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Quando a Milano c’era Montini >>>> Luigi Covatta >>>> biblioteca / anteprima biblioteca / anteprima / / / / mondoperaio 2/2009 / / 81 / / Presso le Edizioni Diabasis, a cura di Massimo Campedelli, sta per essere pubblicato Creare soggetti. Dialoghi con Bepi Tomai, formatore umile e gentile. è una raccolta di scritti in memoria di Bepi Tomai, dirigente delle ACLI ed esperto di formazione, prematuramente scomparso qualche anno fa. Il volume raccoglie, fra gli altri, scritti di Alberto Valentini, Roberto Biorcio, Salvatore Natoli, Emanuele Ranci Ortigosa, Tito Boeri. Pubblichiamo di seguito il contributo di Luigi Covatta, dedicato alla Milano degli anni ’60. I l pomeriggio del sette ottobre 1962 Bepi lo passò in Que- stura. Era stato preso a porta Genova, davanti al consolato spagnolo, insieme con Fabrizio Onida (presidente della FUCI milanese, di cui Bepi era il vice), ed insieme con gli altri responsabili dei movimenti giovanili milanesi, liberali com- presi. A porta Genova c’erano andati per scongiurare l’esecu- zione di un anarchico catalano, Jorge Conill, condannato a morte da un tribunale franchista. Per lo stesso motivo qualche giorno prima due studenti avevano sequestrato il viceconsole spagnolo a Milano 1 . Ma i manifestanti del sette ottobre dimenticarono di condannare il sequestro, così come lo dimenticò il cardinale Montini nel messaggio indirizzato a Franco su sollecitazione di Onida e Tomai 2 . E’ bene non nascondere che i meravigliosi anni sessanta a Milano furono anche questo. Del resto finirono con le bombe di piazza Fontana, che non furono, come dirà poi Adriano Sofri, l’occasione per “la perdita dell’innocenza” da parte del movimento studentesco 3 . Semplicemente rinfocolarono, fino all’incendio degli anni settanta, una brace che era rimasta accesa dai tempi di piazzale Loreto, e che la presenza di regi- mi fascisti in Spagna, Portogallo e Grecia aveva continuato ad alimentare. Eravamo strabici, noi che eravamo giovani negli anni sessan- ta. Non solo rispetto ai totalitarismi, uno solo dei quali deplo- ravamo e combattevamo (d’altronde nel 1956 eravamo ragaz- zini, e ci avrebbe comunque ripugnato scendere in piazza coi fascisti). Eravamo strabici anche rispetto al rapporto fra fini e mezzi. Perfino chi, come Bepi, era lettore devoto di Norberto Bobbio e di Uberto Scarpelli veniva indotto dal senso comu- ne dell’epoca ad eludere la questione principale che essi ponevano, e cioè se il fine giustificasse i mezzi. Bobbio lo studiavamo in FUCI. Nel 1963 Franco Bassanini e Valerio Onida, freschi di laurea, avevano organizzato un cor- so seminariale sul pensiero politico di Bobbio e Maritain. Anche di Umanesimo integrale, peraltro, più che l’antima- chiavellismo ci convinceva la distinzione fra città di Dio e cit- tà dell’uomo, fra azione cattolica e azione politica. Del resto direttore de L’Italia, il giornale della Curia, era Giuseppe Lazzati, che nel ’50 aveva dato fastidio a molti rivendicando la distinzione dei piani su Cronache sociali. E Lazzati era il nume tutelare anche di un’altra pubblicazione, Relazioni sociali, che Wladimiro Dorigo, il direttore di Questitalia, da Venezia definiva ironicamente “la sinistra del Cardinale” per- ché notoriamente promossa e finanziata da Montini 4 . Al quindicinale (diretto da Emanuele Ranci Ortigosa, la cui fine cultura generalista era probabilmente la sola che potesse dare un senso agli intensi specialismi dei suoi redattori) col- laboravano fra gli altri Ruggero Orfei, Valerio e Fabrizio Oni- da, Luigi Frey, Pippo Ranci, Franco Bassanini, Marco Garzo- nio, Silvio Raiteri, Giorgio Battistacci, Giampaolo Meucci, Giacomo Corna Pellegrini, Guido Baglioni, Giangiacomo Migone, Pierangelo Schiera, Giancarlo Lizzeri, Angelo Caloia, Mario Cuminetti. Oltre a Lazzati punti di riferimento erano anche Piero Bassetti, Francesco Alberoni, Nino Andreatta, padre Macchi di Aggiornamenti sociali (la rivista dei gesuiti di san Fedele), e don Pino Colombo, il fratello di Vittorino, che da docente di teologia a Venegono già nei pri- mi anni ‘50 aveva sostenuto (in polemica con padre Messineo della Civiltà cattolica) la liceità della collaborazione fra cat- tolici e socialisti. Riferimenti erano anche i bolognesi del

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Presso le Edizioni Diabasis, a cura diMassimo Campedelli, sta per esserepubblicato Creare soggetti. Dialoghi con BepiTomai, formatore umile e gentile. è unaraccolta di scritti in memoria di Bepi Tomai,dirigente delle ACLI ed esperto di formazione,prematuramente scomparso qualche anno fa.Il volume raccoglie, fra gli altri, scritti diAlberto Valentini, Roberto Biorcio, SalvatoreNatoli, Emanuele Ranci Ortigosa, Tito Boeri.Pubblichiamo di seguito il contributo di LuigiCovatta, dedicato alla Milano degli anni ’60.

Il pomeriggio del sette ottobre 1962 Bepi lo passò in Que-stura. Era stato preso a porta Genova, davanti al consolato

spagnolo, insieme con Fabrizio Onida (presidente della FUCImilanese, di cui Bepi era il vice), ed insieme con gli altriresponsabili dei movimenti giovanili milanesi, liberali com-presi. A porta Genova c’erano andati per scongiurare l’esecu-zione di un anarchico catalano, Jorge Conill, condannato amorte da un tribunale franchista. Per lo stesso motivo qualchegiorno prima due studenti avevano sequestrato il viceconsolespagnolo a Milano1. Ma i manifestanti del sette ottobredimenticarono di condannare il sequestro, così come lodimenticò il cardinale Montini nel messaggio indirizzato aFranco su sollecitazione di Onida e Tomai2.E’ bene non nascondere che i meravigliosi anni sessanta aMilano furono anche questo. Del resto finirono con le bombedi piazza Fontana, che non furono, come dirà poi AdrianoSofri, l’occasione per “la perdita dell’innocenza” da parte delmovimento studentesco3. Semplicemente rinfocolarono, finoall’incendio degli anni settanta, una brace che era rimastaaccesa dai tempi di piazzale Loreto, e che la presenza di regi-mi fascisti in Spagna, Portogallo e Grecia aveva continuato adalimentare.

Eravamo strabici, noi che eravamo giovani negli anni sessan-ta. Non solo rispetto ai totalitarismi, uno solo dei quali deplo-ravamo e combattevamo (d’altronde nel 1956 eravamo ragaz-zini, e ci avrebbe comunque ripugnato scendere in piazza coifascisti). Eravamo strabici anche rispetto al rapporto fra fini emezzi. Perfino chi, come Bepi, era lettore devoto di NorbertoBobbio e di Uberto Scarpelli veniva indotto dal senso comu-ne dell’epoca ad eludere la questione principale che essiponevano, e cioè se il fine giustificasse i mezzi. Bobbio lo studiavamo in FUCI. Nel 1963 Franco Bassanini eValerio Onida, freschi di laurea, avevano organizzato un cor-so seminariale sul pensiero politico di Bobbio e Maritain.Anche di Umanesimo integrale, peraltro, più che l’antima-chiavellismo ci convinceva la distinzione fra città di Dio e cit-tà dell’uomo, fra azione cattolica e azione politica. Del restodirettore de L’Italia, il giornale della Curia, era GiuseppeLazzati, che nel ’50 aveva dato fastidio a molti rivendicandola distinzione dei piani su Cronache sociali. E Lazzati era ilnume tutelare anche di un’altra pubblicazione, Relazionisociali, che Wladimiro Dorigo, il direttore di Questitalia, daVenezia definiva ironicamente “la sinistra del Cardinale” per-ché notoriamente promossa e finanziata da Montini4.Al quindicinale (diretto da Emanuele Ranci Ortigosa, la cuifine cultura generalista era probabilmente la sola che potessedare un senso agli intensi specialismi dei suoi redattori) col-laboravano fra gli altri Ruggero Orfei, Valerio e Fabrizio Oni-da, Luigi Frey, Pippo Ranci, Franco Bassanini, Marco Garzo-nio, Silvio Raiteri, Giorgio Battistacci, Giampaolo Meucci,Giacomo Corna Pellegrini, Guido Baglioni, GiangiacomoMigone, Pierangelo Schiera, Giancarlo Lizzeri, AngeloCaloia, Mario Cuminetti. Oltre a Lazzati punti di riferimentoerano anche Piero Bassetti, Francesco Alberoni, NinoAndreatta, padre Macchi di Aggiornamenti sociali (la rivistadei gesuiti di san Fedele), e don Pino Colombo, il fratello diVittorino, che da docente di teologia a Venegono già nei pri-mi anni ‘50 aveva sostenuto (in polemica con padre Messineodella Civiltà cattolica) la liceità della collaborazione fra cat-tolici e socialisti. Riferimenti erano anche i bolognesi del

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Mulino, i fiorentini di Politica, i genovesi del Gallo, oltre chei Siro Lombardini, gli Achille Ardigò, i Pasquale Saraceno, lepunte di lancia, insomma, di una cultura politica cattolica allaquale i ritardi della sinistra italiana avevano lasciato libero ilcampo del riformismo.

