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Critica del testo XIV / 3, 2011 Dante, oggi / 3 Nel mondo a cura di Roberto Antonelli Annalisa Landolfi Arianna Punzi viella

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Critica del testoXIV / 3, 2011

Dante, oggi / 3 Nel mondo

a cura di

Roberto AntonelliAnnalisa Landolfi

Arianna Punzi

viella

© Dipartimento di Studi Europei, Americani e Interculturali,“Sapienza” Università di RomaISSN 1127-1140 ISBN 978-88-8334-639-2Rivista quadrimestrale, anno XIV, n. 3, 2011Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 125/2000 del 10/03/2000

Sito internet: http://w3.uniroma1.it/studieuropei/[email protected]

Direzione: R. Antonelli, F. Beggiato, P. Boitani, C. Bologna, N. von PrellwitzDirettore responsabile: Roberto AntonelliQuesta rivista è finanziata da “Sapienza” Università di Roma

Viellalibreria editricevia delle Alpi, 32 – I-00198 ROMAtel. 06 84 17 758 – fax 06 85 35 39 60www.viella.it – [email protected]

Dante nella letteratura italiana del Novecento e in Europa

Nadia Cannata SalamoneIllustri, materne, colte, straniere: le lingue d’Italia nel Novecento e la lingua di Dante 9

Luigi SeveriDante nella poesia italiana del secondo Novecento 37

Fabrizio CostantiniRifrazioni dantesche e altra intertestualità ne La rosa di Franco Scataglini 85

Valentina BerardiniIl canone scolastico dantesco 103

Rossend ArquésTraduzioni e irradiazioni ispaniche novecentesche della Commedia di Dante (Ángel Crespo, Luis Martínez de Merlo, Abilio Echevarría e María Zambrano) 119

Gabriella GavagninDante e i miti storiografici della letteratura catalana contemporanea 149

Giulia LancianiLa Commedia in area lusofona. Traduzioni e critica 165

Gianfranco RubinoDante nel Novecento letterario francese 177

Martine Van GeertruijdenLe traduzioni francesi della Commedia nel Novecento 203

Piero BoitaniDante in Inghilterra 227

Cesare G. De MichelisDante in Russia nel XX secolo 243

Luigi MarinelliEpica e etica: oltre il dantismo polacco 253

Camilla MiglioDante dopo Auschwitz: l’Inferno di Peter Weiss 293

Dante negli USA, in America latina e in Oriente

Rino CaputoDante in Nordamerica verso e dentro il Terzo Millennio 319

Nicola BottiglieriDante nella letteratura ispanoamericana 333

Sonia Netto SalomãoDante na tradição brasileira 375

Elisabetta BenigniLa Divina Commedia nel mondo arabo: orientamenti critici e traduzioni 391

Alessandra BrezziIl Novecento cinese di Dante 415

Riassunti – Summaries 439

Biografie degli autori 451

Critica del testo, XIV / 3, 2011

Rossend Arqués

Traduzioni e irradiazioni ispaniche novecentesche della Commedia di Dante (Ángel Crespo, Luis Martínez de

Merlo, Abilio Echevarría e María Zambrano)

La ricezione di Dante in Spagna registra una forte impennata nei periodi relativi ai due anniversari del XX secolo, quello del 1921 e quello del 1965, se non altro nel campo delle edizioni della Comme-dia e della Vita nuova, ivi comprese le riedizioni di vecchie quanto apprezzabili traduzioni ottocentesche1. Joaquín Arce, il più autore-vole studioso del dantismo spagnolo moderno, pubblicò nel 1965 un censimento della bibliografia ispanica dantesca compresa tra le due celebrazioni, così esauriente da consertirci di sorvolare sui partico-lari bibliografici per concentrarci su alcuni dei principali testi2, senza dimenticare che «más de cincuenta traducciones de la Divina Come-

1. La Divina Comedia de Dante Alighieri, con notas de P. Costa y traducida al castellano por D. M. Aranda y Sanjuan, Barcelona 1868 (en prosa) (2ª edizione 1924, ristampe nel 1933, 1941, 1959, 1960 ecc.); La Divina Comedia, según el texto de las ediciones más autorizadas y correctas, nueva traducción directa del italiano por C. Rosell; completamente anotada y con un prólogo biográfico-crítico, escrito por J. E. Hartzsenbusch; ilustrada por G. Doré, Barcelona 1870 (ristampa nel 1951 con un prologo di J. L. Borges); La Comedia de Dante Alighieri, traducida al castellano en igual clase y número de versos por el Capitán General J. de la Pe-zuela, Conde de Cheste, 2 voll., Madrid 1878 (ristampe nel 1931, 1942, 1960, 1963 ecc.). Alle quali bisognerebbe aggiungere anche quella dell’argentino B. Mitre, La divina Comedia, Buenos Aires 1889, poi in Obra completa, Buenos Aires 1891.

2. J. Arce, La bibliografía hispánica sobre Dante y España entre dos centenarios (1921-1965), in Dante nel mondo: raccolta di studi promossa dall’Associazione Inter-nazionale per gli Studi di Lingua e di Letteratura Italiana, a c. di V. Branca e E. Caccia, Firenze 1965, pp. 407-431. Oltre alle ristampe citate, uscirono anche le traduzioni delle Opere complete di Dante, a c. di N. González Ruiz e G. M. Bertini, Madrid 1956, e le versioni di L. C. Manegat (La D.C., con un prólogo de L. Carreras, Barcelona 1924), A. Cuyás (La D. C., Madrid 1932), F. Gutiérrez (La D.C., traducción y prólogo por F. Gu-

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dia se publicaron entre el 1900 e il 1990»3, in castigliano, catalano4 e gallego, oltre ad alcune interessantissime versioni della Vita nuo-va5, ad alcune opere dottrinali e a vari frammenti delle Rime e della Commedia. Fiorì anche una cospicua letteratura critico-biografica, specialmente attorno al 1921 e in particolar modo in Catalogna6. Un capitolo a sé stante è quello rappresentato dal saggio di Miguel Asín Palacios (1871-1944), La escatología musulmana en la Divina Comedia (del 1919, ma pubblicato nel 1943 insieme alla Historia y crítica de una polémica) che fino a pochi anni fa era considerato lo studio più importante del dantismo spagnolo contemporaneo7. Esso ha generato, al di là delle critiche ricevute e del silenzio posteriore da cui è stato avvolto, un nuovo approccio alla Commedia che qualche decennio fa è stato riscoperto in Italia, suscitando l’interessamento di filologi come Maria Corti, in quanto paradigma “multiculturale” di cui servirsi nell’interpretazione della Commedia e dei testi medie-vali; e l’interessamento della filosofa María Zambrano, per quanto la sua lezione sia stata di recente ridimensionata da altri studiosi8. Ma

tiérrez, Barcelona 1958), E. Rodríguez Vilanova y F. Sales Coderch (Barcelona 1973), A. Crespo (Barcelona 1973-1981), A. Chiclana (D. C., Madrid 1979).

3. J. Arce, Dante en España, apéndice a Dante Alighieri, Divina Comedia, ed. di G. Petrocchi e L. Martínez de Merlo, Madrid 1996, p. 761. Di alcune di queste traduzioni si è occupato M. Carrera Díaz, Le traduzioni spagnole della “Divina Commedia”, in Letture classensi, 20-21, Ravenna 1992, pp. 21-34.

4. Arce, La bibliografía hispánica cit., pp. 413-418.5. Essenzialmente quelle castigliane: La Vida Nueva, Barcelona 1912; La Vida

Nueva, Barcelona 1946; Vida Nueva, Buenos Aires-Barcelona-México 1961; e que-lla catalana: La vida nova, Barcelona 1937.

6. Per quanto riguarda la bibliografia catalana delle celebrazioni del 1921, si vedano G. Gavagnin, Classicisme e Renaixement: una idea d’Itàlia durant el Noucentisme, Barcelona 2005, pp. 214-240, ma soprattutto la sua tesi di dottorato, La letteratura italiana nella cultura catalana nel ventennio fra le due guerra (1918-1936). Percorsi e materiali, Universitat de Barcelona, 1998, e R. Arqués, El rastre de la pantera perfumada. Dante en les poètiques catalanes de la modernitat, in R. Arqués, A. Garrigós, Sobre el Dant, Barcelona 2001, pp. 23-53. Riguardo invece la letteratura castigliana, si veda almeno Arce, La bibliografia hispánica cit., pp. 418-423.

7. Sul dantismo critico nella Spagna contemporanea, si veda il mio Il danti-smo contemporaneo in Spagna. Primo bilancio, in Letture classensi, 39, Ravenna 2010, in corso di stampa.

