Riassunto Tesauro Parte Speciale

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- 1 - PARTE PRIMA. LE IMPOSTE SUI REDDITI. CAPITOLO PRIMO. Il sistema. Tipologia delle imposte sui redditi. Le imposte sono variamente classificate, secondo criteri e scopi assai diversi. La distinzione basilare è quella tra imposte dirette e indirette. Sono dirette le imposte che hanno come presupposto il reddito o il patrimonio, indirette tutte le altre. Secondo la definizione dei giuristi, le imposte dirette colpiscono manifestazioni dirette della capacità contributiva (ad esempio, il reddito), mentre le indirette colpiscono espressioni indirette di capacità contributiva (ad esempio, i consumi). Le imposte dirette si dividono in personali e reali. Nelle imposte personali sul reddito assume rilievo la situazione personale o familiare del contribuente (ad esempio, l’ammontare del reddito complessivo, la struttura del nucleo familiare, …). Nelle imposte reali non hanno rilievo elementi di natura personale. Le origini delle imposte sui redditi. Il sistema italiano delle imposte sul reddito nasce nella forma di imposte reali, che colpiscono specifici tipi di reddito. L’urbanesimo accentuò il rilievo della proprietà e della rendita edilizia e, quindi, dell’imposta sui redditi dei fabbricati. In Italia, dopo l’Unità, non fu accolta l’idea di istituire un’imposta generale sul reddito; fu invece introdotta, accanto alle due imposte fondiarie, un’imposta sugli altri redditi, denominata “imposta di ricchezza mobile”. In altri Paesi, il sistema di imposizione sul reddito era caratterizzato da imposte generali sul reddito di tipo progressivo; in Italia, invece, si è giunti con molto ritardo a creare, con l’Irpef, un’imposta con tali caratteri. La tassazione dei redditi societari è un fenomeno relativamente recente. La svolta si è avuta negli anni ’70, con l’introduzione dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche (Irpeg), dal 2004 rinominata in imposta sul reddito delle società (Ires). Nei sistemi tributari, vi è una tradizionale prevalenza delle imposte sul reddito rispetto a quelle sui patrimoni. La riforma tributaria degli anni ’70. Il sistema introdotto con la riforma del 1971-73 si impernia, in via primaria e principale, su due imposte che colpiscono tutti i redditi delle persone fisiche e degli enti (Irpef e Irpeg); ciò che acquista specificamente rilievo è, di regola, l’esistenza di un reddito complessivo a disposizione del soggetto. La perfezione del disegno teorico è contraddetta dalle pratiche evasive ed elusive ed, inoltre, dai regimi di esenzione o di agevolazione, dai regimi sostitutivi, dalle norme che permettono di “erodere” la base imponibile, etc. Nel 1998, alla tassazione dei redditi, si è affiancata l’Irap (imposta regionale sulle attività produttive) che non colpisce il reddito, ma il “valore della produzione netta”. Le riforme della seconda metà degli anni ’90. Con la legge 23 dicembre 1996 il parlamento ha accordato al Governo una serie di deleghe, la cui realizzazione ha apportato modifiche riguardanti: - l’istituzione dell’Irap; - il riordino dell’Irpeg con l’introduzione di due aliquote; - il trattamento fiscale dei redditi di capitale e di talune plusvalenze; - la disciplina delle operazioni straordinarie;

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PARTE PRIMA. LE IMPOSTE SUI REDDITI. CAPITOLO PRIMO. Il sistema. Tipologia delle imposte sui redditi. Le imposte sono variamente classificate, secondo criteri e scopi assai diversi. La distinzione basilare è quella tra imposte dirette e indirette. Sono dirette le imposte che hanno come presupposto il reddito o il patrimonio, indirette tutte le altre. Secondo la definizione dei giuristi, le imposte dirette colpiscono manifestazioni dirette della capacità contributiva (ad esempio, il reddito), mentre le indirette colpiscono espressioni indirette di capacità contributiva (ad esempio, i consumi). Le imposte dirette si dividono in personali e reali. Nelle imposte personali sul reddito assume rilievo la situazione personale o familiare del contribuente (ad esempio, l’ammontare del reddito complessivo, la struttura del nucleo familiare, …). Nelle imposte reali non hanno rilievo elementi di natura personale. Le origini delle imposte sui redditi. Il sistema italiano delle imposte sul reddito nasce nella forma di imposte reali, che colpiscono specifici tipi di reddito. L’urbanesimo accentuò il rilievo della proprietà e della rendita edilizia e, quindi, dell’imposta sui redditi dei fabbricati. In Italia, dopo l’Unità, non fu accolta l’idea di istituire un’imposta generale sul reddito; fu invece introdotta, accanto alle due imposte fondiarie, un’imposta sugli altri redditi, denominata “imposta di ricchezza mobile”. In altri Paesi, il sistema di imposizione sul reddito era caratterizzato da imposte generali sul reddito di tipo progressivo; in Italia, invece, si è giunti con molto ritardo a creare, con l’Irpef, un’imposta con tali caratteri. La tassazione dei redditi societari è un fenomeno relativamente recente. La svolta si è avuta negli anni ’70, con l’introduzione dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche (Irpeg), dal 2004 rinominata in imposta sul reddito delle società (Ires). Nei sistemi tributari, vi è una tradizionale prevalenza delle imposte sul reddito rispetto a quelle sui patrimoni. La riforma tributaria degli anni ’70. Il sistema introdotto con la riforma del 1971-73 si impernia, in via primaria e principale, su due imposte che colpiscono tutti i redditi delle persone fisiche e degli enti (Irpef e Irpeg); ciò che acquista specificamente rilievo è, di regola, l’esistenza di un reddito complessivo a disposizione del soggetto. La perfezione del disegno teorico è contraddetta dalle pratiche evasive ed elusive ed, inoltre, dai regimi di esenzione o di agevolazione, dai regimi sostitutivi, dalle norme che permettono di “erodere” la base imponibile, etc. Nel 1998, alla tassazione dei redditi, si è affiancata l’Irap (imposta regionale sulle attività produttive) che non colpisce il reddito, ma il “valore della produzione netta”. Le riforme della seconda metà degli anni ’90. Con la legge 23 dicembre 1996 il parlamento ha accordato al Governo una serie di deleghe, la cui realizzazione ha apportato modifiche riguardanti:

- l’istituzione dell’Irap; - il riordino dell’Irpeg con l’introduzione di due aliquote; - il trattamento fiscale dei redditi di capitale e di talune plusvalenze; - la disciplina delle operazioni straordinarie;

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- il credito d’imposta correlato agli utili societari; - gli enti non commerciali e le Onlus.

La riforma del 2003. Con la legge 7 aprile 2003 è stata approvata una delega per la riforma del sistema fiscale statale, i cui tratti salienti erano due: la formazione di un “codice” e la riforma della disciplina dei singoli tributi (e la loro riduzione a cinque imposte). La delega è stata realizzata in parte. Il nuovo sistema di tassazione dei dividendi e delle plusvalenze da partecipazioni, denominato regime di participation exemption, comporta l’eliminazione del credito d’imposta. Nel previgente sistema di tassazione gli utili erano tassati prima presso la società (con Irpeg) e poi presso il socio, ma l’imposta pagata dalla società era imputata al socio, cui era attribuito un credito d’imposta. Se il socio risiede in uno Stato diverso da quello in cui risiede la società partecipata, il metodo dell’imputazione presenta difficoltà applicative. Il sistema dell’imputazione ha ceduto il passo al sistema dell’esenzione, che modella la tassazione sulla situazione oggettiva della società, invece che su quella soggettiva del socio. La detassazione del dividendo è attuata in modo completo solo nei confronti dei soggetti passivi Ires. Per i soggetti passivi dell’imposta sulle società, il sistema dell’imputazione è stato sostituito dal criterio dell’esenzione (participation exemption), che riguarda non solo i dividendi, ma anche le plusvalenze derivanti da partecipazioni sociali immobilizzate. Per le persone fisiche, per gli imprenditori individuali e per i soci delle società di persone permane la tassazione, ma solo una parte del loro ammontare; la doppia imposizione economica è quindi eliminata solo in parte. L’imposta pagata dalla società era, per l’Erario, un gettito non definitivamente acquisito, perché eliso dal credito d’imposta del socio. L’abolizione del credito d’imposta rende ora definitivo il gettito dell’Ires. Imposta sui redditi delle società e imposta sui dividendi del socio sono indipendenti, con effetti, in taluni casi, di parziale doppia imposizione. La participation exemption esclude la rilevanza delle perdite su partecipazioni e non comporta la detassazione integrale dei dividendi infragruppo. A ciò pone rimedio il consolidato nazionale, che, tassando la somma dei risultati fiscali conseguiti dalle singole società, permette la compensazione, all’interno dei gruppi, delle perdite e degli utili. CAPITOLO SECONDO. L’imposta sul reddito delle persone fisiche: aspetti generali. Sezione prima (il presupposto) Le nozioni economiche di reddito. Le principali nozioni di reddito, elaborate dagli economisti, sono tre: il reddito come prodotto, il reddito come entrata e il reddito come consumo (o ricchezza consumata). Secondo la nozione di reddito come prodotto, un’entrata ha natura di reddito solo se deriva da una fonte produttiva. La nostra legislazione fiscale tassa sia i redditi prodotti in modo continuativo, sia i redditi variabili ed eventuali e quelli prodotti una tantum. Il reddito-entrata rappresenta un netto ampliamento del concetto, poiché comprende sia i frutti del patrimonio e dell’attività del soggetto, sia gli incrementi patrimoniali, quale che ne sia l’origine causale. Si può affermare che il nostro sistema, pur se indubbiamente fondato sul concetto di reddito come prodotto, mostra significative aperture verso il concetto di reddito entrata (ad esempio, sono tassate le plusvalenze non speculative e le vincite alle lotterie).

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La concezione del reddito come consumo implica che dovrebbe essere tassata solo la ricchezza consumata: non dovrebbe essere tassato né il reddito risparmiato, né il reddito di capitale. Il nostro sistema tassa in misura limitata i redditi di capitale (con imposte sostitutive proporzionali). Le nozioni di reddito nel testo unico. Nel Testo unico non vi è una definizione di reddito. Vi è, invece, la definizione delle singole categorie reddituali. Poiché tutte le categorie reddituali indicano come reddito proventi derivanti da fonti produttive, il reddito può essere definito, in generale, come incremento di patrimonio, derivante da una fonte produttiva. Il catalogo legislativo delle categorie reddituali è il seguente:

- redditi fondiari; - redditi di capitale; - redditi di lavoro dipendente; - redditi di lavoro autonomo; - redditi di impresa; - redditi diversi.

La ratio della classificazione conferire omogeneità di contenuto a ciascuna categoria, al fine di stabilire regole uniformi per la quantificazione dell’imponibile. Al tempo stesso, il legislatore ha dovuto soddisfare l’esigenza di comprendere, nelle categorie delineate, tutta la materia imponibile. Questa esigenza ha portato:

- alla elaborazione di categorie che utilizzano definizioni più ampie della nozione utilizzata; - alla inclusione, in alcune categorie, di redditi di carattere spurio; - alla elaborazione di una categoria residuale (redditi diversi) che non presenta omogeneità di

contenuto. A ciascuna categoria corrispondono particolari regole di determinazione. Le diverse categorie reddituali, sono uno strumento di individuazione e classificazione della materia imponibile e l’oggetto di regimi giuridici diversi, concernenti il sistema di determinazione dell’imponibile e regole formali diverse (obblighi di dichiarazione, metodi di accertamento, …). Il nostro sistema di tassazione dei redditi è informato, come già detto, al criterio di tassazione del reddito inteso come prodotto. Si può comunque dire che le categorie reddituali “tipiche” sono tutte categorie di “redditi prodotti”, alla luce di una nozione lata di fonte produttiva, e di un concetto lato di nesso di causalità tra fonte e reddito. Nel caso dei “redditi diversi” non vi è una fonte unitaria che valga a regolare in modo uniforme tutte le ipotesi tassabili. In alcuni casi, quindi, il reddito è inteso nell’accezione di “reddito entrata”. Il presupposto dell’imposta. Presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6. Vi sono redditi tassabili quando sono percepiti (“principio di cassa”); è il caso dei redditi di capitale, di lavoro, diversi: possesso significa percezione. Nel caso dei redditi fondiari, il possesso va riferito all’immobile; nel caso del reddito d’impresa non vi è possesso del reddito, ma dell’apparato produttivo. Esistono quindi diverse nozioni di “possesso”. Differenza tra reddito e patrimonio. Reddito e patrimonio sono concetti da tenere distinti, come sono da distinguere i proventi reddituali delle entrate patrimoniali. Il patrimonio è l’insieme delle situazioni giuridiche soggettive a contenuto economico di cui è titolare un soggetto in un dato momento. Il reddito, invece, è un fenomeno dinamico: esso è infatti la risultante delle variazioni incrementative del patrimonio. Il patrimonio è uno stock, il reddito un

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flusso. Reddito sono soltanto le entrate o proventi che derivano da una fonte produttiva. (corrispettivi a fronte di una prestazione, distribuzione di utili, …). È reddito ciò che costituisce incremento del patrimonio; non lo è la mera reintegrazione del patrimonio già posseduto. Sono quindi tassabili i proventi che sostituiscono redditi imponibili, non lo sono i proventi conseguiti in sostituzione di entrate patrimoniali. Sono tassabili, in linea di principio, le pensioni che si collegano ad un rapporto di impiego o di servizio; non lo sono, invece, le pensioni risarcitorie (ad esempio, le pensioni di guerra). Proventi acquisiti a titolo oneroso e proventi gratuiti. In primo luogo, vi è da osservare che il requisito della derivazione del reddito da una fonte produttiva implica che il provento abbia come causa un titolo giuridico di natura onerosa. Infatti, non sono soggetti ad imposta sul reddito né le donazioni, né le eredità. Redditi di natura e valore nominale. I redditi in natura possono essere costituiti da beni o da servizi; ad essi deve essere dato un valore in moneta. Si tassa il loro valore normale, cioè il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza. Per le azioni, le obbligazioni e altri titoli negoziati in mercati regolamentati, si tiene conto della media aritmetica dei prezzi rilevati nell’ultimo mese. Reddito lordo e reddito netto. Nel sistema delle imposte sul reddito, il reddito è tassato al netto dei costi. Costi deducibili sono soltanto quelli “inerenti” alla produzione del reddito. Non sempre i costi sono dedotti nel loro ammontare effettivo; talvolta sono forfetizzati. Nel caso dei redditi tassati su base catastale, le stime forfetizzano il reddito netto. Redditi e deprezzamento monetario. Il reddito assume rilievo come reddito di un determinato periodo di tempo, che è tecnicamente denominato “periodo d’imposta”. Per le persone fisiche, il periodo d’imposta è l’anno solare; per le società, l’esercizio sociale. Ad ogni periodo d’imposta corrisponde un’obbligazione tributaria autonoma e si correla una molteplicità di obblighi formali e sostanziali. Per la determinazione dell’obbligazione tributaria di un dato periodo d’imposta, rilevano i fatti che si verificano in quel periodo. Per la maggior parte dei redditi, rileva il momento in cui il reddito è percepito (principio di cassa); per i redditi d’impresa, vige il c.d. principio di competenza, in forza del quale i costi e i proventi vanno imputati al periodo di maturazione, a prescindere dal pagamento e dall’incasso. I redditi del de cuius percepiti dagli eredi. Gli eredi subentrano al de cuius quali soggetti passivi dell’imposta dovuta per i presupposti d’imposta realizzati dal de cuius. Inoltre, per i redditi prodotti dal de cuius, che si tassano per cassa, se il de cuius non li ha incassati, la tassazione avviene a carico degli eredi, quando li percepiscono. La ratio della tassazione, con imposta reddituale, di tali entrate è da ravvisare in ciò, che ogni arricchimento, prima di essere elemento patrimoniale, è tassato come reddito. I redditi di provenienza illecita. In passato, la tassabilità dei redditi provenienti da attività illecite era esclusa perché si riteneva che un fatto non può essere previsto sia come presupposto di imposta, sia come illecito. Il legislatore è intervenuto stabilendo che nelle categorie di reddito soggette ad imposta devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti od attività

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qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. È quindi convalidata la tesi secondo la quale la liceità penale della produzione del reddito non è requisito della tassabilità. In tema di costi, è espressamente previsto che non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti. Qualora non siano qualificabili nelle categorie di reddito “ordinarie”, i redditi illeciti sono considerati come redditi diversi. Sezione seconda (i soggetti passivi) I soggetti passivi e la residenza fiscale. I residenti sono tassati sul complesso dei loro redditi, ovunque prodotti nel mondo, i non residenti solo per i redditi prodotti in Italia. La nozione fiscale di residenza diverge da quella civilistica. Ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile. La residenza fiscale, quindi, scaturisce:

- dalla mera iscrizione anagrafica; - dal domicilio, ossia dal centro degli affari e degli interessi; - dalla dimora abituale.

Con presunzione relativa, si considerano residenti i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati aventi un regime privilegiato. I redditi dei coniugi e dei figli minori. Quando fu introdotta l’Irpef i redditi dei due coniugi erano sommati, per cui, a causa della progressività dell’imposta, la tassazione dei redditi cumulati dei coniugi era più elevata rispetto alla tassazione individuale. Fu perciò dichiarato incostituzionale nel 1976. Ora i redditi dei due coniugi sono tassati separatamente. In materia di comunione legale e di fondo patrimoniale, la legge prevede che i relativi redditi si imputano a ciascun coniuge per metà del loro ammontare netto, salva diversa pattuizione convenzionale. I redditi dei beni dei figli minori, soggetti all’usufrutto legale dei genitori, sono imputati per metà a ciascun genitore; il minore è debitore d’imposta per i redditi degli altri beni e per i redditi da lavoro. Le società commerciali di persone. La categoria delle società di persone comprende tre tipi di società: la società semplice, la s.n.c. e la s.a.s. Alle società di persone si contrappongono le società di capitali, ossia le s.p.a., le s.a.p.a. e le s.r.l. I caratteri delle società di persone, in sintesi, sono tre:

- la responsabilità illimitata e solidale dei soci; - il potere di amministrare la società è prerogativa della qualità di socio; - lo status di socio non è trasferibile senza il consenso degli altri soci.

Nelle società di capitali: - i soci non rispondono dei debiti della società; - il potere di amministrare la società è disgiunto dalla qualità di socio; - la qualità di socio è liberamente trasferibile.

Le società di persone presentano due tratti, che sembrano giustificare il loro peculiare trattamento fiscale. In primo luogo, le società di persone esprimono non tanto un fatto d’investimento, quanto il fatto che più persone operano insieme; vi è un minor distacco che non tra i soci delle società di capitali. In secondo luogo sono caratterizzate da un formalismo minimo.

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In forza di tali ragioni, il regime fiscale delle società di persone è improntato al principio di trasparenza; i risultati della società sono considerati fiscalmente redditi dei soci; ed i redditi dei soci non sono qualificati come redditi di capitale, ma come redditi di partecipazione. Alla società fanno capo obblighi formali (tenuta della contabilità, presentazione della dichiarazione), funzionali all’applicazione dell’imposta personale dovuta dal socio. La società non è soggetto passivo dell’imposta; i redditi, ai fini fiscali, sono redditi dei soci e l’imposta colpisce direttamente questi ultimi proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili. Dal punto di vista temporale, il reddito è imputato al socio nello stesso periodo d’imposta in cui è prodotto dalla società. Le perdite sono ripartite tra i soci nella stessa maniera degli utili; se l’ammontare delle perdite supera i redditi dell’anno, la differenza può essere detratta negli anni successivi, ma non oltre il quinto. Le ritenute operate sui redditi della società sono scomputate dall’imposta dovuta dai soci. Alle persone fisiche titolari di redditi di partecipazione in società commerciali di persone (in regime di contabilità ordinaria) è consentito optare per la tassazione separata con aliquota del 27,5 per cento, a condizione che i redditi imputati per trasparenza non siano prelevati o distribuiti. Le società semplici. Il principio di trasparenza vale anche per le società semplici. Le principali differenze di trattamento fiscale tra società personali commerciali e società semplici sono le seguenti:

- le società semplici non producono reddito d’impresa, ma singoli redditi che devono essere determinati secondo le regole proprie di ciascuna categoria;

- per le società semplici, le perdite derivanti dal lavoro autonomo sono imputate ai soci e possono essere compensate con gli altri redditi che concorrono a formare il reddito complessivo;

- taluni costi delle società semplici sono imputabili ai soci come oneri deducibili dal reddito o come oneri detraibili dall’imposta.

Le associazioni professionali. I professionisti possono svolgere la propria attività, oltre che in forma individuale, dando vita ad un ente di tipo societario o ad una associazione professionale. Le associazioni professionali sono equiparate, ai fini fiscali, alle società semplici. Vale, quindi, il principio di trasparenza: i redditi sono tassati secondo il principio di cassa. Il reddito dell’associazione è reddito di lavoro autonomo. I compensi percepiti dall’associazione sono soggetti a ritenuta d’acconto; queste sono poi attribuite agli associati, nella proporzione in cui sono attribuiti gli utili. Anche le perdite sono imputate agli associati in proporzione alla loro quota di partecipazione; l’eccedenza può essere utilizzata in compensazione, nei periodi d’imposta successivi, ma non oltre il quinto. Le imprese familiari. L’impresa familiare assume rilievo fiscale solo quando, prima dell’inizio del periodo d’imposta, sia redatto un atto pubblico o una scrittura privata autenticata, da cui risultino nominativamente i familiari che collaborano nell’impresa, prestando un’attività di lavoro che abbia carattere continuativo prevalente. La rilevanza fiscale dell’impresa familiare attiene alla distribuzione del reddito tra imprenditore e collaboratori; ai secondi viene attribuita una quota del reddito complessivo proporzionata al lavoro effettivamente prestato nell’impresa. Nel caso delle imprese familiari, vi è netta separazione tra reddito dell’imprenditore (mai inferiore al cinquantuno per cento) e reddito dei collaboratori. Il reddito è ripartito nel periodo d’imposta in

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cui è conseguito. Il reddito del titolare è reddito d’impresa, quello dei collaboratori è assimilato al reddito di lavoro dipendente. I collaboratori non partecipano alle perdite. Il GEIE (Gruppo Europeo di Interesse Economico). Redditi e perdite del Gruppo sono imputati ai membri (i redditi lo sono indipendentemente dall’effettiva percezione); ritenute d’acconto del gruppo sono riferite ai membri. Sezione terza (imponibile e imposta) Reddito complessivo e perdite deducibili. La base imponibile (lorda) è costituita, per i soggetti passivi “residenti”, dal complesso dei redditi ovunque prodotti. Per i non residenti, invece, l’imposta si applica soltanto sui redditi prodotti in Italia. Dal reddito complessivo si deducono gli oneri; operate le deduzioni, si ottiene la base imponibile netta, cui si applicano le aliquote (progressive per scaglioni), per calcolare la misura dell’imposta (lorda). Per calcolare il reddito complessivo, occorre previamente individuare e qualificare i singoli redditi, aggregandoli secondo le rispettive categorie di appartenenza. Poiché vi sono categorie reddituali il cui risultato può essere una perdita, il reddito complessivo è il risultato di una somma algebrica. Le perdite della s.n.c. e s.a.s. e quelle delle società semplici e delle associazioni professionali sono imputate pro-quota, in base al principio di trasparenza, a ciascuno dei soci o associati. Le perdite realizzate nei primi tre periodi di imposta dalla data di costituzione possono essere riportate a nuovo senza limiti di tempo, purché si riferiscano ad una nuova attività produttiva. Gli oneri deducibili. L’Irpef è imposta personale perché la sua disciplina tiene conto di una serie di circostanze di natura personale. Le deduzioni dal reddito favoriscono i possessori di redditi più elevati, perché il vantaggio che ne trae il contribuente cresce in ragione dell’aliquota marginale e decresce via via che diminuisce il reddito complessivo. Ciò non si verifica con la previsione di detrazioni fisse dall’imposta; queste ultime infatti implicano un’agevolazione che non dipende in modo crescente nella sua entità dall’aliquota. Per correggere tale distorsione, a partire dal 1993, molti oneri deducibili sono stati trasformati in detrazioni dall’imposta. Dal reddito complessivo sono dunque deducibili determinati oneri; in tal modo è detassata quella parte di reddito che viene impegnata per finalità ritenute meritevoli di particolare attenzione e che incidono sulla capacità contributiva del contribuente, come:

- le spese mediche necessarie in casi di invalidità; - i contribuenti previdenziali e assistenziali; - talune erogazioni liberali; - etc.

inoltre, il legislatore include, tra gli oneri deducibili, spese che sono da classificare tra quelle di produzione del reddito. Le spese di produzione sono, di regola, deducibili in sede di calcolo dei redditi netti di ciascuna categoria. Infine, sono deducibili dal reddito complessivo le somme che il contribuente deve restituire, dopo che quelle stesse somme hanno concorso a formare il reddito di un periodo d’imposta precedente (c.d. sopravvenienze passive). Calcolo dell’imposta. Dopo aver dedotto, dal reddito complessivo, gli oneri, si applicano, alla base imponibile, le aliquote. Queste sono crescenti per scaglioni di reddito. Secondo la disciplina del 2008 sono così suddivisi:

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- fino a 15mila euro, l’aliquota è del 23 per cento; - da 15mila a 28mila è del 27 per cento; - da 29mila a 55mila è del 38 per cento; - da 56mila a 75mila è del 41 per cento; - da 75mila in su è del 43 per cento.

Da tale calcolo si ottiene l’imposta lorda, su cui si operano le detrazioni. Le detrazioni d’imposta. Dall’imposta lorda si sottraggono tre specie di detrazioni:

- le detrazioni per i carichi di famiglia (per chi ha famigliari a carico); - le detrazioni sostitutive delle spese di produzione (per chi ha redditi da lavoro dipendente e

assimilati); - le detrazioni per oneri sono ammesse nella misura del 19 per cento per spese sanitarie,

funebri, di istruzione, badanti, erogazioni liberali, etc. imposta netta e imposta da versare. Dallo scomputo delle detrazioni si ottiene l’ammontare dell’imposta netta. Tale importo non costituisce un importo da versare, perché si scomputano:

- i crediti d’imposta; - i versamenti d’acconto; - le ritenute subite (a titolo d’acconto).

Se il saldo è a debito per il contribuente, la differenza va versata prima di presentare la dichiarazione. Se la dichiarazione è a credito per il contribuente, l’eccedenza costituisce un credito. Il contribuente può computarlo in diminuzione dell’imposta relativa al periodo d’imposta successivo o chiederne il rimborso in sede di dichiarazione dei redditi. I redditi soggetti a tassazione separata. Sono soggetti a tassazione separata i redditi che, percepiti una tantum, derivano da un processo produttivo pluriennale. Tali redditi, pur sottoposti ad Irpef, non concorrono a formare il reddito complessivo, ma sono tassati con distinta aliquota. Rientrano nel regime della tassazione separata:

- le indennità di fine rapporto percepite dai lavoratori dipendenti; - le plusvalenze derivanti dalla cessione di aziende possedute per più di cinque anni; - il risarcimento attribuito a titolo di perdita di redditi pluriennali; - etc.

CAPITOLO TERZO. I singoli redditi. Sezione prima (i redditi fondiari) Nozione di reddito fondiario. I redditi fondiari sono inerenti ai terreni e ai fabbricati situati nel territorio dello Stato, che sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, o nel catasto edilizio o in quello urbano. I redditi degli immobili che non sono determinabili catastalmente e quelli degli immobili situati all’estero fanno parte della categoria dei redditi diversi. Sono produttivi di reddito fondiario soltanto i terreni atti alla produzione agricola. Gli immobili strumentali non danno origine a redditi di natura fondiaria in quanto concorrono alla produzione del reddito di lavoro. Dato il carattere catastale dei redditi fondiari, la tassazione prescinde dalla effettiva produzione o percezione del reddito (monetario o in natura): vi è tassazione anche se un fabbricato non è abitato o locato, o se un terreno non è coltivato.

