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Comunicazione efficace e ascolto attivo Rev. 4.1 del 04/01/2016

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Comunicazione efficace e ascolto attivo

Rev. 4.1 del 04/01/2016

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Sommario

Comunicazione efficace e ascolto attivo...............................................................................................................................4

1.1 Comunicare: regole e paradossi..............................................................................................................4

1.2 Comunicazione e cambiamento............................................................................................................10

1.3 Comunicazione e aspetti psicologici del personale nelle strutture organizzative ..................................11

1.4 La teoria dei bisogni di Maslow............................................................................................................12

1.5 L’empatia e l’approccio di Rogers “Centrato sulla persona”...................................................................16

1.6 L’ascolto attivo.....................................................................................................................................19

1.7 La competenza comunicativa nei contesti relazionali............................................................................22

1.8 Le abilità di comunicazione...................................................................................................................23

1.9 LE BARRIERE ALLA COMUNICAZIONE di T. Gordon.................................................................................23

1.10 Conclusione......................................................................................................................................29

1.11 I laboratori formativi..........................................................................................................................30

1.12 L’uso partecipativo e inclusivo del video nei laboratori didattici..........................................................31

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1.Comunicazione efficace e ascolto attivo

1.1 Comunicare: regole e paradossiLa comunicazione è un processo di scambio e di influenzamento reciproco che avviene in un determinato contesto. (Watzlawick)

La comunicazione è un’esperienza continua: è impossibile non comunicare! Anche l’intenzionale assenza di comunicazione verbale, di fatto, comunica la nostra volontà di non entrare in contatto con l’altro.

Ogni comunicazione contiene un aspetto di contenuto, la “notizia”, i “dati”, e un aspetto di relazione, che riguarda i rapporti tra gli interlocutori; infatti, definisce il modo in cui i dati vengono trasmessi e permette di capire come deve essere interpretato il messaggio (si tratta della metacomunicazione). Ad esempio, si può dire “Bene!” con l’intenzione di lodare qualcuno o con tono sarcastico per metterlo in ridicolo.

A sottolineare l’importanza degli aspetti relazionali nella comunicazione vi sono alcuni dati statistici che mostrano che in una comunicazione il contenuto ha un “peso” soltanto del 7%, il tono della voce e la gestualità definiscono con il 93% la relazione.

Ancora, la ricerca (W.Bennis) ci dimostra che esiste una distorsione del messaggio che desideriamo inviare perché, oltre a quello che intendiamo comunicare, si aggiunge ciò che non era nostra intenzione comunicare, per cui il messaggio percepito è diverso da quello inviato.

Principio della comunicazione di Warren G. Bennis

Questo avviene perché la comunicazione è costituita, oltre che dalla componente razionale, anche da quella emotiva ed è fortemente influenzata dalle personalità diverse che si mettono in relazione e ai meccanismi della percezione e di difesa. Ogni persona, infatti, possiede un proprio sistema di riferimento legato al proprio modo di rapportarsi al mondo e, in particolare, determinato dal proprio sistema percettivo, il concetto di sé, la storia personale, i bisogni affettivi, le capacità cognitive, la cultura e i valori di riferimento, le motivazioni e le aspettative, i ruoli sociali e professionali, ecc.

Se una persona non riesce a decentrarsi dal proprio sistema di riferimento non è in grado di comprendere quello di un altro e ne risulta una comunicazione viziata.

Per difenderci dal bombardamento di stimoli cui siamo permanentemente sottoposti (10.000 stimoli al secondo) usiamo selezionare le informazioni che provengono dal mondo esterno attraverso l’uso di “filtri” fisiologici, emotivi e culturali.

Questi filtri agiscono strettamente connessi ai meccanismi di difesa che scattano automaticamente nel momento in cui un soggetto ha bisogno di escludere dalla consapevolezza informazioni o impulsi giudicati inaccettabili che gli provocherebbero sofferenza. Questi filtri ignorano o distorcono le informazioni che non confermano il nostro sistema di riferimento. È infatti proprio la nostra identità che è costantemente in gioco nei processi di comunicazione e spesso è il desiderio di sentire confermata la propria identità o il timore che questa possa essere minacciata che influenza pesantemente la nostra capacità di ascolto e di comprensione.

Finestra di Johary

NOTO A ME IGNOTO A ME

NOTO AD ALTRI PUBBLICO CIECO

IGNOTO AD ALTRI PRIVATO INCONSCIO

La finestra di Johary è un modello teorico che ci permette di comprendere le dinamiche delle relazioni

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sociali. Abitualmente tendiamo a fornire un’immagine di noi stessi e ad accettare l’immagine che gli altri ci forniscono di sé: “La norma sociale impone di non dire ad altri la nostra impressione su di loro se differisce dall’immagine che essi presentano di se stessi.”

Le quattro aree della “finestra” sono:

• area pubblica: corrisponde a quello che io so di me e a quello che gli altri sanno di me

• area cieca: corrisponde a quello che io non so di me ma che gli altri sanno di me

• area privata: corrisponde a quello che io so di me , ma che gli altri non sanno di me

• area inconscia: è sconosciuta a me e agli altri.

Per una buona comunicazione è importante saper cogliere il feedback (informazione di ritorno) che ci viene sempre veicolato dall’interlocutore sia verbalmente che non.

Il feedback è la risposta che si ottiene dopo aver inviato un messaggio e che produce, a sua volta, un altro feedback e così via.

Il feedback può essere considerato un fattore di controllo della comunicazione, perchè consente di verificare l’effetto che i nostri messaggi producono sull’altro. Attraverso il feedback esprimiamo assenso o dissenso, accettazione o rifiuto, comprensione o incomprensione, chiarezza o confusione.

Abbiamo tre possibilità di risposta:

il feedback positivo: è un messaggio di conferma, nel quale si approva ciò che l’altro ha detto (ad es. la lode). Significa “Tu esisti, sono d’accordo con te”.

il feedback negativo: è un messaggio di negazione di quanto è stato detto (ad es. la critica). Significa “Tu esisti, ma non sono d’accordo con te”.

la disconferma: è una comunicazione patologica perchè non prende in considerazione ciò che l’altro ha detto. Spesso è veicolata attraverso una comunicazione non verbale (ad es. voltare il viso dall’altra parte). Significa “Tu non esisti”.

1.1.1 Le variabili della comunicazione Nella comunicazione intervengono alcune variabili che influenzano gli esiti di una comprensione efficace.

La simmetria è basata sull’uguaglianza delle posizioni delle persone in relazione (ad es. due amici o colleghi); questa interazione generalmente facilita l’efficacia comunicativa, ma a volte può alimentare una competizione quando si cerca di controllare la relazione: si tratta di un processo inconsapevole che individua nel disaccordo sui contenuti quello che, in realtà, spesso è una divergenza sulla relazione.

La complementarità prevede che i due partner in relazione siano in posizione diversa: supremazia e dipendenza (ad es. il rapporto medico-paziente). La persona che si trova in posizione di superiorità dà consigli, suggerimenti o rivolge critiche all’interlocutore. E’ importante tener presente che la persona in posizione di inferiorità avrà più difficoltà a comunicare.

Simmetria e complementarità non sono posizioni rigide: ci sperimentiamo continuamente in queste diverse collocazioni, a seconda del contesto in cui comunichiamo, infatti questo chiarisce ulteriormente la relazione fra i partner: ad es. una frase detta in un’importante riunione assume un significato diverso se detta durante un intervallo.

A questo punto è importante soffermarci su alcuni aspetti della comunicazione non verbale.

La teoria dei “primi cinque minuti” dimostra quanto sia potente l’impatto iniziale di una nuova relazione, tanto

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potente da influenzarne gli esiti futuri ma dobbiamo essere molto attenti ai nostri “filtri” della percezione che, quasi sempre, ci fanno vedere “solo quello che vogliamo vedere”.

Come fare a rendere più efficace la comunicazione?

Imparare che “la mappa non è il territorio”, ossia che il nostro “punto di vista” non corrisponde alla verità assoluta e, quindi, essere attenti ai seguenti piccoli accorgimenti che ciascuno di noi può mettere in atto per facilitare la comunicazione:

• l’uso di un codice comune con l’attenzione al contesto culturale dell’interlocutore

• l’ascolto di ogni feedback anche non verbale

• la disponibilità a modificare il messaggio se comprendiamo di non essere stati chiari

• le riflessioni sui nostri atteggiamenti e le corrispondenti forme linguistiche che possono

• facilitare la comunicazione: far domande aperte, evitare affermazioni perentorie, usare

• frasi di comprensione piuttosto che di valutazione...

• la consapevolezza di essere agiti dai meccanismi di difesa e da quelli della percezione.

Cercare quindi di essere più in ascolto, più osservatori non solo degli altri, ma anche di noi stessi.

Per concludere, possiamo utilizzare una lista di domande che Rogers utilizza per definire la “relazione aiutante” allo scopo di verificare la nostra reale volontà di entrare in comunicazione con l’interlocutore:

1 Sono in grado, io come individuo, di essere percepito dall’altra persona come “congruente”... il che significa che qualunque sentimento o atteggiamento proverò, sarà sempre accompagnato dalla maggior consapevolezza di esso?

2 Sono capace di esprimermi in modo sufficientemente chiaro con l’altra persona, così da riuscire a comunicare senza ambiguità chi sono io?

3 So sperimentare atteggiamenti positivi verso l’altra persona, atteggiamenti di calore, di protezione, di simpatia, di interesse, di rispetto?

4 Sono abbastanza forte come persona da restare separato dall’altra persona, cioè da mantenere la mia individualità?

5 Mi sento abbastanza sicuro di me stesso così da permettere all’altra persona una sua esistenza separata?

6 Sono in grado di addentrarmi nel suo mondo privato così completamente da perdere ogni desiderio di valutare e giudicare tale mondo?

7 Sono capace di accettare tutti gli aspetti che l’altra persona mi prospetta? So riceverla così com’è?

8 So agire nel rapporto interpersonale con sufficiente sensibilità perchè il mio comportamento non venga percepito come una minaccia?

9 Sono in grado di liberare l’altra persona dalla paura della valutazione esterna?

10 So valutare l’altra persona come una entità che sta vivendo un processo di sviluppo, o invece non so staccarmi dal suo e dal mio passato? Se riesco a considerare l’altro come una persona che vive un processo di sviluppo, allora sono anche in grado di confermare e realizzare le sue potenzialità. In caso contrario non faccio che considerare l’altro come un oggetto meccanico manipolabile...

1.1.2 I filtri della comunicazioneI filtri sono le modalità di reazione alle informazioni, alle idee, alle parole e anche alla comunicazione non

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verbale che ognuno acquisisce durante la vita.

Ogni persona filtra le informazioni che le giungono attraverso le proprie tendenze, esperienze ed aspettative e reagisce di conseguenza.

I filtri immediati sono quelli che variano secondo la situazione del momento e possono essere influenzati dai filtri a lungo termine anche se, per la maggior parte, sono costituiti da fattori di carattere contingente.

Filtrare le informazioni attraverso le proprie opinioni, positive o negative, porta ad una comunicazione inefficace: mettere da parte i sentimenti, poi, ascoltare attivamente e obiettivamente quanto viene detto.

I filtri a lungo termine sono costituiti dai valori, dagli apporti religiosi, dalla cultura, dal luogo in cui si è cresciuti ed anche dalle tendenze politiche dei genitori. Senza l’ascolto attivo, le reazioni individuali dipendono dai filtri emotivi a lungo termine.

Quando si tratta di filtri a lungo termine, quanto meglio si capisce se stessi, i propri valori, le proprie esperienze passate ed anche i ricordi della propria infanzia, più si è in grado di ascoltare con partecipazione e senza preconcetti coloro con cui non si concorda.

I filtri emotivi e mentali non si lasciano mai, sono connaturali al nostro modo di comportarci. Per divenire degli ascoltatori migliori si deve imparare ad individuare e a controllare i filtri che si frappongono tra noi e l’ascolto attivo.

Le aree chiave che influenzano i filtri emotivi e mentali sono:

• le proprie aspettative

• le relazioni personali

• le esperienze passate

• i propri valori e le proprie opinioni.

Le tecniche per controllarli sono:

• individuarli

• allontanarsi da loro mentalmente o fisicamente per minimizzare l’influenza

• comprenderne l’autobiografia, ossia da quale parte della nostra storia essi derivano

• non assolutizzare il nostro punto di vista

• concentrarsi per ascoltare con mente aperta.

Così come vi sono filtri emotivi e mentali, vi sono anche distrazioni ed ostacoli che diminuiscono la capacità di ascoltare efficacemente. Sono entità che si oppongono alla capacità di ascoltare mentre i filtri emotivi e mentali fanno ascoltare selettivamente.

Nella maggior parte dei casi, tuttavia, questi ostacoli possono essere controllati, consentendo di praticare l’ascolto attivo.

Tre sono i tipi principali di ostacoli esterni:

• di tipo fisico

• il rumore

• il movimento.

