REGIONE PUGLIA · 2015. 7. 1. · senza di EDICOLE SACRE in tutti i Comuni del distretto(con i...

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    REGIONE PUGLIAAssessorato alla Formazione Professionale - Politiche dell’Oc-cupazione e del Lavoro - Cooperazione - Pubblica Istruzione -

    Diritto allo Studio - Settore Pubblica IstruzioneC.R.S.E.C. - LE/48 Via Minniti, 16

    GALLIPOLI

    Coordinamento editoriale: CENTRO REGIONALE SERVIZI EDUCATIVI ECULTURALI

    Dirigente Responsabile: PASQUALE SANDALO

    La presente pubblicazione è frutto di un progetto di studio e ricerca, coordinato daElio Pindinelli, cui hanno partecipato:

    ANTONIO MASTORE, MARIA BONSEGNA, LUCIA RIA, MARCELLA MECCA,COSIMO PERRONE, LAURA LETIZIA, GIORGINA SIMONE.

    I testi sono stati curati da Cosimo PERRONE

    Foto: Mario Milano, Piero De Vita, Luigi Fumarola, M. Maggio, Elio PINDINELLI,Cosimo Perrone, G. Perrone. Materiali fotografici sono stati forniti anche dalle Confraternite.

    Impaginazione e grafica by EPStampa: Tip. CORSANO - ALEZIO

    La presente pubblicazione è destinata a biblioteche pubbliche e private, archivi e cen-tri di documentazione.

    Tutti i diritti riservati

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    REGIONE PUGLIA - C.R.S.E.C. LE/48 GALLIPOLI

    Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli

    Tra storia, mito e leggenda

    (Testi a cura di Cosimo PERRONE)

    GALLIPOLI 2003

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    PRESENTAZIONE

    Una nuova pubblicazione del C.R.S.E.C. di Gallipoli va ad ag-

    giungersi a quelle già edite negli anni passati. Si rafforza in questo modo una

    linea di continuità ed emerge, con sempre maggiore evidenza, lo scavo che

    gli operatori del Centro hanno finora condotto e continuano a condurre sul

    territorio.

    Ha curato i testi di quest’ultimo lavoro, Cosimo Perrone, non

    nuovo a questo tipo di interessi. Egli si è avvalso del prezioso lavoro di tutti

    i colleghi, nell’ambito di un progetto di approfondimento e ricerca coordi-

    nato da Elio Pindinelli con la sua riconosciuta preziosa competenza storica

    ed editoriale e al quale va il nostro più sentito ed apprezzato ringraziamento,

    ancor più significativo per il suo disinteressato contributo.

    La ricerca del C.R.S.E.C. è quindi frutto delle professionalità

    maturate in lunghi ed intensi anni di attività. Un patrimonio questo che non

    andrebbe disperso ma giustamente valutato e valorizzato. Esso rappresenta

    il frutto dell’azione di un gruppo che interagisce intelligentemente, che dialoga

    con chi ha conoscenze ed esperienze sugli argomenti trattati, che esplora

    nuove possibilità di sistemazione e di interpretazione dei materiali reperiti e

    studiati. Un egregio lavoro, dunque, che sono orgoglioso di poter affidare

    all’apprezzamento di tutti come contributo del Centro alla crescita

    culturale del territorio

    IL DIRIGENTE RESPONSABILE

    Pasquale SANDALO

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    INTRODUZIONE

    Il C.R.S.E.C. di Gallipoli continua nella sua attività portandoun’attenzione sempre più vivace su quella che è la realtà e la cultura delterritorio. Tende, in tal modo, a rafforzare sia la consapevolezza dellafunzione di agenzia di educazione permanente e di promozione culturaleche esso riveste, sia una rete di iniziative i cui risultati sono leggibilinella loro continuità dopo anni di lavoro intenso ed appassionato sul suoterritorio di riferimento.

    I progetti fin qui realizzati hanno molto spesso trovato interlocutoriattenti e profondamente interessati negli Enti Locali. Un tale ascolto sispiega con la consonanza che si è prodotta tra le problematiche di voltain volta affrontate ed iniziative di ampio respiro promosse dai comuniricadenti nello spazio operativo del Centro.

    L’intento sempre perseguito e, sia detto senza presunzione, feli-cemente realizzato, è stato quello di interpretare, con profonda umiltà macon intelligenza, le esigenze culturali più avvertite di un’area territorialelimitata ma variegata nei suoi aspetti e di studiare con vigile spirito diricerca elementi diversi di una realtà meritevole di approfondite indagi-ni in campi differenti ma rilevanti per significatività.

    Il lavoro è sempre complesso e naturalmente nasce dall’impegnodegli operatori della struttura C.R.S.E.C. a tutti i livelli: ne scaturisconorisultati non solo sostanzialmente confortanti ma spesso lusinghieri cometestimonia l’accoglienza riservata alle iniziative promosse ed alle pub-blicazioni prodotte.

    Queste in parte, e soprattutto in riferimento alla fase conclusiva,documentano l’iter dei vari progetti.

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    Le pubblicazioni sono state curate dal Centro sotto la guida o conla consulenza di esperti di sicuro valore e di notevole prestigio e sioffrono come strumento di conoscenza e di approfondimento di aspetti divita e di cultura del nostro territorio.

    Si possono opportunamente ricordare alcuni degli argomenti do-cumentati dalle nostre pubblicazioni: L’ISOLA DI SANT’ANDREA (sirichiamava l’attenzione sui suoi aspetti paesaggistici ed ambientali cuioggi, in seguito ad accurate ricerche, quelli archeologici); CIVITASCONFRATERNALIS – L’esperienza Confraternale a Gallipoli in etàbarocca (studio su un tratto caratterizzante delle strutture del laicato cat-tolico nell’originale forma dell’istituzione delle “Confraternite”); la pre-senza di EDICOLE SACRE in tutti i Comuni del distretto(con i problemirelativi alla loro conservazione); I Messapi ad Alezio e nelle zone cir-costanti; I grandi palazzi di notevole pregio architettonico nel centro sto-rico di Gallipoli (DAL PARTICOLARE ALLA CITTA’ – Edilizia Ar-chitettura e Urbanistica nell’Area Gallipolina in Età Barocca) con atten-zione per il loro restauro e per la loro eventuale utilizzazione; la ricerca(in un certo senso collegata a quella sulla architettura urbana) sulle VilleExtraurbane presenti nei Comuni su cui ha competenza il Centro; l’inda-gine a tutto campo su Gallipoli e il suo mare.

