Selvicoltura sistemica - Italian Academy of Forest Sciences · in selvicoltura occorreva studiare...

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la teoria della selvicoltura sistemica i razionalisti e gli antirazionalisti, le «sterili disquisizioni» e il sonnambulismo dell’intellighenzia forestale Orazio Ciancio Accademia Italiana di Scienze Forestali FIRENZE 2010

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la teoria della

selvicoltura sistemicai razionalisti e gli antirazionalisti,

le «sterili disquisizioni» e il sonnambulismodell’intellighenzia forestale

Orazio Ciancio

Accademia Italiana di Scienze ForestaliFIRENZE 2010

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la teoria della

selvicoltura sistemicai razionalisti e gli antirazionalisti,

le «sterili disquisizioni» e il sonnambulismodell’intellighenzia forestale

Orazio Ciancio

Accademia Italiana di Scienze ForestaliFIRENZE 2010

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© 2010 Accademia Italiana di Scienze Forestali50133 Firenze (Italia) - Piazza T. Edison, 11

ISBN 978-88-87553-19-2doi: 10.4129/selv-sis

Allegato a «L’Italia Forestale e Montana» 6/2010Pubbl. Bimestrale - Sped. in A.P. - D.L. 353/’03(conv. in L. 27/02/’04 n. 46) art. 1, c. 2, DCB FI

Tipografia Coppini - Firenze 2010

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Quanto asserito in tali articoli si può ricon-durre a un dissenso fragile e, per certi versi, in-consistente, perché figlio di un modo di pen-sare debole e storicamente determinato dacriteri inadeguati e, soprattutto, inattuali. Un dis-senso tutt’al più utile per comprendere le varieopzioni in campo, ma non in grado di dirime-re la delicata problematica posta all’ordine delgiorno dell’attuale contingenza selvicolturale e,più in generale, della questione forestale.

Una cosa è certa. La ritrosia ai cambiamentiche si registra nel mondo forestale contrasta conla rapidità dei mutamenti socio-economici e cul-turali che avvengono nella società. Tali muta-menti impongono un altrettanto rapido ade-guamento della gestione forestale. La società ri-chiede maggiore attenzione e rispetto nei riguardidella foresta, mentre l’idea forza che da sempresostiene l’attività forestale fondamentalmente èl’agire secondo princìpi economico-finanziari.

Chi propone cambiamenti spesso è tacciatodi ideologismo, assolutismo, dogmatismo, in-tegralismo, se non addirittura di fondamenta-lismo. I casi di BERNARD LORENTZ, ADOLPHE

GURNAUD, ADOLFO DI BÉRENGER, ALFRED

MÖLLER, per citare solo quelli più eclatanti, sonolì a dimostrarlo. Epperò, nessuno di coloro checontrastava le tesi di questi eretici3 forestali po-neva domande, dava solo risposte. Nel mentresarebbe bene che tutti ricordassero una esem-plare definizione di CLAUDE LÉVI-STRAUSS «Loscienziato non è l’uomo che fornisce le vere ri-sposte; è quello che pone le vere domande».

Nel dibattito che si è aperto sulla questione«selvicoltura naturalistica» versus «selvicolturasistemica» due sono gli aspetti che immediata-

1 PACI M., Una domanda ai selvicoltori; WOLYNSKI A.,Selvicoltura Naturalistica e Sistemica. Quali analogie e qualidifferenze; MAZZUCCHI M., La selvicoltura e i suoi agget-tivi; PIUSSI P., Tecniche selvicolturali e contesto socio-eco-nomico; SANGALLI G. B., Rimaniamo con i piedi per terra;DOCUMENTO AMMINISTRAZIONI FORESTALI DEL NORD EST(A cura di: Munari G., Profanter P., Zanin M., Comino R.);HIPPOLITI G., La selvicoltura, fantasia o realtà?

2 Già alla fine degli anni Settanta sostenevo la tesi chein selvicoltura occorreva studiare la «complessità delsistema biologico bosco». Venni criticato e paradossal-mente, seppure molto maldestramente, lo sono ancora,anche quando la ricerca nel mondo è ormai orientata intal senso e impegna i ricercatori di molti Istituti di ricerca.Ma, in campo forestale vale sempre la massima del premioNobel MAX PLANCK: Le nuove idee si affermano solo quandoi portatori delle vecchie scompaiono. Così è sempre statoe così sempre sarà!

3 Per eretici in campo scientifico si intendono tutti co-loro che prospettano idee innovative che, appunto per-ciò, non rientrano nel comune sentire dell’establishmentscientifico e politico e, quindi, sono rifiutate e combat-tute.

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Ogni qualvolta una teoria ti sembraessere l’unica possibile, prendilo comeun segno che non hai capito né la teoriané il problema che si intendeva risolvere.

KARL POPPER

1. PREMESSA

Nella Rivista Sherwood, a partire dal N. 149fino al N. 152, sono apparsi sette articoli1 re-lativi alla mozione finale del Terzo CongressoNazionale di Selvicoltura, svoltosi nel 2008 aTaormina; mozione approvata per acclama-zione. Nel corso di quell’evento è stata ripro-posta all’attenzione del mondo forestale scien-tifico, politico, amministrativo, industriale, im-prenditoriale, tecnico e operativo la teoria del-la selvicoltura sistemica. Teoria che nei suddettiarticoli talvolta è oggetto di frettolosi e mar-ginali rilievi critici e talaltra di vivace dibatti-to. Ciò è naturale – per restare nel tema! – cheavvenga perché il coraggio delle idee spessonon paga, almeno così sostengono in molti. Ma,da inguaribile ottimista, sono certo che iltempo è galantuomo2.

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ressato alla questione forestale, che procederecome se in oltre un secolo non fosse cambiatonulla o ben poco nella coltivazione e gestionedel bosco, è assolutamente riduttivo. Agli in-terlocutori chiedo solo una analisi libera da pre-concetti. Audiatur et altera pars.

2. IL DIBATTITO È IL «SALE DELLA SCIENZA»

Come ebbi a sostenere all’apertura dell’AnnoAccademico 2009 dell’Accademia Italiana diScienze Forestali, il valore scientifico di unCongresso generalmente si misura dal numero deipartecipanti e dai contenuti scientifici e tecnici.E, invero, al suddetto Congresso hanno parte-cipato oltre seicento studiosi e ricercatori e in mol-ti casi sono stati esposti contributi originali4.

Basterebbe questo per essere pienamentesoddisfatti del lavoro svolto dai promotori. C’èperò un secondo modo di accertare se unCongresso ha contribuito realmente al progressodella scienza e della tecnica, ovvero l’entità e laqualità del dibattito che solleva tra i partecipantie non. Ed è ancor più significativo se gli scam-bi dialogici o le controversie, i dibattiti o le di-spute si svolgono a margine del Congresso. Ilche non sempre avviene, come è stato nel casodel Primo e del Secondo Congresso.

Il dibattito in corso è l’ulteriore conferma del-la validità del Terzo Congresso di Selvicolturache ha proposto postulati, teorie e idee inno-vative sulle quali si ritiene utile e opportunoesprimere opinioni o favorevoli o divergenti. Ma,questo, si sa, è il «sale della scienza». L’unica co-stante della scienza è il cambiamento. Guai seciò non accadesse. Non ci sarebbe progressoscientifico, tecnologico e culturale.

4 E ciò malgrado un anonimo disattento e frettoloso cri-tico abbia recensito gli Atti del Congresso dando un giu-dizio inappropriato, improprio e inconsistente. Chi recensiscei lavori di oltre 500 A.A., prima di scrivere dovrebbe leg-gere e rileggere ogni contributo; prima di esprimersidovrebbe non fermarsi ai titoli, come chiaramente ha fattocostui. Leggere attentamente prima di esprimersi è dove-roso. Non come incautamente ha pensato di fare, almenosuppongo, un qualche apprendista nella redazione diqualche rivista, per quanto importante essa possa essere.

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mente saltano agli occhi. Il primo riguarda il nu-mero degli interventi, a dimostrazione che del-la selvicoltura si hanno idee diverse e si dannosvariate interpretazioni.

Il secondo riguarda cosa si debba intendereper teoria in campo forestale. Per teorie, si sa,si intendono le ipotesi che deduttivamentepredeterminano la formulazione dei princìpifondanti di una scienza – nella fattispecie la sel-vicoltura – con lo scopo di spiegare i fenome-ni naturali e antropici che interagiscono con ilsistema biologico complesso bosco. Tali prin-cìpi costituiscono la base dalla quale deriva latecnica e la pratica operativa.

Le ipotesi, le deduzioni e la definizione deiconseguenti princìpi sono parte decisiva dellefasi di un processo logico che, a un esame degli ar-ticoli in questione, non pare sia a tutti noto. Di-fatti, quasi sempre si confonde la scienza con la tec-nica e questa a sua volta con la pratica operativa.

E poiché tra l’altro si avvertono difformità chel’innovazione scientifica induce sul particolaresvolgimento teorico, tecnico e pratico operati-vo, nel prosieguo cercherò di analizzare, sce-verare, capire e valutare le principali motivazioniche animano il dibattito.

Chi avrà la costanza di leggere fino in fondoquesto saggio si renderà conto che i motivi delcontendere sono risolvibili poiché la base di ogniopzione è la consapevolezza della necessità ditutelare e valorizzare la funzionalità del sistemabiologico bosco. Mi corre però l’obbligo di fareai lettori una raccomandazione: occorre unosforzo culturale associato al tentativo di can-cellare dalla memoria i pregiudizi che una taleproblematica, che investe aspetti scientifici, tec-nici, economici ed etici, pone a professionisti abi-tuati a esaminare e vedere le cose con i «tem-pi forestali».

La lettura presuppone la mente libera dalleingombranti dottrine che da oltre 250 anni sonopatrimonio culturale di tutti i forestali. Il per-ché è presto detto. Sono convinto che questosaggio, per chi si accosta per la prima volta alproblema, ha carattere di novità. Ma, sulla basedella mia cinquantennale attività, ho maturatola convinzione che, al di là del dibattito in cor-so, sia meglio cambiare il punto di partenza, ri-cordando prima a me stesso e poi a chi è inte-

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5 Sia ben chiaro: con l’espressione «la cosiddetta selvi-coltura naturalistica» non voglio né ironizzare, né recaredisvalore alla forma colturale. Il motivo sta nel fatto chele aggettivazioni e le perifrasi inerenti alla selvicolturasono talmente tante che oggettivamente è difficile saperea quale forma colturale ciascuno degli interlocutori fac-cia riferimento.

Alle volte vien quasi da pensare che le idee an-tiquate, ma tuttora ben radicate, siano il rifles-so di un mondo forestale superato e in contra-sto con quel poco che si sa del sistema biologicocomplesso bosco. Insomma, c’è bisogno di unnuovo pensiero, di una nuova prospettiva neiconfronti della natura, o, se si vuole, di un di-verso modo di vedere il bosco. Bisogna rendersiconto che si è verificato un cambiamento nel rap-porto uomo natura. Un cambiamento che, ol-tre ad avere un significato etico, si concreta inun nuovo e diverso modo di affrontare i pro-blemi scientifici, tecnici, economici e sociali.

Il nuovo orientamento culturale è insito neidue precedenti percorsi. Dunque non è neces-sario soffermarsi ulteriormente. Se qualcuno sidomanda perché si è voluto mettere al centrodell’attenzione del Congresso la «cultura del bo-sco», la risposta è molto semplice, anzi ovvia:la cultura è l’unico vero bene dell’umanità; unbene che diventa più grande se molti vi parte-cipano attivamente.

LEIBUNDGUT (1960) osserva: «Il bosco assol-ve nello spazio vitale dell’uomo anche un com-pito culturale, di cui in nessun paese di anticaciviltà, più che in Italia, vi può esserci com-prensione». D’altra parte, questo è il primo com-pito e il principale impegno di tutti gli studio-si degni di questo nome: creare le condizioni perlo sviluppo del settore forestale e per il progressodelle Scienze forestali e ambientali, nonché perla crescita culturale del mondo forestale.

La questione da me posta, quindi, non solo èdi una semplicità elementare, ma vieppiù è an-che lapalissiana e quindi suppongo che almenosu questo tutti concorderanno. È banale sotto-linearlo, ma spesso non se ne ha la giusta con-sapevolezza: l’aspetto scientifico relativo alla sel-vicoltura – attività che agisce sul e nel bosco, en-tità biologica complessa – è preminente rispettoa quello tecnico e pratico operativo.

3. IL LINGUAGGIO DEL BOSCO

Il laboratorio del forestale è il bosco. Pensoche almeno su questo quasi tutti possano con-cordare. Non si può fare degnamente il forestalesenza passione. Chi fa il forestale lo fa con una

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L’evoluzione scientifica e tecnologica si con-creta attraverso la messa in discussione delle ideeche vanno oltre il comune pensare e il saperecostituito, quando cioè si prospettano nuoviorizzonti. Ritengo che il verificarsi di questo fe-nomeno, ormai da tempo latente, o meglio, inevidente crisi nel settore forestale, sia un veroe proprio successo del Congresso e di coloro chevi hanno partecipato.

I percorsi tracciati dal Congresso che riten-go si svilupperanno nel prossimo futuro e a me-dio lungo termine si possono così sintetizzare:1) decisioni partecipate e informate; 2) ricercheinnovative; 3) nuovo orientamento culturale.

Sono percorsi che se attuati possono contri-buire a una mutazione consapevole della sel-vicoltura, dando vita a una reale e credibile ge-stione forestale sostenibile. Le decisioni non par-tecipate portano inesorabilmente alla sconfes-sione di programmi e piani, anche se tecnica-mente validi, perché in contrasto con la volontàdi sapere e, soprattutto, di partecipare e com-prendere da parte delle collettività interessate.

La ricerca di per sé dovrebbe, e sottolineo do-vrebbe, essere sempre innovativa. Spesso però,consapevolmente o meno poco importa, si ri-pete il già noto, altre volte si aggiunge qualco-sa al già formalizzato, come ormai accade damolti lustri con la cosiddetta selvicoltura na-turalistica e forme similari5. Ciò può essere uti-le al momento, ma non apre nuovi orizzonti, cioènon provoca quella che comunemente si defi-nisce una rivoluzione scientifica.

In altri termini, perlopiù si opera per mi-gliorare i contenuti di un contenitore che restasempre uguale, immodificato nel tempo. Inve-ce, sarebbe necessario sviluppare una ricerca chesia in grado di provocare un cambiamento delvecchio contenitore che dal periodo scolasticoin poi ha codificato, orientato e definito l’atti-vità tecnica e scientifica del mondo forestale.

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intensa partecipazione emotiva, ama la naturain tutte le sue espressioni ed è il più grande esti-matore del bosco per quello che esso è e perquello che rappresenta.

Il bosco è uno straordinario sistema viventeche arricchisce spiritualmente e culturalmentechi a esso si avvicina con rispetto e amore. Lostudio di tale meraviglioso sistema non solo èun vero piacere ma è anche uno stimolo a me-glio comprendere la complessità che lo carat-terizza (CIANCIO e NOCENTINI, 1996a; 2008).

LEIBUNDGUT (1960) annota: «La complessi-tà di un tale sistema appare comprensibile se sipensa che i componenti specifici interessati sonodell’ordine delle migliaia. Quanto più numerosee quanto più differenziate sono le specie par-tecipanti alla struttura di una biocenosi, tantopiù stabile risulta di norma il complesso».

Ho sempre seguito l’aurea regola che s’imparaattraverso quattro momenti: pensando, osser-vando, studiando, e, soprattutto, facendo. In vir-tù di tale regola, in età giovanile e ancora fore-stale in pectore – erano gli anni 1952-1953 –, hoeffettuato rimboschimenti in alcuni bacinimontani della Calabria perché ciò era ritenutoindispensabile per sanare gli effetti della di-struzione del bosco avvenuta nel corso e subi-to dopo l’ultimo conflitto mondiale e in tal modolimitare le conseguenti alluvioni che tante ca-tastrofi e non pochi lutti avevano comportato.

In questo frangente ho cominciato ad ana-lizzare le condizioni climatiche e pedologichedelle zone dove operavo. Osservavo quello cherestava del bosco circostante e con impegno stu-diavo le caratteristiche delle specie da impiegare.Di queste esaminavo le peculiarità delle pian-te da mettere a dimora, meditando sugli effet-ti che tali operazioni avrebbero comportato perla difesa e la salvaguardia del territorio.

Ho poi avuto la possibilità di conoscere e, perun certo lasso di tempo, di convivere – voluta-mente faccio riferimento solo ad alcune for-mazioni del meridione d’Italia – con le cerretedell’Alto Fortore, le pinete di loricato del Pol-lino, le pinete di laricio della Sila, le abetine diSerra San Bruno, le faggete dell’Aspromonte,le pinete di domestico dei Peloritani, le sughe-rete della Sicilia nord-orientale, per citare alcunidei tanti casi nel territorio nazionale e non ai qua-

li mi sono interessato e appassionato. E, in uncontinuo balenar di pensieri che inevitabilmentemi sovvenivano a seguito della scrupolosa os-servazione, ho potuto apprendere che il boscosi esprime con un suo specifico linguaggio.

Parlare con il bosco significa rendersi contoche esso è un sistema biologico complesso.Ascoltare il bosco e capirne le necessità, in modopoi da agire in suo favore e di riflesso in favo-re dell’uomo, è stata una sorprendente e bel-lissima esperienza. Comprendere e imparare illinguaggio del bosco è stato appagante anche sea onor del vero bisogna dire che solo un gran-de amore e un’infinita pazienza permettono diinterpretare il linguaggio di questo sistema al-tamente complesso.

4. L’IPOTESI, IL MOMENTO CREATIVO

E QUELLO CONOSCITIVO

In questi ultimi tempi, tra i forestali e non, siassiste a un gran parlar di bosco. Un aforismada me coniato illustra bene il fenomeno: «C’èchi parla di bosco e c’è chi parla con il bosco».A ben guardare, molti, moltissimi parlano di bo-sco, ma pochi, pochissimi parlano con il bosco.Se si parla con il bosco, allora si comprende chela selvicoltura è la scienza, ripeto la scienza, at-traverso la quale l’uomo, componente essenzialedel sistema, si adopera in favore del bosco per-ché sente il dovere di rispettarne le peculiarità,ovvero i suoi diritti. Quei «diritti del bosco» chein prima approssimazione sono rappresentatidalla funzionalità del sistema e dalle innume-revoli interazioni tra i suoi molteplici compo-nenti, alle quali sono direttamente collegate lasalute, la stabilità, la continuità nel tempo e nel-lo spazio, la fertilità del suolo ecc. Ma suppongo,anzi sono convinto, che anche su questo pun-to gran parte dei forestali sia d’accordo.

In selvicoltura, però, i momenti più significativie salienti di progresso scientifico, quelli che con-traddistinguono un’epoca, sono intimamente le-gati all’enunciazione di princìpi teorici e alla for-mulazione di ipotesi da cui, attraverso deduzionidi ordine speculativo, è possibile interpretarefenomeni naturali e acquisire aspetti conoscitividi assoluto valore.

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Studiare nel laboratorio bosco è determinanteper formulare una serie di ipotesi da valutare emettere a punto successivamente, al fine di ela-borare i princìpi della selvicoltura come disci-plina. Gli Enti di ricerca e le Università sono illuogo deputato per tale elaborazione. Qui i ri-cercatori hanno modo di discutere, analizzaree affinare con i colleghi e, nelle Università, coni docenti delle discipline affini e, soprattutto, congli studenti, la formulazione dei suddetti prin-cìpi, confrontando il momento creativo – l’ipo-tesi – con il momento conoscitivo – la culturadel bosco – acquisito nel corso del tempo.

I ricercatori forestali, nell’affrontare proble-mi diversi da quelli che la selvicoltura ha af-frontato in passato, spesso fanno ricorso al pa-radigma scientifico dei Sistemi Complessi. Or-mai molti di essi si sono incamminati e si in-camminano sempre più su questa strada che, puressendo irta di ostacoli, è la sola che può darerisultati di assoluta originalità (PUETTMANN etal., 2009).

GIORGIO PARISI (1994) afferma che il para-digma dei Sistemi Complessi differisce dal pa-radigma Newtoniano: «Nella fisica Newtonia-na: la predizione ha un significato forte ma undominio di applicazione stretto; il linguaggio èmatematico e si traduce in un sistema linearedi equazioni differenziali; nella fisica dei SistemiComplessi: la predizione ha un significato debolema un dominio di applicazione ampio; il lin-guaggio non è ancora codificato. Si tratta di unsistema non lineare poiché il sistema si può com-portare in modi diversi: molte componenti in-teragiscono e soggiacciono a forze contra-stanti».

Osservazioni quelle di PARISI assolutamentechiare e comprensibili che purtroppo non fan-no parte della cultura dei forestali, anche di quel-li il cui credo interpretativo del bosco sono i si-stemi teorico matematici e a questa metodolo-gia fanno riferimento allorché ne studiano le ca-ratteristiche. Tuttavia, essi non si rendono con-to che i Sistemi Complessi, proprio perché tali,non consentono predizioni certe e, almeno almomento, sono difficilmente definibili per le in-numerevoli interazioni tra le numerosissimecomponenti del bosco.

Dallo studio del linguaggio del sistema bio-

logico complesso bosco al quale si è aggiuntoil processo creativo nato in bosco e codificatoa seguito delle suddette discussioni è scaturitala «teoria della selvicoltura sistemica». Essa haavuto origine da un’intuizione seguendo, ap-punto, la logica del metodo ipotetico-dedutti-vo. Tale teoria si basa su una rete di analogie edi connessioni logiche che si sviluppa nel tem-po e nello spazio attraverso le maglie dei fon-damentali princìpi della selvicoltura comescienza. Nella fattispecie, questa rete è collega-ta al paradigma scientifico olistico o sistemico(CIANCIO e NOCENTINI, 1996b).

5. IL SONNAMBULISMO

DELL’INTELLIGHENZIA FORESTALE

Nel corso del tempo sono state illustrate le li-nee essenziali della selvicoltura sistemica in variscritti (CIANCIO, 1997; CIANCIO e NOCENTINI,1996a; 1996b; 1996c; 2008; CIANCIO et al., 1997)e, in particolare, durante il Secondo Congres-so Nazionale di Selvicoltura, svoltosi a Veneziadal 24 al 27 giugno 1998 (CIANCIO, 1999).

