Quaderni su guerre e memoria del ‘900 - ISTREVI · Parole Chiave Prima Guerra Mondiale,...

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Laboratorio di storia contemporanea Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Vicenza «Ettore Gallo» - Istrevi No. QM/2010/1 I quaderni del Laboratorio di storia contemporanea sono scaricabili all’indirizzo: www.istrevi.it/lab Per contatti: [email protected] Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Vicenza «Ettore Gallo» c/o Museo del Risorgimento e della Resistenza Villa Guiccioli Viale X Giugno 115 - I-36100 Vicenza ISTITUTO STORIA DELLA RESISTENZA E DELLECONTEMPORANEA DELLA PROVINCIA DI VICENZA ETTORE GALLO Quaderni su guerre e memoria del ‘900 Responsabile di collana Marco Mondini [email protected] Legittimazione della Grande Guerra e culto dei caduti: il caso delle Università toscane. FRANCESCO CABERLIN (Scuola Normale Superiore di Pisa e Università di Pisa) Abstract After an introduction to the topic of the commemoration of fallen soldiers in the Great War, I expose the results of a survey on the University of Pisa and Siena. The results point out that the practices of commemoration were the moment for both coping with the pain for the death of fallen soldier and reasserting the meaning of the war, by means of a glorification of the death in war that led to the creation of a stereotype of the fallen student. I extend the analysis to the post-war period by pointing out that the political aspects of the commemoration, which were linked to the necessity of legitimating the war, prevailed on the ‘private’ aspects of these practices, and culminated with the celebrations of the middle 1920s. I conclude the analysis with some remarks about the fortunes of the nation as a legitimacy factor. Parole Chiave Prima Guerra Mondiale, nazionalismo, università, commemorazione, caduti, lutto. Francesco Caberlin [email protected] FRANCESCO CABERLIN (1987) è studente presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e l’Università di Pisa, dove ha ottenuto la laurea di primo livello in Storia Contemporanea con una tesi sulla commemorazione della Grande Guerra. Si interessa in generale di problematiche legate ai fenomeni nazionalistici, specie novecenteschi. I quaderni del Laboratorio di storia contemporanea sono pubblicati a cura dell’Istrevi e intendono promuovere la circolazione di studi ancora preliminari e incompleti sulla storia contemporanea vicentina e italiana, per suscitare commenti critici e suggerimenti. Si richiede di tener conto della natura provvisoria dei lavori per citazioni e per ogni altro uso.

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Laboratorio di storia contemporanea

Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Vicenza «Ettore Gallo» - Istrevi

No. QM/2010/1

I quaderni del Laboratorio di storia contemporanea

sono scaricabili all’indirizzo: www.istrevi.it/lab

Per contatti: [email protected]

Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea

della provincia di Vicenza «Ettore Gallo»

c/o Museo del Risorgimento e della Resistenza – Villa Guiccioli

Viale X Giugno 115 - I-36100 Vicenza

ISTITUTO STORIA DELLA RESISTENZA

E DELL’ETÀ CONTEMPORANEA

DELLA PROVINCIA DI VICENZA

ETTORE GALLO

Quaderni su guerre e memoria del ‘900

Responsabile di collana Marco Mondini – [email protected]

Legittimazione della Grande Guerra e culto dei caduti:

il caso delle Università toscane.

FRANCESCO CABERLIN

(Scuola Normale Superiore di Pisa e Università di Pisa)

Abstract

After an introduction to the topic of the commemoration of fallen soldiers in the Great War, I expose

the results of a survey on the University of Pisa and Siena. The results point out that the practices of

commemoration were the moment for both coping with the pain for the death of fallen soldier and

reasserting the meaning of the war, by means of a glorification of the death in war that led to the

creation of a stereotype of the fallen student. I extend the analysis to the post-war period by pointing

out that the political aspects of the commemoration, which were linked to the necessity of

legitimating the war, prevailed on the ‘private’ aspects of these practices, and culminated with the

celebrations of the middle 1920s. I conclude the analysis with some remarks about the fortunes of the

nation as a legitimacy factor.

Parole Chiave

Prima Guerra Mondiale, nazionalismo, università, commemorazione, caduti, lutto.

Francesco Caberlin

[email protected] FRANCESCO CABERLIN (1987) è studente presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e l’Università di Pisa, dove ha ottenuto la laurea di primo livello in Storia Contemporanea con una tesi sulla commemorazione della Grande

Guerra. Si interessa in generale di problematiche legate ai fenomeni nazionalistici, specie novecenteschi.

I quaderni del Laboratorio di storia contemporanea sono pubblicati a cura dell’Istrevi e intendono

promuovere la circolazione di studi ancora preliminari e incompleti sulla storia contemporanea

vicentina e italiana, per suscitare commenti critici e suggerimenti. Si richiede di tener conto della

natura provvisoria dei lavori per citazioni e per ogni altro uso.

2

Legittimazione della Grande Guerra e culto dei caduti:

il caso delle Università toscane.

Il problema

Negli anni della Grande Guerra e del primo dopoguerra, negli

spazi pubblici dei centri abitati italiani ed europei vengono costruiti

numerosi ricordi monumentali dedicati ai caduti della guerra che

ancor oggi caratterizzano il paesaggio urbano di diverse città. I

monumenti ai caduti tuttavia non sono altro che la testimonianza più

evidente di un fenomeno più complesso, all’interno del quale questi

vanno inquadrati, ossia quello della commemorazione pubblica dei

caduti della prima guerra mondiale.

Fin da subito, i morti in guerra furono al centro di un

sistematico processo di elaborazione del lutto messo in atto da parte

dei loro cari, al fine di dare un significato e di rendere più tollerabile

la perdita. Differentemente da quanto si crede, infatti, la stragrande

maggioranza delle iniziative di commemorazione – compresi quindi i

monumenti – non vennero prese su iniziativa statale, ma partirono

“dal basso”, dalla cerchia degli intimi del caduto: parenti, colleghi,

amici o spesso semplici conoscenti, che costituirono quelli che sono

state definiti “gruppi di parentela fittizia”, accomunati da una stessa

situazione e da un obiettivo comune, e che si organizzarono per

ricordare assieme i cari caduti1.

In realtà la situazione è molto più complessa di quanto non

appare da queste prime righe introduttive: anche volendo

semplificare al massimo, non è possibile ignorare come in Italia

esistano due macrocasi nettamente distinguibili. Da una parte

abbiamo la stragrande maggioranza della popolazione che guarda al

1 Sui “gruppi di parentela fittizia” e il loro ruolo nella costruzione della memoria della

Grande Guerra si veda J. Winter, Remembering war: the Great War between memory and history in the twentieth century, New Haven, 2006, p. 137.

3

conflitto con estrema estraneità se non con aperta ostilità. Queste

masse operaie e contadine a volte riescono ad elaborare una propria

memoria del conflitto seguendo vie del tutto particolari,

internazionaliste ed antipatriottiche, venendo d’altronde ostacolati

dalle iniziative prefettizie; più spesso, le masse (soprattutto

contadine) giungono ad un’accettazione del conflitto a distanza di

anni, il più delle volte con la mediazione della religione tradizionale.