    Sono, quelli ricordati in maniera molto rapida, ai quali si aggiun-ge il presente, tutti esempi dell’impegno profuso dagli operatori nell’af-frontare argomenti di largo respiro, in perfetta sintonia con le indicazio-ni dell’Assessorato Regionale alla P.I., e del consolidato e qualificatoruolo del nostro Centro nella realtà del Distretto.

    Quello che nella pubblicazione sulla realtà confraternale diGallipoli appariva solo come aspetto particolare di un disegno più vastoviene, in questa nuova pubblicazione, recuperato in una vasta trama diriferimenti a riti e tradizioni di origine sacra e profana. Non mancanosupporti storiografici ai quali attingere, ma il lavoro condotto dalC.R.S.E.C. ha voluto essere ancora una volta una “ricerca sul campo”

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    che si è valsa dell’ausilio di preziose, ed ormai sempre più rare, testi-monianze orali.

    Se i riti della Settimana Santa rappresentano il capitolo fonda-mentale di una adesione allo spirito di penitenza che trova il suo culminenella crocifissione (e i riferimenti sono negli statuti confraternali) , ilrapporto tra sacro e profano, con le sue interferenze, con i suoi aspetti diintercambiabilità (quale distanza appurabile si pone, talvolta, tra reli-gione e magia?) dà vita ad una miscela di elementi in cui anche l’azioneprofana appare permeata dal sacro e trova il suo testimone ed il suogarante nella figura del santo.

    La pubblicazione contiene un interessante corredo iconograficodi pregevole valore documentale.

    Questa nuova pubblicazione, infine, continua coerentemente undiscorso che, come si sarà potuto dedurre dai temi indicati, abbracciatempi storici diversi ed aspetti multiformi nell’ambiente di riferimentoma tutto riduce ad unità nella proposta educativa che sottende: di infor-mazione, di conoscenza, di stimolo ad una sempre maggiore consapevo-lezza dei valori del luogo in cui si vive rapportati a quelli che sono iproblemi della contemporaneità.

    Unitario lo spirito che informa la ricerca nel quadro di un “pro-getto” globale che vuole costantemente riferirsi alla realtà di ieri e dioggi coniugando passato e presente. Questo per fare sempre più intensa-mente avvertire come sia possibile raccostare sapienza di ieri ed esigen-ze dell’oggi: esigenze complesse non spiegabili nella loro complessitàse non si possiede un’idea chiara della propria storia e del camminopercorso.

    Antonio MASTORE

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    Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli

    Tra storia, mito e leggenda

    Nella storia di un popolo il mito e la tradizione, vanno certa-

    mente al di là della cronaca. L’uomo trova la sua identità e identifica-

    zione in quei segni che lo conducono alle sue radici, alle sue antiche

    origini, al concetto primordiale che è nel rapporto civiltà-destino.

    E’ così quindi che un popolo si cerca e si conosce attraverso

    l’individuazione dei segni, le tradizioni, i riti, il mito, le manifesta-

    zioni di culto. Sono queste, espressioni di saggezza maturate dalle

    generazioni precedenti e tramandate ai giovani.

    L’uomo, quindi, riacquista in un certo modo il suo tempo, per

    riappropriarsi della sua stessa memoria. Soltanto ritrovandosi que-

    st’uomo, sia pure avendo dimenticato in qualche modo la sacralità

    della festa, il culto dell’adorazione, la religiosità della processione,

    potrà entrare in possesso della sua memoria storica. Un popolo che

    perde la sua memoria storica è un popolo senza destino, che rischia

    l’estinzione.

    Occorre perciò recuperare il tempo ancestrale dell’uomo. Ed

    ecco allora il Natale, dalle valenze mitico-sacrali, i falò e le feste, la

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    tradizione dei fuochi, che riconducono ad un vissuto antico e ricco di

    voci e di simboli; riti religiosi come la Quaresima, e la settimana

    santa, che toccano aspetti non solo formali ma hanno una acutezza

    metafisica significativa.

    Da sempre riti e feste hanno scandito l’incedere del tempo.

    Gallipoli, per sempre esposta agli influssi di tantissime altre

    civiltà, mostra nei suoi segmenti di vissuto le componenti ancestrali

    determinate dalla sua storia, dalla posizione geografica, dal clima ed

    è perciò che nei riti e nelle manifestazioni di culto, troviamo un

    muscuglio di sacro e profano.

    Infatti, alcuni di questi affondano le loro radici nei riti di

    fertilità, apotropaici, propiziatori, liberatori e contengono elementi

    leggendari e storici, nonché elementi profani.

    Essi spesso rappresentano occasioni di aggregazione e di li-

    berazione da tabù e inibizioni, con i riti orgiastici, riti di difesa dal

    male, dalle calamità naturali ed umane, nonché spesso occasioni per

    dare sfogo alla naturale tendenza del popolo alla drammatizzazione,

    allo spettacolo, che si esprime nelle Sacre Rappresentazioni, nelle

    manifestazioni spettacolari, nelle occasioni agonistiche e di puro di-

    vertimento.

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    TRA FEDE E SUPERSTIZIONE

    Era abbastanza in uso, fino a circa quarant’anni fa, credere

    alle streghe e alle malìe. Per proteggere i bambini dal maleficio si

    era soliti attaccare sulle loro fasce, con delle spille francesi, dei

    cornetti di corallo o conchigliette. Senza trascurare di fare il segno

    della croce sul bambino, dopo averlo accuratamente fasciato.