Il tempo per valutare i pro e i contro di taleteoria è stato sufficientemente ampio per unaeventuale confutazione. Tuttavia, studiosi,docenti, ricercatori, amministratori e tecnici,negli anni successivi a quell’importante even-to e nonostante la sequenza quasi annuale discritti sull’argomento (CIANCIO, 2000; 2002;2003; 2005; 2006; 2008), non hanno solleva-to obiezioni, né sul piano scientifico, né su quel-lo tecnico, né su quello più propriamente ge-stionale.

Nel 2009, a distanza di undici anni, e sotto-lineo undici anni, dal Secondo Congresso, gliarticoli che avversano la teoria della selvicolturasistemica si sono susseguiti a ritmi vertiginosi.Pare quasi che gli appartenenti al mondo del-l’intellighenzia forestale improvvisamente sisiano risvegliati da un lungo letargo, spingen-do il carro della selvicoltura sulla corsia oppo-sta a quella della scienza. Incuranti dei perico-li cui vanno incontro e di quelli che possono pro-vocare all’intero settore forestale, come son-nambuli si incamminano sull’altra corsia, quel-la della tecnica, che, appunto perché tale, non

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genera progresso scientifico. Una corsia che aquesto precipuo scopo è impercorribile e in-congruente. Essi, inconsapevolmente, appun-to, come sonnambuli percorrono questa corsianell’errata convinzione di essere in quella del-la scienza della quale al risveglio ovviamente nonconservano alcun ricordo!

Come si può spiegare tale fenomeno? Èplau sibile che per tanti anni gli addetti ai lavo-ri siano stati distratti da altri problemi? O, for-se, si è voluto ignorare l’ingombrante argomentoposto all’attenzione del mondo forestale? Perdirla con CLAUDE LÉVI-STRAUSS, io pongo do-mande e quindi non spetta a me dare risposte.E tuttavia obiettivamente è difficile risponde-re a tali quesiti. Lascio quindi ai ricercatori, aitecnici, agli studenti e ai lettori l’incombenza didecifrare tale comportamento che nel mondodella ricerca è quantomeno inusuale.

D’altra parte, mi rendo conto che l’approva-zione di una nuova forma di selvicoltura nellamozione finale di un Congresso, che a prima vi-sta, proprio perché innovativa, può sembrarefuori dal comune sentire dell’establishment, possaprovocare un dibattito dal quale si spera emerganoidee e spiegazioni scientificamente plausibili suargomenti relativi al problema in essere.

Per evitare inutili fraintendimenti, dico subitoche, anche se il dibattito si svolge con notevo-le incomprensibile ritardo, sono favorevol-mente colpito dal fatto che su una mia intuizioneed elaborazione concettuale relativa al sistemabiologico complesso bosco si apra un importanteconfronto. Questo, contrariamente a quanto co-munemente si pensa, è un grande riconosci-mento, perché oltretutto, a parer mio, il dibat-tito è il solo modo per favorire il progresso scien-tifico in campo selvicolturale e per determina-re propizie condizioni sociali, politiche e culturalial fine di consolidare ed espandere la gestioneforestale sostenibile.

6. RITORNO ALLA NATURA IN SELVICOLTURA

Riassumere quanto è stato scritto in questi ul-timi tempi sull’argomento – il contrasto tra i fau-tori della cosiddetta selvicoltura naturalisticae i sostenitori della selvicoltura sistemica – è

compito assai gravoso. Negli scritti prima men-zionati la selvicoltura sistemica è stata oggettodi numerosi rilievi sia sul piano tecnico sia suquello più propriamente operativo. Credoquindi sia più opportuno esaminare alcuniaspetti del problema, scelti fra i più interessanti.Ed è quello che in questo saggio mi propongodi fare.

Epperò, desidero sottolineare che nel dibat-tito si sono avuti anche riscontri positivi nei con-fronti della selvicoltura sistemica. In tal senso,e con diverse argomentazioni, si sono espressisu diverse riviste, oltre allo scrivente (CIANCIO,2009b), FRANCESCO IOVINO (2009) e SUSANNA

NOCENTINI (2009). A proposito della disputa in essere, continuo

a domandarmi del perché in nessuno dei settearticoli prima indicati vi sia il tentativo di fal-sificare la teoria in questione, come è consonooltre che indispensabile in campo scientifico. Inquegli scritti pare si faccia l’apologia della co-siddetta selvicoltura naturalistica e non si sia nep-pure tentato di esaminare sotto l’aspetto epi-stemologico e scientifico la teoria della selvi-coltura sistemica, bensì siano state esposte, conargomenti spesso ripetitivi e a dir poco fuor-vianti, opinioni favorevoli verso una formacolturale che con varie definizioni è nota fin dalXIX secolo.

Credo quindi sia opportuno chiarire con al-cuni ragguagli l’iter della proposizione prima edell’affermazione poi della complessa proble-matica che tra aspri contrasti e accese polemi-che ha promosso il ritorno alla natura in selvi-coltura.

6.1. L’evoluzione della selvicoltura in Europa

Nel lungo e articolato processo del ritorno allanatura in selvicoltura il pensiero di KARL GA-YER ha avuto ampia risonanza proprio perchéha dato un decisivo contributo per l’innovazionee il cambiamento della gestione forestale in Ger-mania. Ma altri A.A., tra i quali alcuni italiani,hanno partecipato a questo importante pro-cesso. Epperò, questi ultimi, come sarà messoin evidenza in seguito, nella letteratura italia-na, recente e non, sono stati totalmente o par-zialmente ignorati.

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dimissioni e lasciare il servizio. Egli si rifiutavadi imporre un certo ordine alla foresta:quell’ordine che configurava lo scheletro chesosteneva la concezione selvicolturale dellaforesta artificiale. Oltre a rimettere in discussionela composizione, la struttura e gli ordinamentidella foresta, privilegiando la fustaia mista edisetanea, l’enunciazione del metodo delcontrollo – La Méthode du contrôle – rappre -sentò una vera e propria rivoluzione.

Nel 1901 HENRY BIOLLEY, coerente sostenitoredella teoria di ADOLPHE GURNAUD, divulgò iprincìpi su cui il metodo del controllo si fonda,promuovendo una nuova corrente di pensiero.In polemica con i sostenitori del metodopredittivo, schematico e semplificatorio nellagestione delle foreste, nel 1920 egli così siesprime: «Se vi è un campo rimasto chiuso alpositivismo della scienza moderna, questo èproprio quello dell’assestamento delle foreste.Non è che non si sia cercato di sottometterel’assestamento a regole strette, a procedimentiprecisi, e se è là che vi è del positivismo, ve neè in abbondanza e sovrabbondanza. Ma è unpositivismo per sé, che resta come esternoall’oggetto che esso pretende di considerare…».

La rinuncia alla nozione di età e la definizionedell’effetto utile rappresentavano un mododiverso di interpretare la coltivazione del bosco.Al gestore, che doveva essere a un tempoartista ed economista, era consentito di operaresenza particolari vincoli di natura colturale. Iltrattamento era organizzato sotto formasperimentale. Il fine era quello di armonizzarele forze naturali per conseguire sempre ecomunque il massimo di produzione legnosa.

BIOLLEY così si esprime: «Produire: ce motrenferme tout le devoir et devrait résumer toutle vouloir du sylviculteur» – Produrre: questaparola racchiude tutto il dovere e dovràriassumere tutto il volere del selvicoltore. Egliapplicò con rigore nella foresta di Couvet nelCanton de Neuchâtel le jardinage cultural e leContrôle. Foresta di Couvet che è poi divenutala meta da visitare da parte dei sostenitori delmetodo del controllo e, come scrive BOURGENOT

(1975), la Mecca della disetaneità.Nel 1901 KARL GAYER, professore di selvi-

coltura a Monaco, portava, o meglio, ancora una6 BOURGENOT (1950) illustra la figura di GURNAUD in

uno scritto molto interessante.

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In Francia, a proposito dell’imposizione di unordine coatto alla foresta, vi erano vocidiscordanti. ROGER BLAIS (1936) osserva: «Aquesto riguardo in effetti alcuni spiriti avvertitinon possono non manifestare una certadifficoltà: essi sentono la natura troppo costretta,l’uomo troppo tiranno, essi dubitano che unmetodo così perfetto possa essere definitivo.Esso non permette all’albero e soprattutto allaforesta di sviluppare tutte le sue potenzialità».

Forse non tutti sanno che nel 1833 in Ger-mania nello stato federale del Baden-Wür-ttemberg fu promulgata una legge con la qua-le furono vietati il taglio successivo e saltuarioa gruppi (Femel) e il taglio a scelta (Plenter).Questa legge, scrive HOCKENJOS (1993; 1995),fu considerata progredita e liberale e restò in vi-gore per 143 anni, cioè fino al 1976. Ma solo nel1992, dopo ben 159 anni, il Ministero per il ter-ritorio regionale, l’alimentazione, l’agricolturae i beni forestali del Baden-Württemberg, conun decreto invitò i servizi forestali a prevede-re, in occasione dell’assestamento, il Femel e ilPlenter.

Nel 1883 ADOLPHE PARADE, riprendendo unpensiero di BERNARD LORENTZ, primo diretto-re della Scuola di Nancy, scrisse un esemplareed eloquente aforisma: «Imiter la Nature, hâterson oeuvre» – Imitare la Natura, affrettare la suaopera. E ancora: «Production soutenue, régé-nération naturelle et amélioration progressive»– Produzione sostenuta, rinnovazione natura-le e miglioramento progressivo – due locuzio-ni che sintetizzano al meglio quella che attual-mente da molti forestali è definita selvicolturanaturalistica. In breve, l’obiettivo fondamentaledell’attività selvicolturale è la rinnovazione na-turale per assicurare la continuità nel tempo enello spazio della produzione forestale.

Nel 1884 ADOLPHE GURNAUD propose diadottare un nuovo metodo di gestione delleforeste. Per la coerenza e l’intransigenza con cuisosteneva le sue idee6, GURNAUD fu costrettodall’Amministrazione forestale a dare le

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a tutte quelle forme di gestione che nontenevano conto della conservazione e dell’au -mento della fertilità del suolo e di tutto ciò chepoteva intaccare quella che egli definiva la salutedell’organismo7 bosco.

Secondo MÖLLER le forme colturali non sipossono definire, per il semplice motivo che nonsono definibili. Le classificazioni servono sì, macome schemi scolastici. La teoria del Dauerwaldè stata oggetto di aspre polemiche tra i forestalicentroeuropei e non. Ma ad essa va ascritto ericonosciuto il merito di aver segnato profon-damente il pensiero forestale del secolo scorso,introducendo l’originale principio secondo ilquale, nell’approccio colturale, è il bosco cheindica al forestale quale debba essere la misu-ra dell’intervento e non il contrario. Ovvero, lefinalità dell’uomo non debbono prevalere sul-le necessità del bosco; e, proprio per questo, essenon possono prescrivere e determinare le for-me e le modalità colturali. Si ribaltano così tut-ti i dettami della dottrina forestale allora do-minante.

L’analisi critica di tale teoria conduce pertantoalla implicita conclusione che l’idea guida delDauerwald fornisce una indiretta ma esaurien-te risposta alle due obiezioni di fondo che an-cor oggi alcune piccole frange di naturalisti e am-bientalisti muovono ai forestali, cioè la visioneantropocentrica e la volontà di dominare la na-tura, piegandola alle proprie esigenze. Una teo-ria rivoluzionaria e al tempo stesso lungimirante,dunque. E, appunto perciò, o difesa in modopassionale, o liquidata, come in effetti è stato,troppo affrettatamente. Forse MÖLLER pre-correva i tempi. E molti forestali non hanno ca-

7 FREDERIC E. CLEMENTS (1916) aveva definito supe-rorganism le unità della natura che egli considerava or-ganiche, quindi con un ciclo naturale simile a quello diun essere umano. E la successione della vegetazione for-niva la prova che la comunità biotica si comportava comeun organismo complesso; detto in altre parole, la naturasi poteva considerare come un insieme di sistemi interat-tivi. La concezione di organismo portava direttamente aconcentrare l’attenzione sull’insieme, ribaltando la strut-tura scientifica dello studio analitico. In campo forestaleil sostenitore più autorevole di questa posizione fu AL-FRED MÖLLER, ma la sua teoria fu criticata duramente.

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volta riportava all’attenzione del mondo fore-stale, tedesco e non, la necessità di un modo di-verso di affrontare i problemi forestali con un’al-tra famosa massima «Zurück der Natur» – Tor-niamo alla natura – e corroborava tale enunciatocon l’espressione «In der Harmonie aller im Wal-de wirkenden Kraefte, liegt das Raetsel derProduktion» – La selvicoltura sulla base delleleggi di natura si concepisce nello spirito dellaricerca di una armonizzazione delle forze na-turali di produzione. In sintesi, in contrappo-sizione alla concezione dominante del tempo,egli sosteneva che il principio inderogabile del-la selvicoltura è la «conservazione perpetua deifattori naturali della produzione».

Nel 1909 HEINRICH MAYR, successore diGAYER alla cattedra di selvicoltura, con leteorie esposte nel trattato Waldbau auf natur-gesetzlicher Grundlage – Selvicoltura sulla basedelle leggi di natura – ha fornito un’ulterioredimostrazione della necessità di innovare ilpensiero forestale, determinando l’inizio di unsostanziale cambiamento di quella che fino adallora era stata identificata come la scienzaforestale tedesca.

GAYER e MAYR, nella patria dei teorici dellamassimizzazione del reddito fondiario, del-l’applicazione dei turni finanziari, in definitiva,del sistema economico-finanziario, furono i teo-rici e gli interpreti più efficaci di una nuova sel-vicoltura. GAYER pone come principio fonda-mentale della selvicoltura la perpetuità e quin-di la stabilità biologica del bosco e chiede sia lasostituzione del bosco puro di conifere e il ri-pristino del bosco misto sia l’adozione dei me-todi della rinnovazione naturale e l’applicazio-ne di forme di trattamento diverse e differen-ziate caso per caso. MAYR, con gli studi ecolo-gici e fitogeografici, provoca un movimento in-novatore nella selvicoltura e nei suoi metodi distudio.

Nel 1922 ALFRED MÖLLER, in aperta polemicacon la gestione forestale che all’epoca siapplicava su vasta scala in Germania, pubblicòun saggio in cui illustrava la teoria del Dauerwald– bosco permanente – che scatenò polemiche anon finire. Egli considerava appropriato evalido quanto teorizzato da GAYER e WAGNER

ed era assolutamente contrario al taglio raso e

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pito che, con opportune puntualizzazioni e ade-guamenti, il Dauerwald avrebbe potuto dare unincisivo contributo al progresso e allo sviluppodella scienza e della tecnica forestale.

Il bosco permanente, infatti, non è configu-rabile né con una forma di trattamento né conuna norma da applicare, ma è un protocollodi intenti colturali, teso a conservare l’effi-cienza del bosco, assecondandone le necessi-tà. «Basta mantenere su tutta la superficie lasalute del bosco per aumentare il reddito an-nuale», scrive MÖLLER. E in tal modo si ponein netta antitesi con i propugnatori delladottrina fondata sul taglio raso e rinnovazio-ne artificiale.

Nel 1923 CHRISTOFF WAGNER, autore dellateorizzazione del Blandersaumschlag – taglio sal-tuario marginale, più noto come tagliomarginale – sosteneva che il bosco puro, coe-taneo, artificiale, che presenta indubbia facili-tà di gestione, non risponde ai princìpi natu-ralistici. E ancora: è inappropriato affermare cheil bosco da preferire sia quello più vicino alla na-tura, perché la natura è imparziale sia con l’uo-mo che con il bosco. L’essenza di una vera sel-vicoltura sta nello sfruttare le leggi della natu-ra e non nell’adeguarvisi passivamente. Sebbe-ne il taglio marginale di CHRISTOFF WAGNER nel-la pratica operativa non abbia mai avuto largaapplicazione, ha però avuto ed ha grande riso-nanza (PATRONE, 1979).

Nel 1946 in Svizzera HANS LEIBUNDGUT, conla enunciazione del Femelschlag, teorizzò unaselvicoltura estensiva, con forme di taglioliberamente scelte, svincolata dal turno e daldiametro di recidibilità e volta all’ottenimentodi assortimenti di qualità. Tale forma di coltiva -zione è conseguente alla volontà di razionaliz -zare i fenomeni che avvengono in natura. Letecniche colturali scaturiscono dall’osser va -zione ed esaltano i meccanismi naturali del boscoche, appunto perciò, sono economicamentevantaggiosi.

Nel 1960 egli annota: «Le fitocenosi foresta-li naturali sono intonate al loro ambiente cli-matico, edafico e biotico. Sarebbe peraltro inogni caso errato volerle considerare come qual-che cosa di statico. Il bosco vive di una vita co-stantemente mutevole. È vero che nel suo in-

sieme esso dà l’idea del duraturo, dello stabi-le, ma è anche vero che nel suo interno si com-piono mutamenti di lunga o di breve durata».

E più oltre: «La foresta vergine, nei climitemperati, è ormai limitata a pochi frammenti;in alcune regioni manca completamente. Quellarimasta, egli conclude, […] vive leggi sueproprie. Il complesso delle prestazioni chel’uomo chiede al bosco non la toccano. Le nostrefinalità selvicolturali non possono essereraggiunte che con interventi colturali. La forestavergine non può pertanto costituire un modelloche vuole essere riprodotto, ma solo un faro, checi può guidare».

E, di conseguenza, egli afferma (1982) che laselvicoltura deve saper utilizzare le risorsenaturali, operanti a costo zero, per esaltare laproduzione legnosa sia in massa che in valore.In quest’ottica rientrano l’azione di educazionedei popolamenti, quella della valorizzazione delleforze naturali e dell’utilizzo delle potenzialitàindividuali di produzione ecc. Tutto ciò com -porta l’immissione di energia e capitali el’impie go di personale qualificato.

Il Femelschlag è una forma colturale sofisticata,basata su interventi consapevoli e soft. Per di più,implica la continua ricerca di nuove tecniche chesiano vantaggiose dal punto di vista biologicoed economico.

Quali conclusioni si possono trarre dall’orien -tamento della scuola svizzera? Principalmentedue. La prima comporta l’individuazione delpercorso colturale da applicare alla foresta.Pertanto, è necessario impiegare il metodoscientifico secondo i ben noti canoni dell’osser -vazione e della sperimentazione in pieno campo.E fin qui tutto procede secondo quanto è noto.La seconda è più significativa e rilevante.LEIBUNDGUT con i suoi studi, le sue argo -mentazioni e le sue esperienze sostiene in modoinequivocabile che la produzione di legno èl’unica invariante della selvicoltura. Anche, esoprattutto, della «selvicoltura naturalistica»,le cui finalità quindi restano ben salde e nonsubiscono mutamenti sostanziali.

In breve, con il Femelschlag mutano le modalitàdi prelievo del legno ma non cambia la concezionedi fondo. E non cambiano neppure gliordinamenti, orientati in un modo o nell’altro

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a ottenere materia prima legno, nella fattispeciedella migliore qualità possibile.

Nel 1950 i fautori del Dauerwald, tra i qualioltre a DANNECKER si ricordano WIEBECKE eWECK, promossero il «Gruppo di lavoro per unaselvicoltura conforme alla natura» ANW – Ar-beit sgemeinschaft Naturgemäße Waldwirtschaft– di cui DANNECKER è stato il primo presiden-te (HOCKENJOS, 1995).

Nel 1952 JOSEF POCKBERGER si fece promo-tore dell’opportunità di applicare tecniche col-turali in grado di assecondare l’evoluzione delbosco verso forme più naturali. Se le foreste pri-mitive possono fornire «… una indicazione sul-la direzione da battere con una selvicoltura na-turalistica, esse non potranno essere prese,come costituzione e strutturazione, per modellida citare pedestremente, perché è insito in lorosolo una finalità biologica, che è quella di con-servare le specie che le costituiscono, mentre sco-po della selvicoltura è quello di una produzio-ne legnosa. Tuttavia esse vanno annoverate fragli elementi costruttivi, in quanto campo di stu-dio e prezioso oggetto di osservazione per lacreazione di boschi su basi naturalistiche»(HOFMANN, 1957a).

Nel 1958 JOSEF NICOLAUS KÖSTLER osservache si deve tendere verso condizioni che megliocorrispondono alle leggi ecologiche e biologi-che che governano la foresta: «… il bosco diseta -neo come tipo di struttura naturale resta un fe-nomeno di importanza tale che non è possibile pre-scinderne ogni qualvolta si prendano in esame iproblemi economici fondamentali della selvi-coltura». E conclude affermando che in selvi-coltura chi deve prendere decisioni «… non saràmai male consigliato se cercherà di vivere diret-tamente la vita del bosco e dell’albero. Una vi-gorosa vegetazione naturale è sempre fonte dibellezza e di gioia: ed in questo senso l’idea del bo-sco disetaneo ha una nota particolarmente umana».

6.2. I razionalisti e gli antirazionalistiin selvicoltura

Per essere super partes, come si conviene a ogniricercatore, occorre esporre anche le opinionidi alcuni che in Italia e in Germania si dichia-rarono contrari al metodo del controllo, al bo-

sco permanente e ai tagli marginali, deludendoi promotori che viceversa si attendevano ampiconsensi. In questo scenario ritengo significa-tivo riportare solo quanto espresso da GIUSEP-PE DI TELLA, AMERIGO HOFMANN e KARL

PHILIPP.Le nuove teorie del metodo del controllo di

GURNAUD e BIOLLEY e del bosco permanente diALFRED MÖLLER suscitarono veementi diatribein Francia e Germania. Ma anche in Italia sicontestò sia il metodo del controllo sia ilDauerwald. In effetti, GURNAUD, BIOLLEY,MÖLLER e WAGNER, in Germania, Francia eItalia erano considerati i rappresentantidell’antirazionalismo. Essi si contrapponevanoai protagonisti del razionalismo scientifico cheviceversa sostenevano l’applicazione di sistemie metodi colturali coerenti con quanto previstodall’establishement accademico, politico,amministrativo e tecnico.