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In caso di comproprietà, a ciascun comproprietario è imputata una quota del redito dell’immobile, corrispondente al suo diritto. La rendita catastale. Il reddito dei terreni è determinato con il catasto. Il catasto dei terreni è formato sulla base di una serie di operazioni, in cui hanno un ruolo essenziale le tariffe d’estimo e il classa mento. Le tariffe d’estimo indicano la rendita attribuibile ai terreni, divisi in particelle, in base alla loro qualità. Le operazioni catastali culminano nel classa mento, cioè nell’attribuzione ad ogni particella di terreno, della qualità e classe di appartenenza, in modo che se ne possa calcolare la rendita, sulla base delle tariffe d’estimo. Per i fabbricati a destinazione speciale o particolare (ad esempio, gli alberghi) non si formano le tariffe, e la rendita viene attribuita mediante stima diretta. Reddito dominicale e reddito dell’impresa agraria. Il reddito dei terreni si distingue in reddito commerciale e reddito agrario. Il reddito dei terreni è suddivisibile in quattro parti che remunerano la terra nel suo stato naturale, il capitale di miglioramento che vi è investito, il capitale d’esercizio e il lavoro. Il reddito dominicale comprende le prime due parti, cioè quelle che corrispondono alla proprietà del fondo e ai capitali stabilmente investiti. Il reddito agrario è invece quello che remunera i capitali d’esercizio e il lavoro di organizzazione. È costituito dalla parte del reddito medio ordinario dei terreni imputabile al capitale d’esercizio e al lavoro di organizzazione impiegati. Le attività agricole e l’impresa agraria. Il reddito agrario è il reddito dell’impresa agraria, ossia il reddito derivante dall’esercizio di attività agricole e di attività connesse. Le attività agricole in senso stretto sono:

- la coltivazione del terreno e la silvicoltura; - l’allevamento di animali, utilizzando mangimi provenienti da almeno un quarto del terreno,

e le attività dirette alla produzione di vegetali, se la superficie adibita alla produzione non eccede il doppio di quella del terreno su cui la produzione stessa insiste.

le attività connesse sono le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali. In via generale, i redditi delle società commerciali sono redditi d’impresa; di conseguenza, il reddito agrario, determinato di regola con il sistema catastale, è invece reddito d’impresa commerciale quando è prodotto da società commerciali o da altri enti commerciali, ed è determinato in base ai ricavi e costi effettivi. Questa regola presenta due eccezioni:

- si considerano imprenditori agricoli le società di persone commerciali e le s.r.l., costituite da imprenditori agricoli, che svolgono esclusivamente attività di manipolazione, conservazione, trasformazione e commercializzazione di prodotti agricoli ceduti dai soci;

- producono reddito agrario anche le società di persone commerciali, le s.r.l. e le società cooperative, con qualifica di società agricole, che optano per tale forma di tassazione.

La determinazione dei redditi dei terreni. Il reddito catastale è un reddito ordinario, cioè ottenuto da un coltivatore di capacità normale; è inoltre un reddito medio, perché calcolato per una media di più anni. La tassazione del reddito medio ordinario premia il coltivatore che ottiene un prodotto superiore alla media e penalizza chi produce meno della media.

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La legge disciplina la revisione delle tariffe di estimo e la riduzione dell’imponibile in caso di mancata coltivazione; prevede, inoltre, che non vi sia reddito imponibile in caso di perdita del prodotto per eventuali danni naturali. Il catasto edilizio e il reddito dei fabbricati. Anche il reddito dei fabbricati è determinato secondo le tariffe d’estimo del catasto urbano, che distinguono le unità immobiliari in categorie e classi. Nel 1996, il legislatore ha disposto la revisione generale delle tariffe d’estimo, sulla base di criteri basati sui valori e sui redditi medi, espressi dal mercato immobiliare. Questi dati non servono soltanto all’applicazione delle imposte sui redditi, ma anche per l’applicazione delle imposte sui trasferimenti e dell’imposta locale sugli immobili (Ici). Nel catasto urbano, le singole unità immobiliari sono contraddistinte per zona censuaria, categoria e classe. Le categorie sono cinque: abitazioni (A), edifici a uso collettivo (B), commerciali (C), industriali (D), speciali (E). In ogni categoria vi sono più sottocategorie. Le categorie sono divise in classi, ciascuna delle quali identifica nello specifico il tipo di immobile (ad esempio, A/1 abitazioni signorili, A/2 case recenti o di buon livello, …). Vi è, infine, la divisione del territorio in “zone censuarie”. Quindi zona censuaria, categoria catastale e classe sono i dati da cui scaturisce la “tariffa” o “estimo catastale”. La tariffa fornisce un valore unitario, che, moltiplicato per la grandezza dell’immobile, determina la rendita catastale. I proprietari di nuove costruzioni hanno l’obbligo di presentare all’Agenzia del territorio una dichiarazione nella quale sono indicate le caratteristiche dell’immobile e viene proposta la categoria, la classe e la rendita. L’accatastamento è una prerogativa dell’Agenzia del territorio, che può far propria la dichiarazione di rendita proposta dal possessore o modificarla. Il reddito degli immobili locati dei fabbricati non è determinato in base alle tariffe catastali, ma in base al canone di locazione, se è superiore alla rendita catastale. Il reddito della casa adibita ad abitazione principale (“prima casa”) non è tassato; invece, il reddito catastale delle “seconde case” è maggiorato di un terzo. Le costruzioni rurali e gli immobili strumentali. Vi è una fondamentale dicotomia tra immobili che producono un reddito autonomo (e quindi tassati come fondiari) ed immobili che non producono un reddito autonomo (c.d. strumentali). Non producono un reddito autonomo i fabbricati rurali, che concorrono alla produzione del reddito dei terreni. Non sono produttivi di un reddito autonomo neanche gli immobili strumentali per la produzione del reddito d’impresa. Gli immobili possono essere strumentali o per destinazione o per natura. Strumentali per destinazione sono gli immobili utilizzati esclusivamente per l’esercizio dell’arte o della professione o dell’impresa commerciale da parte del possessore; strumentali per natura sono gli immobili relativi ad imprese commerciali che per le loro caratteristiche non sono suscettibili di diversa utilizzazione. Sezione seconda (i redditi di capitale) I redditi di capitale in genere. Quella dei redditi di capitale è una categoria che il legislatore non delimita con una definizione generale, ma con una elencazione, che comprende interessi, rendite, compensi per prestazioni di fideiussione, utili da associazioni in partecipazione, etc. In questo elenco spiccano gli interessi e i dividendi azionari. In generale, si può dire che a questa categoria appartengono i redditi che derivano da rapporti aventi per oggetto l’impiego di un capitale e che sono certi nell’an, ma non nel quantum.

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I redditi di capitale non sono sempre tassati in via ordinaria, come componenti del reddito complessivo, ma anche con altre forme diverse di tassazione. Vi sono dunque regimi di ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (come succede, ad esempio, agli interessi relativi a conti correnti bancari). I redditi da partecipazione in società di capitale. Tra i redditi capitali, vanno innanzitutto considerati i proventi delle azioni e delle obbligazioni. Dal punto di vista fiscale, dividendi e interessi, pur facendo parte di una medesima categoria reddituale, sono trattati diversamente. Il capitale proprio è remunerato con la distribuzione di utili (non deducibili dal reddito della società), mentre il capitale di debito è remunerato con gli interessi, deducibili dal reddito della società erogante. Per evitare la doppia imposizione, la tassazione dei dividendi a carico del socio è ridotta o nulla. Per il regime fiscale degli interessi non si ha rischio di doppia imposizione, in quanto la società che li corrisponde li deduce come costo e la tassazione del socio non si duplica. Un primo gruppo di redditi di capitale è costituito dagli utili derivanti dalla partecipazione in società o enti soggetti passivi Ires. Gli utili provenienti da società di persone sono considerati redditi dei soci (in applicazione del regime di trasparenza). La differente disciplina è dovuta alla differente figura del socio: nella società di capitali, egli è visto come investitore, mentre nella società di persone è partecipe della vita della società. Dal 2004, all’imposta dovuta dalla società (Ires) non è più collegato il credito d’imposta del socio: la tassazione della società e quella del socio sono indipendenti. Se il socio è una società soggetta a Ires, i dividendi sono esclusi da tassazione, per evitare la doppia imposizione. Se il socio è un soggetto passivo Irpef, il dividendo è tassato, ma in misura ridotta. La partecipazione è qualificata quando rappresenta una percentuale di diritti di voto nell’assemblea ordinaria superiore al 2 o al 20 per cento, oppure una partecipazione al capitale o al patrimonio superiore al 5 o al 25 per cento, secondo che si tratti di titoli negoziati in mercati regolamentati o di altre partecipazioni. I dividendi distribuiti a persone fisiche che detengono partecipazioni non qualificate sono soggetti ad una ritenuta a titolo d’imposta del 12,50 per cento. Per le partecipazioni qualificate, invece, la base imponibile è costituita da una percentuale dei dividendi (49,72). A tale base imponibile si applicano le aliquote normali dell’Irpef. Se il socio è un imprenditore o una società di persone, si applicano le disposizioni previste per le partecipazioni qualificate (49,72). I redditi dei titoli similari alle azioni. Il regime fiscale dei proventi azionari si applica anche ai proventi dei titoli similari alle azioni, cioè tutti gli strumenti finanziari la cui remunerazione è costituita totalmente dalla partecipazione ai risultati economici della società emittente. Le azioni corrispondono ad una frazione del capitale sociale. Le società possono emettere però anche strumenti finanziari, a fronte del rapporto di opere o servizi, che non rappresentano una frazione del capitale, ma attribuiscono il diritto di partecipare agli utili. I proventi relativi a strumenti finanziari assimilati alle azioni sono considerati utili e sono trattati come gli utili dei titoli azionari. Per la società emittente, la remunerazione degli strumenti finanziari legata all’andamento della società è indeducibile; per il percettore, è tassata come i proventi azionari. Se i titoli sono parzialmente dipendenti dai risultati economici della società, vanno classificati tra i “titoli atipici”. I proventi dei titoli atipici sono soggetti ad un regime fiscale sostitutivo (ritenuta alla fonte a titolo d’imposta del 27 per cento).

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Distribuzione di riserve di capitale. Non costituisce reddito ciò che i soci ricevono a titolo di ripartizione di fondi costituiti con:

- sovrapprezzi di emissione delle azioni o quote; - interessi di conguaglio versati dai sottoscrittori di nuove azioni o quote; - versamenti fatti dai soci a fondo perduto o in conto capitale; - saldi di rivalutazione monetaria esenti da imposta.

Tali introiti non hanno natura reddituale ma patrimoniale. Tra le operazioni potenzialmente elusive vi è la distribuzione di somme prelevate da voci del patrimonio netto, diverse da quelle formate con utili. Recesso, esclusione ed altre fattispecie. In caso di recesso, esclusione, riscatto, liquidazione, etc. il differenziale positivo tra somma ricevuta e capitale investito è trattato dal legislatore come reddito di capitale. Gli utili dell’associazione in partecipazione. I regimi fiscali previsti per i dividendi sono applicati anche agli utili percepiti dall’associato in virtù di un contratto di associazione in partecipazione con apporto di capitale. Solo nel caso in cui l’apporto è di solo lavoro, il reddito dell’associato è reddito di lavoro autonomo. Gli utili dell’associato, che hanno natura di reddito di capitale, sono tassati in misura ridotta (49,72 per cento) solo se l’apporto dell’associato superi determinati importi. Se la misura dell’apporto è inferiore alle soglie, si applica il regime fiscale sostitutivo (ritenuta a tiolo d’imposta del 12,50 per cento). Gli interessi. Sono redditi di capitale gli interessi e i proventi derivanti da mutui, depositi e conti correnti, oltre a quelli provenienti da obbligazioni e titoli similari. Non tutti gli interessi sono trattati come redditi di capitale. Abbiamo quattro regimi fiscali:

- interessi che non hanno natura di capitale; - interessi tassati come tali, e come redditi di capitale; - interessi tassati come redditi di capitale, ma qualificati come dividendi; - interessi soggetti a regimi fiscali sostitutivi.

Gli interessi trattati e tassati come interessi derivano da mutui, conti correnti, obbligazioni e titoli similari. Si considerano similari alle obbligazioni i titoli di massa che contengono l’obbligazione incondizionata di pagare alla scadenza una somma indicata, e che non attribuiscono ai possessori alcun diritto di partecipazione alla gestione dell’impresa. Sono similari alle azioni i titoli obbligazionari la cui remunerazione è costituita totalmente dalla partecipazione ai risultati economici della società emittente. Gli strumenti finanziari qualificati come obbligazioni, ma che fiscalmente non sono similari né alle obbligazioni, né alle azioni, sono “titoli atipici”, soggetti al relativo regime fiscale. Tali titoli sono soggetti alla ritenuta alla fonte, a titoli d’imposta, pari al 27 per cento. La società non può dedurre la remunerazione che dipende dai risultati economici. Non sono redditi di capitale gli interessi che hanno natura di accessori di redditi di altra natura, come gli interessi moratori e quelli per dilazione, che sono classificati nella stessa categoria di quelli da cui dipendono. Presunzioni in tema di interessi. In tema di mutui, gli interessi si presumono percepiti alla scadenza e nella misura pattuite. Se le scadenze non sono pattuite, gli interessi si presumono percepiti nell’ammontare maturato nel

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periodo d’imposta. Se la misura non è determinata per iscritto, gli interessi si computano al saggio legale. L’altra presunzione riguarda le somme versate dai soci alle società ed enti commerciali soggetti ad Ires. La qualificazione giuridica del rapporto può non essere chiara: può esservi un rapporto di mutuo, ma la prassi conosce altri tipi di rapporto, come i versamenti in conto capitale o a fondo perduto, a seguito dei quali il socio non ha diritto ad alcuna remunerazione. Per la società, tali versamenti sono conferimenti. Le somme si presumono date a mutuo se dal bilancio non risulta che il versamento è stato fatto ad altro titolo. Altri redditi di capitale. Tra i rapporti che danno vita a redditi di capitale vi sono anche:

- le rendite perpetue; - i compensi per prestazioni di fideiussioni; - i proventi derivanti dalla gestione, nell’interesse di più soggetti, di masse patrimoniali.

Determinazione dei redditi di capitale. Sono due le regole generali in materia di determinazione dei redditi di capitale: la tassazione al lordo e il principio di cassa. La regola della tassazione al lordo impedisce qualsiasi deduzione, sia di spese di produzione, sia di perdite. Se però viene instaurato il regime del “risparmio gestito”, i redditi di capitale e alcuni redditi diversi fanno parte di un’unica massa imponibile, in cui hanno rilievo anche le perdite e le minusvalenze. Il secondo principio è quello di cassa: si tassa la somma percepita nel periodo d’imposta, mentre non rileva il credito maturato. Sezione terza (i redditi da lavoro dipendente) Nozione di reddito di lavoro dipendente. I redditi di lavoro dipendente derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri. Il lavoro a domicilio è compreso nella categoria quando vi è subordinazione tecnica del lavoratore rispetto all’imprenditore. Rientrano nella categoria anche pensioni che si colleghino ad un precedente rapporto di impiego o servizio. Il principio di onnicomprensività. Il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro. La tassazione è collegata alla percezione (principio di cassa). Il reddito imponibile non è soltanto quello derivante dal lavoro effettivamente svolto, ma anche quello che si collega al “rapporto”, e prescinde dalle prestazioni effettivamente svolte. Sono dunque reddito di lavoro dipendente le indennità, gli scatti di anzianità, il lavoro straordinario, il TFR, etc. Non sono tassabili gli assegni familiari dovuti per legge. Sono tassate le indennità risarcitorie, quando il risarcimento sostituisce un reddito, ma non quando il risarcimento non ha natura retributiva. La giurisprudenza ha ritenuto tassabili l’indennità integrativa speciale dei dipendenti statali, l’indennità di malattia o di maternità, le ferie non godute, etc.

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Fanno parte della base imponibile anche le liberalità che il lavoratore riceve dal suo datore di lavoro, dato che esse sono liberalità remunerato rie. Sono compresi i compensi ricevuti sotto forma di partecipazioni agli utili. Del reddito di lavoro dipendente possono far parte anche somme non corrisposte dal datore di lavoro ma da terzi (indennità previdenziali Inps o indennità per inabilitazione temporanea dell’Inail). I redditi percepiti entro il 12 gennaio si imputano al periodo d’imposta precedente. Il rimborso delle spese di produzione e le trasferte. Nella determinazione del reddito imponibile di lavoro dipendente, in luogo della deduzione delle spese effettivamente sostenute, il legislatore prevede una detrazione forfetaria dall’imposta lorda. Tale sistema dipende sia da ragioni di semplificazione (evitando ai lavoratori oneri di documentazione), sia finalità antielusive (impedendo la deduzione di spese non inerenti). L’indennità di trasferta non è imponibile fino ad un certo limite. Redditi in natura e fringe benefit. Nella retribuzione imponibile sono compresi anche i compensi in natura. Talvolta sono denominati fringe benefit, in quanto si tratta di vantaggi concessi in aggiunta alla normale retribuzione in denaro. Alcuni sono stati ideati per fini di elusione fiscale, ma sovente sono sorti per incentivare la produttività dei dipendenti, per legarli all’impresa. Tra questi si ricordano l’utilizzo privato di autovetture aziendali, assicurazioni contro la malattia o la vecchiaia, attività dopolavoristiche, etc. I redditi in natura sono quantificati in base al valore normale e non sono tassati quando il loro valore non supera l’importo di 258,23 euro. I redditi non tassabili. Le stock option. Le azioni attribuite, con funzione retributiva, alla generalità dei dipendenti, non sono tassate, ma solo nei limiti di 2065,83 euro, ed a condizione che non siano riacquistati dalla società emittente o dal datore di lavoro o comunque cedute prima che siano trascorsi almeno tre anni dalla percezione. È stata soppressa l’esenzione riguardante i diritti di opzione (stock option) dati, dietro corrispettivo, a specifiche categorie di dipendenti o a singoli dipendenti. Redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente. i casi di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente sono molteplici:

- i compensi percepiti dai lavoratori soci delle cooperative; - le remunerazioni dei sacerdoti; - le indennità e gli altri compensi corrisposti dallo Stato, dalle province, dalle regioni e dai

comuni per l’esercizio di pubbliche funzioni; - le indennità dei parlamentari; - i compensi percepiti dai soggetti impegnati in lavori socialmente utili; - etc.

l’assimilazione di questi redditi a quelli di lavoro autonomo comporta, in linea di massima, l’applicazione delle regole previste per i redditi di lavoro dipendente. Per taluni redditi sono accordati abbattimenti forfetari per le spese. I redditi di lavoro, che non rientrano nella definizione di reddito di lavoro dipendente, e neppure nella casistica dei redditi assimilati, sono redditi di lavoro autonomo o redditi diversi. I redditi di collaborazione coordinata e continuativa. Sono assimilati ai redditi di lavoro dipendente anche i redditi di collaborazione coordinata e continuativa, a favore di un determinato soggetto, con retribuzione periodica prestabilita. Rientrano in questi requisiti le cariche di amministratore, sindaco e revisore di società.

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Sezione quarta (i redditi di lavoro autonomo) La nozione di redditi di lavoro autonomo. I redditi di lavoro autonomo sono definibili come redditi derivanti da un’attività che ha tre connotati:

- è svolta in modo autonomo; - è abituale; - non ha natura commerciale.

Sono redditi di lavoro autonomo anche i redditi delle associazioni professionali. Se l’attività è occasionale, i redditi che ne derivano sono “redditi diversi”. Il lavoro autonomo si distingue dall’esercizio di impresa commerciale sotto il profilo dell’oggetto dell’attività: se l’attività ha uno degli oggetti considerati nell’art. 2195 c.c. si ha impresa commerciale; se l’attività esula da tale articolo, si ha lavoro autonomo. Inoltre, la prestazione di servizi non rientranti nel 2195 dà origine a redditi d’impresa se svolta con organizzazione in forma d’impresa. La base imponibile. Compensi e plusvalenze. Il principale componente positivo della base imponibile dei redditi di lavoro autonomo è costituito dai compensi. I compensi sono i corrispettivi percepiti a titolo di remunerazione dell’attività. Sono esclusi i rimborsi delle spese sostenute in nome e per conto del cliente e i contributi previdenziali e assistenziali. Concorrono a formare il reddito anche i corrispettivi percepiti a seguito di cessione della clientela o di “elementi immateriali” (ad esempio, la cessione del contratto di leasing). Analogamente a quanto previsto in tema di redditi d’impresa, sono rilevanti le plusvalenze. Le spese e i costi pluriennali. Sono deducibili le spese sostenute nell’esercizio dell’arte o della professione, ossia inerenti a tale esercizio, nonché le minusvalenze dei beni strumentali. Il primo requisito generale, in materia di spese deducibili, è quello dell’inerenza; altra regola generale è quella per cui le spese si deducono secondo il principio di cassa, ossia nel periodo in cui avviene il pagamento. Vi sono costi pluriennali deducibili secondo il principio di competenza, costi non deducibili e costi forfetizzati. Si applica il principio di competenza ai canoni di leasing, all’ammortamento dei beni strumentali e all’accantonamento al fondo per TFR. Il costo dei beni mobili e dei beni immateriali è deducibile mediante quote annuali di ammortamento, con l’applicazione degli stessi coefficienti previsti per l’ammortamento ordinario dei beni delle imprese. Per i beni strumentali il cui costo non supera i 516,46 euro è data la facoltà di optare per la deduzione integrale nell’anno di acquisto, in luogo dell’ammortamento. Per i leasing, i canoni sono ammessi in deduzione nell’anno in cui maturano secondo princìpi di competenza economica, ed a condizione che la durata del contratto non sia inferiore alla metà del periodo di ammortamento. I costi di acquisto degli immobili sono deducibili mediante ammortamento. I canoni di locazione ordinaria sono deducibili per cassa. Le spese relative all’ammodernamento, alla ristrutturazione e alla manutenzione straordinaria degli immobili sono deducibili nel limite del 5 per cento del costo complessivo dei beni ammortizzabili; l’eccedenza è deducibile in quote costanti nei cinque periodi d’imposta successivi. Gli ammortamenti e le spese relative all’auto utilizzata nell’esercizio della professione sono deducibili per il 40 per cento (per un importo massimo di 18.076 euro).

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Le spese relative agli impianti di telefonia fissa e mobile sono deducibili per l’80 per cento. Le spese per alberghi e ristoranti sono deducibili entro il limite del 2 per cento dei compensi percepiti. Le spese di rappresentanza sono deducibili nel limite dell’1 per cento dei compensi percepiti (comprendono oggetti d’arte, da collezione, …). Le spese di partecipazione ai convegni e corsi d’aggiornamento (incluse quelle di viaggio e soggiorno) sono deducibili per il 50 per cento del loro ammontare. Se il reddito da lavoro autonomo è di ammontare ridotto, si applica il regime dei contribuenti minimi. Redditi equiparati a quelli di lavoro autonomo. Posta la definizione generale di reddito da lavoro autonomo, il legislatore considera poi espressamente alcune ipotesi particolari. La prima ipotesi è costituita dai diritti d’autore; dal loro ammontare lordo si deduce il 25 per cento a titolo di spese di produzione. In secondo luogo, sono presi in considerazione gli utili derivanti da contratti di associazione in partecipazione. Inoltre, sono redditi di lavoro autonomo gli utili spettanti ai promotori e ai soci fondatori di società di capitali. Sezione quinta (il reddito d’impresa) Nozione di reddito d’impresa. La disciplina del reddito d’impresa è collocata all’interno della disciplina dell’Ires, ma le stesse norme valgono anche per gli imprenditori individuali e per le società di persone. Nel linguaggio del Testo unico, l’espressione “reddito d’impresa” è riferita alle imprese commerciali. Vi sono dei soggetti la cui intera attività, per definizione, è attività d’impresa; essi sono imprenditori istituzionali: si tratta di società commerciali e il loro reddito è considerato, per intero, reddito d’impresa. Vi sono due eccezioni, rappresentate da società di imprenditori agricoli finalizzate alla manipolazione e distribuzione dei prodotti conferiti dai soci e le società agricole che optano per l’imposizione ai sensi dell’art. 32 del Testo unico. La definizione fiscale di impresa stabilisce che per esercizio di imprese commerciali si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività ex art. 2195 c.c. La definizione fiscale di impresa si basa sulla natura dell’attività e non su caratteristiche soggettive. Sono commerciali, secondo l’art. 2195:

- l’attività industriale di produzione di beni e servizi; - l’attività intermediaria nella circolazione di beni; - l’attività di trasporto; - l’attività bancaria o assicurativa; - le attività ausiliarie delle precedenti.

Sono attività d’impresa commerciale anche l’attività di allevamento e quella di manipolazione, trasformazione e alienazione di prodotti agricoli e zootecnici, quando superano determinate dimensioni. Le attività commerciali sono tali, ai fini fiscali, anche se non organizzate in forma d’impresa (diversamente da quanto detto dal codice civile). Rilevanza della organizzazione d’impresa. Abbiamo detto che, se un soggetto esercita un’attività commerciale, esso è imprenditore (ai fini fiscali). Vi è però un’ipotesi in cui la forma organizzativa attribuisce ad un soggetto la qualifica di

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imprenditore. Sono infatti redditi d’impresa i redditi derivanti dall’esercizio di attività organizzate in forma di impresa dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 c.c. La produzione di servizi genera reddito d’impresa anche se non organizzata in forma d’impresa. La prestazione di servizi non compresi nell’art. 2195 genera redditi d’impresa solo se organizzati in forma di impresa. La prestazione di servizi non compresi nell’art. 2195 e non organizzata in forma di impresa, è attività di lavoro autonomo. Il discrimine tra impresa e lavoro autonomo è dato dalla presenza o dall’assenza di una organizzazione in forma di impresa. Il legislatore non fornisce alcuna indicazione circa la nozione di organizzazione in forma di impresa; si sono diffuse, perciò, ipotesi interpretative assai disparate. Il reddito d’impresa degli imprenditori individuali e delle società di persone. Il reddito d’impresa degli imprenditori individuali e delle società di persone commerciali è determinato con le regole dettate, in ambito Ires, per le società e gli enti soggetti a tale imposta. Tra i ricavi, si comprende il valore normale dei beni destinati al consumo personale o familiare dell’imprenditore o assegnati ai soci o destinate ad attività estranee all’esercizio dell’impresa. Le plusvalenze che fruiscono del regime di participation exemption non sono esenti per intero, ma limitatamente al 50,28 per cento del loro ammontare. Anche gli utili da partecipazione (dividendi), distribuiti da società di capitali, sono tassati nella misura del 49,72 per cento. Le plusvalenze realizzate con la cessione di aziende possono essere tassate separatamente. Non sono ammessi in deduzione i compensi per il lavoro prestato dallo stesso imprenditore o dai suoi familiari. Gli interessi passivi inerenti all’esercizio dell’impresa sono deducibili solo per la parte corrispondente al rapporto fra l’ammontare dei ricavi e proventi che concorrono a formare il reddito d’impresa e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi. Le spese sostenute per l’acquisto o la locazione di beni mobili adibiti promiscuamente all’esercizio dell’impresa e all’uso personale sono ammortizzabili o deducibili nella misura del 50 per cento. Se il risultato derivante dall’attività d’impresa è negativo, la perdita può essere portata in diminuzione del reddito complessivo, ma al netto dei proventi esenti da imposta. Per le imprese individuali, si considerano beni relativi all’impresa i beni appartenenti all’imprenditore che siano indicati tra le attività relative all’impresa nell’inventario. Le imprese minori. La disciplina delle imprese minori è una disciplina speciale, sia dal punto di vista sostanziale, sia dal punto di vista formale. Le imprese minori sono quelle esercitate da persone fisiche e da società di persone che, avendo ricavi inferiori a 309.874,14 euro se presta servizi, od a 516.456,90 euro negli altri casi, sono ammesse al regime di contabilità semplificata. Questo significa che devono limitarsi a tenere i registri Iva, nei quali debbono però essere annotati anche gli elementi rilevanti ai fini reddituali, compresi i valori delle rimanenze. La disciplina speciale dettata per la determinazione analitica del reddito delle imprese minori, si basa sulle seguenti regole:

- imputazione del reddito per competenza, calcolato facendo la differenza tra componenti positivi e componenti negativi;

- gli unici accantonamenti consentiti sono quelli di quiescenza e previdenza (gli altri accantonamenti non possono essere effettuati, presuppongono la redazione del bilancio);

- gli ammortamenti dei beni strumentali sono consentiti a condizione che sia tenuto il registro dei cespiti ammortizzabili;

- sono applicabili anche alle imprese minori le norme che regolano la deducibilità delle spese.