L’ostacolo di tipo fisico blocca la vista allontanando dall’interlocutore o distoglie dall’ascoltare o dal vedere l’oratore.

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In un colloquio a tu per tu, una scrivania tra noi e il nostro interlocutore agisce da barriera fisica che invia immediatamente il messaggio che la persona dietro la scrivania sta in guardia mentre comunica con noi.

La mancanza di contatto visivo è un altro ostacolo di tipo esterno per la comunicazione.

Rumore e movimento possono costituire seri ostacoli per l’ascolto attivo e, nonostante la capacità di mascherare il rumore vari da individuo a individuo, anche il miglior ascoltatore ne è infastidito. In genere l’80% delle persone riesce a bloccare automaticamente il rumore di fondo e il movimento.

Gli ostacoli mentali, così come i filtri emotivi, sono di natura interiore. Essi tuttavia, a differenza dei filtri emotivi, non selezionano né alterano l’input che si riceve: semplicemente bloccano completamente la capacità di riceverlo distraendo dal messaggio. La capacità di controllo degli ostacoli emotivi dipende dalla padronanza che si ha della propria mente e delle proprie emozioni.

La maggior parte delle polemiche potrebbero essere evitate se le persone coinvolte utilizzassero l’ascolto attivo e riflessivo.

Le polemiche, nella maggior parte dei casi, iniziano perché uno e entrambi i partecipanti non ascoltano con partecipazione e senza formulare giudizi.

In ciò risiede la differenza tra l’ascolto attivo (libero da conflitti) e l’ascolto polemico (con conflittualità potenziali).

L’ascoltatore attivo ascolta il contenuto, quello polemico lo filtra.

L’ascoltatore attivo non giudica il contenuto di quanto viene detto.

L’ascoltatore polemico filtra, invece, le stesse informazioni, sceglie il contenuto col quale col quale è d’accordo e quello su cui non concorda e, prima ancora di aver ricevuto l’intero messaggio, formula una conclusione e una risposta, generalmente un rigetto.

L’ascoltatore attivo ascolta lo scopo, quello polemico filtra e giudica lo scopo.

L’ascoltatore attivo, quando risponde all’intero messaggio, prende in considerazione obiettivamente lo scopo dell’interlocutore.

L’ascoltatore polemico filtra e giudica lo scopo e fa delle ipotesi sull’interlocutore e sul suo messaggio. Egli basa la risposta, generalmente un rigetto su queste ipotesi preconcette sullo scopo dell’interlocutore.

L’ascoltatore attivo valuta la comunicazione non verbale di chi sta parlando; l’ascoltatore polemico, invece, reagisce.

L’ascoltatore attivo usa la comunicazione non verbale dell’interlocutore per comprendere il messaggio nella sua interezza; l’ascoltatore polemico reagisce emotivamente, invece che razionalmente, alla comunicazione non verbale dell’interlocutore.

L’ascoltatore attivo sorveglia la propria comunicazione non verbale e i propri filtri; quello polemico, invece, non li controlla. Dato che l’ascoltatore attivo risponde all’intero messaggio attento a controllarlo ed è consapevole dei propri filtri emotivi e mentali. L’ascoltatore polemico risponde semplicemente in modo emotivo e non cerca di controllare la propria comunicazione non verbale o i propri filtri.

L’ascoltatore attivo ascolta l’interlocutore senza giudicare e con partecipazione. L’ascoltatore polemico giudica e valuta l’interlocutore. L’ascoltatore attivo tenta di capire il punto di vista e i messaggi dell’interlocutore. Egli comprende che ascoltando con partecipazione e senza giudicare si tengono aperti i canali di comunicazione. L’ascoltatore polemico giudica e valuta l’interlocutore sulla base dei propri standard o del suo programma.

Se una delle parti in causa usa l’ascolto attivo può verificarsi un conflitto, ma è poco probabile che porti a situazioni pericolose. Se entrambe, invece, usano l’ascolto attivo esse possono essere in disaccordo ma

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riescono comunque a comunicare.

1.1.3 La competenza relazionaleIl senso della competenza relazionale è nel “SAPER ESSERE”, inteso come capacità di pensare e di riflettere, prima ancora che nel “SAPER FARE”.

Infatti, mentre il “saper fare” ha a che fare con il comportamento, il “saper essere” ha a che fare con la mappa interiore della persona (pensieri e sentimenti) e da questa deriva il comportamento (quindi il “saper fare”).

“Saper essere” significa avere un atteggiamento di osservazione, ascolto e comprensione. Questa capacità produce come conseguenza, nella relazione con gli studenti, così come nella gestione delle risorse umane, la riduzione dei “costi”, in termini di malattia, stress e conflittualità, migliorando la qualità del prodotto‐servizio, attraverso il miglioramento della cosiddetta “qualità interna”. E la qualità interna è rappresentata dal livello di soddisfazione psico-fisica delle persone che lavorano in una organizzazione.

Pertanto, un’efficace gestione delle risorse umane, a scuola come in azienda, considera la formazione suo elemento chiave: formazione intesa come processo attraverso il quale le persone imparano a disapprendere vecchi stili professionali per apprenderne altri nuovi.

Il concetto di formazione è infatti, inscindibilmente legato al concetto di cambiamento il cui obiettivo è partire dall’analisi dei bisogni di un’organizzazione e dei partecipanti, sulla base della quale sviluppare un progetto formativo che, dopo essere stato posto in atto, porti alla valutazione dei risultati con riguardo agli obiettivi che ci si era preposti. La formazione va intesa come l’integrazione tra la trasmissione di conoscenza e l’elaborazione dell’esperienza, dove la trasmissione di conoscenza consiste nell’attività del formatore di dare conoscenze ai partecipanti, mentre l’elaborazione dell’esperienza è quell’attività da parte dei partecipanti di interpretazione, attribuzione di significato, traduzione dalla teoria alla pratica.

In particolare, la formazione – degli insegnanti come dei manager - deve occuparsi soprattutto dell’acquisizione di competenze relazionali, intese come capacità di ascolto, riflessione e facilitazione e non come momento prescrittivo e normativo. Più che aggiungere conoscenze a quelle già esistenti, si tratterà di creare occasioni per modificare la rappresentazione mentale della realtà e, attraverso questo processo, arrivare al cambiamento. Nella formazione, come dicevo, si apprende attraverso quello che Gregory Bateson ha definito disapprendimento. E’ cioè, necessario dis-imparare le rappresentazioni mentali consolidate e quindi, gestire anche l’ansia del cambiamento, per fare posto a nuovi elementi del mondo interno che sostituiscono in tutto o in parte, quelli che sono andati in crisi. La formazione quindi, deve soprattutto offrire gli strumenti interiori per gestire il cambiamento. L’obiettivo della formazione è allora, lo sviluppo di “modelli mentali” flessibili, prima ancora che un’adesione a tecniche e a teorie. Le stesse infatti, vanno subito perse se non passano attraverso la sperimentazione su di sé, l’elaborazione e la riflessione profonda.

Spesso, sentiamo persone che sostengono che l’entusiasmo iniziale nel provare ad applicare le tecniche acquisite lascia ben presto il posto alla demotivazione e al tran-tran della quotidianità. Ciò accade soprattutto perché la cultura della formazione non è ancora sedimentata da noi e quindi le si dedica poco tempo. Pochi giorni di seminario su un argomento si traducono in un travasamento di contenuti che non lasciano spazio a ciò che invece si dovrebbe e cioè all’apprendimento attraverso l’esperienza, vale a dire alla sperimentazione ripetuta sul campo, o con simulate di ciò che viene detto in aula.

L’apprendimento dall’esperienza è infatti l’unico apprendimento duraturo perché dà spazio al pensiero e alla riflessione e solo questo può produrre un vero cambiamento nelle persone e nei loro stili professionali. Non ci sorprende vedere corsi centrati più sul programma che sulle persone e sulle loro realtà concrete, perché, come dicevo prima, la cultura della formazione non è ancora consolidata da noi.

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Ma proprio apprendendo di volta in volta e direttamente dall’esperienza sulla formazione potremo sicuramente consolidare questa cultura, attraverso la partecipazione attiva di formatori che vogliano continuamente formarsi e nel rispetto dei naturali tempi, non solo del cambiamento organizzativo, ma prima ancora, del cambiamento culturale.

1.2 Comunicazione e cambiamentoPrima che si verifichi un cambiamento, le persone si muovono all’interno di una realtà strutturale, di un contesto conosciuto e nel quale sono abituate a muoversi. Tutto questo dà luogo a senso di padronanza sulla realtà e caratterizza tutto ciò che è routine che, come tale è rassicurante.

Un cambiamento si verifica quando alcuni elementi ai quali ci si riferiva per orientarsi, per agire, per decidere, vengono sostituiti da altri nuovi. Accade allora che, mentre ciò che era conosciuto e familiare consentiva di muoversi nella realtà con padronanza, di fronte a un cambiamento occorre destrutturare i precedenti schemi cognitivi e costruirne altri nuovi.

Accade quello che Piaget chiamava “riorganizzazione della conoscenza”, che avviene attraverso i processi di assimilazione e accomodamento. Attraverso l’assimilazione la persona interiorizza conoscenze nuove; con l’accomodamento, le precedenti conoscenze si integrano con quelle nuove, dando luogo a qualcosa di diverso da prima. Questo processo rappresenta appunto la riorganizzazione della conoscenza e dà luogo all’evoluzione del pensiero.

In generale più avvengono questi processi, più si acquisisce flessibilità mentale e crescita cognitiva e culturale.

Un cambiamento comporta quindi nuove conoscenze, ma prima di conoscere cose nuove, di elaborarle, di assimilarle, dobbiamo percepirle. La percezione è quindi il processo cognitivo che presiede ad ogni nuova conoscenza.

La percezione è il processo mediante il quale traiamo informazioni sul mondo in cui viviamo:essa è influenzata dai bisogni e dalle motivazioni. È influenzata dai bisogni, nel senso che quando esiste un bisogno in una persona e lo stimolo che appare alla percezione è poco chiaro, la persona è portata a percepire quello stimolo, dandole il senso di qualcosa che tende a soddisfare quel suo bisogno.

Durante un esperimento furono sottoposte alla percezione visiva di un gruppo di bambini affamati, macchie poco chiare e questi bambini interpretavano queste macchie come

figure che rappresentavano cibo. È tipica anche la situazione di innamoramento in una persona.In una situazione simile infatti , la persona sarà portata a percepire nel partner, più i segnali che confermano il suo bisogno di essere ricambiato, che quelli contrari.

Se facciamo l’ipotesi di una situazione di cambiamento organizzativo, l’elemento di innovazione , se è poco chiaro, verrà percepito secondo ciò di cui la persona ha bisogno. Quindi vedrà ciò che vorrà vedere, ( e non lo vedrà se non lo vorrà vedere)

La percezione è influenzata anche dagli stati emotivi e dall’ansia. È influenzata dagli stati emotivi (rabbia, paura, gioia, ecc.): se ad esempio, siamo arrabbiati con qualcuno, siamo portati a vedere la realtà in modo più negativo che positivo. Se abbiamo paura dei cani, anche un cagnolino tranquillo che ci appare di fronte susciterà in noi una sensazione di allarme, e così se siamo contenti e ci troviamo in un posto, saremo portati a vederlo più bello di quanto ci apparirebbe se fossimo tristi per una qualsiasi ragione. Quindi queste emozioni giocano il loro ruolo in qualsiasi situazione. Ma ciò che ci interessa maggiormente, rispetto alle conseguenze che comporta in una situazione di cambiamento organizzativo è il ruolo che svolge l’ansia durante il processo percettivo. Vediamo cosa accade. Innanzitutto è da premettere che in ogni individuo esiste una naturale tendenza a farsi un’idea di se stesso, degli altri e della realtà ed a mantenere costante

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quest’idea. Ciò trova ragione nel fatto che tutti abbiamo bisogno di una certa costanza percettiva, perché questa ci consente di muoverci agevolmente nel mondo. Diversamente, se dovessimo tener conto di tutti i particolari che disconfermano le nostre convinzioni, staremmo ad operare continuamente quel processo di riorganizzazione della conoscenza che, se fatto continuamente, comporterebbe dispendio di tempo e di energie, nonché una notevole dose di stress.

La naturale resistenza al cambiamento si spiega attraverso il fatto che esistono in ogni essere umano i bisogni di sicurezza. Essi consistono nella consapevolezza di avere punti fermi entro i quali potersi orientare. Quest’affermazione trova riscontro oltre che negli studi di Maslow, anche negli studi di Festinger sulla “dissonanza cognitiva” secondo cui l’uomo tende in generale ad essere coerente con se stesso nell’agire e nel pensare.

Quando questa coerenza manca si crea un disagio che l’attività mentale cerca di eliminare o ridurre attraverso una forma di resistenza percettiva. In questo modo la persona protegge se stessa dal disagio di affrontare il cambiamento e quindi, di conseguenza, dal disagio di ristrutturare velocemente e continuamente i propri schemi cognitivi. Questo processo, entro certi limiti è abbastanza normale e senza grosse conseguenze: è alquanto normale, perché è collegato ai bisogni di sicurezza che sono bisogni di base e come tali presenti in ogni individuo.

