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RIASSUNTI DI “L’ETA POST-EROICA” DI J.J.SHEEHAN - “SENZA LA GUERRA NON ESISTE STATO” “Tutti gli stati a noi conosciuti, sono sorti dalla guerra, il primo ed essenziale compito dello Stato rimane la difesa armata dei propri cittadini”. Noi siamo spesso portati a pensare che Berlino fosse caratterizzata da una cultura civica particolarmente militarizzata, ma le manifestazioni militari erano una consuetudine in tutta Europa, addirittura in FRA, nonostante il rapporto spesso problematico che essa aveva con il proprio esercito. Nonostante le differenze esistenti nei vari stati europei quanto alla funzione civile delle istituzioni militari, in ognuno l’esercito incarnava “l’immagine di ciò che la nazione voleva essere”. Gli uomini in uniforme impersonavano le virtù dalle quali dipendeva l’esistenza stessa dello stato, così come l’esercito e la marina ne simboleggiavano la disciplina; proprio perché senza la capacità di fare la guerra lo Stato non poteva esistere, ogni paese, per quanto piccolo e vulnerabile, disponeva di un proprio esercito. La guerra era profondamente inscritta nel codice genetico europeo: “Gli stati fanno la guerra, e viceversa” sintetizzava un sociologo americano”. Agli inizi del Novecento, due sviluppi avevano trasformato il carattere sia della guerra sia dello Stato: l’emergere egli eserciti di leva e l’industrializzazione, che rese possibile disporre di eserciti più grandi e complessi. Una volta sconfitto Napoleone comunque, la maggioranza dei paesi era tornata ad eserciti relativamente piccoli, formati con un sistema di reclutamento discriminatorio che faceva gravare il peso della difesa della nazione sui figli dei poveri. Del resto, eccetto i coscritti stessi, erano tutti d’accordo. In FRA e ITA chi veniva sorteggiato poteva pagarsi un sostituto; spesso

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RIASSUNTI DI “L’ETA POST-EROICA” DI J.J.SHEEHAN

- “SENZA LA GUERRA NON ESISTE STATO”“Tutti gli stati a noi conosciuti, sono sorti dalla guerra, il primo ed essenziale compito dello Stato rimane la difesa armata dei propri cittadini”.Noi siamo spesso portati a pensare che Berlino fosse caratterizzata da una cultura civica particolarmente militarizzata, ma le manifestazioni militari erano una consuetudine in tutta Europa, addirittura in FRA, nonostante il rapporto spesso problematico che essa aveva con il proprio esercito. Nonostante le differenze esistenti nei vari stati europei quanto alla funzione civile delle istituzioni militari, in ognuno l’esercito incarnava “l’immagine di ciò che la nazione voleva essere”. Gli uomini in uniforme impersonavano le virtù dalle quali dipendeva l’esistenza stessa dello stato, così come l’esercito e la marina ne simboleggiavano la disciplina; proprio perché senza la capacità di fare la guerra lo Stato non poteva esistere, ogni paese, per quanto piccolo e vulnerabile, disponeva di un proprio esercito. La guerra era profondamente inscritta nel codice genetico europeo: “Gli stati fanno la guerra, e viceversa” sintetizzava un sociologo americano”. Agli inizi del Novecento, due sviluppi avevano trasformato il carattere sia della guerra sia dello Stato: l’emergere egli eserciti di leva e l’industrializzazione, che rese possibile disporre di eserciti più grandi e complessi. Una volta sconfitto Napoleone comunque, la maggioranza dei paesi era tornata ad eserciti relativamente piccoli, formati con un sistema di reclutamento discriminatorio che faceva gravare il peso della difesa della nazione sui figli dei poveri. Del resto, eccetto i coscritti stessi, erano tutti d’accordo. In FRA e ITA chi veniva sorteggiato poteva pagarsi un sostituto; spesso veterani accettavano il pagamento come una sorta di buono per arruolarsi nuovamente. I comandanti dell’esercito erano lieti di disporre di uomini induriti, i governi erano certi che i loro soldati sarebbero stati pronti e disposti a difendere l’ordine costituito. Gli stati europei abbandonarono queste consuetudini solo perché si convinsero che la propria sopravvivenza richiedeva riforme militari di vasta portata. La fonte fu la Prussia, che dopo il 1815 era l’unica grande potenza a conservare il servizio militare di leva. Fra il 1864 e il 1871 la Prussia combattè tre brevi e vittoriosi conflitti contro Danimarca, Austria e Francia. La vittoria sulle truppe asburgiche dopo un’unica battaglia lasciò stupefatte le altre potenze; gli elementi che resero possibili queste vittorie furono il miglior grado di preparazione, pianificazione ed organizzazione. Le basi essenziali della vittoria divennero in tutta Europa “massa e preparazione”. Per emulare i prussiani gli stati dovevano dotarsi di eserciti di massa e dovevano essere preparati a metterli in campo in modo rapido ed efficace. I prussiani avevano trasformato così dimensioni e ritmo della guerra. Tuttavia la creazione dell’esercito di massa richiedeva la capacità di superare obiezioni: gli ufficiali volevano meno soldati ma meglio addestrati, le classi media volevano

conservare la loro esenzione dal servizio militare, i politici di sinistra paventavano una militarizzazione della società. Se era facile sapere cosa occorreva fare, farlo si dimostrava estremamente difficile. Le dimensioni dell’esercito erano il problema centrale; dopo un avvio incoraggiante, l’arruolamento nelle unità territoriali cominciò a diminuire questo fece aumentare le pressioni a favore della leva obbligatoria. All’inizio del ventesimo secolo, a parte la GB e la Svizzera, ogni stato europeo aveva istituito eserciti di riserva di massa. Nel 1870 erano pronti ad entrare in azione 1 francese su 73 e 1 tedesco su 34, nel ’14 sarebbero diventati 1 su 10 e 1 su 13. Gli eserciti più vasti in rapporto alla popolazione erano quelli degli stati balcanici; la BUL contava un esercito di 350k elementi, quello Russo 3.4M e quello tedesco 2M. Se fosse scoppiata la guerra, sarebbero stati schierati eserciti di dimensioni eccezionali in tempi rapidi come mai prima d’ora. La diffusione degli eserciti di riserva fece entrare il servizio militare nell’esperienza di vita di milioni di uomini europei e conferì alle istituzioni militari un posto centrale nella società europea. Per reclutare milioni di cittadini però occorreva una serie di organizzazioni amministrative e nel mondo solo pochi stati erano in grado di mettere in piedi e mantenere un simile tipo di esercito. Inoltre vi era il problema delle migrazioni, che diventò uno dei mezzi preferiti per evitare il serv. Militare. La legge Italiana del 1888 proibì agli uomini di età inferiore ai 32 anni di lasciare il paese, ma si rivelò largamente inefficace. Gli stati avevano anche bisogno di decidere quali fossero i cittadini adatti per prestare il servizio nell’esercito; ciò richiedeva esami fisici. La penetrazione dello stato nella società civile era resa più profonda anche dall’estesa rete di istituzioni necessarie per registrare, addestrare e mantenere pronti i riservisti, che dovevano presentarsi regolarmente per le attività di addestramento. Il nucleo centrale degli eserciti era costituito da quadri professionali: ufficiali e sottoufficiali che garantivano l’assolvimento di compiti di pianificazione strategica e direzione. Fornire agli ex militari sostegno finanziario, cure mediche e facilitazioni spesso era la prima manifestazione della funzione assistenziale statale. Lo scopo della complessa macchina militare era trasformare i civili in soldati, che tuttavia dovevano essere trattati “non come bruti ma come francesi”, ovvero come connazionali. Tuttavia nessun esercito funziona senza un grado di coercizione in quanto ai coscritti bisognava insegnare come combattere, fargli acquisire conoscenza e resistenza necessarie; la disciplina diveniva la “religione” del soldato. Dai cittadini soldati ci si attendeva che combattessero non per paura, ma per devozione al loro paese; i componenti degli eserciti dovevano essere convinti che la sicurezza dei loro stati dipendesse da loro.Ovunque le reclute apprendevano la lingua nazionale, i pregi del sapone e dell’acqua calda; gli eserciti introducevano gli uomini ad abitudini pratiche e valori necessari alla vita contemporanea, insegnando la disciplina e instillando il senso del dovere. In FRA dopo lo scandalo Dreyfus, agli aspiranti ufficiali era richiesto apprendere valori politici e sociali appropriati; l’esercito aveva il compito di inculcare il rispetto per il governo della repubblica. In GER invece l’abitudine all’obbedienza che i giovani soldati avrebbero

acquisito sarebbe stata la miglior possibile garanzia contro l’eccessivo diffondersi della dottrina socialista. In ITA aiutava a risolvere il problema delle disparità regionali facendo in modo che ogni unità militare fosse composta da persone provenienti da due diversi distretti. “Fare di un cittadino un soldato è dargli il senso del dovere nei confronti del paese, la qual cosa, se si diffonde in tutta la popolazione, la trasformerà in una nazione.”; C’era una buona dose di verità nell’idea che l’esercito fosse una scuola per la nazione.L’esercito era esclusivamente maschile, in quanto le donne vestivano i panni delle madri e mogli dei soldati della nazione, con un importante ruolo da svolgere nel dramma militarizzato della vita civile.

- PACIFISMO E MILITARISMOIl 24/8/1898 lo Zar Nicola II invitava i delegati europei ad una conferenza per la pace che si tenne l’anno seguente. I delegati concentrarono l’attenzione sul divieto di certi tipi di armamenti, l’elaborazione delle norme belliche e la risoluzione di controversie internazionali con la mediazione. I militari si opposero a qualsiasi accordo vincolante: sostenevano che la guerra fosse barbara e crudele, dunque non serviva a nulla cavillare sui dettagli. Lo stesso discorso riguardò gli arbitrati per risolvere questioni internazionali, molti diplomatici riconoscevano l’utilità di una corte internazionale, ma nessuna grande potenza era pronta a compromettere il diritto sovrano di autodifesa. Tuttavia tre mesi dopo la fine della conferenza dell’Aia, i britannici entrarono in guerra contro i Boeri in Sudafrica, sintomo della poca importanza che aveva assunto l’incontro stesso. In ogni caso i governi non vollero apparire indifferenti riguardo alla causa della pace. Von Buhlow, futuro cancelliere tedesco, si rendeva conto che la maggior parte dei tedeschi voleva dal proprio governo due cose: la pace se possibile, la guerra se necessario. La fiducia nella possibilità della pace scaturì per esempio dalla straordinaria crescita economica, che sembrò tale da rendere la guerra non necessaria. Non sorprende che i difensori della pace per motivi economici fossero particolarmente presenti in GB, epicentro del libero commercio e più civile società europea. Il movimento a favore della pace trasse sostegno da numerose fonti: i cristiani rifiutavano ogni forma di violenza, i socialisti consideravano la guerra internazionale un’altra forma dello sfruttamento e del conflitto classista. Un famoso romanzo del 1889 di Bertha Von Sutter, “giù le armi”, dimostrava quanto fosse crudele e dispendiosa la guerra. Ivan Bloch invece basava la sua critica alla guerra in un’analisi scientifica, non aveva obiezioni di tipo morale. Il punto da cui partiva era la convinzione di vivere in un mondo senza precedenti; l’applicazione della tecnologia alla produzione e alla distribuzione dei beni avrebbe portato le battaglie ad una situazione di stallo e la guerra si sarebbe trascinata a lungo senza vincitori ne vinti. Bloch si rendeva conto che richiedendo un prolungato consumo di risorse, la produzione di armi avrebbe fatto gravare un peso enorme sull’intera società, la popolazione avrebbe dovuto affrontare

carestie e sacrifici tanto che lo schieramento vincente avrebbe preteso compensi sempre maggiori per le sofferenze subite e l’interruzione delle operazioni militari senza il raggiungimento degli scopi prefissati avrebbe alimentato nuovi movimenti rivoluzionari. Perciò, poiché la guerra non avrebbe portato altro che distruzione, farvi ricorso sarebbe stato un atto insulso.Nel 1907 l’Aia fu lo scenario della seconda conferenza internazionale di pace; anche questa volta, i governi non volevano apparire indifferenti alla causa della pace, ma non erano disposti a compromettere la propria capacità di fare la guerra. Secondo Norman Angell, l’espansione del commercio su scala globale, aveva profonda-mente modificato la natura e le fonti della ricchezza tanto che un potenza vittoriosa non sarebbe stata in grado di recuperare i costi mediante annessioni territoriali, poiché l controllo di un territorio non produceva benefici economici. Le indennità finanziarie imposti agli stati sconfitti inoltre avevano l’unico effetto di indebolire un potenziale partner commerciale. Era dunque solo un’illusione il pensiero che la potenza militare fosse la base della ricchezza, come dimostra uno stato economicamente prospero ma militarmente debole come la Svizzera. Tuttavia, la conquista territoriale tesa a creare una società ordinata era giusta e fonte di progresso, secondo Angell, come nel caso dell’annessione della California da parte degli USA. Gli eserciti inoltre erano necessari ed efficaci quando assolvevano la funzione di forza di polizia e creavano le condizioni sotto le quali il commercio potesse prosperare. Bloch e Angell in conclusione, predicavano un tipo di pacifismo saldamente ancorato ad una valutazione realistica delle condizioni del mondo contemporaneo; incutendo nella gente il timore della capacità distruttiva della guerra, essi speravano di convincerla che fosse inutile. Prima di loro Alfred Nobel diceva “spero di produrre una sostanza o macchina talmente efficiente nel produrre una distruzione totale che la guerra diventi del tutto impossibile”. Le predizioni di Ivan Bloch sul futuro della guerra suscitarono una serie di attacchi da parte di esperti di questioni militari: H.Delbruck, professore di storia militare, si concentrava sulla tesi secondo cui le arme armi moderne avevano reso la guerra troppo distruttiva per consentire di continuare a combatterla, secondo Delbruck invece, se il potenziale distruttivo degli armamenti rendeva meno probabile la guerra, allora era ovvio che il disarmo non avrebbe portato la pace, ma avrebbe avuto l’effetto opposto. Inoltre vi erano ancora motivi per fare la guerra, come la lotta condotta dalla GER per assicurarsi un’equa proporzione delle risorse mondiali, che Delbruck considerava come “qualcosa che vale la pena di ottenere anche a fronte di un bel po’ di sangue”. A questo proposito, Thayer Mahan riteneva che il pacifismo fosse sostanzialmente sbagliato: in primo luogo perché l’ordine e la legalità dipendevano da una plausibile minaccia dell’uso della forza; in secondo luogo perché talvolta la guerra è necessaria e giusta. L’errore di Angell stava nella convinzione che le nazioni combattessero per guadagni materiali e che, poiché la guerra non paga, non ne valesse la pena; al contrario, nei 50 anni precedenti, si era combattuto per porre fine alla schiavitù, creare nazioni e proteggere i propri diritti naturali.