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I contribuenti minimi. Sono contribuenti minimi gli imprenditori o i lavoratori autonomi che nell’anno solare precedente hanno realizzato ricavi o percepito compensi non superiori a 30.000 euro. Si richiede inoltre:

- che non abbiano effettuato cessioni all’esportazione o scambi internazionali; - che non abbiano sostenuto spese per lavoratori dipendenti; - che, nel triennio solare precedente, non abbiano acquistato beni strumentali per un

ammontare complessivo superiore a 15.000 euro. Il reddito imponibile è determinato secondo il criterio di cassa. Il reddito è assoggettato ad una imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali con aliquota del 20 per cento. Per quanto riguarda l’imposta sul valore aggiunto, i contribuenti minimi non addebitano l’imposta a titolo di rivalsa né hanno diritto alla detrazione dell’Iva a monte. I contribuenti minimi sono esonerati anche dal pagamento dell’Irap. I contribuenti minimi devono presentare la dichiarazione dei redditi nei termini e secondo le modalità ordinarie, ma sono esonerati dagli obblighi di registrazione e di tenuta delle scritture contabili e anche dall’applicazione degli studi di settore. Le imprese di allevamento. Le imprese di allevamento sono imprese agrarie, il cui reddito è determinato catastalmente quando l’attività è svolta con mangimi ottenibili da almeno un quarto del fondo. Se si superano i limiti, il reddito eccedente è reddito d’impresa commerciale, determinato in modo peculiare. Se l’attività di allevamento è esercitata da società o enti commerciali, il reddito d’impresa va determinato secondo i criteri ordinari. Le società di comodo. Per motivi anche extrafiscali, le società commerciali, i cui ricavi sono inferiori ad un dato importo, determinato in una percentuale delle attività patrimoniali, sono considerate società non operative e sono soggette ad imposta sulla base di un imponibile minimo presunto. Sezione quarta (i redditi di lavoro autonomo) La categoria dei “redditi diversi”. Nella categoria determinata “redditi diversi” il legislatore ha raggruppato una serie di ipotesi reddituali eterogenee. È una categoria residuale. Le plusvalenze immobiliari. Tra i redditi diversi rientrano alcune plusvalenze dette “isolate”, perché non realizzate nel contesto di un’attività economica di tipo continuativo. Sono realizzate mediante la lottizzazione di terreni o l’esecuzione di opere intese a renderli edificabili, e la successiva vendita. Possono anche essere realizzate mediante la cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni. Nella prima ipotesi si assume come valore iniziale il prezzo di acquisto; nella seconda ipotesi, sono esclusi gli immobili acquisiti mortis causa, in base al concetto che l’operazione non è stata effettuata con intento speculativo. Le plusvalenze dei titoli azionari e obbligazionari. Rientrano nei redditi diversi le plusvalenze realizzate con la cessione di azioni o di altre partecipazioni sociali, e con la cessione di titoli obbligazionari o di altre attività finanziarie.

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Va ricordato che, mentre sono reddito di capitale i frutti dei titoli azionari od obbligazionari, danno invece origine a redditi diversi i capitali gain, ossia le plusvalenze che vengono realizzate quando un titolo viene venduto ad un prezzo superiore a quello di acquisto. Le plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni qualificate sono soggette ad imposizione per il 49,72 per cento del loro ammontare. Le plusvalenze che derivano dalla cessione a titolo oneroso di partecipazioni non qualificate sono invece soggette ad imposta sostitutiva del 12,50 per cento. Tra i redditi diversi, rientrano le plusvalenze realizzate con la cessione di titoli obbligazionari e di strumenti finanziari in genere. Plusvalenze da cessione di contratti di associazione in partecipazione. La cessione di contratti di associazione in partecipazione è equiparata alla cessione di titoli azionari, per cui le plusvalenze derivanti dalla cessione di tali contratti sono equiparate alle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni sociali. Per i contratti di associazione in partecipazione, bisogna distinguere tra:

- casi in cui l’apporto supera determinate soglie (ed allora si applica la disciplina delle partecipazioni qualificate);

- casi in cui le soglie non sono superate, ed allora si applica la disciplina delle partecipazioni non qualificate.

Altri redditi diversi. Con le plusvalenze, fanno parte dei redditi diversi varie altre ipotesi reddituali. Abbiamo innanzitutto i redditi di natura fondiaria ed i redditi delle sublocazioni: tali redditi sono inseriti nella categoria dei redditi diversi perché la determinazione catastale è un elemento essenziale della categoria dei redditi fondiari. I redditi derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente, ed i redditi derivanti dall’utilizzazione economica di opera d’ingegno, sono redditi diversi, e non redditi di lavoro autonomo, perché manca l’abitualità (che è anche il presupposto del collocamento dei redditi derivanti da attività commerciali non abituali tra i redditi diversi). Il reddito di chi dà l’azienda in affitto non è reddito d’impresa, ma reddito diverso; reddito diverso è anche la plusvalenza realizzata in caso di vendita. Abbiamo poi una serie di fattispecie particolari, come le vincite delle lotterie e i premi ricevuti come riconoscimenti di speciali meriti. Inoltre, rientrano nella categoria dei redditi diversi anche i proventi illeciti che non sono classificabili in alcuna delle categorie di reddito previste dall’art. 6 del Testo unico. Data la eterogeneità dei redditi contenuti in questa categoria, le relative regole di determinazione non sono uniformi. Osserviamo infine che i redditi diversi sono tassati al momento del realizzo (principio di cassa) ma, a differenza di quelli di capitale, sono tassati al netto delle spese ed oneri di produzione e non sono soggetti a ritenute alla fonte. CAPITOLO QUARTO. I singoli redditi. Sezione prima (i soggetti passivi) Aspetti generali. L’Ires colpisce quattro categorie di soggetti:

- le società di capitali residenti; - gli enti commerciali residenti; - gli enti non commerciali residenti; - le società e gli enti non residenti.

La disciplina delle società di capitali residenti e degli enti commerciali residenti è unitaria.

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Il periodo d’imposta è costituito dall’esercizio o periodo di gestione della società o ente. L’imposta è calcolata applicando l’aliquota del 27,5 per cento al reddito complessivo netto. I soggetti passivi. È soggetto passivo dell’Ires qualsiasi soggetto di diritto, diverso dalle persone fisiche. Fanno eccezione le società di persone (i cui redditi sono imputati ai soci per trasparenza) e alcuni enti pubblici esenti. Sono soggette all’Ires, in primo luogo:

- le società di capitali, le cooperative, le società di mutua assicurazione, le società europee; - gli enti aventi come oggetto principale l’esercizio di un’attività commerciale.

In secondo luogo, vi è la categoria degli enti non commerciali (tra cui possono comprendersi i trust non commerciali). Perché nessun ente sfugga all’imposizione, tra gli enti diversi dalle società che possono essere soggetti passivi dell’Ires, si comprendono, non solo le associazioni non riconosciute, ma anche le altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi nei confronti dei quali il presupposto si verifichi in modo unitario ed autonomo (ad esempio, le fondazioni di fatto). Un ente è residente se, per la maggior parte di un periodo d’imposta, ha la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato. Nella categoria degli enti non residenti sono compresi tutti gli enti e società, inclusi i trust, che non hanno la residenza fiscale in Italia. Si delineano così tre categorie di soggetti passivi, ai quali corrispondono altrettanti gruppi di norme: società ed enti commerciali residenti; enti non commerciali residenti; società ed enti non residenti. Si presumono residenti in Italia:

- le società estere che detengono partecipazioni di controllo in società italiane e che, a loro volta, sono controllate da soggetti residenti;

- le società estere che sono amministrate da un organo prevalentemente composto da persone residenti in Italia.

Tassazione delle società versus tassazione dei soci. Si pone il problema di coordinare la tassazione del reddito delle società con la tassazione dei dividendi del socio, evitando o attenuando la doppia imposizione economica. Nel nostro ordinamento sono previsti, a tal fine, i seguenti strumenti:

- il sistema della trasparenza, nel quale la società non è tassata: sono tassati solo i soci, ai quali è imputato il reddito delle società (di persone, solitamente);

- il sistema del credito d’imposta, con cui viene accreditata al socio l’imposta che colpisce i redditi della società;

- il sistema dell’esenzione, adottato nei casi in cui il socio è anch’esso una società; - la tassazione ridotta dei redditi dei soci persone fisiche.

Con la riforma del 2004 è stato soppresso il sistema del credito d’imposta collegato ai dividendi distribuiti da società residenti, ed ha introdotto un nuovo sistema, in cui l’imposta dovuta dalla società non è imputata al socio; i dividendi se distribuiti ai soci società di capitali sono tassati nella misura del 5 per cento. Solo i dividendi distribuiti alle persone fisiche subiscono una tassazione ulteriore. Le società e gli enti commerciali. Il reddito complessivo. Il reddito delle società e degli enti commerciali residenti è un reddito omogeneo: da qualsiasi fonte provenga, è considerato reddito d’impresa. Gli enti non commerciali, come le persone fisiche, possono invece essere titolari sia di redditi d’impresa, sia di altri redditi. Il reddito è determinato in due modi. Per regola generale si determina in base al bilancio: a partire dall’utile (o perdita) del conto economico apportiamo variazioni derivanti dall’applicazione delle norme fiscali.

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Invece, per i soggetti che redigono il bilancio in base ai princìpi contabili internazionali valgono criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio previsti dai princìpi contabili. Il riporto delle perdite. La norma-base e le misure antielusive. Il legislatore prevede che la perdita di un periodo d’imposta, determinata con le stesse norme valevoli per la determinazione del reddito, può essere portata in diminuzione del reddito dei periodi d’imposta successivi ma non oltre il quinto. Le perdite dei primi tre periodi d’imposta possono essere riportate a nuovo senza alcun limite di tempo, dalla data di costituzione, purché si riferiscano ad una nuova attività produttiva. In caso di attività che fruiscono di regimi di non tassazione parziale o totale del reddito, le perdite fiscali assumono rilevanza in misura corrispondente al reddito tassabile e la perdita riportabile deve essere ridotta nella stessa misura dell’esenzione. È previsto, in via generale, che la perdita fiscale riportabile è solo quella eccedente i proventi esenti. Il riporto non è ammesso quando ricorrano congiuntamente le seguenti circostanze:

- mutamento della maggioranza delle partecipazioni aventi diritto di voto nelle assemblee ordinarie;

- modificazione dell’attività principale in fatto esercitata nei periodi d’imposta in cui le perdite sono state realizzate.

Gli enti non commerciali. È una categoria molto vasta ed eterogenea: vi rientrano la più parte degli enti pubblici, gli enti ecclesiastici, le fondazioni, associazioni varie, etc. Sono enti commerciali quelli che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali; sono invece non commerciali gli enti che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di un’attività commerciale. Occorre porsi tre interrogativi: se l’oggetto si determini in base alla normativa dell’ente o in base all’attività svolta di fatto; nei casi in cui l’attività commerciale non è l’unica, in base a quale criterio si stabilisca se sia principale o secondaria; infine, come si determini la natura commerciale di un’attività. L’oggetto dell’attività è determinato in base alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto (in mancanza, l’oggetto principale dell’ente è determinato in base all’attività effettivamente svolta). Per oggetto principale si intende l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto. Fra gli enti che esercitano differenti attività, sono da considerarsi non commerciali solo quelli la cui attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari non è commerciale. Per valutare se una determinata attività assume carattere principale è necessario identificare gli scopi primari dell’ente. Gli enti perdono la qualifica di non commerciali, prescindendo dalle previsioni statutarie, qualora esercitino prevalentemente attività commerciale per un intero periodo d’imposta. La norma prevede che si tenga conto dei seguenti parametri:

- prevalenza delle immobilizzazioni relative all’attività commerciale rispetto alle altre; - prevalenza dei ricavi derivanti da attività commerciali rispetto al valore normale delle

cessioni o prestazioni afferenti le attività istituzionali; - prevalenza dei redditi derivanti da attività commerciali rispetto alle entrate istituzionali; - prevalenza delle componenti negative inerenti all’attività commerciale rispetto alle restanti

spese.

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La tassazione degli enti non commerciali. Come le persone fisiche, gli enti non commerciali possono conseguire redditi appartenenti a categorie diverse; il reddito complessivo imponibile è infatti formato dalla somma dei redditi fondiari, di capitale, d’impresa e dei redditi diversi, posseduti da tali enti. Il calcolo del reddito complessivo è effettuato sommando i redditi di ogni categoria e sottraendo le perdite derivanti dall’esercizio di imprese commerciali. Ciascun reddito è determinato secondo regole proprie della categoria di appartenenza; solo per i redditi di impresa si pone qualche problema peculiare. Agli enti non commerciali si applica il regime di detassazione dei dividendi del 95 per cento del loro ammontare. Per le plusvalenze, se conseguite al di fuori del reddito d’impresa, sono incluse nel reddito nella misura del 40 per cento o sono sottoposte a prelievo alla fonte del 12,50 per cento, a seconda che attengano a partecipazioni qualificate o non qualificate; se conseguite, invece, nell’ambito del reddito d’impresa, si applicano le regole previste per gli imprenditori individuali. L’ente non commerciale, se svolge attività d’impresa, è tenuto a istituire una contabilità separata. Le spese inerenti all’attività commerciale sono deducibili per intero; le spese specificamente inerenti ad attività non imponibili sono indeducibili; le spese ad utilizzazione promiscua sono deducibili in parte. Gli enti di tipo associativo. Particolari disposizioni sono dettate per gli enti di tipo associativo, al fine di escludere la qualifica di attività commerciale. Le condizioni che rendono non commerciale tale attività sono due:

- deve trattarsi di attività interna, rivolta agli associati e ai partecipanti; - non deve essere retribuita con corrispettivi specifici.

Il trust. Le modalità di tassazione. Anche il trust rientra fra i soggetti passivi dell’Ires. In ragione della natura commerciale o non commerciale dell’attività svolta, e della residenza fiscale in Italia o altrove, si applicheranno al trust le regole di determinazione del reddito complessivo netto previste per le società commerciali o per gli enti non commerciali. Ai fini del sistema di tassazione occorre distinguere fra trust trasparenti e trust opachi. Appartengono alla prima categoria quelli i cui beneficiari sono individuati e i redditi sono imputati per trasparenza in proporzione alla quota di partecipazione. Costituiscono la seconda categoria i trust senza beneficiari individuali, i cui redditi sono invece tassati direttamente in capo al trust medesimo. Le società e gli enti non residenti. Rinvio. L’ultimo gruppo di soggetti dell’Ires è rappresentato dalle società ed enti non residenti, con o senza personalità giuridica, inclusi i trust, che presentano un “collegamento reale” (ad esempio, l’attività è svolta in Italia). Tali soggetti sono assoggettati all’Ires solamente sui redditi prodotti in Italia. Sezione seconda (il reddito d’impresa) Determinazione del reddito d’impresa. Le norme sulla determinazione del reddito d’impresa sono collocate tra le norme che disciplinano l’Ires. Il legislatore fiscale potrebbe assumere, come reddito imponibile, lo stesso reddito che risulta dal bilancio d’esercizio; ovvero potrebbe prescinderne completamente, e richiedere la formazione di un apposito bilancio fiscale.

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È stata adottata una via intermedia: il reddito complessivo è determinato apportando all’utile o alla perdita risultante dal conto economico le variazioni in aumento o in diminuzione conseguenti all’applicazione dei criteri stabiliti nelle successive disposizioni della presente sezione. Da ciò discendono due corollari. Il primo attiene al carattere “non esaustivo” delle norme fiscali, essendo fiscalmente rilevante il risultato del conto economico. Le norme fiscali sul reddito d’impresa si limitano ad imporre delle variazioni. In materia di componenti positivi le norme fiscali non hanno lo scopo di istituirne la tassabilità, ma di determinarne le modalità della tassazione. Parallelamente, le norme sui singoli componenti negativi non hanno lo scopo di istituirne la deducibilità, ma di determinare particolari condizioni, tempi e modalità a cui è subordinata la deduzione di determinati componenti. Vi è dunque un nesso di dipendenza parziale del reddito imponibile dal risultato del conto economico. Cenni sul bilancio d’esercizio. Il bilancio d’esercizio è costituito di due conti: lo stato patrimoniale ed il conto economico, cui si aggiunge la nota integrativa. Lo stato patrimoniale rappresenta la situazione patrimoniale e finanziaria della società. Contiene quattro grandi classi di valori: Crediti verso soci per versamenti dovuti; Immobilizzazioni; Attivo circolante; Ratei e risconti. Il codice civile disciplina i criteri di valutazione degli elementi dell’attivo. Nel passivo dello stato patrimoniale sono iscritti il patrimonio netto e le passività: Patrimonio netto; Fondi per rischi e oneri; TFR; Debiti; Ratei e risconti. Civilisticamente, vanno iscritte non solo le passività certe ma anche quelle probabili. Fiscalmente, invece, sono computabili solo le passività certe; i fondi o accantonamenti sono deducibili solo in ipotesi tassativamente previste. Il conto economico contiene la rappresentazione delle spese e dei costi sostenuti e, dall’altro, dei ricavi e proventi conseguiti. Il conto economico deve essere redatto in forma scalare: Valore della produzione; Costi della produzione; Differenza tra valore e costo della produzione; Proventi e oneri finanziari; Rettifiche di valore di attività finanziarie; Proventi ed oneri straordinari; Risultato prima delle imposte; Imposte sul reddito d’esercizio; Utile (o perdita) d’esercizio. Lo schema adottato aggrega le componenti positive e negative di reddito in cinque classi di valori, che identificano altrettante aree della gestione (ordinaria, finanziaria e straordinaria). I principi contabili internazionali. Il sistema tradizionale di formulazione dei bilanci sta subendo una profonda trasformazione, perché la normativa comunitaria ha recepito i princìpi contabili internazionali, imponendone l’adozione alle società quotate. I soggetti obbligati a redigere il bilancio consolidato e il bilancio annuale in base ai princìpi contabili internazionali sono:

- le società quotate; - le società con strumenti finanziari diffusi presso il pubblico; - le banche e gli intermediari finanziari; - le imprese assicurative quotate e non obbligate a redigere il bilancio consolidato.

Le disposizione del d.lgs. che introduce in Italia i princìpi contabili internazionali possono essere divise in due gruppi:

- le regole di valutazione per l’iscrizione in bilancio di alcune categorie di attività e passività finanziarie: il criterio di valutazione è quello del fair value (prevalenza della sostanza sulla forma), coincidente spesso col valore di mercato;

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- il secondo gruppo di disposizioni concerne gli obblighi di informazione aggiuntiva, da fornire nella nota integrativa e nella relazione sulla gestione.

L’applicazione degli IAS solleva rilevanti problemi di coordinamento con la disciplina italiana, con riguardo alle spese pluriennali, alle immobilizzazioni immateriali, all’avviamento, agli strumenti finanziari e alle rimanenze. In materia di spese pluriennali, i nuovi princìpi contabili stabiliscono che sono iscrivibili tra le immobilizzazioni immateriali solamente le spese di sviluppo. Dal punto di vista fiscale l’adozione dei princìpi contabili internazionali influisce sulla determinazione del reddito imponibile, rendendo rilevanti i criteri di qualificazione, imputazione temporale, classificazione in bilancio e valutazione delle passività previsti dagli IAS. Le norme fiscali sul reddito d’impresa. Diverse e molteplici sono le ragioni per le quali il legislatore fiscale detta apposite norme che possono comportare variazioni fiscali del risultato del conto economico. Non tutte le norme sono a tutela del fisco: vi sono anche norme a tutela del contribuente (come le agevolazioni fiscali) e norme neutre. A favore di entrambi i partners del rapporto fiscale sono le norme che mirano a dare certezza al rapporto d’imposta. Le norme fiscali sul reddito d’impresa possono essere classificate in base al principio civilistico cui si riferiscono. Ad esempio, molte norme che escludono in tutto o in parte la deducibilità di taluni costi sono da correlare al principio di inerenza. Particolare rilievo hanno le norme con contenuti forfetari. Molti componenti del reddito sono frutto di una stima, che devono sottostare a criteri civilistici e specifiche disposizioni fiscali. Ad esempio, in materia di ammortamenti, il codice civile stabilisce che le immobilizzazioni devono essere iscritte in bilancio in base al costo, che deve essere sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione alla loro residua possibilità di utilizzo. Fiscalmente non sono ammessi ammortamenti superiori a determinati coefficienti, e non sono sindacabili gli ammortamenti conformi ai coefficienti. In ordine ai dati di bilancio, la normativa fiscale prevede tre tipi di variazioni:

- variazioni fiscali che aumentano il reddito imponibile con l’aumento di un componente positivo;

- variazioni fiscali che aumentano il reddito imponibile con la diminuzione di un componente negativo;

- variazioni fiscali che diminuiscono il reddito imponibile con la diminuzione di un componente positivo;

- variazioni fiscali che diminuiscono il reddito imponibile prevedendo la deducibilità di un componente negativo presente in misura minore (o assente) nel conto economico.

Vi sono norme che determinano una variazione definitiva (esenzione di proventi e indeducibilità dei costi) e norme che comportano una variazione temporanea (differimento di un costo non certo). Le variazioni in aumento. Vi sono variazioni fiscali che aumentano il reddito imponibile rispetto all’utile civilistico, in quanto variano in aumento un componente positivo del conto economico. Ad esempio possiamo riportare:

- la norma che assimila ai ricavi il valore normale dei beni merce assegnati ai soci o destinati all’autoconsumo;

- la norma che impone, per le operazioni tra società controllate, di tener conto del valore normale dei beni che una società italiana ha venduto ad una società estera controllata.

Più frequente è il caso in cui le variazioni in aumento dipendono dal fatto che il conto economico contiene componenti negative che non sono ammesse in sede fiscale, o sono ammesse solo entro certi limiti.

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L’inammissibilità della deduzione in sede fiscale di un costo può dipendere dalla presenza, nel conto economico, di componenti postivi non tassabili, o da motivi di non inerenza. Le variazioni in diminuzione. Vi sono variazioni fiscali che riducono il reddito imponibile rispetto all’utile civilistico in quanto eliminano o riducono, definitivamente o temporaneamente, un componente positivo del conto economico. La riduzione dell’imponibile può dipendere dal fatto che il conto economico contiene ricavi o proventi esenti o non soggetti al regime ordinario di tassazione. Vi è riduzione dell’imponibile, inoltre, quando la tassazione di un componente positivo di reddito non avviene nell’anno in cui si realizza civilisticamente, ma in seguito (ad esempio, rateizzazione delle plusvalenze). In relazione ai componenti negativi, le variazioni che riducono il reddito imponibile rispetto all’utile di bilancio possono dipendere dai costi computati nel conto economico di un dato esercizio, la cui deducibilità fiscale è stata rinviata. Il principio di competenza. L’attività d’impresa è un continuum, che convenzionalmente viene frazionato in esercizi sociali annui. In diritto tributario, come in diritto civile, l’imputazione temporale deve essere fatta applicano il principio di competenza economica. Il principio di competenza attribuisce rilievo al momento in cui si verifica il fatto economico-gestionale: i ricavi devono essere imputati all’esercizio in cui sono conseguiti in senso economico, i costi assumono rilievo quando sono realizzati i ricavi che contribuiscono a produrre. Il termine “competenza” è da intendere in modo da ricomprendere ogni fenomeno di ripartizione degli elementi reddituali tra più esercizi. Vi sono delle regole che regolano la competenza temporale:

- i costi non sono tutti deducibili nel periodo in cui si considerano sostenuti, devono essere dedotti, in linea di principio, nell’esercizio in cui sono conseguiti i ricavi che hanno concorso a produrre;

- alcune norme specifiche riguardano la correlazione, come nel caso di rimanenze e ammortamenti (se non operano norme specifiche, l’imputazione temporale è da stabilire in base al principio di competenza generale ex art. 109).

Deroghe al principio di competenza. Vi sono norme che derogano al principio di competenza. Per i costi vi è una deroga di ampia portata: i costi sono imputati all’esercizio di competenza solo se sono certi nell’an ed oggettivamente determinabili nel quantum. Diritto tributario e diritto civile seguono criteri diversi: il primo ammette i costi solo se sono certi ed oggettivamente determinabili; il secondo impone la rilevazione dei costi, anche se sono soltanto probabili. Il diritto tributario tutela il fisco, il diritto civile tutela altri interessi, e quindi segue il c.d. criterio di prudenza. Per i ricavi non vi è divergenza tra disciplina civilistica e disciplina fiscale, dato che, anche in sede civilistica, devono essere computati solo i ricavi effettivamente conseguiti. Si applica il principio di cassa per i seguenti componenti:

- compensi dovuti agli amministratori; - oneri fiscali e contributivi; - erogazioni liberali; - interessi di mora.

Deroghe concernenti i componenti positivi si hanno: - per gli utili derivanti dalla partecipazione in società ed enti soggetti all’Ires; - per le plusvalenze dei beni relativi all’impresa;

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- per le sopravvenienze attive conseguite a titolo di contributo o liberalità. I beni dell’impresa. Per le società sono relativi all’impresa tutti i beni che appartengono ad esse. Ben diversa è la situazione dell’imprenditore individuale, il quale può essere contemporaneamente proprietario sia di beni relativi all’impresa, sia di altri beni. Per le imprese individuali, sono relativi all’impresa le merci, i beni strumentali, i crediti acquisiti nell’esercizio dell’attività, gli immobili inclusi nell’inventario. Per le società di fatto sono relativi all’impresa anche i beni mobili e immobili iscritti nei pubblici registri a nome dei soci che sono utilizzati in via esclusiva per lo svolgimento dell’attività d’impresa. I beni relativi all’impresa devono essere distinti in beni merce, beni strumentali, beni meramente patrimoniali. I beni merce sono quelli alla cui produzione o scambio è diretta l’attività dell’impresa; sono tali, inoltre, gli strumenti finanziari che non costituiscono immobilizzazioni finanziarie. La cessione di beni merce genera ricavi. I beni strumentali sono quelli inseriti nel processo produttivo dell’impresa in modo durevole. I beni meramente patrimoniali sono una categoria residuale, da individuare per esclusione. Un macchinario o un immobile sono beni merce per l’impresa che li costruisce; sono, invece, beni strumentali per l’impresa che li acquista per usarli. I beni merce, a fine esercizio, sono rilevati e valutati come rimanenze (vale la seguente equazione: ACQUSITI + RIM. INIZ. = VENDITE + RIM. FIN). Le rimanenze di magazzino hanno la funzione di trasferire il costo dei beni invenduti da un esercizio all’altro, in coerenza con il principio di correlazione. I beni strumentali e meramente patrimoniali, invece, sono rilevati al costo nello stato patrimoniale dell’esercizio di acquisizione; il costo dei beni strumentali è ammortizzato a partire dall’esercizio in cui entrano in funzione. Il “valore fiscalmente riconosciuto” dei beni d’impresa. È necessario determinare il valore fiscalmente rilevante, o fiscalmente riconosciuto, dei beni relativi all’impresa. L’elemento costitutivo iniziale del valore fiscalmente riconosciuto è rappresentato da costo, ossia dal corrispettivo pagato per l’acquisto del bene, in caso di provenienza esterna, o dal costo di fabbricazione, in caso di provenienza interna. Il costo di un bene comprende anche gli oneri di diretta imputazione connessi all’acquisto e al suo inserimento nel ciclo produttivo, con esclusione degli interessi passivi e delle spese generali. Sono rilevanti le rivalutazioni per le quali una disposizione di legge prevede che la plusvalenza iscritta incrementa il costo fiscale del bene senza concorrere alla formazione del reddito d’impresa. I componenti positivi. I ricavi. Le norme sul reddito d’impresa in materia di componenti positivi disciplinano:

- criteri identificativi dei diversi tipi di componenti; - le fattispecie che ne determinano la rilevanza; - i criteri di determinazione.

Non si ha un ricavo quando si verifica uno degli eventi che, secondo il principio di competenza, rappresenta il momento impositivo della cessione di un bene o della prestazione di un servizio. Sono ricavi, secondo il dettato legislativo:

- i corrispettivi delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa;

- i corrispettivi delle cessioni di beni mobili, esclusi quelli strumentali, acquistati o prodotti per essere impiegati nella produzione;

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- i corrispettivi delle cessioni di azioni o quote di partecipazione in società, quando sono equiparate alle merci.