Cattolici acomunisti Come ho detto, non eravamo programmaticamente anticomu-nisti. Ma non eravamo nemmeno filocomunisti. A Milano, fral’altro, non attecchirono quelli che Spadolini, giocando sul-l’assonanza fra concilio e conciliazione, definì cattolici “con-ciliari”5. Eravamo semmai “acomunisti”, come si professavaRiccardo Lombardi, che nel 1945 era stato il primo prefetto diMilano dopo la liberazione, e che ora si batteva nel PSI peroffrire una sponda adeguata alla “apertura a sinistra” ormaientrata nell’orizzonte della DC dopo il disastro del governoTambroni6. Lombardi, del resto, ai comunisti non le mandavaa dire. Al X congresso del PCI, portando il saluto del suo par-tito, aveva diffidato Togliatti dal sabotare il centro-sinistrache stava nascendo e ne aveva sfidato le reticenze sul conflit-to cino-sovietico invitandolo a non polemizzare con “seicen-to milioni di albanesi”. Anche noi pensavamo che l’equivocodel comunismo italiano sarebbe stato sciolto se la collabora-zione fra cattolici e socialisti avesse avuto successo. In senoal mondo cattolico, però, nei primi anni ‘60 la questione eraancora controversa. A Vicenza c’era un vescovo che in un’o-melia aveva fatto ricorso al dizionario per spiegare ai fedeliche “destrezza” significa abilità e “sinistro” significa infortu-nio. Lo stesso Montini, che pure continuava ad incoraggiarela missione di Relazioni sociali, alla vigilia delle elezioni del1963 era intervenuto per impedire la candidatura di LuigiGranelli, considerato troppo radicale nel perorare l’apertura asinistra. Ed Aldo Moro, segretario della DC, conduceva unasilenziosa trattativa coi vescovi per ottenerne, se non il soste-gno, almeno la neutralità7. La distinzione fra “azione cattolica” e “azione politica”, quin-di, tornava di prepotente attualità, e Lazzati la riproponeva, dadocente di letteratura cristiana antica, col commento alla Let-tera a Diogneto, quella in cui si invitano i cristiani ad essereal tempo stesso stranieri e leali rispetto alla città dell’uomo.Ma a Milano, in quegli anni, su questi temi non ci si confron-tava soltanto con la gerarchia. Ci si confrontava, con risultatitalvolta paradossali, anche con un movimento che sotto laguida di don Giussani muoveva i suoi primi passi nei princi-pali licei cittadini. Fu grazie agli esiti paradossali di questoconfronto, fra l’altro, che alcuni di noi avevano ricevuto ilbattesimo di “cattolico democratico”. A me, per esempio,capitò di essere battezzato tale a quattordici anni, benché,come spesso accade, il sacramento mi venisse impartito exopere operato, a prescindere da un consapevole catecumena-to. Infatti mi ero limitato a candidarmi nelle elezioni per ildirettivo dell’Associazione studentesca pariniana senza sape-

re del non expedit che Gioventù studentesca aveva fulmina-to contro gli organismi rappresentativi degli studenti liceali,considerati concorrenti abusivi del proprio progetto formati-vo. Milano studenti, il mensile di GS diretto da Robi Ronza,deplorò la mia scelta. Per cui Libera critica, il mensile deglistudenti laici diretto da Piergaetano Marchetti, mi battezzòappunto “cattolico democratico”8.Bepi il liceo lo aveva fatto al Carducci, ed essendo un pocopiù vecchio di me non era incappato nel non expedit giessinoper la sua collaborazione al Mister Giosuè. Anche per questo,forse, era meno fazioso di me nel confronto con GS. Del restogià allora Bepi più che al politico era sensibile al sociale. E igiessini erano attenti al sociale molto più degli algidi intellet-tuali che frequentavano la FUCI, i quali svolgevano le loroopere di misericordia corporale un po’ burocraticamenteattraverso la San Vincenzo. I giessini invece la domenicaandavano “in Bassa” (nelle cascine, cioè, della Bassa milane-se, in cui ancora non c’erano il riscaldamento e l’acqua cor-rente), e presto si sarebbero interessati anche delle favelasbrasiliane, talvolta senza sfuggire a comportamenti borderline rispetto ai movimenti d’opposizione. Paradossalmenteerano più radicali di noi, forse perché rifiutavano la media-zione ideologica con cui noi elaboravamo la contraddizionefra città dell’uomo e città di Dio. E a loro volta venivano bat-tezzati cattolici integralisti ex opere operato.Bepi del resto era fra i fucini meno algidi. Non solo per l’in-dole, che gli faceva apprezzare la dimensione della convivia-lità, o per la solidità del riferimento familiare, che gli rispar-miava i tormenti antiautoritari della generazione dei baby-boomers. Soprattutto per la delicatezza dei suoi sentimenti,che gli consentiva di intuire nell’altro molto più di quello cheappariva. Credo che fra le sue migliori amiche, con cui rima-se in corrispondenza fino alla fine, sia stata una nostra com-pagna che dopo essersi laureata a pieni voti si fece monacatrappista.

Il boom, gli ultimi e gli immigratiMa l’attenzione di Bepi al sociale non dipendeva solo dallasua indole. Nella Milano del boom, infatti, i problemi socia-li non mancavano. Un giovane democristiano, Franco Verga,aveva dato vita addirittura ad un Centro di orientamento pergli immigrati, nel tentativo di offrire qualche accoglienzaalle centinaia di migliaia di meridionali che affluivano nellacittà e nell’hinterland9. E mentre il procuratore Spagnuoloimponeva l’oscuramento di alcune scene di Rocco e i suoifratelli, il film che Luchino Visconti aveva dedicato ai dram-mi dell’immigrazione, i comuni della cintura decuplicavanoin pochi mesi il numero dei propri abitanti e in città il valoredei suoli aumentava annualmente del doppio di quantoaumentasse a New York10.In FUCI, nel dopo-Montini era diventato assistente ecclesia-stico don Sandro Maggiolini, che non nascondeva né la sua

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simpatia per GS, né la sua viva intelligenza11. Infatti nellediscussioni con lui il discrimine non era quello, un po’ ambi-guo, fra “politico” e “sociale”, ma quello, più radicale, fratradizione e modernità. Noi, va sans dire, eravamo per lamodernità, anche perchè non immaginavamo che nellanostra vita ci saremmo dovuti misurare anche col postmo-derno. Ed eravamo, di conseguenza, in grande sintonia colConcilio e col suo proposito di valorizzare e addirittura diconsacrare i “segni dei tempi”. Nei primi mesi del Concilio Montini aveva programmato unacampagna di formazione nelle parrocchie milanesi, mobili-tando soprattutto i fucini. Io, durante una di queste conferen-ze, riconobbi nel pubblico Luigi Negri, che ora è vescovo diSan Marino ed allora era fra i dirigenti di GS. Mi stupii cheseguisse il mio discorso senza promuovere un contradditto-rio, ma mi stupii ancora di più quando, qualche giorno dopo,don Giussani mi contestò citazioni testuali del mio interven-to. Era lecita infatti anche la delazione nell’aspra confronta-tion fra fucini e giessini. All’Interfacoltà della Statale, quan-do si discusse una mozione di protesta contro il sequestrodell’edizione einaudiana dei Canti della Resistenza spagno-la, Giorgio Feliciani e Mirella Bocchini si presentarono col

registratore, onde documentare in Curia gli interventi anti-franchisti dei rappresentanti dell’Intesa cattolica, di cui face-va parte anche il presidente dell’assemblea, Emanuele Vinas-sa de Règny, che colse l’occasione per premettere al suointervento un ironico ossequio al Cardinale12. Per noi fu festa, quindi, quando nell’aprile del 1963 papaGiovanni pubblicò la Pacem in terris, il cui testo commenta-to Relazioni sociali diffuse in un volume con tanto di impri-matur concesso dalla Curia di Milano. Fra i commenti spic-cava quello di monsignor Agostino Ferrari-Toniolo (anchelui di estrazione fucina, e di cui si diceva che fosse stato fragli estensori della bozza dell’enciclica), il quale sottolineava“la capacità della Chiesa di delineare i presupposti di unaazione politica, senza che questo possa apparire come un’au-toritaria imposizione di concrete soluzioni politiche o comeun intervento che mortifichi la responsabile iniziativa” deilaici; mentre Emanuele Ranci definiva l’ispirazione cristiana“come il lievito dentro la pasta”, e negava che potesse esse-re l’ideologia di un partito; e Valerio Onida osservava checon l’enciclica la Chiesa per la prima volta riconosceva l’in-trinseco valore della democrazia pluralista (fino ad alloraaccettata quasi come un male minore) in quanto “risposta ad

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esigenze insite nella stessa natura degli uomini”, condannan-do invece “ogni forma di paternalismo, di assolutismo ancheilluminato, nell’organizzazione della comunità civile”13.Non fu festa, invece, quando due settimane dopo vedemmo irisultati delle elezioni politiche. Io non avevo ancora dirittodi voto (allora la maggiore età si conseguiva a ventuno anni),ma ero in piazza Cavour, davanti al palazzo dei giornali sul-la cui facciata comparivano gli exit poll di allora, quandovidi insospettabili professionisti ed eleganti signore festeg-giare alla maniera dei sanculotti l’inimmaginabile successodel partito liberale di Malagodi, che a Milano aveva ottenu-to il 20% dei voti. Per la DC l’apertura a sinistra cominciavamale. Doveva scegliere se avere la botte piena o la moglieubriaca: se inseguire cioè il suo elettorato, o se invece tenerfede alla sfida riformista concepita dal suo gruppo dirigentecol contributo di gran parte della cultura cattolica. Noi,ovviamente, eravamo per la moglie ubriaca. Ma non solo perquesto avremmo poi commentato aspramente la pretesa del-la maggioranza democristiana di avere anche la botte piena.Fu Ruggero Orfei, allora, a definire il doroteismo come “lacontinuità nell’apparente evoluzione, l’immobilismo nell’ap-

parente movimento”, e a individuare in esso, peraltro, la for-ma politica più omogenea al regime poliarchico che si anda-va affermando, nonché l’inevitabile condizione dell’unitàpolitica dei cattolici nella seconda fase della Repubblica14.