8. Le tesi di M. Asín Palacios, convinto assertore di una conoscenza da parte di Dante della tradizione profetica dell’Islam e in particolare delle narrazioni del viaggio

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anche da parte di alcuni importanti scrittori, sono venuti degli spunti interessantissimi. Basti ricordare gli argentini Jorge Luis Borges e Victoria Ocampo9, gli spagnoli José Ortega y Gasset, José Bergamín e la già menzionata María Zambrano, il cubano Lezama Lima, o anche il messicano Octavio Paz. Tutti loro, come del resto tanti altri poeti e narratori occidentali contemporanei, hanno sfruttato l’opera dantesca quale ipotesto delle loro creazioni letterarie. Una grande ri-levanza hanno inoltre le edizioni accompagnate da illustrazioni che fungono da veri e propri commenti iconografici. Penso ovviamente alle numerosissime edizioni con le famose riproduzioni di Gustave Doré, ma anche a quelle di celebri illustratori europei (Botticelli,

di Maometto agli Inferi e della sua ascensione al cielo, conoscenza che gli sarebbe ar-rivata attraverso la Spagna, sono state confutate da M. Chiamenti, Intertestualità Liber Scale Machometi-Commedia?, in Dante e il locus inferni. Creazione letteraria e tra-dizione interpretativa, a c. di S. Foà e S. Gentili, Roma 1999, pp. 45-51) e da S. Rapi-sarda, La Escatologia dantesca di Asín Palacios nella cultura italiana contemporanea. Una ricezione ideologica?, in Echi letterari della cultura araba nella lirica provenzale e nella Commedia di Dante, Atti del Convegno internazionale, Università degli Studi di Udine (15-16 aprile 2005), a c. di C. G. Antoni, Pasian di Prato (Ud) 2006, pp. 159-190, il quale ricostruisce le polemiche seguite alle prime edizioni dell’opera di Asín Palacios, nonché la sua ricezione in Italia soprattutto a partire dalla pubblicazione della traduzione italiana per i tipi della casa editrice Pratiche (1994): «Insomma – secondo Rapisarda –, il quadro è questo: in Italia la tesi di Asín Palacios è stata ignorata, o osteggiata o confutata, poi è stata in latenza per vari decenni, in un limbo di silenzio pressoché universale, finché all’improvviso si è scatenato il “fenomeno”, il dibattito, che è diventato quasi un dibattito sulla World Literature o sulla political correctness in letteratura» (p. 162). Si veda anche M. Corti, Dante e la cultura islamica, in «Per cor-rer miglior acque»… Bilanci e prospettive degli studi danteschi alle soglie del nuovo millennio, Atti del Convegno internazionale (Verona-Ravenna, 25-29 ottobre 1999), 2 voll., Roma 2001, I, pp. 183-202; poi in Ead., D. Della Terza, G. Gorni, Il Dante di Sapegno nella critica del Novecento, Torino 2002, pp. 19-40, trad. inglese Dante and Islamic culture (1999), in «Dante Studies», 125 (2007), pp. 57-75 (vol. monografico dal titolo: Dante and Islam); Ead., La “Commedia” di Dante e l’oltretomba islamico, in «L’Alighieri. Rassegna bibliografica dantesca», 5 (1995), pp. 7-19 (anche in «Bel-fagor», 50 [1995], 3, pp. 301-314; poi in Scritti su Cavalcanti e Dante, Torino [2003], pp. 365-379); A. Celli, Figure della relazione. Il Medioevo in Asín Palacios e nell’ara-bismo spagnolo, con una presentazione di A. Brandalise, Roma 2005.

9. Che comunque pubblicò il volume De Francesca a Beatriz a Madrid nel 1924 per i tipi della casa editrice Revista de Occidente, diretta da J. Ortega y Gas-set; anzi fu lui stesso a chiederle il libro. Si veda R. Arqués, Desiderio femminile e femminismo: Victoria Ocampo fra Francesca e Beatrice, in Per leggere d’amore, Rimini, in corso di stampa.

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Flaxman, Blake), fino ad arrivare a quelle più recenti di Dalí e di Barceló10. Di tutte queste estese diramazioni che costituiscono le trame del dantismo moderno, vorremmo qui prendere in considera-zione soltanto alcune traduzioni, scelte tra le più autorevoli e note, nonché la ricezione filosofica11 di María Zambrano, che a mio parere è molto indicativa dell’uso moderno che si fa di Dante.

1. Le traduzioni spagnole novecentesche della Commedia: Crespo, Echevarría e Martínez de Merlo12

Per ragioni di spazio non terremo conto né delle traduzioni che da qualche tempo hanno smesso di circolare, alcune delle quali erano semplicemente frutto di incarichi editoriali più o meno riusciti13, né

10. Non esiste tuttora un catalogo ragionato delle edizioni della Commedia con le illustrazioni di Doré, ma molte di quelle che abbiamo citato le avevano. Per quanto riguarda Flaxman (1851) è da citare soltanto La Divina Comedia y La Vida Nueva, Madrid 1956, e uno studio critico del 1868 di M. Roca de Togores. Le vicende edi-toriali delle illustrazioni di Dalí sono assai complesse e non è questa la sede per par-larne. Si vedano in questo senso G. L. Gualandi, L’incubo e la Catarsi: un’ipotesi su Dalí lettore della Commedia. Analisi critica, in Salvador Dalí. La Commedia e altri temi, in Id., Salvador Dalí. La Divina Commedia e altri temi: opere grafiche, Bolo-gna 19942; I. Schiaffini, From Hell to Paradise or the Other Way Round? Salvador Dalí’s Divina Commedia, in Dante on view. The reception of Dante in the visual and performing Arts, a c. di A. Braida e L. Calè, Aldershot-Burlington (Vermont) 2007, pp. 141-150; J. P. Barricelli, Dante’s Vision and the Artist. Four Moderns Illustrators of the Commedia, New York 1992, pp. 81-93. Per le illustrazioni di Miquel Barceló, oltre all’edizione in tre volumi, si veda: D. Alighieri, Divina Comedia, ilustrada por M. Barceló, ed. bilingüe, traducción y notas de A. Crespo (per l’edizione castigliana), traducción y notas de J. M. de Segarra (per quella catalana), Barcelona 2002.

11. La traduzione gallega, per la quale ricevette la medaglia d’oro della città di Firenze, è a cura del poeta D. Xohán Cabana: D. Alighieri, A divina comedia, Santiago de Compostela 1990. Xohán Cabana è anche traduttore del Canzoniere di Petrarca.

12. Impossibile tentare qui di tracciare una ben che minima mappatura delle tipologie delle diverse traduzioni novecentesche in Spagna. Rimando comunque a Carrera Díaz, Le traduzioni spagnole della “Divina Commedia” cit. Per quelle catalane più recenti si veda R. Arqués, Reescriure Dante. La Comèdia de Sagarra y de Mira, in «Reduccions», 81-82 (2005), pp. 215-225.

13. Ecco un elenco, senza pretese di esaustività, delle traduzioni castigliane della Commedia dal 1950: La Divina Comedia, trad. de F. Gutiérrez, Barcelona 1958; La Divina Comedia, trad. de A. J. Onieva, en prosa con las ilustraciones de J. Vaquero Turcios, Madrid 1965; La Divina Comedia, trad. de J. Acerete, Barcelona

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tantomeno delle traduzioni in prosa14. Si prenderà in esame program-maticamente un corpus ridotto di tre traduzioni metriche: quelle in terzine di Ángel Crespo e di Abilio Echevarría e quella in endecasil-labi sciolti di Luis Martínez de Merlo. L’analisi comparata delle loro versioni si concentra in particolar modo sul canto 5 dell’Inferno.

Il poeta e saggista Ángel Crespo15 fu anche un fine traduttore di alcuni grandi poeti di lingue romanze, quali il portoghese, il francese e l’italiano (Pessoa, Dante, Petrarca ecc.) e autore tra l’altro di un’in-teressante monografia su Dante16. Dopo la pubblicazione nel 1973 della traduzione dell’Inferno, nel 1981 vede la luce la traduzione dell’intera Commedia, per la quale ottiene numerosi riconoscimenti, fra cui anche la medaglia d’oro della città di Firenze. L’obiettivo di

1975; La Divina Comedia, trad. de J. Ubeda Maldonado, Barcelona 1983; La Divina Comedia, trad. de E. de Montalbán, con una introducción de S. Zweig, Barcelona 1987; Divina Comedia, trad. de L. Gil, Barcelona 1991; D. Alighieri, La Divina Comedia, introd. de I. G. Sanguinetti, Madrid 1991; La Divina Comedia, prólogo y notas de J. Alarcon Benito, Madrid 1994; La Divina Comedia, Madrid, 1996; D. Alighieri, La Divina Commedia, Madrid, 1997; La Divina Comedia, a c. de J. M. Bebes, Madrid 1999. A queste bisognerebbe aggiungere quelle ispanoamericane. Per una visione globale delle traduzioni di Dante in Spagna si veda il “Catálogo de traducciones de la literatura italiana”, http://www.ub.edu/boscan.

14. Come quella interessantissima di A. Chiclana, D. Alighieri, Divina Come-dia, edición e introducción de A. Chiclana Cardona, Madrid 1979. Si veda anche la recensione di V. Díaz Corralejo in «Cuadernos de Filología italiana», 2 (1995), pp. 303-304.

15. Crespo pubblica la sua prima versione del Infierno nel 1973, del Purgato-rio nel 1976 e del Paraíso nel 1977; qualche anno più tardi usciranno le tre cantiche sotto il nome di Divina Commedia, Barcelona 1981; la stessa casa editrice (Cír-culo de Lectores) pubblicherà nel 2002-2003 l’edizione illustrata da M. Barceló. Ma le complesse vicende editoriali delle traduzioni di Crespo non finiscono qui e non possono essere affrontate in questa sede (ristampe: Barcelona 1986; Barcelona 1992-1995; Barcelona 1995). Si veda G. Chiappini, Ángel Crespo, traductor de “La Divina Comedia”, in «Anthropos: Boletín de información y documentación», 15 (1989) (numero speciale dedicato a Ángel Crespo), pp. 186-190. Chiappini pro-cede ad un’analisi che tende a sottolineare e «ponderar los valores paradigmático-semánticos» della traduzione e esamina diversi momenti della versione per mostra-re «el equilibrio con que trabaja Crespo».

16. A. Crespo, Dante y su obra, Barcelona 1999 (anche se la prima edizio-ne risale al 1979). Recensito da M. Edo in «Quaderns. Revista de Traducció», 3 (2001), pp. 178-180, e da M. J. Calvo Montoro, El Dante de Crespo, in «Revista de Libros», 58 (2000), pp. 57-58.