    Gallipoli allora assume una dimensione fra rito e magia, fra

    rito e tradizione, tra rivalutazione del passato ed un presente vissuto

    alla ricerca della memoria storica. In questa realtà anche i culti assu-

    mono una dimensione dove la fede viene messa al primo posto.

    Una fede che coinvolge la cultura di un popolo, che si

    materializza nel momento mitico della festa e che interagisce e dialoga

    in un rapporto fra sacro e profano.

    I riti magici.

    Diciamo subito che essi sono proliferati in un terreno fertile,

    pregnante di ignoranza e di miseria psicologica. I riti magico-reli-

    giosi relativi alla gravidanza, all’allattamento, allo svezzamento, sono

    certamente in rapporto alla carenza di forme assistenziali per la

    gestante, la partoriente, la madre del bambino.

    Con l’intervento della magia si credeva che tutte le gravidanze

    sarebbero state condotte felicemente a termine, tutti i neonati sareb-

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    bero stati protetti, il latte sarebbe fluito sempre dal seno della ma-

    dre, ma soprattutto si sarebbe guariti da tutte le malattie, e tutte le

    tempeste si sarebbero accanite su luoghi deserti.

    Le pratiche magiche più importanti erano rappresentate dagli

    scongiuri contro le varie forme di miseria, contro le tempeste che

    mettevano a repentaglio la vita dei pescatori o potevano danneggiare

    il raccolto, contro le malattie.

    Ogni scongiuro era un misto di sacro e profano. Ci si segnava

    con il segno della Croce, e si benediceva nel nome del Padre, del

    Figlio, e dello Spirito Santo.

    Il più delle volte era una filastrocca che l’interessato pronun-

    ciava più volte e all’occorrenza facendo attenzione a non variarne la

    sequenza.

    Altre volte ci si rivolgeva alla “macara” perchè confezionasse

    miracolosi intrugli che si spalmavano sulla parte malata o misteriose

    pozioni da bere.

    Entrambi avevano la potenza di debellare il male o di asse-

    condare i desideri del richiedente.

    Ma per scacciare la tentazione spesso ci si rifugiava nelle

    invocazioni, come in un porto sicuro al quale fare affidamento per

    non ricorrere alle arti magiche.

    Ed ecco allora che ai bambini si insegnava a recitare, senza

    alcuna paura perché forti della fede:

    Santa Margherita si’ bedda e si’ pulita

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    Tre angeli a mienzu casa

    E doi su’ lu liettu.

    La Matonna tegnu an piettu,

    Gesù Cristu an capatale.

    Fusci fusci tantazione

    Ca su’ fiju de Maria,

    E Maria m’ha mprumisu

    Ca me dae lu Paradisu

    Ci nu osci, ci nu crai

    Quandu mojuru me lu dai.

    Un rimedio contro le fatture o il malocchio era quello di ap-

    pendere dietro l’uscio di casa il volto di Sant’Anastasio. Questi era

    il santo più temuto dalle streghe. Il suo nome in greco, che era poi la

    lingua parlata in Gallipoli sino al Medioevo, significa, appunto,

    “scacciamento dalla propria dimora”.

    Le streghe facevano “le fatture” e chi ne era colpito doveva

    preoccuparsi di farsela togliere, non oltre però il sabato successivo.

    Bisognava rivolgersi, allora, ad una “macara” che era stata

    giubilata. Se non si riusciva a liberarsi subentrava una vera e propria

    ossessione.

    Le “macare”, o streghe nella tradizione napoletana, si riuniva-

    no a mezzanotte di ogni sabato nei pressi del noce di Benevento, e

    viaggiavano a cavallo di una scopa.

    Le streghe di Benevento sono entrate ormai nella proverbialità.

    Danno nome persino ad un liquore e ad uno dei maggiori premi lette-

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    rari italiani.

    Per aizzare il loro strano destriero usavano dire: “Sotta ac-

    qua e sotta jentu, sotta lu noce de Minimijentu”.

    Guai però a coloro che avessero osato imbattersi in una adu-

    nata di streghe.. Si racconta che Chiri, un onesto pescatore gallipolino,

    dal cuore buono come il pane, un giorno, anticipasse la sua uscita di

    casa alla mezzanotte invece di attendere l’alba come sempre aveva

    fatto.

    Giunto al largo della Purità, ancora intorpidito per il sonno

    perduto, fu subito circondato e travolto da un gruppo di “macare”

    intente a ballare.

    Dopo l’iniziale spavento e riacquistata tutta la lucidità, il

    malcapitato riconobbe tre donne sue vicine di casa. E queste implo-

    rò di lasciarlo tranquillamente andare via. Ma loro più insistente-

    mente lo insidiavano chiudendolo sempre più stretto nella loro cate-

    na, mentre, prese per mano l’una con le altre, cantavano:

    “E balla, balla Chiri,

    cu sta curiscia forte,

    ca ci scappi te stu chiaccu

    nu nci essi cchiui te notte”.

    Il povero Chiri non sapeva più a che Santo votarsi quando

    all’improvviso si udì sonoro il battere della campana della vicina

    chiesa della Purità. Era certamente un intervento divino che ebbe il

    potere di far scappare precipitosamente le perfide “macare”.

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    Anche i pescatori, a loro modo, seguivano alcune pratiche

    magiche e riti propiziatori. Si diceva che alcuni erano capaci di ta-

    gliare i fulmini, segreto questo rimasto per sempre custodito nella

    mente dell’ultimo che ne ebbe il potere.

    Essi sono ancora custodi delle “misteriose parole turchine”,

    apprese in tempi lontani in oriente presso il popolo turco.

    Mormorandole incomprensibilmente, i pescatori riescono a ren-

    dere innocue le punture di pesci velenosi, tra i quali la tracina, vol-

    garmente conosciuta con il nome di “parasaula”.

    Nell’ambito della superstizione popolare nessun maleficio è

    però più potente del “malocchio”. Il malocchio era opera di persone

    provviste di “do’ ninne” (due pupille). Guai, quindi, ad essere guar-

    dati da loro.