Dall’altra parte abbiamo invece il relativamente ristretto strato di

fedeli all’ideologia nazional-patriottica, per i quali la fedeltà alla

nazione è un valore – per certi versi, come vedremo, assoluto – che si

trovano di fronte ad un fenomeno inaspettato, a cui non erano

preparati. Anche se dopo il primo anno di conflitto la situazione era

prevedibile, nessuno, all’alba dell’entrata in guerra, era preparato ai

lutti che il conflitto avrebbe portato con sé: le sole guerre combattute

dagli italiani, come dalle altre nazioni europee, nei cent’anni prima

del 1914, erano stati conflitti brevi e tutto sommato poco sanguinosi.

Fin dalle prime settimane invece la guerra si presenta come un

massacro di entità inaspettata: ma non è una questione meramente

quantitativa, se consideriamo come la morte in guerra sia una morte

estremamente cruenta e che coinvolge una fascia di popolazione ben

delimitata, una generazione di uomini giovani, di “figli” ancor prima

che di “padri” e di “mariti”, che lascia i più vecchi, i padri e le madri,

per i quali l’elaborazione del lutto è certo più difficile2. I “patriottici”

si trovano dunque a dover affrontare il lutto per i cari caduti, e il fatto

che questi siano morti nella guerra “nazionale” può portare a

vacillare la fedeltà all’ideale nazionale cui sono legati. In quest’ottica

crediamo che le pratiche commemorative possano essere studiate

come i luoghi del mantenimento del senso nazionale della guerra, con

le quali si edulcora e si valorizza la morte in battaglia, si ribadisce il

suo senso e la sua importanza per i destini della nazione e al tempo

stesso si tenta di saldare in qualche modo la componente del “debito”

2 Sul problema del lutto e le società di guerra, fondamentali Winter, Sites of memory,

sites of mourning, e Stephane Audoin-Rouzeau e Annette Becker 14-18, retrouver la guerre, Gallimard 2000, in particolare pp. 232-233 e pp. 244-245.

4

che i più vecchi, i sopravvissuti, sentono di aver contratto nei

confronti dei più giovani che sono morti per una causa ritenuta

comune. In questo modo, le pratiche prendono anche una

determinata connotazione politica, più o meno accentuata a seconda

dei casi, divenendo dei veri e propri “atti di cittadinanza”, in quanto

la partecipazione ad esse implica l’accettazione di una precisa scala

valoriale, imperniata attorno alla nazione come fattore legittimante.

Al tempo stesso, è facile capire come la dimensione del debito porti

con sé un’ossessiva necessità di non dimenticare che le pratiche

fissano e reiterano costantemente: così, se da una parte le pratiche

portano in una qualche misura all’accettazione della guerra e della

morte in guerra, ostacolano al tempo stesso il superamento del lutto

da parte dei congiunti del caduto3. Accettazione della guerra

nazionale e superamento del lutto sono quindi aspetti in conflitto tra

di loro, tra i quali il più delle volte non si riesce a trovare una sintesi

efficace. Inoltre questo processo, avviene con una rielaborazione

della realtà della guerra, restituendo ad essa e alla morte in battaglia

dei contorni accettabili e per certi aspetti idealizzati, che vanno ad

alimentare quello che è stato definito “mito dell’esperienza della

guerra”, ossia una risemantizzazione dell’esperienza bellica,

presentata come profondamente carica di senso4. Tale rielaborazione

così si rivelerà non priva di messaggi apertamente bellicisti, che

sfoceranno negli anni a seguire in una retorica apertamente

revanscista.

Quello delineato fin qui può essere considerato un quadro

d’analisi molto generale, la cui validità necessita di essere passata al

vaglio tramite l’analisi di casi particolari. In questa sede,

provvederemo a esporre i risultati di un sondaggio compiuto presso

gli atenei toscani di Pisa e Siena negli anni tra il 1915 e il 1925,

periodo centrale per l’elaborazione del lutto e per la prima

definizione di una memoria “patriottica” della guerra. Le università si

3 Ibid. Di parere leggermente diverso è Winter, Sites, cit. 4 George L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza 1990,

in particolare pp. 3 e 89.

5

prestano bene ad un tale tipo di indagine: anzitutto, da un punto di

vista documentario, sono “gruppi di parentela fittizia” che offrono

una disponibilità di materiale che molto spesso non si verifica per

altri gruppi, i quali il più delle volte non erano dotati di una struttura

istituzionalizzata e pertanto non hanno conservato la

documentazione relativa alle loro iniziative. Al di là di questa

motivazione “tecnica”, va notato come la definizione di “gruppo di

parentela fittizia”, si attagli bene agli Atenei di inizio Novecento, che

siano istituzioni di dimensioni limitate, all’interno delle quali i

rapporti tra corpo docente e studenti sono piuttosto stretti. Va certo

tenuto conto del fatto che le Università sono “gruppi di parentela

fittizia” dotati di caratteristiche particolari: da un lato, non sono fissi,

in quanto la componente studentesca e – in misura minore – quella

dei docenti sono fluide e soggette a cambiamenti annuali; dall’altro,

sono gruppi sbilanciati al loro interno, essendo composti quasi

esclusivamente da giovani che combattono e da membri della

generazione dei “padri”: di tale dicotomia dobbiamo tenere conto, in

quanto entrambi i gruppi partecipano alla genesi del discorso

commemorativo, ma con un bagaglio di esperienze e sentimenti

differenti. Nelle Università italiane, infine, l’ideologia nazionalista

appare avere un ruolo di primo piano, sia a livello istituzionale che

per la popolazione studentesca, costituendo l’ideologia comune di

riferimento della maggioranza (per quanto non della totalità) della

popolazione universitaria: da questo punto di vista il caso degli atenei

appare adatto a capire come un ambiente nazional-patriottico

reagisca di fronte alla tragedia della Grande Guerra.