Sono altresì ricavi le indennità conseguite a titolo di risarcimento, per la perdita o il danneggiamento di beni, la cui cessione genera ricavi. Sono inoltre ricavi i contributi in denaro spettanti in base ad un contratto, i contributi spettanti esclusivamente in conto esercizio a norma di legge. Si ha ricavo, infine, quando il bene merce fuoriesce dall’impresa senza corrispettivo (ad esempio, l’autoconsumo). Mancando il corrispettivo, il ricavo dovrà essere quantificato sulla base del valore normale del bene merce. Le plusvalenze patrimoniali. Il termine di plusvalenza designa una differenza positiva tra due valori dello stesso bene in due momenti diversi. La disciplina delle plusvalenze non riguarda i beni merce ma può riguardare un complesso aziendale, beni strumentali o beni meramente patrimoniali. Anche i titoli che costituiscono immobilizzazioni finanziarie generano plusvalenze tassabili, con l’eccezione delle partecipazioni sociali che si qualificano per la participation exemption, le cui plusvalenze sono parzialmente esenti. Gli eventi che rendono tassabile una plusvalenza sono i seguenti:

- il realizzo mediante cessione a titolo oneroso o mediante risarcimento o mediante conferimento in società;

- il distacco del bene dalla sfera dell’impresa mediante assegnazione ai soci; - il trasferimento all’estero della sede della società o della residenza dell’imprenditore, con la

perdita della residenza fiscale italiana. Il trasferimento della residenza all’estero non determina la tassabilità se il bene rimane in Italia, entro una stabile organizzazione, perché, in questo caso, i beni rimangono in Italia. Per quanto riguarda l’imponibile, il valore base è dato dal valore fiscalmente riconosciuto, ossia dal costo del bene incrementato e ridotto delle variazioni derivanti dall’applicazione delle norme tributarie. Il valore di bilancio di un bene è pari alla differenza tra costo fiscale e ammortamenti fiscali. Per la permuta di un bene strumentale, se il nuovo bene strumentale è iscritto in bilancio al valore residuo da ammortizzare del bene strumentale permutato, e vi è un conguaglio in denaro, il conguaglio è tassato come plusvalenza. La rateizzazione delle plusvalenze è consentita solo per i beni posseduti in per un periodo non inferiore a tre anni ed è attuata, come detto, con il meccanismo delle variazioni. Le plusvalenze tassabili derivanti da partecipazioni immobilizzate. I titoli di partecipazione fanno parte dell’attivo circolante quando costituiscono un impiego transitorio; fanno invece parte delle immobilizzazioni finanziarie quando costituiscono un investimento durevole. Per i soggetti che adottano gli IAS occorre considerare se i titoli siano detenuti o no per la negoziazione, e costituiscono immobilizzazioni finanziarie solo quando la detenzione non è finalizzata al trading. I titoli di partecipazioni in società di capitali, quando fanno parte dell’attivo circolante sono equiparati alle merci e, quindi, la loro cessione genera ricavi. Al contrario, la cessione di dei titoli che costituiscono immobilizzazioni finanziarie genera plusvalenze parzialmente esenti, o minusvalenze non deducibili, se si tratta di titoli che presentano i requisiti della participation exemption.

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Le plusvalenze esenti (participation exemption). Le partecipazioni incluse tra le immobilizzazioni possono godere, in presenza di particolari presupposti, del regime di participation exemption. L’esenzione parziale delle plusvalenze ha come presupposto l’assunto che la loro tassazione dei redditi della società partecipata. L’esenzione delle plusvalenze derivanti da partecipazioni che beneficiano della participation exemption è, in ambito Ires, del 95 per cento. In ambito Irpef, le plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni che beneficiano della participation exemption sono esenti solo per il 50,28 per cento del loro ammontare. Il regime di esonero può riguardare anche gli strumenti finanziari assimilati alle azioni e ai contratti di associazioni in partecipazione. Segue: condizioni della partecipazion exemption. Le condizioni da cui dipende l’applicazione del regime di esenzione sono quattro:

- il periodo di possesso deve essere di un anno (l’esenzione non si applica alle partecipazioni detenute per un tempo minore). Se le partecipazioni sono state acquisite in più tranche, si applica il Lifo;

- le partecipazioni devono essere iscritte fra le immobilizzazioni finanziarie nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso; l’esenzione è accordata solo agli investimenti durevoli;

- la società partecipata deve risiedere in uno Stato o territorio appartenente alla white list. Se la società non ha sede in uno di tali luoghi, l’impedimento all’applicazione della partecipation exemption può essere rimosso mediante proceduta d’interpello, dimostrando la non elusività dell’operazione;

- la partecipata deve esercitare un’impresa commerciale. L’esenzione è quindi negata alle partecipazioni in società immobiliari di mero godimento. Si esclude, per presunzione legale assoluta, che svolgano attività commerciale le società con un patrimonio costituito prevalentemente da immobili diversi da quelli strumentali e da quelli costituenti beni-merce.

Al momento del realizzo della plusvalenza, le ultime due condizioni devono essere integrate ininterrottamente fin dal terzo periodo d’imposta anteriore al realizzo. Nel caso di partecipazioni in società di holding, i requisiti che sussistono per le subholding valgono anche per le holding, se il valore corrente del patrimonio della holding sia costituito prevalentemente da partecipazioni in società che possiedono tali due requisiti. Segue: corollari della participation exemption. Se non sussistono i quattro presupposti, le plusvalenze delle partecipazioni immobilizzate sono tassabili. Le minusvalenze realizzate sono irrilevanti se derivano da partecipazioni con i requisiti della participation exemption, e sono invece deducibili se derivano da partecipazioni cui non si applica tale regime. Per gli imprenditori individuali, le minusvalenze realizzate sono indeducibili nella misura del 50,28 per cento. L’esenzione delle plusvalenze porta con sé l’indeducibilità dei costi connessi alle partecipazioni che beneficiano dell’esenzione. Il legislatore precisa che le plusvalenze delle partecipazioni non sono tassate “in quanto esenti”; per i dividendi, invece, il legislatore specifica che non sono tassati “in quanto esclusi”. Sono dunque indeducibili i costi direttamente connessi alle partecipazioni sociali ammesse a beneficiare del regime in esame. Se viene ceduta una partecipazione con i requisiti della participation exemption, la plusvalenza non viene tassata e l’acquirente non può dedurre il relativo costo; invece, se viene ceduta l’azienda, la plusvalenza è tassata (e l’acquirente può dedurre il costo).

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Le sopravvenienze attive. Vi sono due tipi di sopravvenienze, che possiamo indicare come sopravvenienze in senso stretto (o proprio) e in senso lato (improprio). Può accadere che, in un periodo successivo a quello di competenza, si verifichino eventi che danno, ad un fatto già contabilizzato, esito diverso da quello contabilizzato (viene meno un debito, che era stato contabilizzato – e dedotto fiscalmente – in un precedente esercizio). Le sopravvenienze in senso proprio sono dunque eventi che modificano componenti che hanno già concorso alla formazione del reddito in precedenti esercizi. Le sopravvenienze attive in senso stretto possono derivare da:

- conseguimento di ricavi in misura superiore a quella che ha concorso a formare il reddito in precedenti esercizi (ad esempio, in caso di revisione contrattuale);

- sopravvenuta insussistenza di componenti negative dedotte in precedenti esercizi (ad esempio, riscossione di crediti considerati inesigibili).

Vi sono in secondo luogo sopravvenienze attive in senso lato, che derivano da un evento estraneo alla normale gestione dell’impresa, come:

- indennità conseguite a titolo di risarcimento per danni non connessi a possibili ricavi (spesso sono connesse a violazioni del patto di esclusiva o a casi di concorrenza sleale);

- i proventi conseguiti a titolo di contributo o liberalità. I dividendi e gli interessi attivi. Nei casi in cui si applica il principio si trasparenza, gli utili delle società partecipate si imputano ai soci a prescindere dalla distribuzione di dividendi; di conseguenza, la distribuzione di dividendi è priva di rilievo fiscale. Ciò vale sia per la partecipazione in società di persone, sia per il regime di trasparenza delle società di capitali. Per i dividendi percepiti da società soggette ad Ires, se non è applicato il regime di trasparenza, i dividendi sono tassati nella misura del 5 per cento (sono deducibili i costi, in quanto il 95 per cento è “escluso” da tassazione). Per i soggetti che redigono il bilancio in base agli IAS, i dividendi percepiti concorrono alla formazione del reddito imponibile per intero, se si tratta di strumenti finanziari detenuti per la negoziazione (sono tassati al 5 per cento se diversi). Non si applica, con conseguente tassazione integrale, agli utili provenienti da società controllate e collegate residenti nei Paesi esclusi dalla white list, poiché il reddito della società che li distribuisce non è tassato, o è tassato lievemente. Gli interessi attivi concorrono a formare il reddito imponibile per l’ammontare maturato nel periodo d’imposta. Gli immobili e i proventi immobiliari. Anche gli immobili debbono essere classificati tra:

- i beni strumentali per l’esercizio dell’impresa; - i beni-merce; - i beni non strumentali (meramente patrimoniali).

Gli immobili che costituiscono beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa comportano costi e ricavi alla stessa stregua degli altri beni-merce (ad esempio, fabbricati costruiti da imprese edili). Anche gli immobili strumentali non sono fonte di reddito fondiario, ma rilevano come beni dell’impresa, in ragione dei costi e dei proventi effettivi. Solo gli immobili meramente patrimoniali si sottraggono in parte alla regola predetta, in quanto il loro reddito è quantificato in base all’estimo catastale; i costi e i proventi, rilevati dal conto economico, sono irrilevanti, perché sostituiti dalla rendita catastale.

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Proventi non reddituali (sovrapprezzi di emissione e annullamento). Vi è una disposizione in materia di sovrapprezzi di emissione delle azioni o quote e di interessi di conguaglio (versati dai sottoscrittori di nuove azioni o quote), che chiarisce che tali proventi non concorrono alla formazione del reddito. I sovrapprezzi azionari, infatti, sono le somme percepite dalla società per l’emissione di azioni ad un prezzo superiore al loro valore nominale, mentre gli interessi di conguaglio sono somme che i sottoscrittori di nuove azioni corrispondono in aggiunta al prezzo delle azioni, allo scopo di porsi su di un piano di parità con i precedenti azionisti. In entrambi i casi si tratta di entrate patrimoniali. In materia di annullamento di azioni proprie, è previsto che, in caso di riduzione del capitale sociale, la differenza positiva o negativa tra il costo delle azioni annullate e la corrispondente quota del patrimonio netto non concorre alla formazione del reddito. Regole generali in tema di deducibilità dei componenti negativi. Le regole generali, in materia di componenti negativi, sono tre: il principio di competenza, il principio di inerenza, l’iscrizione nel conto economico. Vi sono poi regole specifiche, concernenti singole categorie di costi: tali regole traggono la loro ragion d’essere dal fatto che derogano ai criteri civilistici, oppure alle regole fiscali generali sulla deducibilità dei costi. Il requisito dell’inerenza. L’inerenza è un nesso funzionale che lega il costo alla vita dell’impresa; se un costo non è sostenuto in funzione della produzione dei ricavi, esso non è deducibile. In forza al principio di inerenza non sono deducibili le spese che l’imprenditore individuale sostenga per sé, o le spese che una società si accolli senza che vi sia connessione tra le spese stesse e l’attività economica della società. Gli uffici possono disconoscere la deducibilità di una spesa se non è fatta in funzione dell’impresa, ma per scopi estranei. Gli uffici non possono disconoscere la deducibilità adducendo motivazioni che attengono alla sfera discrezionale delle scelte imprenditoriali (giuste o sbagliate che siano). Se però un costo è eccessivo, il principio di inerenza può renderlo indeducibile per l’eccedenza. Alcuni ritengono che il pagamento delle sanzioni amministrative irrogate per attività che hanno prodotto redditi sarebbe un costo inerente; è però difficile qualificare le sanzioni come costi sostenuti per produrre reddito. L’inerenza è anche la ratio di norme specifiche, come:

- la norma che consente di dedurre costi di apparecchiature telefoniche per l’80 per cento; - la norma che limita la deducibilità delle spese relative a taluni mezzi di trasporto

(automobili, imbarcazioni, …); - la norma che limita la deducibilità del costo dei beni ad uso promiscuo.

Le imposte sul reddito non sono deducibili perché sono una conseguenza del reddito, non un costo funzionale alla sua produzione. La deducibilità parziale dei costi in presenza di proventi non tassati. Vi sono limiti alla deducibilità dei costi inerenti, quando si tratti di costi non riferibili a proventi o ricavi “esenti”. Questi entrano in gioco quando si hanno:

- costi che si riferiscono ad attività o beni imponibili o a proventi “esclusi” (deducibili nella percentuale con la quale concorrono a formare il reddito);

- costi che si riferiscono esclusivamente ad attività o beni “esenti” (tali costi non sono deducibili);

- costi che si riferiscono indistintamente ad attività o beni produttivi di proventi computabili ed attività o beni produttivi di proventi non computabili in quanto esenti nella determinazione del reddito (tali costi sono deducibili per la parte corrispondente al rapporto

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tra i proventi che concorrono a formare il reddito – o che non vi concorrono in quanto esclusi – e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi);

- costi non soggetti alla regola dell’inerenza. Indeducibilità della remunerazione degli strumenti finanziari assimilati alle azioni. La norma che istituisce la categoria dei titoli assimilati alle azioni va coordinata con la norma che dichiara indeducibile la remunerazione di titoli e strumenti finanziari per la quota di essa che comporti la partecipazione ai risultati economici della società emittente o di altre società appartenenti allo stesso gruppo o dell’affare in relazione al quale gli strumenti finanziari sono stati emessi. È indeducibile anche la remunerazione dei contratti di associazione in partecipazione; vi è indeducibilità quando l’apporto non sia costituito da opere o servizi; è invece deducibile la remunerazione dovuta sulla base di contratti di associazione in partecipazione che comportino la sola partecipazione agli utili e alle perdite di un’impresa o di un affare con apporto di opere o servizi, senza capitali. La regola della previa imputazione a conto economico. I componenti negativi non sono deducibili se non sono imputati al conto economico dell’esercizio di competenza. Fanno eccezione taluni comportamenti negativi di reddito (ad esempio, l’ammortamento dell’avviamento) quando sono realizzati da soggetti che predispongono il bilancio in base agli IAS. La ratio è di intuitiva evidenza: il reddito imponibile dipende dal conto economico, ed è la risultante della somma algebrica del risultato del conto economico, con le variazioni in aumento e in diminuzione espressamente previste dalle norme fiscali. Vi sono però tre deroghe al principio della previa imputazione a conto economico:

- i componenti negativi iscritti nel conto economico di un esercizio precedente, il cui scomputo è ammesso se la deduzione è stata rinviata in conformità alle norme che dispongono o consentono il rinvio:

- le spese e gli altri componenti negativi di reddito che, pur non essendo imputabili al conto economico, sono deducibili per disposizione di legge (ad esempio, compensi spettanti a promotori e soci fondatori);

- le spese e gli oneri, certi e precisi, che afferiscono specificamente a ricavi o proventi che, pur non risultanti dal conto economico, concorrono a formare il reddito (sono deducibili, a certe condizioni, i costi “neri” correlati a ricavi “neri”). La deducibilità di tali spese ed oneri assume rilievo in sede di accertamento; quando sono “recuperati a tassazione” dei ricavi non dichiarati, vanno dedotti gli oneri e le spese specificamente afferenti.

Segue: la deducibilità dei “costi stimati” e il potere di sindacato degli Uffici. La regola della previa imputazione può indurre a predisporre bilanci in modo civilisticamente scorretto, allo scopo di ridurre l’onere fiscale. Vi è insomma il rischio che, allo scopo di applicare le norme fiscali favorevoli, le valutazioni civilistiche siano influenzate da valutazioni fiscali, e che a tale scopo siano imputati a conto economico ammortamenti, accantonamenti e altre rettifiche di valore prive di giustificazione economica. Per contrastare il fenomeno, è stato conferito all’Amministrazione finanziaria il potere di disconoscere la deduzione di tali operazioni risultanti dal conto economico ma non coerenti con i comportamenti contabili sistematicamente tenuti nei precedenti esercizi, salva la facoltà di dimostrare la giustificazione di detti comportamenti in base ai princìpi contabili. I componenti negativi. Le spese per prestazioni di lavoro. Le spese per prestazioni di lavoro sono integralmente deducibili, anche se si tratta di liberalità.

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Taluni fringe benefit erogati dalla società sono deducibili nella stessa misura in cui costituiscono reddito di lavoro tassabile per il dipendente, mentre altri sono deducibili entro determinati parametri. I compensi spettanti agli amministratori delle società sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti. I compensi erogati sotto forma di partecipazioni agli utili, anche se spettanti ai promotori e ai soci fondatori, sono deducibili indipendentemente dall’imputazione a conto economico. Gli interessi passivi. Per i soggetti passivi dell’Ires, gli interessi passivi e gli oneri assimilati sono deducibili in ciascun periodo di imposta fino a concorrenza degli interessi attivi e dei proventi assimilati realizzati nel medesimo periodo. L’eccedenza negativa è deducibile entro il 30 per cento del risultato operativo lordo caratteristico. La quota di eccedenza negativa può essere dedotta nei periodi successivi. In caso di partecipazione al consolidato nazionale, l’eccedenza negativa sorta in capo ad una società può essere portata a riduzione del reddito complessivo del gruppo se società aderenti al consolidato presentino una parte di ROL non utilizzata per la deduzione dei propri interessi passivi. Lo scopo della norma è di evitare la radicale indeducibilità degli interessi passivi a quelle società che presentano un ROL nullo o negativo, come, ad esempio, le holding industriali. La disposizione permette di conteggiare, in sede di determinazione degli interessi passivi deducibili in regime di consolidato nazionale, sia gli oneri finanziari sia le capienze di ROL delle società estere del gruppo, evitando così che siano discriminate le partecipazioni estere. Per gli imprenditori individuali, gli interessi passivi, inerenti all’esercizio dell’impresa, sono deducibili parzialmente, per la parte corrispondente al rapporto fra l’ammontare dei proventi ce concorrono alla formazione del reddito d’impresa, o che non vi concorrono in quanto esclusi, e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi. La parte di interessi passivi non deducibile corrisponde, in sostanza, alla quota dei ricavi e proventi esenti rispetto al totale dei ricavi e proventi. Anche per le imprese minori la deducibilità degli interessi passivi non è limitata. Oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale. Le imposte diverse da quelle sui redditi sono deducibili secondo il principio di cassa, e non per competenza, se assumono il rilievo di costi per la sua produzione. L’Irap non è deducibile. Secondo il meccanismo normale dell’imposta, l’Iva non è un costo per l’impresa e, quindi, non vi sono problemi di deducibilità dal reddito. Vi sono però casi in cui l’Iva sugli acquisti non è detraibile, e casi in cui l’Iva sulle vendite non viene recuperata sui clienti: in tali casi, si profila un costo deducibile dal reddito. I contributi ad associazioni sindacali e di categoria sono deducibili per cassa ed a condizione che siano dovuti in base a formale deliberazione dell’associazione. Il testo unico classifica come oneri di utilità sociale una serie di erogazioni liberali che, essendo rivolte alla utilità di terzi, non sono inerenti all’impresa. Il legislatore ne consente, entro ristretti limiti quantitativi, la deduzione. Le minusvalenze patrimoniali. Le minusvalenze concorrono a formare il reddito solo quando sono realizzate. Le minusvalenze iscritte (le svalutazioni) sono deducibili anche se i titoli sono classificati fra le immobilizzazioni finanziarie. Diverso è il regime delle minusvalenze realizzate con la cessione di partecipazioni immobilizzate, che sono irrilevanti se derivano da partecipazioni con i requisiti della participation exemption, e sono invece deducibili se derivano da partecipazioni cui non si applica tale regime.

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In quest’ultimo caso la deducibilità è limitata alla parte di minusvalenza che eccede l’importo non imponibile dei dividendi percepiti nei 36 mesi precedenti il realizzo. Per gli imprenditori individuali e le società di persone, le minusvalenze realizzate relative a partecipazioni con i requisiti dell’esenzione sono indeducibili in misura corrispondente alla percentuale di plusvalenza esente. Le sopravvenienze passive. Le sopravvenienze passive si hanno quando si verifica:

- il mancato conseguimento di ricavi o proventi che hanno concorso a formare il reddito in precedenti esercizi;

- il sostenimento di spese, perdite od oneri a fronte di ricavi o altri proventi che hanno concorso a formare il reddito in precedenti esercizi;

- la sopravvenuta insussistenza di attività iscritte in bilancio. Le perdite. La perdita è un componente negativo disciplinato con riguardo:

- ai beni d’impresa diversi dai beni merce; - ai crediti.

La perdita di un bene relativo all’impresa è deducibile nei limiti del valore fiscalmente riconosciuto. Le perdite, in generale, sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi; le perdite sui crediti sono deducibili in ogni caso, se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali. Si ha perdita su crediti, in primo luogo, quando il credito è perduto in senso giuridico: ad esempio, quando il creditore rinuncia o lo cede. La deduzione è ammessa se la cessione è pro soluto, e non se è pro solvendo. Va detto che la perdita del credito non è un evento, un fatto determinato e preciso, ma è per sua natura una valutazione circa l’insolvenza del debitore. La certezza e la precisione della prova richiesta dalla normativa non escludono affatto che la prova sia di carattere presuntivo, perché tale situazione non può che essere dimostrata mediante indizi. Se viene effettuato un accantonamento al fondo rischi su crediti, se un periodo d’imposta successivo si verificherà una perdita, si dovrà tenere conto dell’accantonamento dedotto in precedenza, per cui la perdita sarà deducibile solamente per la parte che eccede l’ammontare dell’accantonamento già dedotto. I costi pluriennali: l’ammortamento delle immobilizzazioni materiali. L’ammortamento riguarda i costi ad utilizzazione pluriennale. Nell’attivo dello stato patrimoniale le immobilizzazioni devono essere iscritte inizialmente per un valore pari al costo, che deve essere sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio, in relazione alla possibilità residua di utilizzazione dei beni. L’ammortamento dei beni materiali è ammesso per i soli beni strumentali. Non sono ammortizzabili gli immobili che concorrono alla formazione del reddito d’impresa secondo le regole catastali. Le quote degli ammortamenti, secondo il codice civile, devono essere determinate in base ad una stima del periodo di durata del cespite; le norme tributarie, invece, stabiliscono dei periodi minimi di durata dell’ammortamento mediante la determinazione di coefficienti massimi. Le quote di ammortamento sono deducibili a partire dall’esercizio di entrata in funzione del bene: nel primo esercizio, la quota di ammortamento deve essere ridotta a metà. Il quantum ammortizzabile è dato dal costo storico del bene. In ordine all’aliquota non è previsto un termine minimo. Se la quota di ammortamento imputata a bilancio è superiore a quella fiscalmente ammessa, la parte di ammortamento civilistico in eccesso deve essere ripresa a tassazione. Per i beni materiali il cui costo unitario è inferiore a 516,46 euro è fiscalmente consentita la deduzione integrale delle spese di acquisizione nell’esercizio in cui sono state sostenute.

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L’ammortamento finanziario è una forma di ammortamento che interessa le imprese che svolgono un’attività in regime di concessione amministrativa ed ha per oggetto il capitale investito per la costruzione o l’acquisto di beni che, alla scadenza, devono essere devoluti gratuitamente all’ente pubblico. L’ammortamento finanziario è effettuato mediante la deduzione fiscale di quote costanti nel tempo. Segue: l’ammortamento delle immobilizzazioni immateriali. Le immobilizzazioni immateriali sono distinte in tre categorie:

- i diritti di utilizzazione di opere dell’ingegno; - i diritti di concessione; - l’avviamento.

Il costo del primo gruppo di immobilizzazioni è annualmente deducibile fino al 50 per cento. I diritti di concessione possono essere dedotti in misura rapportata alla durata di utilizzazione prevista dal contratto o dalla legge. Infine, l’avviamento è ammortizzabile annualmente in misura non superiore al diciottesimo del valore iscritto nell’attivo del bilancio. Segue: le spese incrementative. Le spese di manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione possono essere patrimonializzate, incrementando così il valore fiscalmente riconosciuto dei beni cui si riferiscono. Il legislatore fiscale ha però semplificato la materia, forfetizzando la quota deducibile nell’esercizio in cui le spese sono sostenute (5 per cento del costo complessivo di tutti i beni ammortizzabili che risultano dal libro dei cespiti all’inizio dell’esercizio); l’eccedenza, invece, è ammortizzabile per quote costanti nei cinque esercizi successivi. Sono invece deducibili nell’esercizio in cui sono sostenute le spese dovute in base a contratti di manutenzione. Segue: spese per studi e ricerche; spese di pubblicità e rappresentanza. Le spese sostenute per studi e ricerche, pur essendo costi pluriennali, sono invece interamente deducibili nell’esercizio in cui sono sostenute. Le spese di pubblicità e di propaganda sono deducibili nell’esercizio in cui sono state sostenute o in quote costanti nell’esercizio stesso e nei successivi quattro. Le spese di rappresentanza sono deducibili nel periodo d’imposta di sostenimento se rispondenti ai requisiti di inerenza e congruità. La distinzione tra spese di pubblicità e spese di propaganda consiste nel fatto che la pubblicità e la propaganda hanno per oggetto un determinato prodotto o servizio, mentre le spese di rappresentanza hanno per oggetto l’impresa in genere, e quindi influenzano le vendite in via indiretta. Gli accantonamenti. La disciplina del bilancio impone l’iscrizione dei costi anche soltanto probabili. Il diritto fiscale è invece improntato ad un principio diverso: costi e spese sono deducibili solo quando sono certi nell’an e nel quantum; rispetto a tale principio generale, costituiscono dunque un’eccezione gli accantonamenti fiscalmente deducibili: non sono ammesse deduzioni per accantonamenti diversi da quelli espressamente considerati dalle disposizioni. Sono innanzitutto deducibili gli accantonamenti ai fondi per TFR e a fondi di previdenza per il dipendente. In secondo luogo sono deducibili gli accantonamenti al fondo di copertura per rischi su crediti pari allo 0,50 per cento del valore nominale o di acquisizione dei crediti, fino ad un massimo del 5 per cento.

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Le valutazioni. Le rimanenze di magazzino. Partecipano al calcolo del reddito non solo i costi e i ricavi ma anche le variazioni delle rimanenze. La valutazione delle rimanenze si effettua raggruppando i beni in categorie omogenee per natura e valore, ed assumendo, come criterio di valutazione, in primo luogo il costo specifico. Le rimanenze, al termine del primo esercizio in cui si verificano, sono valutate in base al costo medio. Negli esercizi successivi, se vi è incremento, le maggiori quantità costituiscono gruppi distinti per esercizio di formazione, da valutare con il criterio del costo medio. Se invece, negli esercizi successivi, vi è diminuzione di quantità, per espressa previsione, si considerano alienati per primi i beni facenti parte degli incrementi formati negli esercizi precedenti. È questo il criterio del Lifo. Se il valore normale dei beni è inferiore al costo, è consentita la svalutazione del magazzino. Il codice civile prevede (secondo il principio di prudenza) che il magazzino deve essere valutato in base al valore di costo o in base al valore di realizzo, optando per il minore. In sede fiscale, quando il valore di magazzino (costo) risulta superiore a quello di mercato dell’ultimo mese d’esercizio, il contribuente può svalutarlo adottando il valore normale. I titoli e le partecipazioni sociali non immobilizzate. Tra le rimanenze da valutare vi sono anche i titoli e le partecipazioni che sono assimilate alle merci. Questi beni sono valutati a fine esercizio secondo criteri simili a quelli dei beni-merce:

- devono essere raggruppati in categorie omegenee; - nel primo esercizio, ogni titolo è valutato dividendo il costo complessivo per le quantità; - nei successivi esercizi, le maggiori quantità sono distinte per periodo di formazione; se le

quantità sono diminuite, si segue il Lifo; - le rimanenze di un esercizio costituiscono esistenze iniziali dell’esercizio successivo.