Vi erano anche figure come H.G. Wells, che prevedeva la trasformazione delle istituzioni militari in strumenti di progresso. La coscrizione militare avrebbe rappresentato una fase attraverso cui la massa dell’umanità avrebbe potuto apprendere qualcosa che non piò essere appreso in altro modo, come l’ordine, la disciplina e lo spirito di sacrificio. Il militarismo dunque, era un passo necessario per giungere ad un mondo senza guerra. William James aggiungeva che senza il militarismo la società avrebbe corso il pericolo di perdere il proprio vigore. A questo proposito Gustave Le Bon, con “psicologia delle folle” definiva la folla come formazione sociale frammentata e irascibile; la disciplina militare era il modo migliore per sconfiggere le forze che producevano folle e restituire così l’ordine sociale. A lui si aggiunse F. von Bernhardi, comandante di corpo d’armata dell’esercito, secondo cui il servizio militare sviluppa le qualità intellettuali e morali generalmente più utili per le occupazioni in tempo di pace. I militaristi speravano che la guerra avrebbe restaurato la volontà collettiva della nazione, i pacifisti speravano che la società avesse superato il bisogno di un conflitto e temevano che se la guerra fosse arrivata, avrebbe spazzato le fragili strutture della civiltà. Il pacifismo e il militarismo coesistevano uno a fianco dell’altro in un Europa che viveva in pace ma si preparava alla guerra. Solo dopo che il militarismo uscì sconfitto e screditato dalla seconda guerra mondiale l’equilibrio si invertì, generando un mondo dove furono le idee di Le Bon e Bernhardi ad apparire come prodotti di un’epoca superata.

- GLI EUROPEI IN UN MONDO VIOLENTO Negli ultimi decenni dell’800 il posto occupato dalla violenza nella vita quotidiana si era notevolmente ridimensionato: l’illuminazione stradale e l’efficacia dei servizi di polizia avevano reso le città europee più sicure di quanto non fossero mai state; la società diventava sempre meno violenta e la gente si sentiva più sicura. Proprio questo adeguamento ad una vita ordinaria portò alcuni contemporanei a sperare che gli europei avrebbero perso il gusto per la violenza, tuttavia un’Europa relativamente pacifica si trovava a vivere in un mondo pericolosamente violento. Nel 1898 a Omdurman una forza GB-Egitto-Sudan sconfisse un esercito di 60k persone, creato per cacciare gli egiziani dal Sudan; la vittoria della coalizione era dovuta agli stessi fucili a retrocarica il cui impatto aveva tanto impressionato Ivan Bloch. Churchill parlò dell’episodio come di un “contributo alla pacificazione”, ma si è più propensi a vedervi un esempio della violenza che accompagnò costantemente l’espansione del potere europeo nel mondo colonizzato. Nell’ Africa tedesca, i tentativi del governatore di venire incontro ad alcune richieste degli africani furono vanificati dai coloni tedeschi e dai loro sostenitori in patria, a questo proposito è utile citare la frase di Hannah Arendt: “il dominio per mezzo della pura violenza entra in gioco quando si sta perdendo il potere di persuadere, coinvolgere, comandare.”

Nel diciannovesimo secolo la potenza più bellicosa era la GB, che oltre al Sudan stava combattendo alla frontiera nord-occidentale fra Afghanistan e India e si era unita alle altre potenze per reprimere la rivolta boxer in Cina oltre; inoltre entrò in guerra contro i boeri in Sudafrica. Nella crudele storia del governo imperiale, la vicenda del Congo Belga fu eccezionale per le incessanti brutalità che la caratterizzarono: il Re belga Leopoldo comprò un’immensa estensione di territorio nel bacino del Congo, il mantenimento dell’ordine fu affidato alla “force republique”, composto da mercenari africani comandati da ufficiali europei che fecero ricorso ad ogni mezzo per trasformare la popolazione locale in una forza lavoro disciplinata da utilizzare nelle piantagioni di gomma del sovrano. A partire dai ’90 un gruppo di riformatori organizzò un movimento internazionale per protestare contro le atrocità commesse nel Congo Belga e nella guerra britannica contro i boeri. L’imperialismo divenne così una questione da discutere e difendere e nel nuovo secolo il movimento pacifista (e quello antimperialista) potevano contare su una minoranza di europei che però non erano in grado di dettare la linea politica in nessun paese. La principale causa di questa scarsa risonanza era nel fatto che l’impresa coloniale occupava un posto limitato nella vita quotidiana della maggior parte degli europei. Dopo il 1815 le principali potenze europee non erano disposte a scontrarsi per questioni imperiali; dopo i massacri dei ribelli sudanesi la GB si trovò a fronteggiare una ridotta forza francese a Fashoda, ma i due contendenti non si scontrarono. Le rivalità coloniali contribuirono a esacerbare le tensioni esistenti fra gli stati europei, ma nelle crisi coloniali gli antagonisti si tirarono indietro prima di precipitare nella guerra. L’ordine europeo era ancora troppo prezioso per metterlo a rischio.L’Irlanda di fine ‘800 mostra invece un buon esempio di violenza semicoloniale; una minoranza sempre più aggressiva della popolazione irlandese considerava l’Inghilterra come una potenza d’occupazione, a un clima già segnato da diffuse minacce andarono ad aggiungersi forme di violenza politica, ma gli sforzi per raggiungere una soluzione politica vennero vanificati dall’opposizione dei protestanti dell’Ulster, che si resero conto che l’indipendenza li avrebbe lasciati in una condizione di perpetua minoranza in uno stato cattolico. Nel 1913 i sostenitori e gli oppositori dello “Home Rule” avevano organizzato eserciti privati sia nel Nord che nel Sud del paese, ma la sfida militare non scoppiò a causa dell’inizio della guerra nell’anno successivo.In SPA si assisteva ad una potente miscela di contrapposizioni regionali, sociali e religiose; baschi e catalani vedevano nel governo di Madrid un’autorità estranea e illegittima, povertà e corruzione davano inoltre impulso a cellule anarchiche che vedevano nella violenza uno strumento di rigenerazione politica.Fra il 1859 e il’70 i patrioti Italiani riuscirono ad avere un proprio Stato Nazionale, ma questa Italia era debole e poggiava su fragili basi di consenso. Dopo il 1870, la maggior parte degli italiani non si identificava in uno Stato che portava via soldi con le imposte senza dare molto in cambio; senso di estraneità divenuto molto forte al Sud dove la debolezza dello stato creava uno spazio dove agiano intermediari illegali che garantivano

la protezione: il più noto era la mafia siciliana. Nonostante le vigorose politiche repressive messe in atto dal governo centrale furono uccisi più italiani nell’opera di pacificazione del Sud che nelle guerre per l’unificazione Italiana.All’inizio del ventesimo secolo, la zona più violenta d’Europa era quella dei Balcani, dove un gruppo di Stati era riuscito a strappare l’indipendenza dall’impero Ottomano, afflitto da una lenta e dolorosa decadenza. Ognuno di essi coltivava ambizioni espansionistiche miranti a ristabilire il controllo sulle minoranze nazionali presenti al di là dei propri confini. La Serbia, la Bulgaria e la Grecia, ad esempio, avevano ambizioni territoriali contrastanti, ma nessuno era capace di realizzare un governo stabile e ordinato al proprio interno. L’instabilità dei Balcani ebbe un impatto diretto sull’ordine internazionale in quanto in quelle zone la violenza locale aggravò il declino dell’impero ottomano e stimolò la competizione fra le grandi potenze, in particolare fra l’impero asburgico e quello russo.Un passo importante in direzione del disastro fu quello dell’ITA che invase Tripolitania e Cirenaica. Nell’estate del 1911 l’attenzione della comunità internazionale era concentrata sulla crisi provocata dall’espansione francese in Marocco, evento che fornì all’ITA un’opportunità di manovra ed evocò il timore che non sarebbe rimasto null’altro di cui impossessarsi. Nel ’12, mentre i turchi stavano ancora combattendo in Africa contro le truppe ITA, si formò una coalizione di Bulgaria, Serbia, GRE e Montenegro per cacciare gli ottomani fuori dall’EU. Nel maggio ’13 fu firmata la pace, ma un mese dopo la Bulgaria attaccò le posizioni serbe e greche in quanto scontenta del bottino che si era assicurata. Le guerre balcaniche furono una causa e un sintomo della crisi sempre più profonda del sistema internazionale in quanto le grandi potenze non furono in grado di imporre l’ordine in quel contesto geopolitico; la corsa agli armamenti subì un’impennata senza precedenti.Nasceva intanto la convinzione che la pubblicazione dei fatti relativi alla guerra avrebbe alimentato il sostegno dell’opinione pubblica alla pace; D’estournelles scriveva che ogni potenza aveva “scoperto l’ovvia verità che il paese più ricco ha maggiormente da perdere dalla guerra e che ogni paese desidera sopra ogni altra cosa la pace”.Il 28/6/14 l’erede al trono dei problematici domini asburgici, l’arciduca Francesco Ferdinando, cadde vittima di un attentato mentre era in visita a Sarajevo. Il suo uccisore (Gavrilo Princip), uno dei sei giovani terroristi inviati dalla Mano Nera collegata a membri delle forze di sicurezza serbe. Dapprima vi fu la decisione austriaca di utilizzare l’omicidio di Francesca Ferdinando come un’occasione per rimuovere la minaccia serba contro gli interessi dell’impero nei Balcani, poi la linea dura serba sollevò il pericolo di un intervento russo. L’AUS aveva quindi bisogno di assicurarsi il sostegno dell’unica grande potenza sua alleata, la GER, che gli fornì immediatamente appoggio. L’ultimatum inviato dall’AUS non ebbe risposta e dal 28 luglio la situazione precipitò. Per quale motivo l’assassinio dell’impopolare erede al trono asburgico mise fine al lungo periodo di pace europea? Le risposte si dividono in tre categorie: la responsabilità della GER; la responsabilità di nessuno, in quanto la guerra derivò da tragici sbagli di valutazione, gravi errori e sfortunati incidenti; il risultato inevitabile di alcune tensioni

radicate nel mondo bellico; per i marxisti scaturì dalle contraddizioni del capitalismo, per altri, dalle tensioni del sistema internazionale. Tuttavia nessuna delle spiegazioni è pienamente convincente, ma ognuna ha un elemento di verità: non vi è dubbio che incoraggiando l’azione austriaca contro la Serbia, Berlino abbia svolto un ruolo essenziale nel trasformare un conflitto locale in una guerra di dimensioni europee, tuttavia anche se le potenze “scelsero” la guerra, nessuna di esse scelse il tipo di guerra in cui si sarebbe impegnata, per cui la guerra fu in effetti anche prodotto di una serie di sbagli e di errate valutazioni. Per quanto il nazionalismo popolare possa essere stato rilevante come causa di lungo periodo della tensione nazionale, resta il fatto che fino al ’14 avesse un ruolo marginale. Ogni governo si rendeva però conto di aver bisogno del consenso popolare per combattere una guerra moderna; i governi dovevano convincere la popolazione che era in atto una guerra difensiva per la sopravvivenza della nazione. Gli austriaci affermavano che stavano soltanto rispondendo all’aggressione serba, i tedeschi che difendevano un alleato fedele, i russi non potevano vedere distrutta la Serbia e i francesi non potevano permettere l’invasione della Russia da parte dei tedeschi. Molti giovani videro la guerra come una grande avventura; a San Pietroburgo, dove solo poche settimane prima avevano avuto luogo dimostrazioni antigovernative, la piazza di fronte al palazzo d’inverno si riempì di persone che cantavano canzoni patriottiche pregando per la vittoria. L’evidente sostegno del pubblicò frustrò qualsiasi speranza di dar vita ad un’opposizione organizzata; Norman Angell tornò a Londra troppo tardi e quei pochi pacifisti che erano riusciti a mobilitarsi contro la guerra, corsero a presentarsi volontari per arruolarsi. Tutti denunciavano le guerre d’aggressione, ma nessuno rinunciava ad una guerra in difesa della patria.