6

Fonti

Fin qui abbiamo accennato solo ai monumenti ai caduti come

espressione commemorativa, ma questi sono solo una delle tante

iniziative realizzate dai “gruppi di parentela fittizia”. Uno dei limiti

maggiori di diversi lavori su questo argomento è stato quello di

fermarsi all’analisi di questo tipo di forma commemorativa,

estrapolandolo dall’insieme delle iniziative all’interno delle quali era

inserito. Un tale approccio può essere utile per un’indagine di tipo

strutturale, ma appare insoddisfacente per lo storico che voglia

cercare di capire compiutamente come ci si rapportasse nei confronti

della guerra in un dato momento. Il monumento ai caduti è certo uno

degli aspetti da prendere in considerazione, ma non l’unico: se si

vuole cercare di ricostruire globalmente e organicamente il discorso

commemorativo da parte di un preciso soggetto storico è necessario

tenere presente tutte le sue forme. Il monumento è infatti solo una

particolare espressione della commemorazione, a cui dobbiamo

affiancarne altre, quali gli opuscoli commemorativi, le cerimonie, e

via dicendo. Gli opuscoli collettivi, per fare un esempio, sono in

genere poco studiati: a dispetto del grande numero di questo tipo di

fonti (che vanno, cronologicamente, dai primi anni del conflitto fino

agli anni ’30), e la loro eterogenea provenienza,che permettono di

fare luce sull’estrema varierà, negli anni del conflitto, delle immagini

della guerra, e di capire meglio l’evoluzione di tale immagine, le

modalità con cui si giunse gradatamente alla sottolineatura della

morte di massa e alla perdita d’individualità del caduto. Con ciò,

notiamo anche l’utilità di un approccio all’argomento di tipo

diacronico che metta in luce sviluppi e torsioni del discorso

commemorativo: un’indagine di questo tipo non è possibile tenendo

presente solo il monumento ai caduti. Nella fattispecie, per quanto

riguarda le Università, vennero spesso realizzati opuscoli

commemorativi, in occasione delle cerimonie di inaugurazione dei

monumenti oppure in occasione dell’assegnazione delle lauree

honoris causa agli studenti caduti (in virtù del decreto

7

luogotenenziale 1° ottobre 1916, n. 1400): nell’Università di Pisa,

queste venivano consegnate nel corso della cerimonia

d’inaugurazione dell’anno accademico, a Siena il 29 maggio,

anniversario di Curtatone e Montanara5. Gli opuscoli inoltre

trasmettono spesso i testi dei discorsi pronunciati nel corso delle

cerimonie, fondamentali per la comprensione delle azioni dei

commemoranti, ma anch’esse generalmente trascurate6. Lo stesso

monumento, d’altronde, può offrire numerose chiavi di lettura,

considerandone la committenza, le scelte iconografiche, quelle

estetiche, la posizione, le iscrizioni, e le stesse cerimonie al centro

delle quali era inserito. È chiaro quindi che l’analisi storica non può

fermarsi al livello “semiologico” ma deve anche considerare i

retroscena e cercare di capire come e perché si sia giunti a quel

risultato finale. Quindi uno studio di questo genere richiede anche

uno spoglio documentario per capire le scelte che i commemoranti

compirono, per capire quali di queste furono mosse da motivi

meramente pratici e quali no.

Tramite lo studio incrociato di queste diverse fonti, è possibile

cogliere sviluppi e torsioni che la pratica commemorativa conobbe

negli anni. Questi aspetti verrebbero meno qualora limitassimo

l’analisi ad una sola espressione commemorativa, avulsa dal contesto

in cui andava ad inserirsi: per questo prenderemo in analisi

sinteticamente i vari aspetti della commemorazione, ponendoli in

chiave diacronica.

5 I testi dei discorsi inaugurali sono conservati negli annuari delle Università, ma

negli anni centrali del conflitto, non venendo pubblicati questi, furono editi separatamente. Si è fatto quindi riferimento, per il caso pisano, a: L’anno scolastico 1915-16 ed i caduti sul Campo dell’Onore, Pisa, 1916; L’anno accademico 1916-17 ed i caduti sul campo dell’onore, Pisa, Mariotti 1917; Relazione sull’andamento dell’anno accademico 1917-18 e conferimento della laurea ad honorem ai caduti in guerra, Pisa, 1918. Per Siena si vedano Achille Sclavo, Per la solenne inaugurazione degli studi, Siena, 1917; Mario Betti, Per la solenne inaugurazione degli studi, Siena, 1918.

6 Nel caso di Siena i discorsi delle cerimonie commemorative del 29 maggio vennero pubblicati in Commemorazione degli studenti caduti per la patria: XIX maggio MCMXVII, Siena, 1917; Commemorazione degli studenti caduti per la patria: XIX maggio MCMXVIII, Siena, 1918.

8

Gli anni di guerra e la valorizzazione della morte

Come già accennato, le Università italiane sono a inizio secolo

degli ambienti fortemente “nazionalizzati”. In particolare, nelle

Università di Pisa e Siena la battaglia risorgimentale di Curtatone e

Montanara (cui parteciparono studenti degli Atenei) costituisce un

autentico mito, commemorato a Pisa con una lapide e a Siena con un

vero e proprio monumento costruito nel 1892, grazie ad una

sottoscrizione degli studenti7. Non è casuale, d’altronde, che a Siena

le cerimonie commemorative si tengano nell’anniversario della

battaglia, il 29 maggio, a sottolineare la continuità tra i caduti del

Risorgimento e la Grande Guerra. Le prime cerimonie con le quali si

affronta pubblicamente la guerra nelle due Università sono quindi

caratterizzate da una retorica nazional-patriottica decisamente

sostenuta, in cui i motivi del lutto sono del tutto assenti o quasi. È

solo dall’anno successivo che riscontriamo una pratica propriamente

luttuosa e delle cerimonie in cui si avverte la necessità di giungere ad

una non facile sintesi tra amor patrio e amore degli studenti caduti.

Quello che è riscontrabile nei discorsi che vengono tenuti in questi

anni, è il tentativo di valorizzare la morte in guerra tramite una

strategia che fa leva su tre aspetti tra di loro complementari8. Da una

parte, la morte in guerra è spesso descritta come un evento sereno e

poco cruento, il caduto muore circondato dai commilitoni, senza

ferite sfiguranti, la sua è insomma una morte “bella”, poco traumatica

e più accettabile per i congiunti rispetto alle condizioni “reali” della

morte in guerra. Più interessanti (e più ricorrenti) sono tuttavia gli

altri due aspetti della rivalutazione, ossia la descrizione della morte

del caduto come un atto eroico e come un sacrificio per la patria.

Descrivendo la morte come “eroica” si conferisce al caduto una

7 Per un profilo della storia dell’Università di Siena tra 1861 e Grande Guerra, si

veda Ilaria Porciani, Dalla Restaurazione alla Prima Guerra Mondale, in AA. VV. L’università di Siena: 750 anni di storia, 1991.

8 In questa tripartizione concordiamo con quanto osservato da Oliver Janz a proposito degli opuscoli editi dalle famiglie dei caduti in tutta Italia. Cfr. Janz, Lutto, famiglia, nazione nel culto dei caduti della prima guerra mondiale in Italia, in id., Lutz Klinkhammer (a cura di) La morte per la patria, Roma, 2008, p. 67 e ss.

9

specificità più accentuata, sottraendolo alla massa anonima dei

morti, in quanto il suo gesto appare fondamentale per il buon esito

della battaglia e non “gratuito”. Infine, con l’ultimo aspetto della

rivalutazione, quello del sacrificio9, si pone la morte per la nazione su

un piano che non è più soltanto immanente, conferendole un

significato trascendente, il che ci porta a capire come la nazione sia al

centro di un culto di tipo religioso: in seguito vedremo come questo

aspetto è fondamentale per comprendere l’efficacia della nazione

come fattore significante.

È estremamente interessante notare che spesso è lo stesso

caduto a descrivere il suo gesto come un sacrificio volontario, con le

sue ultime parole o in lettere ai cari che vengono puntualmente citate

nei discorsi dei commemoranti o riportati negli opuscoli in memoria.