    Si pensa ancora oggi che “pote cchiui occhiu te persone ca

    occhiu te scursone”. E di una persona dallo sguardo cattivo si dice

    che abbia gli occhi “te basaliscu”.

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    Lu moniceddu

    Ricca di suggestione e di mistero è la figura “de lu moniceddu”

    che si diceva amava accovacciarsi di notte sul petto delle persone

    che dormivano, impedendo loro il sonno.

    Il monacello, secondo una antica credenza locale, era uno

    spiritello, una sorta di folletto che gironzolava di notte per la casa

    facendo disperare le persone che vi abitavano con mille dispetti tra

    cui quello classico di accoccolarsi sullo stomaco di chi dormiva.

    Come tutti gli spiritelli era custode dell’ ”acchiatura”, un te-

    soro di monete d’oro e d’argento, ma aveva anche il potere di esaudi-

    re i desideri degli uomini.

    “Lu moniceddu” indossava un cappellino rosso, al quale tene-

    va in modo particolare perchè, senza, avrebbe perduto la sua libertà.

    Per neutralizzarlo occorreva, perciò, togliergli quel buffo

    copricapo di panno rosso a forma di cuffia. Non era però impresa

    facile.

    Se il tentativo riusciva, lo spiritello, disperato, implorava pietà,

    lasciandosi andare a mille promesse. Taccagno di carattere, esaurite

    tutte le implorazioni, si rassegnava a svelare il nascondiglio nel qua-

    le custodiva il suo tesoro.

    Nei tempi passati, di chi si arricchiva all’improvviso, si dice-

    va giustamente che forse aveva visto “lu moniceddu” o aveva trovato

    “l’acchiatura”.

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    Il rito del crivello

    Tra i riti magici più suggestivi, e praticato fino a qualche anno

    fa, vi è quello del crivello o per meglio dire “lu ritu de lu farnaru”.

    Si ricorreva a questa pratica per scoprire il nome di un ladro

    o per individuare l’innamorato di una amica o la persona che ne osta-

    colava le nozze.

    Si infiggevano le punte di un paio di forbici nel legno del bor-

    do circolare (lu campusu) del crivello.

    Due persone, reggendolo con gli indici dalla parte bassa de-

    gli anulari delle forbici, invocando i Santi Pietro e Paolo, formulava-

    no la domanda cui si faceva seguire la pronuncia del nome del so-

    spettato di furto, dell’innamorato segreto, “de lu ‘nfame” o del ge-

    loso.

    La risposta doveva scaturire dal segno che le forbici avrebbe-

    ro dato facendo ruotare il crivello.

    Anche una chiave poteva dare qualche responso. La si infila-

    va tra le pagine di un Breviario che si legava strettamente.

    Due persone, tra cui l’interessato al responso, sostenevano il

    libro con l’indice, e invocando il nome di S.Pietro, si formulava al-

    l’istante la domanda.

    Il responso si otteneva solo quando il Breviario avesse co-

    minciato a ruotare.

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    Il rito “de lu limbu”.

    Quando sulle terrazze si usava gettare “i bivaruni” al fine di

    impermeabilizzare le giunture delle “chianche” che coprivano le ter-

    razze e proteggere così la casa dalle infiltrazioni recuperando tutte

    le piovane che si raccoglievano nella cisterna ma anche in contenito-

    ri di terracotta detti “limbi”, si ricorreva all’oracolo “de lu limbu”.

    Quel recipiente doveva essere pieno di acqua piovana e

    cristallina per farvi specchiare tutti i sospetti di furto, giacchè si pen-

    sava che l’acqua si sarebbe turbata alla vista del ladro.

    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    L’uso degli oracoli presso i popoli antichi è fin

    troppo conosciuto. Esso prendeva il nome anche dal

    luogo in cui si praticava o della divinità a cui ci si

    rivolgeva per ottenere responsi e vaticini. Nell’antica

    Grecia gli oracoli più celebri furono quelli di Apollo a

    Delfi e quello di Zeus a Dodona.

    Un sacerdote interrogava l’oracolo dopo avere

    praticato riti purificatori e dopo aver offerto sacrifici

    alla divinità; il responso veniva tradotto attraverso

    metodi diversi di divinazione. generalmente si inter-

    pretavano i segni, tra cui quelli desunti dal compor-

    tamento di animali consacrati alla divinità.

  • 21

    L’Oracolo di Santa Monica

    A Gallipoli, nel medioevo e fino all’800, era praticato l’ora-

    colo di Santa Monica di cui fa cenno, alla fine del ‘600, nel suo

    manoscritto il Micetti.

    Il Vernole cui piaceva ricucire, talvolta abusando di riferi-

    menti classici, il mondo ellenistico agli usi medioevali, ne tracciò la

    storia traducendo dal latino il brano del Micetti.

    Depurandolo della impossibile appartenenza del Pantheon, che

    era una chiesa diruta ai tempi del Cybo e dedicata a tutti i Santi, ad un

    qualche tempio pagano è utile riportarne il gustoso brano del Vernole

    La chiave, il breviario, lu limbu e lu furnaru: gli attrezzi per gli oracoli.

  • 22

    che così scrive:

    “Un altro oracolo ancor più originale e complesso e che più di

    ogni altro conserva tuttora intero l’organismo dell’epoca ellenica, come

    fino a tre secoli or sono conservava finanche il Tempio che n’era la sede”.