È per questo che di fronte ad un elemento che denota che un contesto sta cambiando, la persona tende a non vedere questo elemento per far si che la percezione del contesto non subisca una destrutturazione, di fronte alla quale occorrerebbe attivare energia per operare una rapida ristrutturazione cognitiva. Ciò è indubbiamente un processo faticoso e quindi, quando l’elemento nuovo non è del tutto indicativo di un cambiamento, le persone sono portate in genere a non vederlo. Questo processo rappresenta una più o meno naturale resistenza al cambiamento. Le cose cambiano però, quando l’elemento nuovo è più vistoso e le persone continuano a “non vederlo” continuando a mantenere la precedente percezione del contesto. Questa è invece, una situazione di “rigidità percettiva” e si verifica tanto più quanto maggiore è il livello di ansia nelle persone.

L’ansia è una condizione psicologica che interferisce negativamente con tutte le funzioni cognitive, creando un filtro che deforma la percezione della realtà, in misura maggiore o minore in relazione alla quantità con cui questa è presente nell’individuo: quanto maggiore è l’ansia, tanto più risulta ridotta nelle persone la capacità di percepire il cambiamento, anche quando questo è palesemente visibile.

Esiste quindi, una correlazione stretta tra il livello di ansia e la capacità di percepire il cambiamento e quindi, di trovare capacità di adattarvisi: infatti le persone più ansiose presentano una capacità più ridotta in questo senso.

Quando parliamo di ansia, colleghiamo questa parola all’insicurezza, perché la persona ansiosa manifesta una maggiore reazione di allarme alle situazioni; è come se tendesse ad impaurirsi più facilmente, come se la sua soglia di minaccia-pericolo fosse più alta. Ovviamente, una situazione nuova scatena di per sé una certa paura, ma nell’ansioso questa paura è a volte per così dire irrealistica, tanto da fargli azionare un inconsapevole meccanismo di difesa dal nuovo, che agisce nel senso di nasconderlo, svolgendo così una funzione di protezione per l’io.

1.3 Comunicazione e aspetti psicologici del personale nelle strutture organizzative Gli aspetti psicologici del personale, ossia delle persone coinvolte nell’attività lavorativa, riguardano le dinamiche intrapsichiche e interpersonali che si sviluppano in ogni individuo, in quanto attivate dal contesto lavorativo. Si tratta di quei processi interni ad ogni persona che hanno a che fare con i vissuti soggettivi

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e che, interagendo con la realtà lavorativa producono trasformazioni, sia in essa, sia nel mondo psichico dell’individuo, sia nell’ambito dei rapporti interpersonali, all’interno della struttura organizzativa.

Questi aspetti psicologici e le conseguenze che ne derivano, fanno capo prevalentemente alla motivazione individuale e cioè al sistema soggettivo di bisogni, nel senso che ogni individuo attribuisce un’importanza diversa ad uno stesso lavoro e differisce dai suoi colleghi circa le aspettative ad esso connesse. Gusti, interessi, atteggiamenti di fondo nei confronti di un certo impegno lavorativo, variano infatti, da persona a persona.

In generale, però, si può affermare che un lavoro, per essere interessante e tale da impegnare realmente, deve essere armonizzato alle capacità di colui che lo svolge.

Se infatti, il livello di prestazioni richieste è troppo elevato, il lavoratore si sentirà incapace di lavorare bene e avvertirà un senso di inadeguatezza e di frustrazione; se al contrario le caratteristiche del lavoro sono sensibilmente inferiori alle sue capacità, la persona non si sentirà adeguatamente stimolata, si annoierà e cercherà altri sbocchi.

Ma la motivazione al lavoro dipende anche da altri fattori, quali ad esempio gli obiettivi. Se questi sono chiari, nel senso che il lavoratore ha di fronte a sè mete ben definite dalle quali si sente attratto, è più facile che la motivazione si attivi e rimanga costante. Se invece il soggetto si sente obbligato a realizzare scopi che, dal suo punto di vista appaiono inconsistenti o negativi o conflittuali, invece di impegnarsi in un’azione produttiva e di adattamento, cercherà come alternativa o la fuga o la lotta.

A proposito di reazioni disadattive in situazioni in cui non si ottiene una soddisfazione nel lavoro, la ricerca empirica ha fornito alcuni indicatori, quali ad esempio l’assenteismo, il pensionamento anticipato non dovuto a causa di malattia, il frequente abbandono del posto di lavoro durante la giornata, le turbe psicosomatiche.

Questi indicatori rappresenterebbero infatti, secondo le ricerche,dati da cui si evince una scarsa soddisfazione nel lavoro. Si capisce quindi come sia importante considerare il sistema psichico individuale e la struttura dei bisogni, quale fattore che influenza il risultato produttivo, nel senso che, una persona che non è in una condizione di soddisfazione e quindi di equilibrio psico-emotivo, non potrà mai essere produttiva.

Vediamo ora come può la dirigenza influenzare positivamente l’atteggiamento psicologico del lavoratore, in senso adattivo alla struttura organizzativa. Per cercare di raggiungere questo obiettivo dobbiamo focalizzarci sui seguenti elementi:

• Il sistema motivazionale di coloro che operano nella struttura organizzativa;

• Lo stile di direzione e il clima facilitante;

• Lo stile di comunicazione del dirigente e il suo modo di prevenire e risolvere i conflitti all’interno della struttura organizzativa.

È da dire a proposito del sistema motivazionale, che la soddisfazione dei bisogni umani è sempre alla base di un buon funzionamento individuale.

E se una persona funziona bene, nel senso che è in equilibrio, tale funzionamento si esprimerà in tutte le manifestazioni comportamentali e quindi anche nel comportamento lavorativo.

1.4 La teoria dei bisogni di MaslowMaslow , negli anni ’50, ha elaborato una teoria della motivazione umana centrata sulla soddisfazione dei bisogni fondamentali. La teoria di Maslow si basa sul fatto che in ogni essere umano esiste una gerarchia di bisogni che motiva il comportamento e se non viene soddisfatto per primo un bisogno gerarchicamente inferiore, l’individuo non può centrarsi sulla realizzazione di un bisogno superiore. Questo processo di

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stratificazione gerarchica dei bisogni caratterizza la crescita e quindi la salute mentale e il buon funzionamento personale.

BISOGNI FISIOLOGICI

Sono quelli strettamente legati alla sopravvivenza fisica (mangiare, dormire). Su questi bisogni l’organizzazione lavorativa può influire attraverso l’attribuzione degli stipendi che garantiscono la sopravvivenza.

BISOGNI DI SICUREZZA

Consistono nella consapevolezza di avere punti fermi, nel sentirsi accolti, nel sapersi orientare nello spazio con senso di padronanza dell’ambiente. Questi bisogni trovano origine nello sviluppo filogenetico del comportamento; infatti, nel 1958 Harlow fece il seguente esperimento che dimostrò l’importanza per la sopravvivenza, dei bisogni di sicurezza.

Harlow prese dei cuccioli di scimmia e mise loro di fronte due madri finte: una metallica che poteva offriva loro il cibo e una di panno che poteva fornire calore; i cuccioli si avvicinavano alla madre di panno e non a quella metallica, dimostrando così che preferivano il calore al cibo. I bisogni di sicurezza sono presenti in tutti gli esseri umani, ma coloro i quali hanno stabilito da piccoli un attaccamento ansioso con la madre, nel senso che questa non è stata adeguatamente rassicurante, sviluppano da adulti un maggior bisogno di sicurezza e quindi una maggiore difficoltà a gestire i cambiamenti. In una situazione di stabilità organizzativa, l’organizzazione può agire su questi bisogni offrendo una certa stabilità nel lavoro e nelle posizioni lavorative di una persona; mentre in una situazione di cambiamento organizzativo può, nella persona del leader, accogliere le paure e le insicurezze, senza “penalizzare “ la persona che le esprime, svolgendo così una funzione rassicurante.

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BISOGNI SOCIALI

Nascono dal sentimento di appartenenza, ossia dalla necessità di avere consapevolezza di appartenere ad altri, persone o gruppi. Anche questi bisogni trovano origine nello sviluppo filogenetico del comportamento, perchè molti animali si aggregano per sopravvivere.

La struttura organizzativa può contribuire a soddisfare questi bisogni, facilitando la creazione di gruppi di lavoro o unità operative, tra persone che stanno bene insieme.

BISOGNI DI AFFERMAZIONE

Sono i bisogni di stima e di autostima e consistono nella necessità di sentirsi riconosciuti e accettati. Questi bisogni sono indispensabili per la percezione dell’immagine di sè; infatti generalmente , più una persona si sente accettata dagli altri, più sviluppa senso di autogratificazione e senso di autoaccettazione.

L’intensità con cui si prova in età adulta il bisogno di sentirsi accettati dipende da se e come, nell’infanzia il bambino si è sentito accettato dalla madre. In proposito sono significativi gli studi di C. Rogers: egli sosteneva che nel bambino, il bisogno di considerazione positiva è talmente forte che pur di ottenerlo, il bambino rinuncia anche ad esprimere la propria “ tendenza attualizzante”.

La tendenza attualizzante è quella forza propulsiva innata negli individui, che tende all’espressione delle potenzialità. Nel bambino si manifesta prevalentemente attraverso il gioco. Ma se ad esempio la madre ansiosa si preoccupa che il bambino giocando possa farsi male e gli trasmette questa paura, minacciandolo di non volergli più bene se continua a giocare in quel modo, il bambino associerà il suo comportamento esplorativo alla perdita dell’affetto da parte della madre, quindi pur di non perdere il suo affetto rinuncerà al comportamento esplorativo. Questo ci dice come i bisogni di affermazione (affetto e riconoscimento positivo) sono sentiti alla base, come più importanti dei bisogni di autorealizzazione. L’imprinting infantile condizionerà la vita adulta, per cui i bambini che sono stati bloccati nella espressione di sè dall’ansia materna , espressa e vissuta come “ se fai così sei inaccettabile”, svilupperanno in età adulta un maggiore bisogno di compiacere gli altri, per ottenerne il consenso, perchè continueranno a dare maggiore importanza al giudizio degli altri, anziché all’espressione della propria individualità. Nelle strutture organizzative ci capita di trovare persone remissive, compiacenti, eccessivamente rispettose dell’autorità. Sarebbe più funzionale che queste persone, anziché “utilizzarle” come tali, venissero valorizzate più in condizioni normali che non quando si comportano in un certo modo per essere lodate. In tal modo si comunica loro che sono comunque accettabili. Questo tipo di messaggio, espresso attraverso i comportamenti, più che attraverso le parole, può, nel tempo, agendo a livello subliminale sulla persona, operare indirettamente come “esperienza emozionale correttiva”, che lentamente, può, modificando l’imprinting, modificare l’autopercezione e quindi svolgere una funzione rassicurante, che a sua volta facilita la crescita.

BISOGNI DI AUTOREALIZZAZIONE

Sono i bisogni di crescita, ossia di crescita emotiva. Soddisfatti i bisogni di sopravvivenza, si passa quindi ai bisogni superiori. Ci riferiamo alla espressione delle potenzialità soggettive. Ciò significa che la persona può diventare ciò che è, far emergere la creatività, fare ciò per cui si sente portata.Nelle organizzazioni, la selezione del personale, che tiene conto della valutazione del potenziale, rappresenta uno strumento di valorizzazione delle potenzialità. Una persona che fa un lavoro che le piace, si sente creativa e quindi è più soddisfatta, di conseguenza si ammala meno, si stressa meno, ha meno voglia di andare prima in pensione e tutto ciò rappresenta per l’azienda una riduzione di costi e una forma di investimento a medio e a lungo termine.

In sintesi, i bisogni di base sono legati a mancanze mentre i metabisogni sono bisogni di crescita.

I bisogni di base dominano sui metabisogni e sono ordinati secondo una gerarchia.

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I metabisogni non hanno gerarchie, sono tutti ugualmente potenti e sono agevolmente intercambiabili.

I metabisogni sono altrettanto istintivi e propri dell’uomo dei bisogni di base e quando non sono soddisfatti l’individuo soffre. La metapatologia consiste infatti in stati di alienazione, angoscia, apatia e cinismo. Le persone che soddisfano i metabisogni sono, secondo Maslow, le persone che si autorealizzano. Queste persone presentano le seguenti caratteristiche:

1. Sono orientati molto realisticamente.

2. Accettano se stessi, le altre persone e il mondo per ciò che sono.

3. Sono molto spontanei.

4. Si concentrano più su un problema che su se stessi.

5. Hanno bisogno di intimità.

6. Sono autonomi.

7. La loro valutazione delle persone e delle cose è spontanea e non stereotipata.

8. Si identificano con l’umanità.

9. I loro rapporti con le persone che amano tendono ad essere profondi e sentiti, invece che superficiali.

10. I loro valori e i loro atteggiamenti sono democratici.

11. Il loro senso umoristico è bonario e non ostile.

12. Sono dotati di creatività.

13. Resistono al conformismo culturale.

La scala dei bisogni di Maslow chiarisce quindi le dinamiche delle relazioni all’interno di organizzazioni.