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Crespo, espresso nell’Apéndice. La Commedia de Dante: problemas y métodos de traducción17, è mantenersi fedele all’opera sotto tutti i profili (metrico, rimico, lessicale e culturale) e nello stesso tempo renderla fruibile a un pubblico moderno. Questa dichiarazione di fedeltà comincia proprio dal rispetto del metro, l’endecasillabo, e della strofa, la terzina, nella quale si plasma il significato globale del poema e che coincide con il sistema di pensiero sottostante alla costruzione della Commedia18. Al traduttore non resta altra strada che quella di riprodurre il sistema strofico e di rispettare il numero di versi e il ritmo di ogni verso, per quanto quest’ultimo criterio spesso debba fare i conti con la tradizione metrica spagnola. È evidente che proprio a causa di questa programmatica fedeltà a metrica, rima e ritmo dell’originale, la sua versione spesso è costretta a derogare alla fedeltà semantica e sintattica. E di questo aspetto è ben conscio il traduttore, che d’altra parte assume l’endecasillabo del Siglo de Oro, metro nel quale si è forgiata la lingua letteraria spagnola, come veicolo per rendere fruibile al lettore spagnolo l’alterità poetica di Dante. Crespo, al contrario di Martínez de Merlo, è critico riguardo al concetto di “letteralità” in sé e per sé. «El criterio que me ha guia-do – scrive – ha sido el de conservar cuantos rasgos de literalidad no perjudicasen al aspecto artístico del texto traducido, recurriendo en los demás casos a un paralelismo métrico-conceptual». Il dibattito rimane aperto. È chiaro comunque che l’idea guida del lavoro di Crespo è la “compensazione”. Le inevitabili infedeltà vanno “com-pensate” là dove si presenti l’occasione in altre parti del testo. A questo proposito il traduttore è molto chiaro quando descrive i mec-canismi compensatori nell’ambito delle rime:

17. D. Alighieri, Comedia. Paraíso, Barcelona 1977, pp. 417-442.18. Della stessa opinione è il poeta catalano Narcís Comadira, molto critico con

la versione catalana di Francesc Mira in endecasillabi sciolti: «Em sembla una decisió equivocada. La Divina Comèdia és un poema en tercets encadenats i, si es perd això, es perd moltíssim. El que es pugui recuperar en canvi, no és prou. De fet, em sembla que Joan Francesc Mira diu que vol traduir la Divina Comèdia com si fos una narració o alguna cosa semblant, però Dante va escriure un poema i, com a tal ha de ser traduït. A més, si es perd el tercet dantesc perdem molt del valor simbòlic que hi ha al text. L’obra està estructurada en tres parts, de trenta-tres cants cadascuna (a més del primer cant que fa de pròleg), tot aquest esforç per encabir-ho tot en una estructura trinitària es perd si no es tradueix en tercets», in P. Sanchís, Entrevista amb Narcís Comadira, in «Quaderns. Revista de Traducció», 12 (2005), p. 248.

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debo decir que, si he tenido que renunciar a situarlas en el mismo lugar que Dante, he procurado, sin embargo, compensar esta pérdida en donde me ha deparado una buena oportunidad. (…) También he procurado que en la tra-ducción no faltasen, en paralelismo con el poema, rimas paronomásicas (…), rimas duras (…), rimas raras (…) ya procedan del original – cuando ello ha sido posible – ya nazcan en aquél19.

Nel caso della versione di Abilio Echevarría20, non conosciamo nessun tipo di dichiarazione dell’autore circa il proprio metodo tradut-tivo. Nella pratica però egli poco si discosta dalle linee guida di Cre-spo, visto che intende essere fedele al senso globale del poema e a tutti gli aspetti formali che lo veicolano. In mancanza d’altro possiamo accettare come una sua dichiarazione d’intenti le parole conclusive dell’introduzione di Carlos Alvar che accompagna il volume:

Traducir la Commedia es un trabajo duro, largo y difícil; hacerlo en verso es una tarea siempre encomiable; conseguir que el texto en español respete plenamente el sentido, el metro y el ritmo del original no es labor que se im-provise; la versión de A. Echevarría ha logrado unir todos esos aspectos en sus tercetos encadenados, sin perder la grandeza épica del original21.

Il poeta22 Luis Martinez de Merlo (1955)23, autore del libret-to Francesca, o el infierno de los enamorados (Teatro Olimpia di Madrid, 1989, con musica di Alfredo Aracil) e ottimo traduttore di Baudelaire, Corneille, Verlaine, Leopardi e Molière, pubblica nel 1988 la sua versione della Commedia in endecasillabi sciolti, pre-ceduta da una Nota del traductor in cui spiega i criteri guida a cui si è attenuto rigorosamente e umilmente, pur nella consapevolezza dei sacrifici, rispetto all’originale, che questa scelta inevitabilmente

19. A. Crespo, Problemas y métodos de traducción, in Dante Alighieri, Come-dia. Paraíso, texto original y traducción, prólogo y notas de A. Crespo, Barcelona 1972, pp. 417-442, pp. 433-434.

20. D. Alighieri, Divina Comedia, trad. de A. Echevarría, introd. de C. Alvar, Madrid 1994; recensione di L. A. de Cuenca, in «Abc literario», 12 aprile 1994, p. 14.

21. D. Alighieri, Divina Comedia, trad. de A. Echevarría, introd. de C. Alvar cit., p. XXXVI.

22. Autore di De algunas otras veces, cui hanno fatto seguito: Alma del Tiem-po (1978), Fábula de Faetonte (1982), El Trueno, la Mente Perfecta (1996), Silva de Sirenas (2001), Maitines y completas (2006).

23. D. Alighieri, Divina Comedia, trad. de L. Martínez de Merlo, ed. de G. Petrocchi, apéndice di J. Arce, Madrid 1988.

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comportava. Questi criteri sono essenzialmente quattro: letteralità, intelligibilità, fedeltà allo stile e allo spirito del testo dantesco, sa-crificio della rima ma non dell’endecasillabo. Di conseguenza la tra-duzione, in terzine di versi liberi, punta piuttosto al mantenimento del significato profondo e originale voluto da Dante, non essendo il suo autore obbligato dal rispetto della terza rima a trovare sempre e forzosamente delle traduzioni, spesso arcaizzanti. Il risultato è un testo in castigliano moderno che tuttavia rende molto bene l’italiano del Trecento.

1.1. L’endecasillabo

L’endecasillabo è il superbissimum carmen, cioè «il più splen-dido dei versi», come dichiara Dante stesso nel De vulgari eloquen-tia, II V 3, perché permette ogni sorta di registro. Riguardo al siste-ma ritmico, l’endecasillabo ammette accanto ai tre tipi fondamentali (accento in 6ª e 10ª sillaba; in 4ª, 8ª e 10ª; in 4ª, 7ª e 10ª), che diven-teranno canonici in Petrarca, altri tipi secondari (accento in 1ª, 2ª, 3ª e 9ª sillaba, variamente combinati) che hanno uno speciale rilievo nella Commedia. Se il ritmo di tipo anapestico o dattilico (4ª, 7ª, 10º) è ricorrente in situazioni specialmente aspre e brutali («batte col remo qualunque s’adagia», If 3, 11124) quello di tipo giambico (2ª, 4ª, 6ª, 8ª, 10ª) lo è nelle azioni lente e pausate («Allor si move e io lo tenni dietro», If 1, 136). Si tengano presenti poi le cesure, soprattutto quelle in 4ª sillaba, il gioco fra dieresi e sineresi, dialefe e sinalefe, l’enjambement; tutti effetti ritmici che fanno sì che l’endecasillabo si trasformi nelle mani di Dante nel verso più duttile per esprimere sia sentimenti e stati d’animo, sia ragionamenti concettuali. Nel can-to 5 dell’Inferno si concentrano molti di questi fenomeni metrico-ritmici, ad esempio i vv. 1 e 8 (2ª, 4ª, 6ª, 10ª), 2 (1ª, 4ª, 8ª, 10ª), 5 (2ª, 6ª, 10ª), 6 (1ª, 4ª, 7ª, 10ª); la cesura in 4ª in un gran numero di versi (46, 49 ecc.), mentre quella in 6ª nei vv. 37, 63, 58. I tre traduttori in spagnolo, che rispettano puntigliosamente il numero dei versi, prediligono l’accento in 6ª e 10ª sillaba, ma a volte fanno uso anche di accenti secondari (in 1ª, 3ª, 4ª o 8ª sillaba). Martínez de Merlo in

24. Ed. di riferimento Dante Alighieri, Commedia, con il commento di A. M. Chiavacci Leonardi, Bologna 2001.

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parecchi punti ricorre anche ad alcuni endecasillabi epici (5ª, 10ª), oppure di 4a, 8ª e 10ª, come in If 5, 112, di cui dà anche una giustifi-cazione teorica nella Nota del traductor:

Con respecto al endecasílabo dantesco, es necesario hacer una advertencia capital: junto a los tipos de endecasílabo de ritmo par, con acentos en la 4ª, 6ª y 8ª sílaba en sus diferentes combinaciones, que es el que se impondrá mayo-ritariamente en la poesía italiana del Cinquecento, y el que casi en exclusiva va a ser aceptado por la poesía española posboscaniana, el Alighieri utiliza con gran profusión un endecasilabo que se caracteriza por su acento obligado en 4ª y 7ª sílaba (en ocasiones con una cierta cesura tras la silaba 5ª) (…) y del que el propio Santillana se hace eco en sus primeros tanteos de adaptación al nuevo metro, pero que la poesía italianizante española (…) rechazó casi desde el primer momento, de tal forma que resulta bastante extraño a los oídos acostumbrados a las sonoridades de Garcilaso, Góngora, Quevedo, Lorca o Jorge Guillén.Aun siendo en la Comedia claramente mayoritario el primer verso, Dante lo alterna en muchas ocasiones con el segundo, creando variadas combinaciones rítmicas, que yo he procurado conservar en mi versión, como fundamental rasgo estilístico del autor25.

Crespo dedica alcune pagine del saggio Problemas y métodos de traducción a trovare una risposta alla domanda “quale tipo o qua-li tipi di endecasillabo usare per tradurre la Commedia”. Per far que-sto ripercorre la storia dell’endecasillabo nella letteratura castigliana partendo dai noti Sonetos al italico modo di Santillana, arrivando alla conclusione che «no cabía otro remedio que atenerse al ende-casílabo, y al terceto clásicos españoles, que proceden, sí, de Dante, pero con las modificaciones introducidas en ellos por el cantor de Laura»26, nelle loro due varianti: quella classica (Garcilaso, Fray Luis) e quella barocca (Góngora, Quevedo).