Nel 1924 GIUSEPPE DI TELLA, a proposito del-la teoria di GURNAUD e delle precisazioni diBIOLLEY, così si esprime: «Mi sia perciò per-messo di esprimere, a proposito del metodo dicontrollo, l’opinione che prima di tutto vengaa ripetersi con esso l’errore di voler trattare tut-te le foreste con unico metodo. Possiamo be-nissimo ammettere che l’esperienza proverà do-mani essere realmente la forma disetanea la piùappropriata tecnicamente ed economicamentea boschi puri e misti di specie ombrivaghe, mache la medesima forma si presti altrettanto beneanche a foreste formate da alberi di tempera-mento spiccatamente lucivago come ad esem-pio le pinete, i lariceti puri, ecc. – boschi, chesono, naturalmente, a tendenza coetanea – noiancora fortemente dubitiamo».

«In quanto, poi, all’assestamento della fore-sta disetanea, noi siamo convinti che una buo-na via per arrivarvi gradatamente senza astru-se ed assurde premesse teoriche, sia proprioquella che, nella vicina Francia, hanno ben trac-ciata quei lavori sperimentali di alcuni valoro-si ispettori forestali (De Liocourt, Schaeffer, Ga-zin ed altri) assai favorevolmente accolti dal prof.Huffel come buona base di un metodo, che l’il-lustre insegnante della scuola di Nancy, va spe-rimentando con promettenti risultati in alcuneabetaie dei Giura».

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Nel 1926 DI TELLA, sempre a proposito delbosco disetaneo, afferma: «… la selvicoltura vaoperando da lungo tempo con un sistema di ta-glio saltuario che, dal punto di vista sia coltu-rale, sia economico, costituisce ormai, una tec-nica già nelle sue grandi linee perfetta».

Nel 1926 AMERIGO HOFMANN si schieròcontro il Dauerwald: «È chiaro che l’economiaforestale non possa venir identificata collaconservazione del bosco e coll’estetica foresta-le, sebbene l’economia abbia il dovere di curarela conservazione e l’estetica. Ma in ogni eco-nomia il limite è dato dal tornaconto, non daibisogni del bosco».

E ancora: «La base fondamentale dell’asse-stamento è la selvicoltura, della quale esso èl’espressione e la sintesi. La selvicoltura deve ave-re un indirizzo chiaro, bene definito e costan-te. Essa non si deve confondere con estetica,conservazione, osservazione di leggi biologicheecc. Essa, come la cultura agraria, è scienza eco-nomica, s’impernia sui bisogni del Paese, suimercati nazionali, su quello che si può produrresecondo le condizioni del suolo».

Al Congresso di Roma del 1926 BIOLLEY, chepure si era presentato con un grande spiega-mento di allievi e di fiancheggiatori, non riuscìa fare approvare una mozione sulla superioritàeconomica del bosco disetaneo, sulla genera-lizzazione del metodo del controllo e la messaal bando del tradizionale assestamento-regola.La mozione non passò soprattutto per l’oppo-sizione ferma e cortese di GIUSEPPE DI TELLA

a cui si associarono ROBERT HICKEL e AMERI-GO HOFMANN (PATRONE, 1979).

Nel 1932 KARL PHILIPP, come riporta HOC-KENJOS (1993), si scagliava contro coloro che egliconsiderava gli antirazionalisti in selvicoltura eaffermava con veemenza che la pratica non piùcontrollata dalla ragione e l’entusiasmo scioc-co per il bosco trattato a tagli successivi ad orlo– tagli marginali di WAGNER –, per quello per-manente e per le zone trattate a Femel – a taglisuccessivi e saltuari a gruppi – alla fine dovevarivelarsi come un chiaro imbroglio. Nella scien-za forestale tedesca, egli soggiungeva, non si eramai raggiunto un livello così basso, una con-fusione e un imbarbarimento così grandi.

Qualsiasi commento è superfluo. Una rifles-

sione però è d’obbligo: questa è la dimostrazionedi quanto nella Mitteleuropa, malgrado l’af-fermazione dell’ecologia, la migliore cono-scenza dei processi naturali e i cambiamenti so-ciali, il conservatorismo dell’establishment ac-cademico, tecnico e amministrativo, divenutopregiudizio ideologico e culturale, abbia in-fluenzato e continui a influenzare l’attività fo-restale (CIANCIO, 1997).

6.3. L’evoluzione della selvicoltura in Italia

Sul piano dei riferimenti alla letteratura eu-ropea si potrebbe continuare a lungo, ma si ag-giungerebbe poco di più a quello che è già sta-to illustrato. Piuttosto credo sia utile tornare suquanto è emerso a casa nostra in merito alla co-siddetta selvicoltura naturalistica. Anche perchénon tutti conoscono – lo si avverte chiaramen-te negli scritti sull’argomento, recenti e non –lo sviluppo della problematica e i numerosi in-terventi che si sono susseguiti nel tempo a chia-rimento degli aspetti scientifici e tecnici relati-vi alla cosiddetta selvicoltura naturalistica. Quiricordo solo i più significativi.

Nel 1914 ALDO PAVARI affermava: «Non esi-ste foresta naturale che non sia disetanea; la fo-resta coetanea è creazione dell’uomo». Nel 1915egli affrontava il problema da una diversa an-golazione: «Solo da pochi anni i concetti dellasilvicoltura, su basi naturalistiche, – di cui i te-deschi vedono in Enrico Mayr il fondatore, men-tre essa da secoli è esercitata in Francia e, per-ché no, anche in Italia, – hanno rivolto l’atten-zione sulle foreste da dirado». Posizione que-sta che egli ha sempre sostenuto con grande coe-renza.

Nel 1932 PAVARI – dal 1922 Direttore del-l’allora Stazione Sperimentale di Selvicoltura,oggi Centro di Ricerca per la Selvicoltura(CRA-SEL) –, che sin dal 1914 della selvicol-tura naturalistica aveva fatto un punto fermo del-la sua attività di ricerca, allo scopo di dimostrarela validità del sistema a taglio saltuario, promossenel bosco Collalto del Comune di Auronzo – fu-staia mista di abete bianco e abete rosso – la co-stituzione di quattro vaste aree sperimentali permetterlo a confronto con il classico sistema ca-dorino. Il primo taglio di curazione fu esegui-

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to nel 1934 col sistema di graduale adeguamentoalla norma, mentre nelle aree di controllo il ta-glio fu eseguito, dal personale del Comune diAuronzo, secondo l’ordinario sistema cadorino(CIANCIO, 2010).

Nel 1937 egli affermava: «La foresta diseta-nea è quella che meglio risponde ai criteri di unaselvicoltura naturalistica…». E nel 1938: «Que-sta concezione naturalistica ed ecologica del-la selvicoltura si oppone, spesso in vivo con-trasto, alla concezione finanziaria…». Nel1948 così scriveva: «I recenti sviluppi della spe-rimentazione e della ricerca scientifica hannomesso in luce l’assoluta superiorità del boscodisetaneo (tipico quello da dirado) sul boscocoetaneo – specialmente di abete rosso – nei ri-guardi della resistenza a cause nemiche d’ordineclimatico e parassitario, nella protezione, con-servazione e fertilizzazione del suolo, nella ca-pacità di assorbimento delle acque meteoriche;tutto ciò senza che il bosco da dirado presen-ti sensibili svantaggi nei riguardi della produ-zione legnosa».

E ancora: «… la realtà ci dimostra che col ta-glio saltuario le grandi distese di foreste resinosedelle Alpi e specialmente di quelle Venete, sisono perpetuate attraverso i secoli. È dunqueuna eredità preziosa che non possiamo com-promettere con avventati cambiamenti di sistemicolturali, poiché gli apparenti successi inizialipotrebbero tradursi, in un avvenire più o menolontano, in conseguenze disastrose».

Nel 1957 ALBERTO HOFMANN osserva che:«… una selvicoltura su basi naturalistiche è l’uni-ca che possa rispondere alle esigenze comples-se delle foreste italiane, soprattutto sotto il pro-filo del loro valore idrogeologico, prima anco-ra di quello economico, che tuttavia trova la suagiusta esaltazione, giacché, come l’esperienzadelle monocolture ha dimostrato, gli alti redditiiniziali sono effimeri ed ottenibili solo col sa-crificio della fertilità del terreno, di cui il boscoè il primo ed il più valido custode». E ancora:«Il filo vitale, cui è appesa la selvicoltura natu-ralistica, è la rinnovazione spontanea, la qualeappare legata a una buona cura della provvigioneadulta. In sostanza far nascere e affermare unrigoglioso novellame non è che un abile giuo-co di dosatura della luce, che richiede pazien-

za ed amore per il bosco e che rifugge dagli in-terventi grossolani».

Nel 1977 GIOVANNI BERNETTI a proposito del-la selvicoltura naturalistica afferma: «… nella let-teratura forestale degli ultimi sessanta anni que-sta espressione appare più di frequente impie-gata per indicare tutto quanto mira ad ottene-re produzione legnosa mediante l’impiego di spe-cie spontanee del luogo e quindi della rinno-vazione naturale, nonché mantenendo struttu-re e composizioni miste e complesse che con-sentano al forestale di sfruttare al massimo leevoluzioni spontanee del bosco a fini econo-mici».

E a seguire: «Un’altra concezione più larga del-la selvicoltura naturalistica, comprenderebbe tut-te quelle pratiche di produzione forestale ap-plicate sulla base dello studio delle scienze na-turali: compresa l’introduzione di specie esoti-che ove segua ad uno studio accurato degli am-bienti di origine e di destinazione nonché del-la biologia e della genetica della specie. In que-sto modo è naturalistica qualsiasi teoria o rea-lizzazione tecnica che non sia rozzamente em-pirica». In estrema sintesi, egli evidenzia il ruo-lo decisivo degli ordinamenti produttivi e so-stiene che questi si dovrebbero classificare«… in base a diversi gradi di regolarità».

Nel 1986 BERNARDO HELLRIGL sottolinea che«le strutture […] ‘irregolari’ sono spesso eco-logicamente e funzionalmente valide, e pertantonon sempre sussiste una motivazione raziona-le per convertirle […] a una delle forme selvi-colturali classiche».

Si potrebbe continuare lungamente con le ci-tazioni. In merito alla cosiddetta selvicoltura na-turalistica, invece, riporto alcune indicazioni suldiverso sviluppo del pensiero di ALDO PAVARI

da parte di due suoi illustri allievi: ALESSANDRO

DE PHILIPPIS e LUCIO SUSMEL. ALESSANDRO DE PHILIPPIS (1948; 1950; 1967;

1970; 1972; 1986) riconosce sì la selvicoltura aindirizzo naturalistico, ma preferisce teorizza-re la selvicoltura ecologica o ecosistematica – ri-peto ecosistematica – rifacendosi a quanto illu-strato da ALDO PAVARI (1932) nei «Lineamen-ti di selvicoltura comparata su basi ecologiche»,che egli considerava a distanza di 35 anni, cioènel 1967, ancora attuale. Egli rileva che: «L’in-

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dirizzo naturalistico della selvicoltura imponedi subordinare la natura e l’entità degli interventia un’esatta valutazione dei loro effetti, al fine dialterare il meno possibile lo stato di equilibriobioecologico dei singoli ecosistemi forestali, op-pure di ripristinarlo quando esso sia stato pro-fondamente modificato o distrutto».

E in merito alla gestione (1950) egli afferma:«Ogni piano di assestamento dovrebbe essereanzitutto un piano di tagli e non dovrebbeesaurirsi, come spesso avviene, nel calcolo dellaripresa, limitandosi a poche e vaghe indicazionisulla maniera, di tempo e di luogo, piùappropriata per utilizzare tale ripresa. Troppospesso vengono trascurati l’esame della strutturadel soprassuolo e la ricerca delle condizioni dirinnovazione indispensabili per stabilire confondatezza il trattamento da adottare». E ancora:«Comunque l’applicazione del trattamentoprescelto dovrà essere fatta con molta arte(quando c’è!) e con poche regole, ma questepoche sono necessarie e devono essere applicabilicon criteri scarsamente soggettivi. Senza di ciò,qualsiasi piano si riduce, in sostanza, ad unadispendiosa ricognizione topografica estereometrica del soprassuolo, di molto dubbiautilità».

Nel 1972 precisa il suo pensiero e annota chela tendenza dell’applicazione alla selvicoltura del-le scienze della natura aveva dato «… originealla moderna selvicoltura su basi naturalistiche,per la quale il bosco non è un semplice insiemedi fusti legnosi, ma una complessa e viva enti-tà biologica, in equilibrio dinamico col suo am-biente fisico, dotata di un limitato grado di tol-leranza per gli interventi esterni e perciò su-scettibile solo di usi che ne assicurino anche larinnovazione e la continuità nel tempo».

Nel 1986 scrive: «Si parla molto, anche trop-po, della necessità di conservare i boschi a be-neficio della società futura, ma poco o niente sifa perché la conservazione venga conseguita con-giuntamente alla fruizione attuale degli stessi be-nefici. Sbaglia chi pensa alla sola produzione le-gnosa, ma sbaglia anche chi pensa soltanto allefunzioni ambientali, dimenticando che l’una ele altre sono strettamente interdipendenti e le-gate al grado di efficienza funzionale del bosco.Sono le cure colturali (o trattamento in senso

generale) che possono portare e mantenere l’eco-sistema bosco al livello di efficienza richiesto dal-l’uso che ne vogliamo fare. […] non si tutelal’ambiente se non si tutelano i boschi, ma […]non si tutelano i boschi se ci si rifiuta di consi-derarli e di trattarli anche come una risorsa na-turale rinnovabile, compito questo che spettaalla selvicoltura su basi naturalistiche, oggi de-finibili ecosistemiche».

Una linea di pensiero quella di ALESSANDRO

DE PHILIPPIS che, come meglio sarà specifica-to in seguito, propende chiaramente per la sel-vicoltura su basi ecologiche e per il bosco coe-taneo. Infatti, egli (1970) ritiene che il bosco di-setaneo sia un ideale difficilmente raggiungibileperché «… rischierà, il più delle volte, di restareaccantonato nel limbo della teoria».

LUCIO SUSMEL (1951; 1955; 1956; 1957;1961; 1962; 1964; 1970; 1979; 1980; 1986a;1986b; 1988; 1993) con la sua vasta e podero-sa opera ha innovato e sviluppato magistral-mente il pensiero di ALDO PAVARI, prediligen-do, invece, il bosco misto disetaneo a rinnova-zione naturale. Egli (1964) sostiene che «La sel-vicoltura naturalistica ha il suo credo fonda-mentale nella necessità di assecondare l’operadella Natura e nella pericolosità di contrariar-ne eccessivamente le leggi con cui governa la vitadel bosco».

Nel 1980 annota: «… la selvicoltura natu -ralistica ritiene che più alte probabilità digarantire la stabilità delle foreste coltivate conminor dispendio energetico, economico edergonomico si abbiano invece con strutture efunzionalità simili a quelle dei popolamentinaturali degli stessi tipi, la vita dei quali in assettiimmutati continua da parecchie migliaia di anni.Nei climi temperati le foreste naturali hanno,come è risaputo, forme variamente disetanee.Nell’accezione modernamente accolta, laselvicoltura naturalistica tende a realizzare nelmodo più perfetto possibile lo equilibrio tra ilbosco e l’ambiente, nello assunto del tutto logicoche tale equilibrio, valorizzando in massimogrado le risorse ecologiche della stazione,assicuri nello stesso tempo la stabilità biologicadel bosco e con essa la più piena funzionalità».

Più oltre osserva: «La linea naturalistica sivolge precisamente all’imitazione delle foreste

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naturali dei diversi tipi floristici cercando direalizzare estesamente e con la massimacapillarità possibile – mete ideali che sa di nonpoter mai compiutamente raggiungere – deimodelli colturali provvisti, come i modellinaturali, dei caratteri essenziali della omeostasi.Viene così implicitamente ammessa la relazionedi causa-effetto fra disetaneità (diversità) estabilità, in relazione verificabile nelle foreste chepossiedono una struttura ecosistemica (livellitrofici) di buona funzionalità grazie a unpopolamento arboreo con struttura cronologicadisetanea equilibrata o abbastanza equilibrata:quindi anzitutto nelle foreste vergini, ma ancheforeste disetanee coltivate».

E più oltre così continua: «La selvicolturanaturalistica mira anch’essa alla produzione disostanza organica utile all’uomo, ma – conun’apertura più olistica – considera importanteanche l’adempimento delle altre funzioni diindole sociale riconosciute al bosco (tutelare,igienica, ricreativa, culturale, paesaggistica)».

Il botanico naturalista VALERIO GIACOMINI

(1964) propugna la necessità di un’armonizza-zione tra le leggi dell’uomo (leggi economiche)e quelle naturali in modo però da non alterarepericolosamente gli equilibri originari. Ancheperché il tanto auspicato ritorno alla natura, egliscrive, qui da noi non sarebbe del resto realiz-zabile.

FABIO CLAUSER (1981) molto opportuna-mente osserva che: «la politica forestale e la po-litica ambientale sono […] due politiche set-toriali che […] ci accorgiamo essere la stessacosa; nel senso che qualsiasi politica forestale diintervento o di non intervento è destinata a fal-lire assieme a tutte le nostre attese e alle nostreideologie, in assenza di un’adeguata politica am-bientale. La quale, a sua volta, senza bisogno distudi analitici preliminari, deve essere neces-sariamente di intervento, per il semplice fattoche è stato il non intervento a portare allo sfa-scio attuale dell’ambiente».

Il botanico FRANCO PEDROTTI (1982) sotto-linea: «… i protezionisti hanno insegnato chel’uomo dovrebbe prelevare soltanto quellaparte delle risorse naturali che corrisponde allarendita del patrimonio o capitale natura».

Nel 1994 e nel 1996 CIANCIO e NOCENTINI

esaminano i presupposti del metodo del con-trollo e analizzano la possibilità, pur con so-stanziali cambiamenti, di una sua eventuale pos-sibile applicazione. In particolare, essi formu-lano una proposta basata su un progetto aper-to: il mantenimento, il miglioramento e la va-lorizzazione della complessità del sistema bio-logico bosco che per l’applicazione si avvale del-la lettura del bosco e della sapienza forestale.

E sottolineano che «L’abbandono di anacro-nistici quanto inutili schematismi – veri e pro-pri vincoli che intralciano l’avanzamento dellescienze forestali – e la rivalutazione del momentocolturale possono considerarsi gli elementifondanti del progetto aperto. Non è difficile pre-vedere che in un prossimo futuro prevarrannosempre più forme colturali estremamente raf-finate, sofisticate e comunque tese alla valoriz-zazione anche degli aspetti estetici e culturali del-l’entità bosco, nuovo soggetto di diritti».

Di più: «Saper leggere la biocenosi, saper com-prendere la sintomatologia che essa manifesta,costituisce un elemento che porta a un rapportouomo-bosco ottimale: il sistema bosco si riconoscenell’uomo e l’uomo si riconosce nella natura. Ilprogetto aperto nasce e si sviluppa nella consa-pevolezza che quello che non ha valore per lasopravvivenza dell’albero può averne per il col-lettivo, il bosco, il sistema, l’uomo. E, para-dossalmente, così facendo, a ben pensarci, siesaltano anche gli aspetti economici connessi albosco».

Nel 1996 FABIO CLAUSER afferma: «Esistonoambiguità ed incertezze interpretative cherendono difficile una precisa definizione dellaselvicoltura naturalistica e che, a volte, portanoad evidenti contraddizioni ed insuccessi dellasua applicazione. Questi inconvenienti sipossono forse evitare se tale tecnica dicoltivazione dei boschi viene intesa comeapplicazione di fondamentali leggi di natura».E poi osserva: «CIANCIO (1981) sostiene che sitratta di una espressione impropria e chemeglio sarebbe parlare di selvicoltura su basinaturalistiche; recentemente (1996) ne dà unadefinizione concettuale più ampia integrandoneil significato in quello di selvicoltura sistemica.A tale conclusione mi pare di poter aderire senzariserve».

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In sintesi, si può affermare che l’idea guida del-la selvicoltura naturalistica consiste nel benefi-ciare della conoscenza, acquisita in altri setto-ri della scienza, per meglio definire i sistemi ei metodi di coltivazione e di gestione del bosco.Ciononostante essa resta sempre e comunquesaldamente ancorata alla teoria del realismo eco-nomico. Mutano i sistemi colturali e gli ordi-namenti produttivi, ma gli aspetti finanziari sonosempre in primo piano.

7. SELVICOLTURA SU BASI ECOLOGICHE

E SELVICOLTURA NATURALISTICA

Desidero ora analizzare brevemente il pensierodi due Maestri che consideravano l’ecologiacome il fondamento della selvicoltura: ALFRED

DENGLER e ALESSANDRO DE PHILIPPIS. ALFRED DENGLER (1930), in contrapposto al

Dauerwald, propugna la selvicoltura su basi eco-logiche. Il problema su cui egli si sofferma ri-guarda l’ordinamento che in ogni caso non deveraggiungere quel limite oltre il quale ci si al-lontana dalla natura. In sintesi, egli con le sueteorie ha provocato una vera e propria rivolu-zione con importanti risvolti scientifici. Ha de-terminato il passaggio dal razionalismo teoricomatematico imperante in selvicoltura al razio-nalismo bioecologico. Un salto di qualità che haprovocato anche sul piano tecnico e pratico ope-rativo un rilevante cambiamento. Salto di qua-lità e cambiamento che si riscontrano anche inALDO PAVARI (1932) nei suoi «Lineamenti di sel-vicoltura comparata su basi ecologiche».

ALESSANDRO DE PHILIPPIS (1967), sostenitoreanch’egli della selvicoltura su basi ecologiche,afferma che «Gli interventi colturali modificano,inevitabilmente ma in misura più o menorilevante, lo stato del soprassuolo, per quantoattiene alla sua composizione floristica, allastratificazione, alla struttura, alla variabilitàfenotipica delle specie arboree; queste modifichesi riflettono sulle condizioni interne di clima edi suolo e perciò interferiscono, direttamente eindirettamente, in quel complesso gioco diazioni e reazioni da cui dipendono l’equilibriobiologico e la produttività del bosco. Orbene,il problema di limite [il corsivo è mio] sta nello

stabilire quale sia il grado di interferenza daconsiderare tollerabile per una selvicoltura chevoglia restare naturalistica».

DENGLER e DE PHILIPPIS, quest’ultimofacendo proprie anche le posizioni di PAVARI, sipongono il medesimo problema: la ricerca di unlimite che, per rispettare le leggi di natura, nonpuò essere superato. La soluzione del problemaconnesso all’applicazione della selvicoltura subasi ecologiche consiste nell’individuare edefinire tale limite in modo da non alterare lafunzionalità della biocenosi.