Questo aspetto ci permette di individuare come venga affrontato uno

dei punti più delicati della tensione tra amor patrio e affetti

famigliari: da un lato, è il caduto stesso che con le sue parole quasi

assolve i sopravvissuti dai sensi di colpa, dall’altro, le tensioni

vengono appianate grazie all’omaggio che viene reso alle madri dei

caduti. La figura della madre è infatti al centro di un doppio processo

di consolazione e compensazione, essendo questa al centro degli

ultimi pensieri del caduto, che le chiede perdono per aver posto la

patria prima degli affetti famigliari; dall’altro le madri vengono

venerate dai conoscenti, in quanto titolari anch’esse di un gesto

sacrificale. Così, i potenziali contrasti tra madre e “grande madre”

vengono risolti in nome della serena subordinazione della prima alla

seconda, con un accostamento che per quanto possa apparire

paradossale, doveva riuscire nella funzione di appianare un contrasto

dalle conseguenze potenzialmente esplosive10.

9 Sul sacrificio per la patria in Italia cfr. Janz, Monumenti di carta, p. 31 in id., Fabrizio

Dolci, Non omnis moriar, Roma, 2003; Alberto M. Banti, L’onore della nazione, Torino, 2005 p. 151; A. M. Banti e Paul Ginsborg, Per una nuova storia del Risorgimento, in id. (a cura di), Il Risorgimento, Torino, 2007, p. XXIII; Roberto Balzani, Alla ricerca della morte “utile”. Il sacrificio patriottico nel Risorgimento, in Janz Klinkhammer (a cura di), La morte, cit.

10 Cfr. anche Janz, Lutto, cit., pp. 76-78.

10

L’adozione della retorica del sacrificio avviene quindi tramite la

citazione di parole del caduto, ma questa non è l’unica fonte “diretta”

impiegata dai redattori dei necrologi, ed è interessante considerare le

fonti tramite le quali si giunge a questa triplice valorizzazione, e quali

siano i suoi esiti. I commemoranti per procurarsi materiale utile per

le loro iniziative, entravano spesso in contatto diretto coi parenti del

caduto, per richiedere foto o scritti dello studente; tuttavia è più

interessante notare come i commemoranti facessero richiesta di

notizie anche ai commilitoni del morto in guerra11. I resoconti stilati

dai superiori e le testimonianze dei commilitoni rappresentano infatti

la fonte principale cui attingono i commemoranti per ricostruire gli

ultimi momenti della vita del soldato e la sua condotta al fronte. I

combattenti, tuttavia, mossi probabilmente da sentimenti di pietà,

tendevano a descrivere la morte in termini valorizzati ed edulcorati,

operando un consapevole occultamento della realtà di guerra e della

morte in essa nei termini sopra descritti, così che essa finisce per

essere più accettabile. Le descrizioni hanno quindi un carattere quasi

stereotipato, particolarmente evidente nel caso dei resoconti dei

superiori: qualora si pongano a confronto tali relazioni, ci si rende

conto del loro carattere quasi seriale, al punto che esse sono

praticamente interscambiabili. Questo attingere ad un repertorio

piuttosto limitato di topoi finisce col descrivere tutti i caduti in

termini sostanzialmente stereotipati ed uniformi, così che se da un

lato si aiuta l’accettazione della morte edulcorandola e

valorizzandola, dall’altro si giunge ad una prima perdita della

specificità del caduto a favore della creazione di uno stereotipo

esemplare, che giocherà un ruolo decisivo nell’evoluzione della

pratica commemorativa negli anni a venire.

Ovviamente, la descrizione che abbiamo fatto fino a questo

punto non tiene conto delle differenze che pure ci sono tra i due casi

in questione. Fin qui abbiamo individuato i motivi di fondo

11 Sull’importanza delle testimonianze, Winter, Sites, cit., pp. 35 e ss., più in

generale, id., Remembering, cit., pp. 243 e ss.; sulla “banalizzazione” della guerra si veda Mosse, Le guerre, cit. pp. 139 e ss.

11

riconducibili alla comune aderenza ad un’ideologia di tipo nazional-

patriottico da parte di entrambi gli ambienti, ma non va dimenticato

come i commemoranti, pur avendo un comune obiettivo ed una

comune ideologia, hanno diverse sensibilità e diverse caratteristiche.

Accade così che a Pisa, il rettore David Supino preferisca nei suoi

discorsi un registro elegiaco e tutto sommato poco retorico, in cui

prevalgono i toni melanconici e il dolore – affiancato all’orgoglio –

per la perdita dei propri studenti. A Siena invece ci ritroviamo di

fronte ad una retorica più sostenuta anche negli anni centrali del

conflitto, con una ricorrente necessità, da parte degli oratori, di

riaffermare la necessità e la legittimità dell’entrata in guerra, con una

più sistematica rimozione dei toni elegiaci, a favore di una retorica

“eroicizzante”. Non è un caso che a Siena gli studenti vengano tutti

presentati fin dal 1916 come degli eroi, mentre a Pisa a questa

“eroicizzazione di massa” avverrà solo alla fine della guerra, mentre

negli anni centrali, anche grazie alla retorica di Supino (propenso ai

ricordi personali) la specificità del caduto si manterrà per più tempo

– per quanto questo aspetto appaia residuale. Dietro l’insistenza sulla

necessità del conflitto che abbiamo riscontrato a Siena, è peraltro

facile ravvisare come l’intervento rappresenti una sorta di ferita non

del tutto rimarginata, sotto diversi aspetti, concernenti sia la

legittimità della guerra (che per molti versi poteva essere considerata

un tradimento al vecchio alleato), sia la sua effettiva necessità di

fronte alle sofferenze che sta richiedendo. Questo ci porta a capire

come l’accettazione della guerra nazionale avvenga a caro prezzo,

rendendo necessaria una rimozione almeno parziale del dolore per la

perdita del caduto, e per contro all’impossibilità di dimenticarlo, in

quanto ci si sente debitori nei suoi confronti. È questo sentimento

che porta uno dei professori dell’Università di Siena, padre di un

caduto, a dire che

[parleremo] di Voi [caduti], solo di Voi, sempre di Voi. […]. Ma,

anzitutto, beatissimi Voi, ora e sempre, nel tempo e nello spazio;

e sia il vostro nome ricordato in eterno, a incitamento e

12

conforto. Ah sì! Noi sentiamo profondamente, non per innato

ottimismo, ma per la grandezza stessa delle cose, che Voi non

sarete mai dimenticati.12

Il che testimonia in maniera netta da una parte un forte senso di

debito, che implica un’ossessiva volontà di non dimenticare e di

ricordare a scopo compensativo: di qui, l’incapacità di accettare la

perdita e il distacco.