In un primo momento si insiste sul soddisfacimento dei bisogni fisiologici e pertanto sulla gratificazione economica (ad es. le incentivazioni). Successivamente si insiste sulla sicurezza del lavoro e cioè l’impiego stabile, la prevenzione dello stress lavorativo (es. l’irrigidimento dei mezzi di controllo). Si passa quindi a rivendicare la partecipazione all’attività organizzativa all’interno della struttura, attraverso il coinvolgimento del personale nelle decisioni relative all’attribuzione di nuovi incarichi di lavoro. In tal modo si riconosce al lavoratore un adeguato senso di appartenenza al gruppo e lo si valorizza coinvolgendolo attivamente nei processi lavorativi, riconoscendogli così stima e senso della propria identità. Si realizzano quindi, in tal modo, i bisogni sociali e di affermazione.

Ne verrà pertanto di conseguenza che una persona che si sente riconosciuta e valorizzata esprimerà naturalmente anche un adeguato senso di responsabilità rispetto al proprio ruolo.

Sarà quindi più portata a percepire la dimensione lavorativa come qualcosa che si integra con l’espressione della propria identità, cogliendone anche la connotazione di finalità sociale, anziché come un compito noioso da svolgere e pertanto vissuto in maniera scissa dalla propria identità.

Il senso di orgoglio professionale può derivare dalla propria attività, anche se essa non consente di conseguire prestigio e potere. Questo può avvenire qualora si attribuisca un particolare valore alla realizzazione di se stessi, traendone un sentimento di soddisfazione: ad es. il servizio reso agli altri come lo svolgimento di un’attività socialmente utile, assume talvolta la più alta forma di autorealizzazione.

Una persona bene integrata nei vari aspetti del suo essere è infatti una persona che si autorealizza.

Ora, uno degli aspetti della competenza relazionale di un dirigente nella gestione delle risorse umane è tener conto appunto del sistema di motivazioni di coloro che operano in una struttura organizzativa.

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Come dicevo, la soddisfazione dei bisogni umani è sempre alla base di un buon funzionamento individuale perché realizza quella condizione di “egualizzazione” quale espressione di energia ben bilanciata e quindi espressione di un organismo ben integrato (teoria organistica).

A tale proposito la teoria di Maslow, offrendo uno dei principali approcci alla motivazione trova campo di applicazione anche nella realtà organizzativa. Perché ci permette di “SAPER LEGGERE I COMPORTAMENTI” ossia, di osservare per poter cogliere i bisogni sottostanti al comportamento e facilitarne la soddisfazione, per facilitare il processo di crescita nelle persone.

Con gli studi di Rogers invece, è possibile soffermarsi su un altro aspetto della competenza relazionale e cioè la comunicazione efficace attraverso l’empatia, la congruenza e l’accettazione positiva incondizionata.

1.5 L’empatia e l’approccio di Rogers “Centrato sulla persona”“Aiutatemi a capire ciò che dico e lo formulerò meglio” A. Machado

La teoria rogersiana, famosa per essere stata la prima ad elaborare il concetto di “empatia”, è conosciuta come la teoria centrata sulla persona.

A differenza di Maslow, che considera una serie di bisogni che attivano la motivazione, per Rogers ogni persona è dotato di un unica forza motivante che è l’impulso all’autorealizzazione.

Questa forza è la “tendenza attualizzante”. Essa è una spinta propulsiva (energia) della quale l’individuo è dotato sin dalla nascita, che connota l’organismo e che è diretta naturalmente verso l’espressione e la crescita attraverso l’estrinsecazione delle potenzialità individuali.

Accade però, dice Rogers, che questa tendenza attualizzante, perfettamente funzionante alla nascita, viene spesso, nel corso della vita, bloccata dal bisogno di considerazione positiva.

Questo bisogno corrisponde a quello di essere amato e accettato e si presenta già in età infantile ed è tanto forte da bloccare anche la tendenza attualizzante.

Sicché il bambino per paura di perdere l’affetto dei genitori (che frenano l’accesso ad alcune sue esperienze attraverso l’espressione di un giudizio negativo: es. sei cattivo se ti comporti così) blocca la sua tendenza attualizzante (spinta organismica) e si crea il complesso di considerazione. (Questo non significa che un genitore non debba dare limiti. lì limite infatti inteso come elemento che misura la tolleranza alla frustrazione aiuta a crescere. Ciò che non andrebbe fatto è vietare il comportamento facendolo seguire da un giudizio negativo sulla persona. Bisogna inoltre essere empatici verso il bambino e cercare di capire che senso ha per lui quel comportamento. Ad esempio, rompere un oggetto è in genere un modo di esprimere il comportamento esplorativo).

Questo modo di porsi tende, col tempo, a diventare uno schema di comportamento, in base al quale l’individuo struttura la sua esistenza adulta rinunciando non solo alla soddisfazione di alcuni suoi bisogni, per lui significativi, ma anche alla simbolizzazione (consapevolezza/coscienza) di quelle esperienze, che secondo lo schema appreso nell’infanzia, potrebbero, da adulto fargli perdere la considerazione positiva (senza poter distinguere che le esperienze fatte da adulto sono diverse per persona e per contesti da quelle vissute con i genitori).

In altri termini, si creano degli automatismi difficili da modificare (imprinting) (vedi anche il concetto di “copione di vita”).

Tutto ciò porta l’individuo fuori strada e ciò è la conseguenza di una comunicazione sbagliata che si è instaurata durante l’infanzia nel rapporto con i genitori.

Quale, dunque, l’atteggiamento corretto da tenere nelle interazioni e quindi nella comunicazione? Secondo

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Carl Rogers l’empatia è una delle tre condizioni necessarie e sufficienti a produrre cambiamenti nelle persone. Le altre due condizioni sono la congruenza e l’accettazione positiva incondizionata.

Queste tre condizioni interagiscono tra loro.

“Mettersi nei panni dell’altro”, ossia avere consapevolezza dei pensieri e dei sentimenti di un’altra persona, avere la capacità di vedere il mondo come questa lo vede ed operare nel quadro di una sensibilità alterocentrica. L’empatia è diversa dalla simpatia, in quanto la simpatia riguarda essenzialmente le emozioni (ad esempio una persona ci è simpatica se ci piace), mentre l’empatia comprende sia gli aspetti cognitivi che quelli emotivi di un’altra persona. Essa consente di partecipare all’esperienza dell’altro, pur restando emotivamente indipendente.

Infatti, l’empatia è sì spogliarsi dei propri panni e mettersi nei panni dell’altro, ma anche, capacità di rientrare nei propri panni e di non perdere il contatto con se stesso. Essa nasce dalla consapevolezza che ogni persona ha la sua storia e che, quindi, percepisce la realtà in maniera soggettiva, in base ai propri modelli interni di riferimento.

Secondo Rogers empatia è:

1. capacità di discriminare e riconoscere le emozioni espresse dall’altro

2. capacità di assumere la prospettiva dell’altro, di mettersi nei suoi panni. Si adotta lo schema di riferimento interno dell’altro e quindi si tiene anche conto dei suoi aspetti cognititivi, vale a dire di ciò che lui vede e non solo di ciò che lui prova

3. immedesimazione emotiva: saper condividere le emozioni altrui, saper stare con le emozioni dell’altro.

Nelle organizzazioni ciascuno agisce con i propri ruoli e le proprie responsabilità, ma un capo che si preoccupa di gestire il suo personale dovrà mantenere un atteggiamento di comprensione di stima.

Questa è l’accettazione positiva, vale a dire l’atteggiamento di apertura e di non giudizio preconcetto verso la persona. Quando la persona percepisce questo atteggiamento congruente, trasparente e senza difese preconcette, si sentirà rispettata e stimata e quindi attiverà le sue risorse, mantenendo un atteggiamento di responsabilità, per non perdere la considerazione positiva (essendo i bisogni di stima e di autostima indispensabili all’essere umano).

Osserva Rogers: ponendo che ci sia

• una minima volontà da parte di due persone di relazionarsi;

• una capacità e una minima volontà di entrambi di ricevere informazioni dall’altro;

• un rapporto che esiste da un certo e per un certo periodo di tempo, allora si ipotizza come valida la seguente relazione.

Maggiore è la congruenza di esperienza, di consapevolezza e di comunicazione in uno dei due individui, più la relazione con l’altro che ne deriva assumerà una tendenza alla comunicazione reciproca, che si caratterizzerà per una sempre maggiore congruenza, una tendenza alla comprensione più adeguata delle informazioni da parte di entrambi, un migliore adattamento psicologico, quindi un migliore funzionamento di tutti e due e una soddisfazione reciproca per la relazione intrattenuta.

Essere congruente significa anche dire quello che si pensa, ma ciò va fatto nel rispetto della persona e quindi mai attaccandola nell’autostima (si può criticare un comportamento, una prestazione, ma non bisogna inglobare nella critica, o peggio, nel giudizio negativo, la persona in quanto tale). Infatti, un conto è dire: “secondo me questo lavoro non l’ha fatto bene perché...,” e un conto è dire: “lei è inaffidabile”. Un comportamento accettante (di stima, senza pregiudizi), congruente ed empatico rappresenta inoltre, un modello di apprendimento che tende ad indirizzare le persone su cui si esercita influenza, nella stessa

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direzione. Un capo che ha un atteggiamento di difesa e di ostilità tenderà a rinforzare nei dipendenti questo tipo di atteggiamento; al contrario, un modo di essere aperto, comprensivo, comunicativo dei propri punti di vista e delle proprie conoscenze, nonché accettante e responsabile porterà le persone a diventare più comprensive nei confronti degli altri e verso un atteggiamento di maggiore crescita e responsabilità. Ciò si traduce in un miglioramento delle organizzazioni e quindi anche in una diminuzione del conflitto.

Alla luce della teoria rogersiana, uno stile di direzione aperto e comunicativo dovrebbe essere così caratterizzato:

• Dare autonomia alle persone e ai gruppi, anziché prendere decisioni.

• Agevolare l’apprendimento, anziché tenere le proprie idee chiuse dentro di sè.

• Stimolare l’indipendenza nel pensiero e nell’azione, anziché esercitare l’autorità sulla gente e sull’organizzazione.

• Accettare le innovazioni creative che emergono, anziché dominare.

• Delegare e dare piena responsabilità, anziché costringere.

• Offrire e ricevere feedback, anziché insegnare, informare, consigliare.

• Incoraggiare a credere nell’autovalutazione, anziché valutare gli altri.

• Essere gratificati dallo sviluppo e dalle acquisizioni degli altri, anziché essere gratificati dai propri successi.

1.5.1 Gli strumenti di applicazione dell’empatiaGli strumenti di applicazione dell’empatia sono: l’ascolto passivo e l’ascolto attivo.

L’ascolto passivo si avvale della comunicazione non verbale ma anche della comunicazione verbale (esprimendo , mentre si ascolta una persona, con parole e suoni, riconoscimento e accettazione.Es.”Va bene”....”Si”...). La comunicazione non verbale è rappresentata da tutti quei segnali che noi mandiamo attraverso il linguaggio del corpo. Vediamo quali sono i principali canali di comunicazione non verbale.

La postura

Consiste nel modo di atteggiare il proprio corpo. Una postura aperta e leggermente inclinata in avanti indica disponibilità verso l’altro; mentre una postura chiusa (braccia incrociate, gambe chiuse ) indica che la persona è prevalentemente chiusa in sé.

La prossemica

È rappresentata dalla distanza che intercorre tra la persona e il suo interlocutore. Sono tre i tipi di distanza che caratterizzano le relazioni interpersonali:

La distanza personale che è quella che caratterizza i rapporti di tipo amichevole e va da cinquanta centimetri a un metro/un metro e mezzo.

La distanza sociale che caratterizza le posizioni di ruolo e va da un metro/un metro e mezzo a tre metri.

La distanza pubblica è quella che caratterizza le posizioni pubbliche ( es. conferenze). L’espressione del volto indica ad esempio se una persona è preoccupata, arrabbiata, triste o altro.

Lo sguardo è un importante veicolo di comunicazione. Infatti se rivolgiamo lo sguardo a una persona mentre le parliamo o mentre l’ascoltiamo, le comunicheremo attenzione, rispetto e valorizzazione; è come se dicessimo che quello che ci sta comunicando ci interessa. Al contrario, distogliere lo sguardo dal proprio

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interlocutore esprime scarso valore per ciò che l’altro ci sta dicendo.

Il movimento delle braccia e delle mani. Accompagnare il discorso con una gestualità morbida (movimenti lenti e rotatori delle braccia e delle mani) comunica serenità e senso di rilassamento, mettendo l’interlocutore a proprio agio.