DENGLER, in merito alle affermazioni di WA-GNER – il bosco da dirado è un fantasma –, espri-me il parere che esse sono troppo drastiche. Tut-tavia, sempre per DENGLER, il bosco disetaneoè e resta una forma di trattamento artificialissimaperché è legata a continui interventi dell’uomoindirizzati a forzare la tendenza della natura, alivellare in pochi anni le dimensioni degli alberi(PATRONE, 1979). Invece, per KÖSTLER (1958)il bosco disetaneo è raro, ma proprio per que-sto egli afferma che «se non ci fosse altro ar-gomento in favore di questo tipo di struttura,ve ne sarebbe sempre uno fondamentale: chel’eccezione va conservata e protetta».

In passato, il taglio saltuario, o a dirado, o ascelta non era considerato un vero e proprio si-stema colturale, ma un taglio mercantile chequindi nulla aveva a che fare con specifiche fi-nalità colturali. Da qui l’attento studio della fu-staia disetanea e la necessità di ricercare la nor-ma, ovvero la costruzione di quella che è dive-nuta nel tempo, per dirla con BIOLLEY, appunto,l’«eresia delle curve». Ma, invero, la norma do-veva ricercare e definire quel limite da non ol-trepassare per non intaccare la produttività delbosco e al tempo stesso conseguire il tornacontodei tagli di curazione, cioè i due elementi di-scriminanti della cosiddetta selvicoltura natu-ralistica.

Quanto sopra evidenzia incontrovertibilmenteche la fustaia disetanea per pedali è una formacolturale utopica, ideale, espressione dell’azioneantropica al fine di conseguire un alto redditoa brevi intervalli rispetto ai normali tempiforestali. Nel mentre nei «sacri testi» e inletteratura è considerata il prototipo del trat -tamento della cosiddetta selvicoltura natu -

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8 L’Autore del Manuale è CARLO SIEMONI, Firenze Tip.Bettini, ma DI BÉRENGER non ne indica il nome.

così a formare un tutto unico». In breve:all’assestamento incentrato sulla predetermina -zione della ripresa, si sostituiva l’assestamentobasato sulla constatazione della ripresa. Dunque,i «controllisti», cioè i sostenitori del metodo delcontrollo, invertivano i termini del problemacosì come quasi sempre esso è impostato inletteratura.

Mi astengo dal dilungarmi oltre. Una rifles-sione però è d’obbligo: la teoria della selvicol-tura sistemica è antitetica alla cosiddetta selvi-coltura naturalistica e forme colturali affini. Sulpiano culturale essa tiene conto di quella vastarete di conoscenze che fa capo ai suddetti Mae-stri e che indubbiamente costituisce un patri-monio inalienabile del settore forestale. Tutta-via, la teoria della selvicoltura sistemica innovaprofondamente tale rete di conoscenze tanto darappresentare, per dirla con THOMAS KUHN, unavera e propria rivoluzione scientifica.

8. LA SELVICOLTURA TRA EMPIRISMO,ARTE E SCIENZA

Come prima esposto, tra i forestali c’è confu-sione su quello che in selvicoltura si debba in-tendere per scienza, tecnica e pratica operativa.Ma non c’è da meravigliarsi, si tratta di una que-stione antica che ha provocato e continua a pro-vocare dirompenti quanto improprie discussioniche a un esame oggettivo della problematica nonhanno motivo di sussistere. Confusione che ri-sale al periodo prescolastico italiano se già nel1865 il DI BÉRENGER, a seguito della pubblica-zione di un Manuale teorico-pratico d’arte fore-stale8 del quale egli criticava duramente la man-canza di nozioni scientifiche, scrive: «… che l’ar-te diversifica affatto dalla scienza delle foreste…».

E a seguire: «L’Alsocomia, ossia la generali-tà ed il complesso dell’economia forestale, puòessere considerata sotto tre differenti aspetti:1° come mestiere, in quanto si occupa del lavoromanuale; 2° come arte, in quanto esercita nel-la coltura degli alberi un regolato empirismo; 3°

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ralistica. Ma, il punto chiarificatore consistecome sempre nel fatto che in selvicoltura iltornaconto finanziario è prevalente rispetto alnaturale.

Domando: cosa c’è di naturale nel trattamentoa taglio saltuario identificato con la norma? Qualisono le forme assimilabili alla cosiddettaselvicoltura naturalistica che hanno stabilito unlimite attraverso il quale non ci si scosta dallanatura? Quali sono i parametri da ricercare escoprire per accertare tale limite? E se sì, qualè il limite da non superare? Possono servire atale scopo le costruzioni teorico matematichecome, per esempio, le tavole alsometriche peri boschi coetanei? Si può pianificare e operarepensando di ricercare e conseguire il «bosconormale»? E se sì, le suddette forme colturalicosa hanno in comune? In tal caso quale ruolosvolge il naturale?

Si tratta di domande semplici alle quali o nonsi danno risposte o si danno risposte scontate.Tutti i forestali, o quasi tutti, diranno: ma sì,basta utilizzare l’incremento e non superarequesta soglia. Questo lo sapevano sia DENGLER,sia PAVARI, sia DE PHILIPPIS. Come mai alloraessi si ponevano e ponevano la questione dellimite? La risposta è insita in un’altra domanda.È sufficiente stimare – infatti di una stima siparla, per di più aleatoria perché, come giàaffermato, nei Sistemi Complessi la predizioneha un significato debole – l’incremento per averela certezza di non provocare gravi ripercussionisulla funzionalità del sistema biologico bosco?È sufficiente in condizioni di tempo mutevolecome l’attuale fare riferimenti ai canoni delpassato? È meglio agire sulla base di improbabilistime o non è più utile e opportuno ilmonitoraggio del sistema bosco e a seguito diciò operare consapevolmente?

A proposito del metodo del controllo PATRONE

(1979) così si esprime: «L’asse stamento, in sintesi,subisce un sostanziale rovesciamento. Non èpiù per GURNAUD e BIOLLEY un bilancio preventivoche vincola e programma la selvicoltura mapiuttosto un bilancio consuntivo che ne verificail risultato. All’assestamento-regola si contrapponel’assestamento-inchiesta, cioè il metodo delcontrollo. E la teoria della fustaia da diradocolturale e quella del metodo di controllo vengono

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come scienza, in quanto non si determina ad ope-razione veruna, cui non sia condotta dai prin-cipii tutti della retta ragione e dall’insegnamentodelle scienze affini. Come mestiere è la sommadelle pratiche esercitate dal boscaiuolo, dal pian-tatore, dal resinatore, dal fluitatore, dallosquadratore, dal segantino, dal carbonaio, dalpeciaiuolo, dal mannaiuolo, dal pinaiuolo,dallo scorzatore, dal guardaboschi ecc.; prati-che che ognuno conosce abbastanza per potercomprendere in che vada a consistere un tal me-stiere; ma come scienza ed arte non la è più così.Sono elleno in fatto di tal natura, che è moltopiù agevole confonderle, che non rettamente di-stinguerle, sendo che l’una e l’altra non ap-partengono bene spesso ad esercizi di mente dif-ferenti tra loro; ma bensì ad uno stesso iden-tico esercizio, considerato per altro sotto unaspetto diverso, cioè a dire, o nel modo, o nel-la prevalenza d’azione competente all’unapiuttosto che all’altra».

«Ciò posto, sino a che al selvicultore non ser-vono di guida, che le idee ricevute dagli altri, oformate da sè per l’impressione dei fatti offer-tigli o dal caso, o dalle osservazioni ed esperienzesue proprie, ed egli segue materialmente le re-gole prescritte, o da sè dedotte in singoli casi:egli non s’aggira tutto al più, che sul campo del-l’arte. Se invece procede più oltre; se va specu-lando intorno alle possibili origini dei fatti cheosserva, ai loro progressi, alle relazioni che han-no tra loro, e con altri fatti d’indole più o menodiversa; se ne va investigando l’essenza ed il nes-so causale: è allora che egli si trova nel campoveramente sicuro ed utile della scienza. Il selvi-cultore, che per governare il suo bosco camminaunicamente sulle traccie di ciò che ha veduto enotato egli solo, senza conoscere altra ragionedel suo procedere, è un empirico, che portatoin luoghi, climi e circostanze diverse da quellein cui operava da prima, smarrisce la strada, nèpuò raggiungere la meta desiderata, che dopomolte prove, assaggi ed esperimenti, con scia-lacquo dannoso di tempo e di spese: quando che,se avesse a lume e sussidio della propria ragio-ne le dottrine della fisiologia vegetale, della chi-mica agraria, della fisica, della geonomia, dellatecnologia e delle matematiche, egli avrebbe da-vanti a sè manifesti i passi, che la scienza mo-

strerebbe sicuri all’esercizio dell’arte sua». Unariflessione: a distanza di 145 anni poco è cam-biato. Come allora la confusione regna sovrana.

La selvicoltura è scienza e arte, dunque.Scienza perché attraverso postulati e teorieporta ad una migliore comprensione e cono-scenza dei fenomeni biologici e dei processi in-terattivi che intervengono nel bosco e fra que-sto e l’ambiente, permettendo di applicareforme colturali in grado di assicurare nel tem-po e nello spazio la continuità e l’uso oculatodel bosco, cioè nel rispetto dei suoi diritti. Arteperché, attraverso tutta una serie di accorgi-menti, frutto di osservazione, esperienza e me-ditazione ma anche e soprattutto di sensibilitàe abilità, permette di conservare o ottenere conil minimo dispendio di energia il massimo di fun-zionalità ed efficienza.

9. LA COSIDDETTA SELVICOLTURA NATURALISTICA,LA RICERCA SCIENTIFICA

E LA CULTURA DEL BOSCO

Pur essendo convinto che le idee nuove incampo forestale si affermano con i tempi fore-stali, lunghi, a volte lunghissimi, dai recenti set-te scritti emerge quello che si può considerareun vero e proprio paradosso: la volontà di so-stenere tesi già note da oltre un secolo nel vanotentativo di presentarle attraverso perifrasicome novità e, per di più, allo scopo di con-trastare una nuova teoria, nella fattispecie la sel-vicoltura sistemica. Un metodo che dal puntodi vista scientifico è improponibile.

La cosiddetta selvicoltura naturalistica, si sa,è un sistema colturale che ha le radici nella tra-dizione e nella cultura delle popolazioni loca-li. È stata codificata in sistema alla fine del XIXsecolo come reazione all’eccessiva artificialitàdella selvicoltura finanziaria tipica del centro Eu-ropa. Per lungo tempo è stata contestata sia daitecnici sia dagli amministratori perché erro-neamente assimilata a un tipo di selvicoltura ba-sata su un metodo di raccolta di tipo commer-ciale. Viceversa, nel tempo si è affermata comeun sistema colturale rispettoso della continui-tà della produzione.

Dalla prima indicazione relativa a questa

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nuova forma colturale sono passati a un dipresso125 anni, ma nei recenti scritti affiora un supi-no adeguamento a sostegno di tale forma col-turale. In breve, sembra quasi di capire, comesi vedrà meglio in seguito, che si voglia ag-giungere al sostantivo selvicoltura una nutritaserie di perifrasi che sin dalla fine del XIX se-colo hanno determinato aspre e spesso deva-stanti contrapposizioni. L’esempio classico è laselvicoltura conforme alla natura di ALFRED MÖL-LER, che con il termine conforme ha provocatodurissime controversie in ambito scientifico etecnico, oltre che in quello amministrativo e po-litico.

Una parte del mondo forestale pare voglia re-stare legata, peraltro con grande supponenza,a quel tal fenomeno che a suo tempo, e sotto-lineo a suo tempo, ha svolto un ruolo decisivoper l’affermazione della selvicoltura comescienza e come tecnica, determinando il supe-ramento della fase dell’empirismo che per tan-to tempo aveva dominato l’attività colturale.

Difatti, agli inizi del XX secolo sull’onda dellenuove conoscenze in biologia e in economia, laselvicoltura e l’assestamento forestale assunserouna nuova dimensione: si passò, appunto, dallaconcezione empirica a quella scientifica etecnica. I princìpi della nascente ecologiainsieme a quelli della fitogeografia comparata,della fitosociologia e dell’analogia climatica epedologica furono assunti come base di studiodel trattamento e della gestione del bosco.

La ricerca si orientò verso la sperimentazionein pieno campo. «L’approccio atomistico, cioèdella scomposizione in parti e comparti, hapermesso alla ricerca forestale di ottenererisultati di notevole efficacia sul piano tecnico.Ma, al tempo stesso, ha incapsulato il sapereforestale; ha frenato l’evoluzione del pensiero;ha compresso la ricerca teorica. Ma c’è di più.Ha affievolito l’interesse per la cultura delbosco» (CIANCIO, 1994a).

Solo alcuni forestali presero atto di questanuova realtà e cercarono di sviluppare unprogetto di ricerca alternativo. Ma le conoscenzeancora non consentivano di effettuare quel saltodi qualità necessario per riorientare il pensieroforestale. I tempi non erano ancora maturi.Successivamente, l’affermazione della visione

olistica e del pensiero ecologico ha permesso diguardare al bosco non più come un agglomeratodi alberi ma come un tutto: ovvero un sistemain cui ciascuna componente – biotica e abiotica –ha un preciso significato e svolge un determinatoruolo.

Faccio però notare che 125 anni nella ricer-ca scientifica sono anni luce. Su tale aspetto for-se non guasterebbe una riflessione da parte ditutti i forestali: studiosi, docenti, ricercatori, am-ministratori e tecnici. Se le cose stanno così, sedopo 125 anni dalla prima enunciazione si con-tinua a discettare sulla cosiddetta selvicolturanaturalistica e sulle perifrasi a essa assimilabi-li, allora a nulla vale lamentarsi se altre catego-rie professionali occupano lo spazio tipico deiforestali.

10. L’AGGETTIVAZIONE DELLA SELVICOLTURA

Sull’opportunità o meno di aggettivare la sel-vicoltura, due sono le correnti di pensiero. Laprima sostiene che non si deve aggettivare la sel-vicoltura. La selvicoltura è una disciplina e quin-di non vi è alcuna necessità di aggiungere al so-stantivo aggettivi di alcun genere. La seconda,invece, ritiene che la selvicoltura debba essereaggettivata perché vari sono i modi di intenderlae diverse sono le modalità applicative.

La prevalenza è certamente di quest’ultimacorrente di pensiero, come è dimostrato in modoinequivocabile dall’aggettivazione impiegatanel corso del tempo. Si è scritto di selvicolturanaturale, economica, protettiva, ecologica,convenzionale, tradizionale, intensiva, accelerata,industriale, agronomica, artificiale ecc. L’argo-mento indubbiamente è interessante e, malgradole oggettive difficoltà, è utile introdurlo nel di-battito. Il confronto di idee è stimolante poichéda esso è possibile chiarire alcuni aspetti scien-tifici, tecnici, etici e culturali. Ed è quanto cer-cherò di fare.

La cosiddetta selvicoltura naturalistica e la sel-vicoltura sistemica sono forme colturali moltodiverse l’una dall’altra. Nella fattispecie ambe-due sono accomunate solo e soltanto – e non po-trebbe essere altrimenti – dall’aggettivazione: daun lato «naturalistica» e dall’altro «sistemica».

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Appartengo alla categoria di coloro che nonritengono utile aggettivare la selvicoltura. Sonostato obbligato ad aggiungere sistemica al so-stantivo selvicoltura poiché bisognava diffe-renziare in modo netto questa forma colturale– viste anche le profonde diversità di ordine teo-rico, scientifico, tecnico e pratico operativo – dauna serie multiforme di espressioni teorizzatee applicate da oltre 125 anni. E appunto per-ciò, tutte rientrabili, per dirla con DE PHILIP-PIS (1967) nella «… selvicoltura classica, comeper riguardo verso una nobile signora decaduta».

Oltre alle aggettivazioni prima elencate, del-la cosiddetta selvicoltura naturalistica, cosìcome si desume dalla letteratura a partire dal-la fine del XIX secolo e fino a quella più vici-na del XX e del XXI secolo, molte sono le va-rianti a essa riconducibili. Si ricordano le più usa-te con scambi di perifrasi anche nello stesso ar-ticolo: selvicoltura sulla base delle leggi dinatura; selvicoltura conforme alla natura;selvicoltura in armonia con la natura; selvicolturavicina alla natura; selvicoltura prossima allanatura; selvicoltura su basi naturali; selvicolturasu basi naturalistiche ecc.

Negli ultimi tempi si avverte un ulteriorecambiamento e, diversamente dal passato,almeno così pare di capire, si parla di approccionaturalistico, invece di selvicoltura vicina allanatura e di selvicoltura prossima alla natura(WOLYNSKI, 1993; 1995; 1998; 2009). Oppuredi selvicoltura a indirizzo naturalistico (MAZ -ZUCCHI, 2009) e di selvicoltura senza etichette(MAZZUCCHI, 1997), invece di selvicolturanaturalistica. Con il che non solo non sieliminano le particolarità e le diversità connesseall’aggettivazione e all’uso di perifrasi, ma sifinisce con il complicare ancor di più la cono -scenza dei postulati della forma colturale,indebolendo ulteriormente le teorie e i presup -posti che stanno alla base della cosiddettaselvicoltura naturalistica.

Ma, a parte ogni altra considerazione, fraqueste locuzioni qual è, se c’è, la cosiddettaselvicoltura naturalistica? E come la si identifica?Quali sono gli attributi teorici e tecnici checaratterizzano ciascuna delle forme colturaliidentificate con tali espressioni? In che cosa sidifferenziano l’una dall’altra? O si tratta solo e

solo di perifrasi? Non mi pare che nei sette scrittisi sia posta attenzione a questo aspetto. Difatti,a tal proposito, non ci sono elementi distintivichiaramente percepibili.

C’è da sottolineare quanto opportunamentesegnalato da NOCENTINI (2009): nessuno dei varisostenitori di tali forme colturali si è maipreoccupato di chiarire il significato di questedefinizioni e quali siano, se ci sono, le caratte-ristiche che eventualmente le differenziano. Perdirla con PAOLO MORI (2001), «Si fa presto adire selvicoltura naturalistica…».

Agli A.A. dei sette articoli vorrei segnalare ilmetodo adottato da FABIO CLAUSER (1996) chein un interessante contributo, viceversa, chia-risce sin dall’inizio cosa egli intenda per selvi-coltura naturalistica, accettando e facendo pro-pria la definizione di HEINRICH MAYR (1909),appunto, «Selvicoltura sulla base delle leggi dinatura». Si può essere d’accordo o no, ma nel-la fattispecie una cosa certa c’è: la chiarezza del-l’impostazione concettuale del problema.

10.1. Le perifrasi e il background dei selvicoltori

Mi sono sempre chiesto – e forse sarebbeopportuno che chi sostiene la selvicoltura cosìdiversamente qualificata e identificata sioccupasse di chiarire questi aspetti – qualipotevano essere le distinzioni scientifiche traquesta miriade di definizioni. Difficile ecomplicato trovarne qualcuna basata su unateoria ben definita. Epperò, a parer mio, larisposta è semplice: si può supporre che questeaggettivazioni o perifrasi derivino dal backgrounddi ciascun studioso, o ricercatore, o tecnico.Ognuno di loro è portato a codificare piccolemodifiche tecniche rispetto alle proprieconoscenze scolastiche sulla base di particolariesperienze acquisite in campo.

Per dare senso e valore al dibattito, parrebbeopportuno cercare di filtrare le varie inter -pretazioni, quasi sempre parziali e riduttive, uni-ficando tale caterva di espressioni in una defi-nizione avente la caratteristica di essere chia-ramente e univocamente identificabile sia sul pia-no scientifico sia su quello tecnico. Purtroppocosì non è stato, e così non è. Ognuno resta le-gato al suo particolare modo di interpretare le

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tecniche da applicare nell’operatività in campo,ritenendo di essere a un dipresso il depositariodi tutte le conoscenze inerenti alla selvicoltura.

In sintesi, allo stato attuale allorché si parladella cosiddetta selvicoltura naturalistica, vistele molteplici perifrasi, non si riesce acomprendere quali siano le basi scientifichericonducibili in modo incontrovertibile a taleforma colturale in sé e, a maggior ragione, aquelle forme colturali a essa connesse e quindidiversamente definite. Se diverse sono le defi -nizioni, allora diversi dovrebbero essere ipostulati, le teorie e le tecniche applicative. Mainvero anche in questo caso purtroppo così nonè stato, e così non è.

Nella letteratura si riscontra un dato ricondu -cibile a un insieme di tecniche che variano perpiù o meno piccoli accorgimenti che però, nellarealtà non modificano in modo significativo négli schemi scolastici, né tantomeno l’attivitàcolturale. Fatti salvi alcuni rari casi a caratteresperimentale, posso affermare che nella mialunga attività non ho mai visto un forestale operarein bosco sulla scorta di modelli teorico matematicio di schemi tecnici precedentemente definiti.

Il forestale nell’esercizio della sua professio-ne, che prevede sia la funzione di tutore e di-fensore della foresta sia quella di parsimonio-so raccoglitore del prodotto che questa è in gra-do di fornire, nonché quella di architetto diun’opera alla cui completa realizzazione egli, ingenere, non sopravvive, è sempre dibattuto e co-stretto a scelte fra schemi rigidi che per intimaconvinzione non vorrebbe dover compiere.Infatti, non riesco a immaginare neppure per unistante come si possano effettuare le martellatepercorrendo i sentieri, a parer mio impercorribiliperché irti di ostacoli insuperabili, delle tavolealsometriche, del «bosco normale» o di schemidefiniti per scopi puramente didattici o propostinei piani di assestamento elaborati secondo glischemi previsti nei «sacri testi».

Ripeto, forse bisognerebbe domandarsi se laselvicoltura con l’aggiunta dell’aggettivonaturalistica in definitiva si debba considerareuna scienza, una tecnica o, per dirla alla DI

BÉRENGER, un mestiere. Invece, dagli articoli inquestione emergono due diverse opinioni checosì si possono riassumere: la prima si sofferma

su una forma colturale caratterizzata da uninsieme di tecniche che variano in relazione allediverse interpretazioni; la seconda sostienel’utilità di alcuni schemi tecnici elaborati a finiscolastici che, principalmente, sono utili aiprofessionisti per non essere sconfessati nel corsodell’approvazione dagli Enti preposti all’esamedei progetti di martellata o dei piani di asse -stamento.