Movimentismo di necessit� Da allora, quindi, per molti di noi, che sulle promesse rifor-miste del centro-sinistra avevamo investito il nostro entu-siasmo e la nostra cultura, l’unità politica dei cattolicicominciò ad essere un problema, più che una soluzione. Nonavevamo, peraltro, alternative partitiche bell’e pronte. In piùeravamo abbastanza avvertiti del ruolo centrale della DC nelsistema politico per non capire che il superamento dell’uni-tà politica dei cattolici comportava una più complessivaristrutturazione del sistema stesso. Perciò ci dedicammo acreare quelle che ci sembravano le premesse della necessa-ria ristrutturazione. La pars destruens riguardava i “colla-teralismi”, individuati non solo nei legami fra l’associazio-nismo cattolico e la DC, ma più in generale nelle forme dipartitocrazia che allora, specialmente a sinistra, si esercita-

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vano sulla cultura, sul sindacato e sull’associazionismosociale. Per quanto ci riguardava, fra l’altro, badavamo a non getta-re il bambino con l’acqua sporca, perchè eravamo consape-voli che proprio in seno al nostro mondo si erano sviluppa-te le esperienze politico-culturali più vitali e aggiornate15.Per cui eravamo gelosi dell’autonomia dei movimenti, chepoi, per eterogenesi dei fini, sarebbe stato anche il brodo dicoltura del movimentismo del Sessantotto. Il quale Sessan-totto, del resto, cominciò in Cattolica prima che altrove, edebbe uno dei suoi epicentri in quella Facoltà di Sociologiadi Trento che a sua volta era in qualche modo una proiezio-ne del mondo cattolico milanese16.Milano, del resto, era allora il laboratorio ideale del progettoambizioso che più o meno consapevolmente perseguivamo, eche mirava a modernizzare il sistema politico valorizzando ifermenti revisionisti che si agitavano nella società civile. SulGiorno di Gaetano Baldacci (e poi di Italo Pietra) scriveva-no Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, Vittorio Emiliani, Etto-re Masina, Enzo Forcella ed Umberto Segre. La Casa dellacultura di Rossana Rossanda, il Piccolo Teatro di Paolo Gras-si, il Club Turati di Umberto Dragone, la Corsia dei Servi dipadre Turoldo, le ACLI di Vittorino Colombo, la FIM-CISLdi Pierre Carniti completavano il ricco carnet politico-cultu-rale di quella che era ancora la “capitale morale”. Anche il mondo universitario era di altissima qualità. In Sta-tale, sotto la guida illuminata di Caio Mario Cattabeni, inse-gnavano Mario Dal Pra, Enzo Paci, Ludovico Geymonat,Cesare Musatti, Lucio Gambi, Brunello Vigezzi, RenatoTreves, Uberto Scarpelli e un giovane Silvio Ceccato cheteneva cattedra di cibernetica formando filosofi per l’Oli-vetti di Ivrea; alla Cattolica, oltre a Lazzati, insegnavanoSiro Lombardini, Emanuele Severino, Francesco Alberoni,Nino Andreatta, Gustavo Bontadini, Gianfranco Miglio,Ezio Franceschini, Franco Cordero; la Bocconi cominciavaa non essere più l’università dei ragiunatt; e perfino al Poli-tecnico, mentre ad Ingegneria era ancora all’opera la scuoladi Giulio Natta, gli studenti di Architettura avevano datovita a un Sessantotto ante litteram. Fu anche in ragione di questo primato della cultura milane-se che alcuni di noi, a metà degli anni ’60, presero la stradaper Roma. Uno dei primi fu Bepi, la cui designazione inseno alla presidenza nazionale della FUCI non fu affattocasuale. Era capitato che la FUCI aveva ritirato il propriorappresentante, Fulvio Mastropaolo, dal vertice dell’Intesacattolica perché della giunta dell’UNURI (l’organismo rap-presentativo nazionale degli studenti), presieduta dal demo-cristiano Nuccio Fava, per la prima volta faceva parte ancheun comunista, Claudio Petruccioli17. Il vulnus era grave perun’associazione che si chiamava come si chiamava perchéin origine era stata costituita su un’intesa, appunto, framovimento giovanile DC, FUCI, GIAC e le Congregazionimariane universitarie legate alla Compagnia di Gesù. La

FUCI milanese, che non aveva condiviso le posizioni del ver-tice nazionale, non lo mandò a dire a don Franco Costa, assi-stente ecclesiastico nazionale, quando venne in visita in viaStatuto. Ovviamente noi non nutrivamo nessuna affezione peril mantenimento dell’insegna cattolica ad un’associazione dipolitica universitaria come era l’Intesa (che a Milano, fra l’al-tro, quell’insegna aveva da tempo dismesso). Ma non poteva-mo tollerare la sconfessione, che si palesava come un’inva-sione di campo della gerarchia rispetto all’autonomia del lai-cato. Il compromesso, costruito da Bassanini, fu che Bepisostituisse Mastropaolo nella presidenza nazionale dellaFUCI ma non nel vertice dell’Intesa, per il semplice motivoche questa contestualmente rinunciava all’insegna cattolicaanche a livello nazionale e diventava più laicamente “Intesauniversitaria”, senza membri di diritto nel suo direttivo18.Bepi rinunciò così a una carriera universitaria che, nella sciadi Bassanini e di Onida, avrebbe potuto probabilmente intra-prendere con successo. Fu il primo dei tanti atti di generositàdi cui è stata costellata la sua vita. Non scelse però neanche lacarriera politica, come poi feci io che a mia volta mi ero tra-sferito a Roma per guidare l’Intesa nel suo primo tratto diautonomia. A Roma noi due neanche ci vedevamo. Frequen-tavamo ambienti diversi, perché lui aveva preso sul seriol’impegno alla FUCI ed anzi in esso probabilmente aveva tro-vato anche le prime occasioni per riflettere sulla formazionedel capitale umano. Ci vedevamo soprattutto in via Montedella Farina, alle ACLI, dove Labor aveva insediato il quar-tier generale dell’azione contro i collateralismi, culminata nel1966 nella tavola rotonda sull’unità sindacale in cui Foa eDonat Cattin, Santi e Carniti, Benvenuto e Trentin bocciaro-no i sindacati di partito. E qualche volta ci vedevamo di fron-te a Montecitorio, in quella che era stata la sede del Mondo diPannunzio, dove nel 1967 si era trasferito Ruggero Orfei perdirigere Settegiorni, un settimanale che in qualche modo erala prosecuzione di Relazioni sociali con altri mezzi.

Quella sera a piazza FontanaCi vedevamo più spesso a Milano. A Milano ci vedemmoanche la sera del 12 dicembre 1969, quando venne a prender-mi alla stazione. Avevo viaggiato tutto il giorno, e fu lui a dir-mi di piazza Fontana. Non ci passò neanche per la testa diavere diritto, per quello che era successo, a “perdere l’inno-cenza” ed a reagire con la violenza alla violenza. Forse per-ché innocenti non eravamo stati sette anni prima a portaGenova, e l’innocenza cominciavamo a conquistarla propriomisurandoci con l’iperbole della strage. Senz’altro perchécapimmo, grazie a Bobbio e a Scarpelli, a Maritain e a Laz-zati, che solo da innocenti avremmo potuto vendicare sia levittime della Banca dell’Agricoltura che i capri espiatoricome Pinelli e Valpreda. La Milano degli anni ’60 fu anche questa: quella che scese inpiazza col sindaco Aniasi e seguì l’inchiesta sulla strage con-

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frontando la libera informazione del Giorno di Italo Pietra edell’Avanti! di Gaetano Arfè con le veline della Questura cheil Corriere metteva in pagina con la stessa disinvoltura concui oggi si mettono in pagina i brogliacci delle intercettazio-ni telefoniche19. Una Milano diversa da quella che poi videcadere Alessandrini e Tobagi, e diversissima da quella delletricoteuses dei primi anni ’90. Anche in quei decenni successivi Bepi restò innocente. Nonsi fece abbagliare dal dolore per gli amici assassinati perabbracciare teoremi come quello enunciato da Guido Caloge-ro nel 1979. Né si fece condizionare dall’adesione, negli anniOttanta, alla Società civile di Gherardo Colombo e NandoDalla Chiesa per fare di ogni erba un fascio nelle radiose gior-nate del “popolo dei fax”. Seppe distinguere, grazie allo spi-rito critico acquisito leggendo Bobbio e Maritain. E forseanche grazie a quei peccati di gioventù del 1962, che gli con-sentirono di essere giusto senza essere legalitario, di stare congli ultimi senza essere populista, di combattere senza mai sca-gliare la prima pietra; e grazie all’anonimo corrispondente diDiogneto, che gli aveva insegnato ad essere barbaro coi bar-bari, greco coi greci, esercitando la scepsi di chi sa che c’è unoltre, e la carità di chi di essa non si fa scudo per ignorarequello che vede.

1 Autori del sequestro furono l’anarchico Vittorio De Tassis e il socialista

Giorgio Bertani.

2 In realtà l’iniziativa fu di don Giovanni Barbareschi, prete partigiano ed

allora assistente ecclesiastico della FUCI milanese, che poche settimane

dopo venne trasferito in un eremo remoto della Valchiavenna. Onida e

Tomai, comunque, si assunsero la responsabilità del telegramma col qua-

le si chiedeva a Montini di intervenire per ottenere la sospensione dell’e-

secuzione. Il Cardinale intervenne, esponendosi a una durissima replica

del governo spagnolo, che fra l’altro stigmatizzò l’omissione di ogni rife-

rimento al sequestro del suo funzionario (Il Giorno del 9 ottobre 1962).

3 Il Corriere della sera del 2 aprile 2004.

4 La missione che il Cardinale aveva affidato fin dal 1959 a quel gruppo di

giovani scelto fra i fucini e gli assistenti della Cattolica era quella di pre-

parare i cattolici a una collaborazione non subalterna con i socialisti. Nei

primi anni Relazioni sociali non era una rivista, ma un’agenzia stampata a

ciclostile che si rivolgeva alle testate diocesane e parrocchiali, le quali ne

potevano liberamente riprodurre gli articoli.

5 Che invece pullulavano a Firenze, fino ad indurre Mario Gozzini a pub-

blicare presso Vallecchi, nel 1964, un volume (Il dialogo alla prova) in cui

cinque comunisti e cinque cattolici confrontavano le loro tesi. Neanche il

cattocomunismo di Franco Rodano aveva mai attecchito a Milano.