La paralinguistica. È tutto ciò che somiglia al linguaggio. Essa è rappresentata dal timbro di voce, dal tono di voce, dalla pause.

Nell’ascolto passivo i canali di comunicazione non verbale che entrano in gioco più degli altri sono il contatto oculare (sguardo) e la postura aperta e leggermente inclinata in avanti, perché questi due elementi denotano abilità di mostrare attenzione.

Altro elemento importante che entra in gioco nell’ascolto passivo è il silenzio.

Silenzio non solo in senso verbale, di non-parole, ma anche e soprattutto silenzio interiore, come vuoto interno di pensieri e sentimenti, come presupposto per il sentire e l’esprimere verso l’altro, interesse e accettazione.

L’ascolto passivo si avvale inoltre della comunicazione verbale,attraverso la espressione di riconoscimento e accettazione dell’altro, tramite l’uso di parole e suoni ( es. Va bene... Uhm....)

1.6 L’ascolto attivoSi avvale della comunicazione verbale e anche della comunicazione non verbale (esprimere empatia attraverso il tono della voce e l’espressione facciale).

L’ascolto attivo è una modalità attraverso la quale l’ascoltatore e quindi nella specie il dirigente, avvalendosi della propria capacità empatica, si fa interprete dei significati di ciascuno dei parlanti, significati che gli stessi, in quel momento non riescono a far emergere perchè confusi dall’ingorgo delle emozioni sottostanti al conflitto. Il dirigente aiuta quindi, uno alla volta, a percepire ciò che da soli non riescono a percepire, adottando un rimando di tipo emotivo o cognitivo di ciò che ogni individuo sta cercando di esprimere. Se il rimando è appropriato, la persona abbasserà le difese, perchè si sentirà capita e si riporterà sul proprio livello cognitivo ristabilendo il proprio equilibrio emozionale e diventando così più ragionevole. L’ascolto attivo del dirigente va indirizzato uno alla volta ad entrambi gli esponenti della relazione conflittuale. Questo tipo di ascolto serve, come dicevo, ad abbassare la temperatura emozionale che sottostà ad ogni situazione di conflitto e che toglie spazio ad una comunicazione efficace, perchè impedisce l’uso della ragionevolezza. Solo infatti, nel momento in cui lo spazio cognitivo si sarà allargato, perchè lo spazio emotivo si sarà ristretto, le parti potranno riprendere a relazionarsi sullo stesso argomento, su un piano di maggiore chiarezza interna.

L’ascolto attivo si avvale delle seguenti tecniche:

Riflessione del contenuto o parafrasi consiste nell’abilità di parafrasare ciò che dice il parlante, usando parole diverse e frasi sintetiche.

Riflessione del sentimento consiste nell’abilità di enucleare il sentimento sottostante al contenuto e rimandarlo al parlante.

Confronto attraverso il messaggio in prima persona consiste in un atto di autorivelazione, attraverso il quale il parlante esprime il proprio punto di vista. Esprimere il proprio punto di vista significa dire ciò che si vuole dire usando frasi come “Secondo me.. Io penso che...” e non invece: “questa è la verità.. Si fa così...”

Usare frasi di questo tipo significherebbe commettere ed esprimere delle generalizzazioni, come tali distanti dalla realtà, perché il nostro punto di vista è ciò che cade alla nostra percezione e non a quella di tutti.

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Esprimersi usando messaggi in prima persona significa contestualizzare (e non generalizzare) ciò che si pensa e si dice, assumendosi nel contempo la responsabilità del proprio pensiero.

La parafrasi e la riflessione del sentimento determinano una condizione psicologica di apertura nel parlante. La persona che riceve questo tipo di atteggiamento si sente infatti capita, accettata e non giudicata. È come se gli si dicesse (metamessaggio) che può aprirsi, farsi vedere, abbassare le difese. La parafrasi e la riflessione del sentimento creano un clima di fiducia. In questo clima di fiducia è possibile poi confrontarsi con l’altro, dire il proprio punto di vista, attraverso l’uso del messaggio in prima persona. Ciò facilita la convergenza tra i partners della relazione, portandoli verso la soluzione del problema.

L’empatia che si esprime attraverso la riflessione del contenuto e la riflessione del sentimento fa sì che quando ciò che l’altro ci dice non ci è ancora chiaro, ci può essere chiarito attraverso l’uso di queste due modalità. Inoltre, l’atteggiamento empatico determina nell’altro una condizione di abbassamento delle difese, proprio perché, come dicevo prima, la persona non si sente giudicata e non sentendosi in ansia per essere sottoposta a un giudizio si autoesplora più facilmente e quindi si chiarisce anche più facilmente. L’obiettivo finale è quello di risolvere un problema partendo da premesse chiare, attraverso un processo interattivo e introspettivo libero da intoppi difensivi.

In una interazione, quando uno dei due ha ricevuto un atteggiamento empatico da parte dell’altro, sarà più disposto a sentire e quindi a mostrare altrettanta apertura e comprensione. Per questo, il messaggio in prima persona, usato per confrontarsi, esprimendo il proprio punto di vista si rivela più efficace quando segue ad un intervento fatto in termini di rimando empatico.

Per introdurre l’ascolto attivo è utile usare alcune frasi. Se siete abbastanza sicuri di aver capito bene è bene usare frasi come. “Ti senti...Secondo te...Tu pensi...Mi stai dicendo che..Vuoi dire che...”

Se invece non siete abbastanza sicuri di aver capito bene, conviene usare frasi come...” Potrebbe essere che.. Mi chiede se... Non so se ho capito,ma... Correggimi se sbaglio, ma... È possibile che...Sembra che tu... Forse ti senti...”

1.6.1 Quando ricorrere all’ascolto attivo Perché sia una risposta appropriata alla comunicazione della persona, l’ascolto attivo richiede la presenza di alcune condizioni e atteggiamenti. Ricorrete all’ascolto attivo solo quando:

1. Ricevete segnali verbali o non verbali che indicano che la persona ha un problema o un bisogno insoddisfatto.

2. Desiderate sinceramente essere d’aiuto e le circostanze sono propizie.

3. Sentite di poter accettare la persona; il suo problema non vi infastidisca e non vi indispone.

4. Vi sentite distaccati dal suo problema tanto da poter accettare la soluzione che troverà, qualunque essa sia.

5. Siete in grado di dedicare tutta la vostra attenzione alla persona. Non avete impegni tanto urgenti che vi impediscano di concentrarvi su quanto vi sta comunicando.

1.6.2 Quando non ricorrere all’ascolto attivo Chiaramente ci sono circostanze in cui l’ascolto attivo non va usato, per evitare di creare altri problemi. Alcune potrebbero essere:

1. Non ci sono segni e sintomi di un problema che affligga la persona (non createne voi).

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2. Non desiderate essere d’aiuto in quella particolare circostanza. Non ve ne importa, siete impegnati, andate di fretta.

3. Il comportamento della persona vi sembra inaccettabile, vi irrita o vi ferisce.

4. State cercando di spingere la persona verso la soluzione “giusta”. In questo caso l’ascolto attivo tenderà ad essere contaminato da suggerimenti nella “giusta” direzione.

5. Avete problemi cosi pressanti e fastidiosi da non riuscire a concentrare la vostra attenzione su quelli della persona.

6. La persona desidera semplicemente informazioni che voi avete e lei no.

7. Volete nascondere i sentimenti che provate per la persona.

8. La persona esprime il suo problema o i suoi sentimenti in modo cosi chiaro e preciso che ogni intervento da parte vostra suonerebbe superfluo o paternalistico. In questi casi è, preferibile il silenzio o il semplice riconoscimento-accettazione.

Errori comuni nell’ascolto attivo

Gli errori comuni nell’ascolto attivo derivano perlopiù dall’incapacità di restare in contatto con i sentimenti immediati della persona, o di tenere separati i propri sentimenti dal suo messaggio.

Ecco gli otto errori più comuni, notare che a ciascuno errore corrisponde un errore di segno opposto:

ESAGERARE vs RIDIMENSIONARE

AGGIUNGERE vs OMETTERE

ANTICIPARE vs RESTARE INDIETRO

ANALIZZARE vs RIPETERE A PAPPAGALLO

AGGIUNGERE: Ampliare o generalizzare il senso di quello che la persona esprime “Le sembra che sia un pessimo coordinatore.”

ANTICIPARE: Prevenire i pensieri delle persone. “Cosi, probabilmente vorrebbe che lo buttassero fuori.”

ANALIZZARE: Interpretare le motivazioni sottostanti, psicanalizzare. “Forse è irritato perché teme che la può valutare negativamente”

RIDIMENSIONARE: Diminuire l’intensità delle emozioni che vengono espresse.”È un po’ seccato per il suo nuovo coordinatore”

OMETTERE: Ridurre o ignorare parte dei fatti, “È proprio di cattivo umore oggi!”

RESTARE INDIETRO: Riferirsi al passato non stare al passo con la comunicazione della persona. “Già, me lo dicevi prima che per te é una giornata no”

RIPETERE A PAPPAGALLO: Ripetere quasi parola per parola quanto la persona ha detto.

“Non capisce proprio il suo coordinatore; pensa che lui sia rigido con le sue regole immodificabili!”.

Concludendo, saper comunicare rappresenta una modalità di gestione del cambiamento, perché dietro la resistenza che suscita il cambiamento spesso c’è una paura e quindi un bisogno di sicurezza o di affermazione insoddisfatto. Attraverso l’ascolto empatico comunichiamo all’altro senso di valorizzazione, andando ad agire così positivamente sui bisogni di sicurezza e/o su quelli di stima (bisogni di affermazione). Inoltre attraverso l’uso dell’empatia, l’ascoltatore agisce come contenitore dell’insicurezza dell’altro, aiutandolo così ad accettarla. Il contenimento e l’accettazione infatti tolgono ai vissuti il carattere di minacciosità e di

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vergogna, aprendo così la strada al loro possibile superamento.

La funzione di contenimento delle ansie del collaboratore è tra le competenze più importanti del leader, perché in questo modo metacomunica anche solidità e affidabilità, rappresentando nel contempo un modello di riferimento.

1.7 La competenza comunicativa nei contesti relazionali Comunicare significa dire o trasmettere qualcosa (messaggio) e, ciò è il risultato di vari processi cognitivi interagenti tra loro. È un processo circolare perché è caratterizzato sempre da un “feedback”: il feedback è l’effetto di retroazione, l’informazione di ritorno dopo che la persona Trasmittente, attraverso un Codice, ha comunicato un Messaggio (M) ad un’altra Ricevente (R) e, quindi, riceve a sua volta un altro Messaggio che la rende anch’essa Ricevente (R) e poi di nuovoTrasmittente (T), e così via. Ed è proprio il modo in cui un messaggio viene trasmesso che stimola una risposta di un certo tipo anziché di un’altro, risposta che a sua volta rappresenta l’ulteriore messaggio che si trasmette e a cui poi si risponde, e così via. Nelle relazioni interne alla pubblica amministrazione spesso il linguaggio è arcaico e va modificato. A tale proposito la legge 241/90 (trasparenza) ha rappresentato un modo significativo di modificare la comunicazione. Infatti, un linguaggio troppo forbito e troppo sofisticato indica povertà di idee, per cui, l’incomprensibilità di alcuni provvedimenti amministrativi agisce negativamente sulla comunicazione e quindi sul risultato da conseguire.

Un elemento molto importante della comunicazione è rappresentato dagli effetti di retroazione che essa esercita (feedback). Se il trasmittente vuole trasferire un messaggio si dovrà infatti, chiedere in che modo il ricevente interpreterà tale messaggio e quale feedback darà. lì feedback da parte del ricevente rappresenta la verifica del risultato del messaggio e rappresenta inoltre una forma di controllo dell’efficacia o meno del messaggio trasmesso. Se ad esempio chiediamo a un dipendente di fare un certo lavoro, sarà non solo il suo assenso a darci il feedback sull’efficacia o meno del modo in cui gli abbiamo fatto la richiesta, ma anche il modo in cui ci darà l’assenso, che potrà indicare intenzionalità, partecipazione, coinvolgimento, o al contrario distacco, frustrazione, rifiuto. La coerenza e cioè l’assenza di dissonanza tra elementi verbali e non verbali della sua risposta, ci dirà se la nostra richiesta è stata espressa in modo efficace tale da ottenere un consenso totale. Può accadere infatti che, se la richiesta a fare un lavoro viene espressa ad esempio come ordine, il dipendente accetterà ugualmente per paura di essere punito, ma dentro di sé opererà una scissione, per cui il compito verrà svolto ugualmente ma con senso di noia e di frustrazione. Quello che però più c’interessa nella “Direzione efficace” è agire sulla motivazione delle persone, per cui una richiesta fatta con rispetto e con empatia attiverà nell’altro i bisogni di stima, di autostima e di considerazione positiva e quindi la sua adesione agirà, se pure indirettamente, come mezzo per soddisfare questi suoi bisogni, facendo si che la persona si orienti verso l’integrazione e l’espressione di sé, anziché verso l’alienazione. Quindi, nei rapporti con i dipendenti, bisogna tenere presente il loro bisogno di stima (Maslow) e di considerazione positiva (Rogers). In caso di errore del dipendente si può mettere in discussione il comportamento rinforzando però, il senso della sua identità.

