capi servizio della RAI (27,2 milioni), i redattori del giornale "Il

Tempo (27 milioni), i redattori della Rai (26 milioni) e gli archivisti principali

della Camera dei Deputati (25,9 milioni).

Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, grado secondo dello

Stato, era preceduto, nella graduatoria da me formata, con 21.270.000 lire annue,

non soltanto dai Prefetti di 1.a Classe e dai Segretari Generali della Corte

Costituzionale e della Presidenza della Repubblica, ma anche dai coadiutori capo

del Senato appartenenti alla carriera esecutiva (23,58 milioni) e dagli

stenodattilografi capo della Camera dei Deputati ((23,2 milioni), cosi' come i

Consiglieri della Corte di Cassazione (18.195.000) erano preceduti dai commessi

capo del Senato (19,16 milioni), dai piloti Alitalia (18,5 milioni) e dai segretari

Cassa del Mezzogiorno appartenenti alla carriera di concetto.

La pubblicazione della graduatoria, che vedeva impiegati dei vari ruoli

anche esecutivi e persino commessi di enti pubblici, enti costituzionali e società a

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partecipazione statale meglio retribuiti di magistrati di Tribunale, di Appello e di

Cassazione suscitò notevole scalpore nell'opinione pubblica, tanto che essa fu

oggetto di una lunga intervista da parte della giornalista Franca Zambonini,

pubblicata su "Famiglia Cristiana" del 13 Novembre 1977 con il titolo "A

colloquio con il giudice che fa tremare i superpagati - Gli stipendi d'oro e lo Stato

sciupone."

Le conseguenti ripercussioni sull'opinione pubblica costituirono la base ed un

punto di forza per l'azione che l'Associazione Nazionale Magistrati, trascinata da

Terzo Potere, da sempre interprete del malessere dei magistrati, stava per

intraprendere.

Le elezioni del 1977 (13-15 Novembre) non furono particolarmente

favorevoli per la corrente di "Terzo Potere", che, dopo aver conquistato la seconda

posizione in quelle del 1975 con il 23,08% dei voti validi (1.087), passava al terzo

posto con 992 voti (21,07%) dopo "Magistratura Indipendente" (2.012 voti) e

"Impegno Costituzionale" (1.258). Al quarto posto, come sempre, si piazzava

"Magistratura Democratica", migliorando leggermente la propria posizione (da

607 a 670 voti).

La qualifica di Segretario Generale di Terzo Potere, da me rivestita

continuativamente dal 1972 al 1979 nonostante ripetute dimissioni, sempre

respinte all'unanimità, era dovuta, più che alle mie capacità, alla particolare

posizione del gruppo romano da me rappresentato, il terzo per ordine d'importanza

dopo quelli di Napoli e di Milano, i cui esponenti erano rispettivamente Armando

Olivares e Adalberto Margadonna, in quanto esso, assumendo di volta in volta la

propria linea indipendentemente da quella degli altri gruppi garantiva che non si

formasse una maggioranza precostituita in grado di dominare la corrente, che non

presentava all'interno schieramenti ideologici diversificati o contrapposti, dal

momento che essa aveva come punti programmatici qualificanti e in un certo

senso unificanti, non solo la concreta attuazione del principio dell'autonomia ed

indipendenza della magistratura, ma anche e soprattutto il divieto di qualsiasi

azione od opera di collateralismo politico; il che impediva di chiedere o di

ricevere finanziamenti esterni anche indiretti di qualsiasi genere.

La scelta della mia persona come Segretario Generale era, altresì favorita,

dal fatto che io risiedevo in Roma ed avevo, perciò, maggiori possibilità di

svolgere le relative funzioni rispetto a colleghi residenti in altri Distretti. La prova

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di ciò è' data dalla nomina dei precedenti Segretari, Salvatore Giallombardo ed

Angelo Quiligotti, ambedue residenti a Roma.

Il Comitato di Coordinamento di "Terzo Potere" nella riunione dell'8

Novembre 1975 aveva approvato all'unanimità un ordine del giorno con cui

denunciava lo stato di inerzia dei pubblici poteri responsabili di fronte alla grave

situazione della giustizia, che rasentava la completa paralisi ed impediva una

efficace tutela degli interessi della collettività e dei diritti dei cittadini soprattutto

di fronte alla dilagante criminalità. La presa di posizione era stata preceduta dalla

pubblicazione su "Il Messaggero" del 5 novembre 1975 di un mio articolo, quale

Segretario di "Terzo Potere, destinato a fare scalpore e sensibilizzare l'opinione

pubblica, nel quale illustravo la pesante situazione dell'amministrazione della

giustizia a causa dell'arretrato venutosi ad accumulare nel tempo (1.000.000 di

cause civili e 1.800.000 procedimenti penali pendenti allora, di fronte

rispettivamente alle 490.569 e 619.221 pendenti nel 1957); facevo presente che un

potenziamento del 12% di tutti i mezzi all'epoca esistenti, compreso il personale,

sarebbe servito soltanto ad evitare ulteriori aggravamento e che per condurre

l'apparato giudiziario ad una situazione accettabile in un decennio sarebbe occorso

un potenziamento del personale e delle strutture pari al 32%; concludevo, infine,

dopo avere elencato numerose disfunzioni di dominio pubblico, esprimendo il

mio convincimento sulla inesistenza di una volontà politica diretta a risolvere i

problemi della giustizia, come dimostrato dal fatto che gli stanziamenti per la

giustizia nel bilancio dello Stato erano stati progressivamente ridotti dall'1,82%

del 1957 all'1,03% della spesa totale nel 1975, per un ammontare di meno di 300

miliardi, cifra inferiore ai 307 miliardi spesi nel 1974 dalla RAI-TV.

Il settimanale "Panorama" del 27 Novembre 1975 riportò i risultati di un

mio studio, che metteva in evidenza la progressiva inutilizzazione dei giudici

Conciliatori, che nel 1881 avevano trattato il 72,53% del totale dei processi civili,

nel 1931 il 68,41% e nel 1973 soltanto il 7,83% (37.788 cause), e rappresentava la

necessità dell'affidamento ad essi, sull'esempio del giudice di pace anglosassone,

non solo le cause civili di non rilevante valore, ma anche quelle penali di minore

importanza (le contravvenzioni e i reati perseguibili a querela di parte), obiettivo

questo raggiunto solo nell'estate del 1991 con l'istituzione del giudice di pace e la

delega al Governo per l'attribuzione di competenza nella materia penale.

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L'opera di sensibilizzazione interna ed esterna espletata da "Terzo

Potere" non sorti' sul momento l'effetto sperato. Solo il 28 Febbraio 1976 la

Giunta Esecutiva Centrale dell'Associazione si decise, su proposta dei

rappresentanti di Terzo Potere, ad inserire nell'ordine del giorno del Comitato

Direttivo Centrale convocato per il 13 marzo successivo il tema delle misure da

adottare nella persistente inerzia dell'esecutivo rispetto ai problemi di funzionalità

della giustizia.

La minaccia implicita di sciopero indusse il Ministro di Grazia e

Giustizia Bonifacio a convocare subito la Giunta dell'Associazione per illustrare

il disegno di legge predisposto dal suo predecessore Reale ed ascoltare le critiche

ad esso mosse dai magistrati al fine di emendarlo.

Le critiche esternate dai rappresentanti di "Terzo Potere" riguardavano la

mancata previsione di norme assicuranti la democratizzazione delle strutture

giudiziarie, come la devoluzione ai Consigli Giudiziari di poteri fino ad allora

attribuiti ai Capi Ufficio (sorveglianza degli uffici, nomina dei collaboratori del

giudice conciliatore, l'assegnazione dei giudici alle singole sezioni e la

predisposizione di criteri obiettivi per l'automatica assegnazione ai magistrati

delle cause civili e penali) e la temporaneità degli uffici direttivi e semidirettivi.

Soprattutto si sosteneva che tutte le riforme proposte non avrebbero avuto

possibilità di attuazione senza un potenziamento di tutte le strutture giudiziarie

adeguato all'afflusso dei procedimenti e alle pendenze.

La successiva crisi ministeriale e l'indizione di elezioni anticipate per il

rinnovo del Parlamento travolsero il progetto Bonifacio e le speranze dei

magistrati, che nel Congresso Nazionale svoltosi ai Bari nei primi giorni del

maggio del 1976, non poterono che prendere atto della crisi politica in corso e

della mancanza di un valido interlocutore per le loro richieste.

L'Associazione Nazionale Magistrati nel frattempo era riuscita, invece, con

la legge 22 dicembre 1975 n.696 a far modificare le norme riguardanti il

Consiglio Superiore della Magistratura con l'aumento dei componenti elettivi, di

cui un terzo di spettanza del Parlamento secondo la Costituzione, da 21 a 30 e la

introduzione del sistema proporzionale, escludente peraltro dalla ripartizione dei

seggi le liste che non avessero riportato il 6% dei voti.

Tale sistema si rivelò in seguito dannoso per la stessa magistratura

associata, tanto da indurre questa nel 1989 a proporre la modifica delle norme

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riguardanti la elezione, ottenendola peraltro in modo peggiorativo, in quanto

esaltò nell'ambito delle correnti il potere dei gruppi maggioritari e cioè di quelli

dei Distretti giudiziari più importanti dal punto di vista numerico, in grado di

determinare la elezione di candidati della medesima lista con scarsa base locale.

Nell'estate del 1977, convinto che non si potessero avanzare richieste

concrete per la soluzione dei problemi della amministrazione della giustizia senza

avere un quadro generale evolutivo di essa, elaborai in merito uno studio sulla

base dei dati pubblicati dall'ISTAT.

Dall’elaborato, che fu poi da me aggiornato ogni anno (nal 1981 una

relazione aggiornata fu pubblicata nei n. 4 dei "Quaderni della Giustizia" editi del

Ministero) emergeva l’enorme aumento dei procedimenti in attesa di definizione e

l’eccessiva durata delle cause.

La durata media di un processo civile di competenza del Pretore era di

un anno e 6 mesi, che diveniva però di 4 anni in caso di appello e di 7 anni, ove

fosse stato esperito anche il ricorso per Cassazione.

Quella di una causa civile di competenza del Tribunale era in media di 2

anni e mezzo e l'impugnazione dinanzi alla Corte di appello veniva decisa, sempre

mediamente, in 2 anni e 1 mese. I ricorsi per Cassazione in materia civile

richiedevano in media 3 anni per la decisione, sicche' per esperire tutti e tre i gradi

di giurisdizione erano necessari 7 anni e 7 mesi,

La situazione in materia penale si presentava altrettanto grave: i

procedimenti penali pendenti dinanzi ai vari uffici giudiziari del Paese, che erano

619.221 nel 1957, nel maggio 1977 ammontavano a 2.100.000 e si erano quindi

triplicati.

Il disservizio era reso ancor più evidente dal fatto che il numero dei

processi in attesa di definizione maggiormente impegnativi si era raddoppiato

negli ultimi sei anni, essendo passato dai 214.124 del 1977 a 520.000 nel maggio

1977.

Nel Novembre 1977 fui eletto componente del Comitato Direttivo

Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati e il 17 dicembre successivo

entrai a far parte della Giunta Esecutiva composta da soli rappresentanti di "Terzo

Potere." e "Impegno Costituzionale".

La Giunta, si attivò subito con grande impegno, dando inizio ad una

serie di colloqui con esponenti di Governo e con i Capi Gruppo parlamentari.

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Dopo l'apertura della crisi di Governo, nei primi giorni del febbraio 1978,

colloqui furono proseguiti con i Segretari dei partiti della maggioranza e

dell'opposizione da una delegazione della Giunta composta dal Presidente

Buffoni, dal Segretario Generale Mele e da me, sulla base di un documento

programmatico predisposto dalla Giunta,, indicante i problemi irrisolti da sempre

sul tappeto e le varie proposte di soluzione elaborate dalla intera categoria. La

delegazione della Democrazia cristiana, che ci ricevette nella sede di Piazza del

Gesù era composta da Flaminio Piccoli, Forlani, Mario Segni ed altri esponenti.

Quella del Partito Comunista era altrettanto folta e capeggiata da Enrico

Berlinguer. Craxi, invece, ci ricevette da solo nel suo studio di Via del Corso e, a

differenza dei rappresentanti Partiti, manifestò di non conoscere i problemi della

giustizia.

La stretta collaborazione tra le due correnti di Giunta ed il particolare

momento (l'attacco terroristico avrebbe di li a poco colpito l'on.le Moro e spinto i

partiti politici ad una politica di solidarietà nazionale) fecero nascere in alcuni

l'idea della unificazione di tutte le correnti, attraverso la costituzione di un nuovo

gruppo aperto a tutti, idea che più' di un anno dopo doveva sfociare nella

costituzione del cosiddetto "Correntone" o meglio della corrente di "Unità per la

Costituzione", che, finito il clima di unità nazionale, doveva creare altri problemi

alla magistratura associata.

Nel 1978 i magistrati contavano già tre colleghi vittime del terrorismo: il

Procuratore Generale di Genova, Coco, colpito a morte dalle B.R., perché aveva

impedito la liberazione di alcuni appartenenti al Gruppo XXIII Ottobre, ricorrendo

per Cassazione contro il provvedimento di scarcerazione degli stessi emesso al

solo fine di ottenere il rilascio del giudice Mario Sossi di Genova, sequestrato

dalle Brigate Rosse; il sostituto romano Occorsio, ucciso da terroristi neri perché

impegnato in processi contro di loro; e il giudice Palma, addetto alla Direzione

Generale degli Istituti di Prevenzione e di Pena del Ministero di Grazia e Giustizia

dalle Brigate Rosse, perché la politica carceraria da lui perseguita impediva la

creazione di un malcontento indispensabile per creare una rivolta negli

stabilimenti carcerari, come dimostrata dalla successiva uccisione ad opera delle

Brigate Rosse dei colleghi Tartaglione e Minervini, addetti alla stessa Direzione e

condividenti quella politica.

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Del resto è ormai fuori discussione, alla luce di tutti i tragici avvenimenti

collegati con il terrorismo rosso, fra i quali il più emblematico il sequestro Moro,

già verificatosi nel momento in cui si svolse l'Assemblea di Milano e seguito dalla

sua uccisione, che le B.R. pensavano di far esplodere le contraddizioni della

società italiana, eliminando gli uomini che, invece, intendevano ed erano in grado

di mediarle, senza però considerare che la decisione di entrare in clandestinità

dopo i moti studenteschi del 1968 era stata imposta dalla mancanza di sufficiente

consenso da parte di strati della popolazione, indispensabile per il buon esito di

qualsiasi rivolgimento o rivoluzione in tutti i regimi ed ancor più in un regime

democratico come quello italiano.

Nell'Assemblea generale di Milano del 9-11 Aprile 1978 svolsi una

relazione sulla crisi della giustizia, che ebbe ripercussioni su quasi tutti giornali

("Corriere della Sera" dell'11 Aprile e "Il Tempo", "Il Messaggero","Il Mattino",

"La Nazione" ecc. del 10 Aprile),

Walter Tobagi, più tardi anch'egli vittima delle Brigate Rosse, concluse il suo

servizio sul "Corriere della Sera", scrivendo: "Forse questa società si preoccupa

più delle parole e dell'organizzazione del consenso che non del funzionamento di

un servizio fondamentale dello Stato democratico."

La Giunta Esecutiva Centrale dell’AN.M., di cui facevo parte, veniva

ricevuta il 25 Aprile 1978 dal Ministro Guardasigilli Bonifacio, che ribadiva gli

impegni presi il 29 marzo dinanzi al C.S.M. e il 16 Maggio dal Presidente del

Consiglio Andreotti, che si dichiarava pronto ad indire una riunione

interministeriale per discutere i problemi prospettati dai magistrati,

Il Governo, peraltro, si limitava ad adottare provvedimenti nel settore delle

strutture giudiziarie del tutto inadeguati rispetto all'imponenza dei problemi da

risolvere (modico aumento del personale ausiliario e stanziamenti per l'edilizia

penitenziaria), senza nemmeno occuparsi del problema economico, sicché il

Comitato Direttivo Centrale, nella seduta del 29 maggio 1978, si vedeva costretto

a proclamare lo sciopero per i giorni 21 e 22 giugno, in considerazione della

sostanziale inerzia governativa (evidentemente al solo fine di evitare lo sciopero

parlamentari appartenenti alla Democrazi Cristiana avevano presentato ben 3

disegni di legge, che si muovevano sulle linee indicate dall'associazione, ma che

non apparivano destinati all'approvazione, in quanto non sostenuti dalla

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maggioranza di Governo, che, invece, aveva annunciato prossime decisioni non

seguite da fatti).

Lo sciopero veniva attuato in modo compatto (oltre il 90% dei magistrati si

astennero dal lavoro), tanto che tutti i giornali concordemente parlarono di

"completa paralisi della giustizia".

Il 4 Luglio, il Comitato Direttivo, rilevato che le ripetute promesse degli

esponenti di Governo erano rimaste ancora una volta inadempiute deliberava uno

sciopero di tre giorni (dal 19 al 21 settembre) seguito dalla rigorosa osservanza

delle norme di legge e regolamentari (cosiddetto "sciopero bianco")..

L'astensione dal lavoro fu attuata in modo compatto dai magistrati ed io

come nelle precedenti occasioni mi adoperai per illustrare all'opinione pubblica

attraverso i giornali le ragioni che l'avevano imposta (le mie dichiarazioni furono

pubblicate, nell'ambito dei servizi sullo sciopero da "Il Messaggero", "Il Popolo",

il "Corriere della Sera", "il Giorno", "Il Tempo", "Vita", "La Repubblica", "Paese

Sera".

Il 22 Settembre i magistrati iniziarono lo "sciopero bianco" , che fu

sospeso il 28 settembre a seguito di un intervento del Capo dello Stato.

Tuttavia un altro giorno di sciopero fu effettuato il 6 ottobre e dal 16 al

25 ottobre i magistrati attuarono uno sciopero bianco, che ebbe vasta

ripercussione sugli organi di stampa e, suscito le proteste degli avvocati, il cui

Consiglio Nazionale arrivò a sostenere che l’agitazione era incompatibile con la

dignità dei magistrati, il che mi spinse, quale Segretario Nazionale di "Terzo

Potere", ad una immediata dura replica sul giornale "Il Tempo" del 9 Ottobre,

con la quale ripetevo i motivi ormai ben noti dell'agitazione ed evidenziavo il

tentativo delle forze politiche di riversare sui magistrati la responsabilità della

crisi della giustizia solo ad esse imputabile.

Conscio che soltanto con la compattezza della categoria si sarebbe potuto

sperare in un esito positivo della lunga lotta iniziata per portare a soluzione i

problemi della giustizia e dei giudici, fui uno dei primi fautori di una Giunta

Unitaria dell'Associazione e contribuii alla formazione di essa, mettendo a

disposizione di Magistratura Indipendente e di Magistratura Democratica il mio

posto di componente della Giunta.

Essa per la prima volta nella vita dell'Associazione fu costituita del Comitato

Direttivo Centrale del 12 Novembre 1978.