- Guerra e Rivoluzione“Ogni guerra” ci ha ricordato Paul Fussell, “è ironica, perché ogni guerra è peggiore di quanto ci si aspettasse.” A tal proposito la Grande guerra è stata forse la più paradossale di tutte a causa della distanza fra aspettative e realtà, sacrifici e risultati. Per portare avanti la lotta i governi dovevano sostenere che la guerra era necessaria e fondata su giusti motivi, promettendo che alla fine la vittoria sarebbe stata dalla loro parte. “Che aspetto dovrà avere la ricompensa della vittoria, per giustificare così tanto sangue e così tante lacrime?”, disse Walther Rathenau. Quando il flusso di sangue diventò una marea, ogni stato si sentì obbligato a promettere un futuro che giustificasse i sacrifici che la vittoria esigeva; più sacrifici chiedevano e più diventava imprescindibile la vittoria, e ciò esigeva nuovi sacrifici..Ogni esercito europeo entrò in guerra con strategie offensive concepite per sconfiggere il nemico in grandi e decisive battaglie, come nel caso del Plan XVII francese, che prevedeva una concentrazione delle truppe francesi alla frontiera orientale. Tuttavia come aveva previsto Bloch il coraggio dei soldati non potè avere la meglio sulla moderna

potenza di fuoco. Il Plan fallì dopo una settimana e gli eserciti batterono in ritirata. I tedeschi allo stesso modo misero in atto l’offensiva di Alfred Von Schlieffen, invadendo il Belgio e la FRA settentrionale per impegnarsi in una serie di decisi scontri in cui il nemico andava annientato. Il problema del piano fu logistico: nei momenti cruciali i rifornimenti non riuscivano a raggiungere i suoi uomini esausti. Approfittando del fianco lasciato scoperto dai tedeschi nel loro spostamento verso sud, i francesi li affrontarono sulla Marna e dopo una sanguinosa battaglia, lo slancio tedesco fu bloccato. Da qui ebbe inizio una situazione di stallo che vide, dalla frontiera svizzera alla Manica, i francesi e i loro alleati britannici fronteggiare i tedeschi lungo una linea di posizioni fortificate che non avrebbe subito mutazioni per quattro anni. Il fallimento su tutta la linea delle campagne iniziali distrusse le basi istituzionali e le ipotesi sulle quali poggiava il pensiero militare ottocentesco. Churchill dopo due mesi di combattimenti arrivò a dire “questa non è una guerra normale, ma una lotta fra nazioni per la vita e la morte”. Dal punto di vista militare, le ragioni che determinarono questa situazione erano semplici: reticolati di filo spinato, fortificazioni in muratura, mitragliatrici a tiro rapido, che conferivano alle truppe in posizione difensiva un vantaggio troppo grande sulle truppe offensive. Quello che la Somme fu per la GB, Verdun lo fu per FRA e GER. Verdun venne concepita come scontro decisivo per la vittoria finale e il comandante tedesco Falkenhayn decise di colpire a morte la FRA per costringere la GB alla pace; dopo dieci mesi si contarono 330k morti francesi e 380k tedeschi. Nel complesso della guerra, la maggioranza delle perdite fu provocata dal fuoco delle artiglierie (70%), appena l’1% da colpi di baionetta o sciabola; in ogni esercito figuravano uomini che non volevano continuare a combattere a causa dello “Shock da granata”, che gli faceva avere insonnia, agitazione e apparente perdita di udito e parola. Se erano fortunati venivano trattati con umanità, ma di solito venivano applicate brevi e brutali terapie tese a riportarli al fronte quanto più velocemente possibile. Nel ’17 emersero i segni che la capacità dei soldati di sopportare simili pene stava toccando il limite, ma l’efficienza militare venne ripristinata in tutti gli eserciti (eccetto la RUS). Questo anche grazie ad una polizia che ogni esercito aveva al fronte che garantiva l’imposizione della disciplina; le punizioni arrivavano fino alla pena di morte. I francesi giustiziarono 600 dei loro soldati, gli italiani 750. L’unica possibilità di sottrarsi alla disciplina militare era la diserzione, ma molti furono catturati, processati e severamente puniti. Sul campo di battaglia tuttavia la nazione appariva assai distante e quel che più contava erano gli uomini assieme ai quali un soldato combatteva e per i quali soffriva e moriva.Dato che molti si aspettavano una guerra breve, il presupposto erano uomini e materiali mobilitabili, al contrario però ci si rese conto che le possibilità di vittoria di un esercito erano “in funzione delle macchine messe a sua disposizione” e che l’uomo da solo fosse impotente. Le macchine a loro volta potevano adempiere ai loro compiti finchè fossero adeguatamente alimentate con carburanti e munizioni, ma i flussi dei rifornimenti si interrompevano spesso.

La macchina più importante era il cannone a tiro rapido, ma nel ’18 la maggior parte dei cannoni sparava in un solo giorno un numero di proiettili che avrebbe dovuto bastare per 3 o 4 settimane. Oltre alle munizioni poi, le truppe consumavano 60M di tonnellate di pane e 131M di patate ogni settimana.Per quanto riguarda i mezzi invece, oltre ai camion, che rappresentavano uno strumento essenziale fra le stazioni di testa e i fronti, gli aeroplani divennero sempre più importanti per osservare posizioni nemiche e bombardare obiettivi civili. La produzione del tempo di pace dovette essere quindi riconvertita per soddisfare le necessità dell’apparato militare, ogni economia dovette far fronte a gravi problemi come la mobilitazione di massa di giovani che sottrasse braccia alle fabbriche e ai campi e lo sconvolgimento dei mercati interni. Nessun sistema economico per la guerra andò esente da insufficienze, ma ognuno di essi si rivelò efficace per sostenere gli eserciti in campo. Per risparmiare energia si introdusse l’ora legale, per incrementare la produzione e diminuire le possibili agitazioni sociali vennero ridotte le ore nelle quali i locali pubblici potevano servire birra; lo Stato gettò le basi di quei regimi che avrebbero regolato e sorvegliato la società dopo la caduta degli imperativi di guerra. Nessuno stato inoltre disse ai propri cittadini la verità su origine, carattere e sviluppo del conflitto; quel che poteva essere scritto e riferito a proposito della guerra era controllato da censori civili e militari. In ogni Stato la propaganda esaltava le virtù patriottiche e metteva in evidenza i vizi del nemico: “Allo stesso modo con cui sparo granate nelle trincee nemiche, ho il diritto di usare contro di lui la propaganda” scrisse il generale tedesco Hoffmann. La distinzione fra soldati e civili faceva parte di una lunga serie di tentativi di limitare l’uso della forza; in tempo di pace l’ordine civile dipendeva dal monopolio statale della violenza, in tempo di guerra la violenza legittima poteva essere utilizzata solo da personale militare e rivolta contro di esso; tutto questo fu mutato dalla guerra, in quanto i belligeranti abbandonarono l’idea che gli obiettivi civili fossero fuori dai limiti consentiti, così su tutti i fronti i non combattenti furono trascinati in un vortice di violenza. Il rapporto di un criminologo tedesco che indagò su queste atrocità poco dopo che erano state commesse rimane uno dei più agghiaccianti resoconti mai scritti sulla furia distruttrice della guerra. Reiss concludeva che quei soldati, uomini normali dal punto di vista psicologico, si erano inizialmente lasciati andare ad atti di “sadismo collettivo”, poi si erano traformati in “bruti assetati di sangue” che torturavano e uccidevano le loro vittime senza un motivo e senza esitazioni. Le più gravi atrocità contro i civili tuttavia non furono commesse dagli eserciti stranieri, ma da agenti dello stato contro i propri cittadini, ad esempio nell’aprile ’15 il governo ottomano cominciò una sistematica campagna di annientamento contro la minoranza armena. Contro queste politiche devastanti, le altre potenze europee rimasero mute o clamorosamente impotenti, ma non fu l’ultima volta che nel 20° secolo le potenze rimasero a guardare il compiersi di una tragedia simile. In RUS gli appartenenti all’etnia tedesca vennero deportati a est e l’esercito ordinò “a tutti gli ebrei e agli individui sospetti” di lasciare la zona insieme a zingari e musulmani.

L’esercito russo, mal equipaggiato e mal condotto, aveva subito enormi perdite fra il ’14 e il ’15. Alla fine del ’16 il morale era basso e milioni di soldati agognavano la pace. Dopo che un membro liberale della Duma espresse lo stato d’animo dell’èlite politica del paese facendo l’elenco dei disastri recentemente subiti dalla RUSS, nel febbraio ’17 a Pietrogrado alcune proteste si trasformarono in rivolte e il plurisecolare regno dei Romanov crollò. La vittoria della “rivoluzione di Febbraio” fu il risultato di una spontanea alleanza fra i membri dell’élite politica e milioni di russi comuni che contestavano la guerra in quanto tale. Le differenze emersero non appena il governo provò una nuova offensiva militare: le dimostrazioni politiche continuarono mentre al fronte i soldati si ammutinarono tanto che un ufficiale scrisse che fra lui e i suoi uomini si era aperta una “voragine invalicabile”. Lenin arrivò a Pietrogrado il 6/4 e con rara e inflessibile coerenza volle che i suoi compagni bolscevichi cogliessero l’opportunità concessa dalla guerra. Voleva trasformare la guerra in corso in una sollevazione rivoluzionaria nella quale le classi diseredate del mondo potessero essere mobilitate contro i loro padroni imperialisti. Una conquista del potere da parte dei bolscevichi in RUS avrebbe contribuito ad innescare una conflagrazione globale. Lenin utilizzò la sua piccola ma disciplinata banda di seguaci per spazzar via il debole governo provvisorio e prendere il potere, in attesa che scoppiasse la rivoluzione mondiale. Il progetto bolscevico venne bagnato dal sangue dei suoi oppositori, ad esempio nell’agosto ’18 non esitò a far impiccare non meno di 100 noti Kulaki. La violenza fu diretta, faccia a faccia, inflitta con un odio e un’aggressività di classe profondamente radicati ma anche stimolati e sostenuti dal nuovo regime. Nella prima settimana di novembre, mentre erano in corso i negoziati per l’armistizio, la rivolta si propagò in EU centrale, dove l’Imperatore di GER Guglielmo II si rifugiò in OLA e Hindemburg e Ludendorff furono estromessi dal comando. Dal corso del Reno fino alla frontiera russa, le bandiere rosse sventolavano sugli edifici governativi. Se si considerano le sofferenze che la guerra aveva inflitto a milioni di europei, sia sul campo di battaglia che in patria, non stupisce che all’inizio del 1917 esplodessero alcuni fenomeni di agitazione sociale e malcontento politico. La capacità dello Stato di imporre l’ordine venne seriamente compromessa; il perseguimento della felicità privata doveva avvenire in un contesto pubblico che sembrava irrimediabilmente infranto. Dopo il ’18 il posto della guerra nella cultura europea subì una trasformazione. Nel corso della lunga pace del 19° secolo, la maggior parte delle persone accettava la possibilità della guerra pur conducendo la vita nell’aspettativa di pace. La grande guerra distrusse tutto ciò, aprendo un baratro tra i valori e le istituzioni civili e quelli militari. Per milioni di europei, il conflitto aveva mostrato la triste verità contenuta nella previsione di Norman Angell, secondo cui la guerra non avrebbe pagato. Essi credevano che un altro conflitto europeo dovesse essere evitato ad ogni costo, ma c’erano altri che abbracciavano la fede nelle virtù rigeneratrici della violenza. Così, negli anni ’20 e ’30, sia il pacifismo sia il militarismo diventarono più robusti e politicamente attivi, ognuno traendo forza dall’altro.

- La Tregua dei Vent’anni

L’11/11/18 alle 11 in punto si fece silenzio; alcuni soldati attraversarono le trincee e attraversarono la terra di nessuno per abbracciare i loro ex nemici. La maggior parte rimase dov’era, dubitando ancora che la guerra fosse veramente finita. E naturalmente, in molte parti del mondo, la guerra continuava. La restaurazione dell’ordine in un mondo sconvolto fu lo scopo principale della conferenza di pace che si tenne a Parigi nel 1919, dominata da Clemenceau, Lloyd George e Wilson. L’accordo fu il prodotto di dolorosi compromessi fra i “tre Grandi”; coloro a cui spettavano le decisioni adottarono compromessi a scapito di chi non sedeva al tavolo delle trattative. Il grande risultato fu la delineazione della nuova carta geografica dell’EU centrale e orientale, dove al posto dell’impero asburgico si istituì un gruppo di Stati basati sul principio di autodeterminazione. Quelli che poi si rivelarono i punti deboli dell’accordo derivarono, più che dagli aspetti delle sistemazioni, dalla mancanza di una volontà concertata di attuarle. Wilson non riuscì a persuadere il Senato USA a ratificare il trattato e gli USA non aderirono neppure alla Società delle Nazioni, nei confronti della quale Wilson nutriva aspettative molto grandi. La RUS era fuori dal consesso degli Stati e l’ITA e il JAP, nonostante fossero fra le potenze vincitrici, erano profondamente insoddisfatti dello status quo. In definitiva, l’unica potenza che sosteneva senza riserve l’ordine postbellico era la FRA. La vera minaccia proveniva però dalla GER: nonostante la sconfitta sul campo, la GER rimaneva lo Stato più importante d’EU. La scomparsa dell’AUS e della RUS imperiale, oltre che le perdite sofferte dalla FRA e dall’ITA significavano che il potere relativo della GER era maggiore rispetto all’inizio della guerra. Fino a quando i moderati mantennero il controllo dello stato tedesco, la pace europea rimaneva possibile, ma quando il controllo venne scosso, fra ’19-23 e poi ’30-33 la pace fu a rischio. Il trauma della sconfitta fu accentuato dalla profonda insoddisfazione dei tedeschi per i termini degli accordi postbellici. La GER fu costretta ad accettare condizioni molto più dure di quanto nessun tedesco avrebbe potuto immaginare: oltre alla cessione di territori su ciascuna frontiera, la perdita delle colonie e della flotta mercantile, l’accettazione dell’occupazione militare delle province occidentali si dichiarava che la guerra era stata provocata “dall’aggressione della GER e dei suoi alleati”. Oltre a definire e sostenere la pace europea, le grandi potenze dovettero occuparsi di una serie di rivolte scatenate dai popoli a esse soggetti in tutto il mondo: moti nell’India Britannica, rivolte contro i francesi in Siria, i britannici in Iraq, gli italiani in Libia e gli spagnoli in Marocco. In tutti i casi, gli europei reagirono alle resistenze con estrema violenza. Per contrastare i nazionalisti irlandesi, i britannici formarono un gruppo paramilitare che rispose agli attacchi con violente rappresaglie contro la popolazione. I gas venefici vennero lanciati dal cielo contro i ribelli indigeni dai britannici in Afghanistan nel ’19 e in Iraq nel ’20, dagli italiani in Libia nel ’23 e poi in Etiopia nel ’35, e dagli Spagnoli in Marocco dal ’21 al ’27. Nel medio Oriente, i turchi pagarono a caro prezzo la decisione di entrare in guerra a fianco della GER: mentre il suo impero si stava disintegrando, il sultano Mohammed VI rimase confinato a Costantinopoli e si fece strada Mustafa Kemal, che agì