Abbiamo già sottolineato, ad esempio, come dire: “lei ha commesso un errore” sia ben diverso dal dire: “lei è un incapace”: nel primo caso, ciò che viene messo in discussione è quel comportamento, non l’identità del soggetto. Il comportamento infatti attiene all’aspetto professionale, mentre l’identità attiene all’aspetto psicologico e quindi al senso di sé: infatti, se la persona si sente attaccata nel proprio senso di identità, sente minacciata la propria autostima.

La comunicazione è allora, una variabile fondamentale nella realizzazione degli obiettivi aziendali, proprio rispetto all’effetto di retroazione che determina nel ricevente. Questo effetto di retroazione dipende dalle caratteristiche del ricevente, dal contesto e da altro, ma anche dalle caratteristiche del messaggio e da come questo viene utilizzato. Se ad esempio, un comune che sta facendo dei lavori stradali informa che i lavori

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finiranno tra un mese e poi alla fine del mese i lavori non sono finiti sarebbe stato più opportuno che il comune avesse fatto i lavori stradali senza fare alcuna comunicazione. La comunicazione, in questo caso, ha perso credibilità, quindi la retroazione (feedback) da parte del cittadino sarà quella di rispondere con atteggiamenti di frustrazione e di sfiducia, creando una barriera a successive comunicazioni che verranno da parte di quell’amministrazione. Questo fatto potrà allargarsi e creare un clima di sfiducia più generalizzato e preconcetto anche rispetto a situazioni simili che si potranno verificare in futuro da parte della stessa amministrazione o anche di altre (si verifica quella distorsione del pensiero che è la generalizzazione e il pregiudizio).

1.8 Le abilità di comunicazioneData la complessità del processo educativo, le “abilità di comunicazione” sono necessarie per innescare una comunicazione aperta ed efficace che garantisca ad un’azienda la soddisfazione del proprio “cliente interno”. Ecco le principali:

Abilità di comunicazione non verbale: postura aperta, uso adeguato del silenzio come espressione di ascolto, contatto oculare, movimenti del corpo, atteggiamento rilassato.

Abilità di comunicazione verbale: Messaggio in prima persona. Il “tu” è l’attacco che mette in fuga es.” Tu sei maleducato” e innalza le barriere alla comunicazione.

Comunicazione delle emozioni personali: es. “ Mi sento triste quando non mi saluti”

Precisione : esprimere con chiarezza ciò che si desidera. L’uso degli aggettivi qualificativi genera confusione; Es.: “Voglio che tu sia più affettuoso” Affettuoso per uno significa una cosa e per l’altro ne significa un altra; meglio quindi essere più precisi e dire ad esempio: “Vorrei che mi abbracciassi più spesso” (dichiarare ciò che si desidera).

Dichiarare almeno un aspetto positivo della relazione: Parlare prima di qualcosa che va bene , per dire poi ciò che non va bene. Es. “Non disconosco l’importanza della nostra relazione, ma ho bisogno di vedere anche altre persone”. Questa modalità infatti , abbassa le difese in chi ascolta. Ciò comporta pensare prima agli aspetti positivi della relazione, per meglio affrontare e non generalizzare, l’aspetto negativo.

L’ascolto empatico

La non universalizzazione del problema: non confondere la parte con il tutto, non generalizzare, non applicare stereotipi.

Un’ulteriore abilità relazionale fondamentale nella gestione delle risorse umane è quella di essere consapevoli e quindi, di evitare quelle che Gordon ha identificato come “le 12 barriere alla comunicazione”.

1.9 LE BARRIERE ALLA COMUNICAZIONE di T. Gordon Quando una persona ha un problema, spesso l’ascoltatore si precipita ad “aiutarlo”, riempiendolo di buoni consigli, di insegnamenti frutto dell’esperienza, o di domande volte ad “accertare i fatti”. A dispetto delle buone intenzioni, questi tentativi, non di rado, peggiorano il problema, invece di risolverlo e impediscono una comunicazione spontanea da parte della persona in difficoltà. Analizziamo brevemente, pertanto, quelle che Gordon ha identificato come le tipiche dodici reazioni che si scatenano di fronte ad un problema di comunicazione e che finiscono col diventare vere e proprie “barriere” quando la persona ha un problema. Quando il rapporto si muove nell’area non problematica, molte di esse perdono la loro valenza negativa e sono anzi, appropriate e costruttive( ad esempio fare domande, scherzare, insegnare), altre invece,come prendere in giro e canzonare sono sempre rischiose, essendo spesso fonte di problemi per la persona. In sintesi,

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tuttavia, tutte sono accomunate dalla tendenza a ridurre il “potere personale”dell’altro e rappresentano quindi, una efficace strategia di contro-empowerment.

1. DIRIGERE, DARE ORDINI: “Smetti di...”

2. MINACCIARE, AMMONIRE: “Se lo fai...te ne pentirai.”

3. PREDICARE, MORALEGGIARE: “Non dovresti reagire così.... È bene che tu...La pazienza è una virtù che dovresti imparare...”

4. CONSIGLIARE, OFFRIRE SOLUZIONI: “”Fai come dico io”, “Segui il mio consiglio e non te ne pentirai”...

5. INSEGNARE, ARGOMENTARE, PERSUADERE: “È qui che ti sbagli... Il fatto è...Ti spiego tutto io...”

6. GIUDICARE, CRITICARE, CONDANNARE, BIASIMARE “Non sei ragionevole, sei soltanto pigro... sei tu che hai cominciato...”

7. ELOGIARE, ASSECONDARE: “Sei un fenomeno!...” “Hai ragione, quel lavoro è molto complicato...”

8. ETICHETTARE, RIDICOLIZZARE, UMILIARE

9. INTERPRETARE, ANALIZZARE, DIAGNOSTICARE: “So io perché...

10. RASSICURARE, CONSOLARE:”Non ti preoccupare, si risolverà tutto!” “Prendi la vita con filosofia!”

11. INTERROGARE, INQUISIRE: “Perché...? Che cosa...? Come..?.”

12. CAMBIARE ARGOMENTO, FARE DEL SARCASMO, CHIUDERSI: “Parliamo di cose piacevoli...“ “Vorresti rifare il mondo...”

1.9.1 Trasformare i conflitti in confronti“Non è difficile muovere obiezioni al discorso pronunciato da altri. Ben più faticoso è invece contrapporne uno migliore.” Plutarco

1.9.2 Il conflitto Il conflitto nasce dalla tendenza, di due o più soggetti in relazione tra loro a soddisfare i propri bisogni partendo da una posizione di totale soggettività.

La posizione soggettiva vuol dire che la persona è perfettamente in contatto con se stessa, è in contatto senza paura con gli altri ed è in contatto con l’ambiente. Si hanno quindi tre livelli di percezione conflittuale:

• percezione di sè

• percezione di sè in rapporto con gli altri

• percezione di sè in rapporto con gli altri nell’ambiente.

La teoria dei bisogni di Maslow dice che la deprivazione di uno specifico bisogno impedisce alle persone di poter evolvere verso il processo di autorealizzazione, Il mantenersi in contatto con i propri bisogni è quindi un elemento fondamentale di crescita personale e quindi di miglioramento della relazione fra sé e gli altri. Inoltre comprendere quali bisogni sono stati lesi o minacciati in una persona che vive una situazione di conflitto rispetto a un’altra è fondamentale per poter giungere a una soluzione costruttiva, che realizzi certi obiettivi comuni a tutti.

È bene quindi, se c’è un conflitto nel gruppo, che emerga. La gestione di un conflitto presuppone il coinvolgimento delle persone in conflitto.

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L’accordo cui si giunge deve dare ad entrambi la sensazione di aver fatto un buon accordo o un buon affare (soluzione “vinci-vinci”).

L’accordo quindi è buono se lascia entrambe le parti soddisfatte.

Tutto questo è alla base dell’efficienza, dell’efficacia e dell’ economicità dell’organizzazione.

Può accadere che siano tante le persone a lamentarsi e in tal caso il dirigente rischia di uscire confuso perché il conflitto da gestire è più complesso.

In questi casi è opportuno riunire le persone e sentirle in gruppo. Per fare in modo che la riunione di gruppo sia produttiva è necessario strutturarla nel seguente modo:

• Aprire il gruppo menzionando il problema,

• Dettare le regole del gruppo,

Le regole sono:

1. Il tempo complessivo da dedicare al problema

2. Chi parla si autoregola rispetto al tempo che si dà, (tenendo presente che anche gli altri hanno il diritto di parlare)

3. Chi ascolta non interrompe e aspetta il suo turno per parlare

Vedremo in seguito come una situazione di conflitto si può trasformare in una situazione di confronto attraverso la “facilitazione” quale mezzo di comunicazione efficace.

1.9.3 Modi di risolvere un conflitto I modi più ricorrenti di risolvere un conflitto sono i seguenti:

1. Metacomunicazione: Consiste nel mettersi fuori dalla situazione e rendersi conto di come si sta comunicando. Si tratta quindi, di spostare l’attenzione, dall’argomento del conflitto, al modo in cui le persone stanno interagendo.

2. Ristrutturazione: Sulla base del risultato della metacomunicazione, si ristruttura la relazione.

3. Disarmo unilaterale: Cedere, andarsene, dopo di che l’altro cede improvvisamente anche lui.

Alcune persone hanno bisogno del conflitto per sopravvivere; se l’altro improvvisamente riconosce loro la superiorità e se ne va, le lasciano sole e quindi finiscono col cedere anche loro.

4. Rivolgersi a un terzo. È una terza persona che interviene a risolvere il conflitto.

La soluzione di un conflitto generalmente è una delle funzioni del Leader.

Vi sono tre tipi di Leader all’interno di un gruppo.

1. Leader gerarchico con leadership gerarchica, il quale viene consegnato al gruppo dall’istituzione.

2. Leader affettivo che, presiede le dinamiche del gruppo e cioè la parte emotiva del gruppo. Ha la funzione di coagulare il gruppo.

3. Leader tecnico competente in campo tecnico. All’interno del gruppo ci sono due funzioni di potere: di produzione (es. produrre riflessioni); di facilitazione (prevenzione e soluzione dei conflitti).

Vedremo più approfonditamente la funzione di facilitazione. Ma prima di passare alla funzione di facilitazione è opportuno esaminare un passaggio intermedio, conviene cioè fermarsi un momento sullo stile di comunicazione del dirigente che è l’elemento di base di una buona facilitazione.

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1.9.4 Come un conflitto si trasforma in confrontoPer comprendere il confronto è necessario raccordarci ai conflitto e ad un concetto fondamentale: la teoria dei bisogni.

La teoria dei bisogni dice che la deprivazione di uno specifico bisogno impedisce alle persone di poter evolvere verso il processo di autorealizzazione.

Questo vale per i bisogni di base di cui parta MASLOW ossia per quei bisogni che sono connaturati con l’esistenza e con l’organizzazione della personalità dell’uomo. Ma dai bisogni base partono tanti micro-bisogni che sono legati alla soggettività di ognuno (es. il bisogno di cibo è comune a tutti ma altrettanto non lo è il bisogno di cioccolato). I micro-bisogni sono legati ai costrutti e cioè al quadro di riferimento interno che ha ogni persona come sistema di valori.

Questo bisogno è legato al costrutto di quella persona che gli dice che è disdicevole. avere un rimprovero). Ora, questo costrutto può essere rigido se quella persona sempre e comunque considera disdicevole avere un richiamo, oppure flessibile se il rimprovero può essere più o meno accettabile secondo delle situazioni.

Il problema sorge quando il costrutto è rigido, perché impedisce alla persona di valutare adeguatamente quel suo bisogno.

Ad es. posso anche scegliere di prendermi e sostenere un rimprovero, se la richiesta che mi è stata fatta non mi consente di darmi il tempo che mi occorre per preparare la relazione. In questo caso infatti il costrutto è flessibile e quindi anche il bisogno di finire presto la relazione si modifica.

Vi sono quindi due categorie alla base di possibili conflitti: bisogni e costrutti rigidi (difficilmente modificabili).

Se una persona ha un bisogno è disposta a trattare entro certi limiti, perché tanto più il bisogno è forte, tanto meno la persona è disposta a trattare, in quanto il bisogno determina un restringimento dell’area di interazione con gli altri, limitato soltanto al campo di soddisfacimento del bisogno.

Ad es. se si ha sonno, non si riuscirà ad ascoltare, se qualcuno parla. Ciò significa che può esistere una disponibilità potenziale ad entrare in contatto con l’altro, ma non in quel momento. Inoltre la persona è poco disposta a trattare se il suo bisogno si regge su un costrutto rigido.

In una situazione di conflitto quindi è presente la frustrazione di uno o più bisogni che spesso si fondano su costrutti rigidi. In questi casi le persone si relazionano con una temperatura emozionale alta che non solo restringe il campo relazionale, ma anche la sfera cognitiva.