I sostenitori delle diverse forme di selvicolturaidentificate con l’aggettivo naturalistica oespressioni similari – invece di fare discussionipregiudiziali sulla selvicoltura sistemica cheincontrovertibilmente si basa su postulati,teorie e finalità assolutamente diverse –farebbero bene a indicare qual è l’assioma, lelinee operative e le finalità che differenziano inmodo chiaro e inequivocabile tali diverse formecolturali, dando un contributo scientifico etecnico che tutti i forestali apprezzerebbero. Eciò a conferma che sussiste un problema diconoscenza in merito a ciò che è scienza e ciòche è tecnica. La discriminante quasi sempre nonè messa chiaramente in evidenza, anzi, a talproposito, spesso c’è grande confusione.

11.L’IPOCRITA CONSERVATORISMO

DELL’AGGETTIVAZIONE DELLA SELVICOLTURA

Nel 1981, ventinove anni fa, ahimè come pas-sa il tempo!, in una lettura dal titolo I massimisistemi in selvicoltura, svolta all’AccademiaItaliana di Scienze Forestali, mi soffermavo sul-l’aggettivazione della selvicoltura. La lettura miera stata sollecitata dall’allora Presidente GE-NEROSO PATRONE con il quale su sua richiestaavevo incontri settimanali (CIANCIO, 1994b). Inquei colloqui, assai produttivi per la mia for-mazione scientifica, spesso manifestavo opinionidiverse dalle sue poiché egli, differentemente dame, era un fermo e coerente assertore del bo-sco coetaneo, della teoria del «bosco normale»e della preminenza dell’economia sull’assesta-mento e la selvicoltura.

In quella lettura sostenevo la tesi che la sel-vicoltura in quanto disciplina non doveva essereaggettivata (CIANCIO, 1981). E ciò per diversimotivi, tra i quali:

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1) l’aggettivazione, superando l’intento di chil’ha usata e continua a usarla, inevitabilmenteha condotto, e non poteva essere altrimenti,alle interpretazioni più disparate;

2) con l’aggettivo «naturalistica» non si puòidentificare la selvicoltura in quanto disci-plina, altrimenti secondo logica bisognerebbeaccettare l’idea dell’esistenza di una selvi-coltura «non naturalistica», tesi del tuttoimprobabile se non impossibile da far accet-tare ai forestali, ai naturalisti e agli ambien-talisti;

3) con le varie perifrasi, alcuni sogliono definiresistemi colturali totalmente diversi e con-trapposti a cui corrispondono differenti dot-trine; altri intendono far riferimento agliordinamenti produttivi e alle forme colturalicui il bosco è assoggettato; altri ancora voglionoindicare semplicemente indirizzi e tendenzeche perseguono obiettivi e finalità varie infunzione dei bisogni dell’uomo nei momentievolutivi dello sviluppo sociale e delle con-seguenti necessità emergenti;

4) gli studiosi, i docenti, i ricercatori e i tecnicicon le varie perifrasi tendono a privilegiarequegli aspetti selvicolturali più congenialialla loro formazione tecnica, scientifica e cul-turale nell’intento, anche se non esplicita-mente dichiarato, di meglio precisare especificare la loro attività;

5) studiosi, docenti ed esperti di notevole valoreper chiarire meglio il proprio pensiero, impo-stano la discussione in questa chiave, inne-scando processi che portano più spesso asterili polemiche anziché alla chiarezza eall’approfondimento delle idee.

Resto fermo su questa posizione e faccio no-tare che quanto prima esposto sta a indicare lagrande confusione che regna in materia. Men-tre alla fine del XIX secolo era giustificabile lapreoccupazione di denunziare con forza e de-terminazione la necessità di un ritorno alla na-tura, vista anche la dottrina selvicolturale im-pressa dalla Scuola tedesca, oggi, a parer mio,l’aggettivo naturalistica e le varie perifrasi,l’approccio o l’indirizzo naturalistico, sono unmodo come un altro che fa giuoco ai forestaliper attenuare, e sottolineo attenuare, le critichedi alcune frange di naturalisti e ambientalisti.

Ma, a ben guardare, tale posizione è frutto diun ipocrita conservatorismo che poco o nullaha a che fare sul piano scientifico con i meto-di colturali dei sistemi biologici complessi,come peraltro ben sanno gli uomini di scienzache questi problemi hanno iniziato ad affron-tare con grande impegno a partire dagli anni Set-tanta, cioè i biologi, gli ecologi, i naturalisti, gliambientalisti e, non ultimi per importanza, al-cuni forestali.

12. LE «STERILI DISQUISIZIONI»E LE SFIDE DEL MONDO FORESTALE

Premetto che dei sette articoli in questione –non me ne vogliano gli altri A.A. – quelli che piùmi hanno interessato, per alcuni spunti stimo-lanti da un lato, per taluni aspetti non condi-visibili dall’altro, sono quelli di MARCELLO

MAZZUCCHI (2009), Direttore del Distretto fo-restale di Cavalese (TN), quello di GIAN

BATTISTA SANGALLI (2009), Direttore ServizioForeste e Bonifica Montana Comunità Montanadi Valle Camonica (BS) e quello di ALESSANDRO

WOLYNSKI (2009), Presidente di Pro SilvaItalia.

È doveroso annotare che ad alcuni degli Au-tori dei sette articoli è già stata data una ri-sposta. In particolare, al DOCUMENTO AMMINI -STRAZIONI FORESTALI DEL NORD EST (2009) harisposto in modo convincente FRANCESCO IO-VINO (2009), mentre agli interventi di MARCO

PACI (2009) e di PIETRO PIUSSI (2009) ha re-plicato SUSANNA NOCENTINI (2009). In questerisposte tra l’altro si indica dove e come sia giàin atto l’applicazione della selvicoltura siste-mica, anche se non codificata nei «sacri testi».Per rendersi conto di ciò basterebbe fare il sel-vicoltore nel laboratorio di tutti i forestali, cioèin bosco!

12.1. Il «serio rischio»della selvicoltura sistemica!

In merito all’articolo di PIETRO PIUSSI e alleinutili quanto speciose suddivisioni delle su-perfici a bosco e quant’altro dedotte dall’In-ventario Nazionale Italiano delle Foreste e dei

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Serbatoi di Carbonio, domando: forse lo stimatointerlocutore pensa che in una mozione finaledi un Congresso si possano inserire analisi e sud-divisioni di tal genere? Questo è un modo comeun altro per sfuggire alla realtà. Come recita unvecchio detto, sono solo e solo «questioni di lanacaprina»!

Sono «questioni di lana caprina» anche per-ché quelle dell’interlocutore sono riflessioni cheservono per analizzare taluni problemi cheperaltro sono stati esposti al Congresso e poi ri-portati negli Atti. Ma non basta. Purtroppo devoritornare su una questione di ordine tecnico escientifico da lui posta quando afferma: «Pen-so che la sostituzione di forme di gestione delbosco maturate attraverso il tempo ed adatta-te a particolari specie legnose e ambienti eco-logici e sociali con un nuovo approccio, cosìcome proposto dalla mozione votata a Taormina,per ora privo di una verifica empirica, possa co-stituire un serio rischio».

Allo stimato interlocutore chiedo: quale «se-rio rischio» può costituire la selvicoltura si-stemica? Forse il taglio a raso e la rinnovazio-ne artificiale, o i tagli successivi più o meno uni-formi, o il taglio saltuario con relativa norma?Crede forse che queste forme colturali faccia-no parte della selvicoltura sistemica? Quale ele-mento concreto lo ha condotto a una tale ri-flessione? La sua non è forse, come dire?, unainterpretazione fantasmatica? Eppoi, in cam-po biologico è possibile oggettivare una provaempirica? Questa sì, è una vera e propria ere-sia scientifica!

Se ciò non bastasse, vorrei ricordare a PIETRO

PIUSSI quanto afferma FRANÇOIS JACOB (1983),premio Nobel per la medicina nel 1965: «Si puòsicuramente esaminare un oggetto per anni sen-za mai trarre la minima osservazione d’interessescientifico […]. Nel procedimento scientificoè sempre la teoria ad avere la prima parola. Idati sperimentali possono essere acquisiti, as-sumere significato, soltanto in funzione diquesta teoria».

E, ancora, quanto osserva CLAUDE ALLÈGRE

(1995): «Senza un modello teorico, un’osser-vazione o un esperimento non hanno alcun si-gnificato. Contrariamente a quanto hanno cre-duto i naturalisti ingenui, non esiste scienza

obiettiva che si accontenti di descrivere e di clas-sificare gli oggetti in attesa che questa accu-mulazione di fatti finisca per sfociare automa-ticamente in una sintesi teorica».

Per meglio rendersi conto della questione ba-sta aggiungere quanto sostengono alcuni im-portanti studiosi. GIACOMINI (1964) afferma che«il primo problema che si pone oggi in argo-mento di foreste è un problema di conoscenza»e MILINSEK (1978) pone come elemento prin-cipale di riferimento per una corretta e razio-nale azione selvicolturale «il metodo conosci-tivo su basi informative teoriche».

Ne discende che a qualsiasi livello di re-sponsabilità si operi, è indispensabile che tut-ti si convincano della necessità di trasporre il me-todo conoscitivo al tecnicismo empirico che in-vece conduce alla formulazione di schemi e sem-plificazioni inidonee alla risoluzione della vastae complessa questione forestale.

In breve, al di là dell’improponibile proble-ma scientifico sollevato da PIETRO PIUSSI e mal-grado le sue inverosimili preoccupazioni, ras-sicuro lo stimato interlocutore. Egli può esse-re certo che l’applicazione dei princìpi della sel-vicoltura sistemica non costituisce né per il si-stema bosco, né per il «contesto socio-econo-mico» alcun «serio rischio». La teoria della sel-vicoltura sistemica, nel porre come principio in-derogabile la difesa delle prerogative dell’enti-tà biologica bosco, pone in essere anche, e so-prattutto, la difesa degli interessi delle popo-lazioni locali e, più in generale, dell’uomo. E,appunto perciò, in definitiva si concreta in unaforma colturale altamente economica.

12.2. La filosofia dello sfruttamento del bosco!

Sull’intervento di GIOVANNI HIPPOLITI (2009),in linea di massima condivido il commento diPAOLO MORI (2009) nel quale si mettono in evi-denza in modo elegante nella forma, ma duronella sostanza, vari significativi distinguo. A leg-gere certe opinioni, a dir poco, mi viene, se nonproprio da ridere, certamente da sorridere.

Alle volte mi domando se per fare alcune ope-razioni pratiche occorrano cinque anni di Uni-versità o se forse non sarebbe meglio un corsodi formazione della durata di tre mesi per ope-

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ratori di motosega e mestieri affini. In talmodo, i giovani laureati forestali rientrerebbe-ro a pieno diritto tra gli esecutori dei mestieriindicati dal DI BÉRENGER (1865). Mestieri di as-soluto interesse – agli interpreti dei quali va tut-to il mio rispetto – ma che certamente non rap-presentano la professionalità dei laureati fore-stali. Secondo il nostro interlocutore solo e solocosì la selvicoltura non sarebbe «un’astratta fi-losofia»; non sarebbe fantasia ma realtà! E in talmodo i portatori di idee nuove, che fanno solofilosofia, non potrebbero usarle «come stru-mento, come argomento nelle competizioni perla dominanza accademica»!

Mi chiedo e chiedo: se così fosse, allora per-ché non abolire i Corsi di Laurea in Scienze fo-restali e ambientali e licenziare, o meglio, perusare una terminologia cara allo stimato in-terlocutore, «disboscare» i docenti universitari?In un momento di crisi come l’attuale sareb-be un gran risparmio per la collettività! Ban-do all’ironia, con questi argomenti si propugnaun’assurdità e al tempo stesso si provoca ungrave danno alla professionalità dei forestali,allo sviluppo del settore forestale, al progres-so scientifico e, non ultimo per importanza, albosco.

Lo stimato interlocutore si è mai posto que-sta semplice domanda: a cosa serve lo studio deirapporti tra clima, suolo, macroflora e micro-flora e tra l’influenza della macrofauna e del-la microfauna sulla funzionalità del sistema bo-sco? Si è mai chiesto a che scopo negli Istitu-ti di ricerca di tutto il mondo si studiano le in-terazioni tra gli innumerevoli componenti delsistema biologico complesso bosco? Si tratta difilosofia o di ricerca scientifica? La ricerca scien-tifica è fantasia o realtà? Forse si fa tutto que-sto come strumento per conseguire la domi-nanza accademica?

HANS LEIBUNDGUT (1960) osserva: «Dovevengono a mancare interi gruppi di specie ani-mali, come negli ambienti antropizzati, si veri-ficano pertanto mutamenti nella biocenosi,che devono esser definiti vere e proprie «ma-lattie di cenosi». I danni da insetti o da anima-li superiori, che ne derivano, non hanno perciòche significato di sintomo di uno stato patolo-gico».

E più oltre: «La spiegazione di tali fenome-ni a mezzo di singoli fattori ecologici, come lecondizioni di luce, il rifornimento di azoto, ladisponibilità termica ed udica ecc., si dimostrasempre troppo semplicistica. I fattori fisici e chi-mici a sé stanti vengono spesso invocati a spie-gazione dei fenomeni biologici solo per il fat-to che la loro entità è facilmente misurabile. Iprocessi microbiologici della rizosfera, cosìpoco appariscenti, come l’influenza della fau-na, vengono invece di norma trascurati o nonabbastanza considerati».

Domando: forse GIOVANNI HIPPOLITI pensache anche LEIBUNDGUT faceva «astratta filoso-fia»? Cosa non fa fare e cosa non fa dire lo ste-rile dogmatismo del pensiero unico!

Inoltre, all’interlocutore chiedo: quali le mo-tivazioni che sostengono simili argomentazio-ni? La nostalgia dell’empirismo in selvicolturadel XVIII secolo la cui «filosofia» – questa sì «fi-losofia» – era quella di tagliare e tagliare quan-to di meglio vi era nel bosco al fine di ottene-re il massimo tornaconto possibile? O, forse, ilrimpianto per la «realtà» dello sfruttamento perlo sfruttamento del bosco?

Una filosofia a quanto pare dura da abbatte-re se ancora oggi nel XXI secolo si continua apensare in questo modo. E il bosco? Il bosconon conta. Ciò che conta è l’interesse finanziario.Questa sì è realtà, il resto è solo fantasia!

Forse GIOVANNI HIPPOLITI non si rendeconto che nel sostenere simili tesi, oltre ad ar-recare i danni prima elencati, se ne aggiunge unaltro ancora più grave, cioè si finisce con il di-sconoscere la conoscenza e la cultura e, perchéno?, si insulta l’intelligenza! Cos’altro aggiun-gere? A leggere certe cose si resta, come dire?,allibiti, senza parole. Ripeto: questa sì è realtà,ma una triste realtà!

12.3. La cosiddetta selvicoltura naturalisticae i «sacri testi»

NOCENTINI (2009), oltre a PACI e a PIUSSI, harisposto anche a WOLYNSKI, ma su questocontributo desidero intervenire anch’io, visti an-che gli argomenti di riflessione che propone; al-cuni condivisibili, altri no. Mi spiace per lo sti-mato interlocutore ma, come dimostrerò più

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avanti, credo di poter affermare che, – trannedue o tre aspetti, di cui uno non particolarmenteincisivo per dirimere il dibattito in corso – trala cosiddetta selvicoltura naturalistica, almenocome egli la concepisce, e la selvicoltura siste-mica non ci sono analogie, mentre ci sono tan-te, tantissime differenze che egli evidentemen-te o non ravvisa o ravvisa solo in parte.

A onor del vero si deve dire che gran parte de-gli ottimi risultati conseguiti in passato per la sal-vaguardia, la valorizzazione e il miglioramentodi quel grande, meraviglioso sistema biologicocomplesso bosco si debbono anche e soprattuttoalla cosiddetta selvicoltura naturalistica. Epperò,si deve fare un’importante distinzione. Gliaspetti tecnici, codificati nei «sacri testi» che cer-cano di identificare la suddetta forma coltura-le, nella pratica operativa quasi sempre sono sta-ti ignorati o disattesi.

Ciò è confermato in modo incontrovertibileda DEL FAVERO et al. (1999b): «Il modello mi-sto e disetaneo trattato con interventi fre-quenti e su piccola superficie, ad imitazione diun presunto analogo funzionamento delle forestevergini, ha rappresentato per molti forestali lavia da perseguire almeno idealmente. Nella pra-tica poi, la limitata applicabilità in molte cir-costanze di questi modelli ha spesso portato adoperare seguendo maggiormente l’intuito el’esperienza».

SILVIA BRUSCHINI (2009), alla quale bisognadare atto della visione in positivo della proble-matica, a commento dell’articolo di SANGALLI,del quale si dirà subito dopo, sostiene che esi-stono alcuni casi nei quali si fa buona selvicol-tura. Il fatto è, si può esserne certi, che anchein quei pochi casi, che però non fanno testo, leregole che la letteratura segnala per le cure col-turali e il trattamento delle fustaie quasi sem-pre non sono state tenute in alcun conto.

12.4. Per restare «con i piedi per terra»,le elucubrazioni non servono!

Ai forestali, malgrado le gravi difficoltà chesegnala GIAN BATTISTA SANGALLI (2009), bi-sogna riconoscere che hanno sempre agitocon saggezza, sfruttando l’esperienza e l’intui-to che costituiscono a un tempo la conoscenza

e l’arte selvicolturale e gestionale. Come nonconcordare in questo con lo stimato interlocu-tore? E così anche quando egli afferma che bi-sogna agire sulla classe politica per dare soste-gno alla professionalità che contraddistingue iforestali e di conseguenza alla selvicoltura e allagestione sostenibile.

Per restare «con i piedi per terra» devo peròricordare a SANGALLI, facendo ricorso alla mialunga esperienza, che senza iniziative scientifi-che innovative che supportino adeguatamentele tesi da proporre, difficilmente la classe poli-tica prenderà a cuore le questioni poste.

Le idee nuove e un dibattito serrato, ma co-struttivo come quello in essere, possono e de-vono riuscire a far comprendere all’esterno delmondo forestale, che tradizionalmente è sem-pre chiuso in se stesso, quanto si fa nell’interessedel bosco e quindi della collettività e in tal modosostenere l’importanza della professionalità fo-restale. Mi spiace quindi dissentire dall’inter-locutore, ma nella fattispecie non si tratta di «di-squisizioni teoriche». Le cose non stanno così.Solo attraverso i risultati acquisiti con la ricer-ca scientifica ci si occupa dei problemi reali delsettore forestale.

In breve, contrariamente a quello che pensalo stimato GIAN BATTISTA SANGALLI, solamen-te proponendo tesi innovative e caratterizzantila professionalità forestale si resta, appunto, «coni piedi per terra»! Diversamente, con le sterilielucubrazioni unite alle solite italiche geremia-di invece di risollevare il settore forestale lo sidanneggia e, per di più, in modo irreparabile.

12.5. La cosiddetta selvicoltura naturalistica,l’ecosistema e la «normalizzazione»

A MARCELLO MAZZUCCHI è doveroso rico-noscere lo sforzo che egli compie per portarea conoscenza dei giovani e non quanto ha ac-quisito con l’esperienza nell’attuare una selvi-coltura attenta agli insegnamenti della Scuolapadovana – Scuola di assoluto valore per i tan-ti magistrali contributi che hanno determinatoil progresso delle Scienze forestali. Questo suoatteggiamento mi ha portato da sempre a seguirecon grande interesse quanto egli ha elaboratoe scritto.

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il tornaconto prevale sulla biologia e sulla sel-vicoltura.

Ma, la stima verso MARCELLO MAZZUCCHI ètale che, anche se oggettivamente è difficile com-prendere e spiegare questo dato di fatto e taliasserzioni, voglio immaginare e credere – purfacendo straordinarie quanto improbabili con-torsioni mentali oltre che grammaticali pertrasformare un aggettivo in sostantivo – che for-se egli con il termine «naturalistica» voglia qua-lificare, appunto, la «selvicoltura naturalistica»come una disciplina a sé stante, diversa anchedalla selvicoltura in quanto tale, a meno che eglinon consideri il termine «naturalistica» né unaggettivo, né un’etichetta.

Mi spiace quindi dover rigettare quanto eglisostiene quando con giudizio, come dire?,sprezzante, afferma: «Mi chiedo allora cosa mipuò dare in più questa cosiddetta selvicolturasistemica. Ben venga il confronto di idee che èpur sempre segno di vitalità culturale, ma iltimore è che in questo modo ci si perda in sterilidisquisizioni [il corsivo è mio] quando ben altresfide concrete, importanti, impegnano oggi ilmondo forestale…».

A questo punto sono io a domandarmi se eglisi sia mai chiesto quale assioma e quali teorieconseguenti sostengano la cosiddetta selvicolturanaturalistica e quali, invece, siano i postulati ele teorie su cui poggia la selvicoltura sistemica.Se non vi ha trovato alcunché di nuovo, se pensache la selvicoltura sistemica non possa darglinulla in più rispetto alla cosiddetta selvicolturanaturalistica, allora sarebbe utile che lo stimatointerlocutore – e come non si potrebbe stimarechi dichiara con giustificato orgoglio di avermartellato un milione di piante – lo esem -plificasse sul piano epistemologico, teorico,scientifico, tecnico e infine, ma non ultimo perimportanza, sulle finalità delle due formeselvicolturali. Perché in tutto ciò che attiene allelibere creazioni della mente umana, in ultimaanalisi è sempre il fine che fa la differenza.

Dall’esame dell’articolo in questione pareproprio che egli non dia peso a questa tematica,che abbia deliberatamente rimosso laproblematica, lasciandomi alquanto perplessoanche perché da sempre ho analizzato conattenzione i suoi contributi, con particolare

9 Nei lavori di MAZZUCCHI c’è, come dire, un indiscu-tibile crescendo nell’aggiungere al sostantivo selvicoltural’aggettivo «naturalistica» e precisamente: una volta nellavoro del 1981; 9 volte in quello del 1985; 8 volte inquello del 1989; ben 13 volte in quello del 1997.

10 Nel lavoro del 1981 si riscontra, anche se 2 sole volte,la brutta – a mio avviso bruttissima – parola normalizza-zione (come l’ha definita nel 1931 GIUSEPPE DI TELLA) eben 8 volte in quello del 1985.