Il primo dopoguerra e lo sfruttamento dello studente

caduto

La vittoria non porta ad un radicale cambiamento nella pratica

commemorativa, anche se ovviamente il tono nei discorsi tenuti nel

1918 è più trionfale e anche più sollevato, ma le modalità con le quali

sono ricordati i caduti non mutano radicalmente. La crisi del

dopoguerra porta invece con sé anche un lungo strascico di

polemiche attorno alla guerra, che si ripercuotono anche nelle

pratiche commemorative, in cui adesso notiamo da parte dei

“patriottici” una più forte necessità di difendere la guerra, oltre che

dai dubbi “interni”, dai suoi detrattori “esterni”. Per i patriottici si

tratta quindi di una doppia battaglia: da un lato, si trovano di fronte

alla necessità di elaborare l’accaduto che ha portato ad un esito

insoddisfacente, ben lontano dalle aspettative che si erano nutrite

prima e durante il conflitto dall’altro, devono controbattere agli ex

neutralisti, soprattutto socialisti, che tentano di elaborare una

propria memoria del conflitto pesantemente critica13.

12 Commemorazione degli studenti caduti per la patria: XIX maggio MCMXVIII, cit., p. 22. 13 Sulla situazione nel dopoguerra, per quanto un po’ datato si può ancora vedere G.

Rochat, L’Italia nella prima Guerra mondiale. Problemi di interpretazione e prospettive di ricerca, Milano, 1976; interessante per l’argomento trattato è Gianni Isola, Guerra al regno della guerra! Storia della Lega proletaria mutilati invalidi reduci orfani e vedove di guerra (1918-1924), Firenze, 1990. Più di recente, Andrea Baravelli, La vittoria smarrita. Legittimità e rappresentazioni della Grande Guerra nella crisi del sistema liberale, Roma, 2006, per un caso particolare si può vedere Marco Baldassarri, La memoria celebrata. La festa del 4 novembre a Lucca tra dopoguerra e fascismo, in “Italia contemporanea” 244 (2006).

13

A livello nazionale, in un primo tempo, subito dopo la fine della

guerra, si tende ad abbandonare i toni più roboanti ricercando una

sorta di “minimo comun denominatore” nell’elaborazione del lutto, in

nome di un dolore che è comune e che mette a tacere le polemiche,

costringendo tutti ad un rispettoso silenzio14. Un’elaborazione del

genere è riscontrabile soprattutto nelle campagne, dove come già

accennato si realizza una prima accettazione a posteriori

dell’accaduto, grazie anche alla mediazione della religione

tradizionale; tuttavia possiamo notare come un processo simile

avvenga anche su scala nazionale, come nel caso dell’inumazione del

Milite Ignoto il 4 novembre 1921, quando le contestazioni, che pure

hanno luogo, avvengono in sordina.

Prendendo in considerazione i casi che stiamo analizzando,

notiamo come una tendenza di questo genere sia riscontrabile in un

primo tempo anche a Pisa, dove nel 1919 venne presa in

considerazione l’ipotesi di costruire una lapide in memoria dei caduti

molto sobria e poco retorica, che tuttavia non venne effettivamente

realizzata a favore di un altro progetto. Ma già nel 1920, quando

venne realizzato un albo commemorativo15 per i membri

dell’Università caduti in guerra, i redattori (studenti ex combattenti)

propesero per una scelta meno neutra politicamente e più connotata

in difesa del valore della guerra. Certo anche in quest’opera è

ravvisabile un’esigenza “compensativa”, la necessità di saldare il

debito nei confronti dei compagni caduti e di edulcorarne e

valorizzarne la morte. Tuttavia a questo aspetto, che poteva essere

considerato centrale negli anni di guerra, se ne affianca un altro,

destinato ad avere un’importanza crescente negli anni a venire.

Anche in quest’opera la morte dei caduti è risemantizzata tramite il

triplice processo di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente: ma

ancor più che negli anni di guerra, i caduti sono ricordati tutti nei

medesimi termini “monolitici”, con una netta tendenza ad

14 Cfr. Mario Isnenghi, Le guerre degli italiani, Milano, 1989, p. 343. 15 I caduti dell’Università di Pisa MCMXV-MCMXVIII, Milano, 1920.

14

uniformarne storie e aspirazioni all’insegna del patriottismo. In

questo modo, si giunge alla creazione di una vera e propria figura

stereotipata, quella dello studente-ufficiale di complemento, che già

aveva fatto la sua apparizione nei discorsi degli ultimi anni di guerra,

ma che in questo caso troviamo al centro di un sistematico uso

politico, in quanto volto a difendere la legittimità della guerra.

Particolarmente significativa è, in quest’ottica, l’introduzione

dell’albo:

A chi non sentirà rivivere in queste pagine la parola del figliolo,

del fratello, dell’amico, sia di conforto e di gioia l’ammirare un

egual senso di dovere, di pura bontà, di serio coraggio e

soprattutto d’abnegazione completa in altri, che a Lui furono

compagni negli studi e nelle armi e che con Lui avevano uno

stesso destino di intelligente lavoro in mezzo alla faticata

operosità umana, e che una medesima sorte gloriosa

ricongiunse nel sacrificio supremo, fonte prima e più copiosa

ed eterna di vita16

In questo modo, i caduti perdono la loro individualità, venendo

piegati ad un uso politico, tendenza che andrà rinforzandosi nel corso

degli anni: quel che conta è soprattutto il loro essere morti per la

Patria, non più le loro storie, la loro vita.

Una tendenza analoga è ravvisabile anche a Siena, dove nel 1919

si inaugura il monumento agli studenti caduti17. L’opera in questione

consiste in una vittoria alata in stile liberty in altorilevo su una lapide

con i nomi dei caduti, ed è in realtà poco vicina ai canoni dell’estetica

nazionalista: va detto tuttavia che essa è un dono da parte di uno

studente dell’Università, scultore dilettante, e pertanto appare una

testimonianza più che altro del suo gusto e della sua sensibilità

personali. Si può notare quindi una certa discrepanza tra l’estetica di

16 Ibid., p. 151. Corsivi miei. 17 Per i discorsi pronunciati in occasione della cerimonia inaugurale cfr. Per la

inaugurazione di una lapide monumentale in memoria degli studenti caduti per la patria, Siena, Lazzeri 1919.

15

quest’opera e i roboanti discorsi degli oratori nel corso della

cerimonia di inaugurazione, dove troviamo una costante e orgogliosa

rivendicazione della guerra posta sotto la tutela spirituale dei caduti,

ma anche una sistematica esaltazione dell’Università come scuola di

patriottismo. Centrale è quindi lo sfruttamento dello stereotipo dello

studente-ufficiale di complemento, assurto ad esempio delle

tradizioni guerriere dell’Università, così che il rito diviene una

celebrazione delle glorie universitarie e nazionali, privo di caratteri

funebri, che in parte erano ancora riscontrabili a queste date a Pisa.