6 La vicenda Tambroni determinò anche il disgelo dell’intellettualità catto-

lica, che per tutti gli anni ’50, dopo la crisi della GIAC, era stata usa a

obbedir tacendo (su quel pregresso è ora utile leggere F. PIVA, La gioven-

tù cattolica in cammino, Milano, 2003). Ettore Passerin d’Entrèves, che

allora insegnava storia moderna alla Cattolica, promosse un manifesto di

intellettuali cattolici contro Tambroni. Gianni Baget Bozzo, invece, che

era stato il più vivace fra i giovani dossettiani, difese Tambroni dalle

colonne di un mensile fondato alla bisogna, Lo Stato.

7 Vedi ora A. D’ANGELO, Moro, i vescovi e l’apertura a sinistra, Roma,

2005.

8 Personalmente, dopo il battesimo di Libera critica, venni poi cresimato

come “cattolico democratico” da Aldo Tortorella, capogruppo del PCI in

Consiglio comunale, che contro l’oscurantismo clericale della Curia e del-

la Democrazia cristiana brandì un mio articolo. Anche allora, però, mi

accostai inconsapevolmente al sacramento. Era successo che il Piccolo

Teatro aveva messo in cartellone la Vita di Galileo di Brecht, e che io

dovevo recensirlo per La Strada, mensile della FUCI milanese, i cui tem-

pi di stampa preindustriali imponevano di consegnare i pezzi con due mesi

d’anticipo. La mia recensione, quindi, fu compilata a freddo, prima che

Strehler mettesse in scena l’opera, ma soprattutto prima che la Curia mila-

nese scatenasse l’inferno contro quella rappresentazione.

9 Poi Verga, negli anni ’80, finì travolto da un dissesto finanziario e morì

suicida. Ma il cattivo esito della sua iniziativa non ne sminuisce i meriti

che essa conseguì al suo avvio.

10La Procura di Milano, a metà degli anni ’60, fu protagonista di un altro

evento repressivo, quello nei confronti dei tre redattori della Zanzara, il

giornale d’istituto del Parini, che avevano pubblicato un’inchiesta sul

comportamento sessuale dei giovani. Gli autori dell’inchiesta (Claudia

Beltramo Ceppo, Marco De Poli e Marco Sassano) subirono perfino il rito

della perquisizione corporale, ai sensi di una desueta circolare del 1934

destinata a verificare, un po’ lombrosianamente, la capacità di delinquere

dei minori. Il PM Carcasio, invece, che aveva adottato la discutibile pro-

cedura, non solo non subì provvedimenti disciplinari, ma ebbe la soddi-

sfazione di vedere costretto alle dimissioni il presidente dell’Associazione

nazionale magistrati, Berruti, che lo aveva criticato.

11Dopo l’allontanamento di don Barbareschi era diventato assistente della

FUCI don Giorgio Basadonna, meno battagliero del predecessore, ma fer-

mo nel difendere la linea dell’associazione.

12In Curia, per la verità, presto ne ebbero le tasche piene dei nostri litigi.

Tanto che nell’autunno del 1963 don Cesare Pagani, al quale Montini, pri-

ma di diventare Papa, aveva affidato la delega per i movimenti di azione

cattolica, ci impose di riunire cinque fucini e cinque giessini in una casa di

esercizi spirituali del Varesotto per discutere, sotto la guida di Franco Bas-

sanini, della laicità nell’impegno politico dei cristiani. Ma quel conclave

finì in anticipo perché, appena arrivati, apprendemmo dell’assassinio di

John F. Kennedy.

13Oltre all’introduzione di Lazzati, il volumetto, a larga diffusione, contene-

va commenti altrettanto significativi di G.B. Guzzetti, F. Bassanini, M.

Garzonio, S. Raiteri, A. Braga-Illa, L. Frey, C. Colombo.

14Gli scritti di Orfei in materia sarebbero poi stati raccolti in volume (L’oc-

cupazione del potere, Roma, 1976) e restano fra le analisi più approfondi-

te della lunga decadenza della DC. Molti anni dopo Guido Crainz avrebbe

osservato che per la nostra generazione “a sfumare progressivamente,

dopo i primi esordi del centro-sinistra, non furono solo le singole riforme”,

ma “fu ‘il sogno di alcune cose’ ad apparire perdente e irrealistico, fu il

riformismo come modello a perdere fascino, capacità di attrazione e di

mobilitazione”; e avrebbe concluso che “non sono stati pochi i guasti che

questo appannamento ha prodotto nella vicenda successiva del paese” (G.

CRAINZ, Storia del miracolo italiano, Roma, 2003).

15Questo valeva anche nell’ambito universitario, specialmente di fronte

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alla scolarizzazione di massa di cui allora si vedevano i primi segni.

Alla fine del 1963, per esempio, Achille Ardigò tenne la relazione di

base al congresso nazionale dell’Intesa universitaria criticando la figu-

ra gramsciana dell’intellettuale organico e contrapponendole quella del

“professionista intellettuale”, la prima organica al “moderno Principe”,

la seconda alla società civile e ai “mondi vitali” che in essa si sviluppa-

no. In molti di noi la relazione di Ardigò stimolò l’interesse per quel

filone della sociologia cattolica che partiva da Felice Balbo e che allo-

ra veniva coltivato da Umberto Ceriani Sebregondi, Baldo Scassellati e

Filippo Ponti, nonché messa in pratica dal Censis di Giuseppe De Rita.

16Nel 1966, trovandomi a Trento per mediare una vertenza sorta in seno

all’Intesa (di cui ero diventato segretario nazionale) fra la “destra” di

Marco Boato e la “sinistra” di Paolino Sorbi, ne ebbi conferma da Bru-

no Kessler, che da presidente della Provincia era stato il fondatore del-

la Facoltà. Mi disse che la sua intenzione era genericamente quella di

creare una sede universitaria, e che, senza sapere a quali guai sarebbe

andato incontro, aveva optato per una facoltà di sociologia su suggeri-

mento dei gesuiti di san Fedele, ai quali aveva chiesto di indicargli una

disciplina “sicuramente cattolica”. E in effetti l’ostracismo opposto a

questa disciplina sia dai crociani che dai marxisti aveva fatto sì che in

Italia essa fosse coltivata soprattutto dai cattolici. Anche molti dei pri-

mi studenti che salirono a Trento venivano da Milano. Mauro Rostagno,

per esempio, studiava alla Bocconi, e pur essendo vagamente marxista

era fra i frequentatori più assidui del seminario fucino su Bobbio e

Maritain.

17In realtà da tempo la giunta dell’UNURI era formata dall’Intesa e dal-

l’UGI, l’associazione degli studenti di sinistra. Ma fino ad allora vige-

va un tacito accordo per cui della giunta facevano parte solo i giovani

del PSI e del PSIUP.

18Il compromesso venne avallato anche da Luciano Faraguti, che rappre-

sentava i giovani democristiani, e da Arturo Parisi, che rappresentava la

GIAC; delle Congregazioni mariane, a onore della Compagnia di Gesù,

si erano invece da tempo perse le tracce.

19La differenza è che allora ci si scandalizzava se la stampa pubblicava

senza nessun vaglio critico quello che gli inquirenti avevano interesse a

vedere pubblicato. Ed è anche che allora i giornalisti facevano inchieste

piuttosto che requisitorie.

L’editore Rubbettino, con la prefazione diEmanuele Macaluso, ha appena pubblicatoProfili riformisti, di Corrado Ocone. Ne pubblichiamo le pagine dedicate a Norberto Bobbio.

Ralf Dahrendorf, nell’ultima opera pubblicata, Tentazio-ni di schiavitù, che uscirà in autunno in traduzione ita-

liana da Laterza, ha incluso Norberto Bobbio, insieme aBerlin, Aron, Hannah Arendt e pochi altri, nel ristrettonovero di intellettuali che nel Novecento non hanno mini-mamente ceduto alle sirene degli opposti totalitarismi,tenendo sempre ferma la bussola sulla difesa delle conqui-ste di libertà della civiltà occidentale. «Uomini erasmiani»li chiama Dahrendorf, riuscendo a cogliere, con una solaespressione, la cifra complessiva dell’opera del grandeintellettuale italiano scomparso, a novantacinque anni, il 9gennaio 2004 (a Torino, la città ove è sempre vissuto).Eppure Bobbio è stato, soprattutto nei primi anni ’90, valea dire negli anni della cosiddetta rinascita del liberalismo inItalia, al centro di polemiche culturali anche aspre. I nuoviintellettuali emergenti, soprattutto quelli di destra, lo hannoinfatti accusato, insieme a tutto il milieu culturale dell’azio-nismo torinese, di «doppiopesismo »; partendo dal dogmadell’antifascismo, nel giudizio dato da Bobbio sui totalitari-smi del secolo scorso ci sarebbe stata una evidente asimme-tria a favore dei comunisti. Ma le cose stanno veramentecosì? E oggi, che la lunga parabola intellettuale e politica diBobbio si è conclusa, quale è il giudizio complessivo che sipuò dare di essa? Osserviamo, prima di tutto, che Bobbiostesso, in un saggio del 1989 intitolato A me stesso, ha pro-vato a periodizzare la sua vita e la sua attività. Dopo la fasedegli «anni di prova», che va dal 1940 al 1948, c’è stato,egli dice, il periodo centrale della «lunga trentennale mono-tona età della routine accademica», che è durato fino al