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È pur vero, però, che recentemente egli so-stiene la necessità di non aggiungere aggettivial sostantivo selvicoltura (MAZZUCCHI, 2009). Dipiù, afferma che è necessaria una selvicolturasenza etichette (MAZZUCCHI, 1997). In talmodo, forse senza rendersene conto, egli entrain contraddizione con se stesso.

Difatti, in vari scritti egli ha sostenuto la va-lidità di aggiungere al sostantivo selvicoltural’aggettivo naturalistica9 (FERRAI e MAZZUCCHI,1981; MAZZUCCHI, 1985; 1989). Se si aggiun-ge l’aggettivo naturalistica al sostantivo selvi-coltura, allora la si qualifica, al contrario diquanto egli afferma, con un aggettivo che è an-che una precisa etichetta: «selvicoltura natu-ralistica». A ciò s’aggiunga l’insistito uso del ter-mine normalizzazione10. Per dirla con il suomodo di esprimersi, questo sì è un «linguaggiodi casta» e per di più inaccettabile dal puntodi vista etico. Il bosco è un’entità vivente le cuipeculiarità non possono essere ordinate e stra-volte al fine di conseguire un tornaconto a van-taggio solo e solo dell’uomo.

Ora, però, non può non sorgere una do-manda che, con la più sincera stima, rivolgo aMARCELLO MAZZUCCHI: cosa c’entra la nor-malizzazione con quello che avviene in natu-ra? La normalizzazione – credo che anch’eglipossa condividere – attiene a una costruzionecoercitiva del bosco da parte dell’uomo chenon ha niente che possa fare riferimento al na-turale.

La normalizzazione fa riferimento al solo, esottolineo al solo, principio agronomico – o,per usare la terminologia in voga in campo fo-restale, «principio produttivo» – per ottene-re il massimo reddito finanziario. Ancora unavolta, malgrado le tante ipocrite chiamate incausa dell’ecosistema e della sua funzionalità,

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Se questo è un punto a tutti chiaro il dibat-tito può continuare, altrimenti è meglio ab-bandonarlo subito perché non si andrebbe danessuna parte. L’egemonia culturale da qua-lunque parte venga è inaccettabile, e non sol-tanto sul piano scientifico.

Malgrado il sincero rispetto che nutro pertutti coloro che operano in bosco con passione,esperienza e intuito e in modo particolare perMARCELLO MAZZUCCHI – anch’io nella lungacarriera svolta in tutte le amministrazioni acarattere forestale, intercomunali, regionali,statali, Enti di ricerca, Università, ho effettuatonumerose martellate, anche se credo di nonaver raggiunto il traguardo di un milione dialberi – devo sottolineare che nel suo scrittoe nel DOCUMENTO AMMINISTRAZIONI FORE -STALI DEL NORD EST11 (2009) è evidente unpregiudizio tecnico e culturale che si può cosìesplicitare: quello che si sa del bosco e quelloche si fa nel bosco del Nord Est è il Vangelo,e sottolineo il Vangelo, della selvicoltura. Eappunto perciò va fideisticamente accettato,seguito e preso a esempio per convertire – enon mi riferisco alla conversione dei cedui infustaia! – chi non si ritrova in questi dettami.Tutto il resto sono sterili disquisizioni che nonrisolvono le sfide che incombono sul mondoforestale.

Mi domando e domando: con un similepregiudizio tecnico e culturale non si disconoscel’importanza dell’innovazione scientifica inselvicoltura? È accettabile una simileproposizione agli inizi del XXI secolo? Sipuò forse concludere che tutti i boschi del no-stro Paese siano uguali o similari a quelli delNord Est? Non c’è forse un po’ di esagerazionemista a un certo grado di presunzione in tut-to ciò?

riferimento proprio alla cosiddetta selvicolturanaturalistica.

La posizione critica di MARCELLO MAZZUCCHI,a mio avviso, è la dimostrazione di un elevatogrado di passionalità e, appunto perciò, non pareabbia particolari giustificazioni scientifiche.La problematica, invece, imporrebbe che la ra-gione debba dominare le passioni. In breve,credo che la questione in essere si possaesemplificare con un aforisma che nellafattispecie è anche un’etichetta: Il giudizio piùassoluto e inamovibile è appunto il pregiudizio!

13. IL DOGMA DELLE GENERALIZZAZIONI,IL PENSIERO UNICO E LA SELVICOLTURA

DEL NORD EST

Nell’esaminare gli articoli che sostengono ildibattito in corso, più volte mi sono posto unadomanda: i sostenitori delle varie forme dellacosiddetta selvicoltura naturalistica si sonochiesti se in tanto fervore nel sostenerle non cisia quanto basta per temere che risorga il dog-ma delle generalizzazioni?

Negli articoli in questione sembra che un talepericolo non venga minimamente preso inconsiderazione. Eppure, lo si sa, le generaliz-zazioni in campo biologico sono un grave erroree, in definitiva, rappresentano un vuoto di ana-lisi scientifica e culturale.

In selvicoltura le generalizzazioni, come le pas-sioni, non conducono al progresso scientifico,ma al contrario risultano pericolose e dannoseperché in sé portano il germe nefasto dell’as-solutismo e del dogmatismo, cosicché, o sem-plificano eccessivamente i problemi e i casi rea-li, o sono la causa prima di clamorosi fallimenti.Inoltre, offuscano il pensiero e confondono leidee.

A tal proposito, per l’ennesima volta deside-ro ribadire che in campo scientifico non può esi-stere un pensiero unico e che le verità scientifi-che sono tali perché provvisorie e quindi mu-tabili nel tempo a seguito dell’acquisizione dinuove conoscenze che le rendono obsolete. Ogniricerca, anche quella più avanzata e innovativa,nel tempo è destinata ad acquisire valore sto-rico.

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11 Occorre citare correttamente. Il Primo CongressoNazionale di Selvicoltura per il miglioramento e la con-servazione dei boschi italiani si è tenuto a Firenze il 14-18Marzo del 1954 e non nel 1956 come erroneamente ripor-tato nel DOCUMENTO AMMINISTRAZIONI FORESTALI DELNORD EST. Gli atti sono stati pubblicati in due volumi: ilprimo nel 1955 e il secondo nel 1956. In questi casi la pre-cisione è d’obbligo, soprattutto per i giovani tecnici e glistudenti che devono essere informati correttamente.

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Se ciò fosse vero – epperò, sono certo che cosìnon è – allora significherebbe che si argomentasecondo un nuovo integralismo conformisticoche parrebbe caratterizzare i tecnici e gliamministratori forestali del Nord Est, assi -milabile per certi versi, e sottolineo per certiversi, al fondamentalismo che ha guidato laselvicoltura in centro Europa a partire dalperiodo scolastico di HARTIG, COTTA, HUNDE-SHAGEN, PRESSLER ecc. fino agli anni Ottanta delsecolo scorso.

Forse è utile ricordare che ALDO LEOPOLD nel1936, dopo un periodo di studi trascorso in Ger-mania e Cecoslovacchia, annotava che, in Ger-mania a seguito del fenomeno della coltivazio-ne dell’abete rosso, le «foreste miste e la rin-novazione naturale divennero relitti arcaici». Male cose a suo parere stavano cambiando e scri-veva: «I tedeschi si rendono conto ora che l’in-cremento (di legno) comprato a spese della sa-lute del suolo, della bellezza del paesaggio e del-la selvaggina è economia scadente, oltre che sca-dente politica pubblica».

Ma così non è stato, se è vero, come è vero,che WOLFE e BERG nel 1988, cioè a distanza di52 anni, a seguito di una attenta ricerca,documentano che la picea e il pino silvestre oc-cupano, rispettivamente, il 40 e il 20% della su-perficie forestale della Germania occidentale.Il sistema colturale prevalente è ancora il taglioraso con rinnovazione artificiale. I turni perl’abete rosso sono sempre di 80-100 anni.Contrariamente a qualsiasi previsione, essi af-fermano che la superficie a picea rispetto al se-colo scorso invece di diminuire è aumentata.Con buona pace di ALDO LEOPOLD e delle sueprevisioni!

Il motivo di questa mia riflessione è semplice.Se veramente fosse come illustrato nei recentisette scritti, allora bisognerebbe disconoscere unfatto incontrovertibile: ovvero che il nostro Paesesi prolunga nel Mediterraneo con formazioniforestali tra le più biodiverse in Europa e,appunto perciò, estremamente variabili daNord a Sud e da Ovest a Est, ma anche tra lestesse regioni che lo compongono.

Di più: la cultura nei confronti del bosco èmultiforme e assai diversificata. Basti pensareall’influenza sulla gestione forestale del

patrimonio di conoscenze asburgico al Nord Est,di quello dei Savoia al Nord Ovest, di quello deiLorena al centro – Granducato di Toscana – edi quello dei Borboni al Sud – Regno delle dueSicilie. Se ciò è vero, allora MARCELLO

MAZZUCCHI e gli amministratori forestali delNord Est dovranno onestamente riconoscere chesul suddetto pregiudizio tecnico e culturale nonsi può essere d’accordo e, a dire il vero, credoche nessun forestale, esclusi evidentementequelli del Nord Est, possa condividerlo.

Si dirà che un forestale che opera in campo –e MAZZUCCHI lo è – e gli amministratori delNord Est non sono tenuti a occuparsi di scien-za, ma di tecnica sulla cui maestria tutti con-cordano. Però così non è. I loro contributi sonodegni della massima attenzione e dimostrano illoro interesse per gli aspetti scientifici relativi allaselvicoltura.

Tuttavia, poiché lo scritto di MAZZUCCHI è an-tecedente alla pubblicazione degli Atti del Ter-zo Congresso di Selvicoltura, amichevolmentegli consiglio – e il consiglio ovviamente siestende agli altri dieci A.A. dei sette articoli –di leggere senza pregiudizi ideologici, ripeto sen-za pregiudizi ideologici, la relazione introdutti-va (CIANCIO, 2009a). E verificare quali linee diricerca presumibilmente saranno affrontate neiprossimi dieci, cinquanta, cento anni. Egli e glialtri A.A. forse si renderebbero conto di qualeimportanza potrebbe avere il contributo dellaricerca per lo sviluppo scientifico e tecnologi-co forestale, rendendo obsoleta anche la selvi-coltura sistemica. E perché no? Anche se con itempi forestali, lunghi, a volte lunghissimi, è nor-male che ciò avvenga. Ho più volte sostenuto chetutte le verità scientifiche sono provvisorie e nondefinitive. Così è, e così sarà, anche per la sel-vicoltura sistemica.

Inoltre, MARCELLO MAZZUCCHI se ne ha vo-glia e tempo, potrebbe scrivere un altro artico-lo per chiarire ai lettori di Sherwood il suo veropensiero sull’argomento. E qualora ritenga di es-sersi sbagliato nel tono oltre che nella sostanza,nei precedenti contributi o, al contrario, in quel-lo in esame, allora sarebbe utile chiarirlo. Nonvi è dubbio che tutti i forestali gli sarebbero gra-ti per un simile atto. E siccome egli è un ga-lantuomo, sono sicuro che lo farà.

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14. LA LOGICA DELLA SELVA

E QUELLA DEL REDDITO FINANZIARIO

Dalla lettura dei sette articoli in questionepare ormai assodato un fenomeno sintomatico:ogni forestale che opera in campo ritiene chei problemi che affronta e risolve giornalmentepossano essere generalizzati. Si tratta, comeprima affermato, di un grave errore princi -palmente per due motivi. Il primo perché inselvicoltura non è possibile oggettivare leesperienze locali: le generalizzazioni così comele oggettivazioni sono delle semplificazioni deisistemi biologici complessi e, appunto perciò,inaccettabili e improponibili sul piano scientifico.Il secondo è banale, lapalissiano, ed è già statodetto: i sistemi forestali non sono tutti uguali,variano sensibilmente da regione a regione enella stessa regione da zona a zona. È presumi -bile quindi che ciò che può essere valido aCavalese non sia valido in Sila o sui Nebrodi.

Sono un estimatore dei forestali che operanonel Nord Est per la competenza da sempredimostrata nello svolgimento della loro attività.Apprezzo i programmi elaborati con rigore esapienza e le conseguenti realizzazioni in bosco.Ho letto con interesse, tra gli altri, i contributidi AMERIGO HOFMANN (1931; 1935; 1938),ALBERTO HOFMANN (1957a; 1957b; 1969; 1984;1985), EZIO FERRARI (1986), PIETRO LUIGI

BORTOLI (1998; 1999), ROBERTO DEL FAVERO

(1996), ROMANO MASÈ (2009) e della DirezioneForeste della Regione Veneto (ROBERTO DEL

FAVERO et al., 1990; 1999a; LUIGI MASUTTI e AN-DREA BATTISTI, 2007; PIERMARIA CORONA et al.,2010).

Sono convinto della bontà di taluni princìpiche stanno alla base della cosiddetta selvicolturanaturalistica, ma da qui a prefigurarla comel’unica forma colturale e il ritenere che non cisia nulla di innovativo che la ricerca possaprospettare nell’interesse del bosco e quindidell’uomo, non me ne vogliano MARCELLO

MAZZUCCHI e gli altri A.A. dei sette articoli, cicorrono, appunto, anni luce.

Al momento però, come emerge dai settescritti in questione, gli amministratori forestalidel Nord Est rifiutano non solo l’applicazione– e fin qui nulla da dire, anche se in selvicoltura

è buona norma aprirsi sempre all’innovazionescientifica, come d’altra parte si addice quandosi ha a che fare con sistemi biologici complessi –ma anche la possibilità di analizzare gli assiomie le teorie della selvicoltura sistemica comeeventuale alternativa alle tante forme diselvicoltura che loro propongono con tono,come dire?, infervorato e convinto.

Essi ostentano la cosiddetta selvicolturanaturalistica come la panacea che consente dirisolvere tutti i problemi del settore forestale, enon si rendono conto che una tale posizione fatrasparire un fondo di assurdo conformismo. Essirifiutano la selvicoltura sistemica forse perché,per dirla con CLAUDE ALLÈGRE, infa stidisce nonpoco. Molto spesso ci si dimentica di cercare dicapire e operare secondo la logica della selva, cioèdel sistema biologico complesso bosco, peraddentrarsi invece in quella del tornaconto, cioèdel reddito finan ziario, che pure ha le sueragion d’essere, ma che in ogni caso, proprionell’interesse generale, dovrebbe soggiacerealla logica della selva, ovvero alla logica del dirittoalla funzionalità del sistema bosco.

Non ho mai dato un giudizio negativo, nétantomeno sprezzante, sulla cosiddetta selvi -coltura naturalistica. Ogni forma colturale è fi -glia del suo tempo. Bisogna conoscerne i conte-nuti e valutarne i postulati e le teorie che la sosten -gono e quindi procedere nella ricerca al finedi meglio comprendere quello splendido sistemabiologico che è il bosco. Da sempre ho riconosciutoche la suddetta forma colturale nella gestioneforestale ha prodotto significativi risultati. Aesempio, a partire dagli anni Cinquanta, nelNord Est ha determinato, e non è cosa di pococonto, l’aumento della provvigione dei boschiche era diminuita a limiti selvicolturalmenteinsostenibili a seguito delle disastrose utilizza -zioni del periodo bellico (MOSER, 1955a; 1955b;SUSMEL, 1955; SEMBIANTI, 1956; FERRARI, 1986).

Per quanto si riscontra in letteratura, con lacosiddetta selvicoltura naturalistica si intendonotutte le varie forme colturali sostenute da unassioma che dal periodo scolastico in poi nonè mai stato abbandonato: conseguire il massimoreddito fondiario alla sola inderogabilecondizione della continuità del bosco e quindidella produzione legnosa.

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Questo assioma, che è sempre presente – maspesso ipocritamente omesso dai sostenitoriitaliani e non della cosiddetta selvicolturanaturalistica – in tutte le dispute in camposelvicolturale, nel tempo ha provocato l’adozionedi una serie di accorgimenti tecnici, alle voltequalitativi, altre volte strumentali, volti aconseguire l’obiettivo predefinito, ovvero ilfine che da sempre ha caratterizzato e continuaa caratterizzare l’attività forestale: conseguire unprodotto annuo, massimo e costante. Ancorauna volta la storia si ripete. L’aforisma di GIU-SEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA rende bene l’idea:«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisognache tutto cambi».

15. IL TALLONE DI ACHILLE

DEL SETTORE FORESTALE

Le teorie innovative, proprio perché tali,esaminano da una visuale diversa i problemiforestali e tentano di dare un contributo di ordinescientifico che investe il processo di conoscenzae, di conseguenza, affrontano in modo nuovo epiù efficace ciò che ho ripetutamente denunziatosin dagli anni Settanta e che, visto come vannole cose in campo forestale, continuo a denunziare:l’incapacità dei forestali di comunicare con ilmondo esterno. Questo è quello che ritengo siastato e che continua a essere il tallone di Achilledel settore forestale.

Attualmente, occorre adoperarsi per affrontarele problematiche che riguardano: 1. la comunicazione in termini comprensibili dei

risultati scientifici acquisiti in quel mera -viglioso laboratorio che è il bosco;

2. la preparazione dei nuovi tecnici al fine di farloro acquisire le conoscenze necessarie perben operare in bosco, lasciando, almeno peruna parte del loro tempo, le ricerche alcomputer che pure sono importanti e in talunicasi decisive per lo sviluppo delle Scienzeforestali;

3. la partecipazione della società civile aiproblemi della qualità della vita, ai progettie alle scelte operative in modo che si possaprendere coscienza dell’importanza di unaselvicoltura consapevole, svolta nell’interesse

del bosco che, appunto perché tale, si river -bera nell’interesse dell’uomo qualecomponente del sistema;

4. avvalendosi dei risultati acquisiti con la ricerca,agire sulla politica forestale in modo da favoriree rendere efficace una reale, e sottolineo unareale, gestione forestale sostenibile;

5. il bosco è un bene di interesse pubblico epertanto deve essere coltivato facendo anchericorso agli strumenti di politica ambientalee forestale; ma poiché, come sostengo ormaida lungo tempo con un aforisma, la selvicolturaè una attività ad alti costi e bassi redditi, ènecessario prevedere un sistema di compen -sazione per gli Enti proprietari e, soprattutto,per i privati al fine di creare le premesse perla conservazione e la valorizzazione dellabiodiversità che, nel periodo della globa -lizzazione e della distruzione delle foresteprimigenie, certamente è una assoluta priorità;

6. promuovere le operazioni di miglioramentodel bosco e rendere accessibile ai privatiquanto avevo fatto inserire nel D.Lgs. 227del 2001, cioè il rimborso del 36% delle spesesostenute, come si fa per le abitazioni (CIANCIO,2001; CIANCIO e NOCENTINI, 2001).

16. I PREGIUDIZI IDEOLOGICI

E LA CULTURA DEL BOSCO

Da quanto sopra è evidente che almeno suiprimi punti c’è una visione comune conMARCELLO MAZZUCCHI. A parer mio, invece dirinchiudersi in se stessi come da sempre hannofatto i forestali, sarebbe opportuno tentare difar comprendere ai settori che si occupano diambiente, territorio, paesaggio, ecologia,fitogeografia, fitosociologia, zoologia,biodiversità (NOCENTINI, 2008) e quant’altro chel’attività selvicolturale non è indipendentedall’ecosistema come, consapevolmente o menopoco importa, si è operato finora, ma alcontrario è dipendente dall’ecosistema.

In questo concetto – indipendente e dipendentedall’ecosistema – c’è gran parte della differenzatra la cosiddetta selvicoltura naturalistica e laselvicoltura sistemica. Le separa un vero e propriofossato tra idee opposte sia sul piano scientifico

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e tecnico sia su quello etico e culturale. Se daogni operazione colturale in primis si ricerca unreddito, malgrado le tante dichiarazioni d’intenti,è necessario agire – lo sa bene chi opera in bosco –in modo da far tornare i conti dell’operazione.Di conseguenza, si guarda in modo parziale eriduttivo alla funzionalità dell’ecosistema o tutt’alpiù si cerca una via intermedia che, come diceun vecchio detto, possa salvare capra e cavoli.Ma ciò non solo non risolve il problema, anzi loaggrava. In tal modo spesso non si consegue unriscontro finanziariamente soddisfacente e, perdi più, l’operazione è e resta indipendente dall’eco -sistema.

Rendersi conto, come previsto dallaselvicoltura sistemica, di questo dato di fatto puòconsentire l’inizio di un processo di colla -borazione con gli altri settori scientifici inmodo da aprire le porte al giusto riconoscimentodella professionalità forestale.

Si può essere d’accordo o no, ma questa è lachiave di volta per aprire un dialogo con ilmondo esterno ed eliminare invasioni di campo.Altrimenti i forestali saranno sempre più messial margine delle proprie competenze esoprattutto delle foreste. E a nulla vale cheMARCELLO MAZZUCCHI si lamenti per «… larecente sentenza della Corte Costituzionale sullaseparazione delle competenze fra aspettiproduttivi e ambientali del bosco… ». Se ciòavviene di chi è la colpa? Non sarà che iforestali si sono attestati su posizioni tecnichenon ben comprese, e quindi istintivamenterifiutate, da chi si interessa al bosco come benecollettivo? Non sarà che i forestali sono rimastilegati a un passato più o meno recente nelmentre i cambiamenti sociali e l’arricchimentoconoscitivo in materia di ambiente avanzavanoe continuano ad avanzare a ritmi incredibilmenteveloci? Non crede MARCELLO MAZZUCCHI cheuna riflessione da parte di tutti i forestali suquesto decisivo punto sia doverosa oltre cheopportuna?

Una riflessione in grado di superare quelloche attualmente è un insuperabile steccato, chesempre si frappone nei dibattiti – anche tra quellipiù civili – sulla selvicoltura: il superamento deipregiudizi ideologici connessi all’ineluttabile eincontrastabile avanzamento della ricerca. Ciò

inevitabilmente condurrebbe ad acquisire quellache amo definire la cultura del bosco, senza laquale le teorie, anche quelle più avanzate, letecniche, anche quelle più eleganti, le pianificazioni,anche quelle con strutture teorico matematichetra le più sofisticate, resteranno solo e sempredelle buone intenzioni, con grave danno per laprofessionalità forestale e per la salvaguardiadel sistema biologico complesso bosco.