Una strategia di trasformazione del conflitto in confronto è la metodologia del rimando empatico.

1.9.5 La metodologia del rimando empatico: la funzione di facilitazione Il presupposto teorico del rimando empatico si basa sul seguente schema.

L’altro si trova in una situazione di alta temperatura emozionale, perché non riesce a riorganizzare le sue esperienze in termini di coscienza in quanto ha delle grosse barriere a livello di congruenza che gli impediscono di fare questa operazione. L’incongruenza è infatti esattamente l’ostacolò alla fluidificazione della comunicazione tra il livello emozionale ed il livello cognitivo. Le persone iper-razionali o iper-emotive sono normalmente persone poco congruenti, hanno blocchi di comunicazione, cioè non sono capaci di fare quell’operazione circolare che consenta loro di ristabilire l’equilibrio. Appena si avverte un ingorgo emotivo nel senso di sentirsi sotto stress, a causa di un eccesso di emozione, viene spontaneo fare per un attimo un passo indietro dalla situazione. che crea sovrabbondanza emotiva e cercare di fare un’operazione di riorganizzazione cognitiva; cercare cioè di rendersi conto di quello che è successo fuori e dentro di sé.

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Questo consente di abbassare il livello di tensione emozionale, di ristabilire, almeno parzialmente l’equilibrio e di andare avanti senza crollare. Ma se ciò non è possibile, interviene il facilitatore, che percepisce le emozioni della persona che vive l’ingorgo emotivo, le rielabora a livello cognitivo e gliele restituisce. E molto importante il concetto espresso dalla frase:

“mi sembra di capire che...”

Ciò vuol dire: “mi sembra di capire le tue emozioni”. Comprendere significa infatti, impegnare il livello cognitivo e il metamessaggio che passiamo alla persona è: “in questo momento mi sto rendendo conto che tu non sei in grado di farlo; provo a farlo io, con tutti i rischi di sbagliare. Dato che io sono fortemente in contato con te, mi viene in questo modo, guarda se ti va bene”

Se la persona dice: “Ah, si è vero”, c’è una ripresa di contatto con il proprio sé e si abbassa il livello emozionale.

1.9.6 Il confronto inefficace Facciamo l’ipotesi di due persone che interagiscono e delle quali una è in una situazione di crisi, con temperatura emozionale alta e quindi non riesce ad esprimersi chiaramente, perché l’ingorgo emotivo le impedisce di portare le sue emozioni sul livello cognitivo, impedendole altresì di trasmetterle all’altro.

Ora se l’altro non è in grado di fare il rimando empatico continuerà a reiterare la modalità che aumenta la crisi, dicendo ad es.: “perché non parli? io voglio sapere perché... Perché non mi spieghi?”

A questo punto si avrà nel soggetto sotto stress un ulteriore aumento della temperatura emozionale, fino a che questa non raggiunge il livello di guardia.

Dentro ognuno c’è sempre un trasformatore di sicurezza che può agire o in senso estroverso e allora è probabile un, acting-out (urlare, spaccare tutto) o può capitare che la persona implode ossia tende a considerare che qualunque confronto con l’esterno è minaccioso; che è meglio lasciar perdere e quindi è meglio chiudere l’emozione dentro di sé sviluppando disistima verso l’esterno. Si. sente di non essere in grado di risolvere niente, di doversi arrendere all’ingorgo emotivo e può sprofondare in una forma depressiva o anche in una somatizzazione (non riesce a vedere l’implosione e la riporta fuori in maniera mascherata).

Vediamo perché è successo questo. Molto probabilmente è successo perché la persona è andata involontariamente a scontrarsi o con dei bisogni insoddisfatti, o è andata a negare dei valori che erano fondamentali per lei, ma che non era in grado di esternare a causa dell’ingorgo emotivo. In tal caso può agire in due maniere che rappresentano due modalità di confronto inefficace.

1) Cedere alle pressioni dell’altro, adeguarsi passivamente, entrare in una sindrome di burn-out (diventare come un legno secco, fare tuffo quello che l’altro vuole) per spegnere il livello di emozione. Il livello di conflittualità che i due protagonisti della relazione hanno vissuto continuamente, è stato tale che uno di [oro ha deciso di spegnere la luce come ultima ancora di salvezza, prezzo altissimo, ma se non faceva così le conseguenze sarebbero state molto più gravi. Questa situazione si può definire come una soluzione inappropriata o inefficace di un conflitto. Attraverso un metodo di confronto basato sulla Logica “perdi-vinci’”, la persona ha dato tuffo il potere all’altro, ha deciso di non essere in grado di contrastare il suo comportamento, ha sviluppato un rancore profondissimo nei confronti dell’altro e magari l’altro è inconsapevole di ciò.

La persona ha deciso che l’unica soluzione è mollare tutto. Ha deciso che preferiva perdere. Ha scelto la soluzione “perdi-vinci” e cioè di subire l’altro.

2) Decidere che per salvarsi la vita deve fermare l’altro e per fermarlo deve distruggerlo, cioè attaccarlo su dei punti fragili in maniera tale che questi entri nella dimensione che vuole evitare. Quindi lo contrattaccherà con molta violenza ogni volta che cerca di esprimere qualcosa nei suoi confronti.

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Anche questo sistema ha un prezzo molto alto. Immaginiamo che sorta di rancore e aggressività l’altro può sviluppare pensando: “io parlavo con te e dicevo quello che pensavo, e tutte le volte che dico qualcosa tu mi dai contro e poi alla fine mi escludi”.

Queste due modalità sono molto sistematicamente adoperate non soltanto nelle relazioni interpersonali, ma in tutte le relazioni di tipo sociale, anche nelle aziende e sono le due modalità che si basano sulla logica “vinci-perdi”, che parte purtroppo da un presupposto acquisito mentalmente che sembra dire: “in una situazione di conflitto non c’è niente da fare; se in qualche maniera si agisce in modo da dare ragione ai bisogni ed ai valori di uno, automaticamente devono essere negati i valori dell’altro” Ma quando si dice: “si deve ... devono essere... si sta esprimendo un costrutto rigido collettivo, che, nell’arco di anni si. è ben consolidato.

E cosi tutta la società, che si regge sui rapporti di potere.

1.9.7 Il confronto efficace: il messaggio in prima persona In una situazione di conflitto è meglio vincere che perdere. E meglio l’uso del potere, comunque esso sia, dell’altro atteggiamento, che è quello della remissione, del subire. L’uso del potere permette di raggiungere gli obiettivi prefissati. Molto spesso però noi siamo portati ad avere timore di vincere e quindi decidiamo di perdere, salvo che pensiamo che perdere sia più innocuo che vincere. Ma quando uno dei due cede, in base alla logica “vinci-perdi”, colui che ha vinto (proprio perché ha fatto si che l’altro perdesse) può rischiare di mettere in crisi la relazione. In una situazione di conflitto, entrambe le parti hanno i seguenti obiettivi:

1. volere che siano soddisfatti i propri bisogni;

2. volere che siano rispettati i propri valori.

Premesso che il rispetto dei propri bisogni e dei propri valori è l’obiettivo fondamentale di ciascuno, si vuole anche, quando la relazione è importante, cercare il più possibile di mantenere forte la relazione e di trovare quindi una soluzione che rispetti oltre ai propri, anche i bisogni e i valori dell’altro.

Quando le parti sono coinvolte in una relazione che può essere, per vari motivi importante, non conviene a nessuno dei due né vincere, né perdere, perché in tal caso la loro relazione ne uscirebbe o rotta o inquinata. Vi è quindi la intenzionalità a proteggere la relazione.

È proprio questa intenzionalità l’elemento che innesca una modalità di confronto efficace.

Intenzionalità vuol dire essere intenzionato ad agire, cioè essere intenzionato ad attuare delle modalità, a definire dei piani di azione, a fare qualcosa. Intenzionalità vuol dire posizionarsi su se stessi, esprimendo il proprio potere personale: “sono io che agisco, mi prendo le responsabilità, io corro il rischio perché io sento che ho un bisogno negato, perché io sento che voglio modificare la situazione che nega il mio bisogno; io sento che c’è una relazione importante e la voglio mantenere quindi mi assumo la responsabilità di prendere le iniziative per modificare questa situazione che si è creata”. Intenzionalità vuol dire parlare in prima persona, autorivelarsi cioè utilizzare se stesso come strumento per modificare la relazione.

La relazione in quel momento funziona male perché in essa sono canalizzati quei comportamenti dell’uno che negano i bisogni dell’altro, colui che sente i propri bisogni negati, se vuole che questi siano riconosciuti senza però, mettere in crisi la relazione, deve comunicano all’altro, facendo, si che questi non si senta minacciato

Se l’altro non si sente minacciato infatti potrà a sua volta usare il suo interlocutore, adottando il comportamento di questi, come modello, per cercare, entrando in sintonia con lui, di modificarsi.

Per fare questo, se si vuole cioè mantenere una relazione con una persona in maniera tale che questa persona non si senta minacciata e indurre in esso l’intenzionalità a modificare il suo comportamento, tenendo conto

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dei bisogni e dei valori dell’altro, allora occorre informare questa persona, bisogna dirglielo. Una delle difficoltà di comunicare all’altro la propria intenzionalità alla relazione è partire da un atteggiamento di diffidenza. Diffidenza significa avere la convinzione che non serve a nulla confrontarsi con quella persona, perché non cambierà mai. E importante quindi vincere questa diffidenza, poiché autorivelarsi cioè partire da un atteggiamento di fiducia nel poter influenzare l’altro, fa si che si possa trovare la capacità di entrare in contatto con se stesso e farsi vedere dall’altro. In un’ottica di franca autorivelazione è molto importante esprimere se stessi nella maniera più chiara possibile.

Nel momento in cui il parlante fornisce informazioni, è molto importante che dia le informazioni relative al fatto specifico che gli determina quella situazione di conflitto e che quindi gli determina bisogni (valori negati in quella particolare situazione e non in tutto il suo universo).

Il parlante deve contestualizzare ciò che dice, alla situazione specifica. Contestualizzare significa dire “oggi, in questo momento ti stai comportando cosi” che è molto diverso dal dire: “ti comporti così”. Questa ultima affermazione contiene infatti una generalizzazione e può far sentire la persona ferita nella propria autostima e quindi minacciata e pronta a difendersi per partire all’attacco e innescare un nuovo conflitto. Riepilogando quindi, un confronto efficace che abbia come obiettivo il rispetto e la soddisfazione dei propri bisogni valori, il rispetto e la soddisfazione dei bisogni-valori dell’altro e l’intenzionalità a proteggere la relazione, necessita di un atto di autorivelazione, formulato attraverso il messaggio in prima persona e della contestualizzazione dì quanto il soggetto esprime a proposito di sè e della situazione su cui si va a confrontare e dell’altro soggetto della relazione.

1.10 Conclusione La funzione di facilitazione deve essere svolta da persone adeguatamente formate in tal senso e queste persone possono essere i dirigenti delle strutture o i loro diretti sottordinati, per i conflitti inerenti ai soggetti da loro diretti. Concludendo, la facilitazione del conflitto, così come ogni altro mezzo di comunicazione efficace è uno strumento molto importante della competenza relazionale nella gestione delle risorse umane poiché:

1) riduce notevolmente il livello di conflittualità, aumentando la coesione interna.

2) migliora il benessere all’interno di un gruppo, quindi di riflesso, anche la produttività;

3) aumenta il livello di consapevolezza individuale e quindi la crescita che nasce dal confronto tra il proprio punto di vista e quello dell’altro; una visione alterocentrica della vita è infatti essenziale ad ampliare la propria ottica di riferimento.

In una società in continua evoluzione è essenziale tener conto della crescita individuale e della salute mentale dei suoi componenti e salute mentale significa anche consapevolezza, responsabilità e crescita, nonché capacità di gestire il cambiamento all’interno di un equilibrio dinamico.

Gestire le risorse umane significa infatti avere come obiettivo il miglioramento della qualità del prodotto-servizio, migliorando la qualità delle persone.

Solo in questo modo si potranno avere risultati positivi, stabili e duraturi all’interno di un’organizzazione. E vero che per realizzare la qualità totale bisogna raggiungere la soddisfazione del cliente-utente, ma a ciò si arriva anche utilizzando risorse umane adeguatamente motivate e attivate nelle loro potenzialità, quindi anche riconosciute, responsabilizzate e premiate. La qualità totale è, quindi anche la qualità del rapporto dipendente amministrazione in una dimensione di professionalità adeguata ai tempi e alle esigenze di una società in continuo cambiamento.

È da dire però che il presupposto di una professionalità profonda, completa è una identità equilibrata e bene

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integrata, cioè gratificata nei suoi bisogni di base (Maslow).