Inizialmente era sua intenzione non servirsi di endecasillabi dat-tilici, in seguito però è ricorso, seppur con scarsa frequenza, a questo tipo di verso (solo 26 su 4732 versi del Paradiso), ricordando che la poesia decadente spagnola ne aveva fatto qualche uso. Tuttavia la varietà di ritmo dei versi nella traduzione di Crespo risponde più al criterio quantitativo della compensazione che a quello qualitativo del rispetto della ritmica del verso dantesco. E se è vero che Dante si serve

25. L. Martínez de Merlo, Nota del traductor, in D. Alighieri, Divina Come-dia, ed. de G. Petrocchi, Madrid 2000, p. 62.

26. Crespo, Problemas y métodos de traducción cit, p. 429.

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delle diverse varietà ritmiche dell’endecasillabo in funzione della si-tuazione che sta descrivendo o dello stato d’animo dominante in quel passo della narrazione, si può ben obiettare che in questo caso, come in altri aspetti della versione di Crespo, la pratica della “compensa-zione” appare un espediente decorativo del testo, che attiene al piano significativo della traduzione più che operare un vero trasferimento del significante.

1.2. La terzina

«La sintassi della terzina – scrive Pasquini27 – è un miracolo non inferiore al metro stesso, gloria solo dantesca, creato per cor-rispondere a un poema senza precedenti. (…) La terzina, insomma, asseconda ogni varietà ritmica, ora assestandosi in una calcolata simmetria (…), ora sciogliendosi in mobili segmenti che disintegra-no lo schema ternario (…), ora distribuendosi in scansioni logiche travalicanti i ritmi concettuali del Convivio. (...) Dante pensa per ter-zine». È indiscutibile la centralità di questa strofa, composta da due versi esterni (1º e 3º) che rimano fra di loro e un verso interno (2º) che rima con i due esterni della successiva28. Essa veicola e fonde insieme lo schema mentale dell’enunciato, le categorie discorsive e il timbro della parola. Per cui le riprese, le iterazioni, le risonanze ritmiche, timbriche e lessicali, i rimanti in catena sono sempre figure stilistiche altamente rivelatrici di «scorrimenti profondi»29. «Al pari d’ogni edificio gotico, slanciato verso l’alto e progettato per acco-gliere, esaltare e rifrangere lo spazio-luce, l’opera dantesca con le sue tre cantiche-navate armoniche nella partizione di ombra (...) e luce (...), ad ogni peso e spinta fa rispondere controspinte e contrappesi acconci (...) secondo il principio del parallelismus membrorum»30. Particolarmente significativi sono i rimanti – veri e propri vocaboli-guida – sui quali poggia l’intero edificio del poema, determinandolo ben prima che egli lo concepisca31. Tra le numerosissime sequenze che si potrebbero citare mi sembra particolarmente importante, pur

27. D. Alighieri, Commedia. Inferno, Bari 1982, pp. CXL-CXLI. 28. P. G. Beltrami, Gli strumenti della poesia, Bologna 1996, pp. 137-138. 29. C. Bologna, Il ritorno di Beatrice, Roma 1998, p. 15.30. Ibid., pp. 16-17.31. Ibid., p. 31.

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nella sua esiguità sillabica, quella di If 5: viso: riso: diviso (vv. 131, 133, 135) che ritroviamo in Pd 30: viso: riso: preciso (vv. 26, 28, 30), con una variazione niente affatto casuale dal momento che qui Dante sta tentando invano («la mente mia da me medesmo scema», v. 27) di ridire ciò che è rimasto per sempre impresso nella sua me-moria: la prima visione della sua donna (il «dolce riso»).

Di tutta questa rete di segnali apparentemente deboli che sono invece spie di una volontà forte e profonda, sono ben consci tutti e tre i traduttori. Ma i due, cioè Crespo e Echevarría, che si sono posti l’obiettivo di ricostruire nella propria lingua questa cattedrale gotica32, vale a dire la totalità del senso del poema dantesco del qua-le la terzina costitutisce il mattone, hanno proceduto aggirando gli ostacoli in modi diversi, più o meno ingegnosi, ma sempre tenendosi lontano dal sistema di riverberazioni dell’originale. Per esempio, i sopraddetti rimanti in catena vengono tradotti nei seguenti modi:

Palidecimos, y nos suspendíanuestra lectura, a veces, la mirada,y un pasaje, por fin, nos vencería.

Al leer que la risa deseadabesada fue por el fogoso amante,éste de quien jamás seré apartada,

la boca me besó todo anhelante.Galeoto fue el libro y quien lo hiciera:no leímos ya más desde ese instante»

(Crespo)

Varias veces quedó, con la lectura,blanco el rostro y prendida la mirada;mas fue un punto el que indujo la locura.

Al leer que la risa de la amadase quebró con el beso del amante,éste, que nunca se me aparte en nada,

la boca me besó todo temblante. Galeoto el libro fue y quien lo escribiera:ya la lectura no siguió adelante».

(Echevarría)

Non potendo ovviamente riprodurre la stessa rima viso: riso, entrambi risolvono con mirada, che d’altra parte è una sineddoche di viso, la traduzione del primo termine, facendolo poi rimare più banalmente con un participio (nella versione di Crespo addirittura due volte). Lo stesso avviene in altri luoghi di questo stesso canto; per esempio i primi versi (If 5, 1-3) in cui ci imbattiamo in una rima (primaio: guaio) molto ardua e rarissima nel poema (primaio com-pare soltanto due volte e guaio una sola), che viene resa dai nostri traduttori nel seguente modo:

32. Cfr. J. Arce, El terceto dantesco en la poesía española, in Dante en su cen-tenario, Madrid 1965, pp. 291-303. Il volume è la versione castigliana di A Homage to Dante, numero speciale di «Books Abroad», maggio 1965.

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Bajé desde el primero hasta el segundocirculo, que menos trecho ceñíamas dolor, que me apiada, más profundo

(Crespo)

Así bajé del círculo primero al segundo, que menos trecho ciñe con más dolor y es de ayes hervidero.

(Echevarría)

Il sistema di rime dantesco, che qui spicca per arditezza e origi-nalità, risulta invece appiattito in una soluzione prevedibile se non addirittura banale, in Crespo, mentre da Echevarría è introdotta una metafora più ricercata. Altre volte, invece, come nel caso della rima amante: tremante: avante dei versi già menzionati (vv. 134, 136, 138), i traduttori ben poco si devono discostare della rima dantesca, se non per questioni di gusto o d’interpretazione.

La terzina rappresenta il «verdadero infierno del traductor», so-prattutto per le difficoltà di tutti i tipi che derivano dalle sue rime. Crespo nel suo circostanziato esame delle difficoltà affrontate con lo scopo di mantenere la stessa rima nello stesso luogo di Dante, dice ancora una volta che la soluzione sta nell’equilibrarne la perdita con altre rime in luoghi diversi:

si he tenido que renunciar casi siempre a situarlas [le rime] en el mismo lugar que Dante, he procurado, sin embargo, compensar esta pérdida en donde se me ha deparado una buena oportunidad.

Pure con le rime paronomasiche, con le rime “dure” o con quel-le acute, egli tenta sempre di rispettarne la posizione. Ma quando questo è impossibile, ricorre alla compensazione. Il ricorso alle rime tronche, «punto discutible y discutido» secondo quanto afferma lui stesso, è giustificato dalla volontà di dare «un cierto matiz medieval (en homenaje a Santillana, sobre todo) a ciertos pasajes de la tra-ducción», in modo particolare a quelli più filosofico-concettuali o in cui appaiono termini marcatamente medievali, come virtute, sire, valore. Un impiego massiccio di rime di questo tipo si trova, per esempio, all’inizio dell’orazione alla Vergine, Paradiso 33, proprio «con el proposito de medievalizarlos, es decir, de producir en ellos algo semejantes a esas aristas cortantes, pero suavemente armonio-sas en su conjunto, de la arquitectura gótica»33.

33. Crespo, Problemas y métodos de traducción cit., p. 435.

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1.3. Rifare la lingua di Dante

La gotica costruzione del poema si erge anche sulla lingua e lo stile danteschi, che costituiscono vere e proprie insidie per un traduttore. Alla novità della lingua di Dante Auerbach ha dedicato pagine di grande acume in Mimesis, nel capitolo dedicato a Farinata e Cavalcante:

(…) la sua espressione possiede una tale ricchezza, concretezza, forza e dut-tilità, egli conosce e impiega un numero talmente superiore di forme, afferra le più diverse apparenze e sostanze con piglio tanto più saldo e sicuro, che si arriva alla convinzione che quest’uomo abbia con la sua lingua riscoperto il mondo. Spesso si crede d’aver trovato donde egli abbia attinto questa o quella espressione, e invece le fonti sono tante, egli le accoglie e le impiega in un modo tanto esatto, originario, e pur così proprio, che tale ritrovamento non fa che aumentare l’ammirazione per la potenza del suo genio linguistico. In un testo come il nostro ci si può imbattere dovunque in qualche cosa di stu-pefacente, in qualche cosa che nelle letterature volgari era rimasto fino allora inesprimibile34.

Ma anche in Dante als Dichter der irdischen Welt35, Auerbach evidenzia l’eccezionale, quasi matematica, precisione del linguag-gio dantesco anche nei momenti di maggior forza lirica, la combina-zione linguistica fatta di cronaca dei fatti e di dottrina dell’ordine ve-ritiero, una sintassi semplice quasi prosaica, volutamente paratattica (la maggior parte dei periodi non supera la terzina), la chiarezza dei nessi e la precisione semantica delle congiunzioni che strutturano l’argomento, elementi che concorrono tutti a creare un nuovo lin-guaggio concettuale, non diverso da quello della Summa theologica, ma enormemente più ricco.

Vediamo ora qualche esempio significativo di come i valenti tra-duttori moderni in lingua spagnola hanno affrontato questa insidiosa mole di ostacoli alla traduzione che la Commedia racchiude in sé.