Va sottolineata una importante differenza tra merci e titoli: la svalutazione prevista per le merci è permessa anche per le obbligazioni, ma non è permesse né per le partecipazioni, né per gli strumenti finanziari assimilati alle partecipazioni. Per tutti i soggetti che non adottano gli IAS, i titoli che costituiscono un investimento durevole devono essere classificati in bilancio come immobilizzazioni finanziarie. I lavori in corso e le opere di durata ultrannuale. I prodotti in corso di lavorazione e i servizi in corso di esecuzione sono valutati in base alle spese sostenute nell’esercizio. Altra, più articolata normativa, vale per le opere, le forniture e i servizi di durata ultrannuale: per tali contratti la regola generale è che l’imprenditore, alla fine dell’esercizio, deve rilevare tra le rimanenze i lavori effettuati, determinandone il valore in base ai corrispettivi pattuiti per i lavori svolti. Nel caso delle opere di lunga durata, fatte su ordinazione, il corrispettivo è un utile non soltanto sperato, ma economicamente già maturato, perché derivante dal contratto in corso di esecuzione. Quando l’opera è conclusa, si ha la liquidazione definitiva dei corrispettivi: ed i corrispettivi definitivamente liquidati non fanno parte delle rimanenze, ma dei ricavi. CAPITOLO QUINTO. I redditi transnazionali. Sezione prima (i redditi dei non residenti) La fiscalità internazionale. La fiscalità internazionale delle imposte dirette comprende le norme interne che disciplinano la tassazione dei redditi dei non residenti, la fiscalità comunitaria, la fiscalità internazionale in senso stretto (convenzioni internazionali).

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La localizzazione dei redditi. Il rapporto reddito-territorio può assumere rilievo sia per i residenti, sia per i non residenti, in quanto:

- i non residenti sono tassati in Italia per i redditi prodotti nel territorio dello Stato italiano; - i residenti sono tassati per i redditi ovunque prodotti nel mondo.

Sono perciò previsti dei criteri di localizzazione per ciascuna categoria di reddito: - per i redditi di origine patrimoniale rileva il luogo in cui è situata la fonte reddituale (per i

redditi fondiari vale la localizzazione dell’immobile, per i redditi di capitale occorre che i soggetti siano residenti o abbiano una stabile organizzazione nello Stato);

- per i redditi che derivano dallo svolgimento di un’attività, vale il luogo in cui l’attività è svolta.

Sono prodotti in Italia i “redditi diversi” che derivano da beni situati nello Stato e da plusvalenze relative a partecipazioni in società residenti. Inoltre, si considerano prodotti nello Stato, quando siano corrisposti da soggetti residenti, le pensioni e le indennità di fine rapporto, i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, etc. Per i soli soggetti Ires non residenti, infine, che svolgono un’attività commerciale in Italia mediante stabile organizzazione, si prevede l’inclusione nel reddito d’impresa anche delle plusvalenze e delle minusvalenze dei beni relativi alle attività commerciali esercitate nel territorio dello Stato. La tassazione delle persone fisiche non residenti. La tassazione dei redditi delle persone fisiche residenti ha carattere personale e globale: essi sono tassati illimitatamente, per tutti i redditi, ovunque prodotti. Per i non residenti, invece, la tassazione ha carattere reale, essendo limitata ai redditi prodotti nel territorio dello Stato. È dunque rilevante fissare il concetto di “residenza fiscale”, la quale deriva dalla iscrizione anagrafica, dal domicilio o dalla dimora abituale. Il non residente è soggetto ad imposta in ragione del collegamento reale dei singoli redditi con il territorio dello Stato. I redditi di lavoro autonomo e di capitale prodotti in Italia da persone fisiche non residenti sono tassate mediante ritenuta a titolo d’imposta. I redditi che non sono tassati alla fonte a titolo definitivo devono essere dichiarati dai non residenti. Non spettano né le detrazioni dall’imposta per carichi di famiglia né le altre detrazioni di natura personale. I dividendi in “uscita”. La regola generale è che i dividendi distribuiti da società residenti a soggetti non residenti sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta nella misura del 27 per cento. I soggetti non residenti hanno diritto al rimborso, fino a concorrenza dei quattro noni della ritenuta, dell’imposta che dimostrino di aver assolto nel loro Stato di residenza sugli stessi utili. Tale regime generale non trova applicazione nel caso di dividendi distribuiti a società ed enti residenti in Stati membri dell’Ue o inclusi nella, white list, che sono tassati (in tali Stati) con l’imposta sul reddito delle società. I dividendi sono soggetti a ritenuta d’imposta con aliquota dell’1,375 per cento. Diverso è il regime fiscale dei dividendi infrasocietari, se trova applicazione la Direttiva “madre-figlia”, che impedisce la tassazione dei dividendi distribuiti tra società “madri” (controllanti) e società “figlie” (controllate) all’interno della Comunità. La direttiva “madre-figlia” è attuata in Italia in tal modo: la società madre non residente può richiedere la non applicazione della ritenuta del 27 per cento o chiederne il rimborso. La direttiva si applica solo ai dividendi percepiti dalle società che detengono una partecipazione diretta non inferiore al 25 per cento del capitale della società figlia; inoltre devono:

- risiedere in uno Stato dell’Ue; - essere soggette nello Stato di residenza ad una delle imposte indicate;

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- detenere la partecipazione ininterrottamente per almeno un anno; - etc.

La non applicazione o il rimborso della ritenuta sugli utili in uscita evita la doppia tassazione giuridica internazionale. La tassazione delle imprese non residenti. Vi sono delle presunzioni legali di residenza fiscale in Italia. Salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo in società o enti commerciali, se:

- sono controllati da soggetti residenti nel territorio dello Stato; - sono amministrati da un CdA composto in prevalenza di consiglieri residenti.

Inoltre, si presume che siano residenti in Italia i trust esteri non compresi nella white list: - se almeno un disponente e un beneficiario sono residenti in Italia; - se il disponente ha traferito in trust immobili o diritti reali immobiliari.

Per le società e gli enti commerciali non residenti si tassano con l’Ires solo i redditi prodotti in Italia. Se vi è stabile organizzazione, si applicano le regole nazionali in materia di reddito d’impresa. Se non vi è stabile organizzazione, i redditi della società o ente non residente conservano la qualifica di redditi della categoria di appartenenza. La stabile organizzazione. Gli imprenditori non residenti producono un reddito imponibile solo se, nello Stato, operano per mezzo di una “stabile organizzazione”. La stabile organizzazione “materiale” è definita come sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività sul territorio dello Stato. L’espressione “stabile organizzazione” comprende in particolare una sede di direzione, una succursale, un laboratorio, etc. Un cantiere assume rilievo se la sua durata supera i tre mesi. Una sede fissa di affari non costituisce stabile organizzazione se e quando:

- viene utilizzata una installazione ai soli fini di deposito; - i beni o le merci appartenenti all’impresa sono immagazzinati ai soli fini della

trasformazione; - viene utilizzata ai soli fini di svolgere, per l’impresa, qualsiasi attività che abbia carattere

preparatorio; - etc.

Il ruolo di stabile organizzazione di un’impresa non residente può essere svolto anche da persona, fisica o giuridica, distinta dall’impresa non residente, che nel territorio dello Stato abitualmente conclude in nome dell’impresa stessa contratti diversi da quelli di acquisto di beni. Non vi è stabile organizzazione personale se il soggetto opera in modo indipendente, ed opera nell’ambito della sua ordinaria attività. La stabile organizzazione è centro d’imputazione di situazioni giuridiche; non è un soggetto, ma una fattispecie, con effetti costitutivi di situazioni giuridiche che fanno capo al non residente. Il reddito della stabile organizzazione è determinato secondo le disposizioni relative al reddito d’impresa. Deve essere tenuta la contabilità e redatto un apposito conto economico, relativo alla gestione della stabile organizzazione e alle altre attività produttive di redditi imponibili in Italia. Quando non vi è stabile organizzazione, si ha tassazione isolata delle diverse categorie reddituali. Gli enti non commerciali non residenti. Anche gli enti non commerciali non residenti sono tassati solamente per i redditi prodotti sul territorio dello Stato. Il reddito imponibile si determina applicando le regole dettate per le persone fisiche residenti.

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A differenza delle società ed enti commerciali non residenti, gli enti non commerciali non residenti possono essere titolari di situazioni redditi d’impresa se esercitano, in via secondaria, un’attività commerciale in Italia mediante stabile organizzazione. Il rappresentante fiscale degli enti non residenti. Per le imposte sui redditi, è previsto che le società e gli enti, che non hanno la sede legale o amministrativa nel territorio dello Stato, devono indicare le generalità e l’indirizzo in Italia di un rappresentante per i rapporti tributari. La funzione del rappresentate fiscale è analoga a quella del domiciliata rio che qualsiasi contribuente può nominare, per il ricevimento degli atti dell’Amministrazione finanziaria. Il rappresentante fiscale non ha, secondo il modello legale, poteri rappresentativi, a meno che tali poteri non siano espressamente conferiti con procura notarile. Sezione seconda (i redditi di fonte estera) I redditi prodotti all’estero. Gli stessi criteri, in base ai quali un reddito di un non residente si considera prodotto in Italia, si applicano per stabilire se sono prodotti in Italia o all’estero i redditi dei residenti. Ai redditi prodotti all’estero si applicano, in linea di principio, le stesse norme che si applicano ai redditi prodotti in Italia. Per taluni redditi, però, vi sono norme particolari. Monitoraggio dei capitali trasferiti o detenuti all’estero. Vi è, per taluni soggetti, l’obbligo di dichiarare i capitali trasferiti o detenuti all’estero. Le persone fisiche, gli enti non commerciali e le società semplici devono dichiarare, in un modulo (denominato RW) allegato alla dichiarazione dei redditi, i trasferimenti di capitali da e verso l’estero, se l’ammontare complessivo dei movimenti o della consistenza supera i 10.000 euro. L’omessa dichiarazione dei capitali è punita con due sanzioni (amministrativa e confisca di beni di pare valore). A ciò va aggiunto l’accertamento delle imposte dovute sui redditi prodotti all’estero dai capitali non dichiarati. I dividendi di fonte estera. Come già illustrato, i dividendi distribuiti da società non residenti sono tassati come quelli distribuiti da società residenti. I dividendi corrisposti a persone fisiche che detengono partecipazioni non qualificate devono essere assoggettati ad una ritenuta del 12,50 per cento a titolo d’imposta (mentre è a titolo d’acconto nei confronti dei soggetti che detengono partecipazioni qualificate). Il credito d’imposta per le imposte assolte all’estero. L’attribuzione del credito d’imposta per le imposte assolte all’estero mira a eliminare o attenuare la doppia imposizione. Il credito d’imposta è una detrazione che spetta fio a concorrenza della quota di imposta italiana corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero e reddito complessivo. Se alla formazione della base imponibile concorrono redditi prodotti in più Stati esteri, la detrazione si applica separatamente per ciascuno Stato. Nel caso in cui il reddito prodotto all’estero è tassato parzialmente, anche l’imposta estera detraibile deve essere ridotta in misura corrispondente. È necessario, infine, che il pagamento dell’imposta allo Stato estero sia stato fatto a titolo definitivo.

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Il consolidato mondiale. Aspetti generali. Il consolidato mondiale consiste, essenzialmente, nella imputazione, alla capogruppo italiana, del risultato fiscale delle controllate estere, in proporzione alla quota di partecipazione. L’opzione per il consolidato mondiale comporta l’imputazione proporzionale alla controllante dei redditi (e delle perdite) di tutte le controllate non residenti, per un periodo non inferiore a cinque esercizi. Questo sistema di tassazione presenta vantaggi e svantaggi. Il lato positivo è dato dalla compensabilità delle perdite fiscali delle società controllate non residenti con i redditi imponibili delle società residenti. D’altro canto, però, il consolidato rende immediatamente tassabili in Italia, per imputazione, gli utili delle controllate non residenti. I soggetti. L’ente controllante, che può optare per il consolidato mondiale, deve essere una società di capitali o un ente commerciale residente in Italia. La controllante può optare per il consolidato mondiale se è una società quotata in mercati regolamentati e se non è controllata da nessun’altra società, ma dallo Stato. Il requisito del controllo sussiste quando la società possiede: la maggioranza dei diritti di voto o il diritto di partecipare agli utili in misura superiore al 50 per cento. Il requisito del controllo deve sussistere al termine dell’esercizio della controllante, ma va escluso dal consolidamento il reddito delle società estere che siano divenute controllate nei sei mesi antecedenti la chiusura dell’esercizio della controllante. L’opzione. L’opzione per il consolidato mondiale deve essere esercitata unicamente da parte della società o ente controllante residente. Le controllate non devono esprimere la loro opzione per questo regime. Il consolidato mondiale non tassa i loro redditi. L’opzione è efficace se:

- ha per oggetto tutte le controllate non residenti; - vi è identità dell’esercizio sociale di ciascuna società controllata con quello della

controllante; - i bilanci di tutte le società del gruppo sono soggetti a revisione contabile; - vi è l’impegno a fornire al soggetto controllante la collaborazione necessaria per la

determinazione dell’imponibile; - c’è il parere positivo dell’Agenzia delle entrate sulla sussistenza dei requisiti.

Gli effetti. Il risultato reddituale delle società estere, da includere proporzionalmente nell’imponibile della controllante, deve essere ricalcolato dalla controparte applicando le disposizioni vigenti in Italia in materia di Ires. Devono poi essere poi effettuate le rettifiche di consolidamento:

- adozione di un trattamento uniforme dei componenti positivi e negativi degli elementi di un reddito risultanti dai bilanci revisionati dalle controllate;

- esclusione degli utili e perdite di cambio risultanti da finanziamenti infragruppo di durata superiore a diciotto mesi;

- conversione degli imponibili espressi in valuta estera; - etc.

Sulla base imponibile risultante dalle rettifiche di consolidamento, la controllante determina la corrispondente imposta “lorda”, da cui sono scomputabili i crediti e le ritenute di pertinenza della controllante medesima.

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Per evitare effetti di doppia imposizione, sono detraibili le imposte pagate all’estero dalle società controllate. Interruzione e mancato rinnovo dell’opzione. Ove la capogruppo perda lo status legittimante la sua posizione (ad esempio, privatizzazione di una holding pubblica), il regime in parola cessa di avere efficacia a partire dall’inizio del successivo periodo d’imposta. Con riferimento alla diversa ipotesi in cui decada il requisito di controllo rispetto ad una o più entità, l’art. 138 dispone una regola che recupera a tassazione alcuni valori nella base imponibile consolidata. In caso di interruzione o di mancato rinnovo del consolidato mondiale, i dividendi percepiti e le plusvalenze realizzate dalla controllante, per effetto delle partecipazioni detenute nelle società consolidate, concorrono a formare il reddito imponibile della controllante, per la quota parte che ha beneficiato della participation exemption, fino a concorrenza della differenza fra le perdite della società estera dedotte e i redditi della medesima società tassati nell’ambito del consolidato. Il rulling internazionale. La richiesta di rulling è presentata al competente ufficio (a Milano o a Roma); la procedura si conclude con la stipulazione di un accordo, tra l’Agenzia delle entrate e il contribuente. Questo vincola per il periodo d’imposta nel corso del quale è raggiunto, e per i due successivi. Le norme antiabuso. I prezzi di trasferimento (transfer price). La manipolazione del prezzo di trasferimento è una delle tecniche classiche di elusione (o frode) fiscale internazionale: le legislazioni la fronteggiano sostituendo, ai prezzi pattuiti, valori di mercato determinati con criteri astratti. La norma sui prezzi intercompany opera quando un’impresa italiana cede dei beni, o presta servizi, ad un’impresa estera controllata, ed applica prezzi inferiori al valore normale, comprimendo così i propri utili a favore della consociata. L’impresa italiana che non ha praticato prezzi conformi al valore normale deve operare delle rettifiche in aumento nella dichiarazione dei redditi. Il valore normale è il prezzo di libera concorrenza. La norma si applica ai rapporti:

- tra imprese italiane e società non residenti che controllano l’impresa italiana, o ne sono controllate;

- tra imprese italiana e società estere, quando i due soggetti dell’operazione siano entrambi controllati da una medesima capogruppo;

- tra società non residenti e imprese italiane, quando queste ultime svolgono per le prime attività di commercializzazione dei prodotti.

Trasferimento della residenza in un “paradiso fiscale”. Si considerano residenti in Italia i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati diversi da quelli compresi nella white list. È onere del contribuente dimostrare che non ha conservato in Italia né la dimora abituale né il centro dei propri interessi. Rapporti con imprese domiciliate in “paradisi fiscali”. In linea di principio, non sono deducibili i componenti negativi di reddito derivanti da operazioni concluse da un’impresa italiana con una estera localizzata in un paradiso fiscale, perché si presume che l’impresa estera sia un soggetto di comodo o che l’operazione sia fittizia. Al contribuente è data la facoltà di vincere la presunzione legale. Gli effetti della norma in esame sono assoluti, perché consistono nell’indeducibilità dell’intero costo sostenuto.

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Le ragioni della diversità di disciplina sono facilmente intuibili, perché i paradisi fiscali si prestano ad essere utilizzati ai fini dell’occultamento di ricchezza, per finalità non soltanto fiscali. Il regime delle CFC e delle collegate residenti in “paradisi fiscali”. La normativa di cui ci occupiamo ora ha lo scopo di contrastare le pratiche elusive attuate da chi detiene il controllo di imprese con sede in paradisi fiscali. Questa normativa (nota come CFC rule) interessa qualsiasi contribuente residente in Italia, che detenga partecipazioni in soggetti localizzati nei Paesi predetti. Secondo il regime CFC, i redditi delle controllate estere sono imputati al soggetto residente in Italia, a prescindere dalla distribuzione. Si ha dunque una “imputazione per trasparenza”, la quale comporta che i soci residenti in Italia sono tassati immediatamente per gli utili prodotti dalla impresa estera controllata. Il regime CFC ha funzione antielusiva, e, quindi, si applica obbligatoriamente. Vi è controllo se una società dispone della maggioranza di voti o di un numero di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante sull’altro soggetto; il controllo può inoltre derivare dalla presenza di particolari vincoli contrattuali. Il contribuente può ottenere che non si applichi il regime delle CFC se esperisce con successo la procedura d’interpello prevista dall’art. 11 dello Statuto dei diritti del contribuente. In due casi può essere chiesta la disapplicazione:

- se il soggetto esercita effettivamente, come sua principale attività, un’attività industriale o commerciale nello Stato ove ha sede;

- quando il soggetto residente riceve utili da una stabile organizzazione i cui redditi sono tassati in un Paese a regime di fiscalità normale.

Nel caso in cui l’impresa estera dovesse essere tassata nel Paese a regime fiscale privilegiato, il soggetto residente può detrarre, dalle imposte dovute in Italia, quelle pagate allo Stato estero, in via definitiva, dall’impresa estera. Anche i redditi delle imprese estere collegate, residenti in Stati a fiscalità privilegiata, sono tassati in Italia. Dividendi e plusvalenze di partecipazioni in società residenti in “paradisi fiscali”. Alla disciplina sinora esaminata, si aggiungono norme che negano i benefici della participation exemption a chi abbia altra partecipazioni in società residenti in paradisi fiscali. Dato che tali imprese non pagano le imposte, o le pagano in misura ridotta, non hanno ragion d’essere le norme atte ad evitare la doppia imposizione. I dividendi percepiti da società sono tassati per intero. Analogamente, i dividendi percepiti da persone fisiche concorrono per intero alla formazione del reddito imponibile del percettore. Norme dello stesso tenore valgono in tema di plusvalenze da partecipazione. In tutte le ipotesi considerate, l’impedimento all’applicazione dei regimi di esclusione e di esenzione non opera se, a seguito di interpello, è accertato che dalla partecipazione non sia conseguito l’effetto di localizzare i redditi nel Paese considerato paradiso fiscale. CAPITOLO SESTO. Le operazioni straordinarie. Premessa. Le operazioni straordinarie sono taluni eventi organizzativi o riorganizzativi da distinguere secondo che abbiano per oggetto beni o soggetti. Operazioni sui beni. Le cessioni di azienda. Se l’azienda è ceduta ad un prezzo maggiore del valore fiscalmente riconosciuto, il regime fiscale ordinario della plusvalenza così monetizzata è la tassazione integrale nell’anno di realizzo.

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Può non esservi tassazione se la plusvalenza non è monetizzata. In caso di una permuta, non vi è tassazione se il corrispettivo della cessione è costituito da beni ammortizzabili, ma occorre che i beni ricevuti siano complessivamente iscritti in bilancio allo stesso valore al quale vi erano iscritti i beni ceduti. Se è ceduta un’azienda che è stata posseduta per un periodo non inferiore a tre anni, il contribuente ha la facoltà di scelta tra tassazione immediata nell’esercizio del realizzo e tassazione frazionata in più esercizi. La tassazione immediata della plusvalenza realizzata può essere conveniente quando compensa perdite di esercizio o perdite pregresse. Il trasferimento di azienda per causa di morte o per atto gratuito non rende tassabili le plusvalenze dell’azienda, che deve però essere assunta ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa. La tassazione della plusvalenza realizzata con la cessioni di un’azienda può essere evitata conferendo l’azienda in regime di neutralità fiscale, iscrivendo la partecipazione ricevuta come immobilizzazione e cedendo poi la partecipazione in regime di participation exemption. Le cessioni di partecipazioni immobilizzate. Secondo il regime ordinario, le plusvalenze realizzate con la cessione di partecipazioni sociali iscritte nell’attivo immobilizzato, che non fruiscono del regime di participation exemption, sono imponibili. Questo regime non opera, però, in presenza di partecipazioni “strategiche” che fruiscono del regime di participation exemption. I conferimenti in generale. Fiscalmente i conferimenti sono equiparati alle cessioni a titolo oneroso: ciò significa che, di norma, le plusvalenze dei beni conferiti sono da considerare realizzate come se il bene fosse ceduto verso un corrispettivo in denaro. Per effetto del conferimento, il conferente non riceve denaro ma una partecipazione; la plusvalenza insita nel bene conferito viene scambiata con un altro bene. Sottraendo al valore delle partecipazioni ricevute il valore fiscale del bene conferito, si ottiene la misura della plusvalenza tassabile. Se la conferitaria è una società quotata in borsa, il valore normale delle partecipazioni è determinato in base alle quotazioni. Se la conferita ria non è quotata, si assume che il valore normale delle partecipazioni sia pari al valore normale dei beni conferiti. I conferimenti di azienda. I conferimenti d’azienda sono fiscalmente neutri; questa neutralità è fondata sulla continuità dei valori fiscali dei beni conferiti, astraendo dai valori contabili. Il soggetto conferente deve attribuire alla partecipazione ricevuta il valore fiscale dell’azienda conferita, e che la società conferitaria subentra nelle posizioni della prima relativamente agli elementi dell’attivo e del passivo dell’azienda. Può esservi peraltro divergenza tra valori contabili e valori fiscali. La plusvalenza può essere messa in evidenza in contabilità, perché il conferente attribuisce alla partecipazione ricevuta un valore superiore al valore fiscale dell’azienda conferita. La plusvalenza messa così in evidenza non è tassata, ma i divergenti valori contabili e fiscali dei beni devono essere indicati in un “prospetto di riconciliazione”. Si avrà tassazione quando il conferente cederà la partecipazione o la società conferitaria cederà l’azienda. La neutralità fiscale opera anche nel caso in cui l’imprenditore individuale conferisca l’unica azienda di cui è proprietario. Anche in tale ipotesi, non vi è tassazione immediata. La successiva cessione della partecipazione (ricevuta in cambio dell’azienda conferita) determinerà una plusvalenza imponibile quale “reddito diverso”.

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La partecipazione sarà considerata può rinunciare al regime ordinario di neutralità fiscale ed ottenere il riconoscimento fiscale delle plusvalenza se le sottopone ad un tributo sostitutivo. I beni sono gli elementi dell’attivo costituenti immobilizzazioni materiali e immateriali dell’azienda ricevuta. L’imposta sostitutiva è progressiva per scaglioni di plusvalore complessivo da affrancare. È sostitutiva dell’Irpef, dell’Ires e dell’Irap. I maggiori valori assoggettati ad imposta sostitutiva si considerano riconosciuti ai fini dell’ammortamento fiscale a partire dal periodo d’imposta nel corso del quale è esercitata l’opzione. Si ha disconoscimento dei maggiori valori in caso di cessione del bene prima del quarto periodo d’imposta successivo a quello di esercizio dell’opzione. in tale ipotesi, è riconosciuto un credito d’imposta in misura pari al tributo sostitutivo versato. Il conferimento di partecipazioni di controllo o di collegamento. Il conferimento di partecipazioni strategiche determina:

- plusvalenze normalmente imponibili; - plusvalenze esenti, se la partecipazione integra le condizioni della participation exemption.

Vi è però, per i conferimenti di partecipazioni di controllo o di collegamento uno speciale regime di neutralità che si applica se il conferente iscrive la partecipazione ricevuta allo stesso valore contabile della partecipazione di controllo o di collegamento conferita e se, a sua volta, il conferitario iscrive la partecipazione al valore contabile originario che aveva presso il conferente. La continuità dei valori contabili impedisce la tassazione della plusvalenza, che resta latente. Se un differenziale positivo è rilevato da uno dei due soggetti, la plusvalenza cessa di essere latente ed è tassata se le è dato rilievo contabile. Questo regime speciale non è applicabile nel caso in cui siano conferite partecipazioni di controllo o di collegamento prive dei requisiti della participation exmption e si ricevono in cambio partecipazioni che presentano invece i requisiti della participation exemption. Se si conferiscono partecipazioni non esenti, ottenendo in cambio partecipazioni esenti, vi è mutamento di regime fiscale. Lo scambio di partecipazioni (mediante permuta o conferimento). La disciplina dello scambio di partecipazioni si applica al caso in cui una società acquista o integra una partecipazione di controllo di un’altra società, non con il pagamento del prezzo, ma attribuendo al conferente azioni proprie. Il legislatore considera fiscalmente neutro lo scambio, a condizione che:

- la conferitaria e il soggetto “acquisito” siano entrambi società o enti commerciali assoggettati ad Ires;

- oggetto dello scambio sia una partecipazione che permetta alla conferitaria di acquisire o integrare il controllo;

- l’operazione avvenga con continuità dei “valori fiscali” e cioè con attribuzione, alle azioni o quote ricevute, del valore fiscalmente riconosciuto.

Si ha scambio di partecipazioni anche quando la società che acquista una partecipazione di controllo di un’altra società, o incrementa la percentuale di controllo, aumenta appositamente il capitale sociale, attribuendo al conferente le nuove azioni. Operazioni sui soggetti. Le trasformazioni omogenee. Trasformazione, fusione e scissione sono tre forme di riorganizzazione societaria: nessuna di esse dà luogo, di per sé, alla tassazione delle plusvalenze latenti. Con la trasformazione, muta la forma sociale di una società, ma il soggetto rimane il medesimo. La trasformazione assume particolare rilievo fiscale quando consiste nella trasformazione di una società di capitali in società di persone, o viceversa.

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In tali casi, il periodo d’imposta in corso si divide in due: la trasformazione interrompe il periodo d’imposta in corso: da quel momento inizia un nuovo periodo. Si applicano, a ciascuno dei due periodi, le regole cui la società è soggetta in ragione della sua forma sociale. Se dunque una società di persone si trasforma in società di capitali, i redditi del periodo che precede la trasformazione sono tassati con le regole previste per le società di persone, imputando ai soci i redditi della società. Le riserve costituite prima della trasformazione conservano il loro originario status fiscale. Se una società di capitali, cui non si applica il regime di trasparenza, si trasforma in società di persone, le riserve conservano il loro status fiscale originario di utili tassabili come dividendi presso i soci solo a seguito di distribuzione. Le trasformazioni eterogenee. La trasformazione c.d. “eterogenea” può avvenire:

- o come trasformazione di una società di capitali in consorzio, società cooperativa, etc.; - o come trasformazione di tali soggetti in società di capitali.

Muta la forma giuridica, non l’identità del soggetto, per cui si ha piena continuità di rapporti giuridici. Assumono rilievo fiscale due distinte ipotesi:

- trasformazione da società di capitali a soggetto non commerciale; - trasformazione da soggetto non commerciale a società di capitali.