    “Esso rammenta l’Oracolo di Dodona nel quale si interro-

    gava lo stormir delle foglie, e quello di Mercurio nel quale s’inter-

    pretavano i discorsi dei Passanti, e l’oracolo della Dea Notte che

    rispondeva con le voci della notte: co1 sopravvenire del Cristiane-

    simo questo oracolo gallipo-lino fu intitolato alla Madonna del

    Cassòpo, e poscia (come lo è tut-todì) a Santa Monica. Fino al Cin-

    quecento al sommo dello sperone occidentale dei bastioni turriti di

    Gallipoli era la Chiesetta della Madonna del Cassòpo eretta in epoca

    Bizantina presso il demolito Tempio pagano del Pantheon; se ne Conser-

    va ancora la vetusta immagine Bizantina e quel nome di Cassòpo ricorda

    il nome bizantino della rada di Corfù e i traffici di Gallipoli con l’Orien-

    te. Lo Storico Micetti nel Suo m. s. narra di un’anticà pergame greca, da

    lui transunta in latino che in italiano suona così:”

    “Chiunque voleva conoscere se il fratello, o il figlio, o il

    nepote o il marito, fosse captivo o in mano dei Turchi, o fosse vivo

    o morto, o se ritornasse o no, o se fosse sano o infermo, veniva alla

    predetta Chiesa della Vergine di Cassopo, da cui si apriva l’adito

    ad un delubro vetustissimo dedicato alla Santa vergine; ivi, appena

    giunto alla più remota parte, trovava un gradino sul quale saliva

    guardando l’immagine della Madonna, e sette volte rivolgeva ora-

    zione a Cristo, senza proferir parola né far moto di labbra, ma con

    grande intensità di pensiero; ciò fatto si affacciava tosto per una

  • 23

    finestra al mare, e ad alta voce chiedeva intorno (ed alto vociferabat

    percunctando) se di morte, se di vita, se di ritorno, come sopra è

    detto, e da Angeli o da demoni riceveva risposta: è vivo, viene, non

    viene, è morto, sta bene, è malato; e tale risposta non solo era

    intesa dal pregan-

    te, ma anche da

    chi vi fosse pre-

    sente... ecc.”.

    “Distrutto

    il delubro, vi ri-

    mase il sito: al ti-

    tolo svani to d i

    una Santa Vergi-

    ne, fu sostituito il

    titolo d’una Santa

    Vedova: e le don-

    nette ancor oggi

    consultano l’Ora-

    colo della Santa

    Monica, madre di

    Sant’Agostino, pro-

    terve a qualunque anatema lanciato nel corso dei secoli da Vescovi e

    Sacerdoti, perchè il rito insinua le sue radici fra le scaturigini elleniche

    della stirpe. Ancor oggi, su quello sperone dei bastioni dove sovrasta

    il Tempio Francescano della solitudine, ove l’opposto azzuffar di venti

    rende deserto il sito, se ti appiatti, alla -mezzanotte vedrai che s’agita la persona

    Affresco della Madonna del Cassopo.

  • 24

    di una donnetta che vi compie il rito: se essa non può raggiungere quel luogo si

    protende da un qualunque angolo dei bastioni, o si sporge dalla finestra di casa

    propria se è rivierasca, ma sempre si rivolge al mare. E. sette volte ripete mental-

    mente l’orazione propiziatoria a Cristo e. a Santa Monica, ed invoca la risposta

    dello Spirito dell’Ignoto”

    “Santa Monaca mea pietosa, santa Monaca la-crimosa, pe la strata ca facisti te Roma a Milanu, petruvare le fiju tou pacanu, ca hai ulutu cu facicristianu,; lu truvasti e lu cunvenrtisti; santa Monacape caritate, fanne sacciu la veritate. Ci acqua santimumanare è segnu te lacreme mare, ci fanesce vitimu apri-re segnu bonu te cutire”.

    “E la riceve sensibile a sè ed agli astanti, e sarà la voce_d’un

    vivente o il romor di cosa morta: e sarà scroscio d’acqua versata che

    denota lagrime, e sarà crocchiar di cose che precipitano e denota ca-

    tastrofe, e sarà miagolar di gatto o ulular di cane che denota sinistra

    notizia, e sarà parola o frase casualmente detta da alcuno a distanza,

    ed intenzionalmente interpretata perchè nel silenzio della notte fonda

    ogni legger romore si ode a distanza, ed ogni discorso pacifico ed

    ignaro divien più lungi mistica: risposta inconsapevole ad una doman-

    da ansiosa”.

    “Così il paganesimo, avito e incoercibile, sospinge la donnetta

    a mezzanotte a protendere il petto sui, bastioni incontro al mare ,che si

    sente, incontro al Cielo che non si vede, incontro all’immensità del-

    l’infinito, sul parapetto dell’ignoto, a propiziarsi con la settemplicc

    prece il Nume invisibile, ad esprimere l’inchiesta ansiosa, scrutando il

    Mistero che .risponde paganamente con le voci della Notte”.

  • 25

    Gli Oracoli di San Giovanni

    Simile all’oracolo della Santa Monaca era quello di San Gio-

    vanni, che si teneva la notte tra il 23 e il 24 giugno.

    Per conoscere il mestiere del futuro marito, le ragazze in pro-

    cinto di sposarsi, secondo una antica tradizione popolare, e che ab-

    biamo visto ripetere nel film “L’Anima Gemella”, versavano in una

    bacinella piena d’acqua un pezzo di piombo, preventivamente fuso

    sul fuoco. Il piombo solidificando, assumeva svariate forme e a se-

    conda di queste si interpretava il mestiere che avrebbe svolto il

    marito.

    Un’altra variante è quella di interrogare la sorte con l’ausilio

    di tre fave verdi.

    Ad una fava veniva tolta la buccia per intero, ad un’altra sol-

    tanto “l’occhio” e l’ultima lasciata intera. Tutte e tre venivano siste-

    mate sotto il guanciale, e prima che la fanciulla prendesse sonno.

    L’indomani mattina, appena sveglia, la ragazza infilata la mano sotto

    il cuscino ne ricavava il responso.

    Se prendeva quella intera, voleva significare una buona sorte,

    se quella senza buccia la sua sorte sarebbe stata avversa, prendendo

    invece quella semisbucciata la fanciulla avrebbe avuto una sorte nè

    buona nè brutta.