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In una conferenza stampa tenuta il 30 dicembre 1978 per illustrare lo

stato dell'amministrazione giudiziaria a conforto della decisione presa dal

Comitato Direttivo, di cui facevo allora parte (vedi "Il Messaggero" del 31-12-

1978), riassunsi le richieste dei magistrati come segue: l) raddoppio delle spese di

bilancio della giustizia; 2) congruo aumento del numero dei giiudici e degli

ausiliari; 3) soppressione degli uffici giudiziari inutili; 4) aumento della

competenza dei Conciliatori e istituzione del giudice monocratico di prima

istanza; 5) depenalizzazione di molti reati; 6) adeguamento automatico del

trattamento economico dei magistrati al costo della vita.

Per risposta il Governo aveva ridotto per il 1979 gli stanziamenti, previsti per

il 1978 in 556 miliardi di lire, di cui la metà destinata al settore penitenziario.

Il 17 Marzo 1979, alla vigilia di una Assemblea comune di "Terzo

Potere" e "Impegno Costituzionale" tenuta a Roma nell'aula Vittorio Occorsio, per

deliberare sulla unificazione della due correnti, io mi feci promotore di una

iniziativa, condivisa da altri colleghi di "Terzo Potere", che ritenevo costituisse in

quel momento l'unico modo possibile per forzare la situazione: minacciare il

blocco delle elezioni, quale effetto di una astensione dei magistrati da tutte le

attività, comprese quelle elettorali (oltre tremila magistrati in ogni parte d'Italia

erano stati nominati Presidenti di seggio e tutti gli Uffici Centrali dovevano essere

presieduti da Magistrati).

Feci, perciò sottoscrivere da una quarantina di colleghi, fra cui in prima

fila il Segretario Generale dell'A.N.M. Vittorio Mele, un ordine del giorno da me

predisposto nel senso predetto e, prevedendo che esso sarebbe stato avversato

dalla stragrande maggioranza dei partecipanti all'Assemblea, pensai di darlo in

pasto ai giornalisti, che non avrebbero certo mancato di dare ad esso pubblicità,

per le gravi conseguenze che sarebbero derivate ai politici tutti dal blocco delle

elezioni.

La notizia apparve sui giornali di Domenica 18 Marzo ed io la mattina

fui convocato dal Presidente dell'Associazione Ruggiero, svegliato nelle prime ore

del giorno da esponenti del Governo e del Parlamento per avere conferma e

notizie sulla nuova forma di agitazione prospettata, il quale mi rimproverò per

l'iniziativa presa a sua insaputa, tanto più in quanto ero componente del Comitato

Direttivo Centrale. Egli considerava l’iniziativa grave anche perché rischiava di

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compromettere l'approvazione del disegno di legge in corso di esame dinanzi alla

Camera.

Io replicai che, invece, l'iniziativa avrebbe agevolato l'approvazione,

come reso evidente dalla enorme preoccupazione manifestata dagli esponenti dei

partiti più importanti con il rivolgersi a lui di prima mattina.

Il documento fu da me presentato, come preannunciato, all'Assemblea,

che a grande maggioranza, con l’adesione anche del gruppo milanese di "Terzo

Potere" guidato da Adalberto Margadonna, decise di non porlo in discussione con

il pretesto che l'argomento non era all'ordine del giorno.

Tuttavia, l'effetto previsto fu raggiunto, perché i politici, consci che

sarebbe stata sufficiente l'astensione dalle operazioni elettorali anche di una parte

minoritaria della magistratura per porle nel nulla, spinsero l'acceleratore per

l'approvazione rapida della legge. Infatti il giovedì successivo la Commissione

Affari Costituzionali e Giustizia della Camera approvò in sede legislativa uno

stralcio del disegno di legge già approvato dal Senato e precisamente gli articoli

da 20 a 39, riguardanti il trattamento economico e il testo approvato fu

immediatamente restituito al Senato, che il giorno dopo lo approò di notte, in

tempo formalmente utile, essendosi fermati gli orologi a mezzanotte, in quanto

stava per scadere l'attività del Parlamento.

La nuova legge 2 Aprile 1979 n.97, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 6

successivo, realizzava lo sganciamento del trattamento economico della

magistratura da quello della Dirigenza Generale dello Stato, fissando gli stipendi

per le in modo onnicomprensivo e prevedendone, al fine di evitare altre agitazioni,

l'adeguamento automatico ogni triennio nella misura percentuale pari alla

variazione percentuale degli stipendi dei dipendenti dello Stato e di particolari

settori del pubblico impiego verificatasi nello stesso periodo.

Nel clima di solidarietà nazionale creato dall'attacco terroristico allo Stato

maturò la fusione (che io avrei meglio definito "confusione") tra "Terzo Potere" e

"Impegno Costituzionale".

La due correnti, per la verità avevano ben poco in comune, giacché

"Terzo Potere", corrente pragmatista, si era sempre caratterizzato per l'azione

concreta e battagliera a difesa dell'indipendenza della categoria, favorito dalla sua

posizione "laica", estranea cioè alla politica dei partiti, che consentiva di prendere

iniziative, ove necessario per le difesa stessa, contro qualsiasi Governo, fosse esso

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di centro, di centro-destra o di centro-sinistra, mentre "Impegno Costituzionale"

cercava di distinguersi sul piano "culturale" e si muoveva con cautela per evitare

conflittualità interne sempre possibili per la presenza di due "anime", una centrista

e l'altra di sinistra.

Personalmente, pur avendo da sempre propugnato lo scioglimento di

tutte le correnti, dal momento che l'80% delle energie associative veniva assorbito

da lotte interne fra le stesse, in continua competizione per la conquista o il

mantenimento di una posizione di prevalenza nell'ambito associativo, ritenevo un

errore la fusione tra "Terzo Potere" e "Impegno Costituzionale", perché il giuoco a

tre avrebbe inevitabilmente radicalizzato la lotta interna, costringendo il

costituendo "Correntone", che sarebbe divenuto il perno della situazione, ad una

alleanza con "Magistratura Indipendente" ovvero con "Magistratura Democratica"

e, quindi, ad una scelta a destra o a sinistra, per il Governo associativo,

presentandosi le posizioni delle altre due correnti difficilmente conciliabili tra di

loro. Comunque una Giunta unitaria, in situazioni diverse da quella verificatasi in

occasione delle due agitazioni del 1975 e 1978, che avevano coalizzato l'intera

magistratura, una politica necessariamente immobilista, dato il contrasto esistente

tra le correnti sui problemi di fondo.

La presenza di quattro correnti consentiva, invece, un giuoco più

articolato e aderente alle situazioni contingenti, potendo formarsi volta per volta

maggioranze diverse, ma concordi sulla soluzione dei problemi del momento.

Il mio convincimento era stato rafforzato dalla notizia, confidatami da un

esponente della mia corrente, fervido fautore della fusione, che questa era vista di

buon occhio sia dalla Democrazia Cristiana, sia dal Partito Comunista, il che

faceva prevedere, ove la notizia fosse stata rispondente a verità, come non avevo

motivo di dubitare, che ambedue i Partiti avrebbero cercato di avere una mano nel

"Correntone", complicando ancor più le cose.

Gli avvenimenti successivi (incapacità dell'Associazione di affrontare

adeguatamente i problemi sul tappeto e le scissioni nell'ambito delle correnti di

"Unicost" e di "Magistratura Indipendente", con riformazione nel 1990 di una

quarta corrente) mi avrebbero dato ragione.

Comunque la mia linea, che era poi quella del Gruppo romano, non era

condivisa dai Gruppi milanese e napoletano e da altri, sicché in una riunione del

Comitato di Coordinamento fu messa in minoranza e la formazione di un nuovo

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raggruppamento ad iniziativa di "Terzo Potere" e di "Impegno Costituzionale" fu

posta al primo punto dell'ordine del giorno dell'Assemblea Generale della corrente

convocata a Milano per il giorno 8 aprile 1978, antecedente a quello fissato per

l'Assemblea Generale dell'A,N,M,,

Le trattative fra le due correnti, soprattutto per concordare lo statuto, si

protrassero sino al 17 marzo 1979, giorno in cui fu formalmente costituita la

nuova corrente denominata "Unità per la Costituzione".

Fui chiamato a far parte del Comitato Centrale di essa, ma non posi la

mia candidatura a Segretario Generale, per conservarmi ampi margini di libertà,

avendo accettato a malincuore il deliberato della maggioranza di "Terzo Potere".

Appoggiai, invece, la candidatura a quel posto di Luigi Augusto Rossi,

anch'egli esponente del gruppo romano di "Terzo Potere" e contrario alla fusione.

Primo Presidente del "Correntone" fu nominato Salvatore Buffoni, contrapposto

dalla maggioranza ad Adolfo Beria d'Argentine.

20. LA SCHEDATURA

Il 31 Maggio 1979 verso le ore 14 nel parcheggio sotterraneo del Tribunale

Penale a Piazzale Clodio, mentre, terminata l'udienza della IV Sezione, che allora

presiedevo, stavo per raggiungere la mia autovettura, incontrai il sostituto

procuratore della Repubblica Giancarlo Armati, il quale mi comunicò che poco

prima il Procuratore Di Matteo, in una riunione di sostituti, aveva reso noto che il

giorno prima era stato scoperto in un palazzo di Viale Giulio Cesare, proprio di

fronte all'ingresso del Tribunale Civile, il covo ove erano nascosti i brigatisti rossi

Valerio Morucci e Adriana Faranda, che avevano partecipato al rapimento e

all'uccisione dell'on.le Aldo Moro. Aggiunse che, secondo quanto riferito da Di

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Matteo. nel covo erano state rinvenute alcune schede relative a magistrati, fra cui

la mia.

La notizia mi parve del tutto inverosimile, dal momento che io non mi

ero mai occupato di processi relativi a brigatisti rossi e soltanto da un anno

presiedevo una sezione penale, fra l'altro specializzata in processi di diffamazione

a mezzo della stampa. Immediatamente, perciò, mi recai nell'ufficio del

Procuratore della Repubblica ed, avendo appreso che egli si era già allontanato,

raggiunsi, sempre allo scopo di avere una smentita o una conferma, quello del

Consigliere Istruttore Achille Gallucci.

Nella grande stanza, sommersa da carte e fascicoli riguardanti il

sequestro Moro, trovai, oltre al Procuratore, i giudici istruttori Francesco Amato e

Rosario Priore, che si occupavano del processo, e Gallucci, pur premettendo che

ancora non aveva ricevuto dalla Digos i documenti rinvenuti nel covo di Viale

Giulio Cesare, mi confermò l'esistenza di una scheda a mio nome, che aveva

personalmente visto e che era simile alla sua.

Dopo alcuni giorni il collega Priore mi fece vedere un raccoglitore a

spirale contenente 12 schede, tutte riguardanti magistrati romani, fra cui, oltre alla

mia, quelle di Achille Gallucci, di Ferdinando Imposimato, di Rosario Priore, di

Francesco Amato, e di altri che non ricordo, ma che comunque si erano in una

maniera o nell'altra occupati di processi contro brigatisti rossi.

Ricordo che all'interno del frontespizio erano indicati i nomi, con

indicazione dei voti di preferenza conseguiti di tre componenti del Consiglio

Superiore della Magistratura, che avevano prestato servizio presso uffici giudiziari

romani: Carlo Adriano Testi, Guido Cucco e Carmelo Calderone.

La scheda che mi riguardava, oltre a contenere dati personali e familiari,

nonché l'indicazione dell'ufficio ricoperto (Presidente della IV Sezione Penale),

del domicilio e del numero telefonico, era, come le altre, corredata da una

fotografia, ritagliata dal settimanale "PANORAMA" dell'8 Agosto 1978, che

aveva pubblicato una mia intervista da parte del redattore capo Andrea Barberi

sulla situazione della giustizia in Italia dopo la emanazione della legge sull'equo

canone e alla vigilia di una ennesima amnistia. In calce alla fotografia era stata

apposta nel periodico la didascalia: "Sergio Letizia, Segretario di Terzo Potere:

C'è il rischio del tracollo definitivo."

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La schedatura da parte delle Brigate Rosse influì sensibilmente sui miei

comportamenti, soprattutto dopo la uccisione da parte delle B.R. del Colonnello

dei Carabinieri Varisco.

In un primo momento, infatti, non mi posi particolari problemi, all'infuori

di quello relativo alla comunicazione o meno della schedatura nell'ambito

familiare, in quanto ritenevo che il rinvenimento delle schede avesse indotto i

brigatisti rossi a scegliere altri obiettivi, nella supposizione che le persone

schedate fossero sottoposte a particolare sorveglianza.

Ritenni di mettere al corrente della schedatura soltanto il primo dei miei

due figli, allora ventinovenne e scapolo, in quanto, costringendomi l'attività a

trattenermi in ufficio oltre le ore di pranzo, la conoscenza della schedatura

avrebbe continuamente messo in apprensione mia moglie, rendendole la vita

impossibile. Il secondo dei miei figli era sposato ed aveva un figlio di 4 anni, che

spesso veniva portato in casa mia e non era quindi opportuno creare ai suoi

genitori preoccupazioni o indurli a mutare le abitudini, allontanando il nipote della

nonna: spettava a me evitare di esporre il nipotino a pericoli.

Per tali motivi esclusi la possibilità di chiedere una scorta, che avrebbe

portato a conoscenza della parentela (allora erano vivi anche i miei genitori) la

situazione di pericolo in cui versavo.

La morte di Varisco influì notevolmente sulle mie abitudini. Lo conoscevo

dal 1965, quando era un giovane tenente in servizio presso il Palazzo di Giustizia

di Piazza Cavour e, dopo la scoperta del covo Morucci-Faranda, mi aveva riferito

che nello stesso era stata rinvenuta una scheda a lui relativa. Poco tempo dopo mi

aveva confidato che aveva presentato istanza per essere collocato a riposo, in

quanto gli erano precluse ulteriori promozioni ed aveva avuto una ottima offerta

di lavoro a Milano quale Capo del servizio di sicurezza dell'industria farmaceutica

Carlo Erba dal Presidente della stessa Ugo Niutta, che aveva conosciuto nel 1965,

quando con me era giudice della I sezione del Tribunale penale di Roma.

Varisco fu assassinato poco più di un mese dopo la scoperta del covo di Viale

Giulìo Cesare; e ciò mi convinse che il rinvenimento di schede e quindi la

conoscenza da parte della Polizia delle persone prese dI mira dalle Brigate Rosse

non influiva minimamente sulle scelte da esse già effettuate.

Non intendendo, per il motivo già esposto, chiedere una scorta con uso di

autovettura blindata (del resto del tutto inutile, come dimostrato dalla stessa

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uccisione di Moro e dalle altre precedenti e successive, fra cui quella del collega

ed amico Rocco Chinnici), mi determinai ad adottare quelle precauzioni che

avrebbero reso più difficile 1'esecusione di un attentato: il controllo della

situazione sulla strada prima di immettermi in essa uscendo di casa; la percorrenza

di strade diverse da giorno a giorno per raggiungere l'ufficio con la mia

autovettura, talvolta alternando 1'uso dì questa con percorso a piedi; la scelta di

orari sempre diversi per uscire e rientrare nella mia abitazione. Inoltre, senza dare

spiegazioni, avevo pregato il portiere di segnalarmi la presenza di persone o di

veicoli sospetti in prossimità del palazzo ove abitavo.

Non sono mai riuscito a capire perché le Brigate Rosse avessero preso di mira

la mia persona, dal momento che ero 1'unìco degli schedati dalla colonna romana

che non aveva preso parte a processi contro terroristi e che la schedatura non

poteva essere stata determinata dalla mia attività associativa, perché a Roma vi

erano persone molto più rappresentative non schedate, come ad esempio il

Presidente ed alcuni componenti della Giunta dell'A.N.M. o il Segretario della

Corrente allora maggioritaria.

Poco più di un anno e mezzo dopo il 30 Gennaio 1982 nel covo Senzani a

Roma, in Via Ugo Pesci, fu rinvenuta un’altra scheda redatta il 14 giugno 1978,

sulla quale era stata apposta la medesima fotografia della scheda rinvenuta nel

covo di Viale Giulio Cesare.

Nella stessa, in gran parte dattilografata come la prima, ero stato inizialmente

indicato come membro della Giunta dell’Associazione Nazionale Magistrati e

Segretario di Terzo Potere, con la seguente annotazione: “in occasione dello

sciopero di giugno dei magistrati indetto dall’associazione dichiara che i salari

sono fermi dal 1972 e che il magistrato guadagna meno di altre categorie».

Tale annotazione porterebbe a ritenere che la schedatura fosse stata

determinata dalla mia attività di sindacalista.

Una annotazione successiva a caratteri maiuscoli effettuata con penna

riportava la targa di una macchina Ascona bianca vista «davanti al Carcere».

Io, per la verità, una sola volta ero stato al Carcere di Regina Coeli ed a bordo

di una autovettura non mia per raccogliere, quando ero Presidente della IV

Sezione penale, le dichiarazioni di un imputato riguardanti un processo il cui

dibattimento era in corso dinanzi alla Corte di Assise.

Il fatto che in quella unica occasione non solo era stata individuata la mia

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persona, ma era stata addirittura presa la targa della autovettura rimasta all'esterno

del carcere, da me usata una sola volta e che non mi apparteneva, portava a rite-

nere inequivocabilmente, dato che nessuna cella affacciava sulla via ove sostava

1'autovettura, che la segnalazione della mia presenza alle B.R. era stata effettuata

da persona addetta al Carcere.

Nella scheda del covo «Senzani» erano altresì annotati il mio passaggio a

Presidente di Sezione del Tribunale di Roma e quello dall'A.N.M. al Sindacato

Nazionale Magistrati, il che dimostrava che 1'interessamento dei terroristi verso la

mia persona non era cessato nonostante il decorso degli anni, come confermato da

un successivo rinvenimento in un diverso covo di altra scheda, della quale non mi

curai, dopo avere appreso da un collega che istruiva processi nei confronti di

brigatisti rossi che essi erano soliti conservare in luoghi diversi tre schede della

medesima persona, reintegrando sempre il numero con altra copia in caso di

rinvenimento di una di esse.

21. IL SINDACATO NAZIONALE MAGISTRATI

L'esperienza negativa della contrapposizione interna delle correnti, con la

inevitabile perdita di incisività all'esterno per effetto delle lotte interne,

contrapposizione che derivava dalla diversa visione delle soluzioni in ordine ai

problemi generali riguardanti la politica giudiziaria a causa della differente

posizione ideologica, portò alcuni componenti di «Terzo Potere», fra cui

principalmente Armando Olivares, Guido Cucco, Luigi Augusto Rossi e me, a

considerare la opportunità di creare un organismo che si occupasse

esclusivamente di problemi di carattere sindacale (tutela delle condizioni di lavoro

dei magistrati e del loro trattamento economico) e fosse così in grado di aggregare

tutti i magistrati intorno a tali problemi, senza contrapposizioni interne

diversamente da quanto accadeva nell’interno dell'Associazione Nazionale

Magistrati a causa della caratterizzazione ideologica delle correnti..