Nel primo caso, si verifica l’imponibilità dei maggiori valori dei beni del soggetto trasformato, in quanto la trasformazione determina la destinazione dei beni aziendali a finalità estranee all’esercizio di impresa. Nel caso di trasformazione da soggetto non commerciale a società di capitali, la trasformazione è fiscalmente equiparata ad un conferimento. La trasformazione equivale, fiscalmente, ad una cessione. Ecco perché le plusvalenze insite nel patrimonio dell’ente che, trasformandosi, si commercializza, sono tassate come le plusvalenze dei beni ceduti e, quindi, come redditi diversi. Come si quantifica la plusvalenza? Dato per noto il valore di partenza (costo fiscale) del patrimonio dell’ente che si trasforma, vi è da individuare il valore finale. Normalmente, la plusvalenza è la differenza tra corrispettivo percepito e valore fiscale del bene; qui però ci sono delle partecipazioni. Le partecipazioni devono essere valutate in base al valore corrente del patrimonio che si trasforma in bene d’impresa; e questo valore dev’essere confrontato con il costo storico del patrimonio. La trasformazione da o in società semplice. La trasformazione di una società di capitali in società semplice è analoga alla trasformazione di una società di capitali in ente non commerciale. I beni della società di capitali cessano di essere beni d’impresa, e ciò comporta la tassazione delle plusvalenze perché la trasformazione realizza una destinazione dei beni plusvalenti a finalità estranee all’impresa. Il caso inverso dev’essere trattato come trasformazione di soggetto non commerciale in soggetto commerciale. Si pone quindi il problema se applicare analogicamente la disposizione secondo cui la trasformazione equivale a conferimento. La fusione. La fusione può avvenire mediante la costituzione di una società nuova (fusione propria), o mediante l’incorporazione in una società di una o più altre (fusione per incorporazione). La società che risulta dalla fusione, o la società incorporante, subentra in tutte le situazioni giuridiche che facevano capo alle società fuse (sia sostanziali che formali). La fusione è evento fiscalmente neutro. Nel patrimonio della società fusa o incorporata, possono esservi beni il cui valore reale è diverso da quello contabile; possono esservi quindi plusvalenze o minusvalenze latenti.

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Le plusvalenze latenti divengono tassabili, e le minusvalenze divengono deducibili, se si realizzano determinati eventi (ad esempio, realizzo mediante cessione a titolo oneroso); la fusione non è evento rilevante a tali fini, perché non conferisce rilievo alle differenze tra valori reali e valori fiscalmente riconosciuti dei beni delle società che partecipano alla fusione. I beni ricevuti dalla incorporante assumono lo stesso valore fiscale che avevano presso l’incorporata. E i divergenti valori contabili e fiscali devono essere annotati in un prospetto di riconciliazione, da unire alla dichiarazione dei redditi. In caso di successiva cessione dei beni, si assumerà come valore di partenza, per il calcolo della plusvalenza, non il valore contabile del bene, ma il valore fiscalmente riconosciuto. Le partecipazioni dei soci delle società fuse o incorporate sono annullate e sostituite con partecipazioni della società risultante dalla fusione o incorporante. È tassabile solamente il conguaglio in denaro pagato ai soci in occasione del concambio. La fusione retroattiva. È ammesso che l’atto di fusione abbia effetti retroattivi ai fini fiscali, risalendo non oltre la data in cui si è chiuso l’ultimo esercizio della società incorporata. La retrodatazione degli effetti della fusione è utile per semplificare gli adempimenti contabili e fiscali connessi all’operazione. Il periodo d’imposta in corso non viene frazionato e i relativi effetti vengono imputati per intero, ai fini dell’imposizione sui redditi, all’incorporante. La retrodatazione implica soltanto che le conseguenze reddituali dei fatti di quel periodo sono imputati alla incorporante. Le retroattività dunque è relativa, perché attiene soltanto all’imputazione soggettiva dei fatti reddituali del periodo considerato. Il riporto delle perdite (e degli interessi passivi indeducibili). Tra le situazioni soggettive che vengono acquisite dalla società incorporante vi è il diritto di riportare a nuovo le perdite fiscali pregresse delle società coinvolte nella fusione. Il riporto delle perdite fiscali pregresse di una delle società fuse o incorporate da parte della nuova società non ha nulla di eccepibile quando ha realizzato una razionale riorganizzazione di più apparati produttivi. L’operazione appare invece strumentale ad un risultato di pura elusione fiscale quando una società viene incorporata in quanto portatrice di un beneficio fiscale. Sono tre i limiti al riporto delle perdite:

- le perdite riportabili relative a ciascuna società partecipante alla fusione non possono essere superiori ai rispettivi patrimoni netti;

- la società incorporata deve aver avuto, nell’ultimo esercizio, un ammontare di ricavi e proventi dell’attività caratteristica, e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, superiore al 40 per cento della media dei due esercizi precedenti;

- nelle fusioni con annullamento, quando la società incorporante abbia svalutato la partecipazione dell’incorporanda, la legge vieta all’incorporante il riporto delle perdite fino a concorrenza della svalutazione, nel presupposto che le perdite dell’incorporata abbiano già trovato riconoscimento con la svalutazione.

Avanzi e disavanzi da annullamento. La fusione è fiscalmente neutra con riguardo alle differenze di fusione, in un duplice senso:

- nella determinazione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporante non si tiene conto dell’avanzo o disavanzo iscritto in bilancio per effetto del rapporto di cambio delle azioni o quote o dell’annullamento delle azioni o quote di alcuna delle società fuse possedute da altre;

- il disavanzo può essere utilizzato per rivalutare civilisticamente, ma non fiscalmente, i beni della società fusa o incorporata.

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Quando la società incorporante possiede per intero le azioni della società da incorporare, la fusione comporta l’annullamento della partecipazione nella società incorporata; in luogo di essa, viene iscritto in bilancio il patrimonio netto della società incorporata. In simile ipotesi, si ha avanzo di fusione se il patrimonio netto contabile dell’incorporata è superiore al valore fiscalmente riconosciuto della partecipazione. In caso di avanzo, la differenza sarà iscritta come posta del patrimonio netto della incorporante. Tale differenza deve essere utilizzata per la ricostituzione delle riserve in sospensione d’imposta. Si ha, invece, disavanzo, quando il valore del patrimonio netto contabile della incorporata è inferiore al costo della partecipazione. Tanto l’avanzo quanto il disavanzo non concorrono a formare il reddito della incorporante. La fusione senza concambio non determina l’emersione di perdite deducibili o di componenti positive tassabili; avanzo e disavanzo da annullamento sono fiscalmente neutri. Potranno emergere componenti positivi o negativi di reddito quando avranno rilievo fiscale i valori reali dei beni della incorporata, acquisiti dalla incorporante. Avanzi e disavanzi da rapporti di cambio. Nel caso in cui l’incorporante non possieda l’intero capitale della società da incorporare, i soci della società incorporanda entrano a far parte della compagine sociale della incorporante, ottenendo, in luogo delle azioni possedute, azioni della società incorporante. Fusione con concambio di azioni può aversi, inoltre, in caso di fusione di più società in una terza società, di nuova costituzione. La società incorporante aumenta il proprio capitale sociale per assegnare le nuove azioni ai soci della società incorporata; e le differenze di fusione sono qui date dalle differenze tra misura dell’aumento del capitale dell’incorporante e valore del patrimonio netto contabile dell’incorporata. Se l’aumento di capitale dell’incorporante è inferiore al patrimonio netto dell’incorporata, si ha un avanzo: una quota del patrimonio netto dell’incorporata bilancia l’aumento di capitale, il resto costituirà una posta passiva dello stato patrimoniale della incorporante. Anche questo avanzo deve essere utilizzato per la ricostruzione delle riserve in sospensione d’imposta. Se l’aumento di capitale effettuato dalla incorporante supera il patrimonio netto contabile della incorporata, si ha un disavanzo. Esso indica che l’incorporante deve compensare i soci della incorporata con azioni il cui valore nominale complessivo supera il valore netto del patrimonio della incorporata; il disavanzo ha dunque origine dall’aumento di capitale della incorporante. Il disavanzo figura nello stato patrimoniale della incorporante come posta attiva che ha la funzione di contropartita di parte del capitale sociale. I maggiori valori iscritti in bilancio (ad esempio, l’avviamento), non sono fiscalmente rilevanti. La società incorporante o risultante dalla fusione può tuttavia affrancare tali valori o maggiori valori, determinandone così il riconoscimento ai fini fiscali, mediante applicazione dell’imposta sostitutiva prevista per i conferimenti d’azienda. La sorte delle riserve. Il subentro della incorporante nelle situazioni tributarie dell’incorporata riguarda anche le riserve in sospensione d’imposta: all’incorporante passa il debito fiscale potenziale ad esse collegato. In linea generale, le riserve in sospensione devono essere ricostruite; se la società subentrante non le ricostruisce nel suo bilancio, diventano tassabili. La ricostruzione delle riserve non è necessaria quando si tratta di riserve che diventano tassabili solo in caso di distribuzione ai soci; esse vanno ricostituite nei limiti in cui vi sia un avanzo o un aumento di capitale sociale superiore alla somma dei capitali delle società partecipanti alla fusione. L’incremento di capitale attuato dalla società risultante dalla fusione o dall’incorporante, come l’avanzo, assorbono il patrimonio netto delle società fuse o incorporate e, di conseguenza, ne conservano la natura fiscale.

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La scissione. Fenomeno inverso alla fusione è quello della scissione, che può avvenire in due modi:

- scissione totale: trasferimento dell’intero patrimonio di una società ad altre società beneficiarie, le quali assegnano proprie azioni ai soci della società scissa;

- scissione parziale: trasferimento di parte del patrimonio di una società, che permane, ad una o più società.

La differenza fondamentale, tra le due forme di scissione, è che nel primo caso la società scissa è destinata ad estinguersi e le sue posizioni passano direttamente in capo alla società beneficiaria. Per quel che riguarda le plusvalenze, il trasferimento del patrimonio della società scissa alle società beneficiarie avviene senza corrispettivo; non vi sono, pertanto, i presupposti per la tassabilità, a carico della società scissa, delle plusvalenze latenti nei beni trasferiti. Possono darsi, anche a seguito della scissione, avanzi e disavanzi sia da concambio che da annullamento. Anche per le differenze di scissione il principio è quello della neutralità: avanzi e disavanzi riflettono, qui, fenomeni analoghi a quelli visti in materia di fusione con concambio e senza concambio. Anche alle società beneficiarie è consentito optare per l’affrancamento dei valori o maggiori valori. La liquidazione ordinaria delle società. Quando una società viene messa in liquidazione, si rende necessario separare fiscalmente la gestione ordinaria dalla liquidazione. Per tale motivo, l’intervallo temporale che va dall’inizio del periodo d’imposta alla messa in liquidazione costituisce autonomo periodo d’imposta. Con riguardo alla liquidazione degli imprenditori individuali e delle società di persone, vanno distinte tre ipotesi:

- se la liquidazione non va oltre il periodo d’imposta in cui inizia, si avrà un bilancio finale di liquidazione, in base al quale sarà determinato il reddito;

- quando la liquidazione si protrae oltre e dura più di tre esercizi, il periodo della liquidazione costituisce periodo d’imposta unico;

- se la liquidazione dura più di tre esercizi successivi, i risultati dei singoli esercizi intermedi assumono carattere di definitività.

Per le società soggette ad Ires, se la liquidazione si protrae oltre l’esercizio in cui ha avuto inizio, il reddito relativo alla residua frazione di tale esercizio e ciascun successivo esercizio intermedio è determinato in via provvisoria in base al rispettivo bilancio, liquidando la relativa imposta. Se la liquidazione si protrae per più di cinque esercizi successivi, i redditi determinati in via provvisoria si considerano definitivi e ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche i redditi compresi nelle somme percepite o nei beni ricevuti dai soci concorrono a formarne il reddito complessivo per i periodi d’imposta di competenza. Il fallimento e la liquidazione coatta amministrativa. In tema di disciplina fiscale del fallimento, occorre distinguere tra:

- periodi d’imposta prefallimentari (interamente trascorsi); - segmento temporale prefallimentare, che va dall’inizio del periodo d’imposta in corso nel

momento della dichiarazione di fallimento alla data di dichiarazione del fallimento; - periodo d’imposta fallimentare, che va dall’inizio della proceduta alla chiusura.

La dichiarazione di fallimento interrompe il periodo d’imposta in corso, il cui reddito è determinato in base al bilancio redatto dal curatore o dal commissario liquidatore. Il curatore ha l’obbligo di presentare la dichiarazione relativa a tale segmento temporale, entro il decimo mese dalla nomina. Il reddito determinato e dichiarato dal curatore concorre a formare il reddito complessivo dell’imprenditore, dei familiari partecipanti all’impresa e dei soci relativo al periodo d’imposta in corso.

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Dall’inizio alla chiusura del fallimento si ha, fiscalmente, un unico periodo d’imposta, ed il relativo reddito è costituito dalla differenza tra il residuo attivo e il patrimonio netto dell’impresa o della società all’inizio del procedimento determinato in base ai valori fiscalmente riconosciuti. Il curatore, entro dieci mesi dalla chiusura del fallimento, deve presentare la dichiarazione finale, previo versamento dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche, che fosse in ipotesi dovuta. CAPITOLO OTTAVO. L’imposta sul valore aggiunto. Sezione prima (la struttura) Lineamenti generali. L’imposta sul valore aggiunto è stata ideata in sede europea ed è stata poi introdotta in tutti gli Stati membri della Comunità. In Italia è stata istituita nel 1972. L’Iva appartiene alla categoria delle imposte sui consumi, che possono assumere diverse forme:

- vi sono imposte “monofase” e “plurifase”: le prime sono applicate una sola volta, le seconde a più fasi del processo produttivo-distributivo;

- le imposte plurifase possono essere cumulative (o “a cascata”), se il tributo dovuto in ciascuna fase si somma agli altri; o sul valore aggiunto, se i diversi prelievi non si cumulano, ma colpiscono solo il valore che ciascuna fase aggiunge al bene.

L’imposizione sul valore aggiunto viene ritenuta preferibile a quella “a cascata”, perché l’imposta “a cascata” non è neutrale rispetto alla tassazione complessiva di una merce. Inoltre, favorisce le aziende integrate colpendo di più quelle specializzate. L’Iva, invece, grava sul consumatore in proporzione del prezzo finale del bene, ed è neutrale rispetto al numero di passaggi. Il Trattato istitutivo della Comunità europea vieta agli Stati:

- di applicare ai prodotti provenienti da altro Stato membro tributi superiori a quelli che gravano sui prodotti nazionali;

- di favorire le esportazioni accordando rimborsi dei tributi prelevati nello Stato in misura superiore all’ammontare effettivamente riscosso.

Entrambi questi princìpi postulano che sia possibile calcolare esattamente l’imposizione che grava su di una merce. Con l’imposta sul valore aggiunto si conosce esattamente il carico fiscale di un bene, per cui è possibile determinare in modo esatto l’ammontare dell’imposta sulle importazioni e la misura dei rimborsi all’esportazione. L’Iva ha sostituito, nel nostro sistema fiscale, l’imposta generale sull’entrata (Ige): quest’ultima era un’imposta plurifase cumulativa che colpiva (con aliquota del 4%) il valore pieno dei beni e dei servizi scambiati ad ogni fase del processo produttivo e distributivo. L’Iva è anch’essa un’imposta plurifase, ma non cumulativa. La Corte di giustizia ha osservato che le caratteristiche essenziali dell’Iva sono quattro:

- si applica in modo generale alle operazioni aventi ad oggetto beni o servizi; - è proporzionale al corrispettivo; - è riscossa in ciascuna fase; - gli importi pagati in occasione delle precedenti fasi sono detratti dall’imposta dovuta (il

peso è tutto a carico del consumatore finale). Le situazioni giuridiche soggettive. L’imposta sul valore aggiunto è un’imposta che, per il suo soggetto passivo, è neutrale. Tale soggetto, infatti, “recupera” l’imposta che assolve sugli acquisti, acquisendo un credito verso lo Stato; e “recupera” l’imposta dovuta sulle vendite grazie al diritto di rivalsa verso coloro che acquistano i suoi beni o servizi. Vi sono quattro situazioni giuridiche soggettive:

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- il soggetto passivo (ad esempio, l’imprenditore) che effettua operazioni imponibili diviene debitore verso lo Stato;

- lo stesso soggetto diviene, contemporaneamente, creditore verso i cessionari; - il soggetto passivo che effettua acquisti è debitore verso il suo fornitore; - ma, al tempo stesso, ha il diritto di recuperare l’Iva dovuta sui beni o servizi acquistati.

L’imposta non è neutrale per i cc.dd. consumatori finali. Il diritto di detrazione (o credito d’imposta) è una situazione giuridica soggettiva che caratterizza l’Iva. I soggetti passivi sono gravati da una serie di obblighi formali e sostanziali, ma possono detrarre l’imposta pagata a monte. I non assoggettati, invece, non hanno diritto alla detrazione. Una ulteriore peculiarità concerne la frode fiscale; nell’Iva può aversi un tipo di frode che non si ha nelle altre imposte: si tratta dell’esercizio indebito del diritto di detrazione, connesso alla simulazione di acquisti non effettuati (fenomeno delle c.d. cartiere, che vendono false fatture). Natura e giustificazione costituzionale. L’Iva è un’imposta sul consumo. È il consumo il fatto espressivo di capacità contributiva, che giustifica l’imposta sul piano costituzionale. Vi è un divario assai netto tra aspetto giuridico-formale del tributo e aspetto economico-sostanziale. Dal primo punto di vista, il tributo ha come presupposti determinate operazioni poste in essere da determinati soggetti. Poiché il tributo colpisce alla fine solo i consumatori finali, è il consumo un fatto espressivo di capacità contributiva. Il diritto di detrazione, insieme col diritto di rivalsa, rende neutrale l’imposta per gli operatori economici. Soggetti passivi vs. consumatori finali. La condizione di “soggetto passivo” è quella degli imprenditori e dei lavoratori autonomi, i quali sono debitori verso lo Stato dell’imposta dovuta, ma sono altresì titolari del diritto di detrazione connesso all’Iva dovuta sugli acquisti. Ben diversa è invece la condizione del c.d. consumatore finale, ossia di chi acquista un bene o un servizio, ma non ha il diritto di “recuperare” l’imposta pagata. Imprenditori e lavoratori autonomi. Sono soggetti passivi Iva gli imprenditori e gli esercenti arti o professioni. Sono soggette ad imposta tutte le attività svolte da soggetti che hanno forma giuridica di società commerciale, o da enti che abbiano per oggetto principale od esclusivo l’esercizio di attività commerciali od agricole. Invece, per gli enti non commerciali, si considerano effettuate nell’esercizio d’impresa soltanto le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte nell’esercizio di imprese commerciali o agricole. Gli enti pubblici sono soggetti passivi d’imposta quando pongono in essere attività economiche di tipo commerciale. Ponendo a confronto la definizione di imprenditore ai fini Iva e quella di imprenditore ai fini delle imposte sui redditi, si notano delle differenze:

- nei due settori, è imprenditore chiunque svolga un’attività commerciale, ma ai fini Irpef le prestazioni di servizi a terzi che non rientrano nell’art. 2195 c.c. sono ugualmente attività d’impresa se vi è l’organizzazione in forma d’impresa;

- solo nella definizione Iva sono compresi gli imprenditori agricoli (mentre la definizione di imprenditore ai fini reddituali coincide con quella di imprenditore commerciale).

Anche la definizione di esercizio di arte o professione è simile a quella data ai fini delle imposte dirette.

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Il campo di applicazione e le operazioni escluse. Perché una operazione economica sia rilevante ai fini dell’Iva, è necessario, da un lato, che sia posta in essere da un imprenditore o da un lavoratore autonomo, e, dall’altro, che rientri nel campo di applicazione del tributo. Le operazioni escluse sono quelle che non hanno alcun rilievo ai fini dell’applicazione dell’imposta (non comportano obblighi formali e non rilevano ai fini del calcolo del volume d’affari). Le operazioni che rientrano nel campo di applicazione dell’Iva, a loro volta, si distinguono in:

- operazioni imponibili; - operazioni non imponibili; - operazioni esenti.

Le operazioni imponibili comportano il sorgere del debito d’imposta. Le operazioni non imponibili e quelle esenti non fanno sorgere il debito d’imposta, ma comportano gli stessi adempimenti formali. L’elemento caratteristico delle operazioni esenti risiede nel fatto che esse limitano il diritto di detrazione. Le operazioni imponibili. Le cessioni di beni. Nella categoria delle operazioni imponibili sono comprese quattro specie di operazioni:

- cessioni di beni; - prestazioni di servizi; - acquisti intracomunitari; - importazioni.

Costituiscono cessioni di beni gli atti a titolo oneroso che importano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento su beni di ogni genere. Le cessioni a titolo gratuito non sono sempre escluse da imposta, perché sono imponibili le cessioni gratuite di beni-merce. Cessioni assimilate e cessioni escluse; conferimenti e cessioni di aziende. Vi sono operazioni che non presentano uno dei requisiti delle cessioni, ma sono assimilate. Costituiscono operazioni assimilate alle cessioni di beni:

- le vendite con riserva di proprietà (prezzo rateizzato e trasferimento con l’ultima rata); - le locazioni con clausola di trasferimento della proprietà; - i passaggi dal committente al commissionario (e viceversa) di beni venduti o acquistati in

esecuzione di contratti di commissione; - le cessioni gratuite di beni la cui produzione rientra nell’attività propria dell’impresa; - la destinazione di beni al consumo personale o familiare dell’imprenditore; - l’assegnazione delle società ai soci.

Vi sono operazioni che, pur presentando tutti i requisiti delle cessioni, non sono considerate tali, e quindi sono escluse dal campo di applicazione dell’Iva. Sono esclusi anche i conferimenti di azienda, i passaggi di beni dipendenti, le cessioni di terreni non edificabili e le cessioni gratuite di campioni di modico valore. Le prestazioni di servizi. Le prestazioni assimilate a quelle escluse. Le prestazioni di servizio sono, in generale, le prestazioni che comportano l’obbligo di fare, non fare o permettere, dietro corrispettivo. Anche per le prestazioni di servizi è richiesta l’onerosità. Quando sia di valore superiore a 25,85 euro, è soggetto ad imposta anche il c.d. autoconsumo di servizi, o l’effettuazione gratuita di servizi per finalità estranee all’esercizio dell’impresa. Le ipotesi più significative di fattispecie assimilate alle imponibili sono:

- le concessioni di beni in locazione; - le cessioni di diritti su beni immateriali;

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- le somministrazioni di bevande e alimenti; - le cessioni di contratto.

Le operazioni esenti. Le operazioni esenti non comportano il sorgere del debito d’imposta ma sono operazioni rientranti nel campo di applicazione dell’Iva e non consentono la detrazione dell’Iva a monte. Sono esenti:

- talune operazioni di carattere finanziario; - la riscossione dei tributi; - i giochi e le scommesse; - le operazioni immobiliari; - talune operazioni socialmente rilevanti, le prestazioni sanitarie, educative e culturali; - etc.

alcune operazioni sono esenti per ragioni sociali, altre per ragioni di tecnica tributaria (soggette ad altri tributi). Mancando la detraibilità, viene meno la neutralità del tributo, che assume per il soggetto passivo che effettua operazioni esenti natura economica di costo. L’esenzione può essere sconveniente, se il costo dell’Iva sugli acquisti non viene trasferito sui prezzi delle vendite. Cessioni e locazioni di immobili. La cessione di immobili è di regola esente da Iva, con alcune eccezioni. Le cessioni di fabbricati ad uso abitativo sono di regola esenti; una eccezione a questa regola è rappresentata dalle cessioni di fabbricati ultimati o ristrutturati da non più di quattro anni, ceduti dalle imprese di costruzione o di ristrutturazione. Anche per le cessioni di fabbricati strumentali per natura, la regola generale è quella dell’esenzione. Vi sono però ipotesi di imponibilità:

- le cessioni effettuate entro quattro anni dalle imprese costruttrici che vi abbiano eseguito interventi di recupero edilizio;

- le cessioni effettuate nei confronti di cessionari che non agiscano nell’esercizio d’impresa, arti o professioni (i c.d. consumatori finali);

- le cessioni per le quali nel relativo atto il cedente abbia espressamente manifestato l’opzione per l’imposizione.

Sezione seconda (regole impositive) Il momento impositivo. Vi sono nell’Iva regole che stabiliscono il momento in cui un’operazione si considera effettuata (momento impositivo). In caso di mutamento di aliquote, si applica l’aliquota vigente nel giorno in cui l’operazione si considera effettuata. Per esigibilità dell’imposta il diritto comunitario intende il diritto che l’Erario può far valere a norma di legge, a partire da un determinato momento, presso il debitore, per il pagamento dell’imposta, anche se il pagamento può essere differito. Nel diritto interno, l’esigibilità è legata al momento in cui una operazione si considera effettuata; coincide, quindi, con il momento impositivo. Per le cessioni di beni, la regola fondamentale è che esse si considerano effettuate nel momento della stipulazione, se riguardano beni immobili; e nel momento della consegna o spedizione, se riguardano beni mobili. Se gli effetti sono differiti, conta il momento in cui si producono gli effetti. Le prestazioni di servizi si considerano effettuate quando è pagato il corrispettivo. Sia per le cessioni di beni che per la prestazione di servizi, quando la fattura è emessa l’operazione si ha per effettuata. Lo stesso vale per il pagamento del corrispettivo.

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Secondo le norme del reddito di impresa, un ricavo è da computare in base al principio di competenza. È quindi nell’ordine naturale delle cose che vi possa essere divario fra volume d’affari Iva e ammontare dei ricavi imponibili ai fini del reddito. La base imponibile. La base imponibile è costituita, di regola, dall’ammontare complessivo dei corrispettivi contrattuali. Solo nel caso in cui non vi è un corrispettivo, o il corrispettivo è in natura, si applica il criterio del valore normale. Sono compresi nell’imponibile anche gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione. Non concorrono:

- gli interessi moratori; - l’importo degli imballaggi da restituire; - etc.

presunzioni di acquisto e di vendita. Si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni. La presunzione non opera se è dimostrato che i beni:

- sono stati impiegati per la produzione, perduti o distrutti; - sono stati consegnati a terzi (in lavorazione o riparazione).

I beni che si trovano in uno dei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni si presumono acquistati se il contribuente non dimostra di averli ricevuti in base ad un titolo non traslativo della proprietà. Le aliquote. Vi è un’aliquota normale (20 per cento); un’aliquota per generi di largo consumo (10 per cento); un’aliquota ridottissima per i generi di prima necessità (4 per cento). L’imposta dovuta dal soggetto passivo all’Erario si quantifica applicando, alle operazioni effettuate, le relative aliquote. Il diritto di rivalsa. Il soggetto passivo che effettua una cessione di beni o una prestazione di servizi imponibile e che perciò è debitore verso l’Erario, ha il diritto di rivalersi nei confronti del cessionario o del committente. Esercitare il diritto di rivalsa è obbligatorio. La rivalsa è quindi, innanzitutto, un diritto di credito: un credito del soggetto passivo dell’Iva, nei confronti della controparte contrattuale, che si aggiunge, per effetto di legge, al corrispettivo pattuito. Il soggetto passivo Iva, quando effettua una operazione imponibile, deve emettere fattura addebitando la relativa imposta, a titolo di rivalsa, a cessionario o committente. Il soggetto passivo Iva ha l’obbligo di far sorgere il diritto di rivalsa; ha l’obbligo, in altri termini, di costituirsi creditore. Nel commercio al minuto non è obbligatoria l’emissione della fattura: il prezzo si intende comprensivo dell’imposta. Vi è un interesse fiscale a che sorga il credito di rivalsa; perciò la mancata emissione della fattura e il mancato addebito dell’Iva in fattura sono sanzionati. Un risvolto della previsione legislativa dell’obbligo di rivalsa è la nullità di patti che la escludano. La rivalsa può essere esercitata anche in ritardo, vale a dire dopo che è decorso il termine per la emissione della fattura. Ciò che impedisce la rivalsa è l’emissione di un avviso di accertamento. Il diritto di detrazione. Esigibilità e inerenza. Il diritto di detrazione è un diritto dei soggetti passivi, che deriva dall’imposta da essi assolta o dovuta o ad essi addebitata a titolo di rivalsa.