  • 26

    L’Oracolo di San Pietro e Paolo

    Per lo stesso motivo, nel giorno di San Pietro e Paolo, il 29

    giugno, in coincidenza con lo svolgimento dell’omonima fiera che si

    teneva in piazza De Amicis, le ragazze da marito usavano interroga-

    re il loro futuro buttando agli angoli dei vicoli e delle stradine tre

    pietre: una per sapere l’ambasciatore di fidanzamento, l’altra per co-

    noscere l’intermediario e l’ultima per sapere il mestiere del fidanzato.

    E si pronunciava la formula rituale :” Pe santu Pietru e pe santu Paulu

    e pi cinca passa moi”

    Per altri oracoli si affidavano all’albume d’uovo che versato

    in un bicchiere d’acqua veniva messo fuori dalla finestra, al freddo

    durante la notte.

    L’uovo rassodandosi in forme strane, era oggetto di osserva-

    zione e di “letture” da parte della donna. Spesso si credeva di vedere

    figure di sega, di zappa, martello. Se nell’albume si formava qualche

    bolla d’aria era interpretato di cattivo auspicio.

    Anche dalla bruciacchiatura di un cardo si potevano trarre se-

    gni premonitori. L’ortaggio così combinato si metteva fuori casa, al

    fresco. Se l’indomani mattina il cardo rifioriva si traevano buoni

    auspici, diversamente sarebbero stati… cavoli amari.

  • 27

    RITI PROPIZIATORI E DI ESPIAZIONE

    Il rito di espiazione veniva solitamente celebrato per espiare

    un peccato e riconquistare la giusta relazione con Dio. Esso è l’atto o

    l’insieme di riti attraverso i quali l’uomo intende eliminare una colpa

    (individuale o collettiva) legata ad un peccato, per riconquistare la

    giusta relazione con Dio.

    I riti di espiazione sono attestati in molte parti del mondo;

    presso le antiche civiltà ittita, greca e romana, emerge come modulo

    comune, per l’allontanamento di una colpa che genera nefaste conse-

    guenze, il rito del capro espiatorio.

    Propriamente il capro espiatorio proviene però dal mondo re-

    ligioso ebraico. Nel Nuovo Testamento la morte di Gesù sarà presen-

    tata come espiazione del peccato dell’umanità: l’unica vittima, Gesù,

    pone fine agli antichi riti sacrificali.

    A Gallipoli come in tutto il Salento i riti si rifanno unicamente

    a quelli arcaici della fertilità e racchiudono elementi leggendari e

    storici collegati alle particolari attività tradizionali.

    L’elemento dominante nei riti propiziatori in uso nelle feste

    salentine, è quello del fuoco purificatore, propiziatore e liberatorio.

    Come nel giorno di Sant’Antonio Abate, detto “de lu focu”, in

    cui, con le “focaredde” accese, i giovani, venivano invitati a saltare

    sul fuoco per dare prova di coraggio e agilità.

  • 28

    Il rito del salto sul fuoco nel giorno dell’inizio del Carnevale

    rammenta anche il salto che facevano i pagani sul fuoco che era sacro

    a Vulcano, per propiziarsi quella terribile divinità. Il fuoco quindi

    assume un’azione purificatrice che brucia e distrugge tutti gli influssi

    dannosi.

    Il fuoco a Gallipoli lo troviamo ancora nel giorno di Pasqua,

    con l’accensione della Caremma, oppure con la fine ingloriosa del

    “pupu” nella notte del 31 dicembre.

    Nei riti di purificazione oltre al fuoco (la candela accesa), c’è

    pure l’acqua. Nel battesimo, che per il cristiano è la purificazione

    dal peccato originale, si usavano dal popolo molti accorgimenti

    che, pur in un contesto di sacralità, rinviavano a pratiche profane ed

    esorcizzatorie.

    La levatrice pertanto doveva avere cura di sostenere il neona-

    to sul braccio destro, se maschio, a simboleggiare la forza, l’energia

    e la risolutezza del futuro uomo, su quello sinistro se femmina, al fine

    di propiziare bontà, gentilezza e mansuetudine.

    Anche i padrini dovevano ottemperare ad alcune regole

    basilari. Innanzitutto il padrino doveva collocarsi alla testa del bat-

    tezzando, se maschio, e la comare dalla parte dei piedi. Posizione

    che veniva scambiata dai padrini in presenza di una battezzanda.

    Dovevano poi stare bene attenti a recitare il “credo” senza

    mai sbagliare e ciò per evitare che il fanciullo, crescendo, fosse pre-

    so dalla balbuzie o diventasse scemo, e peggio ancora, da adulto,

  • 29

    potesse vedere i lemuri, le ombre tenebrose degli antichi..

    Ancora nella tradizione popolare persistono riti di iniziazione,

    come nella festa di San Martino. A tutti, fanciulli compresi, è consen-

    tito bere un po’ di vino. In questo modo si iniziano alla trasgressione

    e solo così possono essere accolti tra gli adulti.

    Un rito propiziatorio sicuramente avviene in ogni sposalizio,

    lanciando alla fine del rito sacro, sulla testa degli sposi, manciate di

    grano e di orzo.

    Anche il dono di ceste di fiori e di frutta, spesso di uova,

    assumeva il significato di propiziare l’abbondanza,il buon governo

    della casa e gli affetti domestici. E la declamazione degli epitalami ,

    meglio se da parte degli innocenti bambini, si collocava in chiave

    augurale e propiziatoria.

    I riti funebri avvenivano secondo usi e costumi generati da una

    secolare consuetudine grecanica. Il cadavere veniva pianto “spasmo-

    dicamente” dalle prefiche, mentre i parenti, imprecando contro l’in-

    fame destino, si strappavano i capelli e mortificavano la carne graf-

    fiandosi il volto.

    Le prefiche, prese anche a pagamento, avevano il compito di

    piangere pubblicamente il morto intonando monodiche salmodie con

    riferimenti alla sua vita e alle sue virtù.