Abbiamo così un’evoluzione nelle pratiche commemorative,

avvertibile in entrambi i casi in esame: l’elaborazione della morte “ad

uso interno” rimane un elemento fondamentale delle

commemorazioni, e la riaffermazione della legittimità della guerra è

funzionale anche ad un’esigenza di autoassoluzione ed

all’accettazione della guerra da parte dei patriottici; ma vediamo

come tale riaffermazione viene giocata decisamente anche nei

confronti delle polemiche conseguenti la fine delle ostilità. Due

esempi significativi dell’atteggiamento dei patriottici di fronte alle

polemiche di parte socialista ci sono offerti dalle commemorazioni

tenutesi a Siena nel 1920 e nel 192118. Nel 1920, in particolare, a

seguito di scontri tra socialisti e “patriottici” nei giorni precedenti la

commemorazione, questa si tiene a porte chiuse, e a tenere il discorso

di quest’anno è un oratore d’eccezione, Piero Calamandrei, allora

neodocente di diritto amministrativo, nonché reduce di guerra. Nel

suo discorso più che a commemorare gli studenti concretamente

morti in guerra (che peraltro non ha mai conosciuto personalmente,

essendo giunto da pochi mesi nell’Ateneo), appare interessato a

ribadire il valore e la legittimità della guerra nonostante la

delegittimazione che contro di essa viene portata, e ad individuare un

18 Si veda Pietro Calamandrei, In memoria degli studenti caduti per la patria, Siena,

Lazzeri, 1920. Recentemente il discorso è stato ripubblicato in P. Calamandrei, Zona di guerra. Lettere, scritti, discorsi (1915-1924), Roma Bari 2006 con introduzione di Alessandro Casellato (p. 315). Calamandrei insegnò a Siena dal 1920 al 1924, quando passò alla neonata Università di Firenze. Per il discorso del 1921, Giovanni Lorenzoni, Commemorazione di Curtatone e Montanara, Siena, 1921.

16

significato per tale massacro, trovandolo nel valore palingenetico di

“ultima guerra” che il conflitto avrebbe dovuto avere, e al tempo

stesso nel valore di “scuola di vita” che ha avuto per i combattenti.

Calamandrei infatti incita a portare nella vita civile i valori appresi in

trincea e incarnati dai caduti: ancora una volta questi vengono

rivestiti di un ruolo astratto ed esemplare. Certo non ci troviamo di

fronte ad un’elaborazione marcatamente sciovinista, ma anche in

questo caso il discorso è essenzialmente una celebrazione delle glorie

universitarie ed un invito a servire la patria, così come la guerra

assurge a mito formativo, analogamente a quanto avviene su vasta

scala nel resto d’Europa19. Più esplicito a questo proposito è l’oratore

dell’anno successivo, Giuseppe Giovanni Lorenzoni , il quale al pari

di Calamandrei è un reduce, per di più trentino. Questi concorda con

Calamandrei nel giustificare la guerra, richiamandosi ai diritti dei

popoli, e nel riconoscere al conflitto un grande valore “educativo”, ma

a differenza del collega, prospetta un futuro di scontro tra nazioni in

cui all’Italia potrà spettare un ruolo di primo piano, a patto che

sappia seguire l’esempio dei combattenti. Anche in questo caso i

caduti hanno il ruolo di alto esempio morale, mentre troviamo di

nuovo la sistematica esaltazione dell’Università come scuola di

patriottismo, in quanto luogo in cui “salvare la concezione eroica

della vita” che si era formata tra le trincee.

Notiamo quindi come, col passare degli anni e l’allontanarsi

dell’evento nel tempo, si perdano definitivamente i caratteri funebri

che aveva avuto la commemorazione negli anni di guerra, a favore di

un uso politico sempre più marcato degli studenti caduti come risorse

retoriche. Tale sfruttamento, oltre che per difendere la guerra dai

detrattori, è finalizzato anche all’esaltazione dell’Università guerriera

e patriottica, ponendo così la Grande Guerra in continuità con quanto

avevano fatto gli Atenei toscani a Curtatone e Montanara, presenza

costante nelle commemorazioni, insita anche nella scelta della data

delle celebrazioni. Questo processo culminerà verso la metà degli

19 Cfr. Mosse, Le guerre, cit.

17

anni ’20, quando la guerra non sarà più oggetto di polemiche – grazie

anche all’intervento dall’alto – ma semmai un efficace mito nazionale

ed una risorsa retorica facilmente spendibile.

Gli anni ’20. La celebrazione

La cerimonia d’inaugurazione del monumento ai caduti

dell’Università di Pisa che si tiene il 29 maggio 1924 è altamente

indicativa del cambiamento cui abbiamo accennato in chiusura del

paragrafo precedente. La cerimonia è molto diversa da quelle degli

anni di guerra, in quanto non ha in alcun modo carattere funebre, ed

è incomparabilmente più solenne anche di quella che si tenne a Siena

cinque anni prima. Ad essa presero parte autorità nazionali e

cittadine, tra cui il Duca di Pistoia e l’arcivescovo Maffi, era prevista

anche la presenza di Mussolini che diede forfait all’ultimo. Tutto

concorre a dare alla cerimonia un carattere solenne ma al tempo

stesso festoso, molto lontano da una cerimonia funebre20:

nell’addobbo prevalgono colori come cremisi e l’oro e l’ingresso dei

partecipanti, così come lo scoprimento del monumento, è accolto in

maniera festosa e al suono di inni patriottici . È chiaro quindi come

non ci si trovi di fronte ad una celebrazione luttuosa: anche in questo

caso la commemorazione appare invece funzionale all’esaltazione

della nazione e dell’Università come scuola di patriottismo, con una

decisa accentuazione dei caratteri revanscisti, con l’invito, rivolto ai

presenti, ad essere all’altezza degli “eroi” e a rinnovare, qualora

necessario, il loro gesto di sacrificio per la nazione. Nei discorsi degli

oratori, infatti, i caduti appaiono ormai identificati nello stereotipo

dello studente-ufficiale di complemento, posti a fianco dei caduti di

Curtatone e Montanara nella loro funzione di esempio morale e

patrimonio dell’Università. Questo aspetto viene ulteriormente

accentuato nella pubblicazione edita per l’occasione, il “numero

20 Cfr. la cronaca riportata su L’inaugurazione all’Università di Pisa del Monumento ai

caduti, in “L’Italia Universitaria” 5 giugno 1924.

18

unico” XXIV Maggio 192421 , in cui non a caso sono posti in rilievo i

messaggi delle personalità politiche e militari, poco interessate al

ricordo degli studenti quanto alla loro esaltazione in quanto caduti.

Anche il monumento, realizzato dallo scultore lombardo Gigi Supino,

appare non essere altro che un corrispettivo visivo ed allegorico dello

stereotipo dello studente guerriero. Esso rappresenta infatti un nudo

virile – la “gioventù studiosa” – armato di scudo (ornato dal

Cherubino dell’Ateneo) nell’atto di ricevere da Minerva – l’Università

– una fiaccola “che dopo aver illuminati gli studi severi verrà agitata

sui campi di battaglia”, a lato del gruppo scultoreo un cippo riporta

l’iscrizione “pro patria”, mentre sul piedistallo, tra gli stemmi della

provincia e del comune, è posta la lapide in bronzo con i nomi dei

caduti sovrastati dall’iscrizione “Eternarono la loro giovinezza

cadendo per l’Italia nell’epica guerra dal 1915 al 1918”. L’opera

chiaramente non è un monumento “funebre”, ma è più vicina alle

declinazioni di una monumentalistica celebrativa di tipo nazionalista,

caratterizzata peraltro da scelte estetiche piuttosto ordinarie. In

questo modo, non sono i “veri” caduti, i cui nomi sono difficilmente

leggibili ai piedi del monumento, al centro dell’attenzione dei

commemoranti, bensì il loro gesto di sacrificio per la patria.