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Nel caso di importazioni, è detraibile l’Iva risultante dalla bolletta doganale; nel caso di acquisto interno, il soggetto passivo Iva può detrarre l’imposta che gli è stata addebitata nella fattura. Il diritto di detrazione sorge nel momento in cui l’imposta “a monte” diviene esigibile ed è soggetto a decadenza. Può essere esercitato, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto alla detrazione è sorto. L’importo della detrazione spettante risulta quindi dalla somma dell’Iva annotata nel registro degli acquisti. La detrazione dell’Iva sugli acquisiti richiede che l’acquisto sia inerente all’attività del soggetto passivo. Se l’acquisto si correla ad altre attività, il diritto alla detrazione è escluso o limitato. Indetraibilità specifica. Non è detraibile l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni e servizi ce afferiscono ad operazioni esenti o comunque non soggette all’imposta. In caso di acquisti ad uso promiscuo, ossia direttamente riferibili sia ad operazioni attive soggette ad imposta, sia ad operazioni non soggette, è detraibile la quota di imposta riferibile all’impiego imponibile, non è detraibile la quota riferibile ad un utilizzo non soggetto ad imposta. Il pro-rata . Quando non vi sono legami diretti tra acquisti e specifiche operazioni attive che non sono soggette ad imposta, ed il soggetto passivo Iva esercita sia attività che danno diritto, sia attività che non danno diritto alla detrazione, il calcolo della quota di Iva detraibile è fatto con criterio forfetario (il pro-rata). Il diritto alla detrazione dell’imposta spetta in misura proporzionale alle operazioni che danno diritto alla detrazione. È quindi pari al risultato della frazione avente al numeratore l’ammontare delle operazioni con diritto a detrazione, e al denominatore la somma di tutte le operazioni attive effettuate nello stesso periodo. Vi sono operazioni attive che non devono essere considerate nel calcolo della percentuale di detrazione, tra cui le cessioni di beni ammortizzabili e le operazioni esenti. Limitano il diritto di detrazione non tutte le esenzioni, ma solo quelle relative all’attività propria dell’impresa (cioè effettivamente svolta dalla società). La rettifica della detrazione. La detrazione può essere fatta al momento dell’acquisto, senza bisogno di attendere l’effettivo utilizzo; ma, se il bene o servizio è impiegato in modo difforme, la detrazione operata deve essere rettificata, in aumento o in diminuzione, alla stregua del concreto utilizzo che ne viene fatto. Per i beni ammortizzabili la detrazione può venire meno, o essere modificata, se negli anni successivi aumenta la percentuale delle operazioni esenti. Il legislatore prevede che, di regola, è detraibile l’intero ammontare dell’Iva dovuta sull’acquisto di beni ammortizzabili, ma tale ammontare viene rettificato nei quattro anni successivi a quello di acquisto se si verifica una variazione della percentuale di detrazione superiore a dieci punti. Indetraibilità oggettiva. Vi sono beni e servizi per i quali risulta difficile stabilire la loro inerenza nell’attività esercitata; perciò il legislatore esclude la detraibilità dell’Iva relativa ad essi, in quanto presume in modo assoluto la non inerenza. Non è detraibile l’imposta concernente aerei, auto, moto e imbarcazioni, né è detraibile l’imposta relativa all’acquisto di carburanti e lubrificanti. Non è inoltre detraibile l’Iva relativa a spese di rappresentanza. Infine, non è detraibile l’Iva relativa all’acquisto o alla locazione di fabbricati ad uso abitativo. L’Iva relativa ai telefoni cellulari è deducibile per metà.

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Indetraibilità soggettiva. Gli enti non commerciali possono detrarre soltanto l’Iva relativa agli acquisti fatti nell’esercizio di attività agricole o commerciali; occorre però che gestiscano tali attività con contabilità separata. Il legislatore esclude che siano commerciali le attività consistenti nel possesso di immobili, aerei, imbarcazioni, auto. Indetraibilità dell’Iva non dovuta. Bisogna distinguere i due gruppi di ipotesi: il caso in cui la fattura è relativa ad operazione inesistente ed i casi, meno gravi, in cui viene emessa fattura per una operazione non soggetta ad imposta, o con imposta superiore a quella prevista. Nei casi in cui la fattura è stata emessa per una operazione inesistente, non vi è simmetria tra chi emette fattura e il destinatario della fattura. Negli altri casi, invece, si è discusso se al destinatario della fattura, in cui è esposta una rivalsa non dovuta, spetti il diritto di detrarre l’imposta di rivalsa versata a chi ha emesso la fattura. Poiché chi emette la fattura è debitore verso l’Erario anche per l’imposta esposta erroneamente, simmetricamente dovrebbe essere riconosciuto a chi riceve la fattura il diritto di detrarre l’Iva pagata in via di rivalsa. La stessa soluzione dovrebbe valere nel caso in cui la fattura addebita un’imposta superiore a quella dovuta. La giurisprudenza, però, sembra orientata nel senso che chi ha emesso la fattura ha diritto di rimborso nei confronti dell’Erario; chi ha ricevuto una fattura che gli addebita un’imposta non dovuta, non può detrarre l’imposta indebita e non può chiederne il rimborso all’Erario; può agire solo nei confronti di chi ha emesso la fattura. Sezione terza (gli adempimenti) Identificazione. I soggetti che intraprendono l’esercizio di un’impresa, arte o professione devono farne dichiarazione al Fisco, il quale attribuisce al neo-contribuente un numero di partita Iva. La dichiarazione di inizio dell’attività deve contenere una serie di elementi, la cui variazione deve essere denunciata all’Agenzia delle entrate. Inoltre, deve essere dichiarata anche la cessazione dell’attività. La fattura ed i registri. I soggetti passivi sono innanzitutto tenuti ad emettere fattura per le operazione imponibili, non imponibili ed esenti. La fattura non è obbligatoria per il commercio al minuto. La fattura deve essere datata e numerata in modo progressivo per anno solare ed indicare:

- ditta, denominazione, residenza o domicilio dei soggetti fra cui avviene l’operazione e, relativamente al cedente o prestatore, numero di partita Iva. Se non si tratta di imprese, società o enti devono essere indicati il nome e il cognome;

- natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell’operazione; - corrispettivi; - aliquote, ammontare dell’imposta e dell’imponibile; - numero di partita Iva del cessionario del bene o del committente del servizio.

La fattura può essere emessa sia in forma cartacea, sia in forma elettronica. Nei rapporti tra cedente e cessionario, l’emissione della fattura è necessaria sia ai fini della rivalsa, sia ai fini della detrazione. Ogni soggetto passivo deve tenere, ai fini Iva, due registri: uno per le operazioni attive, uno per gli acquisti. Le fatture attive devono essere annotate nei registri delle vendite entro quindici giorni dalla loro emissione.

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Dal libro delle operazioni attive risulta l’Iva a debito, da quello delle operazioni passive l’Iva a credito: ogni mese (od ogni trimestre) deve essere liquidata la differenza algebrica tra Iva a debito e Iva a credito. L’autofattura. Vi sono dei casi in cui è debitore dell’imposta il cessionario e il committente, che deve perciò provvedere alla fatturazione. L’autofattura è prevista innanzitutto quando il soggetto che cede un bene o presta un servizio omette di fatturare la sua prestazione. Il cessionario o il committente:

- se non riceve la fattura entro quattro mesi dall’effettuazione dell’operazione deve presentare all’Ufficio un documento sostitutivo della fattura non ricevuta e versare la relativa imposta;

- se riceve una fattura irregolare, deve presentare all’Ufficio un documento che regolarizza quella ricevuta, e versare l’imposta eventualmente dovuta.

In secondo luogo, l’autofattura deve essere formata quando un’operazione è effettuata nel territorio dello Stato da un non residente. L’acquirente italiano, se è un soggetto passivo Iva, dovrà registrare l’autofattura sia tra le vendite, sia tra gli acquisti. Infine, il cessionario deve ricorrere all’autofattura quando il cedente è un agricoltore con volume d’affari insignificante. Le note di variazione. Dopo che una fattura è stata emessa e registrata può risultare che debba essere apportata una rettifica. Quando aumenta l’imponibile o l’imposta, il cedente o prestatore deve emettere una nota di variazione in aumento. In caso di eliminazione del contratto o riduzione del corrispettivo resta ferma la fattura già emessa, e può essere emessa una nota di variazione di contenuto uguale e contrario a quello della fattura. La nota di variazione può essere emessa anche come rimedio all’inadempienza del debitore, assoggettato ad una procedura concorsuale. Questa disposizione è utile, ad esempio, all’operatore economico che abbia effettuato una prestazione imponibile a favore di un imprenditore sottoposto a fallimento. Se il credito viene insinuato nel fallimento, e resta insoddisfatto, il creditore può rettificare la fattura con una nota di variazione che riduce l’Iva. Volume d’affari, contribuenti minori e regimi speciali. Il volume d’affari è dato dall’ammontare complessivo delle operazioni effettuate nel corso di un anno solare, conteggiando tutte le operazioni che devono essere registrate (imponibili, non imponibili ed esenti). Ora, quando il volume d’affari supera 309.874,14 euro per imprese di servizi e professionisti, e 516.456,90 euro per le altre imprese, si applica un regime semplificato che permette ai contribuenti:

- di adempiere gli obblighi di fatturazione e registrazione mediante tenuta di un bollettario; - di effettuare liquidazioni e versamenti trimestrali.

Dichiarazione annuale e opzioni. Anche nell’Iva vi è l’obbligo di presentare una dichiarazione annuale: tale obbligo deve essere sempre adempiuto da parte di tutti i soggetti passivi del tributo. Nella dichiarazione devono essere riportati l’ammontare delle operazioni attive e delle operazioni passive; l’ammontare dell’imposta dovuta e delle detrazioni; i versamenti effettuati nel periodo d’imposta; l’imposta dovuta a conguaglio o la differenza a credito. Anche la dichiarazione annuale Iva può contenere delle opzioni:

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- in sede di dichiarazione, se il contribuente vanta un credito può scegliere se riportarlo a nuovo o chiederne il rimborso;

- in sede di dichiarazione, il contribuente può, in certi casi, decidere se applicare il regime normale oppure optare per un regime speciale.

L’opzione e la revoca di regimi di determinazione dell’imposta o di regimi contabili si desumono da comportamenti concludenti. I versamenti. Dobbiamo distinguere tra versamenti periodici (infrannuali) e versamento annuale (a conguaglio). I versamenti periodici sono quelli da effettuarsi nel corso dell’anno (mensilmente o trimestralmente). Alla fine dell’anno, poi, deve essere fatto un versamento a titolo d’acconto, in misura pari ad una percentuale della somma da versare per il mese di dicembre dell’anno precedente. Il versamento di conguaglio deve essere effettuato entro il termine per la presentazione della dichiarazione. Eccedenze, detrazione e rimborso. Vi è eccedenza quando la somma dell’Iva detraibile e dei versamenti effettuati in corso d’anno supera il debito d’imposta. L’eccedenza è un credito che può essere compensato con debiti d’imposta, riportato a nuovo o rimborsato. La compensazione è la regola, mentre il rimborso può essere accordato solo in casi particolari (soggetti che effettuano operazioni non imponibili per almeno il 25 per cento del totale, chi cessa l’attività, …). Il rimborso può essere chiesto da qualsiasi soggetto passivo, quando la dichiarazione sia risultata a credito per due anni di seguito. Il contribuente deve garantire la restituzione, ove il rimborso si rivelasse indebito. Sezione quarta (profili transnazionali) Il principio di territorialità. Ai fini di tale principio, rilevano due ambiti territoriali: quello statale e quello nazionale. Perciò occorre distinguere tra: operazioni nazionali, intracomunitarie ed extracomunitarie. Dal punto di vista spaziale, il campo di applicazione dell’Iva è il territorio dello Stato: cessioni di beni e prestazioni di servizi rilevano in quanto sono effettuate nel territorio dello Stato. Inoltre, le nozioni di importazione ed esportazione presuppongono la nozione di territorio. Per le cessioni di beni vale il luogo in cui si trovano i beni ceduti. Per le prestazioni di servizi vale, invece, il criterio del domicilio o residenza nel territorio dello Stato che presta il servizio. Le importazioni. In materia di scambi con l’estero, le imposte sul valore aggiunto possono rispondere al principio della tassazione nel paese di destinazione o a quello della tassazione nel paese d’origine. L’Ue ha adottato il primo principio (tassazione delle importazioni e detassazione delle esportazioni). Per importazione, dopo l’abbattimento delle barriere doganali, si intende da un paese extracomunitario. I beni importati sono tassati come quelli prodotti nello Stato, mentre quelli esportati non sono soggetti ad imposta. L’Iva all’importazione ha come base imponibile il valore della merce determinato secondo le disposizioni doganali. L’Iva all’importazione è accertata, liquidata e riscossa secondo le norme della legislazione doganale.

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Le operazioni non imponibili. Le esportazioni sono operazioni non imponibili. Nello specifico abbiamo:

- cessioni all’esportazione; - operazioni assimilate alle cessioni all’esportazione; - servizi internazionali.

Le operazioni triangolari. L’ultimo passaggio interno di un bene può essere detassato nelle c.d. esportazioni triangolari. Tale tipo di esportazione richiede l’intervento di tre soggetti (cedente, cessionario residente e acquirente estero) e si realizza con due passaggi “non imponibili”: il primo dal cedente al cessionario (esportatore) e il secondo da quest’ultimo all’operatore straniero. Il cedente emette la fattura nei confronti del cessionario, ma invia direttamente i beni all’estero; il cessionario, a sua volta, emette la fattura nei confronti dell’acquirente estero. Acquisti senza pagamento d’imposta da parte degli esportatori. Il regime di non imponibilità può riguardare anche l’ultimo passaggio interno se il cessionario è un’impresa che, nell’anno precedente, ha già effettuato esportazioni. Le imprese che vendono all’estero larga parte della loro produzione sono permanentemente in credito verso il Fisco. Per attenuare questo fenomeno viene attribuito agli esportatori abituali (coloro che hanno venduto all’estero, in un dato periodo d’imposta, il 10 per cento dei beni commerciati) il diritto di acquistare la stessa quantità di beni senza il pagamento dell’Iva. L’esportatore deve previamente manifestare per iscritto al suo fornitore l’intento di avvalersi della facoltà di effettuare acquisti senza applicazione dell’imposta mediante un atto formale. L’esportatore può avvalersi di tale facoltà nei limiti del plafond. Le operazioni intracomunitarie. Il regime delle operazioni intracomunitarie è fondato sul principio di tassazione nel paese di destinazione, per cui le vendite tra operatori economici all’interno della Comunità sono tassate a carico del compratore. Altro è invece il regime vigente quando uno dei soggetti è un consumatore finale. Nel caso di acquisti intracomunitari non vi sono operazioni di sdoganamento; il soggetto Iva di un Paese comunitario che cede il bene ad un soggetto Iva di altro Paese comunitario deve emettere una fattura su cui l’operazione deve essere indicata come non imponibile. L’acquirente deve emettere autofattura e registrare l’operazione sia nel registro delle fatture emesse, sia nel registro degli acquisti. Nel caso in cui l’acquirente sia un consumatore finale, l’operazione è imponibile a carico del venditore. Gli acquisti intracomunitari fatti da enti non commerciali non sono, in linea di principio, acquisti intracomunitari in senso tecnico, ma lo diventano al di sopra di una data soglia. Le operazioni dei non residenti. La stabile organizzazione. Gli obblighi connessi alle operazioni effettuate in Italia da soggetti Iva non residenti possono essere adempiuti mediante identificazione diretta (attribuzione di partita Iva), mediante un rappresentante fiscale (che adempie gli obblighi ed esercita i diritti derivanti dall’applicazione dell’imposta) o mediante una stabile organizzazione. Anche se in Italia vi è una stabile organizzazione, il non residente può operare con la identificazione diretta o con il rappresentante fiscale, per le operazioni direttamente imputabili alla casa madre. Se vi è una stabile organizzazione, le operazioni compiute dalla stessa sono imputabili ad essa, rispondendo in proprio. Tali operazioni devono essere effettuate dalla stabile organizzazione mediante rappresentante fiscale o identificazione diretta.

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Per esservi stabile organizzazione si richiede l’esistenza di una struttura dotata di risorse materiali ed umane deputata alla gestione di una effettiva attività d’impresa. La Direttiva in tema di commercio elettronico. Per l’acquisto per via elettronica di beni poi consegnati nelle forme tradizionali si applica la disciplina delle cc.dd. vendite a distanza. Viene però posta una deroga per la fornitura di prodotti in forma digitale, per i quali il luogo di tassazione è sempre quello in cui risiede il cliente, ossia il luogo di utilizzazione. Le prestazioni di servizi rese da soggetti passivi Iva a favore di consumatori finali comunitari si considerano effettuate nello Stato membro in cui il fornitore è registrato ai fini Iva. Invece, se la prestazione è effettuata da un operatore extra-Ue nei confronti di un soggetto passivo residente nell’Ue, è quest’ultimo a dover applicare l’imposta. CAPITOLO NONO. L’imposta di registro. Natura dell’imposta di registro. L’imposta di registro rientra nell’ampia categoria delle imposte sugli affari (come l’Iva e l’imposta di bollo). L’imposta è solitamente definita come imposta sui trasferimenti; in realtà il suo campo di applicazione va al di là, in quanto sono soggetti a imposta di registro anche gli atti non traslativi, purché abbiano contenuto economico. Esso fa parte dei tributi collegati alla conservazione e la pubblicità degli atti. La disciplina dell’imposta di registro è contenuta nel Testo unico approvato nel 1986. Il presupposto del tributo. L’imposta di registro è legata alla prestazione di un servizio amministrativo ed ha natura di tassa quando è dovuta in misura fissa e non ha altra giustificazione che la prestazione del servizio Vi sono poi casi in cui il tributo è rapportato, in ragione proporzionale, al valore dell’atto: ed in tal caso il tributo assume natura di imposta. La registrazione. La registrazione avviene a seguito di richiesta di registrazione o d’ufficio. Vanno distinti:

- atti soggetti a registrazione in termine fisso; - atti soggetti a registrazione in caso d’uso; - atti non soggetti a registrazione.

Per gli atti soggetti a registrazione in termine fisso, la legge pone a carico di determinati soggetti (contraenti, notai, …) l’obbligo di richiederne la registrazione entro un dato termine, presentando l’atto all’Ufficio dell’Agenzia delle entrate, che liquida l’imposta e ne chiede il pagamento. Per gli atti da registrare in caso d’uso, l’atto può essere usato solo se è stata previamente effettuata la registrazione. Infine, è previsto che per qualsiasi atto scritto può chiederne la registrazione chiunque vi abbia interesse. La richiesta di registrazione è fatta su appositi stampati forniti dall’Ufficio. La registrazione degli atti relativi a diritti sugli immobili deve essere richiesta in via telematica. Le richieste devono essere precedute dal pagamento dei tributi, auto liquidati dal richiedente. Gli uffici controllano la regolarità dell’autoliquidazione e del versamento delle imposte. Di regola, la registrazione avviene a seguito di richiesta di parte, ma, se non è stato osservato l’obbligo di richiederla, la registrazione è fatta d’ufficio. Per gli atti dei notai e dei pubblici ufficiali, la registrazione d’ufficio è possibile sol che si rinvengano, nei registri o nei repertori, gli estremi di atti non registrati.

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Per le scritture private la registrazione d’ufficio è prevista solo quando le scritture siano depositate presso pubblici uffici, quando l’Amministrazione finanziaria ne sia venuta legittimamente in possesso e in presenza di contratti verbali sulla base di prove presuntive. Gli atti da registrare in termine fisso. Sono detti atti da registrare in termine fisso gli atti per i quali vi è obbligo di richiedere la registrazione entro venti giorni dalla redazione. Vanno distinti quattro gruppi:

- atti scritti indicati nella tariffa; - contratti verbali; - operazioni societarie; - atti formati all’estero.

In linea generale, può dirsi che sono da registrarsi in termine fisso tutti gli atti aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale, con la duplice eccezione degli atti per i quali vale la regola del caso d’uso e degli atti per i quali non vi è obbligo di registrazione. I contratti verbali soggetti a registrazione sono quelli di locazione o affitto di beni immobili e di trasferimento o affitto di aziende. Inoltre, devono essere registrati gli atti formati all’estero, che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di beni immobili, la locazione o l’affitto di beni immobili, etc. Gli atti da registrare in caso d’uso. Per uso di un atto si intende l’uso dell’atto a fini amministrativi, ossia la sua produzione in un procedimento amministrativo. L’atto, prima di essere depositato presso una pubblica amministrazione, deve essere registrato. In pratica, non si verifica di frequente che un atto debba essere registrato in vista del suo uso amministrativo: è però importante avere presenti le ipotesi in cui ciò si verifica, perché ciò significa che non vi è l’obbligo di registrazione in termine fisso. I casi riguardano i contratti formati mediante corrispondenza e le scritture private non autenticate relative ad operazioni Iva. Modalità ed effetti della registrazione. La registrazione consiste nell’annotazione in apposito registro dell’atto o della denuncia e, in mancanza, della richiesta di registrazione. Per atti pubblici, scritture private autenticate e atti giudiziari, la registrazione va richiesta all’Ufficio dell’Agenzia delle entrate; negli altri casi la registrazione può essere richiesta a qualunque Ufficio. la registrazione attesta l’esistenza degli atti e attribuisce ad essi data certa. Vi è nella legge del registro un generale divieto di rilascio di atti non registrati da parte di pubblici ufficiali. Il pagamento dell’imposta di registro, quindi, condiziona l’utilizzo degli atti giuridici. I soggetti passivi. Dobbiamo distinguere tra soggetti obbligati a richiedere la registrazione e soggetti obbligati al pagamento del tributo. Per i contratti verbali e per gli atti formati all’estero, le parti dell’atto devono chiedere la registrazione e pagare l’imposta. Un secondo gruppo di soggetti è costituito dai responsabili d’imposta, che sono obbligati insieme con le parti degli atti. Per gli atti pubblici e per le scritture private autenticate, l’obbligo di richiedere la registrazione è a carico dei notai (per la sola imposta principale). Vi sono infine dei soggetti che sono obbligati a chiedere la registrazione ma non a pagare l’imposta:

- cancellieri e segretari di organi giurisdizionali; - gli impiegati dell’Amministrazione finanziaria e gli appartenenti alla Guardia di Finanza per

gli atti per i quali è prevista la registrazione d’Ufficio. In entrambi i casi l’imposta è dovuta dalle parti del giudizio.

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L’interpretazione degli atti. L’imposta di registro è qualificata come imposta d’atto. Norma basilare, in materia, è quella secondo cui l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione. Il legislatore ha espressamente codificato per cui l’imposta di registro è imposta d’atto, che si applica, cioè, esclusivamente in base a ciò che risulta dall’atto inteso come documento. L’imposizione si dimensiona sul dato giuridico e si conforma alla tipologia degli effetti giuridici degli atti, ma il dato formale va assunto come manifestazione di una sottostante vicenda, che dà giustificazione costituzionale al tributo. L’esclusivo rilievo dell’atto significa anche che, in sede di interpretazione, non valgono i criteri interpretativi extratestuali, come stabilito dal codice civile. Atti unitari a contenuto plurimo. Se un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente, per loro natura, le une dalle altre, ciascuna è soggetta ad imposta come se fosse un atto distinto. Quando l’atto enuncia atti non registrati, si tassa anche quello enunciato (ad esempio, fallimento di una società di fatto). Quando sono unitariamente negoziati beni per i quali sono previste aliquote diverse, si applica l’aliquota più elevata. Un atto in parte a titolo oneroso, in parte a titolo gratuito, è soggetto all’imposta di registro per la parte onerosa, all’imposta sulle donazioni per la parte gratuita. Pluralità di atti relativi ad un’unica causa negoziale. Simmetrico al criterio ora enunciato è il criterio per cui, se una vicenda giuridica unitaria è realizzata con più atti, la tassazione è unica. Secondo la giurisprudenza, per ritenere necessariamente connesse e derivanti l’una dall’altra più disposizioni contenute nello stesso atto, deve sussistere una oggettiva necessità giuridica e contrattuale di connessione. Tale disposizione rispecchia un principio generale dell’imposta di registro, secondo cui, quando un unico disegno negoziale è realizzato con più atti, su un atto soltanto si applica l’imposta proporzionalmente, mentre l’altro è tassato in misura fissa. Si collegano a tale criterio i contratti preliminari, gli atti sottoposti a condizione sospensiva e la stipulazione di un contratto con successiva risoluzione. Misure antiabuso. Presunzione e liberalità. L’imposta di registro è collegata, come abbiamo visto, non tanto alla tipologia economica degli atti, ma alla loro tipologia giuridica. Vi sono, però, norme specifiche intese ad impedire elusioni e frodi. Si prevede infatti che i trasferimenti immobiliari ed i trasferimenti di partecipazioni sociali posti in essere tra coniugi o tra parenti si presumono donazioni, se l’ammontare complessivo dell’imposta di registro risulta inferiore a quello delle imposte applicabili in caso di trasferimento a titolo gratuito. Presunzione di trasferimento delle accessioni e delle pertinenze. Nei trasferimenti immobiliari le accessioni, i frutti pendenti e le pertinenze si presumono trasferiti all’acquirente dell’immobile, a meno che siano esclusi espressamente dalla vendita. Contratto per persona da nominare e mandato irrevocabile. Quando viene concluso un contratto, una parte può riservarsi la facoltà di nominare successivamente la persona che acquista i diritti e assume gli obblighi nascenti dal contratto; la dichiarazione di nomina deve essere comunicata all’altra parte nel termine di tre giorni dalla stipulazione del contratto, salvo che le parti abbiano stabilito un termine diverso.

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La dichiarazione di nomina, se fatta entro venti giorni, viene tassata in misura fissa; in tutti i casi in cui è fatta oltre i tre giorni, viene tassata con la stessa imposta che è dovuta per l’atto cui si riferisce la dichiarazione di nomina. La norma è diretta ad impedire che si faccia risultare un solo trasferimento in luogo di due trasferimenti effettivi. Nullità dei patti contrari alla legge del registro. I patti contrati alle disposizioni del presente Testo unico, compresi quelli che pongono l’imposta e le eventuali sanzioni a carico della parte inadempiente, sono nulli anche fra le parti. È opportuno aggiungere che non è nulla la clausola con cui le parti stabiliscono che l’imposta è a carico di una di esse: tale clausola non ha alcun effetto nei confronti del Fisco. Atti invalidi e atti dichiarativi della nullità. L’invalidità di un atto non rileva agli effetti dell’imposta, che è dovuta anche se l’atto è invalido. Il legislatore accorda la restituzione dell’imposta soltanto quando la nullità o l’annullamento siano sanciti da una sentenza passata in giudicato e l’atto non sia suscettibile di ratifica, conferma o convalida; non è mai accordata la restituzione quando l’invalidità sia imputabile alle parti. Gli atti che accertano la nullità sono tassati in misura fissa. La motivazione effettiva di tale indirizzo giurisprudenziale è nel sospetto che l’atto dichiarativo dissimuli la retrocessione: nel sospetto, cioè, che le parti, dopo aver stipulato un atto traslativo valido, concludono poi un nuovo contratto traslativo, e che, per evitare una seconda tassazione, promuovano un giudizio fraudolento di nullità del primo atto. L’alternatività tra Iva e imposta di registro. Imposta di registro e Iva sono tributi alternativi. Un atto scritto, compreso tra quelli soggetti ad imposta proporzionale, e reca operazioni soggette a Iva, è soggetto a tassa fissa. Il principio di alternatività riguarda non solo le operazioni imponibili, ma anche quelle non imponibili o esenti. Ad esempio, un decreto ingiuntivo, con cui un imprenditore intima ad un suo cliente il pagamento di una merce, è soggetto ad imposta fissa, perché la cessione di merci è soggetta ad Iva. Il problema dell’alternatività tra Iva e registro si pone sovente nella pratica quando sorge la questione se sia stata ceduta un’azienda o singoli beni aziendali. La Direttiva sulla raccolta di capitali e la tassazione dei conferimenti. Una delle prime direttive comunitarie ha per oggetto le imposte indirette sulla raccolta di capitali. La Direttiva prevede l’istituzione di una imposta sui conferimenti, da applicare una sola volta ed unicamente nello Stato in cui ha sede la direzione effettiva o la sede statutaria della società. I presupposti dell’imposta sono:

- la costituzione di una società di capitali; - la trasformazione in società di capitali di una persona giuridica; - l’aumento del capitale sociale mediante conferimento di beni; - l’aumento del patrimonio sociale mediante conferimento di beni; - etc.