prima in nome del sultano, ma poi acquisì un’autorità autonoma; dopo aver sconfitto i greci e firmato un nuovo trattato di pace a Losanna, istituì una repubblica al posto del sultanato e trasferì la capitale ad Ankara. La base del successo di Kemal fu la vittoria militare. Gli stessi elementi assicurarono la sopravvivenza dell’esperimento bolscevico di Lenin, che aveva convinto i suoi compagni ad accettare le dure condizioni di pace imposte dalla GER a Brest-Litovsk. Lenin sosteneva che la pace era necessaria per consentire all’esperimento bolscevico di sopravvivere abbastanza per congiungersi alla rivoluzione che si attendeva avrebbe travolto tutta l’EU. In breve tempo si formarono eserciti controrivoluzionari che minacciarono il regime su diversi fronti e il fatto che i bolscevichi ne uscissero vittoriosi scaturì dall’aperta determinazione a usare la forza contro tutto e tutti. Le caratteristiche dell’URSS furono determinate dalla violenza che ne accompagnò la nascita. Sia i bolscevichi che i loro nemici commisero atrocità. Nel 1921 i bolscevichi avevano vinto la guerra civile, ma l’economia era paralizzata. Lenin fu costretto a varare la Nep stringendo dei compromessi con i contadini produttori. Nel marzo 1919, nel momento in cui Lenin istituiva la Terza Internazionale per diffondere la rivoluzione, Benito Mussolini fondò a Milano un fascio di combattimento. La sua rapida ascesa al potere sarebbe stata inconcepibile senza la guerra. Partito che mescolava a un radicale nazionalismo elementi anticapitalistici e anticlericali (derivanti dal suo passato socialista), ben presto si spostò a destra, omaggiando monarchia e Chiesa e promettendo di difendere la proprietà e l’ordine. Nel 1915 il paese era entrato in guerra al fianco di GB-FRA-RUS, ma la guerra non portò che guai: l’esercito era stato umiliato in battaglia, il sistema politico sottoposto a tensioni fino al punto di rottura. Nel 1919 quando l’economia era in condizioni disastrose, le agitazioni sociali diffuse, molti italiani guardavano alle squadre fasciste come fondamentale alleato contro la rivoluzione comunista. Il comunismo sovietico e il fascismo italiano sono “nati dalla prima guerra mondiale”, senza la quale Lenin sarebbe rimasto il capo in esilio di un movimento marginale e Mussolini un portavoce di spicco del Psi.La violenza aveva un’importanza centrale per fascismo e comunismo, come mezzo per conquistare il potere e come strumento per strutturare un nuovo ordine politico e sociale. “La guerra porta alla più elevata tensione ogni energia umana e imprime il sigillo della nobiltà sui popoli che hanno il coraggio di affrontarla” scriveva Mussolini. Quei milioni europei che furono attratti dal fascismo o dal comunismo erano convinti che i valori e le convinzioni di anteguerra fossero irrimediabilmente perduti e concordavano che fosse necessario un nuovo sistema e che si dovesse ricorrere a misure dure per realizzarlo.Non si può non rimanere stupiti di come i governanti continuassero ad alimentare la macchina della guerra con i corpi dei loro stessi figli: “Ora debbo tacere, un uomo non ha il diritto di lamentarsi di fronte all’ecatombe della nazione” scriveva Hollweg ad un amico riferendosi alla morte del figlio. La guerra lasciò qualcosa come 3M di vedove, 10M di orfani e i sopravvissuti non si sarebbero mai dimenticati i terribili momenti in cui avevano ricevuto la fatale notizia. Se la natura democratica della guerra conferiva importanza alla

commemorazione di ogni soldato, la tecnologia dei combattimenti la rendeva spesso impossibile. Dopo ogni scontro di vasta portata, il terreno era coperto di corpi maciullati irriconoscibili. A partire dal 1920 a Londra e Parigi, venne riservato un posto d’onore al “milite ignoto” noto solo a Dio, che diventò la sede delle annuali cerimonie commemorative della guerra. Per quanto riguarda l’EU, l’imposizione di sofferenze ai tedeschi non fornì grandi vantaggi ai vincitori; la GER, sosteneva Keynes, non doveva e non avrebbe potuto pagare la guerra. La dura pace avrebbe generato un’Europa inefficiente, disoccupata, nella quale avrebbero sofferto sia vincitori che vinti. Lo stato d’animo di disincanto trovò espressione in molte opere narrative, la maggior parte con l’intento comune di rivelare quello che era la guerra veramente. Spogliata dalla retorica dell’azione eroica e del sacrificio patriottico, la guerra descritta appariva inutile e assurda. I soldati all’estremità opposta non erano più nemici, ma compagni nella sofferenza. Il vero nemico era la guerra stessa. Oltre al tema del disincanto era inoppugnabile un’altra verità sulla guerra: la disponibilità dei cittadini a sopportarla, ma ora che conoscevano la verità, sarebbe stato possibile mandare i cittadini in battaglia? L’esercito di leva di massa aveva un futuro? I britannici abbandonarono rapidamente il sistema di leva e gli strateghi evidenziarono i vantaggi militari del ricorso a truppe addestrate e di elevata professionalità. Fra le potenze occidentali solo la FRA mantenne l’esercito di massa, ma il bilancio militare venne ripetutamente ridotto negli anni ’30. Il pacifismo intanto non rappresentava più un opinione eccentrica, ma un’inevitabile risposta alla logica della storia. L’immediato dopoguerra era stato caratterizzato da tensioni culminate nel 1922 quando FRA e BEL avevano invaso la Ruhr a causa dell’inadempienza della GER nel pagamento delle riparazioni. Alla fine del ’23, Stresemann inaugurò una fase di politica tesa a ottenere concessioni dagli alleati in un’ottica di conciliazione; trovò un alleato disponibile nel primo ministro francese Briand. Gli sforzi congiunti produssero una serie di accordi firmati a Locarno nel ’25 con i quali si garantivano le frontiere orientali della FRA. Furono fatti progressi anche per questione delle riparazioni, che furono fissate ad una quota che presumibilmente i tedeschi avrebbero potuto pagare. A posteriori, possiamo dire che nel ’29 l’epoca della riconciliazione negli affari europei stava volgendo al termine, ciononostante l’ottimismo che essa generò fece sentire i suoi effetti anche quando il clima internazionale aveva da tempo iniziato a mutare. Anche se per altri otto anni in EU non si sarebbe verificato un conflitto fra grandi potenze, l’aggressione JAP del ’31 per la conquista della Manciuria rappresenta un punto di partenza per la seconda guerra mondiale. Nonostante la GER rifiutasse gli accordi di pace, la maggioranza dei tedeschi sosteneva la diplomazia conciliatrice di Stresemann. Considerando il mare di difficoltà nel quale dovettero navigare, i difensori della repubblica riuscirono a sopravvivere alla crisi dell’immediato dopoguerra che ebbe molteplici aspetti come il biasimo per la sconfitta, il duro trattato di pace, il collasso del sistema monetario. Gli elementi che giocarono a favore dei repubblicani furono il coraggio e l’abilità di alcuni leader come Ebert e Stresemann oltre che la mancanza di una chiara alternativa ai repubblicani. Tuttavia quando nel 1929

l’economia mondiale precipitò nella crisi, la situazione mutò. In un disperato sforzo di incanalare il sostegno popolare al partito nazista verso il proprio programma, i membri del consiglio tedesco affidarono il governo ad Adolf Hitler (1933). Questi si sbarazzò dei suoi alleati e smantellò la costituzione. In 14 mesi affermò il controllo sullo Stato e la società tedesca. Hitler dovette il proprio successo alla guerra: il servizio militare gli diede un posto e gli fece assaporare ciò che non aveva mai assaporato: la vittoria. Scoprì la sua vera vocazione di agitatore inveendo contro coloro che avevano tradito la patria e nel ’33 venne nominato cancelliere dal feldmaresciallo Hindemburg. La guerra inoltre abituò i tedeschi alla violenza; senza questo abbrutimento sicuramente non avrebbero votato per le squadre d’assalto di Hitler. Il nazismo incanalava paure/odi/interessi particolari: chi vedeva negli ebrei il nocciolo centrale, chi nei comunisti, chi nel capitalismo finanziario. A collegare questi elementi era il trauma della sconfitta che i nazisti dicevano fosse opera dell’ebraismo mondiale. Perfino i tedeschi che si opponevano a Hitler ne condividevano l’odio per il trattato di Versailles e l’umiliazione nazionale che rappresentava: la sistemazione territoriale nella parte orientale violava il diritto di autodeterminazione dei tedeschi e le restrizioni militari erano un’ipocrita limitazione del diritto sovrano dell’ autodifesa. Hitler in ogni caso era fiducioso di poter sovvertire la pace di Versailles con mezzi diplomatici, sfruttando le debolezze e le divisioni esistenti fra gli altri stati europei. Del resto gli anni ’30 furono anni dallo straordinario potenziale distruttivo: le agitazioni in FRA, il brutale conflitto in SPA, la campagna Mussoliniana per la conquista dell’Etiopia, ma tutto ciò fu superato dalla guerra condotta dal regime sovietico contro la propria popolazione; si parla della morte di un numero fra 5 e 11 milioni di persone. Dopodichè si passò agli arresti per coinvolgere 1M di membri del partito, che vennero deportati in campi di lavoro forzato, definiti “arcipelago Gulag” da Solzenicyn. I governi e le democrazie liberali assisterono a questa marea di sofferenze con ansia e sgomento, ma per nessuno di essi valeva la pena di rischiare un’altra catastrofe come la grande guerra. Intanto Hitler iniziò ad espandere il settore militare e nel ’35 annunciò che la GER non si sarebbe più attenuta alle condizioni imposte da Versailles. GB e FRA protestarono, ma non passarono all’azione, ma del resto non c’era altra risposta possibile se nessuno voleva rischiare un’altra guerra mondiale. Nel marzo ’38 Hitler varcò i confini del Reich: facendo leva su una minoranza nazista in AUS, costrinse il governo ad accettare l’incursione di truppe tedesche e la fusione dei due paesi: il cosiddetto “Anschluss”.Il passo successivo riguardò la Cecoslovacchia, nel cui territorio viveva una minoranza tedesca sempre più favorevole al nazismo. Nel maggio ’38 quando i cechi reagirono alle minacce tedesche mobilitando il proprio esercito e assicurandosi l’appoggio di GB e FRA, Hitler fece marcia indietro; nell’estate seguente Chamberlain (primo ministro GB) compì 3 viaggi per incontrare Hitler, nei quali venne concesso al tedesco sostanzialmente tutto quello che voleva. La politica dell’appeasement di Chamberlain è divenuta sinonimo di debolezza, ma è bene ricordare che l’alternativa in quel momento era attaccare Hitler, che non stava bluffando. La sola minaccia della guerra non lo avrebbe fermato. Non fu

sbagliato perseguire un’azione pacifica alla questione cecoslovacca, ma fu irresponsabile non prendere in considerazione cosa si sarebbe dovuto fare se ciò non avesse placato la brama di conquista hitleriana. Riguardo all’appeasement del ’38 la stragrande maggioranza degli europei fu contenta quando quella politica sembrò funzionare. Chamberlain tornò in GB promettendo “pace nella nostra epoca”. Gli accordi di Monaco durarono meno di sei mesi. Nel Marzo del ’39 le truppe tedesche entrarono a Praga, completando la distruzione dello Stato Cecoslovacco. Per la prima volta Hitler non poteva invocare il principio dell’autodeterminazione per giustificare il suo assalto all’ordine internazionale. Si trattava di un’aggressione in piena regola. Da parte sua Hitler era fortemente determinato ad arrivare alla guerra. Non appena le truppe tedesche furono a Praga, emanò l’ordine di preparare l’invasione della Polonia. A questo punto la guerra era realmente, nonostante l’ultimo sforzo disperato di Chamberlain che strinse un’alleanza con la Polonia promettendo assistenza in caso di attacco tedesco. Hitler non aveva ragione per pensare stavolta le potenze occidentali facessero sul serio, soprattutto dopo aver stretto un patto con l’URSS, che condannava i polacchi ad affrontare nemici sia ad Est che ad Ovest. Ovunque, in EU, lo stato d’animo della popolazione nel ’39 era radicalmente diverso da quello del ’14. Perfino a Berlino, da dove erano stati scatenati i venti di guerra, l’atmosfera non era entusiasta. Per quanto potessero sperare che Hitler li avrebbe condotti alla vittoria, i tedeschi, come gli altri popoli d’EU, sapevano quale avrebbe potuto esserne il costo.

- L’ultima guerra Europea L’ultima guerra europea iniziò il 1° settembre 1939 quando una corazzata tedesca bombardò la guarnigione polacca su una penisola nel golfo di Danzica. L’obiettivo strategico della campagna era la distruzione dello stato, della società e della cultura polacca. La guerra doveva essere combattuta “con la più grande brutalità e senza pietà”. La GB e la FRA avevano dichiarato guerra alla GER per difendere i loro alleati polacchi dall’aggressione di Hitler, ma poi non fecero niente per aiutarli militarmente. Invece di ricevere assistenza da ovest, i polacchi vennero attaccati da est dall’URSS. Alla fine della guerra, gli alleati ne affidarono il futuro all’URSS. L’Europa entrò in guerra per la Serbia nel 1914 e per la Polonia nel ’39, ma chi fra gli originari difensori di questi paesi se ne prese cura a guerra conclusa? Quanto alle modalità del combattimento, furono 3 gli aspetti decisivi per il futuro dell’EU: la natura dello scontro, che fu determinata dalla GER, senza la quale non ci sarebbe stata la guerra europea; in secondo luogo il fatto che venne combattuta in modo assai diverso in Oriente ed Occidente; fin dall’inizio la GER fu determinata a distruggere le istituzioni politiche e sociali in modo da poter imporre una forma di dominazione coloniale. Infine la seconda guerra mondiale fu una guerra totale: la linea combattenti-non combattenti già violata nel precedente conflitto, venne cancellata.Il 10/09, conclusa la battaglia per la Polonia, Hitler ordinò ai suoi comandanti militari di preparare l’offensiva ad occidente. Gli alleati occidentali aspettarono al riparo della linea