In tal modo sono così poste le basi su cui potrà svolgersi la

lettura fascista della guerra, basata su una sorta di teleologia che lega

Curtatone e Montanara, la Grande Guerra e la rivoluzione fascista.

Tale lettura, già implicita nel 1924, troverà il suo coronamento,

nell’Ateneo pisano, nel 1931, in occasione della pubblicazione

dell’albo Sagra decennale dei martiri fascisti dell’Ateneo Pisano22,

sorta di albo commemorativo redatto a cura del GUF, in cui i morti

del 1848, quelli della Grande Guerra e i martiri fascisti sono

esplicitamente posti sullo stesso piano.

Il (peraltro relativo) successo della “fascistizzazione” della

Grande Guerra tra le masse patriottiche appare più comprensibile

21 XXIX Maggio 1924 – L’Università di Pisa celebra i suoi gloriosi caduti nella guerra

MCMXV-MCMXVIII, Pisa, 1924. 22 Pisa, Pacini Mariotti 1931.

19

alla luce del vero e proprio shock che il dopoguerra aveva

rappresentato per molti ex combattenti. Dopo l’avvento del regime le

polemiche giungono ad una conclusione: e se da un lato il fascismo

monopolizza il discorso sulla guerra, impedendo alla stessa ANC

un’elaborazione autonoma23, certo per molti ex combattenti tale

soluzione poteva apparire preferibile alla situazione che si era

delineata tra il 1918 e il 1922. In tale ottica è da inquadrare anche la

cerimonia che si tiene a Siena il 29 maggio 1926, con la

partecipazione di Italo Balbo e di Silvio Lessona come oratore

principale24. Nel suo discorso, Lessona rievoca il trauma del

dopoguerra in termini sostanzialmente analoghi a quelli di

Calamandrei e Lorenzoni, salvo che la situazione, ai suoi occhi, ha

trovato una soluzione grazie alla resistenza degli ex combattenti e

all’azione di Mussolini. In questa “riscossa”, ancora una volta viene

riconosciuto un ruolo di primo piano agli studenti e dell’Università,

“fucina di scienza e di pensiero, […] fucina di fede, di nobiltà, di

ardimento, bagno in cui il carattere dei giovani e dei maestri si

rinsalda e si tempra e si sublima nell’amore di questa nostra patria…”

25. Certo c’è una componente di piaggeria in queste parole, se non

altro nei termini con i quali è descritto il duce: ma non è errato

credere che il sollievo dell’oratore sia, almeno in questo caso, sincero.

Non serve notare che lo spazio dedicato ai caduti è quello degli alti

esempi morali, né che non c’è spazio per toni elegiaci e per il dolore:

la guerra costituisce oramai, al di là delle polemiche passate (ed anzi,

in questo caso assieme ad esse e alla “battaglia” del dopoguerra), il

compimento della storia unitaria italiana e come tale è oggetto di

celebrazione. La guerra appare ormai in questi ambienti un mito

consolidato, superati – o meglio rimossi – i dubbi sulla sua

legittimità e necessità riscontrati nel 15-18 e che forse erano ancor

più sentiti nel dopoguerra, così come era stato rimosso, durante gli

anni di guerra, il dolore e il lutto per gli studenti caduti.

23 Cfr. Giovanni Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Bari, 1974. 24 Commemorazione di Curtatone e Montanara 29 maggio 1926, Siena, 1926. 25 Ibid., p. 14.

20

Conclusioni

Nei casi presi in esame, per quanto con modalità leggermente

diverse, abbiamo visto come la valorizzazione della morte in guerra

porti alla creazione di uno stereotipo che uniforma i caduti su un

monocorde modello, quello degli studenti-ufficiali di complemento.

Non mi risulta siano stati fatti studi sistematici su questo “stereotipo

di guerra”, che è presumibilmente diffuso a livello nazionale e che

crediamo possa essere tranquillamente accostato a quelli più noti del

fante contadino, dell’alpino, dell’operaio imboscato e via dicendo.

L’argomento appare meritevole di un approfondimento, in quanto

sembra essere una di quelle astrazioni che hanno segnato, se non la

storiografia sull’argomento, quantomeno l’immagine della guerra a

livello pubblico, essendo al centro, come abbiamo visto, di un

significativo uso politico ai fini dell’esaltazione dell’Università e della

riaffermazione della legittimità della guerra.

Tale processo lascia certo delle tensioni irrisolte, ma sta di fatto

che la morte risemantizzata appare più accettabile. Non serve notare

che, come gli stessi combattenti sapevano e (in altre sedi)

affermavano26, la realtà della guerra e dei combattenti erano ben

diverse dalle rassicuranti versioni che venivano trasmesse durante le

cerimonie commemorative. E vale la pena ricordare che questa realtà

poteva risultare sconosciuta al paese nei primi tempi, ma non poteva

essere ignorata negli anni centrali del conflitto. Usando una

metafora, la borghesia patriottica durante la guerra si tiene in bilico

tra i racconti più crudi, la presenza dei mutilati, ed altre

testimonianze del lato “sinistro” del conflitto da un lato, e i più

rassicuranti resoconti giornalistici, la produzione della propaganda di

guerra, i racconti più rassicuranti dei testimoni (come quelli che

abbiamo visto) dall’altro. Questo secondo tipo di produzione

discorsiva, alimentata dall’alto e dal basso – nel nostro caso, dalle

cerimonie in memoria dei caduti – trova un terreno più fertile per

26 Cfr. Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, La grande guerra, Milano, 20042 p. 233 e ss.

21

essere accolto, venendo incontro alla volontà e alla necessità (al

tempo stesso psicologica e politica) di continuare ad accettare la

guerra patriottica27. Può darsi che questo gioco di autoinganno fosse

consapevole, quel che veramente conta è che, alla fine, le astrazioni e

gli stereotipi che esso aveva finito per creare in molti casi vennero

percepiti come reali e che grazie ad esso, la fedeltà alla nazione superi

la prova della guerra.

Quel che emerge certamente è un attaccamento all’ideologia

nazionalista e al tempo stesso una capacità di impiegarla per

elaborare la morte in guerra tali da rendere difficile parlare di

“nazionalismo debole”28 per il caso italiano. È vero che lo stato

unitario rinuncia per molto tempo a condurre una politica di

nazionalizzazione delle masse veramente efficace, ma da un lato va

rimarcato come anche all’estero questo processo sia spesso tardivo29

e come la politica “per le masse” sia a volte fallimentare30; dall’altro,

come a questa rinuncia dello Stato si affianchi un grande attivismo

dal basso, di cui la “monumentomania” ottocentesca è l’aspetto più

evidente.