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L'adesione si preannunciava massiccia, senonché da parte di coloro che

avevano creato intorno a loro veri centri di potere si iniziò a porre barriere, non

solo stabilendo incompatibilità di appartenenza contemporanea ad una corrente e

al «Sindacato», ma rappresentando anche la possibilità che non potessero trovare

accoglimento presso il Consiglio Superiore della Magistratura, in mano alle

Correnti, le istanze degli aderenti al Sindacato.

Per prima si mosse «Unicost», approvando, ancor prima della costituzione del

Sindacato ed allo scopo di impedirla, un documento in cui si stabiliva che sarebbe

stato espulso dalla corrente chi avesse osato aderire allo stesso. In quella

occasione un esponente della Corrente, da lui nove anni più tardi abbandonata in

occasione della scissione detta dei «Verdi» (per il colore della carta su cui fu

redatto il documento programmatico del nuovo movimento schierato a sinistra),

ebbe a pronunciare nei miei confronti ad alta voce in tono perentorio le parole: «O

ci stai o te ne vai.»

Confesso che fu quell'aut-aut a determinarmi a costituire con gli altri, che ho

prima indicati, il «Sindacato Nazionale Magistrati» nel marzo del 1980, tanto che

tempo dopo, al collega predetto che mi aveva ad alta voce appellato come il

fondatore del Sindacato, replicai che il fondatore era sostanzialmente lui, dato che

era stato il suo aut-aut, tradotto subito dopo in un ordine del giorno approvato in

una riunione protrattasi sino a tarda notte, a determinare la mia scelta.

Io da quel momento non partecipai più alla vita della corrente, che, tuttavia,

nonostante il deliberato, non adottò, a quanto mi risulta, un formale

provvedimento di espulsione dalla Corrente.

Verso la fine del marzo 1980 un piccolo gruppo di magistrati proveniente

dalle diverse correnti dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, fra cui io,

Armando Olivares, ex “Terzo Potere” ,che era stato per anni il Segretario

Generale dell’Associazione ed aveva fatto parte del Consiglio superiore della

Magistratura nel quadriennio 1976-1980; Guido Cucco, ex “Terzo Potere”, già

componente dello stesso Consiglio per il quadriennio anzidetto; Tullio Grimaldi,

che era stato un esponente di Magistratura Democratica; Pasquale Emilio

Principe, uno degli uomini più rappresentativi di “Impegno Costituzionale”; e

Giovanni Vitrò, che aveva fatto parte di “Magistratura Indipendente”; decisero di

promuovere la costituzione di un organismo sindacale estraneo all’Associazione

Nazionale Magistrati soprattutto al fine di combattere le degenerazioni verificatesi

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in quest’ultima e soprattutto quella correntizia caratterizzava da contrapposizioni

ideologiche, che si erano risolte in una vera e propria opera di collateralismo

politico.

Il manifesto del gruppo apparve nel primo numero della rivista “Il Giudice”

pubblicato nell’aprile del 1980 sotto il titolo “Perché il Sindacato”

.L’importanza dell’iniziativa, che purtroppo non ebbe seguito dopo il

collocamento a riposo mio, di Armando Olivares e di Guido Cucco, appare

indiscutibile oggi, a distanza di oltre venti anni, giacché la contrapposizione

ideologico-politica nell’ambito dell’Associazione Nazionale Magistrati, che

l’aveva determinata, si è progressivamente spostata sul piano giudiziario sino a

costituire, a seguito della caduta delle ideologie, un elemento importante della

lotta politica, contrassegnata da denunzie penali, inchieste a tappeto e avvisi di

“garanzia” nei confronti dei massimi esponenti di ogni partito, con conseguenti

accuse reciproche e strumentalizazione dei processi..

Il 16 Giugno 1980 l’assemblea del Sindacato mi nominò Segretario

Generale Aggiunto, unitamente con il collega Giampiero Serangeli di Milano,

mentre Armando Olivares assunse la carica di Segretario Generale e Raffaele

Raimondi quella di Direttore del nostro periodico “Il Giudice”.

Nel settembre del 1980 il Sindacato iniziò una battaglia giudiziaria in difesa

del trattamento economico dei magistrati sotto lo slogan della “equiparazione agli

equiparati”.

Io ero venuto a conoscenza tramite un collega del Ministero di Grazia e

Giustizia, che un Consigliere della Corte dei Conti, rientrato nella magistratura

ordinaria con la qualifica di Magistrato di Cassazione, aveva conservato il miglior

trattamento da luì goduto nella magistratura speciale ed ammontante a L.

30.490.226 annue lorde, mentre il Primo Presidente della Corte di Cassazione

percepiva un importo inferiore (L.30.311.258). Il Presidente (grado 2° dello Stato)

e i Presidenti di Sezione della Corte deí Conti (grado 3°) percepivano

rispettivamente, secondo calcoli da me effettuati, poco meno di 8 milioni e di 5

milioni dí lire annue più del Primo Presidente della Corte di Cassazione (grado

1°).

Tutto ciò nonostante una legge del 1979 avesse stabilito per il Primo

Presidente della Corte di Cassazione uno stipendio maggiore di circa 2 milioni di

lire annue rispetto a quello al Presidente della Corte dei Conti e fissato per tutti i

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magistrati ordinari, militari, contabili ed amministrativi lo stesso trattamento

economico a parità di qualifica. solo a seguito di indiscrezioni del tutto parziali

carpite dal collega Luigi Augusto Rossi nell'ambito del Circolo della Corte dei

Conti, di cui era socio, e di uno studio della normativa pregressa riguardante i

magistrati della Corte dei Conti riuscii ad individuare il fondamento giuridico del

loro miglior trattamento.

Trovai un valido motivo giuridico a sostegno di un ricorso in via

giurisdizionale, prescindendo dalla chiara incostituzionalità della sperequazione

verificatasi, nella legge del 1979 e raccolsi 1'adesione di 59 magistrati, quasi tutti

in servizio presso il Tribunale civile di Roma per promuovere un giudizio al fine

di ottenere 1'equiparazione del trattamento dei magistrati a a quello della Corte

dei Conti dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale (T.A.R.) del Lazio, che

accolse la domanda con decisione n. 519 emessa il 1° luglio 1981 dalla prima

Sezione.

Nei primi giorni dell'ottobre 1982 ben 1.325 magistrati appartenenti ai vari

distretti d'Italia, oltre al gruppo iniziale dei 60 di Roma avevano proposto ricorso

dinanzi al T.A.R. del Lazio; e ciò nonostante la decisa opposizione dei vertici del-

1'A.N.M. e dei rappresentanti di questa al Consiglio Superiore della Magistratura,

i quali erano giunti a «valutare come negativa sotto il profilo istituzionale la

soluzione del problema in via giudiziaria» (circolare n. 665 del 7-10-1982) ed a

sostenere, quando già 282 magistrati ordinari ed amministrativi avevano ottenuto

in primo grado da quattro diversi T.A.R. decisioni favorevoli alla equiparazione

dei trattamenti economici, una soluzione legislativa del problema alla vigilia della

discussione dei ricorsi in appello proposti dall'Avvocatura dello Stato, fissata per

il 16 novembre 1982 dinanzi al Consiglio di Stato.

L'iniziativa dell'Associazione sortì 1'effetto di far rinviare la discussione degli

appelli dinanzi al Consiglio di Stato prima al 9 aprile 1983.e poi al 26 aprile

1983, data in cui la IV Sezione del Consiglio di Stato, impossibilitata a concedere

altri rinvii per 1'ormai incontestabile fine dilatorio del Governo e per la decisa

opposizione dei ricorrenti, finiva per rimettere la decisione, con ordinanza del 26

maggio 1983 all'adunanza plenaria del Consiglio di Stato.

In tal modo un ricorso deciso in sei mesi in primo grado si trascinava per oltre

due anni, di rinvio in rinvio, in grado di appello.

Il 16 dicembre successivo I'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato

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emetteva una decisione sostanzialmente confermativa di quella di primo grado.

Quattro giorni dopo il Sindacato chiedeva al Governo la estensione del

giudicato a tutti i magistrati e, in risposta, il Governo proponeva tramite

1'Avvocatura dello Stato nel febbraio del 1984, alla scadenza del termine per il

passaggio in giudicato, un ricorso per Cassazione, deducendo pretestuosamente

un'inesistente difetto dì giurisdizione, unico motivo ammesso nella sede adita.

Il 12 marzo 1984, si spegneva in Roma, stroncato da un male inesorabile,

1'amico fraterno Luigi Augusto Rossi, che aveva partecipato attivamente a tutte le

battaglie in difesa della magistratura condotte da Terzo Potere e dal Sindacato, e

due mesi dopo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, non aderendo alla

ennesima istanza di rinvio dell'Avvocatura dello Stato dichiarava inammissibile il

ricorso proposto dal Governo contro la decisione del T.A,R. di Roma. Confermata

in appello..

Senonché in piena estate, secondo gli auspici dell'A.N.M., veniva approvata

la legge 6 agosto 1984 n. 425, che, stabilendo un nuovo sistema dí determinazione

degli stipendi, dichiarava estinti i giudizi in corso e disponeva il riassorbimento

degli importi attribuiti dalle decisioni passate in giudicato.

La legge, approvata in fretta, dopo confusi compromessi tra le forze politiche,

unite tuttavia dall’intento di eludere il giudicato, finì tuttavia a distanza di poco

tempo per attribuire ai magistrati un trattamento superiore a quello riconosciuto

dal giudicato e ciò per effetto di un meccanismo legale ignorato dal legislatore,

che collegato al nuovo sistema retributivo produsse effetti non voluti.

La battaglia giudiziaria, di cui io fui iniziatore nel 1980, portò nel 1986 alla

mia elezione a componente del Consiglio Superiore della Magistratura nella lista

del «Sindacato Nazionale Magistrati»., essendosi i magistrati resi conto che senza

1'azione giudiziaria, non vi sarebbe stata la legge produttiva di effetti migliorativi

in ordine alla retribuzione.

22 IL PUBBLICISTA

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Verso la fine del 1977 entrò in funzione la prima stazione televisiva

romana con il nome di “G:B:R:” e Fabrizio Meneghini, redattore capo de “l

Messaggero”, che avevo conosciuto nel febbraio 1975 tramite il collega

Modugno, come in precedenza esposto e che aveva maturato l’età per andare in

pensione, pensò che avrebbe potuto, creandone la seconda, continuare la propria

attività come direttore di giornale televisivo.

Ricordo che un giorno mi telefonò pregandomi di accompagnarlo a

vedere come funzionava “G.B.R.”, che all’epoca trasmetteva i propri programmi,

per la verità molto limitati, da un locale scantinato dell’albergo “Hilton” di Roma

mediante un’antenna installata sul Monte Guadagnolo nei pressi di Tivoli..

Ci recammo nei locali della “G.B.R.”, di cui era titolare Giovanni Del

Piano, proprietario di un grande negozio di elettrodomestici in Via del Tritone,

mentre provavano due annunciatrici, una delle quali sarebbe divenuta la seconda

moglie di Del Piano.

In un primo momento Fabrizio Menghini intendeva installare la sede

della propria televisione in Tivoli, vicina al Monte Guadagnalo, e nei locali di un

albergo, ma poi, resosi conto delle difficoltà logistiche ed anche del costo elevato

dell’affitto, scelse un appartamento in Via della Camilluccia a Monte Mario.

Ormai mi aveva scelto come consulente e lo accompagnai nelle varie

peregrinazioni per la scelta dei locali e dei macchinari e per l’installazione

dell’antenna, poi trasferita sul Monte Cavo.

L’emittente denominata “Teletevere” iniziò le sue trasmissioni nel

gennaio del 1978. Fabrizio Meneghini, oltre a dirigerla, redigeva e leggeva il

telegrionale ed inoltre teneva un rubrica dal nome “I Cittadini e la legge”, che egli

aveva creato presso “Il Messaggero”.

Egli mi volle partecipe della rubrica, che finì per affidare a me, in quanto

le altre incombenze lo tenevano occupato per tutto il giorno. Non avendo molto

tempo a disposizione ogni lunedì mattina registravo i miei interventi, della durata

di circa mezz’ora, che venivano trasmessi alle ore 13 e alle ore 22 il lunedì stesso

e il mercoledì. I programmi di “Teletevere” erano in gran parte culturali e curati

da amici del Menghini, in parte giornalisti, tutti impegnati a titolo gratuito, dal

momento che l’emittente aveva introiti molto limitati.

Per quattordici anni sino all’inizio del 1992, anno in cui cessai dal servizio

per dimissioni, avendo compiuto 40 anni di permanenza nella magistratura, curai

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la rubrica televisiva “I cittadini e la legge” affrontando ogni volta, a braccio, un

tema diverso, che andava dalla prospettazione di un particolare problema di diritto

civile o penale a quella di problemi ancor più generali, come quelli attinenti alla

Costituzione, ai sistemi elettorali, alla criminalità organizzata nazionale e

internazionale, al bilancio dello Stato, al fisco e alla evasione fiscale, alla droga e

all’A:I;D:S:.

Le numerose trasmissioni da me effettuate nei primi anni legittimarono la mia

iscrizione nell’Albo dei Pubblicisti dell’Ordine dei Giornalisti di Roma, avvenuta

il 14 luglio 1980 e che mi consentì poi, andato in pensione, di dirigere per alcuni

anni l’organo dell’Associazione Nazionale dei Magistrati ordinari a riposo

“Magistrati d’Italia.”

Alcuni dei problemi affrontati mi dettero lo spunto per scrivere dei libri come

“La circolazione dei veicoli e dei natanti”, una rassegna di giurisprudenza, “Il

pianeta Droga”, “Mafia Story” e monografie sulla situazione della giustizia,

nonché sull’A.I.D.S.

23 IL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA

Le elezioni della componente togata del Consiglio superiore della

Magistratura per il quadriennio 1986-1990 si svolsero con il sistema

proporzionale nei primi giorni del febbraio 1986. Le liste concorrenti erano

quattro: Unità per La Costituzione, che ebbe il 41% dei voti e 9 seggi;,

Magistratura Indipendente, che scese dal 41 al 34% dei voti ed ebbe 7 seggi;,

Magistratura Democratica, che raggiunse il 18% dei voti, conquistando 3 seggi e

il Sindacato Nazionale Magistrati, che superò la soglia minima del 6% il cui unico

seggio fu a me attribuito per avere avuto il maggior numero di preferenza gfra i

candidati della lista.

Furono eletti giudici che avevano una certa notorietà per avere avuto parte in

processi importanti, come Nino Abbate, giudice a latere nel processo Moro;

Giancarlo Caselli, che aveva istruito a Torino il processo contro Edgardo Sogno,

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arrestato e poi assolto; Pietro Calogero, che aveva istruito processi contro

l’Autonomia padovana, incriminando fra gli altri Toni Negri, e Vincenzo Geraci,

che aveva fatto parte del pool antimafia di Palermo.

Oltre ai venti componenti eletti dai magistrati ed ai tre di diritto (l’allora

Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, Giuseppe Tamburino quale Primo

Presidente della Corte di Cassazione e Carlo Maria Pratis Procuratore Generale

della stessa) facevano parte del Consiglio i dieci componenti eletti dal Parlamento

e precisamente Nicola La Penta, Democristiano, avvocato, ex senatore presidente

dell’Antimafia; Cesare Mirabelli, Democristiano, ordinario dì diritto ecclesiastico

a Roma; Guido Ziccone, democristiano, avvocato in Catania; Erminio

Pennacchini, Democristiano, avvocato, ex deputato, ex sottosegretario; Massimo

Brutti, Comunista, ordinario di diritto romano a Roma, ex consigliare regionale;

Carlo Smuraglia, Comunista, avvocato, ordinario di diritto del lavoro a Milano;

Mario Gomez D’Ayala, Comunista, avvocato a Napoli; Mauro Ferri, Socialista,

cx deputato e segretario del PSDI; Fernanda Contri, Socialista, avvocato in

Genova; e Silvano Tosi, liberale, ordinario di diritto costituzionale a Firenze,

Il 12 marzo 1986, alcuni giorni dopo l’insediamento avvenuto in Quirinale

dinanzi al Presidente della Repubblica, con contemporaneo saluto ai componenti

uscenti, si svolsero le elezioni del Vice Presidente del Consiglio, che

sostanzialmente avrebbe dovuto dirigerlo. Nella prima votazione ben 19

componenti si astennero ed il più votato fu Cesare Mirabelli, a favore del quale

votarono i 7 componenti di Magistratura Indipendente. Nel secondo scrutinio, che

richiedeva per l’elezione i voti di due terzi dei componenti, i 9 voti di Unità per la

Costituzione si indirizzarono verso il democristiano Nicola La Penta. Il terzo

scrutinio richiedeva per l’elezione la maggioranza dei votanti.

Io, isolato, cercavo di rendermi conto delle intenzioni di voto.Era chiaro che i

7 componenti di Magistratura Indipendente avrebbero continuato a votare per

Cesare Mirabelli, come avevano fatto sino ad allora. I 9 componenti di Unità per

la Costituzione in una riunione di gruppo svoltasi poco prima del terzo scrutinio

avevano deliberato di votare compatti per il candidato Carlo Smuraglia,

comunista. indicato dalla maggioranza di essi, benché fra loro vi fossero alcuni

democristiani.

Il primo ad iniziare la votazione della votazione, che avveniva per ordine

alfabetico, fu Bartolomeo Lombardi, estratto a sorte, che mi seguiva, per cui fui

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l’ultimo a votare e in quel momento ero consapevole che la mia scelta sarebbe

stata determinante, perché, ad eccezione dei due componenti socialisti (Ferri e

Contri), che avevano apertamente dichiarato la lo astensione, gli altri, secondo il

mio calcolo, si erano divisi esattamente a metà fra il democristiano Cesare

Mirabelli e il comunista Carlo Smuraglia. Ritenni di votare per Mirabelli in

considerazione del fatto che Presidente del Consiglio era Francesco Cossiga,

democristiani, e non poteva essere scelto come suo vice, in pratica il suo sostituto,

un comunista, perché si sarebbe creata nell’ambito del Consiglio una situazione di

permanente conflittualità.

La mia valutazione si dimostrò esatta non soltanto riguardo ai voti che erano

stati espressi prima di me (fu eletto Mirabelli con 16 voti contro i 15 attribuiti a

Smuraglia), ma anche riguardo al rischio della conflittualità, giacché specialmente

verso la fine della consiliatura si verificarono notevoli contrasti tra il Presidente

Cossiga ed alcuni componenti del Consiglio vicini all’area comunista.

Il 26 marzo successivo furono formate con decreti del Presidente della

Repubblica le varie commissioni, che avevano il compito di istruire le pratiche e

fare proposte al plenum del Consiglio per la loro approvazione. Ogni

Commissione, all’infuori della Commissione speciale per la Riforma, che aveva il

compito di elaborare proposte relative alla riforma dell’ordinamento giudiziario e

di esprimere parere in ordine ai disegni di legge riguardanti quella materia

presentati al Parlamento e della Commissione Disciplinare,, erano composte da sei

membri, di cui 2 scelti fra i componenti laici e quattro tra i componenti togati, che

in ogni caso rappresentavano le tre correnti dell’.Associazione Nazionale

Magistrati. Per ogni Commissione venivano nominati un Presidente e un Vice

Presidente, che variavano ogni anno come i componenti delle Commissioni, ad

eccezione di quelli della Commissione per la Riforma, che erano 15, me

compreso,.e della Sezione Disciplinare,. che erano 9.