Nei versi iniziali di Inferno 5 appare subito evidente il problema di come trattare la sintassi. Crespo, costretto dentro le demarcazioni di ritmo e rima, sceglie di allungare il terzo verso con un’allusione

34. E. Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abländischen Lit-eratur (1946), tr. it. Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, con un sag-gio introduttivo di Au. Roncaglia, 2 voll., Torino 1956, I, p. 198.

35. Id., Dante als Dichter der irdischen Welt (1929), tr. cast. Dante, poeta del mundo terrenal, Barcelona 2008, pp. 257-264.

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alla pietà provata dal protagonista che non ha riscontro nell’origina-le e dando vita a un iperbato che rende meno agevole la comprensio-ne: «más dolor, que me apiada, más profundo».

Dal punto di vista sintattico i versi di Echevarría sono molto più lineari e quindi più intelligibili, riescono a mantenere la correlazione men (menos) - tanto più ( más), e risolvono una frase verbale molto complessa, che avrebbe avuto bisogno di una più estesa spiegazione, («tormenta in modo da provocare dolore») con la frase nominale «de ayes hervidero». Una soluzione molto efficace, pari a quella di Martínez de Merlo

Así baje del círculo primeroal segundo que menos lugar ciñe,y tanto más dolor, que al llanto mueve

che utilizza il verbo mover (it. muovere), di grande importanza nel sistema filosofico-poetico dantesco e cavalcantiano.

Rimane ancora da sottolineare la distinzione fra il tempo ver-bale che indica l’esperienza umana del viaggio di Dante (discesi) e quello che si riferisce al tempo eterno delle punizioni e delle azio-ni che hanno luogo nell’Inferno, nello specifico le punizioni della misura inferiore del secondo cerchio e il giudizio di Minosse (cin-ghia: ringhia, avvinghia). La traduzione di Crespo è la sola a far uso dell’imperfetto anche per queste ultime azioni, almeno nella prima terzina e all’inizio della seconda, momento in cui cambia tempo verbale e comincia a usare il presente. Non essendo queste azioni marcate dalla ripetitività delle punizioni fissate dalla volontà divi-na, resta al lettore il dubbio se dar loro un carattere di eternità o se invece rappresentano una delle tante esperienze temporali, nonché personali, del protagonista.

È poi da sottolineare il coordinamento per lo più asindetico dei verbi che descrivono le azioni di Minosse: stavvi, e ringhia, esami-na, giudica e manda, avvinghia. Crespo omette di tradurre stavvi e comincia l’elenco con «gruñía», seguito da «examina» e da «y juzga y manda al tiempo que se lía», verso col quale recupera anche la congiunzione. Anche Echevarría non ritiene necessario tradurre stavvi, ma poi allunga il primo verso aggiungendo un verbo «riñe» che non ha riscontro nell’originale, collega le azioni con un nesso di simultaneità, ripete lo stesso verbo (la seconda volta sostantiva-

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to) e traduce avvinghia con una coppia verbale ossimorica («ciñe y desciñe»). Martínez de Merlo, come gli altri, omette stavvi, che co-munque è riecheggiato in un avverbio di luogo «allí», e inizia l’elen-co con «rechinaba» a cui seguono «examina», «juzga y ordena» e «se relíe». È abbastanza ovvio che le aggiunte rispetto all’originale e le ripetizioni siano più frequenti in Crespo e in Echevarría. Vediamo in proposito i versi 7-12:

Dico che quando l’anima mal natali vien dinanzi, tutta si confessa; e quel conoscitor de li peccata

vede qual loco d’inferno è da essa;cignesi con la coda tante voltequantunque gradi vuol che giù sia messa.

Digo que cuando el alma malhahadaLlega ante él, confiesa de inmediato,y él, que tiene del mal ciencia acabada,

ve el lugar infernal de su reato;tantas veces el rabo al cuerpo envuelve cual grados bajará por su mandato.

(Crespo)

Digo que cuando el alma desdichadase presenta ante él, confiesa todo;y él, que en esta cuestión no ignora nada,

asígnale lugar de extraño modo:tantas vueltas se encincha con la colacuantos grados señala a su acomodo.

(Echevarría)

In entrambe le traduzioni si ripete, non necessariamente, il pro-nome personale «él»; inoltre in quella di Echevarría «esta cuestión», nella sua genericità, omette del tutto il significato di peccata – che Crespo invece traduce con «mal» – e addirittura viene liquidato il primo e più importante compito, che è quello di vedere, con intu-izione divina, il luogo infernale a cui l’anima è destinata. Pertanto resta solo la funzione di assegnare la pena, il cui procedimento – de-finito come «extraño» – viene minuziosamente descritto. In questo passo così irto di difficoltà Martínez de Merlo, ancora una volta, dimostra grande maestria nell’accompagnare il lettore spagnolo alla comprensione del discorso di Dante, per di più riuscendo a calcare perfettamente la sintassi, il ritmo e il lessico originali:

Digo que cuando un alma mal nacidallega delante, todo lo confiesa;y aquel conocedor de los pecados

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ve el lugar del infierno que merece;tantas veces se ciñe con la cola cuantos grados él quiere que sea echada.

Occupiamoci ora di due altri due passi, che sono particolarmen-te rappresentativi, sia per l’importanza del loro significato sia per la loro struttura sintattica: l’ultima similitudine ornitologica tra la coppia di amanti e la coppia di colombe del canto 5 e l’incipit del poema. Nel primo passo i due amanti sono comparati a due colombe colte nel preciso istante in cui arrivano già con le ali ferme ma an-cora alzate al «dolce nido», corrispondente al virgiliano «Radit iter liquidum celeris neque commovet alas» (“scendono planando per il limpido spazio, senza muovere le loro ali veloci”, Aen. V 217). Usando il verbo venire per descrivere il volo delle colombe, Dan-te esprime partecipazione e prossimità alle azioni dei due volatili / amanti e al verbo di moto vegnon fa corrispondere il complemento di moto al dolce nido. Dei tre traduttori solo Crespo ha capito e tentato di riproporre l’azione dell’arrivo degli amanti, fissata nell’immagine plastica delle colombe ancora in volo, ma già quasi ferme:

Quali colombe dal disio chiamatecon l’ali alzate e ferme al dolce nidovegnon per l’aere dal voler portate

Como palomas del deseo llamadas que, alta el ala y parada, al dulce nidocaer se dejan por amor llevadas

(Crespo)

Y como dos palomas enceladascon ala abierta y firmae al dulce nidovan por el aire del amor llevadas

(Echevarría)

Tal palomas llamadas por el deseo,al dulce nido con el ala alzada,van por el viento del querer llevadas

(Martínez de Merlo)

Ma nessuno sceglie per questioni legate al ritmo il verbo venir. Crespo traduce «caer se dejan», aggiungendo una connotazione di casualità di cui non c’è traccia in Dante, mentre gli altri due tradu-cono «van», verbo con cui invece si perde la relazione di prossi-mità fisica e emozionale tra i personaggi dell’azione e il soggetto dell’enunciazione. Ma mentre Echevarría mantiene il vincolo tra il

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verbo di movimento «van» e il complemento di moto a luogo «al dulce nido», Martínez de Merlo, mosso dall’intento di rispettare la parole dantesca, costruisce una strofa tripartita, alla quale le virgole a fine verso conferiscono una forte ambiguità interpretativa, giacché le colombe possono sia essere chiamate «al dulce nido» sia andarci trasportate dal vento. Due dei traduttori poi mantengono nella loro versione le due parole-chiave – disio e volere – del canto, nel quale non a caso sono punite le anime di coloro che la «ragion sommetto-no al talento», dove talento è sinonimo di istinto amoroso36.

L’interpretazione di un passo, ma più spesso di una parola, di una congiunzione, è sempre un’azione che precede la traduzione vera e propria e il traduttore, chiamato a sceglierne una tra le di-verse che spesso gli esegeti hanno dato nel corso di tanti secoli di storia della critica dantesca, si assume in un certo modo la respon-sabilità di asseverare la bontà di una rispetto a un’altra. Di questa assunzione, difficile e meditata, di responsabilità, ci sono molti esempi nella pratica traduttologica dei nostri tre bravissimi autori. Già all’inizio del poema si pone il problema di che valore dare alla congiunzione che:

Nel mezzo del cammin di nostra vitami ritrovai per una selva oscura,che la diritta via era smarrita.

La maggior parte degli interpreti la considera una congiunzio-ne causale (“giacché, poiché”), ma ad altri (come ad esempio Anna Maria Chiavacci Leonardi) sembra più esatto intenderla come con-giunzione modale (“nella situazione di aver smarrito la via”). Uno dei traduttori spagnoli la interpreta nel primo modo («porque mi ruta había extraviado», Martinez de Merlo), mentre gli altri due nel se-

36. Un’analisi simile fa Chiappini (Angel Crespo traductor cit., pp. 188-189) con If 5, 55-57 relativi a Semiramis, dove osserva che Crespo rispetta le parole principali lussuria, libido, licito, legge, biasmo (lujuria, libido, lícito, ley reproche) ma inserisce alcuni verbi diversi dell’originale, con cui il traduttore «inserta en el texto dos nuevos elementos semánticos y de energía expressiva: la contradicción interna a la historia de Semíramis, reina y señora y, al mismo tiempo, “presa” que mientras actúa en la plenitud de su dominio y autonomía legislativa y normativa (“ley”) queda sorprendida en una paradójica y gravísima “confusión” de términos y comportamiento; y además reina cogida en el trance de huir…».

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condo («con la senda derecha ya perdida», Crespo, e «después de dar mi senda por perdida», Echevarría).

Nessuno dei tre tuttavia osa sbilanciarsi traducendo selva con «bosque», che darebbe una patina eccessivamente contemporanea alla traduzione: infatti nello spagnolo antico selva ha lo stesso signi-ficato del latino, mentre attualmente significa “giungla”.