Maginot, complesso sistema di fortificazioni che si estendeva per 140km lungo la frontiera franco-germanica; La linea Maginot divenne una scusa per un atteggiamento lassista e una copertura per l’incompetenza; sistemate nei loro accantonamenti, le truppe alleate persero mobilità e motivazioni. Nell’arco di 2 settimane l’esercito francese cominciò a disintegrarsi: il 22/6 la FRA accettò un armistizio senza condizioni. Com’era potuto accadere? Prima di tutto l’incompetenza militare: i capi dell’esercito francese non avevano saputo “pensare” a questa guerra, tanto che l’iniziale vittoria tedesca venne definita una “vittoria intellettuale”. Tutto questo perché, dopo la catastrofe della prima guerra mondiale, uomini e donne francesi avevano buone ragioni per ritenere di essersi sacrificati abbastanza. Dopo la caduta della FRA, Hitler potè sperare che la GB avrebbe accettato un ruolo di subordinata neutralità, ma Churchill (divenuto primo ministro il 10/5), era determinato a restare in guerra e in ciò era sostenuto dalla stragrande maggioranza dei cittadini britannici. I tedeschi dovevano perciò costringere i britannici alla resa. Dopo tre mesi di aspri combattimenti nei cieli sopra le isole GB, la Royal Air Force riuscì a sconfiggere la Luftwaffe. Hitler intanto preparava l’offensiva sovietica: credeva che mettendo fuori gioco i sovietici, i britannici capissero quanto sarebbe stata inutile la resistenza, inoltre il Fuhrer era convinto che la vittoria ad Est sarebbe stata rapida e facile dato che l’Armata Rossa aveva incontrato imbarazzanti difficoltà anche contro il minuscolo esercito finlandese nell’inverno ’39-40. Quando a giugno ’41 i reparti tedeschi sfondarono in territorio russo, lo shock fu tremendo, e la loro avanzata provocò un disastro terribile da ogni punto di vista: i sovietici persero 4M di uomini, Kiev fu occupata, Leningrado accerchiata e Mosca posta sotto assedio. Ad ottobre Hitler annunciò che “la più grande battaglia della storia del mondo” aveva sconfitto l’Unione Sovietica. Hitler inoltre aveva deciso che Mosca dovesse scomparire dalla storia, sommersa da un enorme lago artificiale. Tuttavia ad ottobre l’offensiva tedesca si impantanò ad ovest e quando cominciò l’inverno fu evidente che i tedeschi non erano riusciti a superare due problemi: da una parte quello logistico di una linea di rifornimenti che si estendeva continuamente, dall’altra il difficile coordinamento fra unità corazzate e fanteria. Il punto di svolta arrivò quando due eventi fecero spostare l’equilibrio delle forze a scapito della GER. Il primo si verificò il 5/12 quando le truppe lanciarono una controffensiva contro la Wehrmacht rompendo l’assedio di Mosca. Il secondo evento denso di conseguenze fu il bombardamento giapponese della base navale di Pearl Harbour. L’11/12 Hitler si affiancò all’alleato dichiarando guerra gli USA. La sopravvivenza dell’URSS e l’ingresso in campo degli USA rendevano veramente possibile la sconfitta della GER. Per quanto riguarda la battaglia navale, gli U-Boot tedeschi garantirono la posizione vincente finché non arrivarono gli USA. Nel febbraio ’43 il numero di navi fabbricate dagli alleati superava finalmente quelle perse, in maggio il comando tedesco decise di limitare l’attività degli U-Boot poiché i numeri erano diventati troppo sfavorevoli. Nel Giugno ’42 Roosevelt aveva detto che “l’intera questione della vittoria o della sconfitta dipende dai Russi”; un mese prima Stalin aveva ordinato un’offensiva che si era rivelata infruttuosa, tanto che i tedeschi reagirono ma senza

riuscire a conquistare Stalingrado. A febbraio le truppe assedianti furono accerchiate e la campagna tedesca subì una grave sconfitta. Nello stesso periodo GB e USA sbarcavano in Sicilia, estromettendo Mussolini dal potere. La guerra di Hitler ormai era impossibile da vincere, gli stati che fronteggiava avevano risorse più consistenti e una capacità produttiva cumulata pari a dieci volte quella tedesca. Nei tre mesi successivi al vittorioso sbarco in Normandia del giugno ’44, vennero uccisi o catturati 1M di soldati tedeschi. Un esercito anglo-americano occupò Roma, mentre un altro avanzò in FRA. I nazisti continuarono a combattere fino alla fine, dato che non potevano arrendersi al nemico deciso perciò di arrendersi al destino della guerra. Le convinzioni ideologiche furono sicuramente importanti, le SS non conoscevano altro mondo al di fuori del Terzo Reich; allo stesso tempo la paura di essere catturati dai Russi e giustiziati come disertori.La differenza cruciale fra le due guerre mondiali non risiede solo nel carattere, ma nelle dimensioni: la seconda fu un conflitto veramente globale, le singole battaglie impegnarono un enorme numero di uomini e mezzi; niente di simile si era mai verificato nella storia della guerra. La seconda inghiottì molte più cose, più vite umane, risorse e macchine. Molto più della grande guerra, la seconda trascinò con se sia soldati che civili. Fra il 1914 e il 1918 la stragrande maggioranza dei morti era composta dai soldati, fra ’39 e ’45 la popolazione civile morì in misura maggiore rispetto a quella in uniforme. Alla fine della guerra, grandi città europee erano state danneggiate e alcune (come Berlino/Varsavia) erano state praticamente distrutte. I bombardamenti aerei rappresentarono lo strumento più efficace per distruggere il nemico. In opere come “il dominio dell’aria” del 1921 di G. Douhet, si sosteneva che l’aeroplano restituiva rapidità e mobilità alla guerra e rendere nuovamente possibile la vittoria. Non stupisce però che l’aeroplano ricordasse alla gente un’altra famosa invenzione che minacciava di distruggere il suo stesso creatore. “L’umanità è Frankenstein e la scienza dell’aviazione il suo mostro”. Anche se i contendenti avessero voluto concentrarsi su obiettivi militari, sarebbe stato tecnicamente impossibile farlo. Nell’estate ’41, gli agenti britannici scoprirono che solo 1/3 delle loro bombe cadeva ad un raggio di 8km dagli obiettivi previsti e già dal ’42 avevano abbandonato la pretesa di effettuare bombardamenti mirati, sostituendo alla precisione potenza e quantità. Ciò nonostante, non vi è dubbio che la guerra aerea portò un contributo essenziale alla vittoria alleata sulla GER e sul JAP. Perfino nel contesto di devastazione e sangue dell’Europa in guerra, le sofferenze del popolo sovietico appaiono eccezionali: 6.8M di soldati, dai 17 ai 24M di civili. Nonostante la GER occupasse gran parte delle zone più produttive del paese, l’URSS fu ancora in grado di produrre abbastanza per nutrire i propri cittadini e rifornire i propri soldati. Il lavoro era svolto dalle donne, la cui quota nel complesso della forza lavoro salì dal 38% al 53%. La popolazione civile sovietica lavorava più di sessanta ore a settimana; l’economia sovietica produsse macchinari semplici ma durevoli in quantità enormi: 100k carri armati, 130k aerei e 800k cannoni. I sovietici riuscirono a prevalere anche per il tipo di sistema che avevano costruito: un sistema dominato da una rigida struttura di partito, disciplinato da un esteso

apparato del terrore e sostenuto da una serie di credenze totalizzanti. Il regime sovietico e quello nazista riuscirono ad ottenere dai loro cittadini e dai loro soldati più di quanto riuscissero a fare i paesi civili. I comandanti militari russi e tedeschi combatterono con deliberato disprezzo per i costi umani, i comandanti britannici e americani furono invece molto più attenti, anche se alcuni generali si lamentarono dicendo “non possiamo stare qui tranquilli nelle retrovie, bombardare il nemico e aspettare che se ne vada”.Hitler aveva sempre creduto che la GER stesse combattendo due guerre distinte ma inseparabili: una contro gli stati nemici e una a sfondo razziale contro agenti estranei e patogeni che riteneva mettessero in pericolo il Volk tedesco. Fra il ’33 e il ’39 creò i fondamenti ideologici e istituzionali di una campagna di dominazione razziale; i primi nemici furono i tedeschi affetti da malattie incurabili o socialmente indesiderabili; Hitler conferì a certi medici il diritto di garantire una “morte pietosa” a determinati pazienti. Inizialmente mediante iniezioni, poi si passò all’utilizzo del gas. Il nucleo della guerra razziale tedesca era la questione ebraica; gli ebrei non potevano essere semplicemente sottomessi in quanto troppo pericolosi; l’unico rimedio era sbarazzarsene. Dopo le violenze iniziali il regime operò con misure legali in conseguenza delle quali gli ebrei vennero estromessi dagli uffici pubblici e i loro diritti civili venivano limitati. Nel novembre del ’38 le SS dettero fiamme alle sinagoghe, uccisero alcuni ebrei e infransero le vetrine dei negozi condotti da ebrei in quella che venne definita “la notte dei cristalli”. La persecuzione degli ebrei subì una trasformazione in conseguenza della guerra. In una prima fase i tedeschi strapparono le loro case, li concentrarono in ghetti o nei campi di concentramento. Fino al 1941 gli ebrei che persero la vita furono solo 100k. Dopo il ’41 Hitler e i suoi collaboratori vararono la “soluzione finale”, ovvero l’uccisione di ogni ebreo sul quale potessero mettere le mani. La maggioranza delle uccisioni avvenne nella “vecchia” Polonia, soprattutto ad Auschwitz-Birkenau. Morirono circa 6M di ebrei e con loro 250k rom e sinti. Per riuscire nel loro intento in ogni caso avevano bisogno d’’aiuto, e in qualsiasi luogo giunsero trovarono qualcuno disposto a collaborare. Lo sterminio degli ebrei fu un fenomeno europeo, dove ognuno svolse il proprio ruolo. Ma se furono vittime speciali, gli ebrei non erano l’unico obiettivo di odio omicida a sfondo etnico: bretoni e francesi, fiamminghi e valloni, cechi e slovacchi, greci e albanesi, macedoni e bulgari, serbi, croati, bosniaci musulmani tentarono tutti di stabilire il loro controllo sulle aree contese. Nel ’40 H. Himmler, cominciò a rafforzare le i reparti militari delle SS, formando unità su basi etniche coinvolgendo sia abitanti delle aree occupate che cittadini degli stati alleati, puntando particolarmente sulle razze germaniche come olandesi, danesi e fiamminghi; nel marzo ’45 il 60% delle unità delle Waffen-SS erano tedeschi. In Jugoslavia, come in molti dei nuovi stati costituitisi dopo la guerra, non si riuscì a realizzare l’integrazione delle sue varie componenti linguistiche, religiose ed etniche. Dopo il ’41 il paese fu diviso fra zone occupate dagli eserciti tedesco e italiano e zone annesse dagli alleati della GER; in Croazia fu istituito uno stato indipendente sotto il governo degli utascia, piccolo movimento fascista che uccise un gran numero di serbi, ebrei e

musulmani. Contro gli “utascia” si schierarono due movimenti di resistenza: il primo sotto la guida di Mihailovic, composto principalmente da serbi e restio ad attaccare i tedeschi; il secondo, comandato da un veterano attivista comunista col nome di Tito, che comprendeva tutti i gruppi etnici e si guadagnò l’appoggio degli angloamericani e dei sovietici, riuscendo ad ottenere la vittoria. In molte parti d’Europa le forze della resistenza si vendicarono sui propri nemici appena poterono farlo: in FRA vennero condannati 50k francesi dei quali 6.7k a morte (di cui 767 realmente giustiziati).Nel ’45 non vi fu un momento preciso in cui la guerra potesse dirsi conclusa: i rappresentanti tedeschi si arresero formalmente tre volte ma le SS continuarono disperatamente ad attaccare. L’aspetto più sorprendente della fine del Terzo Reich fu il numero di suicidi effettuati pur di non cadere nelle mani nemiche. Dai quadri più alti (Hitler, Goebbels, Himmler) a generali, funzionari di partito e amministratori locali. Suicidi che costituiscono un evento senza precedenti nella storia europea, espressione del profondo senso di disperazione e della paura di cadere nelle mani del temutissimo esercito sovietico. Il comportamento delle truppe sovietiche nell’Europa occupata non ebbe confronti: gli eserciti di Stalin inflissero gravi sofferenze a milioni di civili; si impossessarono di qualsiasi oggetto di valore e commisero atti di violenza gratuita verso qualunque cittadino. Tuttavia furono le donne quelle prese particolarmente di mira; furono centinaia di migliaia le donne violentate. Dopo il 1945 alcuni confini furono spostati, ma i principali cambiamenti comportarono movimenti di popolazione. Il mosaico centrale di etnie dell’Europa orientale e centrale subì una radicale semplificazione. Alla fine della guerra, i governi alleati accettarono alcune operazioni di pulizia etnica come antidoto doloroso ma necessario contro i conflitti interni. In occasione dell’incontro a Potsdam dell’agosto ’45 i governanti americani, britannici e sovietici concordarono sulla necessità di procedere a quello che ipocritamente definirono un “ordine e umano” trasferimento delle popolazioni tedesche dalle zone orientali. Il paese che più profondamente e più a lungo venne segnato dalla guerra fu l’URSS. Nessuno dei principali paesi belligeranti subì perdite umane e materiali così rilevanti. La polizia segreta uccise/chiuse in prigione i collaborazionisti; alcuni furono giustiziati, la maggior parte finì nei campi di lavoro.La GB si era guadagnata il proprio posto fra i vincitori; avevano resistito ai nazisti, si erano rifiutati di giungere a un accordo quando se ne era presentata l’occasione e avevano gettato le indispensabili basi della riconquista dell’EU occidentale. Dunkerque, i giovani eroici piloti della Royal Air Force, tutto ciò divenne parte integrante della nazione. Ma diversamente dai sovietici, i britannici sentirono l’urgenza di guardare avanti, come dimostrarono quando nel ’45 non rielessero Churchill. In più in un inchiesta del ’44 la maggior parte degli intervistati rispose che invece di targhe o sculture commemorative avrebbe preferito parchi e giardini pubblici.

Se si eccettuano GB e URSS, la guerra rappresentò una pagina scomoda nella narrazione storica che costituiva il nucleo dell’identità nazionale. I francesi fecero il possibile per trasformare la storia della loro guerra in un episodio di resistenza, l’ITA tentò di dare rilievo al tardivo passaggio dalla parte dei vincitori e ai coraggiosi movimenti di resistenza che avevano lottato contro le truppe tedesche. Nella produzione culturale generata dalla guerra, la più toccante fu rappresentata dalle descrizioni personali di luoghi e momenti particolari: i ricordi della resistenza, la descrizione della propria vita nascosta di Anna Frank. Dopo il ’45 per milioni di europei il problema non era trovare il senso di quello che era successo, ma semplicemente sopravvivere: nutrirsi a sufficienza, trovare un posto per dormire; per riuscirci, era necessario sgombrare le macerie e gettare le fondamenta di un nuovo ordine sociale e politico.