La prima commissione si occupava di esposti a carico di magistrati di carriera

ed onorari, proponendo al plenum per i primi il trasferimento per incompatibilità

ambientali ovvero la trasmissione degli atti ai titolari dell’azione disciplinare

(Ministro di Grazia e Giustizia e Procuratore Generale presso la Corte di

Cassazione) oppure l’archiviazione e per i secondi la destituzione o

l’archiviazione. La seconda Commissione si occupava di invalidità per cause di

servizio e di autorizzazioni ad assumere incarichi extragiudiziari, la terza di

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assegnazioni di sedi e di trasferimenti, la quarta di nomina e decadenza di giudici

onorari. Vi erano, poi, oltre alla Commissione Riforma .ed alla Sezione

disciplinare, la Commissione per il conferimento degli uffici direttivi, la

Commissione per gli Uditori Giudiziari, che si occupava dei concorsi per

l’accesso in magistratura, della nomina delle commissioni di esame, del tirocinio

degli uditori e del conferimento ad essi delle funzioni giudiziarie con

contemporanea assegnazione delle sedi secondo criteri precostituiti che tenevano

conto della posizione nella graduatoria in esito agli esami di ammissione, e altre

Commissioni interno (per il Regolamento, per l’amministrazione e contabilità e

per il bilancio)..

Io fui nominato Vice Presidente della IV Commissione e componente della

Commissione Riforma, nonché di quelle per il Regolamento Interno

Amministrazione e Contabilità e per il Bilancio.

I lavori delle Commissioni si svolgevano generalmente nei giorni da lunedì a

mercoledì per l’intera giornata,.fatta eccezione dell’interruzione per il pranzo e

spesso si protraevano oltre le ore 20. Il giovedì era dedicato alla riunione del

plenum e nella mattinata del venerdì si svolgevano i lavori della Sezione

Disciplinare e delle Commissioni idi cui non facevano parte i componenti di essa.

Molti componenti del Consiglio partivano il pomeriggio del venerdì per

raggiungere la loro residenza abituale e facevano ritorno il lunedì mattina al

Palazzo dei Marescialli, cosiddetto perché durante il regime fascista era stato

destinato a sede di coloro che rivestivano nell’Esercito il più alto grado fra i

generali (Maresciallo d’Italia)sede.

Ogni componente del Consiglio aveva a sua disposizione una stanza con

telefono e segreteria telefonica, nonché una automobile blindata (inizialmente

un’Alfa Romeo 2000) condotta da un graduato della Polizia Penitenziaria e quelli

che risiedevano fuori Roma disponevano di altra automobile blindata nel Comune

di residenza.

L’11 Aprile 1986, dopo due giorni di dibattito il Consiglio deliberò

all’unanimità la ricostituzione nell’ambito della Commissione Riforma di un

Comitato “Antimafia” sulla scia di quello istituito il 15 Settembre 1982 per

coordinare le iniziative e l’impegno contro la mafia organizzata, la camorra, la

‘ndrangheta, il terrorismo e qualsiasi tipo di criminalità organizzata.:Il comitato,

del quale fui chiamato a far parte, era composta da 12 membri del Consiglio e di

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esso fu nominato Presidente Carlo Smuraglia del Partito Comunista, che era stato

l’antagonista di Mirabelli per la nomina a Vice Presidente del Consiglio

Superiore.

Il primo scontro fra le varie componenti del Consiglio avvenne il 22 Maggio

1986 in occasione della nomina del Procuratore della Repubblica di Marsala. A

quel posto concorreva Paolo Borsellino, giudice istruttore a Palermo, che si era

occupato di processi di mafia, ma avevano presentato domanda anche tre

magistrati più anziani di lui, fa cui Alcamo, Presidente di Sezione penale proprio a

Marsala. A favore di Borsellino si schierarono i sette componenti di Magistratura

Indipendente, Giancarlo Caselli, i tre componenti comunisti, i democristiani

Pennacchini e Ziccone, i due magistrati della Cassazione componenti di diritto, il

liberale Tosi e il socialdemocratico Ferri. Votarono contro tutti gli altri, ad

eccezione di me, del vice-presidente Mirabelli, di Giuseppe Borré e di Elena

Paciotti, che ci astenemmo, dal momento che era stato scavalcato un collega con

maggiori titoli ed anzianità.

Tre casi dibattuti, fra gli altri, in seno al Consiglio Superiore interessarono in

modo particolare la stampa e l’opinione pubblica: il caso riguardante la copertura

del posto di Consigliere Istruttore di Palermo, al quale aspiravano Antonino Meli

e Giovanne Falcone; il caso riguardante le dichiarazioni di Borsellino circa un

preteso smantellamento del pool antimafia di Palermo da parte del Consigliere

Istruttore Meli; il caso degli anonimi attribuiti al sostituto procuratore delle

Repubblica di Palermo Alberto Di Pisa.

Il caso Meli-Falcone

Il plenum del 19 Gennaio 1988 si occupò della copertura del posto di

Consigliere Istruttore preso il Tribunale di Palermo.

La Commissione Uffici Direttivi aveva proposto a maggioranza per tale posto

il dott. Antonino Meli, mentre la minoranza si era espressa per il dott. Falcone.

La lunga carriera del Dott.Meli aveva avuto inizio nel lontano 1961.

Dopo aver esercitato le funzioni di sostituto procuratore presso la procura di

Varese, era stato pretore e giudice a Varese, Pretore a Trapani e a Palermo,

giudice del tribunale di Palermo dal maggio 1964 al luglio 1970, presidente di

sezione del tribunale di Caltanissetta successivamente e presidente di sezione

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della Corte di appello di Caltanissetta dal maggio 1985, dirigendo in tale ultima

sede anche la sezione istruttoria. con particolare impegno, notevole capacità e non

comune senso di responsabilità e vivo attaccamento al dovere e che aveva diretto

a dibattimento con grande prestigio, dignità, serenità, diligenza e zelo processi

difficili» e di grande rilievo, come quello relativo all'assassinio del consigliere

istruttore di Palermo Rocco Chinnici, per cui, anche tenendosi conto degli

innegabili e particolarissimi meriti acquisiti da Giovanni Falcone poteva

pervenirsi alla sua designazione per il posto da ricoprire senza violare i criteri

posti dalla legge, in quanto uno “scavalco” di circa sedici anni avrebbe annullato

quello dell’anzianità Dopo lunga discussione, nel corso della quale presi la

parola, sostenendo la legittimità della proposta della Commissione, questa fu

approvata con 14 voti favorevoli, tra i quali, oltre al mio, quelli dei rappresentanti

di Magistratura Democratica Borrè e la Paciotti, mentre 5 consiglieri si astennero

e 10 votarono contro la proposta

Il caso Palermo ovvero del “Palazzo dei veleni”

Nelle seduta del 14 Settembre 1988 il C.S.M. si occupò della pratica della

Commissione Speciale Referente per la Riforma Giudiziaria e la Amministrazione

della Giustizia sull’esame della situazione degli uffici giudiziari di Palermo.

La pratica era stata aperta a seguito di dichiarazioni del procuratore della

Repubblica di Marsala Borsellino pubblicate sula giornale “La Repubblica” del 20

luglio 1988, secondo cui il Capo del’Ufficio Istruzione di Palermo Antonino Meli

stava procedendo allo smantellamento del pool antimafia di quell’ufficio.

La Commissione Antimafia, mediante audizione di Falcone, Borsellino e di

numerosi altri giudici di Palermo aveva svolto un’accuratissima indagine tra la

fine di luglio e i primi giorni. di agosto per accertare.

Le risultanze degli accertamenti furono evidenziate nel mio intervento dinanzi

al Consiglio come segue.

“La richiesta che ci è stata rivolta sia dall’opinione pubblica, che dal Capo

dello Stato, era quella di accertare se quanto affermato dal collega Borsellino

nella sua intervista a “Repubblica” rispondesse o meno a verità”

……………..

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“Borsellino dice “ci sono. Stati in atto seri tentativi per smantellare

definitivamente il pool antimafia nell’Ufficio istruzione di Palermo e anche nella

Procura della Repubblica di Palermo; aggiunge “a Falcone, dopo tanti anni,

hanno tolto la titolarità di quelle inchieste che gli vennero affidate dal consigliere

Chinnici”. Per la veritá il consigliere Chinnici non gli aveva affidato la titolaritá

del processo “n.1827”, il c.d.- “Cosa Nostra stralcio”, né questa titolaritá gli era

stata data inizialmente dal consigliere Caponnetto, cosí come è stato giá detto da

altri. Solo nelle more, nella fase transeunte tra Caponnetto e Meli, a Falcone era

stata affidata la titolarità del processo in attesa della nomina del nuovo

Consigliere Istruttore, il che denota una continuitá di titolarità in capo al

consigliere istruttore. Ci troviamo quindi già di fronte ad una affermazione che

non risponde a veritá.

Ha aggiunto ancora Borsellino:“adesso la filosofia é un’altra, tutti si

devono occupare di tutto e il consigliere istruttore Meli è di .venuto titolare dello

stralcio del maxi processo”. Ho giá detto che titolare lo era Cinnici, titolare lo

era Caponnetto, titolare lo é divenuto Meli, e lo é divenuto anche dopo

sollecitazione (anche questo é stato detto da altri) dello stesso pool coordinato da

Falcone.

Anche questa affermazione non é vera, né é vera la filosofia attribuita a Meli

secondo cui tutti si dovrebbero occupare di tutto. Questa era probabilmente la

filosofia di Caponnetto, cosí come emerge dalle tabelle approvate dal

Consiglio Superiore della Magistratura per l’anno 1988 e proposte non da Meli,

bensi dal consigliere istruttore Caponnetto, il quale, nel fare le proposte, ha

precisato che nuovi elementi erano stati progressivamente inseriti nell’originario

gruppo di lavoro. Caponnetto aveva perció una visione di apertura che

certamente non é quella del pool attuale o del consigliere Falcone o di Borsellino

e che prevedeva il graduale coinvolgimento di tutto l’Ufficio, su piano diversi e

per filoni di indagini ben delimitati, nella ponderosa e tuttora in corso attivitá

istruttoria destinata ad ulteriori prossimi sviluppi. Come vedete Caponnetto

pensava addirittura di distribuire i procedimenti a tutte le sezioni dell’Ufficio

Istruzione, cosa che non ha fatto Meli, direi quasi in contrasto con quelle che

erano le direttive approvate dal Consiglio Superiore della Magistratura. Allora

Meli che cosa ha fatto? Si è limitato ad assegnare due procedimenti a due

giudici istruttori, unitamente peró con Falcone e con il pool antimafia, e per

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motivi che lui ha precisato e che qui é inutile ribadire, ma comunque connessi

all’attivitá dei giudici predetti, i quali avevano giá una.cospicua esperienza in

materia di criminalitá mafiosa.

Quindi l’accusa di una diversa filosofia rispetto alla precedente mi pare che

sia una accusa smentita clamorosamente dagli atti. Ma Borsellino non si limita a

questo: accusa il Consigliere Istruttore di Palermo di non avere risposto ad una

sua missiva. Non é nemmeno vero che Borsellino abbia chiesto la rettifica sul

punto delle sue dichiarazioni, come appaiono nella intervista pubblicata su

”Repubblica”; ha detto soltanto di essere stato male interpretato, in quanto aveva

affermato che sostanzialmente non si era risposto. Inoltre, in una delle due

interviste che egli ha rilasciato ha aggiunto “non mi ha risposto ed é questo

strano, molto strano”. Noi, invece, abbiamo la prova che egli non aveva scritto

affatto al Consigliere Istruttore di Palermo, ma aveva rivolto la richiesta al

giudice istruttore di Marsala, il quale l’aveva girata al consigliere istruttore di

Palermo.

Sembra, inoltre, che Borsellino avrebbe chiesto che sulla faccenda

interloquisse il giudice istruttore Falcone e non il consigliere istruttore.

Comunque la risposta c’é stata e quindi quello che diceva Borsellino mi pare non

abbia alcun fondamento.

C’é poi un’accusa che Borsellino fa al Consiglio Superiore della

Magistratura; anche questo è da evidenziare per comprendere sotto quale aspetto

e con quali intendimenti Borsllino abbia rilasciato quell’intervista. Ha detto

Borsellino che si é arrivati a scelte sbagliate, che si doveva nominare Falcone.

Questa é la chiave di volta di tutta l’intervista: il Consiglio Superiore della

Magistratura, la sua maggioranza s’intende, ha sbagliato secondo Borsellino

perché non ha nominato Falcone al posto di Meli. Ci troviamo di fronte ad accuse

disinvolte del collega Borsellino, il quale si é poi giustificato, dicendo che ha

rilasciato l’intervista sulla base di confidenze fattegli dal collega Falcone. Io gli

ho contestato che se si fosse trattato effettivamente di confidenze, sarebbe stato

certamente molto scorretto farne oggetto di un’intervista alla stampa: le

confidenze sono fatte perché rimangano nell’ambito delle persone tra le quali

avviene il colloquio. Allora ha modificato la versione dicendo che si trattava di

lamentele e conseguentemente gli ho chiesto perché non aveva sentito it.dovere di

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dire a Falcone che le lamentele andavano rivolte al Presidente della Corte di

Appello, al Procuratore Generale, o al Consiglio Superiore della Magistratura.

Il collega Borsellino non ha risposto in quanto non aveva sentito il dovere di

indirizzare colllega Falcone sui binari istituzionali. Dico questo, perché la verità

va detta, altrimenti avremmo fatto un’inchiesta inutile, non riferendo

pubblicamente quello che é emerso. I rapporti si sono guastati ma non certo per

colpa di Meli. A formalizzarli sono stati proprio i giudici del pool, i quali anziché

andare da Meli e prospettargli i problemi del pool, hanno preso carta e penna e

per ben due volte hanno fatto dei rilievi per iscritto sull’operato del consigliere.

Non solo, ma alla risposta del Meli che sottolineava la inopportunità di avere

dialoghi per iscritto nell’ambito déll’ufficio, quando egli era a disposizione dei

colleghi ed era pronto a discutere con essi, i colleghi del pool hanno in questa

sede precisato che non avevano dato seguito all’invito del consigliere Meli di

intrattenere un rapporto più amicale e direttoe non un rapporto burocratico e per

iscritto.

In tali termini il rapporto si é deteriorato, nonostante poi. tutti abbiano qui

affermato, da una parte e dall’altra, che i rapporti sul piano personale sono

rimasti amichevoli, più che amichevoli. Ecco perché sono convinto che i rapporti

si siano:deteriorati per fatto addebitabile piú ai componenti del pool che al

consigliere Istruttore Meli. Ma c’è di più.

“ Una cosa qui non é stata evidenziata: Falcone tutte le mattine - lo ha detto

lui, lo ha ripetuto Meli e lo hanno.riconosciuto gli altri - prima di iniziare la sua

ativitù andava a colloquio con il Consigliere Meli, il quale perciò ha giustamente

osservato che non c’era bisogno di colloquiare quotidianamente con gli altri

componenti del pool dal momento che il capo, ufficialmente riconosciuto di esso,

tutte te mattine andava a relazionare e a scambiare di idee con lui. Anche

l’accusa di rottura di rapporti da parte di MELI mi pare che sia fuor di luogo. Si

aggiunge: “ma questo MELI é giunto al limite di non andare a trovare i giudici

istruttori nelle proprie stanze”. Questa è stata l’ultima accusa, visto che le altre

piano piano si erano andate sgretolando. Ebbene, dico che se Meli fosse andato

nei loro uffici, si sarebbe detto che andava a controllare, a spiare quello che

facevano i componenti del pool. In questa sede bisogna riconoscere a Felcone

quel che è di Falcone, a Meli quel che é di Meli. Altri lo hanno fatto prima dí me

lumeggiando la figura di Meli, che non é il magistrato che solo per l’anzianitá

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poteva aspirare a dirigere l’Ufficio Istruzione di Palermo. Meli unanimemente,

più di quanto potrà essere oggi ribadito nella deliberazione del Consiglio, é stato

riconosciuto come un magistrato preparato, al di sopra di ogni sospetto,

indipendente, un magistrato di tutto rispetto.

Nessuno tra i colleghi sentiti, e ne abbiamo sentiti molti, ha detto.una parola

che possa avere messo in dubbio le capacitá professionali, umane e di

indipendenza del consigliere istruttore

Se quindi Falcone ha i suoi meriti, che nessuno gli ha disconosciuto, io credo

che. anche Meli abbia dei meriti che molti non gli hanno riconosciuto.”

Il documento sottoposto dalla Commissione Antimafia all’approvazione del

Consiglio affermava genericamente che Borsellino aveva segnalato l’esistenza di

un problema reale. Esso fu approvato all’unanimità. Tuttavia io precisai che il mio

voto era a favore del documento solo se interpretato nel senso che il problema

reale segnalato da Borsellino non riguardasse la conduzione dell’Ufficio

Istruzione di Palermo, esente da censure come da me dimostrato, bensì

manchevolezze di altri organi dello Stato oppure mancanza di supporti materiali.

Il caso “Di Pisa”

Il caso, poi denominato de “Il Corvo”, ebbe inizio a seguito di lettere anonime

inviate a varie autorità nel mese di giugno del 1989 nelle quali si sosteneva che il

mafioso Antonino Contorno, arrestato in Salvatore l’Arena il 26 maggio 1989

dalla Squadra Mobile di Palermo, nel corso di una operazione di polizia, diretta

alla cattura del latitante Gaetano rado, fatto rientrare in Sicilia dagli Stati Uniti in

attuazione di un piano ideato da magistrati e funzionari di polizia allo scopo di

ottenere la cattura o anche l’eliminazione degli esponenti della cosca di Corleone

e in particolare di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, si sarebbe invece

attivato soltanto per vendicarsi di suoi avversari, commettendo alcuni omicidi, dei

quali dovevano ritenersi corresponsabili coloro che gli avevano permesso di

muoversi liberamente nell’isola.

Le lettere anonime, oltre a dare inizio da un procedimento penale presso la

Procura della Repubblica di Caltanissetta, compente in quanto l’accusa era stata

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rivolta anche a magistrati in servizio presso l’Ufficio Istruzione di Palermo, fra i

quali Giovanni Falcone, aveva dato luogo ad una inchiesta del Comitato

Antimafia del Consiglio Superiore della Magistratura, dui cui facevo parte.

Nel frattempo, la mattina del 21 giugno 1989 uno degli agenti addetti alla

sorveglianza della villa del giudice Falcone situata in località Addaura di

Mondello, rinveniva sullo scivolo a mare una borsa, lasciata assieme ad

indumenti da pescatore subacqueo, che conteneva una bomba costituita da

candelotti di gelinite ed era dotata di congegni che ne avrebbero provocato

l'esplosione anche a mezzo di radiocomando a distanza.