Interessante sarebbe poi analizzare i diversi esiti in spagnolo dei vari modi stilistici del poema dantesco: la presenza dell’autore nelle invocazioni d’esordio, nelle espressioni di dubbio e di smarri-mento, nelle esortazioni, nelle imprecazioni, nei motti sarcastici; le perifrasi eufemistiche, mitiche, astrologiche, geografiche; le simili-tudini; le sinestesie; le metafore; le metonimie, le figure di sintassi (simmetrie, parallelismi); le anafore, le paronomasie, gli iperbati, gli zeugmi, le allitterazioni ecc. Purtroppo dobbiamo qui limitarci ad un paio di esempi.

Se le sinestesie sembrano in genere più facili da tradurre (d’ogne luce muto: «de todas luces mudo», Merlo; «en lugar de luz mudo me vi luego», Crespo37; ma «Ese lugar sin luz», Echevarría), le allitte-razioni e le metafore danno più filo da torcere nel trasferimento ad un’altra lingua. Prendiamo l’allitterazione famosissima con cui si chiude Inferno 5: «E caddi come corpo morto cade» e vediamone le diverse soluzioni: «y caí como cuerpo inanimado», Crespo; «y caí como cae un cuerpo muerto», Echevarría; «y caí como cuer-po muerto cae», Martínez de Merlo. Se da una parte sorprende che Crespo, a differenza degli altri due traduttori, decida di sacrificare il quarto elemento di questa importante allitterazione, dall’altra si può facilmente trovarne la spiegazione nel suo intento di salvare il sentimento che per lui domina tutto il canto: la pietà. Non a caso fa rimare il predicativo «inanimado» con «apiadado», mentre già nel terzo verso della prima terzina di questo stesso canto aveva intro-dotto un «me apiada» che non ha riscontri nel testo dantesco. In ciò differisce completamente Echevarría, che fa scomparire il lessema pietà, anche se ne conserva il concetto: «de pura compasión, cual si muriera». Infine occupiamoci della breve metafora di If 13, 55-57:

37. Á. Crespo dichiara nei suoi Problemas y métodos de traducción cit., p. 436, che: «Las sinestesias dantescas, tanto luminosas como auditivas o de otra na-turaleza, han sido objeto de preocupación en el texto traducido».

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E’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,ch’i’ non posso tacere; e voi non graviperch’ïo un poco a ragionar m’inveschi.

In questi versi l’anima di Pier delle Vigne, sotto le sembianze di un tronco, si lascia convincere a parlare dal «dolce dir» di Virgilio:

Y el tronco: «Tu palabra es dulce, y nada,ya apaciguado, callaré, no gravesos sean mi historia y mi habla dilatada.

(Crespo)

Y el tronco: “son tan dulces tus lisonjasque no puedo callar, y no os molestesi en hablaros un poco me entretengo…”

(Martínez de Merlo)

Y el tronco: “Mis heridas embalsamatu dulce hablar, y yo hablaré si, graves,estorbo no ponéis a mi soflama”.

(Echevarría)

Come si vede, in nessuna delle tre traduzioni i rispettivi autori si pongono il problema di come trattare la metafora della caccia con il vischio, che Dante evoca con il primo verbo adeschi legato dalla rima successiva al verbo inveschi. Crespo e Martínez de Merlo rispettano il senso generale della terzina ma preferiscono scioglierne quello trasla-to, rinunciando sia alla metafora dell’animale che si lascia irretire che a quella dell’animale che si inviluppa sempre più nel vischio. Al con-trario, Echevarría fa sì ricorso a una metafora (le ferite lenite dal dolce modo di parlare di Virgilio), ma capovolge le intenzioni del parlante: Pier delle Vigne non si presenta ai suoi interlocutori nell’atteggiamento umile di chi chiede attenzione, al contrario, egli pone delle condizioni al suo proprio dire: parlerà solo se essi non ostacolano il suo discorso.

Per completare questo breve esame sulle diverse strategie tra-duttologiche dei nostri autori, non si può tralasciare un aspetto molto importante della variegata lingua dantesca, che non finisce mai di stupirci e in cui tutti gli stili si ritrovano e l’intera tradizione lin-guistica italiana si rispecchia. Mi riferisco alla presenza nel lessico della Commedia di dialettalismi, di gallicismi, di fiorentinismi, di la-tinismi, di idioletti, di allotropi come trono / truono / tuono, o dicea / -eva, o imagine / -ago, di termini transalpini che coesistono accanto ai corrispettivi italiani (gioire / godere, augello / uccello ecc.) molto spesso per ragioni stilistiche, di oscillazioni tra forme volgari e for-me latineggianti volte a nobilitare la lingua (radiare / raggiare), di

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parasinteti che costituiscono il terreno più fertile nel quale si realizza la creatività dantesca (incinquarsi, indovarsi, trasumanare ecc.), per non parlare di versi ed emistichi della Commedia che sono entrati a far parte del parlare comune italiano, e non solo: fiero pasto, nel mezzo del cammin, amor ch’a nullo amato amar perdona, lo pane altrui, ecc. Pur non potendo qui riportare esempi di tante tipolo-gie diverse, vorrei tuttavia commentare brevemente le traduzioni in spagnolo di alcuni dei verbi parasintetici più noti: s’india (Pd 4, 28); s’addua (Pd 7, 6); s’incinqua (Pd 9, 40); si disuna (Pd 13, 56); s’intrea (Pd 13, 57); t’insusi (Pd 17, 13); s’infutura (Pd 17, 98); si trasmoda (Pd 30, 19); s’indova (Pd 33, 138). Ecco come sono resi dai nostri tre traduttori rispettivamente: «a Dios más se aproxima», «se enduaba», «quintuplicará», «desaúna», «que tres hace», «te al-zas», «se enfutura», «sobrepassa», «en qué sitio» (Martínez de Mer-lo); «se deigloría», «una doble llama actúa», «pasarán cinco siglos», «sin desunión», «el tres con ellos crea», «encumbrecida», «hacia el futuro vuela», «supera», «centra» (Echevarría); «se endiosa», «se adúa», «sea quintuplicado», «se desuna», «se entría», «tan alzado», «se enfutura», «se transmoda», «como en él estaba» (Crespo).

Lodevole è il loro sforzo, in particolar modo quello di Crespo, di tenere dietro alla genialità creativa dantesca («se enduaba», «de-saúna», «se enfutura», «se deigloría»), con esiti a volte eccellenti, altre volte meno, secondo la polivalenza semantica del neologismo; ad esempio, nel caso di si trasmoda, di cui solo Crespo osa fare il calco in spagnolo, il significato non è solo quello di “superamento della conoscenza umana al fine di godere interamente della divini-tà”, ma è anche quello della “nuova dimensione in cui si sta entran-do”. Altrettanto encomiabili sono le traduzioni di un verso, If 5, 43, esemplare per l’uso particolare che Dante fa degli avverbi,

di qua, di là, di giù, di sù li mena;nulla speranza li conforta mai,

che i nostri traduttori rendono nei seguenti modi:

Acá, allá, acullá, por vendavales a turba de las almas es llevada,sin esperanza – que les preste aliento –

(Crespo)

arriba, abajo, aquí y allí los llevasin la esperanza, que les dé consuelo

(Echevarría)

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Arriba, abajo, acá y allá les lleva;y ninguna esperanza les conforta

(Martínez de Merlo)

In lingua spagnola e in lingua catalana il dantismo filologico e critico fino a pochi decenni fa non aveva prodotto risultati degni di nota, fatta qualche eccezione. In questi ultimi anni iniziative e studi promossi da diverse università spagnole hanno cominciato a colmare questa lacuna ricevendo riconoscimenti da tutto il mondo38. Malgrado il ritardo che la filologia dantesca ispanica ha accumulato, bisogna tut-tavia riconoscere che nell’ultimo trentennio del Novecento il lavoro di traduzione di tutte le opere di Dante, e in particolare della Comme-dia, non solo ha proseguito il cammino iniziato nell’Ottocento dai nu-merosissimi traduttori già sopra menzionati, ma ha anche tentato con successo, grazie anche ai nuovi strumenti filologici e alle nuove edi-zioni commentate della Commedia di cui si è giovata, di «dire (quasi) la stessa cosa» (Eco). Mi auguro soltanto che questa prima analisi sia riuscita a dimostrarlo. Restano tuttavia ancora aperte molte questioni: non ultima quella, secondo me molto importante, circa l’opportunità di mantenere la rima nelle traduzioni moderne. Si tratta di una discus-sione specifica che si inscrive nella più generale questione di come si devono tradurre oggi i testi medievali. Jacqueline Risset, nell’in-troduzione alla sua versione in francese della Commedia, riconosce che ogni traduzione è sempre una “riduzione”, e che pertanto è inutile tentare di mantenere la terza rima senza che ciò crei delle ripetizioni eccessive e un’impressione di meccanicità, tradendo poi un principio essenziale dell’opera di Dante: «quello dell’invenzione sovrana, che colpisce e sconcerta il lettore a ciascun passo sulle vie sconosciute dell’altro mondo»39. Vengono qui a proposito le riflessioni che Mar-tínez de Merlo dedica alla rima nella sua Nota del traductor e che coincidono con quelle della traduttrice francese. Le registro alla fine della mia analisi sperando che possano essere utili a tutti quelli che si accingono al difficile compito della traduzione in versi rimati:

38. Si vedano, a titolo di esempio, la rivista di studi danteschi «Tenzone» e tut-ta l’attività critica che gira attorno ad essa; anche il mio, Il dantismo contemporaneo in Spagna. Primo bilancio cit.

39. Si veda Traduire Dante in D. Alighieri, La divine comédie, traduction de J. Risset, Paris 1985, p. 21, cit. in U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano 2003, p. 186.