Vero è quindi che in Italia il messaggio nazionalista è limitato da

un punto “quantitativo” e che le grandi masse, soprattutto contadine,

rimangono ad esso estranee o ostili: ma da un punto di vista

qualitativo, è indubbio che esso non sia meno pervasivo rispetto a

27 Non è certo casuale che questo processo non riesca più a mettersi in moto dopo la

seconda guerra mondiale, quando il conflitto diviene una realtà impossibile da risemantizzare. Cfr. Mosse, Le guerre, cit.

28 Di “nazionalismo debole” e di “immagine debole dell’Italia” hanno parlato soprattutto Bruno Tobia (Una patria per gli italiani, Roma Bari, 1991) e Ilaria Porciani (Una festa per la nazione, Bologna, 1998 e Stato e nazione: l'immagine debole dell'Italia in Simonetta Soldani, Gabriele Turi (eds.) Fare gli Italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, Bologna 1993).

29 Vale la pena ricordare il lavoro di Eugen Weber, Da contadini a francesi. La modernizzazione della Francia rurale (1870-1914), Bologna, 1989, sulla nazionalizzazione delle masse in Francia.

30 Si prenda, ad esempio, il fallimento della Sedanfest analizzato da Mosse in

La nazionalizzazione delle masse, Bologna, 1974, p. 138.

22

quanto avviene all’estero31. La “nazione”, per uno strato di

popolazione ristretto, ma d’importanza sociale non secondaria –

quale è, ad esempio, la popolazione universitaria – è un’entità

estremamente “significativa”, capace di suscitare emozioni profonde

e di orientare la condotta: al punto che in molti accettano di perdere

un parente, di morire, nonché di uccidere, in nome di essa.

Rimane da capire perché la valorizzazione alla luce della nazione

abbia una sua efficacia: come fatto notare da Benedict Anderson,

parlare di “cenotafio per i caduti liberali”32 suonerebbe ridicolo,

mentre esistono diversi cenotafi ai caduti per la nazione. Una volta

analizzate le modalità con cui avviene tale valorizzazione, è

necessario quindi interrogarsi sulle motivazioni di tale efficacia: così

facendo andiamo a toccare il problema centrale della fortuna del

nazionalismo in Europa tra otto e novecento. Si tratta, un poche

parole, di capire perché una guerra per la “nazione” venga vista come

giusta e legittima al punto da poter giustificare la perdita dei propri

cari. Non è questa la sede per esplorare compiutamente la complessa

stratificazione di cause che porta a tale esito, tuttavia non possiamo

esimerci dall’abbozzare almeno una possibile chiave di lettura del

fenomeno. È stato ipotizzato che la fortuna e l’efficacia della

“nazione” come fattore legittimante sia basata sulla capacità che ha il

discorso nazionale di sviluppare potenti effetti performativi, dovuti

all’articolazione di esso attorno a quelle che sono state definite

“figure profonde”, aventi a che fare con fatti primari quali la nascita e

la morte, l’amore e l’odio, la sessualità e la riproduzione33. Tali

“figure”, hanno effettivamente un loro spazio nelle pratiche che

abbiamo preso in esame. Significativa (e spesso sottovalutata) in

quest’ottica è l’importanza (e la novità) della sovrapposizione tra i

concetti di “patria” e “nazione”, che avviene su larga scala solo a

partire dal XIX secolo, e che trasla sul concetto di “nazione” le

31 In Audoin-Rouzeau e Becker, 14-18, cit., specie nella seconda parte, è possibile

trovare un’efficace esemplificazione di cosa implichi, in ambito francese, la fedeltà alla nazione in tempo di guerra.

32 Benedict Anderson, Comunità immaginate, Roma, 1996 (1983), p. 10. 33 Banti e Ginsborg, Per una nuova, cit., pp. XVIII e ss.

23

componenti discorsive accumulatesi fin dal medioevo attorno al

concetto di “patria”, che a sua volta dal XIV secolo veniva identificata

come “corpo mistico”, fino a quel momento definizione esclusiva

della Chiesa34. È facile capire quali siano le conseguenze di questa

identificazione della “nazione” come un “corpo mistico”, soprattutto

se consideriamo la figura del sacrificio. È attorno a questa che

assistiamo al processo più significativo, che ci fa notare come la

nazione sia vista più come un’entità propriamente metafisica o

comunque trascendente che non come un’entità politica35. E d’altra

parte, il fatto che la nazione sia in grado di dare un senso

trascendentale alla morte in suo nome, può aiutare a capire, se non

proprio la fortuna del discorso nazionale (la religione della nazione

non spiegherà mai una morte in tempo di pace, o comunque una

morte “naturale”), almeno come si sia potuto continuare ad accettare

la guerra, a far sì che questa non fosse percepita come “inutile”.

Quanto detto, ancora una volta, non deve farci scordare i limiti

dell’elaborazione patriottica: accettazione della morte in guerra per la

nazione e mito dell’esperienza della guerra non vogliono dire

superamento del lutto. Il dolore è censurato e rimosso, e i

commemoranti non fanno nulla per accettare il distacco avvenuto, al

contrario, il senso di debito nei confronti dei caduti li porta a

rievocarli incessantemente. Quello che vediamo delinearsi è quindi

un processo elaborativo complesso e contraddittorio, in cui si eleva la

guerra ad alto ideale, ma al tempo stesso non si riescono ad

accettarne fino in fondo le conseguenze: si accetta e si esalta il

conflitto, ma al tempo stesso le sofferenze che questo comporta, ora

note (mentre erano ignote e soprattutto inaspettate prima del 1914-

18), portano a temerlo.

Molte sono quindi, a nostro giudizio, le questioni meritevoli di

essere approfondite. Oltre a quanto detto sugli stereotipi di guerra,

notiamo che per quanto riguarda il problema del lutto, sarebbero

34 Ernst Kantorowicz, Pro Patria Mori in Medieval Political Thought, in “American

Historical Review”, 56 (1951), pp. 486-487. 35 Cfr. Banti, L’onore della nazione, Torino, 2006, p. 151.

24

auspicabili studi analitici su casi particolari, anche con la

collaborazione di esperti di scienze della psiche; per quanto concerne

un problema più generale, sarebbe utile capire se il passaggio da una

pratica commemorativa elegiaca ad una più celebrativa sia segno di

un superamento del lutto o di una sua più radicale censura. Accanto a

questo aspetto andrebbe approfondita l’analisi del nazionalismo

come fenomeno religioso e sulla sua capacità di far entrare la morte

(per quanto risemantizzata) in un sistema dotato di senso.

L’ampliamento dello spettro della ricerca ha d’altronde già

portato a risultati di rilievo nella comprensione del primo conflitto

mondiale, che dimostra così di essere osservatorio privilegiato e

snodo fondamentale per la comprensione del XX secolo.