Il 13 luglio il giudice Falcone, in sede di audizione sulle modalità

dell'accaduto, riferiva che si stata tentando di delegittimarlo con una serie di

scritti anonimi spediti ad autorità politiche e giudiziarie ed anche a giornali.

Il 20 luglio successivo, poi, alcuni organi di stampa divulgavano la notizia

secondo cui accertamenti dattíloscopici eseguiti da esporti del SISMI su incarico

del Prefetto Domenico Sica, Alto Commissario per il coordinamento della lotta

contro la delinquenza mafiosa, avevano consentito di identificare l'autore delle

missive anonime nella persona del dott. Alberto DI PISA, Sostituto Procuratore

della Repubblica di Palermo e componente dei pool antimafía costituito presso

detto ufficio.

Nell'ambito dell'inchiesta giudiziaria, nel pomeriggio del 21 luglio I'Alto

Commissario, tramite i! Consigliere Francesco MISIANI e ed il vice Questore

Tonino DE LUCA, faceva pervenire alla Procura della Repubblica di

Caltanissetta gli originali di sei lettere anonime (una delle quali diretta ai

Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia) e relative buste;

fotografie delle lettere e buste prima della rilevazione delle impronte digitali per

l'eventuale comparazione; fotografie delle lettere e buste con ingrandimento di

impronte rilevate su queste ultime e l'ingrandimento di impronte evidenziale nel

testo di una delle lettere a lui indirizzata

Della questione decise di occuparsi anche la Prima Commissione referente

del C.S.M., competente per i trasferimenti di ufficio, che dopo l’audizione di

alcuni magistrati di Palermo, alcuni dei quali avevano senza esitazione indicato

come autore degli anonimi il sostituto Di Pisa, convocava quest’ultimo, il quale

respingeva recisamente l’accusa di essere l’autore degli anonimi, in quanto sulla

attività del Contorno Sicilia e sulle modalità del suo arresto egli aveva avuto modo

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di manifestare apertamente i suoi dubbi e perplessità agli organi istituzionalmente

competenti, senza alcuna riserva mentale e pubblicamente, così come aveva

manifestato le sue divergenze dal dott. Falcone per quanto riguardava la gestione

dei pentiti.

In esito alle indagini eseguite la della Prima Commissione referente del

Consiglio propose il trasferimento del Dott. Di Pisa dall’Ufficio di Palermo per

incompatibilità, in quanto ritenuto dai colleghi autore delle lettere anonime in

questione e nelle sedute del 6 e 7 novembre1989 l’assemblea plenaria Del

Consiglio Superiore della Magistratura ebbe ad occuparsi del caso.

Nel corso della discussione manifestai le mie perplessità, in quanto nella

vicenda di cui il Consiglio si stava occupando vi erano molti lati oscuri e

inquietanti che, a prescindere da quello che avevano scritto i giornali sul

cosiddetto «Palazzo dei veleni» e sulla situazione politica palermitana, dovevano

indurre ad una più attenta riflessione. Evidenziai che essendo molto diffusa nel

nostro Paese la pratica di inviare scritti anonimi, ai quali non veniva mai dato peso

(tanto che lo stesso C.S.M. aveva deciso di cestinarli senza prenderli in

considerazione), non era ben chiaro il motivo per il quale si sia deciso di indagare

in relazione a delle lettere che certamente contenevano accuse non più gravi di

quelle contenute in altri anonimi cestinati..

Rilevai che la procedura adottata dall'Alto Commissario Sica per il prelievo

delle impronte digitali al Di Pisa era del tutto anomala, essendo stato il prelievo

eseguito da militari del SISMI non aventi qualifica di agenti o ufficiali di polizia

giudiziaria e per di più senza alcuna garanzia per la comparazione

Secondo me, poi, era grave il fatto che i colleghi di Palermo avessero ritenuto

autore degli anonimi il Di Pisa prima che vi fosse stato un accertamento

giudiziario in merito e quindi senza alcuna prova.

La proposta della Commissione fu approvata con il voto favorevole di 18

consiglieri, quello contrario mio e dei colleghi Marconi e Papa, mentre altri 7

consiglieri si astennero.

La mie giuste perplessità trovarono a distanza di tempo ampia conferma

nella decisione della Corte di Appello di Caltanissetta, che assolse con formula

piena il Di Pisa dall’accusa di essere l’anonimo calunniatore.

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24 I VIAGGI ALL’ESTERO

Il mio primo viaggio all’estero con mia moglie avvenne nell’agosto del 1962.

All’epoca l’E.N.P.A.S. l’Istituto di Previdenza dei dipendenti statali offriva

ad un certo numero dei loro figli vacanze estive gratuite in località marine o

montane d’Italia ed anche ai figli dell’età di 13 anni vacanze all’estero,

prevalentemente in Francia.

Nel 1962, mio figlio Maurizio che aveva 13 anni partecipò al concorso per

una vacanza estiva nel mese di agosto in Francia a Salin Les Bains e decisi di

andarlo a trovare insieme con mia moglie. Il Direttore dell’Esattoria comunale di

Terracina Mario Percoco, che aveva da poco acquistato un’autovettura Alfa

Romeo, si offrì per fare il viaggio in Francia con noi e con sua moglie utilizzando

la sua autovettura.

Insieme visitammo Lugano e sempre in Svizzera ci soffermammo ad Airolo e

ad Interlaken. Arrivammo poi a Salin Les Bains, nel Giura franco-svizzero, dove

mio figlio si trovava con coetanei francesi e delle colonie francesi.

L’anno successivo, sempre nel mesi di Agosto, da Vipiteno, dove avevo preso

in affitto un appartamento, con la mia autovettura io, mia moglie e i miei due figli

facemmo un vasto giro visitando e soffermandoci ad Innsbruck, Monaco di

Baviera e Costanza.

Dal 1970 al 1973 io e mia moglie usufruimmo per viaggi all’estero di

biglietti gratuiti della compagnia aerea statunitense T.W.A., che aveva assunto

mio figlio Piero all’età di 15 anni quale apprendista impiegato presso l’Aeroporto

Leonardo da Vinci di Fiumicino, nel contempo facendolo studiare per il

conseguimento di titolo di ragioniere presso un Istituto scolastico di Ostia.

Il primo biglietto fu utilizzato nell’agosto del 1970 per andare ad Hong

Kong, In quell’epoca l’aereo più grande della Boeing era il 707, che conteneva

circa 165 passeggeri ed aveva autonomia limitata rispetto ai grandi aerei attuali.

Con tale tipo di aereo gestiva due linee che giravano intorno alla terra nei due

sensi da New York a Roma, Atene, Tel Aviv, Bombay, Colombo, Bangkok, Hong

Kong, Haway, San Francisco, New York e viceversa.

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Decidemmo di arrivare sino a Tokyo con la Panamerica, che gestiva il

tratto da Hong Kong, pagando, in base a convenzione fra le due società, soltanto il

20% del prezzo del biglietto normale, circa 34.000 lire per due persone.

All’Aeroporto di Tokyo prenotammo un albergo, il Dai Ichi, dove poi

non potemmo alloggiare perché, contrariamente a quanto ci avevano assicurato al

nostro arrivo, non vi erano camere disponibili.

Ricordo la costernazione di mia moglie quando nella Hall dell’Albergo ci

fu comunicata la notizia dell’impossibilità di alloggiare lì per molti giorni, dal

momento che quasi tutte le camere erano occupate da partecipanti ad un convegno

internazionale di cristiani evangelici o qualcosa di simile.

Risolsi il problema telefonando all’ambasciata d’Italia con l’aiuto di una

giovane coppia di giapponesi che conoscevano l’inglese e mi fornirono il relativo

numero telefonico.

Mi fu assicurato che potevo prendere alloggio presso il Tokyo Grand

Hotel e ci servimmo di un taxi, che impiegò, per arrivarci quasi un’ora.

Il mattino successivo ci accorgemmo che il Dai Ichi Hotel si trovava a

non più di 100 metri dal Tokyo Grand Hotel, per cui non potemmo non pensare

che il tassista ci aveva ingannato a fine di lucro, in quanto i due alberghi di lusso

si trovavano al centro di Tokyo vicino al palazzo della Sony e dovevano essere

necessariamente conosciuti da tutti i tassisti della città

Dopo alcuni giorni di permanenza a Tokyo ci fermammo per circa 15

giorni ad Hong Kong, visitandola in lungo e in largo, facendo una gita su alcune

delle 232 isole che circondano la penisola di Kowloon e l’isola di Victoria ed

inoltrandoci anche nei New Territories.

Rimanemmo sorpresi quando, in occasione della gita sul mare,

nell’arrivare a bordo di un battello nel piccolo porto di una delle isole, con un

nome simile a Cheung Chau, vedemmo vicino all’imbarcadero campeggiare su un

traliccio un enorme insegna pubblicitaria con la scritta “Zanussi”, una delle

industrie italiane produttrici di elettrodomestici.

L’isola, a forma di mezzaluna, aveva una bellissima e spaziosa spiaggia

sovrastata da una collinetta con un bel ristorante, nel quale consumo il pranzo.

Al ritorno verso il porto smarrimmo la strada e andammo a finire in un

villaggio dove le casupole, nelle quali vivevano anche animali sa cortile. erano

fiancheggiate da fogne a cielo aperto. L’aria per irrespirabile per il cattivo odore,

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tanto che fummo costretti, come due turisti americani smarritisi come noi, ad

attraversarlo con un fazzoletto sul naso.

All’epoca migliaia di cinesi vivevano su due città galleggianti formate da

sampan e giunche, una fra la penisola e l’isola nei pressi dell’aeroporto e l’altra ad

Aberdeen nella zona marina dell’isola retrostante rispetto a Kowloon.

Ad Hong Kong si potevano acquistare, a prezzi più convenienti che

altrove, macchine fotografiche, collane di perle coltivate ed anche i primi

calcolatori elettronici.

Uno stewart, figlio di un questore e amico di mio figlio, che per ragioni

di lavoro si recava spesso a Hong Kong, ci aveva consigliato di fare eventuali

acquisti a Carnarvon Road n.10 presso il negozio di tale Jack Wong e

approfittammo del viaggio per comperare una macchina fotografica Nikon

Photomic, la stessa usata negli U.S.A. dal fotografo della Casa Bianca, nonché

una collana di perle coltivate, un calcolatore elettronico pesante oltre 500 grammi,

benché capace di effettuare soltanto le operazioni aritmetiche elementari. ed altri

oggetti da regalo.

Mi servii per la prima volta della macchina fotografica acquistata per

scattare delle foto nel cosiddetto “paradiso dei fotografi”. Si trattava di una specie

di parco costruito sul declivio di una collina nell’isola di Victoria, i cui viali erano

fiancheggiati da statue di cemento variopinte in modo intenso rappresentanti

animali, persone e scene varie e dove troneggiava in alto una pagoda.

Era ritenuto un luogo ideale per scattare fotografie, appunto per la

vivacità dei colori che colpivano l’occhio dei visitatori.

A Temple Street dalla sera alla mattina era in funzione un mercato

dove era possibile acquistare di tutto come nel mercato di Porta Portese a Roma.

Nella Nathan Road esisteva anche un grande magazzino gestito dal

governo di Mao Tse Tung, dove lavoravano cinesi pendolari provenienti dal

territorio di Canton. Il magazzino chiudeva alle 23 e ricordo che una sera, all’ora

di chiusura, nell’uscire dal magazzino vedemmo commessi, commesse ed altri

impiegati precipitarsi fuori per raggiungere il più presto possibile i mezzi di

trasporto che li avrebbero ricondotti a casa nel territorio cinese. Molto poco era

per loro il tempo per riposare, giacché il giorno successivo alle 10 avrebbero

dovuto ritrovarsi sul luogo di lavoro e il viaggio di andata e ritorno richiedeva

non meno di tre ore.

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Ritornai a Hong Kong nel gennaio del 1971 per 15 giorni con mio figlio

Piero.

Nell’agosto 1971 decidemmo di andare in Venezuela, dove vivevano

un cugino di mia suocera e due cugini di mia moglie in cittadine prossime a

Maracaibo.

Il cugino di mia suocera, Peppe Calvisi, gestiva in La Concepcion, una

cittadina a 20 Km. da Maracaibo, una impresa per la manutenzione delle

“pipelines”, che dalla zona di Maracaibo, dove erano in funzione ben tremila

pozzi per l’estrazione del petrolio, portavano questo a Puerto Cabello e per una

maggiore comodità fece mettere a nostra disposizione un appartamentino nella

villa di un suo amico, compaesano anche di mia moglie, situata nella città di

Maracaibo, dove vivevano numerosi italiani, fra cui alcuni emigrati dal paese di

nascita di mia moglie distante pochi chilometri della città dell’Aquila.

Facemmo delle gite nella zona di La Concepcion e fra queste una sul

Rio Limon sino al luogo da dove derivò il nome Venezuela, ora chiamato

Sinamaica. Si trattava di un complesso di case di legno su palafitte che a suo

tempo i filibustieri che trovavano rifugio nella zona chiamarono “Piccola

Venezia” ovvero in spagnolo “Venezuela”.

Arrivammo al confine con la Colombia dove un italiano, di cui ricordo

solo il nome Antonio, aveva una tenuta con tremila capi di bestiame bovino. Di

essi si occupavano vaccai colombiani che, con le rispettive famiglie, abitavano in

case site nel centro della tenuta, dove era anche il recinto per la mungitura.

A Bachaquero, una cittadina sul lago di Maracaibo (lungo trecento

chilometri) dove si giungeva dopo aver attraversato l’imboccatura del lago su un

ponte lungo otto chilometri costruito da un italiano, l’Ingegnere Morandi, viveva

un cugino di mia moglie, Fulvio Di Marco, che gestiva un’azienda di

autotrasporti. Con la sua Buick arrivammo a Coro e da lì raggiungemmo

Chichirivichi, una spiaggia ancora allo stato naturale, dove era possibile spogliarsi

soltanto in capanne di paglia. La spiaggia dava su un mare azzurro in cui era

possibile vedere e raccogliere grosse conchiglie

Due furono le gite in montagna: la prima, in compagnia di Peppe

Calvisi, Fulvio Di Marco e le famiglie di due calabresi, a “Pico l’Aquila”, località

sita a oltre 2.000 metri d’altezza dove ci colse una nevicata in pieno agosto.

L’altra a “Pico Bolivar”, una cima a 5.200 metri d’altezza, che raggiungemmo da

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Merida, sita a 2.000 metri sul livello del mare, con la cabinovia più alta del

Mondo costruita dai francesi.

Sulla cima, che sovrastava le nuvole, era rimasto il ghiaccio e dopo

solo dieci minuti, durante i quali consumammo un cappuccino caldo nel Bar ivi

esistente, fummo costretti a riprendere la cabinovia per il ritorno a Merida.

All’aeroporto di Merida eravamo giunti due giorni prima con un volo

da Maracaibo e al ritorno l’aereo rimase per qualche istante in balia di una

turbolenza che, tra le grida di sgomento di donne a bordo, fece aprire gli sportelli

dei portabagagli, facendo precipitare il contenuto tra i passeggeri.

Sapemmo dopo che in quel punto, una gola fra le montagne, più di un

aereo era precipitato.

Ritornammo dopo una ventina di giorni sostando tre giorni a New

York, che non conoscevamo, ed altri tre giorni a Lisbona, facendo peraltro una

gita a Sintra, sede di una magnifica reggia estiva, al punto estremo d’Europa sul

mare atlantico (“Cabo de roca”) e a Cascais, noto luogo balneare, dove all’epoca

viveva l’ex re d’Italia Umberto di Savoia in una villa denominata “Casa rosada”..

Nell’Ottobre 1972 ritornai solo ad Hong Kong per alcuni giorni,

facendo anche una sosta a Bangkok, dove visitai, oltre al Palazzo reale anche il

mercato sul fiume. Un giovane tailandese incontrato nei pressi dell’università mi

scambiò per un suo connazionale ed ebbe l’ardire di paragonare Bangkok, per

l’esistenza in questa di numerosi canali, a Venezia.

Notai che per l’esecuzione di lavori stradali erano occupate delle

donne, che trasportavano terra e materiali con grossi cesti sulla testa.

Era l’epoca dei monsoni e quasi tutti i pomeriggi verso le ore 14,

contemporaneamente a tuoni che sembravano cannonate, si verificavano degli

acquazzoni brevi ma tali che dopo alcuni minuti l’acqua sulle strade, nonostante i

suoi canali, raggiungeva i 15-20 centimetri di altezza,

Nell’agosto del 1973 ritornammo negli Stati Uniti.

Mio figlio Maurizio, laureatosi l’anno prima in matematica presso

l’Università “La Sapienza” di Roma con il massimo dei voti, ancor prima di

discutere la tesi di laurea (alla fine del terzo anno aveva sostenuto tutti gli esami

anticipando quelli del quarto anno) aveva vinto ben quattro borse di studio per

corsi di PHCD presso l’ Università di Berkley, la Columbia di New York, la

UCLA di Los Angeles, e quella di Princeton ed aveva scelto quest’ultima.

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Andammo a trovarlo dopo una breve sosta a New York ed a

Princeton, una cittadina di diecimila abitanti, di cui cinquemila studenti e gli altri

al servizio dell’Università, classificata al terzo posto trale Università statunitensi e

al primo posto per quanto concerneva il Dipartimento di matematica, prendemmo

alloggio al Nassau Hotel, dove, secondo quanto ci disse il Direttore italiano,

prestavano servizio come camerieri anche figli di miliardari, studenti universitari,

che in tal modo si spesavano.

In Princeton mio figlio ci fece conoscere il Professore Remo Ruffini,

esperto di buchi neri, attualmente titolare della cattedra di fisica teorica presso

l’Università “La Sapienza” di Roma, con il quale una sera cenammo e che verso la

mezzanotte ci invitò a visitare il Dipartimento di Fisica. Con sorpresa

constatammo che a quell’ora il Dipartimento era in piena attività, perché le varie

stanze erano in gran parte occupate da professori e studenti. Ruffini ci condusse in

una stanza dove erano in funzione dei computers che registravano i raggi cosmici

ed in altra dove in punti in cui non erano apparivano oggetti formati con raggi

laser. Proprio mentre ci rendevamo conto del fenomeno sentimmo passi affrettati

provenienti dal corridoio che dava sulla stanze e subito dopo entrò un giovane

affannato, che si calmò quando vide il professore. Temeva che estranei si fossero

introdotti nella stanza e il professore ci spiegò che il giovane studente aveva in

consegna il laser.

A tarda notte visitammo anche la biblioteca dell’Università, aperta

giorno e notte, dove anche nelle ore notturne entravano ed uscivano studenti.

Con Maurizio poi ci recammo a Philadelphia, dove si trovava la figlia

di una cugina di mia moglie, professoressa di High Scool, e successivamente in

aereo, facendo scalo in Saint Louis, a Springfield, capitale dell’Ohio, dove viveva

una comare di mio figlio, nativa di Casalbordino ed espatriata subito dopo la

guerra negli Stati Uniti dopo avere sposato un soldato americano di origine

italiana.