L’evoluzione dell’uomo, nel senso ontogenetico, passa attraverso vari processi di ristrutturazione cognitiva in base alle esperienze e ai contesti ambientali in cui lo stesso si esprime. Nell’interazione tra individuo e ambiente, vi è una reciproca influenza, così anche nel rapporto dipendente/organizzazione una persona può concorrere a cambiare il proprio contesto lavorativo (organizzazione) e da questo può essere cambiata.

Ciò significa che ad ogni età e in ogni momento della vita, un atteggiamento favorevole, facilitante, che sappia riconoscere e attivare le potenzialità umane, può innescare elementi di crescita nell’individuo.

Un’organizzazione lavorativa “facilitante” può quindi, influenzare positivamente non solo l’evoluzione professionale dei suoi componenti, ma anche la loro dimensione psicologica, in quanto agisce al livello dei loro bisogni e delle loro motivazioni.

1.11 I laboratori formativiI laboratori formativi si stanno sempre più affermando come nuovi strumenti didattici. Oltre alla lezione frontale, quella in cui il docente o il formatore spiega la “lezione” a una classe di alunni che interiorizzano nuove nozioni, è possibile ricorrere ai laboratori formativi.

Dal 2009, con il PNSD, il ministero per l’istruzione (il Miur) ha destinato una serie di fondi per offrire agli studenti ambienti di apprendimento innovativi, le “classi 2.0”. Il fine è di realizzare dei laboratori didattici. Oltre al ricorso a strumenti tecnologici come computer, LIM, proiettori interattivi, connessioni, device fissi e mobili in dotazione a studenti e docenti, il laboratorio si basa sull’impiego di nuove metodologie di apprendimento. L’intento è mettere al centro la didattica laboratoriale, come punto d’incontro tra sapere e saper fare. I laboratori quindi non sono solo dei contenitori di tecnologia, ma piuttosto “luoghi di innovazione”: finora le pratiche laboratoriali sono state relegate alle ore extra-scolastiche, mentre la riforma le vuole mettere al centro dell’attività didattica curriculare.

La rilevanza pedagogica del laboratorio è di essere un modello didattico che crea delle dinamiche di socializzazione alternative a quelle esistenti nelle aule scolastiche, essendo basato sull’apprendimento attivo dei suoi partecipanti, sull’imparare facendo.

Esso mette in relazione tre diversi concetti: quelli di attività, spazio e oggetto. Infatti un laboratorio, volendo dare una prima definizione, mette insieme più persone affinché, svolgendo un’attività nello stesso spazio fisico, possano acquisire una maggiore conoscenza dell’argomento oggetto del laboratorio stesso.

Il concetto alla sua base è che si possa programmare un’attività comune affinché sia promossa la creatività individuale. Un sistema educativo che integri i tradizionali metodi d’apprendimento con le nuove strategie laboratoriali può rivelarsi utile per la trasmissione della conoscenza. La teoria, quindi, non viene necessariamente prima della pratica, ma vanno di pari passo, a dimostrazione di come sia possibile partire dallo svolgimento di un’attività per giungere a delle conoscenze che hanno a che fare con un sapere più “universale”.

1.11.1 Imparare facendo: il concetto alla base di ogni laboratorio didatticoIl laboratorio didattico prevede che l’apprendimento non sia il prodotto di un processo d’insegnamento, bensì un percorso in cui il partecipante si attiva facendo direttamente delle esperienze. Quello che qualifica un laboratorio, quindi, è il modo in cui una determinata attività è svolta. Insomma, il laboratorio definisce una spazialità di situazione più che di posizione. Esso è paragonabile più a una situazione didattica che a uno spazio fisico determinato. Nella didattica di senso comune, si crede che l’alunno

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possa imparare ascoltando, si pensa quindi che la conoscenza sia trasmissibile attraverso le parole. Ovviamente, esiste un ascolto attivo, quello in cui l’alunno cerca di collegare le proprie esperienze e conoscenze con il contenuto della comunicazione. Il laboratorio didattico, invece, prevede un lavoro personale su un determinato tema o problema, attivando la fantasia, l’atteggiamento di esplorazione e la curiosità. L’apprendimento dall’esperienza è un processo di costruzione individuale e quindi un elemento necessario della formazione. Ogni membro di un laboratorio è coinvolto attivamente nel fare e questo si rivela un utile strumento per lo sviluppo del pensiero creativo. Uno dei compiti della scuola è avviare le generazioni future sia verso la conoscenza della cultura tradizionale sia di attivare processi di sviluppo e di adattamento ai cambiamenti in atto nel mondo globale. Gli individui devono quindi imparare a produrre delle idee personali attraverso lo sviluppo del pensiero creativo per poi condividerle con altri.

1.11.2 L’insegnamento nei laboratoriNell’insegnamento sotto forma di laboratorio, gli alunni possono apprendere in modo casuale, poiché non sono loro forniti degli obiettivi e dei contenuti rigidi. Inoltre, ognuno può soffermarsi per il tempo che ritiene opportuno su un determinato problema. Ciò è molto importante perché consente di rispettare l’eterogeneità degli stili cognitivi, proprio perché ogni alunno può rapportarsi in modo personale a un determinato contenuto. L’impiego di metodi didattici centrati sull’alunno non necessariamente crea un clima concorrenziale. Le idee, le sollecitazioni e gli aiuti possono manifestarsi in modo cooperativo nel rispetto delle soggettività.

L’insegnamento all’interno di un laboratorio presenta anche il vantaggio di trattare i contenuti in modo interdisciplinare. Secondo la didattica laboratoriale gli studenti lavorano insieme alla realizzazione di un prodotto che è un pretesto per imparare. In questo modo, si rompe la struttura che vede ogni materia come a sé stante, perché le varie discipline sono analizzate come funzionali a degli scopi specifici come la realizzazione di un prodotto. Partendo dalla prospettiva isolata di una singola materia, è quindi possibile trattare i contenuti globalmente. Il laboratorio, inoltre, è lo spazio in cui sperimentare personalmente l’apprendimento. Ciò impone la democrazia come suo principio cardine. Il dubbio è quindi legittimo in una situazione laboratoriale, anzi è uno stimolo all’approfondimento analitico. Non solo, porsi dei problemi e imparare ad ascoltare le idee altrui sono degli elementi essenziali per creare quel confronto che stimola la riflessione e quindi l’apprendimento.

1.12 L’uso partecipativo e inclusivo del video nei laboratori didattici

L’uso della videocamera e il processo di espressione attraverso il video nei contesti formativi, oltre a incoraggiare l’interazione e la cooperazione (tra i ragazzi e tra i ragazzi e i docenti), può aiutare la persona a esplorare il proprio mondo interiore, favorendo l’acquisizione di una maggiore consapevolezza della sua condizione psicofisica. Incoraggiando i partecipanti a esaminare e sviluppare le loro idee, il video diventa lo strumento privilegiato per comunicare il proprio punto di vista a un pubblico più vasto. Lavorando in gruppo per creare un video, la classe prende decisioni, elabora programmi e acquisisce un maggiore senso di responsabilità proprio attraverso la comunicazione espressiva. Infatti, durante il processo di realizzazione del video, i partecipanti hanno l’opportunità di scoprire le loro capacità espressive, così da sviluppare un atteggiamento più attivo e un senso di auto-efficacia anche in altre aree della loro vita.

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1.12.1 L’interazione comunicativaLo sviluppo dell’identità personale all’interno di un gruppo si fonda sulla comunicazione tra i partecipanti. La presenza stessa dell’attrezzatura video, infatti, è in grado di incoraggiarla in modo diretto e intenzionale contribuendo anche a sviluppare le loro abilità comunicative.

Il lavoro di gruppo non può prescindere dalla discussione nonostante diventi conflittuale, non essendo, come spesso succede, in vista di un obiettivo comune. L’uso del video partecipativo sviluppa una discussione in senso critico, conferendo a questo processo significato e rilevanza.

L’obiettivo comune (la produzione del video) garantisce a tutti i membri di un gruppo la possibilità di esprimere idee e opinioni, evitando che alcuni monopolizzino la discussione e altri rimangano in silenzio. Di conseguenza, l’intero gruppo è partecipe della comunicazione.

1.12.2 La partecipazione come inclusioneLa partecipazione implica un coinvolgimento attivo: fare piuttosto che osservare. Partecipare, anche svolgendo un ruolo secondario, significa cooperare con altre persone per prendere decisioni, definire obiettivi, fare un programma e agire. Stimolare la partecipazione è uno dei principali scopi del lavoro sullo sviluppo. I partecipanti, infatti, devono essere incoraggiati a valorizzare la spontaneità e a conservare il loro punto di vista in modo che anche i più esitanti possano scoprire di riuscire a comunicare.

Il ricorso allo strumento visivo aumenta la partecipazione individuale. Questo accade perché si possono approfondire temi strettamente connessi con la vita soggettiva di ognuno che è così posto al centro di un’azione “sentita” e non predefinita.

L’obiettivo è dare il controllo del processo al gruppo, fornendo una strutturazione senza imporre contenuti. Con questi presupposti il video diventa uno strumento partecipativo: può essere usato per stimolare i processi di sviluppo, per dare coesione al gruppo e per motivarlo a un coinvolgimento maggiore.

1.12.3 Lo sviluppo individualeLo scopo del video partecipativo è stimolare la crescita individuale attraverso il lavoro di gruppo: la registrazione delle proprie idee favorisce un processo di definizione del “sé” poiché il video serve da specchio e stimola la riflessione. Infatti, il fatto stesso di riprendere una persona è un processo di valorizzazione: l’obiettivo della telecamera la fa “emergere” dalla massa riconoscendola come individuo. Inoltre, tutti i membri del gruppo contribuiscono al materiale registrato, diventando consapevoli dell’importanza delle loro idee e sono così stimolati a esprimere efficacemente le loro opinioni.

La produzione di video permette di acquisire varie abilità tecniche, creative e sociali, ma quello che più importa è che ai partecipanti sia data la possibilità di misurarsi in una nuova sfida spontanea ed espressiva, non “preconfezionata”, grazie alla quale possono acquisire maggiore fiducia in se stessi, migliorando la propria autostima.

1.12.4 Senso di comunitàIl video partecipativo permette lo sviluppo di una solida identità di gruppo promuovendo la fiducia, la comprensione, la cooperazione e la coesione. Attraverso gli interessi condivisi e i rapporti interpersonali che nascono durante questo processo creativo, i partecipanti acquisiscono un senso di appartenenza e fiducia. Da questa posizione di sicurezza, e grazie alla condivisione d’interessi e obiettivi comuni, essi possono

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esplorare anche le loro aree di differenza. Questo può migliorare la comprensione reciproca e l’accettazione delle differenze.

Inoltre, creare un video è un’attività di squadra che favorisce la cooperazione e la coesione. I partecipanti, infatti, devono programmare il lavoro e prendere le decisioni di comune accordo.

1.12.5 Senso critico e consapevolezzaUtilizzato come forma di esplorazione strutturata, il video aiuta a sviluppare e organizzare le idee, aumentando così la consapevolezza. Non è necessario lavorare mesi per realizzare un video partecipativo: è con la pratica diretta che è possibile imparare a conoscere questo mezzo di espressione.

Man mano che il progetto progredisce la capacità dei partecipanti di rappresentare loro stessi in modo efficace aumenta, perché sono portati ad adeguare lo stile e il linguaggio da adottare nel video al pubblico di riferimento.

1.12.6 Benefici e arricchimento Senza avere la pretesa di formare dei “videomaker” professionali, una minima dimestichezza operativa con i linguaggi audiovisivi rappresenta un valore aggiunto apprezzabile nel curriculum formativo di un giovane: come avviene per tutti i linguaggi dell’uomo (verbale, mimico-gestuale, scritto, pittorico, architettonico, e così via), anche i linguaggi audio-visivi possono essere compresi e apprezzati a un livello più profondo e consapevole nel momento in cui ne è sperimentata la produzione.

Infatti, quando gli studenti partecipano attivamente alla realizzazione di un video, acquisiscono la capacità di vedere film e Tv in chiave più critica. In questo modo, sono minimizzati i possibili effetti negativi della televisione.

I membri di un gruppo sono coinvolti in azioni concrete e non sono più dei semplici spettatori: anziché osservare luoghi lontani, sullo schermo vedono se stessi, invece di sorbire passivamente un flusso infinito d’immagini e informazioni, fermano il nastro, lo riavvolgono, lo fanno ripartire, lo studiano. All’interno del gruppo non c’è isolamento ma interazione poiché l’esperienza diretta delle cose li incoraggia a sviluppare le proprie opinioni invece di pensare con la testa degli altri.

In sintesi, lo scopo dell’uso partecipativo del video è trasformare il senso d’impotenza in auto-efficacia e di stimolare i partecipanti a esercitare un controllo maggiore sulla propria vita. Il video, attraverso il gioco e la rappresentazione, offre la possibilità di mettersi in gioco “come se” fosse nella vita reale.

Siti di riferimento per un approfondimento del tema “laboratori formativi”, esempi e possibilità.

www.i-theatre.org

http://pearson.it/didattica-laboratoriale-esempi-modelli

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www eipass com