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(…) he prescindido decididamente de la rima y he elegido como vehículo el endecasílabo blanco, conservando, eso sí, la disposición en tercetos. El oído actual se ha acostumbrado a lo largo del presente siglo, a la ausencia de rima en los textos en verso, y ya no necesita de las periódicas similicadencias para degustar el ritmo y la musicalidad de éstos; y el conservar la noción de rima (no “la rima”, pues obviamente no se conservan las rimas originales de Dan-te, sino que es necesario inventarse otras nuevas) obliga al traductor que tal intenta, a un tour de force excesivo; y, aunque en ocasiones los logros puedan ser espectaculares, en general la brillantez del resultado suele ir en detrimento de alguna o de las tres premisas que he planteado inicialmente40.

2. Ricezione dantesca nella letteratura ispanica novecentesca: María Zambrano e l’inizio della conoscenza poetica.

La percezione che i nostri tempi hanno dell’opera di Dante è simile a una serie di immagini risultanti dalla frantumazione di uno specchio che un tempo rifletteva un tutto integro. Incapace persino di immaginare la compiutezza e la sferica poliedricità di un’opera in cui erano contenuti tutti i sensi, alti e bassi, razionali e irrazionali, e in ultima istanza il Senso dei sensi, la modernità si lascia ammaliare dai bagliori che il poema dantesco continua ad emettere. La Comme-dia è irripetibile, lo si sa. Ne era ben consapevole Montale quando scriveva: «Poeta concentrico, Dante non può fornire modelli a un mondo che si allontana progressivamente dal centro e si dichiara in perenne espansione. Perciò la Commedia resterà l’ultimo miracolo della poesia mondiale»41. I riferimenti moderni al sommo poeta sono simili ai sassi che un tempo formavano una grande montagna, ormai franata, o ai riflessi dorati di un sole già tramontato. Possiedono tutta la magia e la potenza evocatrice delle rovine e colpiscono comunque per la loro forza inusuale ed enigmatica e per la loro densità icastica e metaforica. I passi, i nomi, le brevi sequenze, le lievi tracce di una campata o di un arco che riappaiono nelle opere moderne sono ricordi, o poco più, della monumentale architettura del poema. Ecco quindi, nella letteratura moderna spagnola, i tanti titoli allusivi: La mitad de la vida, di A. Cánovas del Castillo, A mitad del Camino

40. Martínez de Merlo, Nota del traductor cit., pp. 61-62.41. E. Montale, “Esposizione su Dante”, in Il secondo mestiere, a c. di G.

Zampa, 2 voll. Milano, 1996, II, Prose 1920-1979, pp. 2668-2690, p. 2689.

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(1944), di L. Fernández Ardavín, o En medio del camino (1971), di Ángel Crespo; le citazioni di versi e momenti dell’opera dantesca in poeti come Pedro Salinas42, Juan Gil-Albert43 e Eloy Sánchez Rossil-lo44 o di narratori quali Gonzalo Torrente Ballester45 o Luis Goytiso-lo46. Nel panorama della narrativa spagnola moderna quest’ultimo è forse l’autore che ha fatto un riuso più massiccio, per quanto ironico, della Commedia. Tuttavia qui vorrei soffermarmi sul Dante di María Zambrano per mettere in rilievo non tanto l’ampiezza delle sue fre-quentazioni con l’opera del fiorentino quanto la loro profondità e continuità negli anni.

María Zambrano (Vélez-Malaga, 1904 - Madrid 1991) è una si-gnificativa figura del pensiero spagnolo del Novecento. Fu una delle prime donne spagnole ad intraprendere la carriera universitaria in un contesto storico-sociale, quello della Spagna degli anni Trenta, in cui «una filosofa (…) era quasi `una donna barbuta’, un’eresia, una curiosità da circo»47 e una delle maggiori rappresentanti della cultura repubblicana in esilio, da lei intrapreso fin dal gennaio 1939, giorno in cui attraversa il confine francese insieme ad alcuni familiari per poi stabilirsi in diversi paesi dell’America centrale, come il Messi-co, Puerto Rico e soprattutto Cuba, dove insegnerà in varie univer-sità, fino al 1964, anno del suo rientro in Europa, allorquando fissa la sua residenza prima a Roma – da dove si allontana in seguito alle denunce dei vicini provocate dal gran numero di gatti che accoglieva nel suo appartamento – e poi nei boschi del Jura francese. L’esilio è dunque un’esperienza che l’accomuna a Dante, l’«eterno esiliato»:

42. La voz a ti debida, Buenos Aires, 1934. Si veda a questo proposito, R. Pinto, Irradiazioni di Francesca nella letteratura spagnola Miguel de Cervantes, Gustavo Adolfo Bécquer, Pedro Salinas, in Un bacio, un mito…, Giornate interna-zionali di studio dedicate a Francesca da Rimini. Seconda edizione (Rimini, 4-6 luglio 2008), Rimini 2009, pp. 85-98.

43. Ai suoi rapporti con Dante ha dedicato alcune pagine J. Arce, Il ricordo della “Divina Comedia”, in «Dante Studies», 5 (1982), 1: “Dante in the Twentieth Century”, pp. 72-74.

44. Nato nel 1948 Intitola una sua poesia Nel mezzo del cammin appartenente al libro Elegías (1984).

45. J. Arce, Il ricordo della “Divina Comedia” cit., pp. 75-76.46. Ibid., pp. 76-77. 47. Cfr. A. Galotti, D. Fusaro, María Zambrano, in http://www.filosofico.net/

zambrano.htm.

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A Dante successe di dover pagare la propria lealtà intatta con esilio, povertà, soggezione a occupazioni equivoche, condanna a morte crudele e infamante a un tempo: solitudine.La trama della sua vita non mostra quasi altra cosa, la trama della sua vita, la materia dei suoi sogni. E insieme la sua esperienza. Molti uomini del tempo di Dante passarono per situazioni analoghe e molti ne vennero letteralmente consumati, mentre lui riuscì a trasformare quel fuoco su cui la sua città lo aveva condannato a morire arso, in un fuoco che lo fece vivere ardendo fino alla morte. La sua opera travalica il destino. Ma fu ne-cessario sopportare quel destino per portarla a compimento. Se sperimentare un destino siffatto non è sufficiente per creare la Divina Commedia o l’intera opera che, essendo dello stesso autore, impallidisce un poco sotto lo splendore di quella, tuttavia non sarebbe stato possibile portare alla luce tenebre tanto profonde e far discendere tanto celestiale chiarore, senza essere passato in vita, per opera delle circostanze storiche e dell’amore, attraverso tanti inferni, purgatori e cieli48.

Nella sua opera l’esilio trascende la vicenda personale e storica per diventare cifra di un rituale iniziatico, di un’esperienza di an-nullamento e di rinascita. L’esilio è anch’esso in qualche modo un «incipit» di una «vita nova»49.

Sono diversi i momenti della sua vasta opera in cui l’autrice andalusa si trattiene a riflettere su Dante. La studiosa italiana Elena Laurenzi50, nella sua lunga e interessantissima premessa all’edizione di due inediti della Zambrano su Dante, pubblicati con il titolo Dan-te specchio umano51, fa il punto della situazione proprio sul rappor-to fra l’opera dantesca e il pensiero della Zambrano, chiarendo tra l’altro i tempi e i modi con cui essa si è avvicinata al fiorentino. È probabile che avesse letto la Commedia e la Vita nuova per la prima volta in piena adolescenza e che negli anni universitari le fosse stata proposta la rilettura da Ortega y Gasset, il quale spesso e volentieri

48. M. Zambrano, Dante specchio umano, edizione con testo a fronte, tradu-zione, prologo e note di E. Laurenzi, Roma 2007, p. 65.

49. Si veda il recente articolo di M. B. Spanu, La metafora dell’esilio e il suo significato filosofico nella riflessione di María Zambrano, in «Rocinante. Rivista di filosofia iberica e iberoamericana», 4 (2009), pp. 183-192.

50. Che a María Zambrano ha dedicato, insieme a molti interessantissimi la-vori, la tesi di dottorato dal titolo Una lectura de María Zambrano (Universitat de Barcelona, 2000), diretta dalla professoressa Fina Birulés, a cui ringrazio per aver-mi prestato il libro Dante specchio umano senza il quale non avrei potuto redigere queste pur minime note.

51. Zambrano, Dante specchio umano cit., pp. 7-56.

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citava Dante nelle sue lezioni, come ricorda anche José Bergamín52; così come è molto probabile che le celebrazioni dantesche del 1965 nel settimo centenario della nascita del poeta siano state un’altra oc-casione di contatto con l’opera dantesca53. Sicuramente nel febbra-io 1966 scrisse almeno uno di quei due saggi, nei quali concepisce Dante come uno “specchio” che pone in “rapporto” tutte le cose esi-stenti. L’uomo è un orizzonte che media fra i due emisferi: la bestia e l’angelo, l’irrazionale e il razionale. In Dante troviamo la condizio-ne umana in tutta la sua pienezza, la completa attuazione delle sue possibilità: «fin qui può abbassarsi l’uomo, fin lì può ascendere (…). A quest’idea verificata dall’esperienza risponde l’opera di Dante»54. Perché Dante appartiene all’epoca, a memoria umana, meno scissa, quella in cui l’uomo percepisce la sua esistenza all’interno di un uni-verso concentrico, «unitario in forma pluricircolare», nel cui centro è la divinità, la quale è nel cuore dell’uomo come in uno specchio. Questo è il vero significato di Emanuele, uno dei nomi del Creatore: Dio nell’uomo. E lì, nel cuore dell’uomo, si manifesta non solo in forma di ragione ma di sentimento. «Una ragione trascendente che muovendo dalla divinità attraversava l’intera creazione e stabiliva una dimora prediletta nella mente umana»55. Una ragione illuminata dalla fede e dall’amore che permetteva alla mente di viaggiare «per i mondi diversi che compongono l’universo visibile e l’invisibile»56. Nel peregrinare del poeta-personaggio tra i due opposti estremi, la gravità e l’ingravità, Zambrano coglie significativamente questo ri-specchiarsi dell’universo nel cuore umano:

L’esperienza è realizzata dal centro, dove il cerchio più ampio racchiude e deter-mina gli altri; tutte le esperienze assumono questa figura perfetta che è il cerchio,

52. «Ningún libro se ha escrito en el mundo que contenga ese poder mágico de ensonación espiritual, tan intenso, tan vivo… Cuando cerramos los ojos después de leerlo, tan vivo – nos dice el filosofo [appunto Ortega] – sentimos en la mano el dulce peso de un montón de preciosa pedrería» in J. Bergamín, Fronteras infernales de la poesía, Madrid 19802, p. 36 (tr. it. Frontiere infernali della poesía, intr.. di María Zambrano, Firenze 1963).