A Springfield Maurizio rimase vittima di una influenza e ci

rendemmo conto di come funzionava il sistema medico. La comare Adelina Di

Paolo per telefono comunicò al suo medico i sintomi che presentava Maurizio e

dopo meno di un’ora un commesso di farmacia ci recapitò i medicinali prescritti

dal medico, incassando il relativo costo.

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Visitammo la casa e la tomba di Abramo Lincoln e dopo alcuni giorni

un’amica della comare Adelina Di Paolo con la sua autovettura ci riportò a Saint

Louis, dove prendemmo l’aereo per New York.

Nel settembre del 1973 io e mia moglie visitammo Londra.

Ritornammo negli Stati Uniti durante le feste di natale del 1981 e per conoscere

Daphne, la figlia di Maurizio nata il 1° novembre in Salt Lake City.

Mio figlio l’anno prima, avvalendosi di una borsa di Studio del

Consiglio Nazionale delle Ricerche, aveva iniziato la attività di ricercatore presso

l’Università dello Utah in Salt Lake City sotto la direzione del Professore di

Geometria Herbert Clemens, uno dei più noti in sede mondiale.

In quella città l’aveva raggiunto Costanza Rossi Modigliani, che già in

Trento, dove mio figlio insegnava Algebra presso la locale Università, viveva con

lui.

Il 2 di novembre alle ore 5 di mattina ci raggiunse a Roma una

telefonata di Maurizio, che ci annunziava contemporaneamente il suo matrimonio

con Costanza avvenuto nell’ottobre precedente e la nascita della figlia Daphne.

Il 15 Dicembre 1981 era morto in Roma all’età di 85 anni mio padre e

due giorni più tardi, subito dopo il suo funerale, partimmo per gli Stati Uniti, con

un volo prenotato in precedenza, io, mia moglie e la madre di Costanza, Maria

Antonietta Koranda vedova Modigliani.

In Salt Lake City trovammo la neve e quasi tutte le mattine mio figlio

doveva spazzarla nel viale dinanzi alla villetta in cui abitava per poter raggiungere

la sua autovettura parcheggiata sulla via antistante.

La madre di Costanza aveva un’amica di vecchia data in San Francisco,

Janet Fleischacker nata Choynoski, vedova di un grande finanziere, che negli

anni ’30 era stato ospite del marito nella casa di Trinità dei Monti, e volle andarla

a trovare. Io, approfittando dell’occasione, mentre mia moglie rimase a Salt Lake

City ad occuparsi della nipotina, la accompagnai a San Francisco, dove

prendemmo alloggio in un albergo nelle immediate vicinanze di Union Square.

La madre di Costanza si mise in comunicazione con l’amica Janet, che il

giorno successivo di prima mattina venne a prelevarci nell’Albergo a bordo di una

Roll Royce da lei guidata. Con l’autovettura ci fece vedere i vari quartieri di San

Francisco e ci offrì poi il pranzo nel primo ristorante della città, dove ci raggiunse

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la figlia addetta alle pubbliche relazioni presso il grande magazzino Maci’s di

Union Square.

La Janet Fleischacker, che era da poco reduce da un viaggio nelle

Bahamas, viveva sola in una grande villa in stile vittoriano nella Pacific Avenue al

numero 2000, dove era assistita da un maggiordomo, da una cuoca e da un

giardiniere, mentre il figlio Mortimer III, che aveva proseguito l’attività del padre,

viveva con la moglie francese in un appartamento con giardino pensile nella City,

nelle immediate vicinanze del grattacielo a forma piramidale.

Janet ci invitò a pranzo in casa sua, dove mi mostrò un album con

fotografie del marito in compagnia del Segretario Generale delle Nazioni Unite U’

Thant, del Presidente degli Stati Uniti e di altri personaggi di importanza

internazionale. Mi mostrò anche i telegrammi di condoglianza ricevuti per la

morte del marito, frai quali anche quello del Presidente Lindon Jonson.

Tenne a dirmi che la famiglia del marito era la prima di San Francisco.

Io e la madre di Costanza facemmo ritorno a Salt Lake City dopo tre

giorni e con la famiglia di mio figlio facemmo delle gite vicino alla città, fra cui

una al lago salato ed un’altra a Park City, la città di Butch Cassidy, che era stata

sede delle Olimpiadi invernali.

Io, mia moglie e la madre di Costanza ritornammo a Roma il 5 Gennaio

1982. Il mio terzo viaggio negli Stati Uniti avvenne dal 16 al 30 Luglio del 1987.

Mio figlio Piero dopo 13 anni di matrimonio si era separato

consensualmente dalla moglie Ornella Francioni all’inizio del 1987 ed io, conscio

del trauma psichico che la separazione aveva causato nel figlio Pierpaolo

tredicenne, pensai che un viaggio all’estero nel periodo delle ferie estive avrebbe

attenuato le ripercussioni negative della separazione.

Pierpaolo era rimasto affidato alla madre e quindi organizzai il viaggio

con lei e con il figlio.

Dopo alcuni giorni di permanenza a New York partimmo in aereo per

San Francisco e visitammo, oltre alla città, Sausalito e giungemmo poi sino al

Carmel in pullman costeggiando il mare e attraversando campi immensi coltivati a

carciofi.

Da San Francisco ci trasferimmo poi in aereo a Los Angeles, dove,

visitata la città, trascorremmo poi una intera giornata nel parco divertimenti di

Disneyland, e dopo tre giorni partimmo in aereo per Las Vegas.

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Prendemmo alloggio nel Flamingo Hotel costruito dal gangster Busy

Siegel, dove al pianoterra era un immenso salone pieno di slotmachines, con le

quali giocai e vinsi fortunatamente 120 dollari.

Con mio nipote feci un viaggio sul Gran Canyon con un piccolo aereo

bimotore ad elica che vibrava in modo preoccupante, perché sorvolava un

territorio montuoso frastagliato con picchi e pareti a picco sul fiume Colorado,

tanto che Pierpaolo si sentì male.

Dal 1988 al 1999 io e mia moglie facemmo ogni anno un viaggio

all’estero: mentre ero in servizio dal 25 Agosto al 4 Settembre 1988 a Hong

Kong, Bangkok, Bali, Singapore; l’anno successivo nello stesso periodo per 14

giorni in Norvegia, Danimarca e Svezia; durante le feste natalizia del 1989 e i

primi giorni del 1990 in Egitto con la famiglia di mio figlio Maurizio; dal 29

Agosto all’8 Settembre 1990 in Turchia; poi, dopo il collocamento a riposo,

nell’inverno del 1992 in Venezuela e in Florida a Disneyworld; nell’estate del

1993 in Austria; nel marzo 1994 in Spagna ad Alicante; nello stesso periodo

dell’anno successivo a Parigi ed Eurodisney con la nipoti Daphne a Viviana;

nell’inverno del 1996-1997 in Marocco; nel maggio successivo a Cuba;

nell’inverno 1997-1998 a Bangkok, Bali, Singapore con le nipoti Daphne e

Viviana; nell’aprile 1998 in Tunisia con le stesse nipoti e nell’inverno 1998-99 in

Giordania sempre con Viviana e Daphne.

25. IN QUIESCENZA

Mia moglie aveva sempre manifestato la sua contrarietà a che io mi

pensionassi prima del raggiungimento dell’età massima, che nel 1991 era di 70

anni e divenne 72 anni nel 1993, mentre oggi è giunta a 75 anni.

Io avevo riscattato i quattro anni della laurea e potevo quindi mettermi a

riposo con il massimo della pensione (ragguagliata a 40 anni di servizio) sin dal

1.o marzo del 1988, ma in quell’epoca era già componente del C.S.M. per

mandato elettorale e le mie dimissioni sarebbero state considerate scorrette da

coloro che mi avevano votato. Nel giugno 1990 quando rientrai in ruolo con le

funzioni di Presidente della III Sezione Civile della Corte di Appello

persistevano da una parte il mio desiderio di collocarmi a riposo e dall’altra la

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contrarietà di mia moglie, che temeva che dal collocamento anticipato a riposo

sarebbero derivate conseguenze negative dal punto di vista psicologico per me,

che avevo avuto una esistenza molto attiva sin dalla giovane età (avevo avuto il

mio primo impiego all’età di 17 anni e avevo lavorato continuamente per circa 50

anni) ripercussioni negative.

Tale possibilità era stata da me prevista da tempo, tanto che molti anni prima

avevo impiantato in uno stanzino della mia abitazione ed usato nei giorni festivi

un laboratorio per lo sviluppo dei negativi e la stampa di fotografie in bianco e

nero, avevo iniziato una collezione di francobolli e di cartoline e raccolto

materiale per articoli e pubblicazioni di vario genere.

La contrarietà di mia moglie venne meno quando il Presidente della Corte di

Appello di Roma verso la fine del 1991 decise di trasferirmi alla Prima Sezione

Penale. Si trattava di una decisione irrazionale, perché dal 1980 non avevo più

trattato la materia penale e mancavano poco meno di due anni al mio

collocamento a riposo per raggiungimento dei limiti di età, sicché in tale periodo

avrei dovuto effettuare un gravoso, per quanto inutile, aggiornamento in una

materia che era stata rivoluzionata da numerosi provvedimenti legislativi.

Presentai quindi domanda di collocamento anticipato a riposo con decorrenza

dal 10 gennaio 1992.

Il collocamento a riposo consentì a me e a mia moglie di passare tutti i mesi

estivi in Terracina, dove mia moglie possedeva a Via Leopardi n.14 un

appartamento da lei donato a mio figlio Piero e a mio nipote Pierpaolo poco prima

di morire.

A Terracina ci raggiungevano le due nipoti figlie di Maurizio che rimanevano

con noi fino alla riapertura delle scuole.

Io frequentavo nella mattinata il Bar Trieste sito in Piazza Mazzini, dove

trovavo i sopravvissuti amici di un tempo, quando a Terracina ero il Pretore. il

generale Tommaso Quattrociocchi e Vincenzino Maresca, nonché altri amici

acquisiti.

Il pomeriggio facevo con mia moglie passeggiate sino al mare e talvolta

rimanevo a cenare nel ristorante dello stabilimento balneare “Il Sombrero”,

frequentato dalle mie nipoti e dai genitori di esse, che trascorrevano l’estate in

mio appartamento sito in Via Francesco Tetrarca.

A Roma la vita era diversa.

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Dopo alcuni mesi dal collocamento a riposo la mia notorietà di sindacalista

aveva spinto il Comitato direttivo dell’Associazione Nazionale Magistrati

Ordinari in pensione a cooptarmi nel Comitato stesso e, dietro deliberazione

dell’Assemblea dei soci, avevo assunto subito l’incarico di Segretario Generale,

mentre la Presidenza era stata attribuita al collega Edeo De vincentis.

Facevano parte del Comitato Direttivo un ex primo Presidente della Corte di

Cassazione, Mario Berri, ed alti magistrati in pensione come Angelo Ferrati,

Bruno Dattilo.

La mia collaborazione consisteva nella presenza mattutina nell’ufficio

dell’Associazione presso il Palazzo di Giustizia di Roma quasi tutti i giorni feriali

per due o tre ore, dove ricevevo i colleghi in pensione o fornivo informazioni

telefoniche.

L’Associazione stampava un mensile intitolato “Magistrati D’Italia”, sul

quale pubblicavo articoli di varia natura, ma che in gran parte riguardavano

informazioni sul trattamento economico dei magistrati in pensione, sganciato da

quello dei colleghi in servizio, e problemi ad esso connessi, nonché quello

dell’amministrazione della giustizia.

Direttore responsabile del mensile era un giornalista della RAI, che io,

iscritto da tempo nell’albo dei pubblicisti, sostituii all’inizio del 1995.

Nelle elezioni tenute il 30 Novembre 1995 la Presidenza dell’Associazione fu

assunta da Mario Battaglini, mentre io fui confermato come Segretario Generale.

Nel febbraio 1998 l’Associazione pubblicò una mia monografia dal titolo

“Giustizia anno zero” con sottotitolo “L’amministrazione della giustizia italiana

alla vigilia dell’anno 2000 e nel novembre dello stesso anno altra mia monografia

sul regime pensionistico..

L’Associazione organizzò varie gite sociali ed un importante congresso a a

Sanremo dal 21 al 23 Maggio 1999 sul tema da me proposto “La Giustizia Civile

in Italia e in Europa”. La mia relazione, che, in difetto di dati sul funzionamento

della giustizia all’estero da parte sia del Ministero della Giustizia sia da parte del

Consiglio Superiore della Magistratura, comportò richieste presso i competenti

uffici della Francia, della Spagna, della Germania, del Belgio, dell’Olanda e della

Danimarca, fu pubblicata tre mesi dopo con gli atti del Congresso.

La mia collaborazione nell’Associazione venne meno nell’anno 2001 in

coincidenza con il primo degli interventi chirurgici ai quali fu sottoposta mia

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moglie e che richiesero una continua assistenza da parte mia sino alla morte di lei

avvenuta nel novembre del 2005.

26. L’AVVENTURA DI MIA NUORA

Mia nuora Costanza Rossi Modigliani, che nel 1949 aveva sposato negli

Stati Uniti mio figlio Maurizio, nel 1989 entrò in rapporto di amicizia con la

psicologa Biondi Pasqualina detta “Lilli” ed il suo compagno Ruggero Leccisi,

persone che aveva conosciuto accompagnando le figlie Daphne e Viviana presso

la scuola gestita in Piazza Trinità dei Monti dalla Suore del Sacro Cuore,

frequentata anche dai due figli della Biondi e del Leccasi.

La Biondi, approfittando delle confidenze di Costanza, la cui fragile

personalità era rimasta turbata dapprima dalla perdita del padre quando aveva

poco più di 17 anni e successivamente nel 1978 dal tragico suicidio di un cugino

invaghitosi di lei, la indusse a sottoporsi a psicoterapia analitica di tipo

freudiano eseguita dalla stessa Biondi all’evidente scopo di trarne profitto in

modo scorretto.

Infatti, in contrasto con le regole terapeutiche, le iniziali sedute trisettimanali

vennero subito portate a cinque ogni settimana e, come se ciò non bastasse, mia

nuora venne sottoposta ad ulteriori sedute straordinarie, nonché a sedute di recupero,

oltre alla frequentazione di corsi di “psicanalisi”, in modo da coinvolgerla man mano “in

modo esclusivo e totalizzante in un impegno materiale e mentale assoluto,

allontanandola da ogni altro interesse, compresi quelli familiari”, come poi nel

1996 ebbe a stabilire il Tribunale di Roma nella sentenza di condanna della

Biondi e del Leccisi per il delitto di circonvenzione d’incapace a seguito

della denunzia sporta da mio figlio Maurizio .

Quest’ultimo allarmato dal crescente disinteresse e e dalla

sopravvenuta indifferenza per la casa, per le figlie e per lui aveva cercato

in ogni modo di convincere la moglie ad una verifica delle sue condizioni

presso altri e più qualificati specialisti, ma inutilmente perché ella aveva

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avuto reazioni negativamente recise ed addirittura violente del tipo "la

psicoanalisi è tutto" e "chiunque si mette tra me e la psicoanalisi ha chiuso”.

Oltretutto il costo via via crescente della terapia raggiunse l’importo di

vari milioni di lire al mese al quale mia nuora, proprietaria con il fratello di un

patrimonio immobiliare rilevante ma poco redditizio (fra l’altro un

appartamento in Piazza Trinità dei Monti abitato da lei e dalla famiglia, di

altri due appartamenti in Roma, di una villa e di alcuni appartamenti in

Pratovecchio, nonché di locali affittati ad una Banca in Torino e parte di un

fabbricato in Bolzano) non poteva far fronte,sicché, dopo avere esaurito il

proprio conto corrente e dopo avere venduto numerose pregiate pellicce, di

gioielli di famiglia e preziosi tappeti orientali e dopo essere ricorsa a prestiti

di svariati milioni di lire presso i cugini Pacchiani e presso di me, fu convinta

dal Leccisi, che aveva ascritto le difficoltà economiche di mia nuora a cattiva

gestione del patrimonio da parte del fratello Paolo, al quale mia nuova

aveva rilasciato procura ad amministrare, a revocare tale procura e a rilasciare

a lui alla fine del gennaio 1992 due procure generali all’insaputa di mio figlio

Maurizio.

Tra il 21 marzo e il 12 maggio 1992 il Leccisi, amministratore della

Società Santa Chiara, le cui quote erano detenute interamente dalla Biondi,

ottiene un mutuo di 200 milioni di lire garantito dall’appartamento di Via

Clementina n.2 di proprietà di mia nuora, cedette poi tale appartamento ed

altro sito in Via Venanzio Fortunato alla stessa Società, vendette la metà

dell’appartamento di Trinità dei Monti di proprietà di mia nuora alla

Soc.Finap 83 ed il giorno successivo, approfittando dell’impossibilità per

chiunque di conoscere la cessione in così breve lasso di tempo, ricedette la

stessa metà al fratello di mia nuora Paolo, ottenendo in cambio, con atto di

divisione, le quote degli immobili in comproprietà e la metà delle azioni della

Soc.Titanargo proprietaria degli immobili siti in Torino, azioni da lui cedute

sei giorni dopo a Ginevra per intero (comprese cioè quelle di mia nuora) alla

Soc.Panamense “Alwin” di proprietà della Biondi.

Il 22 Giugno 1992 Maurizio ricevette una telefonata da parte di una

cugina di Costanza, abitante nell’appartamento di quest’ultima in Via

Venanzio Fortunato, con cui gli comunicava che l’appartamento stesso era

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stato posto in vendita da parte di una società, come risultava del resto da un

annunzio economico sul giornale “Il Messaggero”.

Recatosi immediatamente nell’Ufficio dei Registri Immobiliari per

accertare se effettivamente la Società Santa Chiara fosse divenuta proprietaria

dell’appartamento predetto, nel consultare gli atti posti in essere di recente,

con grande sua sorpresa apprendeva che il Leccisi, quale procuratore della

moglie Costanza, aveva venduto alla soc. Santa Chiara la metà a costei già

appartenente dell’appartamento di Trinità dei Monti da lui abitato con obbligo

di rilascio vuoto entro il mese di luglio.

Contestato ciò immediatamente alla moglie, subiva da costei (perché

ignara oppure istruita dalla psicologa per l’evenienza) una violenta reazione

con tentativo di chiamare la Polizia se non fosse uscito di casa, tentativo non

riuscito per avere la figlia Viviana di appena 9 anni staccato la spina del

telefono, e veniva costretto ad abbandonare il domicilio con la figlia predetta.

Reso edotto della situazione, consigliai mio figlio di trattenersi a casa mia e di

attendere il giorno successivo, nella speranza che la moglie si fosse calmata.

Senonché il giorno successivo non potette rientrare nella sua abitazione,

essendo stata cambiata la serratura e non essendogli stata aperta la porta dalla

moglie, della quale dall’esterno si avvertiva la voce unitamente con quella di

altra donna, con tutta probabilità la psicologa Biondi.