1979, l’anno in cui ha lasciato l’insegnamento.A quel punto, però, contrariamente a quanto di solito avvie-ne, con l’attività accademica non solo non è terminata laparte più prolifica della sua attività pubblicistica ed edito-riale, ma c’è stato anzi un incremento esponenziale di essa.È iniziata allora una fase non solo e non tanto di «riflessio-ne» e di «bilancio», come egli l’ha definita, ma più radical-mente, ad avviso di chi scrive, di rivisitazione, riformula-zione e riposizionamento del pensiero maturato precedente-mente.Andiamo con ordine, cominciando dagli anni del più inten-so lavoro accademico e di studioso. Bobbio è impegnato sudue terreni: uno più propriamente di studio, in cui si propo-ne di elaborare una teoria del diritto e della norma giuridi-ca; l’altro, di riflessione sul tema generale dei rapporti fracultura e politica, sapere e potere. Dal primo punto di vista,Bobbio licenzia una serie di opere di ampio respiro, sia teo-riche sia storiche: fra le teoriche, basta ricordare gli Studisulla teoria generale del diritto (1955) e Giusnaturalismo epositivismo giuridico (1965); fra le seconde, Da Hobbes aMane (1965) e Diritto e Stato nel pensiero di E. Kant(1969). È comunque con Politica e cultura, la raccolta disaggi del 1955, e con il Profilo ideologico del Novecentoitaliano, del 1969, che Bobbio entra con forza nel dibattitopubblico italiano. E vi entra soprattutto con una rigorosariflessione sul ruolo e la funzione dell’intellettuale o del-l’uomo di cultura nella nostra società. Come definire Bob-bio? Diciamo che egli è stato, innanzitutto, un grande deco-struttore di luoghi comuni o, il che è lo stesso, un grandechiarificatore di idee e concetti. Non è stata però, la sua, una«analisi interminabile» come quella (il paragone non sem-bri azzardato) di un Jacques Derrida. Bobbio distruggeva, omeglio scomponeva i concetti, per ricomporli in modo nuo-vo e diverso. A muoverlo era un forte spirito (neo?) illumi-nistico (sarà un buffo caso, ma anche Derrida si è definitoun illuminista). La funzione dell’uomo di cultura consiste per lui proprio

Il profilo riformista di Bobbio>>>> Corrado Ocone

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nell’esercizio dello spirito critico e del dubbio metodolo-gico: nella capacità di saper mettere in discussione ogniconcetto, portandolo in giudizio davanti al kantiano tri-bunale della ragione. Da una parte, per Bobbio l’intellet-tuale non deve rinchiudersi nella torre d’avorio dei suoistudi, ha cioè il dovere di occuparsi dei fatti pubbliciesercitando una «filosofia militante» (l’esempio è, perquesta parte, Cattaneo, a cui il filosofo torinese ha dedi-cato una bellissima monografia uscita nel 1971 propriocon il titolo Una filosofia militante); dall’altra, egli deveperò ragionare con la propria testa, non secondo fedeltàestrinseche e appartenenze, al di fuori degli stereotipi fal-laci dell’intellettuale impegnato (Sartre) o dell’intellet-tuale organico (Gramsci). È una posizione, quella di Bob-bio, non molto dissimile da quella crociana, anche se ilsaggio del 1955 si poneva in antitesi a Croce e all’ideali-smo (di cui il filosofo torinese criticava gli aspetti chegiudicava spiritualisti e retorici), oltre che all’utopismo

dei marxisti e all’irrazionalismo degli esistenzialisti.Quello del rapporto di Bobbio con Croce può essere unbuon “filo rosso” per capire in cosa consista la “svolta” nelpensiero del nostro autore di cui dicevo all’inizio. Il filoso-fo torinese ha contestato a Croce l’impostazione idealisticao speculativa del suo pensiero, il metodo dialettico o filoso-fico cui ha opposto quello empirico del razionalismo meto-dologico. Non gli ha mai contestato tuttavia l’alto magistero morale,il ruolo avuto nell’antifascismo; né, come si è visto, il modoin cui ha concepito appunto i rapporti fra cultura e potere.Al liberalismo metapolitico (cioè etico) dei crociani, egli haopposto il liberalismo classico inglese (politico e attentoalla sfera istituzionale): il liberalismo di Locke e anche deigiusnaturalisti. Famosa e significativa la nota affermazioneche si legge in Politica e cultura: «Chi volesse capire oggiil liberalismo – scrive Bobbio – non mi sentirei di mandar-lo a scuola da profili riformisti . Gli consiglierei piuttosto di

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leggere i vecchi monarcomaci e Locke, e Montesquieu eKant, il Federalist Constant e Stuart Mill. In Italia più Cat-taneo che non gli hegeliani napoletani, compreso SilvioSpaventa; e gli metterei in mano più il Buongoverno diEinaudi che non la Storia come pensiero e come azione».Eppure, passato svariato tempo, precisamente nel 1991,Bobbio cambia idea e scrive che Croce è non solo uno deisuoi dieci autori di riferimento, come aveva già affermatoqualche anno prima, ma è di tutti quello «cui ho dedicato ilmaggior numero di scritti e con maggiore continuità». Eaggiunge che Croce è stato, soprattutto, un grande morali-sta. E, come tale, va letto e giudicato. «Questo è stato sopraogni altro il “mio” (Il nostro Croce è appunto il titolo delsaggio cui faccio riferimento). Dobbiamo allora chiederci: èaccaduto qualcosa nel frattempo? Come può quel filosofo,al quale un tempo venivano contrapposti e anteposti tantialtri nomi, essere divenuto addirittura il principale punto diriferimento?La risposta, a mio avviso, è semplice: a partire dal 1979qualcosa nel pensiero di Bobbio stesso è cambiato non soloa livello esteriore ma anche in modo profondo e radicale.Lontano dall’insegnamento, il pensatore torinese ha datosempre più una curvatura etica o moralistica ai suoi scritti.Insistendo, fra l’altro, sull’importanza delle virtù accanto aquella, su cui tanto aveva prima argomentato, delle istitu-zioni. E insistendo, in particolare, sull’importanza di quellevirtù laiche. «Le virtù del laico – ha scritto Bobbio in Desenectute (1996) – sono il rigore critico, il dubbio metodi-co, la moderazione, il non prevaricare, la tolleranza, ilrispetto delle idee altrui, virtù mondane e civili». In que-st’ottica, che ricorda proprio il prima tanto vituperato libe-ralismo etico di Croce, si capisce anche perché Bobbioabbia introdotto negli ultimi anni la distinzione fra laicità elaicismo. È vero che fra i due termini non esiste, storica-mente, una differenza precisa, ma è pur vero che una distin-zione terminologica, se tiene concettualmente, può esseresempre tranquillamente introdotta. Laicista, secondo Bob-bio, è chi concepisce la laicità non come un metodo macome un sistema: colui che fa riferimento a contenuti con-creti e determinati, storici, e li assume come dogmi. È unaposizione, quella del laicista, specularmente affine alla pro-spettiva dei clericali. Altrettanto integralista e fondamenta-lista. Bene. Possiamo allora ribadire che, a partire dal 1979,accanto alla dimensione empirica o “istituzionale” degliaccadimenti politici, Bobbio ha cominciato a considerareanche la dimensione empirica o “istituzionale” degli stessi.E si è fatto moralista nel preciso senso che ha individuatonelle forze morali o umane la scaturigine prima o effettivadi quelle istituzioni in lato senso politiche che, nel loro fun-zionamento, i suoi libri hanno contribuito a far comprende-re a più generazioni di studiosi e di studenti. «Il fondamen-to di una buona repubblica, prima ancora delle buone leggi,è la virtù dei cittadini.

Sia ben chiaro: non avverso per principio la riforma dellaCostituzione. Combatto l’illusione costituzionalisticasecondo la quale, una volta cancellata la vecchia Costitu-zione e dato vita a una Costituzione nuova di zecca, gli ita-liani vivranno felici e contenti». Sono frasi che si leggononell’Autobiografia (1999). Non è un caso che in essa Bob-bio tratteggi di sé l’immagine di un uomo profondamenteinsicuro, pieno di angoscia e in preda a conflitti interiori,timidissimo da giovane e «impratico» sempre, più portato ascrivere che a parlare, «pessimista d’umore e non di con-cetto». Così come non è un caso che, da vecchio, egli tessal’elogio della mitezza come virtù per eccellenza non politi-ca. E che dica di non essersi «mai preso troppo sul serio»perché sempre ha avuto presente la «lezione dei classici»(cfr. l’Elogio della mitezza del 1994). Nell’ultima fase delsuo pensiero, Bobbio ha anche corretto la troppo esagerataasimmetria del suo pensiero riguardo al giudizio da daredegli opposti totalitarismi del secolo scorso (in verità, sulterreno della libertà e dei diritti individuali, egli non avevafatto sconti ai marxisti nemmeno nel primo periodo dellasua attività). Il fatto è che egli da ultimo si è accorto che nonsi può dire, come aveva detto un tempo, che il comunismoè sbagliato nei mezzi ma non nel fine che si promette di rea-lizzare mentre il nazifascismo è sbagliato sia nei mezzi sianei fini. Stante la «natura storta dell’umanità», per dirlaancora una volta con Kant, il fine della perfetta eguaglian-za è anch’esso un fine errato, mortificatore dell’umanalibertà e generatore di terrore e violenze. In quest’ottica, aben vedere, non tiene nemmeno più la vecchia distinzionefra Destra e sinistra. E il libro del 1994 dedicato a questafamosa diade del lessico politico, nonostante sia stato unsuccesso editoriale, è come fosse un “residuo” della primafase del pensiero politico del nostro autore. Il quale non acaso non lo sentiva del tutto proprio: ancora necessitante diuna riflessione più profonda, e in qualche modo «estorto»dall’editore. In definitiva può dirsi che Bobbio giunge infi-ne alla consapevolezza che, dopo essersi tanto affannato acercare risposte ad alcune domande fondamentali («Qualesocialismo?Quale democrazia? Quale libertà, quale eguaglianza?», cfr.Congedo, del 1984), non può non concludere che la rispostaè nel porsi e riporsi in continuo le domande senza credere dipoter dare a esse risposte definitive. È questa l’etica dellostudioso, che è altra da quella del politico. Così come l’eti-ca dell’uomo laico non è l’etica del metafisico o del cre-dente. Solo l’uomo laico, non il credente, può però arrivarea chiedersi, con l’umiltà che è tutt’uno con l’onestà intellet-tuale e con lo spirito profondamente religioso, persino qua-le sia il vero stesso. Magari, come dice Bobbio, scherzandoci su, ma non troppo.E allora chiediamoci anche noi, quando si parla del nostrogrande filosofo, quale sia il vero Bobbio e quale Bobbio cisia ancora maestro.