Non si tratta, quindi, come afferma con tonosprezzante MARCELLO MAZZUCCHI, di sterilidisquisizioni, ma di programmi di ricercaassolutamente innovativi, di metodo rigorosonell’insegnamento universitario, di supportoscientifico per far comprendere al mondopolitico l’importanza del bosco al fine disostenere adeguatamente i nuovi orientamentidella gestione forestale sostenibile. Non valerinserrarsi nella propria nicchia, per quantoimportante possa essere; non vale piangersiaddosso; non vale fare discussioni superficialio inappropriate; non vale parlarsi all’internodella ristretta cerchia forestale. Occorre uscireallo scoperto, avere il coraggio di vagliare e diaccettare le innovazioni scientifiche. Ovvero,bisogna cercare di essere sempre all’avanguardia,guardando avanti e non indietro come parefacciano alcuni, per fortuna solo alcuni, forestali.

Occorre discutere e, se necessario, confrontarsicon gli altri settori scientifici che si occupanodi bosco e dialogare con quella parte dellasocietà civile che considera il bosco una entitàsenza la quale sarebbe difficile se non impossibilela vita sul nostro pianeta. Ciò vuol direimpegnarsi su tutti i piani, da quello scientificoa quello tecnico, a quello politico e, non ultimoper importanza, a quello culturale. Ma questo,lo dico a chiare note, non riguarda MARCELLO

MAZZUCCHI: lo stimo molto per il suo impegnosu alcuni di questi decisivi punti.

17. IL DAUERWALD e LA SELVICOLTURA

CONFORME ALLA NATURA

Un eretico forestale, ALFRED MÖLLER (1922)– del quale oggi in Italia si sente parlare comeassertore di una forma di selvicoltura con af-fermazioni spesso improprie ed erronee – con-

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testava il principio agronomico o produttivo edel reddito finanziario cui sottostava la scien-za selvicolturale tedesca dell’epoca. Da quil’enunciazione della selvicoltura conforme allanatura. La selvicoltura deve condurre all’otte-nimento di boschi sani, stabili, capaci di auto-mantenere la continuità del sistema nel tempoe nello spazio. E tuttavia, malgrado i suoi sfor-zi, checché ne pensi lo stimato interlocutoreALESSANDRO WOLYNSKI (2009), il principio delrealismo economico ha continuato e continua asostenere la cosiddetta selvicoltura naturalisti-ca e quella con le diverse locuzioni prima ri-portate. Ovviamente dal 1922 a oggi molte cosesono cambiate, ma non tanto da configurare as-siomi e teorie alternative al suddetto principioin grado di supportare adeguatamente taleforma colturale.

Invece di criticare in modo «caricaturale» oper lo meno con «una forzatura» le affermazioni«erronee» inerenti non solo alla cosiddettaselvicoltura naturalistica ma anche, e soprattutto,alla selvicoltura sistemica, ALESSANDRO WO-LYNSKI, prima di imbarcarsi in un mare pro-celloso com’è quello in cui si è accinto a entrare,dovrebbe consultare meglio la letteratura te-desca, francese e, soprattutto, quella italiana chesullo spinoso argomento ha dato contributi dialto valore scientifico e tecnico. Appunto, do-vrebbe analizzare più attentamente la letteraturadella quale egli con giusto orgoglio fa sfoggionei suoi scritti.

Scritti, a esempio, quelli di Pro Silva Italia(PRO SILVA, 1993; WOLYNSKI, 2002a; 2002b) eProSilva Europe (DE TURCKHEIM, 1993; 1996a;1996b; 2009; SCHÜTZ, 1999; 2008a; 2008b) cheleggo con attenzione perché trattano argo-menti e propongono spunti di riflessione inte-ressanti.

Per restare nel tema, quando egli scrive diMÖLLER fa riferimento al «… riconoscimentodella relazione tra il mantenimento della co-pertura permanente del suolo, il miglioramen-to delle condizioni edafiche e il miglioramen-to delle condizioni ecologiche di sviluppo deipopolamenti forestali, esemplificati dalla ge-stione delle foreste di pino silvestre su suoli sab-biosi di Bärentoren in Sassonia, presa in gestione[il corsivo è mio] da Möller nel 1920 …». Da

questa affermazione è evidente che egli o nonè risalito alla fonte o ha letto in modo superfi-ciale l’opera di MÖLLER.

Chi tratta argomenti spinosi come quello inessere deve sforzarsi di essere chiaro, puntua-le e preciso. Nello specifico, ALESSANDRO WO-LYNSKI dovrebbe sapere che il padrone e gestoredel bosco di Bärentoren, al quale fa riferimen-to ALFRED MÖLLER, era il Kammerherr – Ciam-bellano – FRIEDRICH von KALITSCH che «… nel1884 successe alla proprietà paterna, alla qua-le appartenevano 1650 acri di foresta, 1250 deiquali erano popolamenti di pino silvestre conmeno di 40 anni, e solo 165 acri con più di 60anni» (KÖSTLER, 1956). La tecnica del taglio rasoadottata fino ad allora a Bärentoren dal puntodi vista finanziario era inadeguata; l’utilizzazionedella lettiera era un problema serio.

FRIEDRICH von KALITSCH trovò una effica-ce soluzione alle difficoltà: dopo l’interruzionedell’utilizzazione della lettiera e del taglio raso,i residui delle utilizzazioni vennero lasciati inbosco. Nei soprassuoli trattati in maniera ec-cellente, ma diradati fortemente si insediòun’abbondante rinnovazione naturale (KÖ-STLER, 1956).

Di più e meglio: il MÖLLER venne a cono-scenza del bosco di pino silvestre di Bärento-ren e di come in esso si svolgeva la coltivazio-ne a seguito di un colloquio con un suo allie-vo, il nipote di von KALITSCH, che ascoltandole lezioni del promotore del bosco permanen-te comprese che la gestione effettuata dallo zionelle pinete di Bärentoren aveva una certa cor-rispondenza con la teoria del Dauerwald.MÖLLER, informato di ciò, andò a trovareFRIEDRICH von KALITSCH e dopo un attento esa-me delle operazioni che venivano eseguite el’analisi dei dati incrementali si convinse di unasostanziale corrispondenza con la teoria del Da-uerwald.

17.1. Il bosco organismo, i razionalistiDENGLER e WIEDEMANN

e i grandi Maestri del XX secolo

Occorre dire che MÖLLER, morto non moltodopo la sua pubblicazione del 1922, non potéguidare il movimento del Dauerwald. In quel

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gravoso compito fu sostituito da WIEBECKE, vonKEUDELL, HAUSENDORFF, KRUTZSCH, ORTEGEL,FRÜCHTENICHT e altri. Contro il movimento chestava avanzando si schierarono alcuni elemen-ti moderati, specialmente DENGLER e WIEDE-MANN (KÖSTLER, 1956).

DENGLER, dell’elaborazione teorica di MÖL-LER, contestava, tra l’altro, il concetto di orga-nismo, al quale contrapponeva quello di bioce-nosi. Egli sosteneva che l’organismo vive emuore, mentre la biocenosi è una entità viven-te, costituita da un incalcolabile numero di in-dividui ciascuno dei quali ha un proprio ruolo.Questi possono morire individualmente o ingruppi, ma la biocenosi continua a vivere inde-finitamente.

Il concetto di organismo, secondo il razio-nalista DENGLER, era quantomeno inappro-priato da accomunare al bosco e inadatto e in-congruente da associare alla tecnica selvicol-turale. In tal senso con lui concorda KÖSTLER

(1950; 1956) quando afferma che la foresta èuna comunità vivente naturale governata da cer-te leggi che non devono essere violate. E ancora:«nella foresta commerciale bisogna tendere ver-so quelle condizioni di armonia con la natura,cioè condizioni sane, che meglio corrispondo-no alle leggi ecologiche e biologiche che go-vernano la foresta. Nel costituire l’unità fore-stale questa enfasi non è superflua, poiché nelpassato e anche nel presente si sono verificatio ancora esistono gaps fra gli obiettivi econo-mici fissati e il concetto della foresta in armo-nia con la natura».

Foresta commerciale, dunque. Ecco unaesemplare espressione che rende bene l’idea,usata da un Maestro universalmente riconosciutocome JOSEF NICOLAUS KÖSTLER. Idea che si ma-terializza nell’assioma che governa la cosiddettaselvicoltura naturalistica: obiettivi economici eforesta in armonia con la natura.

In merito alla gestione della foresta di Bä-rentoren KÖSTLER (1956) annota: «SecondoWiedemann la produttività nei 50 anni dal 1884al 1934 è aumentata di mezza classe di pro-duttività; l’aumento nell’incremento dal 1913 al1934 varia entro i limiti di errore della tavola diproduzione di Schwappach del 1908 per il pino.Come era da aspettarsi, non è possibile scoprire

alcun guadagno nella produzione di volume. Dalpunto di vista selvicolturale, tuttavia, Wiede-mann dà pieno credito al miglioramento dellaforma dei fusti e all’effetto della cura delle chio-me, allo sviluppo soddisfacente della flora delterreno e l’uso ammirevole fatto della capacitàdi rinnovazione. Con le indagini statistiche diWiedemann le esagerazioni in favore del boscopermanente [il corsivo inserito è mio] indub-biamente sono state riportate nella giusta pro-spettiva».

A seguito delle accese polemiche scaturitedopo la pubblicazione del 1922 di ALFRED MÖL-LER, la foresta di Bärentoren divenne ben pre-sto un luogo di visite sia da parte di quelli chesostenevano il Dauerwald sia da parte di quel-li che lo contestavano.

Ho sempre sostenuto che tra i Maestriforestali del XX secolo – tra i quali per intuizionie realizzazioni sperimentali spiccano HENRY

BIOLLEY e ALDO PAVARI – MÖLLER, a parer mio,per l’elaborazione concettuale del Dauerwald èstato certamente il più eminente. Dello stessoavviso è KÖSTLER (1956) quando afferma che ilpiù grande merito di MÖLLER è quello di averportato i concetti base di GAYER anche nelle pi-nete della Germania settentrionale. Dove si trat-ta di una selvicoltura regolata biologicamentee dove la normalizzazione è guardata male, al-lora lì MÖLLER sarà tenuto in grande stima. Eglisi è assicurato un posto d’onore in quel movi-mento che KARL GAYER introdusse con il suodesiderio: «Volesse (il cielo) che in qualche tem-po futuro i nostri boschi debbano registrare unperiodo di retrocessione dall’artificiale allaloro forma naturale».

A proposito delle intuizioni di MÖLLER e del-la conseguente teoria del bosco permanente c’èda segnalare un fatto a dir poco sorprendente.PATRONE (1979), convinto fautore del bosco coe-taneo e della normalizzazione, afferma: «Ma, seil concetto di bosco disetaneo si allarga, se escedal ristretto significato di struttura e di tratta-mento della omonima fustaia e assume una di-mensione più ampia per identificarsi in un par-ticolare modo, in un singolare spirito generale,con cui i problemi caso per caso, vanno af-frontati ed eventualmente risolti, allora, il bo-sco da dirado può divenire, diviene, una real-

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12 Attenzione alle citazioni. GURNAUD e non GOUR-NAUD come indicato dall’Autore dell’articolo. Si fa no-tare solo a fini didattici, ovvero a uso degli studenti.

è uguale o almeno similare e, se sì, se è assi-milabile a quella di WOLYNSKI; se quella di WO-LYNSKI corrisponde a quella di MARCELLO

MAZZUCCHI, GIAN BATTISTA SANGALLI e GIO-VANNI HIPPOLITI ecc.

A scuola si apprende che invertendo l’ordinedei fattori il prodotto non cambia, qui invececambia e in modo sostanziale. Se poi alla co-siddetta selvicoltura naturalistica si aggiungo-no tutte le altre forme selvicolturali a essa assi-milabili, che evidentemente in quanto tali do-vrebbero distinguersi l’una dall’altra, alloranon basterebbe l’intero saggio per elencarle edescriverne i contenuti.

Tutto ciò la dice lunga sulla cosiddetta selvi-coltura naturalistica. Di questo passo si potrebbeandare all’infinito. In breve, ogni forestale intendela cosiddetta selvicoltura naturalistica a modosuo. Come afferma con una brillante metaforaFABIO CLAUSER (1996) occorre eliminare «…ambiguità, incertezze e contraddizioni chefrequentemente fanno della selvicolturanaturalistica quel che in Toscana si dice unatrippa di gatto: la quale sembra abbia la proprietàdi potere essere tirata da tutte le parti senza mairompersi».

Ma se così è, se concettualmente si riscontranodifferenze in alcuni casi abissali – struttura sì,struttura no; taglio raso sì, taglio raso no; spe-cie esotiche sì, specie esotiche no; «bosco nor-male» sì, «bosco normale» no, e così via – altroche Vangelo della selvicoltura naturalistica delNord Est! Qui, se mi è permesso di usare unaréclame per lungo tempo adottata dalla RAI, c’è«di tutto, di più». Mi domando e domando: lacosiddetta selvicoltura naturalistica è una astra-zione o una realtà? E se è una realtà qual è quel-la autentica? Domando ancora una volta: si trat-ta di scienza, di tecnica o di altro?

19. I BOSCHI DISETANEI E LA NORMA

In merito poi ai boschi disetanei, mi doman-do se lo stimato ALESSANDRO WOLYNSKI abbiapreso in seria considerazione l’importanza del-la norma teorizzata dalla scuola francese. O seritenga, così come par di capire dal suo scritto,che essa abbia avuto e abbia scarsa rilevanzascientifica, tecnica e pratico operativa.

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tà. In questa visione, adombrata da Alfred Mo-eller, la fustaia da dirado non si identifica in unfatto casuale, bensì con una dottrina filosofica,con una teoria universale».

Qualora ALESSANDRO WOLYNSKI volesse ri-leggere l’opera di MÖLLER e anche quella diHANS LEMMEL (1939), professore all’Accade-mia Forestale di Eberswalde, che approfondi-sce e chiarisce puntualmente l’idea di Dauer-wald, sono disposto a inviargli fotocopia dei duepiccoli volumi che ormai, almeno in Italia, sonoquasi introvabili. Ma certamente non ce n’è bi-sogno: egli li ha già letti e del bosco permanen-te sa tutto.

Per restare au-dessus de la mêlée, come si con-viene in questi casi, bisogna però precisare chevon KALITSCH rimproverava a MÖLLER la trop-pa enfasi che egli metteva nel generalizzare il Da-uerwald. Se mi è concessa una parentesi, anch’iosono convinto che un uguale benevolo, ami-chevole richiamo bisognerebbe farlo ai soste-nitori della cosiddetta selvicoltura naturalisti-ca e forme colturali affini.

L’enfasi non fa parte della scienza. Nella scien-za domina la ragione e, per dirla con BLAISE PA-SCAL, in essa non trovano posto le ragioni delcuore. Sostenere tesi sulla base di personaliorientamenti non aiuta a migliorare la com-prensibilità della tesi sostenuta, anzi finisce conil danneggiare quanto di buono vi è in essa.

18. LA COSIDDETTA SELVICOLTURA

NATURALISTICA E LA METAFORA

DELLA «TRIPPA DI GATTO»

Mi piacerebbe sapere, al di là dei soliti stuc-chevoli convenevoli di apprezzamento e ap-provazione che fra di loro si rivolgono i variA.A. che trattano l’argomento, se la cosiddet-ta selvicoltura naturalistica illustrata da MAR-CO PACI (200412; 2009) è conciliabile con la con-cezione che di questa ha WOLYNSKI; se quellaindicata da due forestali friulani, come dire?D.O.C., PIETRO PIUSSI e PIETRO LUIGI BORTOLI

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cruccio è una ulteriore dimostrazione di quan-to i forestali francesi, perfino quelli del calibroscientifico e culturale di JEAN PARDÉ, fosseroconvinti dell’utilità della normalizzazione dei bo-schi misti e disetanei.

Per tornare a casa nostra, invito lo stimatoALESSANDRO WOLYNSKI, se ancora non l’ha fat-to, ma sono certo di sì, a leggere o meglio a ri-leggere i lavori prima citati. Basterebbe questoper chiudere qui la discussione sulla adozioneo no della norma nella cosiddetta selvicoltura na-turalistica.

Per quanto riguarda poi la teoria del «bosconormale» sempre incombente in campo forestaledue sono le cose da dire. La prima, checché nedica ALESSANDRO WOLYNSKI, nella letteraturaitaliana ed europea è una costante sia per i bo-schi coetanei sia per i boschi disetanei. La se-conda, la si riscontra costantemente nei piani diassestamento e nelle connesse normative (HEL-LRIGL e DEL FAVERO, 1988; 1990) elaborate daipiù alti esponenti che dalla Scuola forestale diVallombrosa in poi hanno caratterizzato lascienza italiana dell’Assestamento forestale.

Ma questa letteratura forse a WOLYNSKI noninteressa o perché l’ha già letta o perché è piùportato a conoscere quella svizzera, francese, te-desca ecc. E io viceversa da sempre continuo adire e a insistere: va bene, anzi benissimo, leg-gere la letteratura straniera – anche se poi nelcitarla non dovrebbero verificarsi gli errori comenel caso di MÖLLER a proposito del Dauerwald –ma forse, poiché siamo in Italia, sarebbe utilee opportuno stare attenti e dare il giusto pesoanche a quella del nostro Paese. Sulla quale sipuò essere d’accordo o no, ma della quale cre-do si possa andare orgogliosi principalmente per-ché può vantare ricerche innovative e assolu-tamente originali che nulla hanno da invidiarea quelle straniere.

Così a esempio: nel mondo scientifico forestaleALDO PAVARI per lungo tempo è stato conside-rato a livello mondiale uno dei più importantie significativi ricercatori forestali. GENEROSO PA-TRONE in Francia era considerato, per dirla conJEAN PARDÉ un Patron, ovvero un Maestro, cheaveva sviluppato teorie e metodi di alto valorescientifico. In Germania, la Scuola di Assesta-mento di Firenze la definivano «Scuola Patro-

13 Attenzione alle citazioni. ADOLPHE e non ALPHONSEcome scrive WOLYNSKI (1998): lo riporto a solo uso deglistudenti che leggono più di quanto comunemente si creda.

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Le indagini di FRANÇOIS DE LIOCOURT

(1898), gli studi di SCHAEFFER, GAZIN e D’AL-VERNY (1930) nelle abetine, quelli di SCHAEF-FER (1931) sui metodi di calcolo della ripresadelle fustaie disetanee e, più in generale, quel-li di HUFFEL (1926), a mio avviso furono de-terminanti per riconsiderare dal punto di vistadella produzione legnosa la fustaia disetanea eil trattamento a taglio saltuario – jardinage cul-tural. Questi scritti che teorizzano la norma sonostudi, ricerche scientifiche o semplici divertis-sement? Voglio ricordare solo che l’opera diHUFFEL ha rappresentato, e per alcuni aspet-ti lo è ancora, un punto di riferimento per laScuola francese e non solo.

ALESSANDRO WOLYNSKI, peraltro, certamen-te sa come e con quale determinazione e conquali argomentazioni scientifiche HENRY BIOL-LEY (1916; 1920; 1922; 1924; 1926), amico diADOLPHE13 GURNAUD e assertore coerente e in-transigente del metodo del controllo, si scagliòcontro l’«eresia delle curve», cioè contro colo-ro, i cosiddetti razionalisti, che nei boschi mi-sti e disetanei teorizzavano la norma sia in Fran-cia sia in Italia. Di questi ultimi si indica l’am-pia letteratura (PAVARI, 1914a; 1914b; 1915a;1915b; 1916; 1925; 1927; 1929; 1932; 1937;1938; 1941-42; 1948; DA RIOS, 1922; DI TEL-LA, 1924; 1931; 1934; PATRONE, 1944; 1970;1972; 1975; 1979; 1980; SUSMEL, 1951 e seg.;CRISTOFOLINI, 1959).

E ciò a conferma, se ancora ve ne fosse biso-gno, di quanto la Scuola francese sostenesse lavalidità scientifica e l’utilità tecnica e pratica ope-rativa della norma per il trattamento dei boschimisti e disetanei e, al tempo stesso, di come av-versasse il metodo del controllo di GURNAUD eBIOLLEY, studiosi che a parere di ALESSANDRO

WOLYNSKI e non solo, sono fra i primi promo-tori della selvicoltura naturalistica.

Nel recente passato, JEAN PARDÉ (1991) nonsi spiegava come mai GURNAUD fosse il forestalefrancese più conosciuto all’estero. Questo suo

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nenka». LUCIO SUSMEL ha teorizzato e promossouna linea di ricerca che ha permesso di coniu-gare in modo assolutamente originale l’ecolo-gia con la selvicoltura. EZIO MAGINI (1967;1973) ha ampliato le conoscenze sul migliora-mento genetico e sui fattori che influenzano larinnovazione naturale. Altri si potrebbero citare,ma mi fermo qui, cioè a coloro che nel passa-to maggiormente hanno promosso il progressodelle Scienze forestali.

20. LA «SELVICOLTURA D’ALBERO» E LA

COSIDDETTA SELVICOLTURA NATURALISTICA

In merito poi alla cosiddetta «selvicoltura d’al-bero» illustrata da ALESSANDRO WOLYNSKI è in-tervenuta in modo appropriato SUSANNA NO-CENTINI (2009). A tal proposito, mi chiedo echiedo: si tratta di un approccio naturalistico?Oppure, come impropriamente afferma qual-cuno, si può considerare il bosco un organismo,così come definito da MÖLLER? O, invero, sipensa al bosco in modo diverso? E, se sì,come? Credo che tutti i forestali su questo ar-gomento dovrebbero essere informati. Perquanto mi riguarda mi metto in fila e attendodi venirne a conoscenza.

E ancora, la «selvicoltura d’albero» si può de-finire selvicoltura conforme alla natura? O,bensì, come spesso ripete l’apprezzato interlo-cutore, una volta vicina alla natura, un’altra vol-ta prossima alla natura, un’altra ancora secon-do un approccio naturalistico? Mi chiedo e chie-do: quali di queste espressioni si addice alla «sel-vicoltura d’albero»? O forse, par di capire, que-ste perifrasi si debbono considerare corri-spondenti all’altra espressione, selvicoltura na-turalistica?

Ma se così è, allora perché non definirla contale aggettivo senza altre perifrasi? Insomma, chipiù ne ha, più ne metta: un nuovo metodo, cer-tamente incontestabile, per fare chiarezza! Im-magino i giovani, studenti e tecnici, che leggo-no e valutano. Per usare un eufemismo, scon-certante, ma vero!