L’indomani il fratello di mia nuora, avvertito telefonicamente da

Maurizio e, preoccupato per l’invalidità dell’acquisto, tramite atto di

divisione ereditaria con la sorella, di metà dell’appartamento, in quanto

venduto dal Leccisi quale procuratore il giorno prima dell’atto stesso,

giungeva da Trieste dove abitava con la moglie e faceva aprire la porta da un

fabbro, constatando, in presenza di mio figlio, che l’appartamento di Trinità

dei Monti era stato del tutto vuotato, senza poter appurare dove erano finiti i

mobili e Costanza. Il giorno successivo Maurizio, dietro mie insistenze, data

la possibilità di incriminazione di Costanza per truffa ai danni del fratello in

concorso con il Leccisi, presentava alla Procura della Repubblica di Roma

denunzia nei confronti della coppia Biondi-Leccisi per il delitto di

circonvenzione d’incapace.

Stante anche l’obbligo di rilascio alla Soc.Finap 83 entro il mese

successivo, consigliai Maurizio, rimasto senza abitazione, di recarsi a

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Terracina con le due figlie, (Daphne era già presso di noi) e prendere alloggio

durante tutto il periodo feriale e sino alla riapertura delle scuole, coincidente

anche con la ripresa delle lezioni universitarie (mio figlio era titolare della

cattedra di geometria differenziale presso la Università di Tor Vergata in

Roma), nell’appartamento di mia proprietà sito in Via Francesco Petrarca, in

modo da avere il tempo necessario per reperire altra abitazione in Roma.

Io e mia moglie, che intendeva occuparsi personalmente delle nipoti,

li avremmo raggiunti subito a Terracina dove mia moglie possedeva un

appartamento in Via Leopardi acquistato appena 11 mesi prima.

Ritornammo tutti in Roma nel mese di Ottobre e Maurizio con le figlie

prese alloggio in Via Chiana in un appartamento nel frattempo acquistato.Di

mia nuora si persero le tracce sino al gennaio 1994, nonostante le ricerche da

parte della polizia giudiziaria a seguito della denunzia sporta da mio figlio

Maurizio.

Appunto nei primi giorni del gennaio 1994 una zia di Costanza, residente

in Bolzano ricevette di Casamaina, una frazione di Lucoli, piccolo paese

montano dell’Abruzzo, una lettera con cui una signora comunicava che mia

nuora Costanza da tempo viveva in quel luogo senza mezzi, ospite di un suo

fratello.

Maurizio, recatosi subito a Casamaina, apprendeva che la Biondi e il

Leccisi avevano dapprima nascosto mia nuora in un appartamentino di

proprietà della Biondi, fornendole 300mila lire al mese per le esigenze di vita

e, poi, nel gennaio 1993, la avevano indotta a trasferirsi nella casa di un

muratore ex maestro di sci, De Simone Fiorenzo, conosciuto nel negozio di

generi alimentari della di lui sorella presso la quale mia nuora faceva la spesa

e tenuto all’oscuro del fatto che quest’ultima era sposata con 2 figlie. Fra mia

nuora e il De Simone si instaurò una relazione e nell’aprile del 1994 mia

nuora rimase incinta.

Nel frattempo la coppia Biondi-Leccisi di tanto in tanto tornava a

Casamaina per controllare mia nuora, tanto che veniva prelevata e riportata

nella casa del De Simone, trattandola come “un passo postale”, espressione

questa usata dal De Simone nella testimonianza resa dinanzi al giudice.

Nell’agosto 1994 mia nuora venne prelevata e portata in una villa nei

pressi di Rocca di Papa, dove la Biondi teneva la madre bisognosa di

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assistenza e di cure. Nella villa mia nuora venne costretta a fare da infermiera

e da cameriera alla madre delle Biondi., subendo ogni sorta di angherie. Come

cameriera ella si qualificava a vicini e terzi, significativamente cambiando il

nome in quello di Livia.

Fra l’altro era indotta a fare acquisti a credito presso i vari negozianti

della zona a nome della Biondi, che puntualmente ometteva di pagare, sicché

mia nuora non faceva altro che piangere e supplicare.

Fu da ultimo riportata a Casamaina in condizioni talmente disperate da

indurre la sorella del De Simone a mettersi in contatto con la zia Elisabetta

Koranda di Bolzano perché potesse essere assistita e fu così che mio figlio,

avvertito dalla zia, la riportò a Roma e la fece ricoverare nei primi giorni del

dicembre 1994 presso l’Ospedale di S.Camillo.

Nei primi giorni del gennaio 1995 nacque la figlia Sarah, concepita con il De

Simone, che mio figlio successivamente ha adottato.

27.IL CALVARIO DI LORENZA

Mia nuora Rossi Modigliani Costanza aveva ereditato dal padre una villa in

Pratovecchio, una cittadina del Casentino.

La villa, che insisteva su un terreno di circa 7000 metri quadrati ed. era

composta di due piani e da un seminterrato, era divisa dalla strada nazionale da

un alto muro distante 40-50 metri dalla facciata..

Ai lati della villa correvano ottanta tigli allineati in due doppi filari e alla

destra della villa, guardando dall’ingresso del muro di cinta, esisteva anche un

dependance, anch’essa di due piani, una volta casa del giardiniere, che

costeggiava la via nazionale con un muro perimetrale

Sulla parte posteriore della villa e a distanza di circa 30 metri da essa correva

un recinzione metallica che la separava dal sottostante alveo del fiume Arno.

Fra la villa e la casa del giardiniere si innalzavano alti alberi, fra cui un cedro

del Libano ed un salice piangente proveniente dalla Cina, mentre tra la casa del

giardiniere e il fiume insistevano un gazebo e, oltre verso il fiume, i resti di quello

che una volta era stato un campo da tennis e di uno spogliatoio.

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Il giardino ed il vasto orto a sinistra della villa erano curati da Vasco

Magnaneschi, che era stato dipendente del padre di mia nuora, comproprietario

con il fratello e la sorella di una fabbrica di parquets e di altra di spugne, i cui

fabbricati diruti si notano ancora sulla destra del giardino della villa ed a confine

con questo.

Un tempo, prima della seconda guerra mondiale, come mi raccontava Vasco,

quando le fabbriche erano in funzione, il padre di mia nuora, pur abitando in

Roma con il fratello nel palazzo in Piazza Trinità dei Monti a destra della chiesa e

prospiciente la scalinata di Piazza di Spagna, dava nella villa ricevimenti ai quali

partecipava anche il cugino Camillo Olivetti, fondatore della omonima impresa,

anch’egli ingegnare elettrotecnico.

Dalla morte del padre di mia nuora avvenuta nel 1967 la villa, prima

frequentata nel periodo estivo, era rimasta del tutto disabitata, tranne sporadici

brevi periodi.

Dopo il matrimonio di mio figlio con Costanza Rossi Modigliani, avvenuto

nell’ottobre del 1981 negli Stati Uniti a Salt Lake City, presso la cui Università

egli, professore associato di matematica presso la Seconda Università di Roma,

eseguiva degli studi per conto del Consiglio Nazionale delle Ricerche, io e mia

moglie iniziammo a passare il mese di agosto nella villa unitamente con la madre

di mia nuora e con le due mie nipotine nate nel frattempo.

Il 13 luglio 1991 io e mia moglie arrivammo a Pratovecchio, dove alcuni

giorni dopo dovevano arrivare il mio amico dentista Giuseppe Simonelli e la

moglie invitati a trascorrere qualche giorno nella villa prima di partire.

La sera di quel giorno ci eravamo preparati per uscire e cenare fuori della

villa, quando mia moglie, nell’attraversare il salone al piano terra, cadde

improvvisamente a terra sul fianco destro lamentando dolori alla gamba di quel

lato, talmente forti da indurmi a telefonare a Vasco Magnaneschi per chiamare un

medico, che, dopo una visita sommaria consigliò il ricovero nell’ospedale più

vicino, quello di Bibbiena.

Una autoambulanza della Misericordia (Associazione analoga alla Croce

Rossa) trasportò Lorenza nell’ospedale di Bibbiena, dove le fu praticata una

radiografia che evidenziò la frattura della testa del femore e impose il

trasferimento ad Arezzo, mancando in quell’ospedale un reparto ortopedico.

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Non fu possibile stabilire se la frattura fosse effetto della caduta o questa

fosse stata causata dalla rottura spontanea del femore, tenuto presente che mia

moglie soffriva di una grave osteoporosi, tanto che all’età di sedici anni aveva

riportato da una caduta da bicicletta la frattura della tibia e del perone della gamba

sinistra e che tale frattura si era riprodotta a Sulmona, per avere inciampato in un

gradino della nostra abitazione il 22 settembre 1954, giorno precedente alla

nascita di mio figlio Piero nell’ospedale di quella città, dove la gamba fratturata

era stata immediatamente ingessata.

Nell’Ospedale di Arezzo il Prof. Pitto effettuò un intervento di artroprotesi il

19 luglio 1991 e mia moglie fu dimessa da quell’Ospedale il 10 Agosto

successivo.

Nel periodo di degenza avevo preso alloggio in un Albergo nei pressi della

stazione ferroviaria di Arezzo e tutti i giorni mi recavo a fare visita a mia moglie,

che alla fine della degenza fu trasportata con un’autoambulanza, come da nostra

richiesta, in Terracina nell’appartamento di Via Leopardi acquistato pochi mesi

prima.

Dopo due mesi di fisioterapia la gamba fratturata riprese l’intera funzionalità,

mantenuta sino all’ottobre del 1999, quando, a seguito di una caduta in casa per

avere inciampato nel filo elettrico disteso lungo il pavimento del corridoio di una

lucidatrice, che il collaboratore familiare peruviano Hugo stava facendo

funzionare nel salone, mia moglie, oltre ad una frattura esposta dell’omero destro,

riportò una incrinatura della parte superiore del femore destro e la mobilizzazione

della protesi dell’anca impiantata nel 1991.

L’intervento di ricomposizione della frattura dell’omero destro fu eseguito

perfettamente nell’Ospedale di S. Giacomo dal dott. Ripanti, tanto che mia moglie

in breve tempo riprese la funzionalità completa del braccio e della mano destra, ad

eccezione della perdita di sensibilità del pollice della mano destra.

Il primario dell’Ospedale non ritenne di intervenire relativamente alla

incrinatura della parte alta del femore e prescrisse per essa l’immobilizzazione

dell’arto inferiore destro mediante l’ingessatura del piede destro con due ali

laterali che ne impedivano il movimento.

Lorenza rimase così immobilizzata nel letto per circa due mesi fino al

gennaio 2001, quando le fu tolta l’ingessatura, ma i dolori continui, nonostante la

deambulazione con l’aiuto di un bastone, e l’aggravamento della mobilizzazione

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della protesi dell’anca resero necessario un intervento di revisione della protesi

stessa, che fu eseguito dal prof..Laurenza nell’Ospedale di San Giovanni il 3

ottobre del 2001 e ripetuto dopo alcuni giorni, in quanto il fisioterapista del

reparto aveva constatato che la nuova protesi non era sistemata bene.

Il 19 ottobre di quell’anno mia moglie fu dimessa con una ingessatura della

gamba destra, estesa a tutto il tronco per evitare movimenti dell’anca

corrispondente, e in tale stato rimase immobilizzata a letto per oltre due mesi sino

al gennaio del 2002.

Tutto ciò non valse a ristabilire la normale deambulazione ed i referti

radiografici eseguiti pressoché mensilmente, stante la persistenza di forti dolori

inguinali e la ricorrenza di sciatalgie, evidenziarono che la testa del femore aveva

eroso l’acetabolo e da ultimo rischiava di penetrare nell’addome con esito fatale.

Tuttavia, stante la vicinanza dell’intervento di revisione della protesi, fu

consigliato dall’ortopedico dott.Barbieri, che visitò mia moglie a Bergamo, di

pazientare il più possibile, di limitare allo stretto necessario la deambulazione con

l’aiuto di una stampella canadese e di assumere sostanze antinfiammatorie per

attenuare i continui dolori. Peraltro, dopo un’estate passata a Terracina in quelle

condizioni, il prof. Francesco Falez dispose il 19 novembre del 2003 il ricovero

di mia moglie nell’ospedale di Santo Spirito, dove era primario del reparto

ortopedico. Lo stesso Falez il 27 di quel mese la sottopose ad intervento diretto a

ricostruire l’acetabolo destro per evitare la intrusione della testa del femore

nell’addome.

Mi spiegò che lo stelo della protesi era circondata da uno strato così sottile

residuato dal femore dopo la revisione, che egli non aveva potuto rimuoverlo per

la sostituzione della protesi con altra più moderna meno invasiva e dotata di testa

con più larga possibilità di aggancio al bacino, perché altrimenti mia moglie

sarebbe rimasta senza femore ed avrebbe perduto la gamba, sicché si era limitato a

rinforzare l’acetabolo ed a meglio ancorare la testa del femore.

Fu prescritto il riposo a letto con uso di tutore per circa due mesi ed inoltre

l’uso di un elettrostimolatore tubolare da applicare di notte all’anca per 8 ore e

per la durata di 5-6 mesi

Anche l’intervento del novembre 2003, a causa della grave osteoporosi e

della rarefazione ossea intorno alla testa della protesi con lussazione centrale della

stessa, non risolse il problema, perché, nonostante la deambulazione assistita,

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continuarono sia i dolori dell’anca, sia le sciatalgie e, dopo l’estate del 2004

trascorsa a Terracina, si riprodusse il rischio di penetrazione della testa della

protesi nell’addome, tanto che il Prof.Falez decise una nuovo intervento da

effettuarsi presso l’Ospedale di Santo Spirito nel marzo del 2005.

Senonché, pochi giorni prima del ricovero programmato, la gamba destra fu

colpita da una tromboflebite che impedì il ricovero e, per di più, il 27 Aprile del

2005 mia moglie fu ricoverata d’urgenza e operata lo stesso giorno, essendosi

verificato, a causa delle forti iniezioni sottocutanee di eparina eseguite due volte al

giorno, un ematoma del retzius, drenato presso lo stesso Ospedale di Santo Spirito

dal dott. Andrea Bellucci

Date le condizioni postoperatorie l’intervento all’anca fu rinviato ad ottobre e

dall’aprile mia moglie fu costretta a rimanere in casa e ad usare una sedia a rotelle

o un deambulatore per muoversi nella stessa, senza peraltro ottenere che i dolori

cessassero, e ciò anche nel periodo da giugno a tutto settembre che trascorremmo

a Terracina.

L’intervento programmato, poi, non poté essere effettuato, perché il 6 ottobre

la nostra amica dott.ssa Angelica D’amato, che aveva sempre costantemente e

giornalmente assistito mia moglie, riscontrò una ischemia della gamba destra con

perdita di sensibilità e la accompagnò al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Santo

Spirito, dove fu accertata una tromboembolia della gamba stessa, per la quale il

giorno successivo fu eseguito un intervento di tromboembolectomia femoro-

popliteo-tibiale.

Le condizioni di mia moglie dopo il ritorno in casa peggiorarono, perché,

oltre alla immobilizzazione nel letto, risultarono inefficaci al fine di calmare i

continui dolori della gamba gli antinfiammatori e le condizioni peggiorarono

talmente da richiedere un nuovo ricovero in Ospedale effettuato l’8 novembre.

I vari accertamenti eseguiti evidenziarono uno stato di forte anemia (tasso di

emoglobina 7 rispetto al tasso normale 12), causata da una emorragia localizzata

da ultimo nell’anca e l’aggravarsi delle condizioni resero necessario un intervento

urgente di rimozione della protesi da parte del prof. Falez e degli ortopedici

dell’Ospedale di Santo Spirito per rendere possibile la sutura dei vasi interni

dell’anca lesionati dalla protesi da parte dei medici del reparto vascolare dello

stesso Ospedale.

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L’intervento iniziato nella sera di sabato 12 novembre si protrasse sino a notte

inoltrata e richiese molte trasfusioni di sangue. Per agevolare il recupero mia

moglie fu mantenuta in coma farmacologico sino alle ore 10 del lunedì 14.

Io e mio figlio Maurizio fummo ammessi a vedere Lorenza subito dopo il

risveglio. Secondo il Prof.Falez, che l’aveva visitata prima di noi, l’intervento era

riuscito e per tranquillità occorreva effettuare una angiografia per accertare se vi

fossero perdite di sangue.

Purtroppo dall’angiografia risultò che si era verificata una embolia nella

gamba destra e, prospettatami nel pomeriggio dai medici vascolari la necessità di

un nuovo immediato intervento per rimuoverla, perché altrimenti mia moglie

avrebbe perduto la gamba e con essa la vita stante il grave stato di anemia, detti il

mio consenso ad esso.

Io, i miei figli, i nipoti e i miei fratelli eravamo sul ballatoio del secondo

piano dell’ospedale in attesa dell’esito dell’intervento, quando a tarda sera vidi

salire dal piano inferiore Serena Mari, anestesista del reparto di rianimazione e

figlia di una carissima amica e collega di mia moglie, Rossana Fabbri. Lessi nei

suoi occhi che mia moglie era morta.

La stessa mi comunicò che il decesso si era verificato subito per collasso

cardiocircolatorio prima che potesse essere iniziato l’intervento preventivato.

Amavo mia moglie e con lei è andata via metà della mia vita.

Avevamo caratteri diversi: lei viva, spontanea, polemica, ma capace di grande

affetto e di grandi sacrifici; io freddo, metodico, pacifico, tollerante. :La diversità

di carattere non ci impedì di instaurare un saldo legame affettivo protrattosi

ininterrottamente per 58 anni, che costituì la salda base per costruire una vera

famiglia in tutti i sensi..

Quando ci sposammo il 6 giugno 1948 non avevamo una casa e andammo ad

abitare presso i miei genitori, io non avevo un lavoro ma soltanto la promessa di

esso poi non mantenuta e quindi non avevamo nemmeno i soldi per vivere. Dopo

un aborto spontaneo, mia moglie, per evitarne un altro ed avere il primo figlio,

rimase a letto per tutti e nove i mesi della gravidanza. Io nel frattempo feci un

tentativo per avviare con un compagno di scuola uno studio di assistenza legale e,

fortunatamente, dopo alcuni mesi entrai nello studio dell’Avv.Vittorio Puddu, che

mi retribuì sin dal primo momento e del quale divenni sostituto quando superai il

concorso di procuratore legale.

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Fu mia moglie che mi spinse ad entrare in magistratura. Avevo avuto del

dicembre del 1950 una nefrite e il timore che la malattia potesse recidivare e

togliere così il sostegno economico, del tutto indispensabile in mancanza per gli

avvocati di qualsiasi forma di assistenza e di previdenza la indussero a fare

pressioni nei miei confronti per partecipare al concorso, in quanto vedeva nella

professione di magistrato la sicurezza economica.