Il giacobino di Voghera>>>> Stefano Rolando

Voghera è la terza città del pavese.Ha circa 40 mila abitanti. Negli

anni ’50 erano 33 mila. Una comunitàche dava preferenze ai socialdemocra-tici perbene. Allo storico direttore diCritica Sociale, Ugoberto Alfassio Gri-maldi, mancò una manciata di voti perfare il senatore. Città di italiani noti,destinati a tenere lì qualche radice ma afrequentare foyers più celebrati (daAlberto Arbasino a Valentino Garava-ni, da Carolina Invernizio a Pino Calvi,da Alfieri Maserati che fondò altrove lacelebre casa automobilistica a SandroBolchi). Città lombarda di confinedunque, epicentro dell’Oltrepò, terra divini e acque, colline e torrenti, giàfedelissima al Barbarossa (come Pavia)quando Milano cercò di trovare unaterza via tra l’imperatore e il Vaticanoe fu rasa al suolo dall’energumeno ilcui figlio Arrigo VI vi regnò prima che,per lungo tempo, vi regnassero iVisconti. La seconda guerra mondiale la offesemolto, perché l’incrocio delle direttri-ci Milano-Genova e Torino-Bolognala rese bersaglio strategico. Patria del-la famosa “casalinga di Voghera”,metafora del suo galleggiamento nel-l’anonimato provinciale. Per raccon-tare il quale e, per dimostrare anzi cheesso non era poi così anonimo, Vitto-rio Emiliani, giornalista di vaglia,figlio di segretario comunale che vitransitò nel tempo dell’avvio dell’uni-versità dalla Romagna natia (l’ovileessendo l’impopolare Predappio) afuturi e successivi destini prima mila-nesi e poi romani. Quel pezzo di vita a Voghera nellaseconda metà degli anni cinquanta – gli

anni del boom e del chiarimento a sini-stra, della motorizzazione di massa edel mito del giornalismo, del crepusco-lo dei bordelli e della trionfante goliar-dia – è raccontato oggi da Emiliani in280 fittissime, godibilissime, racconta-tissime pagine. Con gli occhi piantatisul nucleo di una classe dirigente pro-vinciale tra politica, università e gior-naletti; e attirata – con la lusinga di unanon dissimulata nostalgia – più daMilano che dalla “odiatamata” Pavia.È Milano la meta di bravate intellettua-li, per aprire con il compassatissimoRenzo Zorzi una collaborazione conl’austera sociologica rivista Comunitàsostenuta da Adriano Olivetti, maanche per sbornie, percezione dellapolitica, cazzotti sul ring, grande jazz,teatri sprovincializzati (come lo era ilPiccolo di Grassi e Strehler) e perintercettare nuove leve del giornali-

smo. Nuove leve che si andranno di lì apoco formando attorno alla avventura –sostenuta dall’ENI di Mattei e direttaprima da Gaetano Baldacci poi da ItaloPietra – del Giorno, testata che dovevaaccogliere il bisogno della gioventù diun quotidiano innovativo che marcassele distanze dal Corrierone filo gover-nativo, negli anni della DC di Pella,Zoli e altri doppiopetti diversi da quel-l’impasto di riformismo, radicalismo,liberalismo, laicismo e progressismoche animava la generazione dell’UGIche voleva anche essere diversa daicomunisti. Arriverà prima il Mondo diPannunzio a raccogliere alcune ener-gie, poi l’ Espresso di Benedetti (un nosofferto a un posto in redazione) e poidi Scalfari (a Voghera smilzo trenten-ne, già oratore mitico, più interessatoalla bonazza locale che all’elettorato);e infine, lombardissimamente, Il Gior-

biblioteca / schede di lettura / / / / mondoperaio 2/2009

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no. Merito di un articolo sulle mondineche portò al “tu” con il già mitico ItaloPietra. Milano prende quota nei ricordi versola duecentesima pagina. Prima è sce-nario occasionale. Il “Cittadino”vogherese è il campo di battaglia. Cro-nacaccia e sogni, con in municipio –per un po’ – “uno dei nostri”, quell’I-talo Betto per cui ancor’oggi c’è qual-che parola di reverenza. Alla direzionegli succederà un giornalista che faràstrada, Peppino Turani. CamillaCederna al centro dei ricordi del gior-nalismo del tempo. E nelle ultimepagine del libro affiora un’intera gene-razione di firme, da Bocca a Monelli,da Todisco alla Livi. I “vitelloni” sono metafora dell’Italiaprovinciale e felliniana che ha messoRimini in antologia. I “giacobini” sonoi figli di una generazione politica chedeve ancora fare i conti con le ideolo-gie (i fatti d’Ungheria sono lo spartiac-que del racconto) ma che – per letture,smaliziamenti, contaminazioni goliar-diche e intuizioni anticipatorie – senteanche l’esigenza del pragmatismoinnovatore. Compagni di cordata poiCarandini, Pannella, Mombelli, piùsegnati dal liberalismo di sinistra chedalla disputa sul leninismo. Il nucleolaico alla fine approdò al PSI (rispettoalla cui vicenda questo libro si aggiun-ge ad una certa letteratura sulle radiciculturali del post-frontismo). Ma stia-mo parlando anche della preistoria delPSI di cui hanno memoria gli italiani. Emiliani scrive di appassionarsi allecolonne di Mondoperaio, quello firma-to da Panzieri e Libertini. A buoni con-ti il tratto generazionale sta in tre cosedistinte non tutte oggi resistenti: cre-scere nelle relazioni di gruppo, crederenel giornalismo di inchiesta, pensareche la radice locale sia un buon postoper cambiare il mondo. Il grande gior-nalista (che negli anni ottanta dirigeràIl Messaggero e più di recente siederàin consiglio di amministrazione dellaRAI) stempera la storia con battutinelombarde che sono un racconto nel rac-conto, cede qui e là alle sue passioni

(come la lirica) e ricorda a tutti cheMilano era la capitale morale d’Italia.Già.V. Emiliani, Vitelloni e giacobini pagg.

281, Donzelli, 2009, euro 16,00.

Krugman e l'economiadella depressione>>>> Carmine Pinto

Paul Krugman ha vinto il PremioNobel per l’economia nel settembre

del 2008, mentre iniziava a delinearsi ilgrande crack ora al centro della politi-ca mondiale. Il suo nuovo saggio, pub-blicato qualche mese dopo, ha aggior-nato le analisi sulle dinamiche del siste-ma finanziario internazionale, sui carat-teri delle crisi degli anni Novanta e suquella dei nostri giorni. Il suo obiettivo,scrive l’autore, è comprendere le causedella catastrofe, per contribuire a pro-muovere la ripresa ed evitare la ripeti-zione di quelli che giudica gli errori piùgravi degli anni Novanta.Krugman parte dal presupposto che iproblemi dell’economia della depres-sione non sono venuti meno nel mondomoderno, sviluppando una critica radi-cale alle teorie monetariste e liberiste,una linea che segna tutto il saggio. Ungiudizio che a volte coinvolge econo-misti e politici non riconducibili diret-tamente a questi filoni culturali macomunque convinti che il problema diprevenire la depressione è stato risolto,in tutte le sue implicazioni pratiche.Krugman parte dal collasso dell’Unio-ne Sovietica. Finisce in quel momento eper sempre la visione di un’alternativapolitica ed ideologica all’economiacapitalista. Già negli anni Settanta (è ilcaso della Cina) e negli anni Ottanta sierano aperte crepe vistose tra i sognato-ri di economie pianificate. Ma è quellol’evento fondamentale e da quelmomento il capitalismo domina incon-trastato il mondo. Nel frattempo, scrivel’economista, era iniziato uno sviluppo

complesso e spesso drammatico di pae-si arretrati o addirittura del terzo mon-do che aveva integrato molti di questipaesi nella società del capitalismo glo-bale.Krugman sostiene che questa sequenzadi eventi aveva convinto gran parte deipolitici e degli osservatori che le specu-lazioni valutarie non avrebbero prodot-to grandi crisi né si sarebbero più regi-strati crolli o recessioni durature nellaproduzione e nella occupazione. Inrealtà le vicende degli anni Novantaavrebbero dovuto indicare il contrario.Krugman le esamina approfonditamen-te nel parte più ampia del suo libro. IlMessico e l’Argentina, la Thailandia ela Malesia, l’Indonesia e il Giappone, laCorea e il Brasile hanno conosciuto unaserie di crack. Una sequenza che haavuto a volte caratteristiche simili, inaltri casi profonde differenze, ma hasegnato l’età della transizione. Krug-man scrive che tanto le economie deipaesi di recente sviluppo quanto gigan-ti ritenuti imbattibili come il Giapponesi trovati di fronte al fallimento di tra-dizionali politiche monetarie e fiscali.Se è così, dice l’autore, questi esempipotevano preparare al crack del 2008.Nonostante contesti diversi, terapie ori-ginali da paese a paese, per Krugman viè un filo comune, un elemento decisivoche unifica tutti e si ritroverà poi nellesue conclusioni: la necessità di mante-nere elevato il livello della domandaper uscire dalle crisi.È questo l’elemento polemico e con-temporaneamente la premessa dellaproposta operativa dello studioso. Lacritica è diretta alle scelte ultraliberistedi molti governi o ai padroni dell’uni-verso, le nuovi grandi lobby di specula-tori finanziari internazionali e naziona-li di cui Krugman traccia un secco pro-filo. Ma uno degli obiettivi più esplicitidella sua polemica è l’ex presidente delBoard of Governors della FederalReserve Alan Greenspan. Osannatofino a qualche mese fa, molto menodopo i crack dell’autunno, Greeenspan,per l’economista liberal, non fece nullaper prevenire l’esuberanza irrazionale