Si faccia pure la «selvicoltura d’albero», cheperaltro in termini linguistici si può assimilarea un anacoluto. Chi la fa, evidentemente ha buo-ne ragioni di tornaconto finanziario per farla. Ma

a condizione di non farla passare per selvicol-tura conforme o vicina o prossima alla natura oad approccio naturalistico o a indirizzo naturali-stico o con altre espressioni perché in tal casotali locuzioni contrasterebbero con la scienza,la tecnica, l’etica e, soprattutto, con la logica.

Non ho nulla contro la «selvicoltura d’albe-ro», così come non contesto il bosco coetaneoche invero ha molti motivi per essere coltivatosecondo tecniche ormai codificate e, a maggiorragione, certamente non ho niente contro i bo-schi misti e disetanei e, soprattutto, contro i co-siddetti boschi irregolari – ecco un punto di con-divisione con ALESSANDRO WOLYNSKI.

In breve, pur con termini diversi si arriva aiboschi astrutturati, cioè a entità biologiche co-stituite da un insieme di elementi altamente com-plesso che al momento non è decrittabile e de-finibile e, appunto perciò, è scientificamente im-proponibile con espressioni del tipo: coetanei-forme, disetaneiforme, irregolare. Una analogia?Chissà, forse per WOLYNSKI, certamente non pergli altri A.A. dei sette articoli.

Boschi astrutturati, una locuzione che haimpressionato, tanto da farlo sussultare, qual-che ecologo (ANFODILLO, 2009) che quanto-meno ha il buon senso di non dichiararsi sel-vicoltore e, appunto perciò, merita stima e ri-spetto per manifesta onestà intellettuale. Nonmi schiero a favore o contro questa o quella for-ma colturale, come in modo pregiudiziale e im-proprio, appunto perciò, scientificamente inac-cettabile, fanno con la selvicoltura sistemicaMARCELLO MAZZUCCHI, ALESSANDRO WOLYN-SKI e gli altri A.A. dei sette articoli.

D’altra parte, si sa, c’è una realtà incontesta-bile che da sempre vale nella scienza: gli asser-tori di teorie superate spesso amano infierire sulnuovo emergente perché come sostiene CLAU-DE ALLÈGRE (1995) «Ogni idea nuova disturba:essa viene dunque naturalmente combattuta, etanto più quanto più è originale».

Oltre a quello relativo alla struttura dei boschi,su due altri punti potrei concordare con lo sti-mato interlocutore ALESSANDRO WOLYNSKI. Ilprimo riguarda il fine che si propone la selvi-coltura sistemica che invero è completamentediverso dal fine che si propone la cosiddetta sel-vicoltura naturalistica. Ed è proprio il fine tra

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le due forme colturali che fa la differenza. Ba-sterebbe ciò per giustificare la validità della sel-vicoltura sistemica. Il secondo punto concerneil fatto che tutte le forme colturali sono il ri-sultato di esperienze e, pertanto, hanno un lorodiritto di rappresentanza. A una condizione in-derogabile con la quale, però, non so quanto siad’accordo ALESSANDRO WOLYNSKI: ovvero,purché non si pretenda di procedere a impro-babili generalizzazioni o inammissibili oggetti-vazioni e di ciascuna di esse si chiariscano i pre-supposti, gli obiettivi, le finalità e le conseguenzesul sistema biologico bosco.

21. L’IMPRINTING E IL PRINCIPIO AGRONOMICO

O PRODUTTIVO IN SELVICOLTURA

È elementare, lapalissiano: tutti parlano di eco-sistema, tutti concordano sulla necessità disalvaguardare la funzionalità del sistema, sen-za però preoccuparsi delle interazioni connes-se tra i molteplici componenti del sistema, tran-ne poi nella realtà – negli scritti ciò è ipocrita-mente ma brillantemente mascherato – disco-noscerne il profondo significato. C’è da chiedersidove e come sia maturata una tale contraddi-zione. Anche in questo caso la risposta è sem-plice: 1) l’imprinting acquisito nel corso deglistudi universitari; 2) l’assuefazione acritica al giànoto; 3) la sicurezza che operando in tal modonon si incorre in errore; 4) la certezza che nes-suno oserà mai contraddire quanto scritto nei«sacri testi».

Un atteggiamento, che se può essere accettatoda chi opera in bosco nella quotidianità, non èaccettabile da chi, dello studio, della ricerca in-novativa ha fatto e continua a fare il motivo fon-damentale del suo lavoro e, fuor di metafora, del-la propria vita. Chi con l’impegno scientifico ten-de a sviluppare ciò che resta da svelare ne rimaneavvinto, e per dirla con LEIBUNDGUT, non perun senso di romanticismo, ma per un puro de-siderio del sapere. E, invero, conosco e seguo,anche se ormai da lontano, molti giovani docentie ricercatori impegnati in tal senso. Ciò mi fa bensperare per l’affermazione della professionali-tà forestale e per il progresso della scienza sel-vicolturale e assestamentale.

La cosiddetta selvicoltura naturalistica o la sel-

vicoltura con le più diverse perifrasi sono for-me colturali con un univoco principio assio-matico dal quale derivano varie teorie: la mas-simizzazione della produzione legnosa, l’ado-zione del turno finanziario o di quello fisiocraticoper i boschi coetanei, il diametro di recidibili-tà per quelli disetanei e la normalizzazionedella composizione floristica, della densità,della struttura, della provvigione, dell’incre-mento ecc. Quanto poi ci sia di naturale nel nor-malizzare il bosco lo lascio come quesito ai so-stenitori di tale forma selvicolturale e gestionale.Anche se, a onor del vero, fra i dieci A.A. soloALESSANDRO WOLYNSKI su questo precipuopunto – la normalizzazione –, pur se al momentoa dire il vero con scarsa fortuna, cerca di sgan-ciare la selvicoltura vicina o prossima alla natura.

Di più: ma non si era detto e scritto che il «bo-sco normale» è uno stato ideale, utopico (CIAN-CIO et al., 1994; 1995; COLPI e HELLRIGL,2008) e, appunto perciò, irraggiungibile, cioèuna vera e propria astrazione? Se così è, comesi può connettere una tale astrazione alla real-tà? Per dirla con HEINRICH MAYR (1909) e FA-BIO CLAUSER (1996) quali sono le leggi di naturache si avvicinano a una tale astrazione? La ri-sposta anche in questo caso è semplice: basta for-zare oltremisura il sistema biologico bosco al soloscopo di ottenere un prodotto annuo, massimoe costante. Con buona pace della selvicoltura sul-la base delle leggi di natura di HEINRICH MAYR

e di FABIO CLAUSER! Dunque è assiomatico, la cosiddetta selvicol-

tura naturalistica e tutte le altre forme variamentedefinite che a questa fanno più o meno riferi-mento non sono niente di più e niente di menoche l’espressione tecnica del principio agrono-mico o produttivo che, volenti o nolenti, è di-rettamente o indirettamente collegato alla nor-malizzazione. Un principio denunciato da MÖL-LER (1922) il quale sosteneva che la selvicoltu-ra era stata ed era considerata la sorella mino-re dell’agricoltura. Egli così si esprimeva: «L’agri-coltura è di gran lunga la sorella maggiore, unnumero infinitamente maggiore di teste e di manisono state, stanno e staranno al suo servizio.Quindi non c’è da meravigliarsi se la selvicoltura,consciamente o inconsciamente, è stata tenutaa battesimo da concezioni e norme agricole».

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Dopo quasi novanta anni dal saggio di ALFRED

MÖLLER credo sia venuto il momento di cam-biare, c’è un assoluto bisogno di adeguarsi aitempi, con progetti innovativi condivisi. Tuttii forestali devono impegnarsi, ma forse a tal uopola speranza risiede nei giovani!

22. CONCLUSIONI

La selvicoltura e l’assestamento forestale in-vestono diversi campi: quello del pensiero, quel-lo scientifico e tecnico, quello economico e so-ciale e, non ultimo per importanza, quello eti-co. Al forestale si richiede quindi di possederein un insieme inscindibile quello che BLAISE PA-SCAL definiva l’esprit de géométrie e l’esprit definesse, perché solo dalla compenetrazione traintuizione, tangibili dimostrazioni e deduzionispeculative, è possibile intravedere le variesfaccettature del complesso problema che è chia-mato a risolvere.

Questo potrebbe e dovrebbe essere lo spiri-to, l’essenza della selvicoltura, che non può e nondeve basarsi solo sul criterio di una settoriale elimitante valutazione delle forme colturali, ma,al contrario, su una visione più ampia, di oriz-zonti più vasti, libera e non asservita a sche-matismi e semplificazioni, validi al più solo perscopi didattici, in cui possano saldarsi per co-stituire un unico insieme il pensiero e la scien-za, l’arte e la tecnica, l’etico e il naturale, l’eco-nomico e il sociale.

Prima di chiudere questo saggio desiderosottolineare che sono consapevole di quanto siadifficile per un forestale, che della cosiddettaselvicoltura naturalistica ha fatto il suo credo,accettare e condividere il progetto culturaleconnesso alla teoria della selvicoltura sistemica.

Un tale passaggio, che indubbiamente implicaun sostanziale diverso modo di guardare albosco, presenta un certo grado di difficoltà. Unaidea questa che in campo forestale pone indiscussione il modo stesso di fare scienza. Daun lato si mettono in luce i caratteri di fram -mentarietà e variamente diversificati dellacosiddetta selvicoltura naturalistica e si va, inmodo confuso, alla ricerca del reddito finanziarioe dell’utopico, irraggiungibile, «bosco normale».Dall’altro si contesta con una politica elitaria e

senza alcuna valutazione scientifica la selvicolturasistemica.

La considerazione di fondo è che viviamo unperiodo di transizione. E, come sempre accadein simili casi, i contrasti si fanno più evidenti,soprattutto in un mondo come quello forestaledove, come è già stato posto in evidenza, ciòche è codificato nei «sacri testi» ha un pesodecisivo a livello tecnico e soprattutto ammi -nistrativo e dove la dimensione del tempo edello spazio del sistema biologico bosco incidein modo significativo. Ma tutto ciò è positivo:l’avan zamento scientifico e tecnologico oltreche tecnico si realizza attraverso il confrontodi idee.

Si può spezzare una lancia in favore della co-siddetta selvicoltura naturalistica, non in quan-to disciplina scientifica, bensì in appoggio al suocarattere tecnico. Al contrario, la selvicoltura si-stemica ha in sé un carattere esplorativo, con-getturale e, per così dire, sperimentale delle ela-borazioni teoriche volte alla incessante ricercadell’ottimizzazione della funzionalità del siste-ma biologico complesso bosco, basti pensare almetodo scientifico «prova ed eliminazione de-gli errori».

Nella pratica operativa ciò significa un con-tinuo monitoraggio e la consapevolezza che ogniintervento è la conseguenza di quello precedentee il presupposto di quello successivo. Ma men-tre la cosiddetta selvicoltura naturalistica ricercacostantemente un tornaconto a ogni interven-to, viceversa la selvicoltura sistemica si pone ilfine di salvaguardare la funzionalità del sistema.In breve, si opera in favore del bosco, ovverodi una entità vivente che ha valore in sé.

La teoria della selvicoltura sistemica si basasu un insieme concatenato di postulati e prin-cìpi formulato allo scopo di spiegare i fenomeninaturali. Nella tecnica e nella pratica operativaessa non propone alcun trattamento se non in-terventi da effettuarsi su singoli popolamenti perassecondarne le necessità, ovvero interventi conla finalità dichiarata di perseguire la vita illimitatanel tempo e nello spazio del sistema biologicocomplesso bosco e di non intaccare i suoi «di-ritti». In tal modo, la selvicoltura sistemica è unprogramma scientifico e un manifesto cultura-le creativo e propositivo.

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Certo, la selvicoltura sistemica è una teoria e,quindi, è falsificabile, come ogni altra teoriascientifica. Ma viene da chiedere: è solo un purocaso che tutti facciano riferimento all’ecosiste-ma per poi intervenire con la cosiddetta selvi-coltura naturalistica o forme colturali affini mo-dificando in modo più o meno rilevante le in-terazioni fra i vari componenti del sistema al finedi ottenere il più alto rendimento finanziariopossibile? È davvero priva di fondamentol’idea che il taglio saltuario per pedali con la cor-rispettiva norma e i tagli successivi più o menouniformi siano trattamenti assolutamente con-trari a ciò che avviene in natura? È campata inaria la concezione che la «selvicoltura d’albero»non è né «conforme alla natura» né «vicina allanatura» ed è quantomeno una forzatura parla-re di «approccio naturalistico»?

Questo modus operandi è dovuto all’imprin-ting, all’apprendimento acquisito precoce-mente nelle Scuole forestali, che è penetrato pro-fondamente nella mentalità dei selvicoltori edecologi forestali e tuttora è la posizione di mol-ti ricercatori che, consapevolmente o meno pocoimporta, basano il loro operare su un realismoeconomico dogmatico, senza rendersi contoche, come recita un mio aforisma, «L’ordine ra-zionale del bosco, cui tende la selvicoltura clas-sica, raffigura il massimo del disordine naturale».Sembra quasi che tuttora si continui a pensarecome FRANCIS BACON che nel 1620, nel NovumOrganum Scientiarum scriveva che la natura èuna donna pubblica; noi dobbiamo domarla, pe-netrarne i segreti e incatenarla secondo i nostridesideri.

Secondo gli A.A. dei sette articoli in questione,la selvicoltura sistemica non si può condivide-re o perché è fuori dalla realtà o perché non sidifferenzia nel trattamento dalla cosiddettaselvicoltura naturalistica. Se mi è concessa unadomanda, dagli stimati interlocutori desidere-rei conoscere cosa significano alcuni degliaspetti che caratterizzano la selvicoltura siste-mica. Così, a esempio, cosa significano le tre Cdella selvicoltura: interventi Cauti, Continui eCapillari? Cosa significano i tagli modulari coni parametri della provvigione minimale? Cosa

significa il fine dell’intervento selvicolturalequando si afferma che esso riguarda l’interes-se del bosco e quindi dell’uomo? Cosa signifi-ca rispettare i «diritti del bosco»? Cosa signi-fica operare con interventi dipendenti dal-l’ecosistema che a lungo andare sono anche al-tamente economici? E si potrebbe continuareancora a lungo.

Per farsi comprendere anche da coloro che almomento giudicano la teoria della selvicoltura si-stemica in modo pregiudiziale e ideologico forsebisognerebbe parlare di economia della natura,affinché possano rendersi conto che il sonnam-bulismo non paga. In sintesi, occorre «parlare conil bosco e operare di conseguenza». Nella con-vinzione che se si agisce in favore del bosco si faanche, e soprattutto, l’interesse dell’uomo.

Se questo saggio ha fatto riflettere anche unsolo forestale, esso ha raggiunto lo scopo che siera prefisso. Se poi i sostenitori della cosiddettaselvicoltura naturalistica pensano di esaminarela problematica collegialmente – insieme o no,poco importa, ai sostenitori della selvicoltura si-stemica – al fine di formalizzarla in modo og-gettivo, l’Accademia Italiana di Scienze Fore-stali dà la propria disponibilità a organizzare aFirenze uno o, se necessario, più incontri perdare ai docenti, ai ricercatori, ai tecnici, agli ope-ratori, agli amministratori, alla classe politica e,soprattutto, agli studenti risposte scientifica-mente coerenti e chiare.

Con questo intendimento faccio mio quan-to scritto dal grande Maestro LUCIO SUSMEL achiusura della prolusione da lui tenuta in oc-casione dell’inaugurazione dell’anno accade-mico dell’Accademia Italiana di Scienze Fore-stali del 1986: «È per questo che […] rivolgoa tutta la famiglia silvana, e specialmente ai gio-vani, l’esortazione a non chiudersi nell’inerziao nell’attesa passiva, bensì a continuare unitae concorde con moltiplicato impegno nel-l’edificazione della scienza e della tecnica fo-restali».

Concludo ricordando una massima da me co-niata: «La scienza è fatta di dati, come un boscodi alberi. Ma un ammasso di dati non è scienzacosì come un insieme di alberi non è un bosco».

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WOLYNSKI A., 2002a – Sul trattamento irregolaredelle fustaie di faggio. (Prima parte). Sherwood,n. 74: 9-14.

WOLYNSKI A., 2002b – Sul trattamento irregolaredelle fustaie di faggio. (Seconda parte). Sherwood,n. 75: 5-12.

WOLYNSKI A., 2009 – Selvicoltura Naturalistica eSistemica. Quali analogie e quali differenze.Sherwood, n. 149: 14-16.

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La teoria della selvicoltura sistemica,i razionalisti e gli antirazionalisti, le «sterili disquisizioni»

e il sonnambulismo dell’intellighenzia forestale

RiassuntoPrendendo spunto da sette scritti apparsi nel 2009 sulla Rivista Sherwood, che analiz-

zano in maniera critica la teoria della selvicoltura sistemica, il saggio ripercorre i puntisalienti del dibattito che si è aperto sulla questione «selvicoltura naturalistica» versus«selvicoltura sistemica».

Nella prima parte si sottolinea l’importanza della enunciazione delle teorie per il pro-gresso scientifico e si evidenziano le differenze tra la scienza e la tecnica in ambito fore-stale. Inoltre, si illustra l’iter che ha determinato un ritorno alla natura in selvicoltura el’evoluzione della selvicoltura in Europa e in Italia a partire dalla fine del XIX secolo finoai giorni nostri. In particolare, si analizza la cosiddetta selvicoltura naturalistica e le di-verse forme a essa riconducibili, attraverso un excursus del pensiero e delle teorie di al-cuni dei più significativi Maestri delle Scienze forestali.

Nella seconda parte del lavoro si riflette su alcune questioni specifiche poste nei settearticoli allo scopo di fare chiarezza sulle differenze tra la selvicoltura sistemica e la co-siddetta selvicoltura naturalistica. L’analisi evidenzia la mancanza di definizioni e prin-cipi teorici di riferimento relativi alla cosiddetta selvicoltura naturalistica, e si concludepertanto con un invito a esaminare con maggiore dettaglio e precisione la problematicain questione.

Parole chiave: selvicoltura sistemica; selvicoltura naturalistica; cultura del bosco.

The theory of systemic silviculture,the rationalist and antirationalist, the “sterile disquisitions”

and the somnambulism of forest intelligentsia

SummaryStarting from some issues contained in seven papers published in 2009 on the Italian

review Sherwood, that critically analyze the theory of systemic silviculture, this essay focuseson the current debate on “close to nature silviculture” versus “systemic silviculture”.

In the first part the importance of the enunciation of a theory for scientific progress isunderlined, and differences between science and technique in forestry are emphasized.Furthermore, the process that led to a return to nature in silviculture is described, withreference to silviculture evolution in Europe and in Italy from XIX century to presenttime. In particular, the so-called close to nature silviculture and similar forms are analyzed,through an excursus of thought and theories of the most important Masters of forestsciences.

In the second part of the essay some topics of the above mentioned seven papers arecritically analyzed, with the aim of clearing the differences between the so-called close tonature silviculture and systemic silviculture. The study shows the lack of definitions andtheoretical principles of reference in the so-called close to nature silviculture and thus endswith an invitation to examine the issue with greater detail and accuracy.

Key words: systemic silviculture; close to nature silviculture; culture of the forest.

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INDICE

1. PREMESSA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32. IL DIBATTITO È IL «SALE DELLA SCIENZA» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43. IL LINGUAGGIO DEL BOSCO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54. L’IPOTESI, IL MOMENTO CREATIVO E QUELLO CONOSCITIVO. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65. IL SONNAMBULISMO DELL’INTELLIGHENZIA FORESTALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 76. RITORNO ALLA NATURA IN SELVICOLTURA. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8

6.1. L’evoluzione della selvicoltura in Europa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 86.2. I razionalisti e gli antirazionalisti in selvicoltura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 126.3. L’evoluzione della selvicoltura in Italia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13

7. SELVICOLTURA SU BASI ECOLOGICHE E SELVICOLTURA NATURALISTICA. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 178. LA SELVICOLTURA TRA EMPIRISMO, ARTE E SCIENZA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 189. LA COSIDDETTA SELVICOLTURA NATURALISTICA, LA RICERCA SCIENTIFICA

E LA CULTURA DEL BOSCO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1910. L’AGGETTIVAZIONE DELLA SELVICOLTURA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20

10.1. Le perifrasi e il background dei selvicoltori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2111. L’IPOCRITA CONSERVATORISMO DELL’AGGETTIVAZIONE DELLA SELVICOLTURA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2212. LE «STERILI DISQUISIZIONI» E LE SFIDE DEL MONDO FORESTALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23

12.1. Il «serio rischio» della selvicoltura sistemica! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2312.2. La filosofia dello sfruttamento del bosco! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2412.3. La cosiddetta selvicoltura naturalistica e i «sacri testi» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2512.4. Per restare «con i piedi per terra», le elucubrazioni non servono! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2612.5. La cosiddetta selvicoltura naturalistica, l’ecosistema e la «normalizzazione» . . . . . . . . 26

13. IL DOGMA DELLE GENERALIZZAZIONI, IL PENSIERO UNICO

E LA SELVICOLTURA DEL NORD EST . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2814. LA LOGICA DELLA SELVA E QUELLA DEL REDDITO FINANZIARIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3015. IL TALLONE DI ACHILLE DEL SETTORE FORESTALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3116. I PREGIUDIZI IDEOLOGICI E LA CULTURA DEL BOSCO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3117. IL DAUERWALD e LA SELVICOLTURA CONFORME ALLA NATURA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32

17.1. Il bosco organismo, i razionalisti DENGLER e WIEDEMANN

e i grandi Maestri del XX secolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3318. LA COSIDDETTA SELVICOLTURA NATURALISTICA E LA METAFORA

DELLA «TRIPPA DI GATTO» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3519. I BOSCHI DISETANEI E LA NORMA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3520. LA «SELVICOLTURA D’ALBERO» E LA COSIDDETTA SELVICOLTURA NATURALISTICA . . . . . . . . . . . . . . . . . 3721. L’IMPRINTING E IL PRINCIPIO AGRONOMICO O PRODUTTIVO IN SELVICOLTURA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3822. CONCLUSIONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39

BIBLIOGRAFIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41

RIASSUNTO/SUMMARY . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49

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