- Le Basi del mondo postbellicoI capi di quella che Churchill definì la “grande alleanza” si riunirono per l’ultima volta a Potsdam, vi presero parte Truman, Stalin e Churchill, che poi venne sostituito da Clement Atlee dopo le elezioni politiche. Ognuno era consapevole del potere simbolico di quel luogo: nel marzo ’33 la chiesa di Potsdam fu teatro della cerimonia con la quale Hindenburg aveva accettato la legittimità della rivendicazione di Hitler dell’eredità della grandezza prussiana. Gli esiti del “reich millenario” erano visibili a pochi km di distanza. Già a Potsdam appaiono evidenti le politiche generali dell’epoca postbellica: il peggioramento dei rapporti fra russi e americani, la posizione dominante di Truman e Stalin, il ruolo marginale della GB. Le basi dell’Europa sarebbero state gettate dalle due superpotenze. Potsdam si pone come fine di un capitolo della storia europea ed inizio di un altro.Gli USA durante la guerra non dovettero fronteggiare una minaccia alla loro esistenza come nazione e poterono dunque permettersi di scegliere quanti soldati addestrare e dove far ricadere il peso del proprio impegno militare. Gli USA decisero che il ruolo determinante sarebbe stato svolto dai macchinari, riducendo al minimo le perdite fra i soldati. L’URSS divenne un alleato indispensabile per gli USA e Stalin iniziò la sua strategia secondo cui su alcune questioni era pronto ad insistere (la POL doveva far parte della zona di influenza sovietica e gli stati baltici annessi ai territori conquistati prima dell’alleanza con Hitler), in altre zone sondò eventuali punti deboli per poi ritirarsi quando vide che gli USA avrebbero preso il posto della GB in quanto a sfera d’influenza (GRE-TUR-Iran); infine in gran parte del continente firmò trattati commerciali e sostenne movimenti comunisti locali (FRA-ITA-Iugoslavia). Roosevelt a sua volta pensava che una volta vinta la guerra avrebbe potuto smobilitare l’esercito e far leva sull’attrazione ideologica e sul potere economico per influenzare il sistema internazionale.

La divisione postbellica dell’Europa emerse da una complessa dinamica di conflitti e adattamenti con cui ogni parte sondava la portata del proprio potere e ne accettava eventualmente i limiti.Quando nel ’45 Roosevelt morì, Truman continuò a tentare di cooperare con Stalin, ma la situazione si modificò nel ’47 quando Truman pronunciò un discorso in cui diceva che la politica USA sarebbe stata tesa a sostenere i popoli che stavano resistendo a tentativi di soggiogarli da parte di pressioni esterne o minoranze armate; discorso che consisteva in una risposta alle pressioni comuniste in GRE e TUR. Tre mesi dopo venne varato il “Piano Marshall”, che ebbe un impatto più politico che economico e rappresentò una potente espressione dell’impegno USA nei confronti del continente europeo. Il ’47 fu un anno cruciale anche per l’evoluzione della tattica di Stalin che passò al consolidamento del diretto controllo sovietico sulla metà orientale del continente. A Ovest i partiti comunisti passarono all’opposizione, ad Est instaurarono un governo monopartitico sul modello sovietico. La fase critica del processo di divisione dell’Europa si concluse nel febbraio ’48 quando i sovietici instaurarono un regime comunista in Cecoslovacchia, violando le istituzioni democratiche. Anche in questo caso le potenze occidentali fecero ben poco per salvare la democrazia cecoslovacca da Stalin. La risposta USA fu il “Patto Atlantico” del 1949, pietra miliare nell’impegno USA a difendere militarmente l’Europa occidentale. La politica di Stalin relativa alla GER fu simile all’approccio strategico da lui seguito per il problema europeo nel suo complesso: sul lungo periodo aspirava ad una GER comunista, ma nell’immediato avrebbe potuto accontentarsi di un regime affidabile sotto il suo controllo. Nel frattempo intendeva riscuotere le riparazioni. La soluzione preliminare della questione tedesca, confermata nel ’45 a Potsdam vedeva la GER come un’entità distinta, governata da una commissione di controllo composta da quattro potenze ma con amministrazioni separate corrispondenti a quattro zone di occupazione. A Berlino, si sarebbe riprodotta una situazione analoga, con un’autorità collegiale che avrebbe assunto il controllo di quattro settori amministrativi separati. Nel ’46 britannici e americani unificarono le loro rispettive zone, e il risultato fu che cominciarono a prender forma due Germanie, una dominata dai sovietici, l’altra dalle democrazie occidentali. Nel ’48 USA e GB si resero conto che la stabilità dell’Europa e la sua prosperità non sarebbe stata possibile senza la ricostruzione dell’economia tedesca, così le potenze occidentali introdussero nelle proprie zone una nuova moneta. I sovietici replicarono bloccando l’accesso a Berlino, ma con un ponte aereo, gli anglo-americani riuscirono a rifornire la città. Il blocco rafforzò la divisione tedesca, evidenziando la volontà degli alleati di incoraggiare la ripresa economica tedesca, determinando un netto mutamento dell’opinione pubblica USA riguardo al nemico di un tempo: gli americani guardarono a Berlino come gradito alleato nella nuova lotta anticomunista. Nel ’49 infine venne creata la Rep. Fed Tedesca (RFT) a cui ben presto fece riscontro la Rep. Dem. Tedesca. Le basi dell’ordine post-bellico erano state gettate: democrazie parlamentari ad Ovest, “democrazie popolari” comuniste ad Est. Ognuna delle superpotenze sperava di entrare

nella sfera d’influenza dell’altra, ma nessuna era disposta ad usare la forza per riuscirvi. Il confine fra le due GER viveva sotto il costante incubo di un possibile scontro armato fra USA e URSS, ma finiva anche per tenere collegate le due superpotenze, imponendo loro una comune difesa del sistema bipolare sul quale poggiava l’ordine mondiale internazionale. Dalle catastrofi degli anni ’30 le potenze avevano imparato che la sicurezza internazionale e la stabilità interna erano inseparabili; una politica estera di successo richiedeva una “diplomazia totale”.Sul fronte francese, Charles De Gaulle era sicuro che la sopravvivenza della FRA dipendeva non solo dalla possibilità di contenere la GER, ma anche dal rafforzamento della FRA stessa, ma ciò richiedeva riforme politiche, sviluppo economico e modernizzazione sociale. La corrotta e indolente FRA della III Repubblica, la FRA dell’appeasement e della sconfitta, doveva essere sostituita da una nazione moderna ed efficiente, desiderosa e capace di guidare una nuova Europa. Nel ’49 i responsabili della politica francese si resero conto che la ripresa tedesca era una prospettiva inevitabile: si pose quindi il problema di come conciliare la ricerca di prosperità francese e le sue esigenze di sicurezza. Il ministro degli esteri francese Schuman ipotizzò la creazione di un organismo congiunto per il controllo della produzione di carbone e acciaio; l’avvento della CECA fu rivoluzionario e presero parte FRA-GER-BEL-OLA-LUX-ITA. Fu poi la volta della “comunità europea di Difesa” (CED), le cui unità avrebbero costituito un esercito europeo a sua volta facente parte della NATO. Schuman aveva proclamato con fierezza che ci sarebbero stati “soldati tedeschi ma non un esercito tedesco”, ma la stessa cosa si poteva dire per la FRA; la fine dell’esercito francese non era una prospettiva accettabile e nell’estate ’54, l’assemblea nazionale francese affossò il progetto. Tuttavia l’alleanza Atlantica sopravvisse. Accettando un compromesso dalla GB, gli alleati accolsero la GER all’interno della NATO; in cambio i tedeschi promisero che non avrebbero fabbricato armi atomiche, biologiche o chimiche. Lo scopo dell’alleanza, come disse un diplomatico britannico era di “tenere i russi fuori, gli americani dentro e i tedeschi giù”. Nel ’55 gli alleati occidentali posero fine all’occupazione tedesca e conferirono al regime di Bonn “il pieno potere di Stato sovrano sulla politica interna ed estera”. In realtà la nuova GER non poteva esercitare una piena sovranità, le ex potenze occupanti conservavano il potere di mantenere le loro truppe nel territorio della GER occidentale a Berlino Ovest. Fin dal ’50 l’economia tedesca aveva fatto registrare un miracoloso tasso di crescita: la produzione industriale era raddoppiata in 5 anni e il commercio estero sarebbe triplicato in un decennio. La struttura istituzionale della CECA era insufficiente a contenere un simile dinamismo economico. Il 25/3/57 venne quindi istituita la comunità economica europee (CEE). Solo all’interno dell’ordine internazionale imposto dalle superpotenze la sempre più stretta cooperazione economica e giuridica fra gli Stati Europei poteva apparire razionale. L’emergere di una “nuova Europa” non fu la causa della lunga pace successiva al ’45; fu la pace semmai a essere la precondizione necessaria della nuova Europa.

Il pericolo di una guerra nucleare era qualcosa di strettamente connesso alle basi dell’ordine europeo postbellico. Il continente europeo sembrava aver raggiunto il punto (preannunciato da Ivan Bloch) nel quale la tecnologia militare aveva di fatto reso la guerra fra grandi potenze troppo pericolosa. Nelle prime fasi della guerra Fredda, quando gli USA detenevano ancora il monopolio delle armi nucleari, gli europei le consideravano una risposta necessaria allo schiacciante vantaggio dell’URSS nel campo delle armi convenzionali. Nel ’49 però i sovietici sperimentarono un ordigno nucleare e 5 anni dopo la Bomba-H. La sicurezza del continente dipendeva quindi da decisioni prese a migliaia di km di distanza: gli USA sarebbero stati disposti a rischiare un attacco nucleare sul proprio territorio pur di difendere i loro alleati? Per molti europei tuttavia la minaccia di una guerra nucleare era una fonte di stabilità, una ragione per sperare nella pace pur temendo la catastrofe. I timori vennero amplificati dalle crisi che negli anni ’50 e ’60 turbarono il sistema globale: I vari scontri fra grandi potenze sulla questione di Berlino, l’instabilità dell’Asia e del Medio Oriente e la crisi dei missili a Cuba nel ’62. I tre più importanti alleati degli USA reagirono la sfida della strategia nucleare con modalità che riflettevano le loro rispettive posizioni geopolitiche ed esperienze storiche. I britannici accettarono il loro ruolo di membro subalterno, disponendo di ordigni propri ma trasportati da sottomarini forniri dagli USA. De Gaulle decise che la FRA aveva bisogno di una propria forza nucleare capace di infliggere seri danni a qualsiasi potenziale aggressore. La sua ostilità al monopolio nucleare anglo-americano fu una delle ragioni per cui la FRA uscì nel ’66 dalla NATO. Per scongiurare la possibilità che la GER si dotasse di una forza nucleare i sovietici misero in atto enormi pressioni e alla fine la GER continuò a dipendere dalla forza collettiva della NATO. Il problema di Berlino aveva assunto una posizione marginale negli affari europei; furono messi in atto frequenti tentativi per favorire la distensione, interrotti da temporanee crisi e accuse reciproche, ma ognuna delle due parti si impegnò per evitare lo scontro militare. Tuttavia non vi era altro luogo al mondo in cui vi fosse una tale quantità di soldati, materiali e armi nucleari concentrata in un’area così ristretta come quella dei due stati tedeschi. La dimensione delle possibili distruzioni rendeva in ogni caso l’uso di simili armamenti sempre più impensabile. Le campagne per il disarmo nucleare non attrassero mai più di una minoranza di sostenitori. Né erano molti gli europei disposti a investire in modo consistente nei mezzi convenzionali di difesa diminuendo la dipendenza del proprio paese dalle armi nucleari. L’ordine bipolare generale della Guerra Fredda consentì agli europei di vivere in pace, ma non garantì la pace al resto dell’umanità: anche in questo caso un’Europa relativamente tranquilla visse circondata da un mondo violento. Dopo il ’45 in una parte del mondo dopo l’altra le forze europee furono sconfitte o semplicemente rinunciarono al proprio potere e si ritirarono. Fra il ’40 e l’80 più di 80 possedimenti europei, abitati dal 40% della popolazione mondiale, divennero indipendenti. La decolonizzazione fu in alcuni casi pacifica, in altri cruenta. I peggiori episodi di violenza si verificarono dopo che i paesi ottennero

l’indipendenza, quando gruppi rivali entravano in conflitto per riempire il vuoto politico apertosi dopo la partenza dei colonizzatori. Fu questo ad esempio l’infausto destino della Palestina dal 1948. Nel maggio ’58 la Quarta Repubblica francese cessò di esistere per mano di Charles De Gaulle, che scongiurò la minaccia di una guerra civile in FRA e represse una controrivolta in Algeria. Dopo l’indipendenza, la maggior parte degli algerini europei fuggì. Tuttavia quella francese in Algeria fu una sconfitta politica; dal punto di vista militare, l’esercito era riuscito a limitare la ribellione usando la tortura per intaccare le reti di sostegno su cui poteva contare nelle città e una spietata politica di ricolonizzazione per le campagne. Il perdurare della violenza rendeva evidente che l’esercito e i suoi sostenitori avevano perso la battaglia più importante, quella per il consenso pubblico. Il consenso alla guerra si era ridotto in quanto l’opinione pubblica la considerava causa di rovina economica e si convinse che vincerla era impossibile. Il fatto che partendo da una base militare limitata, i ribelli algerini fossero riusciti a sconfiggere le formidabili forze schierate contro di loro fu fonte d’ispirazione per tutta l’Africa e il Medio Oriente. Yasser Arafat, futuro capo della resistenza palestinese contro Israele, era fra la folla esultante che accolse i capi della rivolta quando fecero ritorno ad Algeri, città che divenne la “Mecca dei Rivoluzionari”. Fu così che gli Europei persero non solo la capacità, ma anche la volontà di conservare i propri imperi. Il colonialismo finì perché si modificarono le valutazioni morali degli europei e la loro percezione di ciò che veramente contava. Quando i popoli assoggettati cominciarono a chiedere l’indipendenza, i colonizzatori si chiesero se il mantenimento delle colonie valesse tutto quel sangue e quelle risorse che occorrevano a tale scopo. Il colonialismo aveva smesso di apportare vantaggi ai paesi avanzati e quindi non vi era ragione per mantenerlo. Gli stati Europei abbandonarono i loro imperi in modo da poter dedicare le proprie energie e risorse ad altre questioni. Negli anni ’60 la potenza non costituiva più un obiettivo importante per gli europei, quel che contava erano il benessere materiale, la stabilità sociale e la crescita economica.

- L’ascesa dello Stato CivileHarold Lasswell sosteneva che in ogni parte del mondo gli Stati civili, guidati da uomini d’affari e altri specialisti in negoziati e compromessi, stavano aprendo la strada all’affermazione degli “stati guarnigione”, nei quali gli specialisti della violenza rappresentavano il gruppo sociale più potente della società. In questi stati ogni aspetto della vita sociale si indirizza verso la guerra e ogni cambiamento si traduce in potenziale bellico. Nel decennio successivo vi furono ragioni per credere a questa ipotesi: gli specialisti della violenza erano al potere in molti stati e quando le autorità civili non riuscivano a negoziare con queste forze violente non avevano altra scelta che fare affidamento sui propri specialisti della violenza. L’utopia di “1984” di Orwell dette l’idea per uno stato organizzato in funzione esclusiva della guerra. Tuttavia il futuro dell’EU era molto diverso. Fra le rovine lasciate dalla guerra, gli europei costruirono degli Stati a forte connotazione civile; gli specialisti della guerra furono subordinati agli esperti del negoziato.