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dei mercati finanziari. Krugman scriveche non furono alzati i tassi d’interessené limitate le operazioni a riporto. Stes-sa critica svolge per la seconda bolladell’era Greenspan, quella del mercatodegli immobili. Si arriva ai giorninostri, all’esplosione del problema deisubprime, con la catena dei fallimentibancari e con il profilarsi di una crisiche si pensava limitata solo alle econo-mie asiatiche o sudamericane.Krugman parla della vulnerabilità delsistema bancario e dell’ascesa dellaglobalizzazione finanziaria con le con-seguenti interconnessioni internaziona-li degli azionisti. Quella del 2008diventa la peggiore crisi mai vista datrent’anni. L’autore descrive un proces-so che si moltiplica dopo il fallimentodella Lehman Brothers allargandosipoi ai mercati emergenti e a buona par-te del sistema creditizio americano.Una valanga in cui quello che emergecon maggiore forza è l’inefficacia del-la politica monetaria. Si giunge cosìalla conclusione polemica: se è veroche i mercati difficilmente possonosopravvivere alla scarsità di domanda,allora sbaglia clamorosamente chirifiuta la sintesi keynesiana, gli sforzidel governo volti a stimolare proprio ladomanda. Il tema emerso con le crisi degli anninovanta ritorna infatti prepotentementein quella americana dei nostri giorni.Krugman non vuole negare i successidella globalizzazione che ha prodottoimmensi risultati né abbracciare retori-che radicali o terzomondiste. Rinuncia-re all’esaltazione del libero mercatosignifica rifiutare alcune interpretazionidella crisi, che ne attribuiscono le radi-ci a singoli errori di paesi o di leader, aprocessi di corruzione o a politiche sba-gliate, negando ogni ipotesi interventi-sta. Occorre invece combattere la dere-gulation e la finanza allegra respingen-do le dottrine obsolete che annebbianole menti degli uomini. E per fare questoscrive Krugman serve affrontare diret-tamente la crescita della disoccupazio-ne, le crisi industriali, stimolando ladomanda per favorire la ripresa: insom-

ma rinnovare la vecchia sintesi keyne-siana.P. Krugman, Il ritorno dell’economia del-

la depressione e la crisi del 2008, Garzan-

ti, Milano 2009, euro 14,11

Pio XI papa solo>>>> Federico Fornaro

Achille Ratti (1857-1939), salito alsoglio pontificio nel 1922 con il

nome di Pio XI, è spesso ricordatocome un fondamentale alleato del fasci-smo. Nel suo saggio, Emma Fattorini ci resti-tuisce, invece, un’immagine assai piùcomplessa e non priva di interessantinovità interpretative.All’inizio del suo pontificato, Pio XI sitrova di fronte all’irruzione nella storiadella rivoluzione bolscevica e il nemi-co numero uno da combattere inevita-bilmente diventa il comunismo con ilsuo ateismo. Come è chiaramenteesplicitato nell’enciclica DiviniRedemptoris, per i cattolici “ il comu-nismo è intrinsecamente perverso enon si può ammettere in nessun campola collaborazione con lui da parte dichiunque voglia salvare la civilizzazio-ne cristiana”. L’iniziale sostegno delVaticano al fascismo è, dunque, dettatodalla paura di una diffusione in Europadel contagio bolscevico, nonostantePio XI rimanga diffidente verso i cre-scenti fenomeni di nazionalismo, nega-tori del carattere universale del mes-saggio cristiano. Il futuro pontefice incontrerà Mussoliniper la prima volta a Milano, nel gennaio1922, ricavandone un giudizio sostan-zialmente positivo: “uomo formidabi-le… convertito di recente, poiché vienedalle file dell’estrema sinistra, ha lozelo dei novizi che lo fa agire con riso-lutezza”, anche se, “bisognerà peròvedere come tutto questo andrà a finiree che uso farà della sua forza. Cheorientamento avrà, il giorno in cuidovrà scegliere di averne uno? Resiste-

rà alla tentazione, che insidia tutti icapi, di ergersi a dittatore assoluto? …Non è mai buona cosa che un solouomo diventi onnipotente”. La firma del Concordato nel 1929 sug-gellerà l’alleanza tra la Chiesa e ilfascismo, un’intesa – sempre in chiaveanticomunista – destinata ad incrinarsicon l’introduzione in Italia, nel 1938,delle leggi razziali, contro cui Pio XIreagirà con fermezza, nonostante gliinviti alla prudenza della curia vaticanae in particolare del segretario di Stato,Eugenio Pacelli, destinato a succederglicon il nome di Pio XII.Nella seconda metà degli anni trenta laChiesa si trova coinvolta, suo malgra-do, nei profondi sommovimenti in cor-so nello scenario europeo, con l’ascesaal potere di Hitler e del nazismo in Ger-mania (1933), la vittoria del FrontePopolare in Francia (1936) e la guerracivile in Spagna (1936-1939). MentrePio XI mostra un’inaspettata disponibi-lità a confrontarsi con la strategia della«mano tesa» del Fronte Popolare e delleader comunista Thorez, la forza deglieventi lo porterà, pur con qualche resi-stenza, a schierarsi in Spagna a fiancodei rivoltosi antirepubblicani guidatidal generale Franco.Più netta e decisa è, invece, la sua con-trarietà al nazismo, di cui scorge findagli esordi i caratteri di religione neo-pagana, inaccettabile per i cattolici:“un’altra croce che non è la croce diCristo”, dirà con chiaro riferimento allasimbologia nazista. Un’insofferenzaverso Hitler che si manifesterà in piùoccasioni, accompagnata da un’avver-sione profonda verso l’antisemitismo,contro cui pubblicherà un’enciclica(Mit brennender Sorge), in lingua tede-sca, che il Papa riuscirà a recapitareclandestinamente a tutte le parrocchietedesche, in cui i seguaci di Hitler sonodefiniti senza riserve “distruttori del-l’occidente cristiano”.L’intransigenza di Pio XI verso il nazi-smo non era condivisa neppure dai suoicollaboratori più stretti e si scontravacon l’opinione prevalente oltre Tevereche in fondo “nessuno combatte il

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comunismo meglio di Hitler”. Nellesegrete stanze vaticane si attuerà unvero e proprio boicottaggio nei con-fronti del pontefice, fino al punto diarrivare a censurare sull’OsservatoreRomano un passaggio di un suo di -scorso, pronunciato nel settembre 1938,in cui coraggiosamente si affermavache “spiritualmente siamo tutti semiti”.Nella puntuale e argomentata ricostru-zione della Fattorini emerge con forzala solitudine di questo Papa, malato einfermo negli ultimi mesi della sua esi-stenza, che proprio dalla sua sofferenzatrae forza per cercare di combattere laderiva del totalitarismo nazista e fasci-sta. Egli, infatti, si accorgerà come innome della crociata anticomunista sistiano gettando i germi per una distru-zione del messaggio cristiano di pace efratellanza tra gli uomini. Quasi para-dossalmente un papa alieno da simpatieliberali o tanto meno democraticheavverte che solamente lo Stato liberaleè in grado di porre le condizioni miglio-ri per la diffusione del cristianesimo.In definitiva gli archivi vaticani ci resti-tuiscono il ritratto di un papa intransi-gente nella difesa dei tradizionali valo-ri della cristianità e nella condanna delrazzismo praticato dal nazismo e dalfascismo suo alleato, posti sullo stessopiano del comunismo ateo; mentre vie-ne messa pesantemente in discussionel’interpretazione storiografica di unaChiesa sotto Pio XI sostanzialmentesubalterna a Mussolini e alla crociataanticomunista. E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La

solitudine di un papa, Einaudi, p.252,

euro 22,00

Politica e geografia>>>> Michele Marchi

Venti elezioni nel Regno d’Italia,due plebisciti durante il ventennio

fascista (1929 e 1934), un referendumistituzionale, l’elezione dell’Assem-blea Costituente e sedici elezioni nel-

l’Italia repubblicana. Nel complessoquaranta scrutini nazionali e una molesterminata di dati elettorali disponibilia livello di ogni singolo comune.Basterebbero probabilmente questecifre impressionanti a descrivere l’im-portanza della pubblicazione dell’A -tlante storico-elettorale d’Italia, curatodai professori Corbetta e Piretti, esper-ti rispettivamente di scienza politica estoria dei sistemi elettorali italiani edeuropei e membri autorevoli dell’Istitu-to Carlo Cattaneo di Bologna, dal 1956centro di ricerca politico-sociale legatoalla «Associazione Il Mulino».Di fronte ad un’opera di tale importan-za sarebbe però ingiusto fermarsi sol-tanto all’immensa quantità di dati (rac-colti all’interno di un prezioso Cd-romallegato al volume). L’accattivanteveste grafica è strettamente legata alsolido impianto metodologico sul qua-le è stata costruita l’opera. Punto dipartenza imprescindibile sono certa-mente gli studi di inizio ‘900 delloscienziato della politica André Sieg-fried il quale nei suoi lavori pionieristi-ci sul voto nell’Ovest francese durantela Terza Repubblica iniziò a legarescelta elettorale ed appartenenza geo-grafica dell’elettore. Egli cominciò anotare che come esistono aree geogra-fiche, così esistono regioni politiche.Corbetta e Piretti hanno applicato que-sto approccio metodologico al nostropaese e hanno scelto, e questo è unaltro merito indiscutibile dell’opera, diutilizzarlo per l’intera storia dell’Italiaunitaria, di modo che le continuità ediscontinuità tra dimensione politica egeografica di espressione del votopotessero essere concepite sul lungoperiodo. Prima di entrare nel dettaglio di alcunecuriose considerazioni che emergononel consultare le carte geografico-elet-torali del nostro paese riprodotte all’in-terno dell’opera, non bisogna dimenti-care che uno spazio adeguato dell’A -tlante è stato concesso ad una breve macompleta storia della legislazione elet-torale italiana, indagata in profonditàsia per quanto riguarda le sue evoluzio-

ni nel passaggio dall’età liberale aquella fascista e poi al periodo repub-blicano, sia nel dettaglio delle differen-ti scelte del legislatore, in particolarerispetto ai numerosi mutamenti nellascelta del metodo di scrutinio. Tra i tanti spunti di interesse se nesegnalano soltanto alcuni che appaionoparticolarmente rilevanti per compren-dere l’evoluzione elettorale del nostropaese. Il primo riguarda il Regno d’Ita-lia e in particolare le elezioni del 1882.L’introduzione del collegio plurinomi-nale e l’estensione del diritto di votospingono le forze politiche ad un’al-leanza al centro che costituirà il vero eproprio preludio alla nascita del cosid-detto «trasformismo». Dunque se è cer-tamente vero che il sistema elettoralenon è l’unico strumento per condurre inporto una mutazione istituzionale(come spesso politici e commentatoridella cosiddetta «seconda Repubblica»hanno voluto accreditare), l’esempiodel 1882 mostra che legislazione elet-torale e ingegneria istituzionale hannopiù di un punto di contatto. Sempre relativamente all’età liberale èdi estremo interesse seguire, consultan-do le carte geografiche, la lenta macostante evoluzione in un primo tempodella «estrema» e poi delle prime forzesocialiste nel contesto emiliano-roma-gnolo per poi confrontare, all’interno diqueste aree geografiche, la concorrenza(a partire dal 1921) con il nuovo movi-mento comunista e prendere atto delradicamento di questo socialismomunicipale, alquanto immune dall’evo-luzione comunista.Se si passa poi all’Italia repubblicanadi notevole interesse è comparare latornata elettorale del 1976, quella del«temuto sorpasso» comunista, a quellaprecedente del 1972. L’aumento di cir-ca sette punti percentuali su scalanazionale del PCI è in larga parte frut-to di un netto avanzamento in aree nontradizionalmente «rosse» quali il Lazio(+9%), le Marche (+7%), la Sardegna(+10%), la Basilicata (+9%) e la Cala-bria (+9%). Avanzamento che risulteràalquanto estemporaneo in particolare