    Presso i popoli antichi si usava seppellire il cadavere cir-

    condato dagli oggetti di uso comune e cari al morto, non dimentican-

    do di racchiudere nella tomba il prezzo del pedaggio che sarebbe

    stato pagato a Caronte per attraversare lo Stige, il confine tra il mon-

  • 30

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    L’Approfondimento

    La presenza del fuoco nei riti risale però più verosi-

    milmente al periodo storico degli antichi popoli indoeuropei.

    Ma il suo pieno sviluppo lo ebbe nella Persia antica. Stret-

    tamente legata al culto del fuoco era la cerimonia religiosa

    di camminare sul fuoco, praticata da molti popoli in ogni

    epoca.

    Ancora oggi è in uso a Tahiti, Trinidad, nelle isole

    Maurizio, nelle Figi, in India e Giappone. La cerimonia in-

    clude il passaggio di un sacerdote e altri celebranti a piedi

    nudi su ampie pietre appositamente arroventate su di un

    letto di ceppi ardenti.

    Sono state avanzate varie spiegazioni, come l’estasi o

    una temporanea insensibilità al dolore, del motivo per cui

    costoro apparentemente non patiscono bruciature o dolore,

    ma nessuna è considerata esaustiva.

    Al fuoco veniva anche riservata una particolare de-

    vozione religiosa ed era considerato sacro. La mitologia greca

    attribuisce al titano Prometeo l’impresa di averlo rubato

    agli dei dell’ Olimpo.

    Le tribù indigene americane quanto quelle dell’Africa

    occidentale rendevano omaggio ad ancestrali spiriti del fuo-

    co.

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    Diversi popoli semitici propiziavano il dio del fuoco

    Moloch sacrificando i loro primogeniti; anche gli egizi e altri

    popoli antichi tributavano offerte rituali ai loro dei del fuo-

    co.

    Il culto del fuoco inoltre, occupò una posizione cen-

    trale nei riti religiosi degli antichi popoli indoeuropei. Gli

    antichi culti greci di Estia, dea del focolare, ed Efesto, dio

    del fuoco, come quelli dei loro omologhi latini Vesta e Vul-

    cano, erano caratteristiche integranti della religione classica.

    Il fuoco che ardeva in ciascuna casa era un segno vivo

    e immanente della divinità e i Lari e i Penati erano i rigidi

    protettori della Famiglia, custodi del suo amore, della sua

    reputazione, della sua fortuna. Spesso si era soliti affermare

    che “Fuoco spento, famiglia spenta”.

    Anche presso le antiche religione slave si praticava il

    culto del fuoco e i celti pregavano spesso Bridget, protettri-

    ce del fuoco, della terra e della fertilità. Ma il fuoco lo tro-

    viamo anche nella religione cristiana.

    Secondo l’Antico Testamento, Dio si mostrò a Mosè,

    sul monte Sinai, attraverso le fiamme di un rovo ardente.

    Nella liturgia della Veglia Pasquale è il fuoco il motore del

    rito, attraverso l’accensione del cero, che rappresenta Cri-

    sto, luce del mondo.

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    do dei vivi e quello dei morti.

    Sepolto il defunto i familiari si riunivano negli “agapi funebri,

    abbondanti di libagioni e vivande ristoratrici”. Un rito, questo, che

    ha tuttora, nel “cunsulu” odierno il suo omologo.

    Ma attenzione, mangiare e bere in certe occasioni, mai di gu-

    sto, bensì “ppe divuzione”. Ed è per questo che nei riti di offerta

    venivano consumate le primizie di ogni stagione e sacrificate vittime

    “ppe divuzione allu Santu”.

    E così a Natale si sacrificava il cappone, a Carnevale si man-

    giava maiale e salciccia, l’agnello a Pasqua, il pollo per il santo

    Patrono del paese, il pesce a Sant’Andrea.

    Tra le primizie il vino novello era d’obbligo nel giorno di San

    Martino, l’olio nuovo a Natale, le melograne a San Francesco d’Assisi

    (San Francescu de le site), il nuovo miele a Santa Teresa, le pigne e

    le castagne per l’Immacolata, e le cozze per la Madonna del Canneto.

    Un’altra pratica popolare era quella dedicata a coloro che

    perivano di morte violenta.

    Affinchè le loro anime si placassero e finissero di girovagare

    attorno ai luoghi in cui violentemente erano state cacciate dal corpo,

    era necessario recitare un triduo notturno a cura di tre comari o pa-

    renti, con un settemplice Rosario pei morti e preghiere in suffragio

    del defunto.

    Se nonostante ciò i loro fantasmi continuavano a turbare il

    sonno di una persona, occorreva esorcizzarli:

    Jeu te prucettu a nome de Diu,

    ci sì anima raspundi e ci sì damoniu spunda.

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    IL CARNEVALE A GALLIPOLI

    A Gallipoli il 17 gennaio, nel giorno dedicato a Sant’Antonio

    Abate, appunto detto “Sant’Antoni de lu focu” o “de lu porcu” inizia-

    va il carnevale con l’accensione delle “focaredde” , cataste di fasci-

    ne di rami di ulivo ricavati dalla rimonda, ma anche di vecchi mobili

    disusati, che venivano bruciate, la sera, nei crocicchi della città, al

    suono dei tamburelli e della pizzaca-pizzaca.

    Risuonavano allora i canti frizzanti dei giovani e delle comari,

    al ritmo della pizzaca-pizzaca e al suono vibrante del tamburello.

    E de la ciacora rizza

    Lu sangu ci nde scula

    A stizza a stizza

    A stizza a stizza

    E nà e nà

    Lu bene meu lu bene mà!

    Na e nà e na, nì, nena.

    E attorno al falò si consumava il rito antico del salto del fuo-

    co per propiziarsi coraggio ma anche con funzione purificatrice,

    avendo il fuoco il potere di bruciare e distruggere tutti gli influssi

    dannosi.

    Risuonavano allora gli stornelli dialogati che con una punta di

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    malizia ma con tanta arguzia venivano mimati nella frenetica danza

    corale di tutto il vicinato.