Gli stati civili erano organizzati in funzione della pace e il mutamento sociale si traduceva in produzione economica. La principale ragione dell’affermazione di questi sistemi di governo fu l’ordine bipolare imposto dalle superpotenze, che si orientarono verso la realizzazione di istituzioni sovranazionali come la CECA e la CEE; l’influenza di questi organismi ruppe il solido guscio dell’autonomia statale, così i confini divennero più aperti e permeabili di sempre. Se la Guerra fredda fu lo sviluppo più conseguente delle relazioni internazionali dopo il ’45, la più significativa trasformazione fu rappresentata dalla crescita economica, che consentì ad ogni stato dell’EU occidentale di recuperare rapidamente dai disastri della guerra. A metà degli anni ’50 le città distrutte erano state ricostruite, l’economia faceva registrare un’espansione senza precedenti tanto che già negli anni ’70 nella maggior parte delle case c’erano beni di consumo come lavatrici e televisori. Gran parte di questa prosperità dipendeva dai rapporti commerciali fra stati europei: nel 1960 1/3 delle importazioni proveniva dai paesi membri. I governi avevano imparato dagli sforzi fatti per gestire la produzione in tempo di guerra, ed elaborarono strumenti più adeguati per pianificare l’espansione economica, controllare la moneta. Il successo rifletteva e contribuiva ad affermare il potere dello stato. Dai sondaggi appariva ovvio che il primo punto delle priorità politiche doveva essere la stabilizzazione dell’economia e la lotta all’inflazione. Oltre all’istruzione, i governi si assumevano la responsabilità dell’assistenza sanitaria, delle pensioni di vecchiaia e concessione di alloggi a basso prezzo. La legge francese sulla previdenza sociale approvata nel ’45 faceva riferimento allo “spirito di fratellanza e di riconciliazione che segna la fine della guerra”. L’aumento della spesa pubblica era un punto fondamentale di ogni governo dell’Europa occidentale: le spese del governo britannico per la spesa sociale erano il 40% del PIL. All’inizio de ‘900 la maggiore voce di spesa di ogni stato era destinata alla difesa, ma con l’aumento della spesa per i servizi sociali la quota andò declinando fino a raggiungere il 10%. La crescita economica metteva a disposizione degli Stati entrate sempre più consistenti e nessuno stato le utilizzò per il settore militare. Nel ’73 un sondaggio verificò che il 2% della popolazione citava la necessità di “potenti risorse di difesa” al primo posto delle priorità politiche, ma questo non significava che non si avesse a cuore la sicurezza nazionale, ma che le priorità erano altre. La trasformazione delle caratteristiche dello stato europeo possono essere esaminate mediante l’evoluzione dell’esercito di leva dopo il ’45. All’inizio del secolo era considerato una “scuola di formazione”, e rimase vero negli ultimi decenni del secolo, in effetti l’esercito di leva di massa sopravvisse alla guerra e infatti tutti gli Stati europei mantennero la leva fino al termine del 20° secolo, ma il servizio venne abbreviato con il risultato di una lenta contrazione dell’esercito. Alcuni eserciti allentarono la disciplina, abbassando i livelli di prestazione richiesti. Per poter stemperare all’opposizione alla coscrizione obbligatoria in alcuni stati venne introdotta la possibilità di svolgere servizi alternativi; la guerra non era più vista come elemento intrinseco del contratto sociale. Nel 2000 il ruolo dell’elemento militare nei simboli e nelle cerimonie si era ridimensionato: raramente si vedevano uomini

in uniforme e lo status sociale dei militari di professione subì un costante declino. La forza culturale e la rilevanza politica dei simboli sono chiaramente in declino e costituiscono ormai più attrazioni turistiche che strumenti di patriottismo.All’indomani della seconda guerra mondiale vi furono vari spargimenti di sangue: atti di vendetta contro i collaborazionisti, resistenze sovietiche in UKR, combattimenti fra serbi e Albanesi in Kosovo, nonché pogrom contro ebrei polacchi che tentavano di fare ritorno dai campi di sterminio, ma non vi furono massicce ondate di violenza sociale comparabili con insurrezioni rivoluzionarie e guerre civili tipiche del periodo dopo il 1918. La maggior parte delle persone giunse a considerare la violenza come qualcosa da temere ed evitare. I movimenti di estrema destra sembravano essere ormai definitivamente screditati in quanto associati agli orrori del nazismo. Coloro che volevano spargere sangue venivano considerati criminali e non idealisti, eroi o salvatori.Nel settembre ’68 la CIA informò Lyndon Johnson che il dissenso stava diventando un fenomeno mondiale: i contestatori attingevano a due comuni fonti: la guerra in Vietnam (che fece emergere anche simpatia nei confronti dei popoli del terzo mondo), i sentimenti di malcontento che univano chi rifiutava il materialismo del boom economico e chi credeva di non poter ricevere una giusta porzione dei benefici che esso apportava. Gli aspiranti rivoluzionari che scesero in piazza nel 1968 credevano di partecipare ad una riedizione del grande dramma rappresentato nel 1789; emersero leader carismatici che formularono richieste politiche e infiammarono le folle, ma per quanto queste proteste potessero sembrare convincenti, il ’68 non fu il 1789: nessuno perse il potere, la società non ne uscì trasformata e le istituzioni politiche non furono sovvertite. L’80% degli eventi di protesta non implicò nessuna forma di violenza e solo nel 2% provocò ferite gravi. Già dal ’69 il sostegno ai movimenti di protesta iniziò a calare, ma una piccola minoranza di dissidenti passò all’agitazione sociale, alla cospirazione, ai rapimenti e gli omicidi. Il terrorismo politico ebbe esiti cruenti solo in ITA (fra il ’69 e il 1980, provocando 413 morti e oltre 1000 feriti), in GER (dove i terroristi della RAF erano sostenuti anche dai vicini della RDT). In Irlanda del Nord invece i terroristi furono capaci di conquistarsi una base sociale molto più ampia, dal ’67 la minoranza cattolica fece propaganda per l’uguaglianza dei diritti sociali e civili. Iniziative che procurarono dure contromisure; le violenze furono reciproche e l’IRA ritornò in campo, determinato a cacciare i britannici dal paese una volta per tutte. Tuttavia questi fenomeni misero alla prova ma non distrussero lo stato civile affermatosi dopo la guerra. Nel ’49 la GRE emerse dalla sua aspra guerra civile economicamente debole, politicamente divisa e spiritualmente esausta. Nel ’67 un colpo di Stato instaurò un regime sovvertito 6 anni dopo. Per un certo periodo GRE e TUR (entrambi membri NATO) sembravano pronti ad entrare in guerra, per il possesso di Cipro, ma la crisi si concluse con il ripristino del controllo delle autorità civili. In Portogallo Antonio de Spinola instaurò un governo, ma la situazione rimase instabile finchè un gruppo di ufficiali moderati guidati da Antonio Eanes prese il potere e indisse nuove elezioni uscendone vincitore. I risultati del nuovo regime furono straordinari: in soli due anni, i riformatori riuscirono a porre fine a

un regime autoritario che era rimasto al potere per più di 50 anni; insediarono un nuovo governo che mantenne i legami con la NATO.In SPA la dittatura di Francisco Franco finì con la morte del leader maximo e, grazie al sostegno del successore designato (Re Juan Carlos), si poterono fare riforme costituzionali, sancendo la trasformazione da dittatura in democrazia parlamentare.In GRE, POR e SPA la democrazia trionfò in quanto la stragrande maggioranza dei cittadini non credeva più alla violenza come arma politica legittima; il generale Spinola disse che “le nazioni preferiscono vivere prosaicamente più che scomparire in gloria”.Tuttavia l’Europa orientale non sembra far parte di questa storia. Nei regimi comunisti il conflitto armato rimaneva sempre vicino alla superfice della vita pubblica e si fece anche ricorso alle truppe sovietiche per sedare qualche rivolta (RDT, UNG e Cecoslovacchia). Ciò nonostante la guerra vera e propria scomparve anche dall’EU orientale. L’ordine bipolare creò un sistema di sicurezza che garantì uno sviluppo di valori e consuetudini civili anche all’Est, contribuendo a gettare le basi delle grandi rivoluzioni pacifiche del 1989. All’improvvisa morte di Stalin per un attacco cardiaco fece seguito un deciso cambiamento nel sistema sovietico, ma la vita rimase fortemente soggetta a limitazioni. Dopo il ’53 anche la politica estera si modificò quando Chruscev si rese conto della portata distruttiva degli armamenti nucleari; uno scontro armato fra capitalismo e comunismo non era inevitabile, tanto che i due sistemi potevano coesistere. Sotto Chruscev l’economia crebbe ad un ritmo intenso; aumentò la disponibilità di beni di consumo; i cittadini sovietici cominciarono ad acquistare televisori e frigoriferi. Si cominciava a prevedere che la società comunista e quella capitalista sarebbero diventate più simili col tempo, fino a convergere in un felice modello intermedio risultante dalla mescolanza del meglio di entrambi i sistemi, ma in realtà non fu così. L’interesse dei dirigenti sovietici per la distensione era anche essenzialmente economico, in quanto avevano bisogno di prestiti e sussidi dall’Occidente per tenere in piedi i propri regimi; come un pugile esausto, i regimi comunisti tentarono disperatamente di rimanere in piedi aggrappandosi ai loro avversari capitalisti. Diversamente da quanto era avvenuto nel ’56 e nel ’68, in Polonia l’URSS decise di non intervenire quando l’opposizione, coalizzata attorno al sindacato di Solidarnosc sembrò sfuggire al controllo; fu invece un generale polacco a reprimere quello che tutti sapevano essere un autentico movimento operaio. I 40 anni successivi alla Conferenza di Yalta erano stati un periodo di anormale paralisi e lo scetticismo faceva pensare che nulla sarebbe cambiato, anche perché la maggior parte dei dirigenti del blocco sovietico aveva passato i settanta e molti di loro erano sulla scena da decenni; erano la personificazione dell’inveterata resistenza al cambiamento nell’impero sovietico. In realtà in poco tempo si fecero da parte e Michail Gorbacev venne nominato segretato del Comitato centrale del partito Comunista; era il primo capo dell’URSS a non esser stato coinvolto nella seconda guerra mondiale e si rese conto che era inevitabile introdurre riforme sostanziali. Come le sue controparti in Occidente, credeva che ciò significasse creare un’economia in grado di garantire benessere, assistenza e sicurezza. Egli non

aveva intensione di smantellare il sistema sovietico, ma voleva salvare la rivoluzione con politiche di trasparenza e modernizzazione: propose il disarmo e ipotizzò che l’URSS potesse cessare di imporre ai suoi alleati la conformità alla propria politica. Negli stati dell’Europa Orientale le sue parole ebbero massima risonanza tanto che in Cecoslovacchia e in Ungheria le dimostrazioni popolari condussero al rovesciamento dei rispettivi regimi. Come le potenze coloniali, i sovietici abbandonarono i loro possedimenti perché ora avevano priorità diverse; l’impero non sembrava valere i costi che comportava. La dissoluzione dell’impero tuttavia era parte di una crisi terminale, che si concluse con il collasso totale del sistema (al contrario in Europa aveva consentito la ripresa economica e la costruzione di società più prospere e vincenti). Fra il marzo ’90 e il dicembre ’91, 14 repubbliche sovietiche dichiararono la propria indipendenza. Il 25/12/91, l’URSS si dissolse pacificamente e in breve tempo i capi dell’URSS si fecero da parte.Questa vicenda pone in evidenza l’importanza del ruolo delle singole personalità nella storia: senza l’inesorabile volontà di potere di Lenin, la sua piccola banda di rivoluzionari non sarebbe stata capace di prendere il controllo dello stato russo; senza l’ostinata convinzione riformatrice di Gorbacev, è improbabile che la fine del comunismo si sarebbe prodotta in modo così rapido e pacifico. Ma se questi due uomini sono stati in grado di fare la storia, non sono però riusciti a indirizzarla nella direzione auspicata: Lenin conquistò il potere in quanto credeva che la rivoluzione fosse imminente, Gorbacev introdusse le riforme per salvare il regime, ma le cose andarono diversamente. La differenza fondamentale fra il fondatore del comunismo e il suo liquidatore fu il carattere: quando l’illusione di Lenin svanì, fece di tutto per rimanere al potere, quando Gorbacev si rese conto che la sua politica aveva affrettato il controllo di quel sistema che voleva salvare, lasciò che gli eventi seguissero il loro corso. La nascita del regime bolscevico sarebbe stata impossibile senza l’intensa violenza che aveva infestato l’Europa nel 1917; il suo pacifico crollo aveva alle spalle quel declino della violenza che, negli anni ’80, aveva trasformato la politica interna ed internazionale in tutta l’Europa.