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nel Lazio e in Sardegna già nella torna-ta elettorale del 1979 e ancora di più inquella del 1983. Avvicinandoci ulteriormente alle fasipiù recenti della storia italiana e dellasua evoluzione politico-elettorale, èdegno di attenzione particolare il qua-dro che emerge dall’Atlante rispetto alrapporto tra Forza Italia e Lega Nordnelle due regioni italiane spesso rap-presentate come il fulcro della «rivolu-zione delle Partite-Iva», cioè Lombar-dia e Veneto. Se si osserva il quadro deidati dal 1992 (anno della comparsa del-la Lega Nord) sino al 2008 si possononotare una continuità e una discontinui-tà. La continuità riguarda il periodo1994-2006 e, eccettuato il 1996 che havisto la Lega non coalizzata con ForzaItalia, si deve notare una costante ero-sione del voto leghista a favore di quel-lo del partito di Silvio Berlusconi. Ladiscontinuità è netta e riguarda il votodel 2008. La Lega, pur coalizzata con ilPDL, si è avvicinata (non riuscendocomunque a raggiungerli), ai risultati

del 1996 (21,6% in Lombardia, controil 25,5% del 1996 e 27% in Veneto,contro il 29,3% del 1996). La prossimatornata elettorale potrà fornire qualchedato in più a proposito del radicamentogeografico della Lega Nord, che dopogli exploit degli anni Novanta (in largaparte imputati al clima di anti-politicacosì diffuso nel paese) sembrava averconsolidato un potenziale elettorale inVeneto e Lombardia tra il 10 e il 12%.Il 2008 ha praticamente visto raddop-piare questa base.Altre numerose riflessioni potrebberoessere aggiunte per descrivere quest’o-pera di consultazione che non dovrebbemancare in ogni biblioteca italiana.Un’ultima deve per forza di cose esse-re dedicata alla partecipazione elettora-le. L’Atlante mostra in maniera moltochiara come nel corso dei sessanta annidi Italia repubblicana il Sud abbiacostantemente votato meno del Nord,mentre il quadro appare rovesciato per-lomeno fino ai primi anni del Novecen-to. Basti pensare che alle elezioni del

1882 vota il 76,6% degli aventi dirittodell’Abruzzo e solo il 55,7% degliaventi diritto della Lombardia. Un datoperò che non si può trascurare è quellodel costante aumento dell’astensioni-smo dal 1983 ad oggi. Il dato italiano ècertamente da inserire in un comunetrend europeo e i dati nazionali di par-tecipazione al voto restano comunquetra i più alti del Vecchio Continente (adesempio se paragonati a quelli inglesi ofrancesi, eccettuata l’ultima elezionepresidenziale). Ma scoprire che menodi 30 anni fa votava il 90,6% degliaventi diritto e alle elezioni del 2008 siè recato alle urne l’80,5% (con puntenegative del 71,4% in Calabria, chesignificano 1 astenuto ogni 4 elettori) èun dato da non trascurare quando siaffronta la cronica «crisi» nella quale idibatte il paese dalla fine degli anniOttanta. P. Corbetta, M.S. Piretti, Atlante storico-

elettorale 1861-2008, (con 1 Cd-Rom),

Bologna, Zanichelli, 2009, pp. 209, euro

52,80.

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Craxi vent’anni dopo>>>> Andrea Usai

Il male fatto dagli uomini sopravvive

a loro, il bene viene seppellito

con le loro ossa.

William Shakespeare, Giulio Cesare

Il 17 aprile 1987 finiva il più longevogoverno nella storia della prima

Repubblica. Anzi erano due i governi,ma il Presidente del Consiglio deiMinistri era sempre lui, Bettino Craxi,il primo socialista a ricoprire un ruolocosì importante, un uomo destinato alasciare il segno, a far parlare di sé permolto tempo. Undici giorni prima diquella data invece sono nato io.Sì, sono nato sotto il governo Craxi, edè forse anche questo il motivo per cuiho tanto subito il suo fascino da inte-ressarmi, approfondire, provare adavvicinarmi ad una delle figure piùcontroverse della politica italiana. Intutta questa confusione un punto fermoc’è, ed è che la sinistra italiana ne par-la male, lo accusa di aver tradito, diaver rinnegato il corpo mistico diLenin, di aver svenduto la difesa deilavoratori. Già, la sinistra italiana. Ma quale sini-stra? Quella di ispirazione marxista ecomunista, quella che ha cercato in tut-ti i modi di fare fuori i socialisti, dicondannarli alla damnatio memoriae,quella stessa sinistra italiana che vedeEnrico Berlinguer come un santo, anzi,come il santo da venerare, e che vedein Bettino Craxi e in tutti i socialisti irinnegatori del misticismo leninista? E’ curioso che mentre a destra il socia-lista sia un avversario da rispettare, asinistra sia visto come l’incarnazionedel male. Ma non stupisce. Ci pensavoleggendo la recensione che AlbertoBenzoni, nel numero scorso di Mondo-peraio, ha dedicato al bellissimo libro

di Edoardo Crisafulli (Le ceneri di

Craxi, Rubbettino, 2009). Non dimen-tichiamoci che Bettino Craxi, comedice il libro che vi invito a leggere tut-to d’un fiato perché vi illuminerà, fu ilprimo leader di un partito di sinistra inItalia a rompere con l’Unione Sovieti-ca, a proporre una sinistra al passo coitempi, svincolata finalmente dal comu-nismo russo che, per dirla con NikolajBerdjaev, “intende precisamente esserea sua volta una religione, capace discalzare e sostituire il cristianesimo, epretende di rispondere alle esigenzereligiose dell’anima umana e di dare unsenso all’esistenza”. Insomma, Bettino Craxi aveva ungrande progetto, quello di regalare allapolitica italiana un socialismo liberalelontano dai dogmi dell’ideologia, anzi,della religione comunista. Fu questa lasua colpa, la sua unica colpa, mai per-donata. Certo, c’è tutta la problematicadelle tangenti e della corruzione. ForseCraxi sottovalutò il problema, pensavadi risolverlo più avanti, ma una cosa ècerta: come disse lui stesso in Parla-mento, il sistema politico di allora aquel sistema non era estraneo. Il siste-ma delle tangenti ammorbava tutta laclasse politica di allora. Craxi pagò per tutti, fu un vero e pro-prio capro espiatorio. Ed è per questoche la sinistra comunista di allora e,ancora oggi, certe correnti di pensiero,non fanno altro che fare quello cheGeorge Orwell aveva predetto in 1984:il Grande Fratello vuole controllare ilpresente attraverso la mistificazione ela riscrittura del passato, attraverso lamorte del pensiero critico. Eh sì, per-ché non si può mica dire che dopo larivoluzione, dopo che gli animali dellafattoria hanno cacciato via il padronecattivo, i maiali, proprio coloro che l’a-vevano guidata la rivoluzione, sonoadesso i veri padroni, coloro che abita-no nella casa del vecchio tiranno e che

sfruttano i loro stessi compagni, glialtri animali della fattoria. Eppure, il pensiero politico di Craxinon è mai stato così attuale come oggi,oggi che la sinistra italiana è stata spaz-zata via e che il Partito Democratico hamiseramente fallito la sua missione. Seandiamo a fondo dei problemi e dellequestioni, il PD ha fallito perché è uncontenitore sterile che racchiude in séex-comunisti ed ex-democristiani. Sidichiara un partito riformista, ma fino apochi anni fa molti di loro aborrivano iltermine “riformista”. Il PD non è un partito riformista, per-ché non ha niente a che fare con ilsocialismo liberale europeo, tanto èvero che non si sa nemmeno doveandrà a sedersi in Europa. Il PD non èin grado di governare perché non è ingrado di fare opposizione, di proporreidee che possano poi essere calate nel-la realtà. Mentre la destra deve oggicostruirsi una propria identità politica(e in questo progetto sembra che Ber-lusconi voglia investirci molto) proprioperché deve mettere insieme dei pezzidi diversa provenienza, la sinistra ita-liana ce l’avrebbe già una propria coe-sione politico-culturale: le idee di Mat-teotti, dei fratelli Rosselli, di Craxi e diOrwell. E se il PD crollasse definitiva-mente, perchè non se la smette diemarginare e allontanare i socialisti,allora non solo sarà il responsabile del-la mancanza della sinistra in Italia e delfatto che è la CGIL con il suo vetero-conservatorismo a farla da padronanelle questioni sociali, ma sarà anche ilresponsabile del fallimento del biparti-tismo, l’unico vero sistema in grado digarantire ad un paese la stabilità politi-ca. E allora sì che potremo dire cheBiagi e d’Antona sono morti invano eche lo svecchiamento del nostro dirittodel lavoro e l’introduzione di unmodello alla danese resterà un mirag-gio per molto, molto tempo.

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