    Suspiri ci te core, ahi me vaniti

    Sciati alla bedda mea e sospirati

    e cusì se fa l’amore e te passa lu dulore

    na na na ni nena...

    Ulia cu te lu ticu e nu bulia,

    ulia cu te lu ‘ntossucu lu core

    Quandu teve te nde cali... la candela bruscia l’ali

    e palomba vola vola, l’augeddu a la gaggiòla

    na na na ni nena

    Spento il fuoco, si distribuiva la brace rimasta soprattutto ai

    vecchi mettendola nei “coppi”, vasi generalmente di rame o di ferro

    che a quei tempi sostituivano i moderni impianti di riscaldamento.

    Anticamente la cenere, ritenuta benefica e purificatrice, veni-

    va sparsa al vento dall’alto delle mura, per placare l’ira del mare e

    consentire ai pescatori un tranquillo ritorno.

    A Gallipoli ad iniziare dal 17 gennaio il Carnevale entrava

    nel vivo della allegra e spensierata partecipazione popolare fino

    arrivare al penultimo giovedì chiamato “sciuvadia de le cummari” e

    all’ultimo detto “sciuvadia de li cumpari”. Erano chiamati così in

    quanto in quelle due sere si facevano allegri festini dedicati rispetti-

    vamente alle donne e agli uomini.

    Il carnevale naturalmente impazzava su Via Antonietta De Pace

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    tra il bar del popolo e il bar dello sport. Una marea di gente si accal-

    cava lungo la via a gustarsi i frizzi ed lazzi gustosi delle mille e mille

    maschere vestite col “domino”, “te malevita”, “te tialu”, “te

    montagnola”, insomma “vandu te susu e vandu te sotta” perchè anche

    un lenzuolo od una vecchia coperta serviva a rendersi irriconoscibili,

    mascherando così dietro l’anonimato la voglia corale della trasgres-

    sione.

    Chi poteva, acquistava chili e chili di “cacai, candallini e

    mendule ricce”, che in punti prefissati della via sventagliava lontano

    sulla testa delle improvvisate mascherate, per la gioia di grandi e

    bambini.

    E i coriandoli, più alla portata delle tasche del popolo si con-

    sumavano a sacchi poichè tutti, ma veramente tutti, dovevano avere il

    piacere di lanciare sulla folla “na francata de curianduli”.

    “Carniale meu chinu te mbroje, osci carne e crai foje ».

    Il motto7 lo si ripeteva spesso e simboleggiava il passaggio tra

    il periodo grasso del carnevale e il periodo di digiuno e astinenza

    della Quaresima.

    Ed era la sintesi di un vissuto culturale e sociale di un popolo

    che si riconosceva nella caducità della vita terrena e nelle tribola-

    zioni della condizione umana, ma che, nonostante tutto, non disdegna-

    va la licenza e la gioia del vivere.

    Al fondo vi era sempre una nozione didattica della vita da

    praticare e da tramandare nello spirito dell’insegnamento cristiano.

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    Il carnevale ha rappresentato, soprattutto nel Medioe-

    vo, l’inizio del nuovo anno, in quanto coincide con il momento

    in cui la natura, dopo il lungo letargo invernale, si risveglia.

    Etimologicamente l’origine della parola carnevale è an-

    cora incerta, alcuni la fanno derivare da “Carne-vale”, altri da

    “carne-levamen” ed altri ancora da “carnem-levare”.

    Se incertezze vi sono sulla etimologia del termine, è

    certo che nelle tradizioni carnascialesche questa festa si cele-

    brava per propiziarsi i favori degli dei. Basti ricordare le feste

    dei Babilonesi e degli Egiziani, che durante l’equinozio d’au-

    tunno onoravano i Cherubs, buoi importati dai primi sacerdoti

    etiopi.

    Gli Egizi, fin dai tempi delle dinastie faraoniche, furono

    i primi ad ufficializzare una tradizione carnevalesca, con fe-

    ste, riti e pubbliche manifestazioni in onore della dea Iside,

    che presideva alla fertilità dei campi e simboleggiava il perpe-

    tuo rinnovarsi della vita.

    Il carnevale greco invece veniva celebrato in varie ri-

    prese, con riti e sagre in onore di Bacco, dio del vino e della

    vite. I “Saturnali” furono per i Romani la prima espressione

    del Carnevale e gradualmente, perdendo l’iniziale significato

    rituale, divennero semplicemente delle feste popolari.

    Le manifestazioni in onore di Saturno, dio dell’età del-

    l’oro, invece, iniziavano il 17 dicembre e si prolungavano dap-

    prima per tre giorni fino ad arrivare in seguito fino alla metà di

    gennaio.

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    Nella tradizione gallipolina, perciò, anche il rito spettacolo

    del carnevale si consumava tra la nascita e la morte, in una sorta di

    parafrasi dello svolgersi della umana esistenza.

    Il carnevale aveva, infatti, il suo battesimo di purificazione

    con il fuoco il 17 gennaio ed il suo funerale il martedì grasso.

    La forza del suo simbolismo si impernia ancora oggi attorno

    alla morte “de lu Titoru”.

    Teodoro, questo il nome della maschera tradizionale

    gallipolina, è un giovane soldato, come narra la tradizione, che tenta

    di ritornare in famiglia dopo una lunga assenza e dopo aver patito il

    freddo, la fame e rischiato la vita in battaglia, in tempo per parteci-

    pare alle gozzoviglie del carnevale con i suoi amici e parenti.

    Occorreva il tempo necessario per affrontare il lungo viaggio,

    ma non sarebbe potuto arrivare mai in tempo nella sua città.

    E’ la madre “de lu Titoru”, popolarmente riconosciuta nella

    “Caremma”, che si fa interprete di questo desiderio del figlio, non si

    sa bene se intercedendo presso Dio o per opera “de macarìa”.

    Fatto sta che il carnevale venne prorogato di due altri giorni

    che furono, perciò, detti “li doi giurni de la vecchia”.

    Teodoro ebbe così la fortuna di ritornare in Gallipoli proprio