Erano trascorsi degli esami sostenuti nel corso per la laurea in

giurisprudenza diversi anni e perciò dovetti riprendere gli studi nelle ore della

tarda sera. Infatti, la mattina frequentavo quasi tutti gli uffici giudiziari (Pretura

civile in Via del Governo Vecchio; Tribunale e Corte di Appello Civili nel

Palazzo di Giustizia di Piazza Cavour), in quanto ogni giorno normalmente

l’Avv.Puddu, titolare di uno studio avviatissimo e tra l’altro legale dell’Opera

Nazionale Combattenti in tutta Italia, doveva trattare dinanzi ai giudici romani

non meno di 12-14 cause. Egli si occupava delle udienza dinanzi al Consiglio di

Stato e alla Corte di Cassazione, mentre io e l’altro sostituto Avv. Giuseppe Di

Stefano ci dividevamo le cause dinanzi ai giudici di merito, mentre il Prof.

Giannetto Longo, titolare della cattedra di Diritto Romano presso l’Università di

Macerata, da parte sua, redigeva gli atti delle cause dinanzi alle magistrature

superiori.

Nel pomeriggio e fino allre ore 20. 20,30 mi occupavo delle cause

affidatemi dall’Avv.Puddu, tra cui in media settanta cause dell’Opera Nazionale

Combattenti dinanzi alla Pretura e al Tribunale di Latina per le quali avevo delega

congiunta e percepivo i diritti di procuratore, redigendo gli atti relativi (citazioni,

comparse, memorie.)

La sera, dopo cena, a letto vicino a mia moglie e da lei stimolato quando

accennavo a chiudere gli occhi per la stanchezza, studiavo sino alle ore piccole.

Devo perciò a lei, oltre alla pratica presso un grande studio, se riuscii a

superare al primo tentativo gli esami di uditore giudiziario,

Il forte legame affettivo che ci legava ci permise di affrontare tutte le

difficoltà della vita e di mantenere salda la famiglia, anche dopo che i due figli si

sposarono, tanto che i loro figli (Pierpaolo, figli si Piero; Daphne e Viviana, figlie

di Maurizio) hanno sempre considerata come loro la nostra casa.

Rimasti soli all’inizio degli anni settanta (Maurizio, laureatosi in

matematica nel luglio 1971 si trasferì subito dopo a Princeton, presso la cui

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Università aveva vinto una borsa di studio e dal 1974, anno in cui vinse un

concorso per assistente presso l’Università di Ferrara, ha insegnato prima a

Trento come professore incaricato, a Salerno come professore associato,

all’Aquila come ordinario e nelle more si è sposato; Piero, invece, si è sposato nel

1974) mia moglie si è dedicata all’insegnamento nelle classi elementari sino al

raggiungimento del 65.o anno di età.

Io le sono rimasto sempre vicino, tanto che poco tempo fa, dopo la sua

morte, uno dei suoi parenti abruzzesi nel vedermi solo mi disse che era rimasto

impressionato perché da tanti decenni mi aveva visto sempre in compagnia di

Lorenza e si era radicato in lui il convincimento di una coppia permanentemente

inseparabile

Negli ultimi quattro anni della sua vita, poi, Lorenza, a causa dei molteplici

interventi chirurgici, delle successive immobilizzazioni, delle difficoltà di

deambulazione, dello stato doloroso e della necessità di terapie e medicinali,

aveva bisogno di continua assistenza, in gran parte da me prestata in ore diurne e

notturne, sicché al legame affettivo mai venuto meno ed anzi rafforzato si era

aggiunto un legame fisico quasi simbiotico ed è per questo che più della metà

della mia vita, se non tutta, se ne è andata via con lei ed è rimasto con me soltanto

il suo ricordo, il ricordo doloroso di una donna esemplare ed eccezionale come

moglie, madre e nonna.

28.IL CENTRO ANZIANI

Dopo il collocamento a riposo tre o quattro volte durante l’anno continuavo e

continuo tuttora a vedermi, partecipando a pranzi presso ristoranti scelti volta per

volta da Giorgio Givva-Palli o a cene di solito presso il Circolo della Polizia sul

Lungotevere Flaminio, rispettivamente con una trentina dei 200 miei commilitoni

del Corso Allievi Ufficiali 1941-1943, progressivamente ridottisi per cause

naturali a una diecina. e con alcuni miei colleghi della Sezione Lavoro del

Tribunale di Roma nel periodo in cui ne avevo fatto parte (1966-1977), fra cui

Mario Ragusa, l’organizzatore degli incontri, Antonio Iannotta, Ettore Mercurio,

Giuseppe Quattrociocchi-Branca, Carlo De Gregorio, Giuseppe Bozzi, Antonio

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Martone, Libero Carmenini, Mario Morelli, Giovanni Casciaro e Vincenzo

Trezza.

Dopo la morte di mia moglie sono venute a convivere con me, per fami

compagnia, la nipoti Daphne e Viviana, figlie di Maurizio, professore ordinario di

Geometria sin dall’età di 37 anni e attualmente in servizio presso l’Università Tor

Vergata di Roma, ambedue nate a Salt Lake City (U.S.A.) presso la cui Università

il padre negli anni 1981-83 ha effettuato studi supportati dal Consiglio Nazionale

delle Ricerche, i cui risultati sono stati pubblicati in riviste specializzate.

(“American Journal of Mathematics”, ”Journal of Algebra”. “Pacific Journal of

Mathematics”, “The Johns Hopkins Univesity Press”, “Inventione Mathematicae”,

“Bulletin of the London Mathematical Society”). .

La prima, già laureata con lode in giurisprudenza presso la Terza Università di

Roma nel 2004 all’età di 23 anni, iscritta nell’Albo degli Avvocati di Roma dal

gennaio 2009 dopo aver conseguito il dottorato di ricerca l’anno precedente nella

stessa Università, esercita attualmente la professione nello studio legale civilistico

“Vassalli e Soci” di Roma. La seconda, più giovane di due anni e laureata in fisica

presso l’Università “La Sapienza” di Roma, dal settembre 2011 vive a Parigi,

avendo conseguito il dottorato presso l’Università “ Dauphine”.

Nel 2009, spinto da un amico, mi sono iscritto presso il Centro Anziani di Via

Sabotino, nelle immediate vicinanze della mia abitazione.

Sono iscritte al Centro all’incirca 800 persone. Il Centro in tutti i giorni

feriali è aperto per 2 ore di mattina e per 3 ore il pomeriggio; la Domenica è

aperto solo il pomeriggio.

Antistante l’edificio di un solo piano sede del Centro vi è uno spazioso giardino

alberato e l’edificio si compone di una stanza adibita ad ufficio, di un salotto, di

due stanze dove generalmente si gioca a carte, di una stanza dove sono sistemati

otto computer e si tengono lezioni per usarli, di un grande salone con attiguo

spogliatoio, di una ampia cucina attrezzata , di una stanza ove si alternano una

pedicure e una otorinolaringoiatra, di sei bagni distribuiti in due stanze

rispettivamente per donne e per uomini.

Gli anziani che frequentano tutti i giorni il Centro sono circa 70 e

generalmente giocano a carte. Vi si tengono corsi di computer, lezioni di ballo a

coppie e di gruppo, corsi di Tai Chi e di canto. Giovedì e Domenica di

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pomeriggio una settantina di soci di ambo i sessi ballano nel salone al suono di

una pianola elettrica azionata da un cantante pagato dal Centro.

Durante l’anno a primavera e in autunno vengono effettuati con pullman in

centri di interesse artistico del Lazio viaggi giornalieri che comprendono il

pranzo, a cui possono partecipare a turno 50 soci pagando il solo prezzo del

viaggio

La mia giornata inizia alle 7 e mezza del mattino, quando i due gatti, il

cui pelo bianco e nero mi ha dato lo spunto per dare loro i nomi di due giocatori

della squadra di calcio Juventus, Giovinco e Trezequet, vengono puntualmente

vicino al mio letto e cominciano a miagolare insistentemente per indurmi a dare

loro il cibo mattutino (mezza scatoletta di carne varia e un pugno di croccantini

per ciascuno), il che faccio regolarmente. Dopo essermi sistemato nel bagno (mi

faccio, tra l’altro, sistematicamente la barba ogni giorno), aspetto l’arrivo del

peruviano Hugo che, tranne il giovedì ( giorno in cui, avendo un altro impegno di

mattina, viene di pomeriggio a stirare i panni per quattro ore) e la Domenica,

attende alle faccende domestiche per tre ore.

Hugo, che inizia a lavorare altrove verso le ore 6 di mattina per la pulizia in

subappalto di appartamenti ed uffici, non osserva un orario preciso ed arriva da

me tra le 9 le 10 e mezza. Con Hugo tutte le mattine in cui è presente prendo il

caffè fatto con la apposita macchina della Ditta Lavazza.

Quando non debbo andare a fare versamenti su conti correnti postali oppure

operazioni bancarie, passo le prime ore della mattina a sistemare le mie carte

oppure a fare ricerche statistiche (nella mia vita ne ho fatte tante in campi diversi,

da quello giudiziario a quello economico) o a ordinare i miei lavori sul computer e

nella tarda mattinata vado a fare la spesa, dopo essermi trattenuto per alcuni

minuti presso il negozio di abbigliamento sito a fianco del portone d’ingresso del

palazzo dove abito, gestito dalla signora Tina, spesso in compagnia del mio

collega in pensione Gianni Toti (un tempo, prima della sua morte, si tratteneva

con noi anche il generale in pensione Oliva, che era stato comandante della

Guardia di Finanza), vado a fare la spesa nel vicino mercato rionale. Poi preparo il

pranzo per me e per mia nipote Daphne (l’altra nipote Viviana che alla morte della

nonna si trasferì nella mia abitazione insieme con la sorella, per farmi compagnia,

vive a Parigi come in precedenza narrato ),

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Dopo pranzo guardo la televisione e soprattutto uno qualunque dei

telegiornali per tenermi al corrente degli principali avvenimenti riguardanti

l’intero Paese, giacché da parecchi anni non acquistò più quotidiani e leggo solo i

periodici “Penorama” e “Focus”, ai quali sono abbonato.

Il Giovedì e la Domenica mattina, mancando Hugo, rifaccio i letti, lavo le

stoviglie e pulisco casa, compresa la stanza di Viviana, dove vivono due

coniglietti, uno d'Angora e l'altro con pelo marroncino, ai quali tutti i giorni do il

cibo e mantengo l'acqua da bere.

Generalmente, poi, trascorro il primo pomeriggio, dalle 15 e mezza alle

19, presso il Centro Anziani di Via Sabotino, giocando a “tresette” e “briscola”

con uomini oppure a “burraco”, che è il gioco preferito dalla maggior parte delle

donne.

Poiché la sera rimanevo solo in casa, dal momento che le due nipoti

preferivano giustamente trascorrere le serate con i loro amici coetanei, cercai circa

un anno e mezzo fa, appena iscritto al Centro Anziani di trovare una donna single

disposta a passare qualche sera con me in una pizzeria o trattoria oppure in un

cinematografo. Naturalmente cercavo una donna avvenente, seppure anziana, e ne

individuai una che nel Centro veniva appellata “la bionda” per il colore dei

capelli, anziché per nome.

Una sera, uscendo dal Centro, la invitai a cena presso la trattoria “da Nello”

in Via Monte Santo, dove avevo appuntamento con mio figlio Piero alle ore 20.

Feci presente alla donna tale appuntamento per evitare che pensasse ad intenzioni

da parte mia diverse da un rapporto amicale. La “Bionda” accettò l’invito, ma non

si presentò all’appuntamento ed il giorno successivo sui giustificò, dicendo che io

avevo capito male, perché non aveva affatto assicurato la sua presenza, ed

aggiunse che non poteva incontrarsi con me da sola, in quanto al Centro già si

malignava di una relazione affettuosa con me, che ella escludeva in modo

assoluto, data la notevole differenza di età (venti anni).

Solo recentemente ho appreso il vero motivo per cui mancò

all’appuntamento. Giorni fa all’uscita dal Centro Anziani insieme con altri,

uomini e donne, chiesi se vi era qualcuno disposto a trascorrere la serata con me

in una pizzeria. Una signora, vedova, accettò e insieme cenammo presso la

trattoria “da Vanni”, dove andammo con la sua autovettura. Mentre ritornavamo

verso le ore 21 la donna ricevette una telefonata con il suo cellulare da parte di un

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figlio preoccupato per non averla rinvenuta nella sua abitazione. La donna mi

spiegò che se i figli avessero appreso che era stata a cena con un uomo sarebbe

sorta per lei una tragedia. Evidentemente i figli erano talmente gelosi della madre

da considerare sentimentale l’incontro da parte suo con un uomo e

conseguentemente come tradimento verso il padre defunto.

Riferii ciò alla “Bionda”, che espresse il convincimento di un analogo

comportamento da parte del figlio che la ospitava nella sua abitazione e che

probabilmente l’avrebbe cacciata di casa ove avesse avuto un incontro del genere.

Perciò la sera sono costretto a rimanere in casa e, dopo cena (ogni lunedì

con mio nipote Pierpaolo, che rimane da me in attesa che la compagna Laura

finisca verso le 21,30 la sue lezioni di “Tai Chi” nei pressi della mia abitazione

per tornare poi con lei a casa), sono costretto a vedere la televisione, che ha

programmi quasi sempre inaccettabili, in quanto considero avvilente vedere un

film in un locale pubblico o cenare fuori casa da solo.”

29. LA LUNGA STORIA DI UN SOPRUSO

Nel 1981 un gruppo di magistrati aderenti al Sindacato Nazionale

Magistrati da me capeggiato aveva iniziato una causa presso il Tribunale

Amministrativo del Lazio per ottenere che il medesimo trattamento dai magistrati

della Corte dei Conti a parità di qualifica e di anzianità.

Invero, una legge del 1981 prevedeva che il trattamento dei magistrati

della Corte dei Conti fosse lo stesso di quello dei magistrati ordinari a parità di

qualifica e di anzianità, ma sorprendentemente io ero venuto a conoscenza che

nella realtà tale parità non sussisteva.

Infatti, un collega in servizio presso il Ministero mi aveva fatto

pervenire il prospetto della retribuzione di un magistrato (Rosario De Musis) che a

suo tempo era passato, vincendo un concorso, alla Corte dei Conti e, pervenuto

alla qualifica di Consigliere, si era avvalso di una norma che gli consentiva il

rientro nella magistratura ordinaria con la stessa qualifica, conservando però il

trattamento conseguito nella magistratura di provenienza. Il rientro era stato

determinato dal fatto che, mentre il conseguimento della qualifica di Presidente di

Sezione della Corte dei Conti era subordinato alla vacanza del posto previsto per

le relative funzioni, ipotesi non frequente, nella magistratura ordinaria il

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corrispondente conseguimento era ed è ancora automatico al maturare

dell’anzianità di 8 anni nella qualifica di Consigliere di Cassazione, salvo

demerito.

Il De Musis l’anzianità maturata presso la Corte dei Conti non

assicurava il conseguimento della qualifica di Presidente di Sezione entro breve

termine, mentre questo sarebbe stato automatico a breve termine con il rientro

nella magistratura ordinaria.

Dalla copia del prospetto consegnatami dal collega del Ministero

risultava che il trattamento economico conservato dal predetto era superiore a

quello del Primo Presidente della Corte di Cassazione, qualifica superiore di tre

gradi rispetto a quella di Consigliere di Cassazione rivestita dal De Musis e ciò

appariva incomprensibile, dal momento che la legge del 1981 prevedeva lo stesso

trattamento per il Consigliere della Cassazione e quello della Corte dei Conti.

Approfondendo l’esame delle leggi riguardanti il trattamento

delle magistrature, rinvenni una legge del 1961 che riconosceva ai magistrati della

Corte dei Conti nel passaggio da una qualifica a quella superiore la conservazione

degli scatti di anzianità maturati nella qualifica di provenienza e in definitiva per i

Consiglieri l’attribuzione di sei scatti di anzianità figurativi. Stante l’uniformità

del trattamento fra le varie magistratura, il gruppo di magistrati da me capeggiato

sostenne dinanzi al TAR del Lazio e che quella legge andava applicata anche ai

magistrati ordinari e tale tesi fu accolta sia del giudice adito, sia dal Consiglio di

Stato in grado di appello, mentre la Corte Cassazione dichiarò infondato nel

marzo del 1984 un pretestuoso ricorso del Ministero di Grazia e Giustizia che

sosteneva il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.

Il giudicato riconobbe ai ricorrenti il diritto alle differenze di

stipendio a decorrere dal gennaio 1979 ed io, dopo un giudizio di ottemperanza,

percepii le differenze arretrate pari a 26 milioni di lire.

Nel frattempo, dopo la pronunzia del TAR ben tremila magistrati

avevano promosso analoga azione ed ottenuto sentenze favorevoli di primo grado.

L’Associazione Nazionale Magistrati, preoccupata delle

ripercussioni nell’ambiente giudiziario dell’esito dell’azione svolta dal Sindacato

per migliorare il trattamento economico dei magistrati e della conseguente

possibilità di aumento del numero degli aderenti dello stesso a suo danno, indusse

il Governo ad emanare in fretta nell’agosto del 1984, onde evitare che le

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sentenze di primo grado fossero confermate in appello e passassero in giudicato,

una legge che dichiarò estinti i giudizi in corso e previde un nuovo trattamento

con conservazione del numero degli scatti di anzianità in caso di promozione.

La legge, peraltro, non poteva incidere retroattivamente sugli effetti

del giudicato già verificatisi e, pertanto, stabilì che gli importi da esso riconosciuti

rimanessero attribuiti ad personam e fossero in futuro riassorbiti con la normale

progressione economica e nelle funzioni, con ciò intendendo che i magistrati che

avevano conseguito i benefici del giudicato non avessero aumenti di stipendio

fino a che il loro superiore trattamento non si fosse portato a livello dei colleghi

con pari qualifica ed anzianità di servizio.

Senonché, contro il chiaro dettato della legge il Ministero di Grazia

e Giustizia, con provvedimenti adottati nel 1985 dal Direttore Generale per

l’organizzazione giudiziaria, tolse di colpo ai magistrati in possesso del giudicato i

6 scatti di anzianità figurativi da esso riconosciuti e nel contempo ordinò il

recupero delle somme ad essi corrisposte a titolo di arretrati.

Il provvedimento fu impugnato dagli interessati e nel 2005, dopo un

sentenza dichiarativa di inammissibilità del ricorso emessa nel 1995 dal TAR del

Lazio, il Consiglio di Stato ha riconosciuto che gli arretrati non potevano essere

recuperati e che i ricorrenti avevano diritto a mantenere con progressivo

riassorbimento gli scatti di anzianità figurativi attribuiti dal giudicato del 1984.

Nel momento in cui scrivo (giugno 2011), a distanza di 28 anni, io e i

miei colleghi ricorrenti, nonostante un giudizio di ottemperanza e la scadenza di

tre termini, di cui l’ultimo perentorio, concessi dal Consiglio di Stato al Ministero

della Giustizia e la nomina di due Commissari ad acta nominati rispettivamente

nella persona del Ragioniere Generale dello Stato o di un funzionario da lui

delegato e di un Presidente di Sezione del Consiglio di Stato in pensione, non

siamo ancora riusciti ad ottenere quanto negato dal Ministero con il

provvedimento del 1985 annullato nel 2005.