Sono inoltre tassati i trasferimenti, da un Paese terzo in uno Stato membro, o da uno Stato membro ad un altro, della sede della direzione effettiva o della sede statutaria di una società. Al tempo stesso, la Direttiva vieta che possano essere applicate alle società di capitali imposte indirette diverse da quella configurata dalla Direttiva. Dopo la prima Direttiva, il legislatore comunitario si è preoccupato, da un lato, di armonizzare le aliquote, e, dall’altro, di accordare trattamenti di favore alle operazioni di concentrazione. Dal 1985 le operazioni di concentrazione sono state esentate.

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I conferimenti sono tassati con imposta di registro, con aliquota del 4 per cento, ma sono tassati in misura fissa gli atti di fusione e scissione e i conferimenti di aziende e rami aziendali posti in essere da società o da altri enti. I conferimenti di immobili sono soggetti ad imposta proporzionale; sono, invece, soggetti a tassa fissa i conferimenti di aziende, danaro e beni mobili. La tassazione delle sentenze. Quando si conclude un procedimento giudiziario, il fascicolo viene trasmesso dalla cancelleria all’Agenzia delle entrate, la quale liquida il tributo dovuto sulla sentenza, e su altri atti presenti nel fascicolo. Il tributo è innanzitutto dovuto e liquidato sulla sentenza di primo grado; la riforma totale o parziale della prima sentenza non si riflette sul tributo liquidato sulla sentenza riformata, ma fa sorgere un autonomo diritto al rimborso. Se la sentenza enuncia un atto non registrato, deve essere tassato anche l’atto enunciato. Base imponibile e giudizio di congruità. La base imponibile è data dal valore dell’atto registrato (valore della prestazione). Vi sono però prestazioni per le quali, se il prezzo o valore indicato nell’atto non è ritenuto congruo dall’ufficio delle entrate, si rende necessaria una stima. Il giudizio di congruità non è ammesso per le cessioni di immobili ad uso abitativo, nei casi in cui intervengono fra persone fisiche che non agiscono nell’esercizio di attività commerciali, se l’acquirente richiede che l’imposta sia applicata sul valore catastale. Le parti, però, hanno l’obbligo di indicare nell’atto l’effettivo corrispettivo pattuito per la cessione. Se le parti occultino il corrispettivo effettivamente pattuito, viene meno la tassazione sul valore catastale e la base imponibile sarà costituita dal corrispettivo effettivamente pattuito, con sanzione amministrativa. Al di fuori del caso indicato, l’imposta non si applica sul valore catastale, ma sul valore venale. Vale la regola generale, secondo cui l’imposta, in sede di registrazione dell’atto, è applicata al prezzo pattuito, ma l’ufficio può accertare come dovuta un’imposta complementare, quando il valore normale dell’immobile è superiore al prezzo. Vi sono atti per i quali non è ammesso il giudizio di congruità:

- per i contratti costitutivi di obbligazione di fare; - per le cessioni di contratto; - per gli atti di garanzia; - etc.

Imposta principale, suppletiva e complementare. Sulla base di ciò che emerge dall’atto da registrare, o di altri elementi appositamente dichiarati ai fini dell’applicazione del tributo, il fisco procede alla liquidazione ed alla richiesta dell’imposta principale. L’imposta principale riscossa in sede di registrazione dell’atto. L’imposta suppletiva è quella richiesta dopo la registrazione, quando sia diretta a correggere errori od omissioni dell’ufficio. L’imposta complementare è, residualmente, ogni imposta richiesta dopo la registrazione, che non abbia carattere suppletivo. Il caso più frequente di imposta complementare si ha quando l’ufficio rettifica in aumento la base imponibile dell’imposta. Si ha poi imposta complementare nelle varie ipotesi in cui la prima applicazione dell’imposta avviene su di una base imponibile provvisoria.

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Poteri istruttori. Avvisi di liquidazione e di accertamento. Per l’applicazione dell’imposta di registro i poteri istruttori dell’ufficio erano piuttosto limitati. Ora i poteri di indagine e controllo, previsti per le imposte sui redditi si applicano anche all’imposta di registro. Agli effetti dell’imposta di registro, l’ufficio può emettere due tipi di atto: avvisi di liquidazione e avvisi di accertamento. Emette avvisi di liquidazione quando, essendo già determinata la base imponibile, si tratta soltanto di quantificare l’imposta. L’avviso di liquidazione è un atto impositivo, le cui determinazioni divengono definitive se non impugnate. Se ad esso non segue il pagamento del tributo, l’Amministrazione può iscrivere a ruolo il debito. L’Ufficio, quando rettifica il valore imponibile, emette un avviso di accertamento, che deve altresì liquidare l’imposta, con gli interessi e le sanzioni. La riscossione. L’imposta principale è dovuta in sede di registrazione. Se vi è ricorso contro l’accertamento di un’imposta complementare, l’Agenzia può riscuotere, in pendenza del giudizio di primo grado, un terzo della maggiore imposta accertata. Registrazione a debito e riscossione differita. La registrazione a debito è quella che viene effettuata senza contemporaneo pagamento delle imposte dovute. Tale procedura è ammessa in tre casi:

- le sentenze e gli atti dei procedimenti contenziosi in cui sono interessate le amministrazioni dello Stato;

- gli atti relativi alla procedura fallimentare; - le sentenze che condannano al risarcimento del danno prodotto da reato.

La registrazione a debito concerne situazioni pendenti, e l’imposta sarà richiesta quando sarà cessata la pendenza; l’imposta sarà così richiesta al soggetto che risulti soccombente. CAPITOLO DECIMO. L’imposta sulle successioni e donazioni. Vicende dell’imposta sulle successioni. La rilevanza crescente della ricchezza mobiliare ha sottratto, all’imposta sulle successioni, la sua funzione, perché essa colpisce, di fatto, quasi soltanto la ricchezza immobiliare. Prima della riforma del 2000, l’imposta aveva una duplice base imponibile: le singole quote ereditarie (ripristinata nel 2006) e l’asse ereditario globale. Il presupposto. L’imposta si applica sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione. L’elenco dettagliato comprende:

- il trasferimento di beni e diritti mortis causa; - le donazioni e altre liberalità tra vivi; - la costituzione di vincoli di destinazione; - etc.

Non sono soggetti all’imposta i trasferimenti gratuiti a favore dei discendenti e del coniuge, aventi ad oggetto aziende o rami di esse, quote sociali o azioni. È sempre necessario che, in caso di trasferimento di azienda o di un suo ramo, il beneficiario prosegua l’esercizio dell’attività d’impresa e che, in caso di trasferimento di partecipazioni, detenga il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento. Per la definizione del presupposto dell’imposta successoria, occorre considerare che la legge fa discendere obblighi fiscali “limitati” dalla chiamata ereditaria ed obblighi fiscali in senso pieno

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soltanto dall’accettazione dell’eredità. Vi sono dunque due tipi di presupposti: la chiamata e la devoluzione dell’eredità. I soggetti passivi. I chiamati all’eredità e gli altri soggetti obbligati a presentare la dichiarazione rispondono solidalmente dell’imposta nel limite del valore dei beni ereditari rispettivamente posseduti. Gli eredi rispondono in solido dell’imposta globalmente dovuta. Bisogna distinguere tra soggetti obbligati a presentare la dichiarazione e soggetti obbligati a pagare l’imposta. I chiamati all’eredità sono obbligati, in ogni caso, a presentare la dichiarazione, e sono obbligati a pagare l’imposta solo se nel possesso dei beni ereditari e nel limite del valore dei beni posseduti. I legatari sono obbligati a presentare la dichiarazione ma sono obbligati a pagare soltanto la parte d’imposta che grava sul legato. Profilo territoriale. In caso di morte di un soggetto residente nello Stato, l’imposta è dovuta in relazione a tutti i beni e diritti trasferiti, ancorché esistenti all’estero; invece, se alla data dell’apertura della successione il de cuius era residente all’estero, l’imposta è dovuta soltanto sui beni esistenti in Italia. Base imponibile ed attivo ereditario. La base imponibile è costituita dal valore complessivo netto dei beni devoluti a ciascun beneficiario. Si considerano compresi nell’attivo ereditario denaro, gioielli e mobilia per un importo pari al dieci per cento del valore globale netto dell’asse ereditario; la presunzione può essere vinta con la formazione di inventario analitico. Non sono compresi nell’attivo ereditario i trasferimenti a favore di enti pubblici e di fondazioni o associazioni legalmente riconosciute, che hanno come scopo esclusivo l’assistenza, lo studio, la ricerca scientifica, l’educazione, l’istruzione o altre finalità di pubblica utilità, nonché a favore delle ONLUS. Valutazione dei beni. Per gli immobili, la base è data dal valore venale in comune commercio alla data di apertura della successione. Per le aziende, la base imponibile è data dal valore complessivo dei beni e diritti che compongono l’azienda, al netto delle passività. Nel determinare la base imponibile delle aziende, delle azioni, delle quote sociali non si considera l’avviamento. Le passività. Le passività deducibili sono costituite: dai debiti del defunto, dalle spese mediche sostenute dagli eredi negli ultimi sei mesi di vita e dalle spese funerarie. I debiti del defunto devono risultare da atto scritto di data certa anteriore all’apertura della successione. Franchigie e aliquote. La franchigia riguarda le singole quote ed è di un milione di euro per il coniuge e per i parenti in linea retta; è di centomila euro a favore dei fratelli e delle sorelle. L’imposta è proporzionale, con tre differenti aliquote:

- quattro per cento nei confronti del coniuge e dei parenti in linea retta con una franchigia di un milione di euro per ciascun beneficiario;

- il sei per cento nei confronti degli altri parenti fino al quarto grado;

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- l’otto per cento nei confronti degli altri soggetti; - etc.

Nel computo della franchigia rilevano soltanto le donazioni pregresse per le quali sia stata riconosciuta una franchigia d’imposta che abbia assorbito, in tutto o in parte, l’imposta dovuta. Procedimento applicativo. Per quanto riguarda la dichiarazione della successione, sono obbligati a presentarla i chiamati all’eredità e i legatari, gli immessi nel possesso temporaneo dei beni, quando vi sono più obbligati, è sufficiente che la dichiarazione sia presentata da uno degli obbligati. Il termine per la presentazione della dichiarazione è di dodici mesi dall’apertura della successione. Il contenuto della dichiarazione è piuttosto complesso; in essa devono essere indicati, tra l’altro, i beni che compongono l’eredità, quelli alienati negli ultimi sei mesi di vita, quelli donati, il valore di tali beni, etc. La liquidazione dell’imposta principale è effettuata sulla base della dichiarazione da parte dell’Ufficio, il quale ha il compito di correggere gli errori materiali di calcolo commessi nella dichiarazione. Per quanto riguarda l’accertamento, se sono accertati beni non dichiarati o sono da rettificare i valori dichiarati, l’Ufficio emana un avviso di rettifica e di liquidazione della maggior imposta. Se la dichiarazione è omessa, si ha accertamento d’ufficio. La riscossione dell’imposta avviene previa emissione, da parte dell’Ufficio, dell’avviso di liquidazione, dell’avviso di rettifica e liquidazione o dell’avviso di accertamento e liquidazione. Il pagamento deve essere effettuato entro novanta giorni dalla notifica di tali atti. L’imposta può essere pagata, oltre che in contanti, con i titoli del debito pubblico, con titoli di credito bancari e postali, e con la cessione di beni culturali. Se l’imposta non è pagata entro novanta giorni dall’avviso, si procede alla riscossione coattiva mediante iscrizione a ruolo. L’imposta sulle donazioni. L’imposta si applica alle donazioni e, in generale, ai trasferimenti a titolo gratuito, oltre che alla costituzione di vincoli di destinazione. Non si tassa solo il trasferimento di beni e diritti, ma anche la costituzione di vincoli di destinazione. Il negozio di destinazione può avere struttura unilaterale. La costituzione di vincoli di destinazione. Sono soggetti all’imposta in esame gli atti costitutivi di vincoli di destinazione, e cioè i negozi giuridici mediante i quali determinati beni sono destinati alla realizzazione di un interesse meritevole di tutela, con effetti limitativi della disponibilità dei beni vincolati. Il vincolo di destinazione sorge, ad esempio, con la costituzione di un trust, di un fondo patrimoniale, etc. Ai fini tributari, è necessario distinguere che le costituzioni di vincoli di destinazione produttivi di effetti traslativi, da quelle non traslative. La costituzione di un vincolo di destinazione avente effetto traslativo è soggetta all’imposta sulle successioni e donazioni. La costituzione di vincoli non traslativi è soggetta all’imposta di registro in misura fissa, prevista per gli atti privi di contenuto patrimoniale. Disciplina dei trust. L’atto istitutivo del trust, se non contempla anche il trasferimento di beni nel trust, è soggetto ad imposta di registro in misura fissa. L’atto con cui il disponente vincola i beni in trust, è un negozio a titolo gratuito, soggetto all’imposta sulle successioni e donazioni, in misura proporzionale.

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Il ritenere che il vincolo di destinazione nasca a favore dei beneficiari individuati comporta che la devoluzione ai beneficiari dei beni vincolati in trust non costituisca, ai fini dell’imposta sulle donazioni, un presupposto impositivo ulteriore. Non si applica, quindi, una seconda tassazione, dopo quella che grava sulla costituzione del vincolo di destinazione al momento della segregazione in trust.

PARTE TERZA. FISCALITÀ LOCALE E REGIONALE. CAPITOLO DODICESIMO. Fiscalità locale e regionale. Sezione prima (i tributi comunali e provinciali) L’evoluzione della finanza locale tra centralismo e autonomia. Con la riforma tributaria del 1971 fu concentrata nello Stato la leva fiscale e gli enti locali furono finanziati quasi totalmente con trasferimenti statali. In seguito, si è avuta un’inversione di tendenza. Sono aumentate le entrate proprie e ridotti i trasferimenti. Il quadro delle principali entrate tributarie comunali è oggi composto, in sintesi, dall’Ici e da una serie di tributi commutativi, o entrate parafiscali. L’assetto delle entrate delle province è stato definito nel biennio 1996-97, attribuendo a tali enti il gettito di alcune imposte (ad esempio, sulle assicurazioni delle auto). A partire dagli anni ’90 si è rafforzata la spinta verso una più accentuata autonomia impositiva degli enti locali, indicata come federalismo fiscale. La potestà regolamentare degli enti locali in materia di tributi. Le province e i comuni possono disciplinare con regolamento le proprie entrate, salvo per quanto attiene alla individuazione e definizione delle fattispecie imponibili, dei soggetti passivi e della aliquota massima dei singoli tributi. I regolamenti sono approvati con deliberazione consiliare e sono comunicati al Ministero dell’Economia e delle Finanze, che può impugnarli per vizi di legittimità dinanzi al giudice amministrativo. Le tariffe e le aliquote sono deliberate entro la data fissata dalle norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione ed hanno effetto dal 1° Gennaio dell’anno di riferimento. Accertamento dei tributi locali. Anche i tributi locali devono essere dichiarati dai contribuenti. Gli enti locali possono rettificare le dichiarazioni incomplete o infedeli e accertare d’ufficio i tributi non dichiarati emettendo avvisi di accertamento, che devono essere notificati entro il 31 Dicembre del quinto anno successivo a quello della dichiarazione. Gli avvisi di accertamento dei tributi locali, come gli avvisi delle imposte erariali, devono essere motivati in relazione ai presupposti di fatto ed alle ragioni giuridiche che li hanno determinati. Riscossione dei tributi locali. In caso di impugnazione dell’accertamento, è riscuotibile l’intera imposta accertata. La riscossione coattiva dei tributi locali, se è affidata agli agenti della riscossione, è eseguita con il sistema dei ruoli. Invece, se la riscossione è svolta in proprio o dall’ente locale o affidata a soggetti terzi, diversi dall’agente della riscossione, si applica la procedura dell’ingiunzione fiscale. Il rimborso delle somme versate e non dovute deve essere richiesto dal contribuente entro il termine di cinque anni dal giorno del versamento, ovvero da quello in cui è stato accertato il diritto alla

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restituzione. L’ente locale deve rimborsare entro centottanta giorni dalla data di presentazione dell’istanza. L’imposta comunale sugli immobili. In molti Stati, la tassazione immobiliare è tradizionalmente riservata agli enti locali, perché si tratta di una forma di imposizione di cui è facile individuare e localizzare i presupposti. Anche in Italia, la tassazione immobiliare di tipo patrimoniale è affidata ai Comuni. I comuni hanno il potere di fissarne l’aliquota e di disciplinarne, con regolamento, diversi profili. Essi possono dettare regole in materia di presupposto, esenzioni, base imponibile, accertamento e riscossione. L’aliquota deve essere deliberata in misura non inferiore al quattro per mille né superiore al sei per mille (sette per mille in caso di esigenze straordinarie di bilancio). Presupposto del tributo è il possesso di uno dei seguenti tipi di immobili:

- fabbricati; - aree fabbricabili; - terreni agricoli.

Dal 2008 è esente l’unità immobiliare adibita ad abitazione principale. L’Ici è stata oggetto di forti critiche, non solo di carattere politico, ma anche di natura giuridico-costituzionale. Sono soggetti passivi dell’imposta il proprietario dell’immobile o il titolare del diritto di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie. A proposito del diritto di superficie, prima che su di un suolo venga costruito un fabbricato, il soggetto passivo del tributo è il proprietario del suolo. Dopo che è stato costruito il fabbricato, soggetto passivo è il titolare del diritto di superficie. In caso di locazione finanziaria (leasing), il tributo è dovuto dal locatario. Per gli immobili compresi nel fallimento, il curatore deve versare l’imposta dovuta per il periodo di durata dell’intera procedura concorsuale entro tre mesi dalla data del decreto di trasferimento degli immobili. La base imponibile è costituita dal valore dell’immobile, le cui regole di determinazione sono le seguenti:

- per i fabbricati iscritti al catasto, si applica alla rendita catastale il moltiplicatore 100, previsto per l’imposta di registro;

- per i fabbricati non iscritti al catasto, si tiene conto della rendita attribuita ai fabbricati similari;

- per i fabbricati posseduti da imprese, non iscritti in catasto, si considera il costo d’acquisto e lo si moltiplica per un coefficiente di rivalutazione;

- per le aree fabbricabili, si tiene conto del valore venale in comune commercio; - per i terreni agricoli, si moltiplica il reddito dominicale per settantacinque.

La tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche. La tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche ha come presupposto le occupazioni di qualsiasi natura, sui beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile dei comuni e delle province. Presupposto della tassa è l’occupazione di un bene pubblico, quale che sia il titolo giuridico dell’occupazione, ed anche se l’occupazione è abusiva. L’ente può esigere un canone (di concessione), in quanto proprietario del suolo pubblico dato in concessione. Soggetto attivo della tassa è il comune o la provincia. Coloro che realizzano il presupposto della tassa devono presentare una dichiarazione, che, se non vi sono variazioni, vale anche per gli anni successivi. Il comune può emettere avvisi di accertamento.

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L’imposta sulla pubblicità. L’effettuazione della pubblicità comporta il pagamento di una imposta, che ha come presupposto la diffusione di messaggi pubblicitari effettuati attraverso forme di comunicazione visiva o acustica, in luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali luoghi percepibile. Soggetti passivi dell’imposta sono colui che dispone del mezzo attraverso il quale il messaggio pubblicitario viene diffuso e colui che fornisce i servizi pubblicizzati. Il soggetto che dispone del mezzo è indicato come obbligato in via principale (deve presentare la dichiarazione). L’impresa di pubblicità ha poi diritto di rivalsa nei confronti del soggetto pubblicizzato. La tassa e la tariffa per lo smaltimento dei rifiuti. La tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (Tarsu) è dovuta da coloro che occupano o detengono locali o aree scoperte nelle zone del territorio comunale in cui è istituito il servizio di smaltimento dei rifiuti ed è commisurata, da un lato, alla superficie dei locali e, dall’altro, al costo del servizio. La Tarsu può essere sostituita, con delibera comunale, dalla Tia (tariffa di igiene ambientale). L’imposta di scopo. La legge finanziaria per il 2007 prevede che i comuni possono deliberare l’istruzione di un’imposta di scopo, destinata esclusivamente alla parziale copertura delle spese per la realizzazione di opere pubbliche. Per la disciplina di tale imposta si applicano le disposizioni in materia di imposta comunale sugli immobili. Il regolamento che istituisce l’imposta determina:

- l’opera pubblica da realizzare; - l’ammontare della spesa; - l’aliquota dell’imposta; - l’applicazione di esenzioni, riduzioni o detrazioni; - le modalità di versamento.

Sezione seconda (i tributi regionali) La potestà tributaria delle regioni a statuto ordinario. Il riformato art. 119 Cost. attribuisce alle regioni il potere di disciplinare e amministrare tributi propri, ma in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. L’attuazione del nuovo art. 119 richiede l’intervento del legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i princìpi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali. La potestà tributaria delle regioni a statuto speciale. La potestà legislativa delle regioni a statuto speciale in materia tributaria è disciplinata dagli Statuti. La nuova disciplina costituzionale si applica alle regioni a statuto speciale solo per la parte in cui prevede forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite e quindi non può avere l’effetto di restringere l’ambito di autonomia fissato dagli statuti speciali. Nei limiti dei princìpi del sistema tributario dello Stato la Regione può istituire nuovi tributi in corrispondenza alle particolari esigenze della comunità regionale. In tutti gli Statuti si prevede che vi sia rispetto dei princìpi del sistema tributario statale.

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Il sistema di finanziamento delle regioni e degli enti locali. L’art. 119 assicura alle regioni ed altri enti territoriali autonomia finanziaria di entrata e di spesa. Essi traggono le entrate ordinarie dai tributi propri, dalle compartecipazioni ai tributi erariali e dal fondo perequativo statale. Da queste tre fonti debbono provenire risorse in grado di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite. Le compartecipazioni sono stabilite collegando la percentuale spettante a ciascun ente al gettito proveniente dal rispettivo territorio. Le differenze di capacità fiscale dei diversi enti comportano livelli diversi delle entrate. A ciò deve porre rimedio il fondo perequativo statale. Inoltre, sono previsti interventi speciali e risorse aggiuntive per finanziare interventi straordinari oppure per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale. È lo Stato che legifera in materia di perequazione, ed è lo Stato che deve disporre delle risorse necessarie per alimentare il fondo perequativo a favore dei territori con minore capacità fiscale. L’imposta regionale sulle attività produttive. L’Irap assume la natura di tributo proprio della regione e, dal 1° Gennaio 2009, è istituita con legge regionale, ma le regioni non possono modificare le basi imponibili; nei limiti stabiliti dalle leggi statali, possono modificare l’aliquota, le detrazioni e le deduzioni, nonché introdurre speciali agevolazioni. L’Irap è un’imposta assai peculiare, perché non ha come presupposto il reddito o il patrimonio, ma lo svolgimento di un’attività (economica o meno), autonomamente organizzata. L’aliquota è del 3,9 per cento. I soggetti passivi devono essere divisi in tre categorie: imprenditori, lavoratori autonomi, pubbliche amministrazioni. Sono colpiti tutti coloro che producono reddito d’impresa e coloro che esercitano un’arte o una professione. Sono infine colpiti anche gli organi e le amministrazioni dello Stato. Sono esclusi coloro che producono redditi occasionali, gli imprenditori agricoli che producono redditi minimi, i fondi pensione, etc. Per quanto riguarda la base imponibile dell’Irap, sono opportune due premesse:

- quando una determinata grandezza è componente dell’imponibile di un soggetto, la stessa grandezza non è colpita a carico di chi percepisce quel reddito;

- la base imponibile si calcola sottraendo, da una componente positiva di partenza, talune componenti negative.

Il decreto indica il metodo della sottrazione, che consiste nell’assumere come dato di partenza il valore complessivo dei compensi percepiti nel periodo d’imposta: da tale valore si sottraggono le spese, ma non le spese sostenute per i dipendenti e per i collaboratori, e quelle per interessi. Per gli enti non commerciali e la pubblica amministrazione, la base imponibile è pari alle spese per stipendi. Per le società e per gli enti commerciali, la base imponibile è data dalla differenza tra il valore e il costo della produzione e il costo del personale. Per un’impresa in contabilità ordinaria essa è pari alla differenza tra il valore della produzione e una serie di costi di produzione, tra cui costi di acquisto delle materie prime, di merci, i costi di ammortamento, etc. Non sono deducibili i costi del personale dipendente, i compensi corrisposti per le prestazioni coordinate e continuative, la quota di interessi dei canoni di leasing, l’Ici, etc. Per le società di persone e per gli imprenditori individuali non sono deducibili le spese per il personale dipendente e assimilato, la quota interessi dei canoni di locazione finanziaria, le perdite sui crediti, l’Ici. L’Irap è stata ideata come strumento capace di attribuire alle Regioni un grado molto ampio di autonomia tributaria. Resta affidata all’Amministrazione finanziaria dello Stato il potere di accertarla e di riscuoterla.

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Il gettito è destinato alle Regioni, ma in forza di un rapporto Stato-regioni al quale il contribuente resta estraneo. Legittimità costituzionale e comunitaria dell’Irap. In merito alla giustificazione costituzionale dell’Irap sono state avanzate diverse teorie. Secondo una prima teoria, l’imposta colpisce talune attività che fruiscono e profittano di servizi pubblici; ciò che giustifica l’imposta è dunque il fatto che, con essa, vengono finanziati gli enti pubblici. Però, nella definizione del presupposto, non vi è alcun collegamento con lo svolgimento di funzioni regionali. Occorre dunque considerare il presupposto dell’Irap, come definito dal legislatore, vioè il valore netto della produzione. L’Irap colpisce l’esercizio delle attività dirette alla produzione o allo scambio di beni o alla produzione di servizi. Per colpire tali attività, peraltro, viene assunto come parametro del tributo, una grandezza economica misurata come differenza tra valore e costo della produzione, con l’aggiunta di taluni costi. La Corte costituzionale ha ritenuto che il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate, colpito dall’Irap, è indice costituzionalmente idoneo di capacità contributiva, che è assoggettata ad imposizione prima che sia distribuita al fine di remunerare i diversi fattori della produzione. Dubbi di costituzionalità concernono la tassazione dei lavoratori autonomi, perché equiparati alle imprese. Altro aspetto critico è la norma secondo cui l’Irap non è deducibile dalla base imponibile delle imposte sui redditi. Trattandosi di un tributo che si rende dovuto per il mero fatto dello svolgimento di un’attività produttiva, essa costituisce un costo di quell’attività, e, quindi, dovrebbe essere dedotta in sede di calcolo del reddito imponibile. I tributi regionali minori. Le entrate tributarie regionali sono costituite da:

- imposta sulle concessioni statali dei beni del demanio e del patrimonio indisponibile; - tassa sulle concessioni regionali; - tassa automobilistica; - tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche.

L’imposta regionale sulle concessioni statali si applica alle concessioni per l’occupazione e l’uso dei beni del demanio e del patrimonio indisponibile dello Stato siti nel territorio della regione (ad esempio, concessioni di miniere). L’imposta è dovuta dal concessionario ed è riscossa dallo Stato, insieme con il canone. La tassa sulle concessioni regionali è fissata dalle regioni, ma entro certi limiti predeterminati da norme statali. All’accertamento, liquidazione e riscossione provvedono gli uffici regionali. La tassa automobilistica colpisce il possesso di ciclomotori, autoveicoli ed autoscafi, immatricolati nella regione. Le regioni ne disciplinano la riscossione e l’accertamento. La tassa regionale per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche è disciplinata mediante rinvio alla disciplina dell’analogo tributo provinciale. La tassa regionale per il diritto allo studio universitario è un tributo di scopo; è dovuta per l’iscrizione ai corsi universitari ed il suo gettito è destinato all’erogazione di borse di studio e prestiti d’onore. Altre risorse regionali provengono dalle addizionali a tributi erariali. Vi è, inoltre, un’addizionale regionale all’Irpef.