53. E. Laurenzi, La sete naturale, in Zambrano, Dante specchio umano cit., pp. 10-11.

54. Ibid., p. 61.55. Ibid.56. Ibid.

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in cui le cose si ordinano nella loro massima visibilità. Ma succede qualcosa di strano e forse non conforme con l’immagine geometrica che spontaneamente si forma nella nostra mente. Perché il cerchio più ampio è il più interno, il più vici-no al centro, e il centro è l’infinito stesso. È il più ampio dunque, ma non in senso strettamente spaziale, poiché spazio e tempo sono stati trascesi, siamo oltre57.

In questo viaggio di conoscenza una particolare funzione svolge Beatrice, sia quella della Vita nuova (VN) che quella della Comme-dia: l’una terrena e l’altra celeste. Scrive Zambrano, «risulta quasi impossibile pensare che non ci siano due Beatrici sotto lo stesso nome»58, e mai la prima è annullata dalla seconda. La sua comparsa segna, come è risaputo, un prima e un dopo nel pensiero, nella vita e nell’opera di Dante. L’«origine» della conoscenza è uno dei momen-ti in assoluto che più affascinano Zambrano, quello che traccia una soglia a partire dalla quale mai niente sarà come prima, neanche la propria vita. L’«iniziazione» è quindi il tema fondamentale nel pen-siero della Zambrano. Utilissime sono, in questo senso, le pagine in cui Elena Laurenzi ricostruisce i suoi contatti con le letture di Dante compiute in chiave gnostica, mistica ed esoterica – dal Foscolo al Valli –59, in particolar modo con la mistica islamica, messa in primo piano all’inizio del Novecento dal connazionale Asín Palacios60. Alla catabasi in sé, propria secondo lei della mistica islamica, preferisce l’idea del percorso che porta dall’oscurità alla luce, dalla gravità alla leggerezza dell’aria. Da qui deriva il grande valore che essa attribu-isce alla Vita nuova. Nel capitolo introduttivo a Claros del bosque, uno dei suoi libri più ispirati, la scrittrice ci ricorda l’episodio del “gabbo”61 di VN XIV, quando avviene quella “svolta” decisiva che

57. Zambrano, Dante specchio umano, cit., p. 77. Riflessioni che sembrano proprio dar ragione alle conclusioni a cui di recente è arrivato anche H.-R. Patapie-vici nel suo libro Gli occhi di Beatrice, in cui si rappresenta la cesura cosmologica che avviene nei canti 27-28 del Paradiso come un’ipersfera, cioè la sola figura geometrica che spiega quella sorta di rovesciamento che si da alla fine dell’ultima cantica per cui l’Empireo e le sfere dei cieli visibili dovrebbero essere tangenti in tutti i punti della loro superficie, nel cui centro unitario ci deve essere il Creatore, che è al contempo centro e circonferenza.

58. Zambrano, Dante specchio umano cit., p. 67.59. Laurenzi, La sete naturale cit., pp. 22-29.60. Ibid., pp. 17-19. 61. Per il quale si vedano le illuminanti parole di M. Picone in “Vita Nuova” e

tradizione romanza, Padova 1979, p. 126: «I termini che entrano nel sapiente gioco

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segnerà la vita intellettuale e poetica di Dante in seguito menzionata anche nel poema62:

En la escena de las bodas, único momento en que Dante encuentra cara a cara a Beatriz, la ve burlarse al modo de una dama sin más, con sus amigas, de la turbación que el enamorado sin par experimenta al verla vecina, y el amigo introductor – guía – le pregunta por la causa de tanta turbación. Io tenni li piedi in quella parte de la vita di là de la quale non si puote ire più per inten-dimento di ritornare63.

Ecco il momento esatto in cui avviene l’iniziazione, l’«incipit vita nova». In esso la nostra autrice riconosce il “metodo”64 della conoscenza, sorto puntualmente in un glorioso istante di lucidità che si situa al di là della coscienza e che la inonda. Questo metodo non può essere provocato se non dall’allegria di un essere fino a quel momento occulto che proprio allora comincia a respirare e a vivere, «porque al fin ha encontrado el medio adecuado a su hasta entonces imposible o precaria vida»65. Si tratta del luogo in cui sono nati gli esempi del metodo cartesiano, gli istanti che precedono l’incontro di Agostino con quella verità che vivificherà il suo cuore, così come

scenico sono tre: la “trasfigurazione” dell’io che produce, come reazione della Don-na, il “gabbo”, mentre dovrebbe (agli occhi dell’io provocarne la “pietà”. La “tra-sfigurazione” è la modalità dell’incontro mistico: rappresenta anzi la sola via che possa immettere l’uomo nel cerchio della perfezione divina senza che le limitazioni storiche e terrene vengano infrante. (…) La spinta che aziona il movimento verso l’alto è ancora troppo debole perché la proiezione extra-terreste e l’ansia di eterno dell’io possano dirsi realizzate». Si veda anche l’edizione castigliana D. Alighieri, Vida nueva, ed. bilingue a c. di R. Pinto e Luis Martínez de Merlo, Madrid 2003.

62. “«Come vedremo – scrive Zambrano in Dante specchio umano cit., p. 67 –, già nella Vita Nuova appaiono parole rivelatrici del fatto che l’amore lo condusse fino ai confini estremi della vita, che si tratta di un amore che trasforma, che di un semplice uomo quale era Dante fa un uomo nuovo; un amore che lo portò a morire e rinascere, per quanto è possibile restando un abitante della terra».

63. Questo stesso episodio lo ricorda anche in Dante specchio umano, cit., p. 87.

64. Sono molte le pagine che Zambrano ha dedicato a la questione del “me-todo” nella filosofia, si vedano, ad esempio, Del método en filosofía o de las tres formas de visión, in «Río Piedras», 1 (settembre 1972), pp. 99-117 o Notas de un método, Madrid 1989. Forse più che di “nuovo metodo” bisognerebbe parlare di “negazione del metodo cartesiano” di accesso alla verità, per cui si ipotizza la via della “ragione poetica”.

65. M. Zambrano, Claros del bosque cit., p. 15.

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l’intera Vita nuova di Dante, «enigmático breviario sinuoso, espiral que avanza y retrocede para en un instante retrobarse por entero»66. Quando l’amore entra in gioco il centro dell’essere è svegliato. L’amore è qualcosa che muove e genera la conoscenza, una strada pericolosa che bisogna percorrere per raggiungere una “nuova ra-gione”, senza più paradossi, e che dovrebbe corrispondere anche a una “nuova vita”. L’amore rappresenta quindi una “trasfigurazione” (VN XIV 7 e XV 1) che, affinando l’essere che lo subisce e lo sup-porta, ne sposta il suo centro di gravità, trasferendolo a quello della persona amata (poetica della lode), e dando inizio al vivere “fuori di sé” per vivere “oltre sé stessi”.

Vivere disposti al volo, pronti a qualunque partenza. È il futuro inimmaginabi-le, l’irraggiungibile futuro di quella promessa di vita vera che l’amore insinua in chi lo sente67.

Quello che Dante ha sperimentato è qualcosa di più dell’amore umano. «Beatrice – scrive Zambrano in Dante specchio umano – manifesta e veglia a un tempo un’esperienza di conoscenza amorosa che secoli dopo si sarebbe detta mistica»68. Ma non si tratta di un amore «etereo e disincarnato», bensì di una “scala” alla cui base c’è l’incontro «con una donna in carne e ossa, la cui fisica prossimità altera e sconvolge la mente»69. Un incontro coincidente con il punto di svolta del suo pensiero, che è fonte di illuminazione, specchio che congiunge realtà visibile e invisibile, corporeità e incorporeità, che piega il percorso dalla tragedia alla speranza. Un itinerario di espiazione e di riscatto che deve passare necessariamente attraverso una svolta o capovolgimento profondi e alchemici – punto questo di discrepanza rispetto a Asín Palacios, in quanto l’escatologia musul-mana non contempla nessun tipo di riscatto dagli Inferi:

L’inferno di Dante non corrisponde a quello dell’Islam, anche se ha la stessa forma (…): che l’essenziale dell’Inferno di Dante è che da esso c’è uscita, che differisce dai Luoghi dei viaggi islamici che Asín Palacios ritiene iden-tici, senza rendersi conto del fatto che in quei luoghi visitati da Maometto o da chicchessia, non si fa nulla, mentre Dante e Virgilio fanno qualcosa e a

66. Ibid., p. 1667. M. Zambrano, L’uomo e il divino, Roma 2001, p. 252.68. Ead., Dante specchio umano cit., p. 67.69. Cfr. Laurenzi, La sete naturale cit., p. 45.

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partire da questa azione escono. Asín non coglie neanche il significato della presenza di Santa Lucia, luce che discende fin nelle tenebre, viatico della luce nel cuore70.

In conclusione spero di essere riuscito a dimostrare in queste pagine che Dante, pur all’interno dell’atomizzata e parziale ricezio-ne moderna della sua opera, impegna tuttora traduttori, filologi e artisti in svariate tipologie di studi e di creazioni artistiche, diven-tando perno attorno al quale si continua a riflettere sulla teoria della conoscenza, su una gnoseologia non scissa tra cuore e mente, su una ragione poetica appunto.

70. M. Zambrano, Lettera a Elena Croce del 20 dicembre 1969 (inedita), Ar-chivio della Fondazione María Zambrano, cit. ibid., pp. 18-19.