- Perché l’Europa non diventerà una SuperpotenzaNegli anni ’90 in Serbia e Croazia vennero confermati al potere Milosevic e Tudman, che puntavano a distruggere la struttura federale creata da Tito. Quando questa struttura implose, le notizie relative alla violenza interna si fecero sempre più crude e invadenti. Nelle immagini dei massacri gli europei vedevano vittime che avevano il loro stesso aspetto; la costa dalmata, teatro di alcune delle peggiori atrocità, era stata popolare luogo di vacanza per gli europei. Le guerre degli anni ’90 nei Balcani ebbero terribili conseguenze per gli abitanti della regione, ma il conflitto scoppiato in quell’area non si estese altrove. Non fu nemmeno l’occasione per l’attuazione di una politica europea forte ed unitaria; al contrario, gli interventi sporadici e inefficaci degli europei dimostrarono la loro incapacità. Per gran parte del mondo gli anni ’90 furono un periodo di grandi

cambiamenti; in un contesto così turbolento infatti colpisce la notevole continuità delle istituzioni europee e soprattutto il consolidamento dell’UE e la sopravvivenza della NATO. La fine della Guerra Fredda sembrò minacciare le fondamenta sulle quali era stato costruito l’ordine internazionale europeo. La nuova GER era completamente libera da limiti esterni alla propria sovranità; in breve tempo il Patto di Varsavia e poi l’URSS scomparvero. La federazione RUS disponeva ancora di un arsenale di armi nucleari, ma gli eserciti che un tempo minacciavano l’Europa non c’erano più. Senza la funzione stabilizzatrice dell’autorità delle due superpotenze, i governanti degli stati europei avrebbero appreso di nuovo il loro ruolo di grandi potenze? Le possibilità di una crisi di vasta portata e di una guerra europea erano soggette ad aumentare decisamente. Tuttavia non accadde nulla di tutto questo; l’integrazione istituzionale dell’Europa postbellica non solo sopravvisse alla fine della guerra fredda, ma divenne più forte ed estesa. La GER fu ben contenta di rimanere all’interno di quell’assetto che le era stato così utile, gli statisti europei continuarono ad interpretare i ruoli ricoperti fino a quel momento. Il nuovo contesto politico di sicurezza avrebbe permesso agli stati membri sia di ridimensionare l’esercito che di spostare l’accento sugli scopi politici dell’ organizzazione, fra i quali vi erano il dialogo con gli ex antagonisti della NATO a est e una maggiore cooperazione con altre organizzazioni europee. Con la fine della Guerra Fredda perciò l’Europa era diventata un luogo meno pericoloso ma più complesso. Fin dalla sua formulazione, nel 1949, l’Alleanza Atlantica aveva fronteggiato una crisi dopo l’altra, tuttavia l’accordo con gli USA rimaneva essenziale; dopo la guerra fredda però, si pensava che questo fosse possibile: un Europa unita sarebbe potuta essere abbastanza forte da porsi su un piano di pari dignità con l’alleato americano e svolgere un ruolo autonomo sulla scena internazionale.Nel dicembre 1991 nacque l’Unione Europea, concordata con il Trattato di Maastricht e poi modificata con il trattato di Amsterdam del ’97. Il primo trattato annunciava l’intenzione dell’UE di affermare la sua identità sulla scena internazionale e la definizione di una politica di difesa comune. Dopo un serrato dibattito, i governanti dell’UE attribuirono la responsabilità di elaborare questa politica all’UE occidentale, che perciò rinacque, sintomo delle difficoltà sollevate dall’aspirazione dell’Europa alla propria identità e indipendenza. Gli europei rimanevano divisi fra chi, come GB e OLA, continuava a considerare la NATO come fonte primaria della sicurezza e chi, come FRA e GER, era pronto ad indirizzarsi verso un sistema di difesa europeo più autonomo. I primi dibattiti ebbero luogo in coincidenza delle due crisi internazionali in Kuwait e nei balcani. Nel primo caso l’Iraq aveva invaso il Kuwait arrivando a controllare il 20% delle riserve petrolifere mondiali; gli europei decisero di lasciare l’iniziativa militare in mano agli USA che misero in piedi una coalizione internazionale e vinse rapidamente mettendo in rilievo la forza americana e la dipendenza europea. Nel secondo caso, il conflitto nei Balcani era troppo vicino agli europei per essere ignorato e non poteva essere appaltato a Washington poiché gli USA fecero sapere che la Iugoslavia era un problema non di loro interesse. Gli interventi

europei si rivelarono dei miseri fallimenti e con il riconoscimento diplomatico delle due repubbliche secessioniste, furono incoraggiate le fazioni in lotta a conquistare territori e ad espellere altri gruppi etnici. Le istituzioni dell’UE si rivelarono troppo impacciate per formulare una politica unitaria e coerente. Nel ’94 la situazione nei Balcani ebbe una svolta: il governo USA iniziò ad interessarsi alla situazione dei musulmani in Bosnia, così le forze della NATO minacciarono i Serbi di bombardare le posizioni se non avessero interrotto l’attacco; il governo Bosniaco raggiunse un accordo con la Croazia e intanto Clinton ricorse a promesse e minacce per allontanare Milosevic dai serbi di Bosnia. Nel 1995 poi, un rifugio delle Nazioni Unite venne conquistato dai serbi, scaturendo l’intervento immediato della NATO e costringendo i serbo-bosniaci alla resa. Tutto questo dimostrò quanto la NATO fosse ancora essenziale per la sicurezza europea. Nel 1998 in un incontro fra Chirac e Blair (PDR FRA e primo ministro GB), si dichiarò che l’UE doveva avere un’autonoma capacità d’azione sostenuta da forze militari credibili e strumenti per decidere se utilizzarle. Intanto accadde un’altra crisi, stavolta in Kosovo, provincia a maggioranza albanese che faceva parte della Federazione Iugoslava dominata dai Serbi; i rapporti fra le due etnie deteriorarono a tal punto da innescare una spirale di proteste violente e ancor più violente repressioni. I tentativi di mediazione internazionale fallirono e la NATO iniziò a bombardare obiettivi serbi situati in Siria. Il prezzo del conflitto fu terribile sia per i Kosovari che per le migliaia di civili serbi; le forze NATO non subirono neppure una perdita. La guerra in Kosovo dimostrò ulteriormente l’incapacità degli europei di agire da soli e il notevole divario che in termini di forza la separava dagli USA. Le vittorie in Iraq, Bosnia e Kosovo convinsero molti esperti del settore che la concezione americana della guerra, che aveva sempre privilegiato l’uso della tecnologia al fine di salvaguardare la vita dei propri cittadini soldati, aveva raggiunto un nuovo livello di efficienza. L’alleanza Atlantica venne poi scossa dagli avvenimenti dell’11 settembre 2001. In un primo momento, gli europei espressero la propria solidarietà e il proprio sostegno per gli attacchi terroristici, tuttavia dietro queste dichiarazioni si potevano scorgere differenze nel modo in cui europei e americani consideravano il terrorismo e intendevano combatterlo. Gli USA pensarono fosse necessaria una guerra analoga a quella che aveva distrutto le potenze dell’asse, mentre l’Europa non accettava questa posizione secondo cui l’11/9 si era aperto un conflitto globale per la sopravvivenza nazionale. In effetti solo la GB svolse un ruolo di sostegno nella prima operazione militare contro il terrorismo quando si tentò, con successo, di estromettere i talebani dal potere in Afghanistan. Tuttavia si pose un problema riguardo alla NATO, concepita come alleanza per contrastare una massiccia invasione sovietica ora serviva per una protratta lotta contro “stati canaglia”, inafferrabili bande insurrezionali e singoli terroristi. Si decise perciò di trasformare la NATO con nuovi membri, quali Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia, il cui ingresso implicava una collaborazione con ex nemici come la RUS e un potenziamento della cooperazione con l’UE. Gli accordi ebbero delle difficoltà riguardo alla questione

irachena, che era di importanza fondamentale per gli USA, mentre l’Europa vedeva in elementi come il ricorso alla pena di morte, l’assenza di controlli sulle armi, il disinteresse per l’inquinamento globale aspetti irritanti con cui l’America veniva identificata. Nel Gennaio 2003 quando il massiccio spiegamento di forze americane nel golfo aveva di fatto reso inevitabile la guerra, le divisioni interne alla NATO si fecero più marcate; Chirac e Schroder denunciarono la politica americana e pochi giorni dopo 8 capi di stato europei firmarono una dichiarazione di appoggio a Washington; quando gli USA chiesero alla NATO di fare alcuni passi per sostenere l’operazione, FRA-GER-BEL si opposero. Del resto, dal 2000 al 2003 il sostegno dell’opinione pubblica europea nei confronti degli USA era sceso al 25%, addirittura il 14% in SPA. Dopo la vittoria contro l’esercito iracheno, l’Iraq sprofondò in una situazione insurrezionale e di fronte al deteriorarsi della situazione politica, molti membri della coalizione ridussero o ritirarono i propri modesti contingenti. La prolungata agonia della seconda Guerra del Golfo accentuò in Europa la pubblica ostilità nei confronti degli USA, ma le missioni in Macedonia e Bosnia non erano tali da dimostrare che l’UE sarebbe stata in grado di intervenire in una crisi di vasta portata; in termini di addestramento le forze europee sembravano reparti di polizia armati più che unità militari. Per essere efficienti nel mondo moderno c’è bisogno di tecnologia, e la tecnologia militare è assai costosa; di fatto mentre il costo della sicurezza continua a crescere, i bilanci militari degli stati europei continuano ad assottigliarsi, lasciando pochissimi fondi a ricerca e sviluppo. Il più grande complesso economico del mondo (l’UE) potrebbe anche permettersi di finanziare una forza militare efficace, ma vi sono dubbi sul fatto che essi siano realmente disposti a farlo.Il parlamento Europeo di Strasburgo è sempre stato l’organismo meno efficace all’interno delle istituzioni comunitarie; anche dopo l’introduzione dell’elezione popolare diretta nel ’79 non è stato stabilito un sistema elettorale unificato ne si è assistito alla formazione di netti schieramenti partitici o una chiara definizione di questioni europee. I manifesti limiti di questo organismo ci ricordano continuamente che la nuova Europa non è una democrazia rappresentativa, poiché manca un “demos” da rappresentare, un corpo di cittadini attivamente coinvolti che rivolgono la propria fedeltà politica all’Europa. La cittadinanza europea è una questione di diritti e di privilegi, non di obblighi ed impegni; in effetti l’UE non fa nulla per plasmare una identità per i propri cittadini e l’identità europea si configura come amalgama di appartenenze nazionali, locali e culturali. L’idea di Europa non suscita un’adesione emotiva, non ispira cuori come avevano fatto le nazioni, non rappresenta qualcosa per cui molti sarebbero disposti a morire.Tuttavia possiamo comprendere perché l’UE non sia una superpotenza e perché è improbabile che lo diventi nel prossimo futuro: nella prima metà del secolo, gli stati europei venivano “fatti dalla guerra e in funzione della guerra”; nella seconda metà “dalla pace e in funzione della pace”, ora sono istituzioni civili la cui opera è incentrata su obiettivi civili. Gli stati europei sono dotati di forze armate ma dal punto di vista politico, simbolico ed economico le loro istituzioni militari sono subordinate alle agenzie che operano per

realizzare quello che i cittadini considerano importante: gestire la moneta, promuovere la crescita economica, garantire assistenza. L’eclissi della volontà di usare la violenza ha creato un nuovo tipo di stato; ne deriva che l’UE potrà diventare un “superstato civile” ma non una superpotenza.

- Epilogo: Il futuro dello Stato civileL’idea di Pascal Boniface, condivisa da molti di coloro che lamentano la discrepanza fra la forza economica dell’UE e la sua debolezza militare, è che la naturale conclusione dell’integrazione economica consista nella creazione di qualcosa simile ad uno stato-nazione con struttura federale, politica estera unificata e una forza militare indipendente; tuttavia la prosperità e la stabilità senza precedenti dell’Europa sono sempre state accompagnate dal una sensazione che le sue premesse non si siano pienamente realizzate. Questo probabilmente perché l’UE non è il classico prodotto della guerra, bensì un esempio di prodotto di pace; lo sviluppo dell’economia europea e l’evoluzione delle istituzioni comunitarie che tengono insieme gli europei hanno prodotto quello che sono definiti “stati civili”. La forza che essi proiettano, si manifesta principalmente sul piano commerciale. L’intreccio di dedizione e coercizione che una volta motivava le persone a combattere e morire per la propria nazione è scomparso per sempre e così la minaccia di aggressione da parte di altri stati europei. L’Europa è diventata una “non-war community” e i suoi cittadini vivono in quella che Luttwack ha definito una “era post-eroica”, sostenuta da ambizioni private e desideri individuali; la difesa nazionale non è più un obbligo per ogni cittadino, ma una questione riservata a professionisti che sono pagati per assumersi i rischi e portare pesi che il loro mestiere comporta. Alla luce della storia europea degli ultimi cento anni può sorprendere che la maggior parte degli europei non voglia pagare il prezzo dell’eroismo? Gli europei sanno più di chiunque altro cosa sia realmente la guerra e la memoria di quei tempi terribili rimane. Confrontandola con quei tempi, la creazione dello stato civile sembra qualcosa da tenere a cuore, celebrare e preservare.Se la violenza deflagrerà in Europa, non proverrà dal suo interno. Lo scrittore Jeremy Rifkin ha proclamato “il mondo sta guardando a questo grande nuovo esperimento di governo transnazionale, sperando che offra quell’indicazione così necessaria riguardo alla direzione che l’umanità globalizzata deve prendere.” Le riuscite transizioni alla democrazia della GRE, del POR e della SPA furono tutte fortemente influenzate dai valori, dal potere economico e dall’influsso politico europei. Lo straordinario allargamento dell’UE ha avuto l’effetto di consolidare sia le istituzioni democratiche che i valori civili. In aree come il Libano, l’Iraq, il Kashmir e la Striscia di Gaza, il problema della sicurezza sopravanza ogni altra cosa, in quanto la violenza è una presenza costante nella vita delle persone. Non è avvenuta la “desecurization” (la perdita della centralità del problema-sicurezza). In questi contesti i confini aperti e le istituzioni giuridiche transnazionali hanno poco senso. Il confine fra la zona di pace europea e quella del conflitto eurasiatica si colloca in aree come i frammenti dell’ex Iugoslavia (Bosnia, Kosovo, Macedonia), il versante russo del

Caucaso (Cecenia, Dagestan). Tuttavia, se aree come la Slovenia e Repubbliche baltiche sembrano ormai definibili “stati civili”, quali sono le prospettive di Bielorussia, Ucraina e della stessa Russia?Al momento non esistono minacce militari dirette all’Europa che provengano dalle sue periferie. Ma gli europei sono vulnerabili rispetto ad altri tipi di attacchi come inquinamento, malattie e criminalità possono penetrare abbastanza facilmente attraverso i confini dell’UE. Gli attentati avvenuti a Madrid e Londra hanno ricordato agli europei che anch’essi possono cadere vittime del terrorismo islamico radicale. Ovviamente gli europei non possono isolarsi dal mondo esterno e naturalmente sono legati ad un mondo più ampio da un senso condiviso di umanità. L’Europa può essere un’isola di pace e abbondanza ma non è qualcosa a se stante geograficamente, economicamente e moralmente, essendo una parte del tutto. Sembra infine improbabile che l’Europa continuerà a dipendere da una qualche versione dell’Alleanza Atlantica, ciononostante, per quanto possa essere difficile vivere con essa, vivere senza sarebbe ancora più problematico. I sogni di una pace perpetua sembrano finalmente essersi avverati; per conservare quello che di notevole hanno realizzato, gli europei devono affrontare numerose sfide economiche, politiche, culturali e ambientali. Molte di queste sfide giungono da quell’estesa e mal definita frontiera che collega l’Europa ai suoi vicini; sarà lungo questa lunga frontiera che si determinerà il futuro degli Stati Civili Europei.

Riassunti realizzati da SANDRO MARSEGLIA, per informazioni e chiarimenti: chiedere a

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